Saggi/filosofia
Salvatore Costantino
Questo libro è dedicato
alla memoria dei miei genitori
Giovanna La Fata e Pino Costantino,
cari compagni della vita fragile
Criminalità e
devianze
Società e divergenze, mafia e Stati
nella seconda modernità
Editori Riuniti
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Indice
I edizione: novembre 2004
© Copyright Editori Riuniti
di The Media Factory srl
via Tripolitania, 211 - 00199 Roma
www.editoririuniti.it
ISBN 88-359-5631-5
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Introduzione
Criminalità e devianze
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I. Conoscenza, comunicazione e devianza nella crisi della
società moderna
1. Sviluppi, patologie e crisi del moderno, p. 22 - 2. Fine della storia e storia senza finalità, p. 30 - 3. Paradigmi e «sensazione di cattivo funzionamento», p. 37 - 4. Approssimazioni, p. 42 - 5. «Modernità in polvere»: postdemocrazia e mutamento giuridico, p. 46 6. Il disagio del moderno e della postmodernità, p. 50 - 7. La società mondiale del rischio, p. 55 - 8. Paura ed entropia, p. 63 - 9.
Conoscenza ed entropia: verso una «società entropica»?, p. 76 10. «Non equilibrio», «Nuova teoria dei sistemi», «Entropia sociale», «Teoria dei sistemi viventi», p. 90 - 11. Ordine, disordine,
organizzazione, p. 102 - 12. La società entropica e la necessità di
una svolta epistemologica nelle scienze sociali, p. 104
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II. Criminalità e devianza
1. «Postmoderno» tra relazione sociale, ordine, libertà e controllo,
p. 129 - 2. Globalizzazione, mobilità normativa e criminalità, p.
137 - 3. Ripensare il crimine, p. 141 - 4. Un nuovo codice di guerra civile?, p. 145 - 5. Diritto e comunicazione, p. 147 - 6. Diritto,
crisi e «porosità» postmoderne, p. 159 - 7. Complessità e nuovi
campi dialogici, p. 165 - 8. Normale vs deviante, p. 168 - 9. Devianza, comunicazione, reputazione, identità, p. 171 - 10. Adolescenti, circuiti comunicativi e «modelli di successo», p. 183
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III. Devianza, diversità e riconoscimento sociale:
il caso dell’omosessualità
Introduzione
1. Il movimento omosessuale in Italia, p. 192 - 2. Mutamenti della
percezione dell’omosessualità, p. 195 - 3. Costruzione sociale dell’identità, p. 203 - 4. Identità e riconoscimento intersoggettivo, p.
209 - 5. Reputazione, attese collettive e normazione della condotta
sessuale, p. 215 - 6. Identità devianti: riconoscimento negato, reazione sociale ed etichettamento, p. 220 - 7. Diventare «significativi»: identità riconosciute, differenza e diversità, p. 223 - 8. Conoscere, rappresentare, osservare, distinguere, p. 231
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IV. Evoluzione del fenomeno mafioso e «mafie
transnazionali»
1. Un modello di successo, una «window of opportunity», p. 254 2. «Criminalità organizzata» e «mafia», p. 261 - 3. Crimine, «prevenzione» e «controllo sociale», p. 264 - 4. La mafia e le mafie
nell’era della globalizzazione, p. 267 - 5. Una riconfigurazione interdisciplinare e transnazionale delle mafie, p. 269 - 6. La mafia
siciliana, p. 277 - 7. Problemi di definizione, p. 282 - 8. Come nasce il mercato della protezione, p. 295 - 9. La struttura delle Triadi, p. 297 - 10. «Ordinamento giuridico» e mafia, p. 303 - 11. L’analisi istituzionalista, la ricerca, l’azione di contrasto, p. 311 - 12.
Qualche considerazione finale, p. 316
323
343
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Note
Riferimenti bibliografici
«È degno di lode chi ancor oggi serba aspirazione a essere un tutto», disse Walter.
«Oh, non ce n’è piú», significò Ulrich. «Ti basta una sola occhiata
sul giornale. È zeppo di una sua immensa opacità. Vi si parla di
talmente tante cose da travalicare la vis intellectiva di Leibniz. Eppure non lo si nota nemmeno; siamo mutati. Non c’è piú un uomo
intero innanzi a un mondo intero, ma piuttosto un quid humanum
che aleggia nel brodo di cottura universale» [Musil, L’uomo senza
qualità].
Le riflessioni contenute nel presente volume prendono le
mosse e si strutturano all’interno delle attività di ricerca e di
sperimentazione didattica coordinate da chi scrive all’interno
dei corsi di Sociologia giuridica, di Sociologia generale e Metodologia e tecniche della ricerca sociale e di Sociologia della comunicazione impartiti nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Palermo.
La struttura e il flusso di riflessioni sono informati dalla necessità di ridefinire semanticamente la sociologia ed il suo linguaggio, nonché l’oggetto della sua indagine scientifica all’insegna della inter-disciplinarità e della trans-disciplinarità.
Tale urgenza nasce dalla consapevolezza della mancanza di
un’adeguata teoria della società capace di gettare qualche luce
sulla natura e le implicazioni dei processi di de-strutturazione
degli spazi tradizionali della politica, dei processi di ibridazione
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e di meticciamento delle pratiche socioculturali, dell’incapacità
e dell’impossibilità in cui si sono trovate le scienze sociali di
fronte all’esigenza di verificare «nuove combinazioni» e «nuove
distinzioni».
Nelle sue belle Osservazioni sul moderno, Niklas Luhmann
acutamente spiega che la proclamazione del «postmoderno» ha
avuto almeno un merito, quello cioè di rendere noto «che la società moderna non crede piú di saper fornire descrizioni corrette di se stessa» [Luhmann, 1995: 7]. Ma nello stesso tempo
il concetto di postmodernità è in sé incapace «di inquadrare e
tematizzare contenutisticamente il presente se non attraverso la
metanarrazione della «frantumazione della modernità» [Chicchi, 2001: 17].
Forse a ragione Clifford Geertz vede nel «postmoderno»
molte accezioni che ne fanno un «concetto proteiforme e costruito in maniera dilettantesca» [Geertz, 1999: 18], anche se si
rende conto di «un mondo in frammenti», che «l’analisi culturale è un’impresa di gran lungo piú difficile che ai tempi in cui
sapevamo – o, meglio, credevamo di sapere – cosa coincidesse
con cosa e cosa non coincidesse» [Geertz, 1999: 20]1.
La sociologia, come le altre scienze, si ritrovano nell’impossibilità di «nominare», «definire», «comprendere» le trasformazioni in atto nelle società complesse. Tali trasformazioni sono cosí rilevanti che non solo rendono la società moderna difficilmente descrivibile sia giocando sul versante delle definizioni
unilaterali, sia su quello del ricorso a vecchie teorie o a vecchi
paradigmi.
Le ricerche piú recenti nell’area delle scienze sociali hanno
aperto il vocabolario del negativo dei processi di destrutturazione, dell’anomia, della disgregazione del mondo operaio e di
quella che viene definita come «società salariale» e hanno pure
messo in evidenza la perdita di centralità dello Stato. Si guarda
giustamente alla prospettiva dello «spazio europeo» e di un'economia-mondo sempre piú connessa. Ciò muta di fatto il senso di ciò che consideriamo come «spazio pubblico» che perde
vecchie e superate connotazioni. Le stesse istituzioni di base
come la famiglia non rappresentano piú un modello normativo.
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Alain Touraine evidenzia mutamenti profondi di paradigma
che si verificano nella ricerca sociologica già nei suoi esordi:
«Quando lo sviluppo capitalista e la rivoluzione industriale
sottrassero alla politica il ruolo centrale nella vita sociale per
assegnarlo all’economia, il pensiero della società si trasformò;
si cominciò a parlare di progresso piú che di ordine, e di differenziazione piú che di integrazione. Ai suoi primi passi, la sociologia tentò di proseguire l’opera della filosofia politica in
relazione a gruppi sociali sempre piú diversificati e soggetti a
trasformazioni sempre piú rapide, meno controllati dal centro
e piú aperti alle relazioni con il proprio ambiente, soprattutto
in virtú delle conoscenze tecniche» [Touraine, in Touraine,
Khosrokavar, 2003: 10-11].
Il cammino della sociologia è profondamente segnato dal
passaggio del primato dalla politica all’economia. Le guerre
mondiali, la globalizzazione degli scambi e la diffusione di beni
di consumo, materiali e simbolici hanno progressivamente indebolito l’oggetto della ricerca sociologica: «piú i mercati prendono il posto delle città meno la vita individuale si svolge all’interno di quadri politici e norme sociali, e di conseguenza l’oggetto tradizionale delle scienze sociali, dalla filosofia del diritto
alla sociologia si dissolve» [Touraine, in Touraine, Khosrokavar, 2003: 11].
Oggi la sociologia si trova, ancora, di fronte alla necessità di
una svolta.
Se poco piú di un secolo fa accanto alla cittadinanza si guadagnava la definizione di lavoratore, oggi cerchiamo di tutelare
anche le diversità culturali, basate su determinati comportamenti, sull’età, il genere, la fede, l’etnia, la lingua. Ciò determina in primo luogo un mutamento in quella che è forse una delle
piú importanti categorie dell’analisi sociologica, quella di «attore sociale»:
«Se la società di massa comporta l’indebolimento dei legami
piú prossimi e piú forti, quelli della famiglia o del quartiere,
contribuisce d’altra parte a separare la definizione del bene e
del male dalle funzioni sociali dei comportamenti. L’attore,
benché esista solo in situazioni sociali, è sempre meno sociale e
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sempre piú guidato da un ideale di sé. Per questo non si tratta
piú di contrapporre agli obblighi della vita sociale un principio
superiore. Simili obblighi si sono infatti diversificati, sono diventati piú mobili e capaci di offrire all’individuo uno spazio
piú ampio. Se al soggetto religioso e filosofico si erano già sostituiti il cittadino e il lavoratore, ora non c’è piú spazio per nessuna forma di universalismo astratto. Tutti i tentativi di stampo
economico volti a rintracciare l’essenza della saggezza e della
giustizia universale falliscono sia perché si riducono a banalità
sia perché sia una parte importante dell’umanità li rifiuta»
[Touraine, in Touraine, Khosrokavar, 2003: ibid.].
La necessità di una svolta si fa avvertire sia sul piano della
teoria e della metodologia sia negli esperimenti e nelle pratiche
di ricerca, a tal punto che nella realtà contemporanea si è stabilita una «connessione bipolare» tra i diversi livelli [Melucci,
1998]. Il «mercato della conoscenza sociale» si estende progressivamente rendendoci sempre piú, e nei campi piú diversi,
consumatori di informazioni e di conoscenze. L’informazione e
la conoscenza plasmano in questo modo i rapporti tra istituzioni e attori. La conoscenza viene sempre piú incorporata nelle
pratiche sociali [Melucci, 1998; G.O. Longo, 2003].
«Infatti come membri di società altamente differenziate e
basate sull’informazione siamo, a vario titolo e in modo sempre
piú ampio, consumatori di risultati di ricerca, siamo sempre
piú orientati ad incorporare nelle nostre azioni le informazioni
relative alla società stessa. Le nostre pratiche includono in misura crescente informazioni relative ai modi in cui l’azione sociale si definisce, si costruisce. In un processo circolare, attraverso queste informazioni noi stessi definiamo e costruiamo la
nostra azione» [Melucci, 1998: 16-17].
Ciò che chiediamo alla nostra attività conoscitiva è, in generale, di ridurre l’opacità della realtà che ci circonda, di fornirci i
mezzi per conquistare maggiore chiarezza per arricchire il nostro rapporto con la natura e le nostre relazioni sociali. Edgar
Morin fa notare che «noi chiediamo legittimamente al pensiero
di dissipare le nebbie e le oscurità, di mettere ordine e chiarezza
nel reale, di rivelare le leggi che lo governano» [Morin, 1993: 1].
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Recentemente Raymond Boudon, è tornato a precisare che
la vocazione della sociologia, come di tutte le scienze, è quella
di produrre sapere, di spiegare i fenomeni che analizza, cioè di
identificarne le cause [Boudon, 2003]. E polemizzando contro
certe interpretazioni riduttive – anche se non mancano alla sociologia «comportamenti da locanda spagnola» [Boudon, 2003:
56] – sostiene di non considerare Adam Smith, Simmel, Marx,
Weber, Pareto, Tarde, Durkheim come filosofi, ma come scienziati. E aggiunge:
«Senza dubbio la loro opera offre una visione generale della
società, che converrebbe, per chiarezza qualificare piú come filosofia sociale che come sociologia. Senza dubbio Tocqueville,
Weber o Durkheim sono stati pensatori impegnati. Senza dubbio non erano immuni, non piú di altri, dall’ideologia. Tuttavia,
se appartengono al pantheon della sociologia è soprattutto per
aver contribuito a fare della disciplina una scienza a tutto tondo, una scienza come le altre, finalizzata essenzialmente a spiegare fenomeni sociali enigmatici a partire da teorie che obbediscono a criteri ai quali è asservita qualsiasi disciplina scientifica
degna di questo nome» [Boudon, 2002: 7].
La sociologia di Tocqueville come quella di Weber si caratterizza perché elabora in maniera critica la materia storica e sociale ponendo dei «perché?» e cercando di trovare delle risposte seguendo linee metodologiche che sono proprie di tutte le
discipline scientifiche. Analizzando la tradizione della sociologia comprendente, Boudon sostiene che essa è spesso fraintesa
e considerata in modo approssimativo. Le radici di questa incomprensione vanno individuate nella sua larga identificazione
con la tradizione ermeneutica di Windelband e Rickert per i
quali la spiegazione spetterebbe alle scienze della natura mentre
l’interpretazione sarebbe propria delle scienze umane e sociali.
Per Boudon, la tradizione della sociologia comprendente rifiuta questo dualismo sulla base di due postulati.
Il primo postulato, sulla scorta del Weber che sosteneva che
«l’individuo è il depositario ultimo e unico del senso dell’azione
sociale» [Marianne Weber, 1995: 106], afferma che «i fenomeni
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sociali sono il prodotto di comportamenti, credenze individuali;
essi risultano dalle loro aggregazione» [Boudon, 2002: 74].
Il secondo postulato afferma che spiegare azioni, comportamenti e credenze significa renderli comprensibili. Ciò significa
che il sociologo ricerca il senso che esse hanno per il medesimo
attore sociale. Da questo punto, a ragione, Geertz considerando l’uomo agente «nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto, afferma che l’analisi di queste reti è non una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca
di significato» [Geertz, 1988: 11].
Se intendiamo il «raccontare» come «trasformare per segni
azioni e passioni» [Fabbri, 2000: 66] è possibile individuare
una relazione fondamentale che lega «spiegazione» e «comprensione»:
«Se questo è vero, si può capire perché Ricoeur insista tanto
sull’idea che dobbiamo attenerci al racconto per non separare
il comprendere dallo spiegare, mantenere in contato la spiegazione – il metalinguaggio costruito – con la comprensione. La
continuità con il mondo della vita è il problema delle scienze
dell’uomo, la precondizione di intelligibilità di ogni attività significativa. I racconti sono il luogo “utopico”, dove in qualche
modo i concetti orditi nel testo vanno sviluppati. Per pensare
teoreticamente bisogna disimplicare dal racconto e raffigurare
in teoria» [Fabbri, 2000: ibid.].
Riassumendo il programma di Tocqueville, Boudon ne
estrapola i seguenti principi come punto di riferimento per la
ricerca sociologica:
«L’obiettivo della sociologia è quello di spiegare fenomeni
difficilmente comprensibili; spiegare un fenomeno vuol dire, in
sociologia, come in ogni disciplina scientifica, trovarne le cause; le cause dei fenomeni sociali sono da ricercare nei comportamenti, nelle scelte e nelle rappresentazioni degli individui; i
comportamenti, le scelte e le rappresentazioni degli individui
sono per principio comprensibili: il loro significato per gli individui ne è la causa; fermo restando che i comportamenti, le
scelte e le rappresentazioni degli individui non sono compren12
sibili se non si tiene conto del contesto a cui l’individuo appartiene» [Boudon, 2003: 58].
Le cosiddette scienze sperimentali si occupano esclusivamente di fenomeni riproducibili e, dunque, la non riproducibilità – anche se riguarda fenomeni importanti – è motivo della
loro esclusione.
«Questa è un’autolimitazione molto seria, che costituisce
una grossa rinuncia e rappresenta probabilmente la caratteristica discriminante dell’impresa scientifica rispetto a ogni altro tipo d’indagine. Occorre notare subito che nel concetto di riproducibilità è contenuto anche quello di verifica sperimentale,
che altro non è che una constatazione di riproducibilità in una
varietà di condizioni diverse. Non si insiste abbastanza […] sul
vincolo della riproducibilità dei fenomeni presi in considerazione dalla scienza. Si dice anzi spesso che la scienza si occupa
di fenomeni che è in grado di spiegare. Non tutti i fenomeni
della scienza sono invece, almeno momentaneamente, spiegabili. Dalla biologia molecolare all’astrofisica, dalla botanica alle
neuroscienze, sono innumerevoli i fenomeni dei quali non dubitiamo e che pure non hanno una spiegazione» [Boncinelli,
2004: 44-45].
Le società contemporanee sono interessate da una serie di
processi tra i quali: il passaggio dalla società industriale moderna alla società tardomoderna del rischio, la «doppia frammentazione», vale a dire la segregazione culturale e la differenziazione funzionale delle società tardomoderne, il trionfo dell’ideologia del «libero mercato», il fenomeno della globalizzazione e l’amplificazione di rischio e pericolo.
Il «postmoderno» ha influenzato fortemente anche la sfera
del diritto (cap. I). I processi di globalizzazione, in particolare,
hanno peraltro determinato sia la configurazione di nuove modalità e nuovi centri di produzione del diritto che la «mobilità
dell’universo normativo» medesimo, contribuendo alla contraddizione dei caratteri formalistici del sistema giuridico nonché favorendo manipolazioni ed ampi margini di discrezionalità che rendono piú permeabile alla criminalità il mondo degli
affari internazionali.
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Tali mutamenti implicano la necessità di ridefinizione non
solo dei «campi» del diritto ma anche una riconfigurazione epistemologica e cognitiva di ciò che comunemente si indica con i
concetti di controllo, devianza e criminalità, nonché un affinamento degli strumenti teorici e metodologici per l’analisi di fenomeni inediti o osservati in maniera nuova.
La transizione verso la postmodernità ha in particolare trasformato sostanzialmente il diritto, sottoponendolo a continue
ri-definizioni e approssimazioni tali da richiedere la necessità di
utilizzare nuovi paradigmi analitico concettuali. Il diritto si
frammenta in una pluralità di contesti e comunità giuridiche a
tal punto che il focus degli scienziati giuridici si sposta verso
un’ermeneutica critica in grado di ricontestualizzare il diritto.
Questo processo segna l’emergenza della spazialità e della temporalità in contrapposizione ai concetti assolutizzati di spazio e
tempo dello Stato moderno, aprendo il registro normativo ai
codici delle differenze, delle ambiguità e del pluralismo.
Il pluralismo giuridico assume ruolo di riferimento essenziale per una trattazione postmoderna del diritto, soprattutto nelle trasformazioni di tipo semantico che il concetto ha inglobato, spostandosi lungo la traiettoria che va dalla intolleranza alla
tolleranza, dalla tolleranza al riconoscimento del dissenso fino
al riconoscimento delle diversità [Sartori, 1997: 47]2.
L’intreccio e le ibridazioni normative hanno determinato
confini giuridici porosi soggetti alla trasgressione: si delinea l’interrelazione di diversi tipi di norme (religiose, consuetudinarie,
tradizionali, ecc.) che, coesistendo e intersecandosi dinamicamente, si sommano a quelle di origine statale e transnazionale.
In questo quadro si manifestano il riconoscimento del carattere ambiguo dei fenomeni di normativizzazione e la loro valenza complessa in termini di interpretazione soggettiva, di rappresentazioni e percezioni normative, nella direzione di ricerca
sulle caratteristiche costruite e ri-costruite, negoziate e rappresentate, del piú esteso tessuto normativo
Il diritto pur mantenendo la differenza tra la legalità e l’illegalità, non possiede tuttavia la matrice integrale del codice legale e dell’illegale; esso non ha di fatto accesso diretto ai fatti che
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domina; esso possiede frontiere porose e reversibili, sia al suo
interno che al suo esterno; le regole instaurate per pacificare i
conflitti e guidare i comportamenti sono esse stesse la posta di
un conflitto permanente; gli attori del gioco sono tanto compagni quanto avversari; la sua conoscenza – a causa della sua pluri-dimensionalità e pluri-spazialità – implica il situarsi nello
stesso tempo dentro e fuori; «la sua legittimità è riposta tanto
sul consenso di cui beneficia quanto sulla possibilità del dissenso su cui si accomoda» [Ost e van de Kerchove, 1997: 6].
«Il pensiero della complessità conduce […] ad accettare l’idea che un sistema sia sempre al contempo se stesso e altro da
sé, se stesso ed il suo “altro”. […] al posto di un’opposizione
binaria e irriducibile e di termini, qui si intuisce l’intreccio dei
contrari […] avvolgimento spiraliforme di un gioco che non
cessa di giocarsi da se stesso, di un diritto che non smette di
auto-regolarsi perché è sempre altro da sé» [Ost e van de Kerchove, 1997: 25-26].
In tali scenari, particolare attenzione viene prestata ai soggetti del diritto e alla loro capacità interpretativa delle norme
nonché alla possibilità di contravvenire alle norme stesse, negandole, trasgredendole, inosservandole.
Non è un caso che alcuni studiosi abbiano già da tempo
adottato un actor perspective, focalizzando sulle scelte normative
e la capacità di rielaborazione dei soggetti [Ewick e Silbey,
1998; Vanderlinden, 1989; Chiba, 1995, 1998; Petersen e Zahle,
1995], interessandosi particolarmente ai processi attraverso i
quali i soggetti ricostruiscono e rifondano i propri percorsi normativi, e alla strategie che pongono in essere nella trattazione o
nella risoluzione dei conflitti nelle loro interazioni quotidiane.
Il concetto stesso di devianza si dissolve anche alla luce della diffusione di una condizione esistenziale anomica che rende i
comportamenti individuali e collettivi instabili, in cui alle regole subentra il rischio e l’azzardo. La dissolvenza del concetto di
devianza è dovuto innanzitutto alla sua inconsistenza epistemologica ed euristica che, presupponendo una distinzione «tra ciò
che è normale o corretto e ciò che è deviante» e trascurando la
dimensione conflittualistica, nega già semanticamente la possi15
bilità di pluralismo valoriale e normativo, impedendo l’analisi
di alcune fenomenologie normative ambigue o opache.
Oggetto dello studio delle devianze, qui piú propriamente
intese quali divergenze [Silva García, 2000] diventa la diversità, intesa quale caratteristica di mutamento di ogni interazione sociale, come contraddizione gestibile all’interno delle interazioni e del sistema piú amplio, possibilità riconoscimento di
selettività da parte del sistema. La divergenza è il riconoscimento delle diverse modalità interattive sociali, ed il suo rapporto con la struttura sociale, in termini di controllo, pone feconde possibilità di analisi del continuum micro-macro. La divergenza assume le forme di una delle possibili azioni sociali:
essa esprime sí il conflitto ma anche la ridondanza, permettendo di valutare ed analizzare le componenti comunicative ed
espressive dei fenomeni «devianti».
Il terzo capitolo si prefigge di analizzare le trasfigurazioni
semantiche, da devianza a diversità, che il concetto di omosessualità ha assunto nella trattazione sociologica. Rinviando alla
letteratura interazionista e alle nozioni di riconoscimento intersoggettivo e di strategie di autorappresentazione, le riflessioni
intorno all’omosessualità, qui concepita come cartina al tornasole del mutamento socioculturale, si concentrano sui temi dell’identità, della diversità e della differenza secondo un’analisi
pluridisciplinare che pone in evidenza come la cultura sia caratterizzata dalla mutevolezza, fluidità e processualità e sia fatta
di rappresentazioni pluriverse della normatività (anche rispetto
alla sfera sessuale).
Spostando il focus d’analisi verso la criminalità e le mafie,
da analisi sociologiche piú recenti emerge chiaramente come
«le organizzazioni criminali si sviluppino in contesti caratterizzati da scarsa dotazione di fiducia, in cui le transazioni economiche diventano instabili e incerte» (cap. IV).
Sul piano della ricerca sulle mafie si può dire secondo il
punto di vista di Milhaupt e West [Milhaupt, West, 2000] – i
quali parlano della criminalità organizzata come The Dark Side
of Private Ordering3 – che sia necessario porre in primo piano
l’esigenza di legare l’analisi di tipo sociologico-economica a
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quella di taglio istituzionale per cercare di fare piú luce sui processi che determinano lo sviluppo delle organizzazioni criminali nel mondo. Proprio qui mi sembra che possano essere individuate le ragioni di una svolta sul piano transnazionale degli interventi degli Stati, dell’azione globale di contrasto e nella ricerca stessa. Milhaupt e West hanno il merito di segnalare la
contraddizione che sempre piú rischia di acuirsi negli Stati e
nelle istituzioni della globalizzazione: quella perversa contraddizione che il momento dello sviluppo economico-sociale e della democrazia da quello che riguarda il potenziamento della
sfera pubblica e della capacità di regolazione dello Stato. Gli
Stati e le future istituzioni sovranazionali, potranno tenere sotto controllo il lato oscuro del potere privato e contrastare credibilmente la criminalità solo se sapranno superare le attuali
inefficienze e debolezze dei sistemi di regolazione e sviluppare
il sistema di garanzia e di tutela dei diritti di proprietà. Ciò da
ragione a Hernando de Soto:
«È mia convinzione che il capitalismo nei paesi in via di sviluppo ed ex comunisti ha perso la sua strada. Non è piú conforme alle regole di equità. È al di fuori della portata di coloro che
dovrebbero costituire la sua piú larga base e, invece di essere
una promessa di opportunità per tutti, appare sempre piú come
il leitmotiv di una corporazione di uomini d’affari interessati solo a se stessi e alle loro tecnocrazie» [De Soto, 2001: 246].
E, nello stesso tempo, significa rispondere concretamente
ad una questione cruciale posta da Stiglitz: «Possediamo un sistema di governance globale, ma siamo privi di un governo globale, Ancora peggio, proprio nel momento in cui la necessità di
istituzioni internazionali è piú forte che mai, la fiducia in quelle
che esistono […] non è mai stata piú bassa» [Stiglitz, 2001: 5].
Questo testo è nato dall’attività didattica, di ricerca e di sperimentazione. Nello svolgimento delle iniziative seminariali e
interdisciplinari, ci siamo incontrati con tanti amici e colleghi.
Tra questi non posso non ricordare Stefano Balassone, Marzio
Barbagli, Laura Balbo, Oriana Bandiera, Stefano Becucci,
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Gianfranco Bettetini, Gianluca Bocchi, Remo Bodei, Antonio
Calabrò, Franco Nicastro, Amico Dolci, Gaetano Ferrante,
Johan Galtung, Diego Gambetta, Piero Grasso, Lawrence
Friedman, Peter Hill, Yiu Chu Kong, Vito La Fata, Antonio La
Spina, Gianfranco Marrone, Monica Massari, Mario Morcellini, Carlo Pasi, Tullio Sirchia, Franco Soresi, Giacomo Tachis,
Francesca Tommasi, Alberto Trobia, Giuseppe Varchetta, Federico Varese, Piero Luigi Vigna. Ringrazio particolarmente Cirus Rinaldi per tanti suggerimenti e indicazioni, ma, soprattutto, per aver seguito le diverse fasi del mio lavoro con intelligenza e sensibilità.
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Criminalità e devianze
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I. Conoscenza, comunicazione e devianza
nella crisi della società moderna
«Non credo ci sia un’agenda pregressa nel mio lavoro, piuttosto
penso che questa sia costantemente ricostruita ex post. Non saprei come definire questa mia caratteristica, se non sostenendo di
essere mosso da pura curiosità, insieme a una certa dose di serendipity» [Elster, 1989: 237].
«Tutta la mia concezione del metodo scientifico si può riassumere
dicendo che esso consiste in questi tre passi: 1) Inciampiamo in
qualche problema; 2) Tentiamo di risolverlo, ad esempio proponendo qualche nuova teoria; 3) impariamo dai nostri sbagli, specialmente da quelli che ci sono resi presenti dalla discussione critica dei nostri tentativi di risoluzione. O, per dirla in tre parole:
problemi – teorie – critiche. Credo che in queste tre parole problemi – teorie – critiche, si possa riassumere tutto quanto il modo
di procedere della scienza razionale» [Popper, 1969: 146].
«E andando avanti arriviamo a cose come il male, la bellezza e la
speranza. Se posso usare una metafora religiosa, quale delle due
estremità è piú vicina a Dio; la bellezza e la speranza o le leggi
fondamentali? Secondo me, il modo giusto è dire che quello a cui
dobbiamo guardare è l’intera interconnessione strutturale dei concetti, e che tutte le scienze, e non solo le scienze, ma tutto lo sforzo intellettuale deve tendere a vedere le connessioni fra le gerarchie, cioè connettere la bellezza alla storia, questa alla psicologia
dell’uomo, questa a sua volta al funzionamento del cervello, il cervello all’impulso nervoso, l’impulso nervoso alla chimica, e cosí
via, in su e in giù, in ambedue i sensi. Oggi non siamo in grado – e
non serve far credere il contrario – di tracciare una linea precisa
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da un estremo di questi concetti all’altro, perché abbiamo appena
cominciato a vedere che esiste una gerarchia relativa. E secondo
me nessuno dei due è piú vicino a Dio» [Feynman, in Edelman,
1993: 11].
«L’obiettivo della sociologia è quello di spiegare fenomeni difficilmente comprensibili; spiegare un fenomeno vuol dire, in sociologia, come in ogni disciplina scientifica, trovarne le cause; le cause
dei fenomeni sociali sono da ricercare nei comportamenti, nelle
scelte e nelle rappresentazioni degli individui; i comportamenti, le
scelte e le rappresentazioni degli individui sono per principio comprensibili: il loro significato per gli individui ne è la causa; fermo
restando che i comportamenti, le scelte e le rappresentazioni degli
individui non sono comprensibili se non si tiene conto del contesto a cui l’individuo appartiene» [Boudon, 2003: 58].
«L’interrogativo non è piú: “cosa si deve essere?”, ma: “come si
deve essere?”. Se l’individuo viene posto ai margini della tecnica,
egli acquista la distanza necessaria per osservare il proprio osservare. Egli non sa piú solamente di sé. Egli non attribuisce piú solo
a se stesso un nome, un corpo e una collocazione sociale. In tutto
questo si sente minacciato. E in luogo di questo acquista la possibilità di un’osservazione di secondo livello. L’individuo nel senso
moderno è colui che è in grado di osservare il proprio osservare. E
chi non ci arriva, o non vi viene condotto dal proprio terapeuta,
ha la possibilità di leggere romanzi e di proiettarsi su se stesso, come uno, nessuno e centomila» [Luhmann, 1995: 15].
«Albert Einstein si rifiutava di “credere che Dio giochi a dadi col
mondo”. Nel XX secolo, però, il genere umano ha cominciato a
giocare a dadi col pianeta senza conoscere tutte le regole del gioco» [McNeill, 2002].
1. Sviluppi, patologie e crisi del moderno
Nella prospettiva di cercare di situare meglio l’ipotesi di una
revisione critica, da un punto di vista interdisciplinare, dei concetti di devianza e di criminalità, partiremo dalla prima delle
categorie prese in esame in questo lavoro quella, estremamente
complessa, di «società».
22
Inizieremo la nostra analisi prendendo in considerazione
quella che molto genericamente viene definita società «postmoderna» (con o senza trattino) a partire da alcune delle posizioni
emerse nell’ampio dibattito che ha caratterizzato l’ultimo scorcio del secolo scorso.
La «postmodernità» è il regno della pluralità, della eterogeneità, della destrutturazione.
La storia del «postmoderno», nel complesso, è una vecchia
e discontinua storia che si è sviluppata all’insegna di contraddizioni e di paradossi.
Ha fatto notare Niklas Luhmann che la società moderna si
trova oggi di fronte a se stessa. Ma non basta certamente che si
concepisca solo come «risultato della sua storia» [Luhmann,
1987: 97] in quanto «questa descrizione contiene troppo poca
informazione» [Luhmann, 1987: ibid.].
Le caratterizzazioni e le definizioni, a volte assurde, come
«avanguardia della stasi» e «postavanguardia del moderno»
mutano sempre piú rapidamente. Si passa con grande facilità
dal «postindustriale» al «postmoderno» alla «posthistoire» per
cui a ragione sostiene Luhmann che una descrizione temporale
della società dipende, per la sua integrazione, dalla sua descrizione strutturale, allo stesso modo procedono insieme teoria
dell’evoluzione e teoria dei sistemi.
«La teoria dei sistemi può fornire, con i suoi strumenti
odierni, questa integrazione, ed è forse questa una delle ragioni
per le quali essa riceve oggi tanta attenzione. Non è che questo
aiuti necessariamente la nostra epoca ad avere un rapporto positivo con se stessa, ma forse la aiuta, se si fa un adeguato investimento di ricerca, ad avere migliori possibilità di osservare e
di descrivere l’accadere» [Luhmann, 1987: ibid.].
Non si può parlare di postmodernità né come di un periodo
storico, né come tendenza culturale o politica dalle caratteristiche ben definite.
«La si può intendere piuttosto come quello spazio-tempo,
privato-collettivo, all’interno dello spazio-tempo piú ampio
della modernità, delineato da coloro che, alla modernità, abbiano problemi o quesiti da porre, da chi abbia rimproveri da
23
muoverle o ne elenchi, a un tempo, conquiste e dilemmi irrisolti. Chi elegga la postmodernità a propria dimora vivrà, in ogni
caso fra i moderni quanto fra i premoderni. Poiché alla base
stessa della postmodernità vi è una visione del mondo come
pluralità di spazi e temporalità eterogenee. La postmodernità
può cosí essere definita soltanto all’interno di tale pluralità, rispetto a tali eterogenee alterità» [Heller, Fehér, 1992: 7].
La pluralità di spazi e temporalità determina, innanzitutto,
rotture nei processi conoscitivi e nell’orientamento in direzione
del futuro.
Il concetto di «tempo nuovo», di modernità introduce discontinuità e fratture «negli apparati di senso» [Bodei, 1987:
32] che non riescono piú ad entrare in sintonia con la natura, la
società, la conoscenza sulla base delle categorie del passato.
«Il presente rischia cosí di ridursi ad un punto evanescente,
ad uno spazio inospitale che non è piú sorretto né dal peso del
passato, né da un orientamento preciso verso il futuro. Il flusso
di senso della tradizione è stato deviato o sbarrato: si disperde
in molti rivoli o ristagna. L’orizzonte delle attese diviene di
conseguenza piú incerto e, soprattutto, piú differenziato» [Bodei, 1987: 33].
Nella contrapposizione del «postmoderno» al pensiero moderno Habermas rileva una «patologizzazione del mondo della
vita». A partire da quella che definisce come «struttura dilemmatica del diritto moderno» che è solcata sin dall’inizio dall’ambivalenza della garanzia della libertà e della sua sottrazione.
Ambivalenze ed effetti negativi non si presentano piú come patologie collaterali ma emergono direttamente dalla struttura della stessa giuridificazione: quegli strumenti stessi che dovrebbero
garantire la libertà dei fruitori, finiscono col comprometterla.
È proprio attraverso questi processi che si verifica un incremento della reificazione nelle società capitalistiche evolute con
l’intervento dei sottosistemi economia e Stato (guidati e controllati dai media diritto e potere) nella riproduzione simbolica
del mondo vitale. L’ipotesi della «colonizzazione del mondo vitale» può essere verificata in rapporto ad alcuni processi fondamentali o enunciati come trasformazione profonda delle forme
24
di vita tradizionali e differenziazione delle componenti strutturali del mondo vitale come cultura, società, personalità.
L’ipotesi di Habermas è, appunto, che la riproduzione simbolica del mondo vitale nel rapporto con i fondamenti dell’integrazione sistemica determini effetti collaterali patologici e
che, in ogni caso, lo Stato sociale assimili gli ambiti della riproduzione culturale, dell’integrazione sociale e della socializzazione ad ambiti di azione formalmente organizzati. Formalmente
organizzate sono per Habermas quelle relazioni sociali costituite dalle forme del diritto moderno. Il termine «giuridificazione» denota, in termini generali, la tendenza alla proliferazione
del diritto scritto. A questo livello è possibile soprattutto «distinguere l’ampliamento del diritto, quindi la normazione giuridica di nuovi stati di fatto sociali, sino a quel momento regolati
in modo informale, dalla coagulazione del diritto, dal dissolvimento specialistico di stati di fatto giuridici globali in ulteriori
fattispecie singole» [Habermas, 1986, II: 1024].
Anche lo Stato sociale, all’interno dello Stato democratico
di diritto, fa propria questa funzione che Habermas definisce
come giuridificazione che garantisce la libertà. Esso opera nella
direzione di un attenuamento degli imperativi del sistema economico nello stesso modo in cui le fasi precedenti della giuridificazione avevano frenato il sistema di azione amministrativo.
Si determina in pratica una divaricazione in cui da un lato,
si riafferma l’ineluttabilità delle tradizioni e, dall’altro, ci si allontana dal presente.
Il modello socioculturale della modernità è estremamente
fluido e dotato di notevole capacità di osmosi.
Nella posizione di Jean Chesneaux in primo piano il vincolo
planetario del moderno:
«La modernità è in primo luogo un modello dominante e
universale di vita quotidiana che si colloca nella realtà concreta,
ma si proietta anche nell’universo mentale di tutto il pianeta e
gli si impone imperiosamente. Le città si disperdono ovunque
in periferie sempre piú vaste e prive di vita; i divertimenti si riducono sempre piú e dappertutto al consumo passivo degli
stessi marchingegni elettronico-culturali e degli stessi prodotti
25
audiovisivi. L’immaginario collettivo si nutre dovunque degli
stessi temi, come ad esempio il dominio degli spazi intersiderali. I nuovi valori della modernità come la performatività, l’obsolescenza, l’istantaneità, sono accettati dappertutto ed in particolare dai giovani. I criteri in base ai quali valutare il successo
si allineano sempre piú a quelli della società nippo-americana,
incarnati dal serial Dallas» [Chesneaux, 1987: 45].
Michel Albert approfondisce l’analisi di questo capitalismo
trionfante contrapposto al modello renano, «virtuoso, egalitario,
prudente e discreto» [Albert, 1993: 212] non in grado di esercitare fascino alcuno. Il progetto del grande mercato comune europeo del 1993, che avrebbe potuto suscitare una grande mobilitazione, è fallito proprio nel suo rapporto con i media. Il capitalismo renano, tutto puntato sui risultati economici ha trascurato un problema fondamentale di immagine, mentre il suo avversario americano domina il palcoscenico e «si offre al pubblico pieno di pennacchi, avvolto in un’aura romanzesca, accompagnandosi con mille leggende» [Albert, 1993: 207]. Il capitalismo americano incarna il modello dell’economia-casinò celebrato e diffuso nel mondo attraverso Dallas e Dynasty: «epopea
dell’intreccio tra business e amori, petrolio e tradimenti, palcoscenico della cattiveria e di celebrazione dell’odio» il primo serial [Albert, 1993: ibid.], e «teleidra dalle mille ricrescenti teste»
e perenne «scontro di titani, tenzone di mostri, cui la pubblicità
ci prepara da tempo» [Albert, 1993: 207-208], la seconda.
«Il capitalismo americano – scrive Albert – presenta all’incirca tutte le attrattive di un film western. La promessa è quella
di una vita avventurosa, agitata, stressante ma avvincente. L’economia-casinò crea la suspense, dà a tutti il brivido del rischio,
permette di applaudire il vincitore e di fischiare i perdenti. Come nell’arena ci si gioca la vita degli uomini. Questo capitalismo è d’altronde popolato da una fauna esotica impegnata in
spettacolari combattimenti: pescecani, falchi, tigri e draghi. Cosa ci potrebbe essere di piú spettacolare? Cosa di piú adatto a
mirabolanti messe in scena? Nel sistema renano, per contro, gli
“animali” della vita economica sono per lo piú animali domestici il cui comportamento non riserva mai delle sorprese. E
26
poi, sempre là, la vita promessa può benissimo rivelarsi attiva,
ma sarà probabilmente monotona, forse noiosa. Il capitalismo
renano evoca alla mente la figura del “padre di famiglia” cosí
come viene intesa nel codice civile. Il capitalismo americano,
invece, fa venire in mente gli strass del Crazy Horse Saloon.
Sotto le luci della ribalta, non c’è dubbio, uno dei due si rivela
non all’altezza della situazione. È come se si tentasse di conquistare il mercato dei jeans cercando di vendere ai giovani dei
pantaloni tirolesi» [Albert, 1993: 208].
Il capitalismo americano, nonostante le sconfitte, i debiti, le
debolezze delle sue industrie e le disuguaglianze sociali, rimane
una vera e propria star mondiale, artefice di un trionfo mediatico che si articola secondo i parametri dello show-business e del
romanzo d’avventura1.
Ma al di là trionfi del capitalismo modello Dallas e Dynasty
proprio la nozione di «società insoddisfatta», proposta da Heller e Fehér sembra cogliere la specificità di questo multiversum
dal versante di un’altra sfera importante, quella dei bisogni.
Anzi, l’insoddisfazione collettiva agisce come potente agente
motivazionale e fattore di riproduzione. Proprio la categoria
dell’«insoddisfazione» esprimere, al di là di ogni rigido, e forse
impossibile, tentativo definitorio, il quadro magmatico e spesso
contraddittorio della postmodernità. Non ci si sorprende piú,
dunque, se «la struttura sociale apparirà o come un insieme negativo o come un testo frammentario e, pertanto, illeggibile, un
campo di forze di micropoteri relazionali, la gabbia di ferro di
una necessità autoriproducentesi, alienata, ridotta a cosa, reificata» [Heller, Fehér, 1992: 37-38].
Di una metafora geometrica estremamente si avvale Niklas
Luhmann quando parla del consolidamento di una società
«ohne Spitze und ohne Zentrum» [Luhmann, 1981a: 22], senza vertici e senza centro e il cui connotato strutturale che la distingue nettamente da tutte le formazioni sociali che l’hanno
preceduta è la forma «il primato della differenziazione funzionale» [Luhmann, 1987: 91]2.
Su questo punto sembra convergere lo stesso Habermas,
per tanti altri versi molto distante da Luhmann. Il discorso filo27
sofico della modernità contesta al funzionalismo sistemico proprio l’obiettivo contributo alla crescita dell’opacità del mondo
moderno facendo «imputridire il soggetto stesso in sistemi»
[Habermas, 1987: 352]. Si tratta invece di far riferimento ad
una diversa immagine del soggetto come depositario delle competenze comunicative e concepire il linguaggio come «quel medium che al contempo inserisce ogni partecipante all’interazione come membro in una comunità di comunicazione e inoltre
lo sottomette ad una coazione di individuazione inesorabile»
[Habermas, 1987: 334]. L’inesorabilità della coazione delle
azioni linguistiche consiste nell’integrazione delle prospettive
del parlante, dell’uditore e dell’osservatore. La struttura dell’azione linguistica, si intreccia cosí con un sistema di prospettive
sul mondo mettendo in relazione e coordinando il mondo oggettivo con quello sociale e quello soggettivo. Questa concezione pragmatica del linguaggio consente una ridefinizione della
prassi come agire comunicativo, come ragione comunicativa
che impone ai partecipanti all’interazione un orientamento verso pretese di validità e quindi rende possibile un’accumulazione di sapere che modifica l’immagine del mondo. Si è fatto osservare che Habermas propone, nella sostanza, «una ponderata
variazione del modello delle “buone ragioni” che prende in
considerazione una trappola critica: i condizionamenti che le
differenze gerarchiche di status, di autorità o di altri modi di
influenza e di coercizione impongono al discorso» [Habermas,
1987: ibid.]. Ma nella situazione del «discorso ideale» di Habermas, nonostante i piú recenti approfondimenti critici, non
sono tematizzati con sufficiente chiarezza queste asimmetrie,
queste differenze e i condizionamenti da esse derivanti.
«Egli ritiene, inoltre, – scrive Edelman – che le persone possano in qualche misura presupporre la situazione del discorso
ideale anche quando non esiste perché l’uso stesso del linguaggio la sottintende. È forse possibile che un singolo individuo
riesca talvolta a realizzare questa forma di emancipazione dai
vincoli sociali, ma la storia dimostra che le discussioni di gruppo e l’elaborazione delle politiche di governo non fanno altrettanto. La situazione di discorso ideale proposta da Habermas
28
fornisce una visione ottimista, peraltro forse giustificata, di come il discorso potrebbe diventare emancipatorio di una società
senza capitalismo o senza gerarchie di governo, aziendali o militari; ma lascia poca speranza che il linguaggio politico del mondo in cui viviamo possa diventare qualcosa di piú di una sequenza di strategie e di razionalizzazioni» [Edelman, 1992: 102].
Per Habermas occorre uscire dall’incanto sistemico. Non si
tratta tanto di aspettare che i sistemi apprendano a funzionare
meglio, quanto piuttosto di fare in modo che gli impulsi del
mondo della vita possano influire nell’autocontrollo dei sistemi
funzionali. È necessario recuperare un rapporto diverso tra sfere pubbliche autonome che si auto-organizzano da un lato, e
gli ambiti d’azione controllati dai media denaro e potere dall’altro. È necessaria cioè una nuova divisione del potere nei
processi di integrazione sociale. In primo luogo contro il sistema denaro/potere dovrebbe affermarsi ciò che Habermas definisce «il potere socialintegrativo della solidarietà». Per Habermas sono autonome quelle sfere pubbliche che non sono prodotte e trattate dal sistema politico allo scopo di procurarsi legittimazione.
«I centri di comunicazione condensata che nascono spontaneamente dai microsettori della prassi quotidiana possono dispiegarsi a sfere pubbliche autonome e fissarsi come intersoggettività autoportanti, di livello superiore, solo nella misura in
cui il potenziale del mondo della vita viene usato per l’auto-organizzazione e l’uso auto-organizzato di mezzi di comunicazione. Forme dell’auto-organizzazione rafforzano la capacità collettiva di azione» [Habermas, 1987: 363].
La presa critica di distanza di Habermas rispetto alle teorie
di Horkheimer e Adorno che si erano «abbandonati ad uno
sfrenato scetticismo nella ragione, invece di riflettere sui motivi
che fanno dubitare di questo stesso scetticismo» [Habermas,
1987: 133], coinvolge particolarmente problematiche che erano
state al centro della riflessione dei filosofi francofortesi come
quelle relative ai mass media e alla cultura di massa. Come
Marx non resiste alle tentazioni della totalità del pensiero hegeliano costruendo dialetticamente come un «tutto falso» l’«unità
29
di sistema e di mondo vitale» [Habermas, 1986, I: 1001-1002],
e rimanendo entro il «vortice della logica economica del progresso» [Bubner, 1995: 276], Horkheimer e Adorno ignorano
la razionalità comunicativa di un mondo vitale che si è sviluppato sulla scorta della razionalizzazione delle immagini del
mondo ancor prima della formazione di ambiti di azione organizzati formalmente. Ci soffermeremo diffusamente sul tentativo condotto da Habermas in direzione della fondazione della
scienza sociale in chiave di teoria della comunicazione condividendo quanto affermato da Albrecht Wellmer che in esso vede
«il piú completo e convincente tentativo [...] mirante a ricostruire la ragion pratica entro il contesto della politica e della
teoria della scienza» [Wellmer, 1990: 112].
Per Habermas soltanto questa razionalità comunicativa, che
si rispecchia nell’autocomprensione della modernità, conferisce
una logica interna – e non soltanto la rabbia impotente della
natura in rivolta – alla resistenza contro la mediatizzazione del
mondo vitale operata dalla dinamica propria di sistemi autonomizzatisi.
2. Fine della storia e storia senza finalità
A sfatare la nuova mitologia della fine della storia un contributo importante concorre anche da L’illusion de la fin [Baudrillard, 1993] di Jean Baudrillard. Il tema della fine della storia trova posto nelle riflessioni del filosofo francese come uno degli
aspetti di un oggetto molto piú ampio che riguarda il moderno
considerato dal punto di vista delle illusioni. La grande illusione
di Fukuyama è tutta concentrata sul trionfo dei valori della democrazia e sulla vittoria dell’Occidente. Questa convinzione è
per Baudrillard del tutto sbagliata per il semplice fatto che i valori della democrazia e dei diritti dell’uomo rischiano, al contrario, di naufragare. In realtà la società postmoderna rischia di essere molto piú violenta di quella moderna. L’affermazione può
sembrare paradossale e stravagante, ma solo se si fa riferimento
all’aspetto «viscerale e virulento» della violenza. Baudrillard si
30
riferisce invece alla violenza piú sottile che si annida nei gangli
della nostra società fondata sul consenso. Si ritiene generalmente
che il consenso sia il contrario dell’adesione strappata con metodi violenti. Oggi è invece la strategia della dissuasione il mezzo
attraverso il quale le nostre società producono il consenso. Si
tratta, per Baudrillard, di una forma piú sofisticata, ma enormemente piú penetrante, della violenza tradizionale. Nel momento
in cui tutto diventa oggetto di possibile negoziazione e l’obiettivo fondamentale quello della pacificazione, della neutralizzazione e della sterilizzazione dei conflitti, si attenua semplicemente la
violenza aggressiva e irriflessa, ma non certamente quella orientata ad espellere il negativo del mondo. Si assiste cosí al dilagare
dell’ossessione della pulizia e della trasparenza. Ma con i metodi
ossessivi di ricerca della pulizia, la società rischia paradossalmente di restare senza anticorpi. La violenza compressa e sublimata
riaffiora nei luoghi piú inaspettati e rigenera mostri.
«I valori democratici dell’Occidente – sebbene ci siano ancora delle culture che non li accettano, come ad esempio quella
dell’Islam – sono ormai diventati mondiali e al contempo si sono banalizzati: sono diventati universali solo perché sono sbiaditi, non hanno piú una vera sostanza, non sono piú singolari,
come invece dovrebbero essere i veri valori. Oltretutto si
diffondono facilmente perché avanzano nel vuoto ideale e materiale prodotto dal crollo del comunismo: insomma, si diffondono per inerzia o vengono barattati in cambio degli aiuti economici. Per me dunque sono dei valori sempre piú vacillanti,
fragili e incerti, tanto che non costituiscono piú un sistema coerente: quello che e esportiamo è un insieme caotico e confuso.
Di conseguenza, la vittoria dell’Occidente mi sembra molto relativa» [Baudrillard, in Gambaro, 1992]. Baudrillard rifiuta la
parola «fine» sia come finalità sia come conclusione. Non è piú
possibile oggi individuare qualche finalità nella storia nel momento in cui essa è diventata caotica, senza logica e priva di
qualsiasi direzione. Senza linearità, viene meno persino l’idea
stessa di conclusione. Baudrillard mette in crisi la visione paradossale ma rassicurante della fine da una prospettiva radicale:
se la storia sta finendo o è già finita, siamo inevitabilmente por31
tati a pensare che qualcosa esiste o è già esistito. Ci affidiamo
dunque a qualche «certezza» tranquillizzante mentre, in realtà,
non siamo in grado di fissare in alcun punto elementi costanti
di una realtà che sembra sfuggire, scomparire.
«La storia – afferma Baudrillard – non è finita, è scomparsa,
si è dissolta, disseminata nel vuoto, non è piú reperibile né rappresentabile. Ci troviamo dunque di fronte ad una nuova situazione per la quale non abbiamo gli strumenti di analisi necessari, cosicché la prevedibilità diventa nulla. Mi sembra che si stiano producendo insieme due fenomeni antinomici e contraddittori. Da un lato c’è un processo di accelerazione, le cose vanno
in fretta, troppo in fretta per poter fare della storia. E non solo
per colpa dei media, come spesso si dice; piuttosto per una
specie di concorrenza sfrenata tra gli avvenimenti che produce
una sorta di simultaneità totale all’origine della perdita di senso. Dall’altro, invece, c’è un processo di totale rallentamento,
che corrisponde ad una perdita di memoria. Tutto diviene residuo, vale a dire senza memoria, si blocca. Immagazziniamo tutto, conserviamo tutto solo perché non siamo piú capaci di memorizzare; è un atteggiamento che rivela l’ossessione dell’oggetto perduto. Ciò che immagazziniamo non è memoria viva
sono dati congelati, fossilizzati, ammassati senza alcuna selezione, di conseguenza non hanno piú alcun valore d’uso. Insomma, è il contrario della memoria» [Baudrillard, in Gambaro,
1992]. In questa prospettiva il ripiegamento nostalgico sul passato nell’intento di riscrivere la storia, per renderla piú accettabile, è fenomeno che Baudrillard collega al processo della cosiddetta scomparsa della storia.
«Oggi si parla molto dei revisionisti, dei negazionisti e dei
pentiti. Ma costoro in fondo rappresentano solo la forma piú visibile di un processo che percorre tutta la società, magari in modo piú oscuro. Sembra di trovarsi nel romanzo di Orwell 1984:
ogni giorno riscriviamo un pezzo di storia per renderla piú accettabile, piú bella, meno sporca» [Baudrillard, in Gambaro, 1992].
E cosí il mare magnum della fine della storia viene alimentato da quella che Baudrillard rappresenta come una macabra
danza dei fossili attraverso «il riciclaggio di rifiuti di ogni gene32
re» e all’insegna di un ben strano processo che lega il rimorsoresurrezione del passato alla perdita del filo della memoria.
«Tutte le vestigia, tutte le razze che si erano sepolte nel massimo segreto e che di conseguenza, facevano parte del nostro
capitale simbolico, verranno esumate, resuscitate, non sfuggiranno piú alla nostra trasparenza, da sepolte e vive le trasformeremo in qualcosa di visibile e di morto, trasformeremo il capitale simbolico in un capitale museale e folcloristico» [Baudrillard, 1993: 101]. In realtà, nella visione di Baudrillard, in
mezzo a tali e tante contraddizioni, si verifica un progresso, un
«progresso assoluto nella coscienza, o nell’inconscio cinico della nostra epoca». Come avviene nel processo dell’informazione
la cui destinazione segreta è di determinare quell’effetto di inganno e insieme di disinganno sul reale.
«Non ci sarebbe peggior errore di quello di prendere il reale per il reale e, in questo senso, l’eccesso stesso dell’illusione
mediatica funge per noi da disillusione vitale. Cosí l’informazione si disincanterebbe grazie ai suoi effetti e la violenza dell’informazione sarebbe vendicata dalla sconfessione e dall’indifferenza che suscita. Proprio come occorre felicitarsi senza riserve dell’esistenza dei politici, che si fanno carico di questa
funzione fastidiosa, cosí si deve esser grati ai media di esistere e
di farsi carico dell’illusionismo trionfale del mondo comunicazionale, di tutta l’ambiguità della cultura di massa, della confusione delle ideologie, degli stereotipi, dello spettacolo, delle banalità – di assorbire tutto questo nella loro operazione» [Baudrillard, 1993: 101]. È proprio in questa sfera dell’illusione che
è possibile cogliere anche la paradossalità della comunicazione
mediatica:
«Pur costituendo un test di intelligenza permanente, perché
dove meglio che alla televisione si può imparare a mettere in
dubbio ogni immagine, ogni discorso, ogni commento? La televisione ci inculca l’indifferenza, la distanza, lo scetticismo, l’apatia senza condizioni. Attraverso il divenire-immagine del
mondo, essa anestetizza l’immaginazione, provoca un’abreazione nauseata, insieme a una scarica di adrenalina che porta alla
disillusione totale. La televisione e i media renderebbero il reale dissuasivo se non lo fosse già» [Baudrillard, 1993: 86-87].
33
Michel Maffesoli riprende la questione dal punto di vista
dell’apocalisse, quella sorta di millenaria scansione della palingenesi che rende il mutamento come qualcosa capace di trasformazioni irreversibili. Alla fine di ogni millennio la paura
esplode in dimensioni planetarie e ripropone domande radicali
sui modi in cui gli uomini stanno insieme.
«Oggi si pongono esattamente gli stessi problemi e domande dell’Anno Mille; sia a livello di idee, di grandi sistemi interpretativi, sia a livello di certezze politiche. Fine dello Stato-nazione, fragilizzazione di istituzioni come partiti e i sindacati, ecco ciò che abbiamo di fronte. [...] Dalle istituzioni familiari a
quelle scolastiche, la crisi è generale. Anche cosí mi spiego il
fatto che il tema dell’apocalisse circoli ormai a livello sociale. La
mia ipotesi è che oggi l’apocalisse non si vive piú collettivamente, come fu a Auschwitz o come è stato nelle grandi rivoluzioni,
nelle fratture profonde. L’apocalisse si è capillarizzata nel corpo
sociale. La fine dell’ideale democratico, la fine della fiducia nel
politico, l’hanno spostato a livello di quotidianità» [Maffesoli,
in Paolozzi, 1992].
Sul piano massmediologico bisogna pure considerare che la
categoria di apocalisse, come si dice, «tira», incuriosisce, attrae,
interessa, fa opinione. Il fenomeno si diffonde come tutto ciò
che ha che fare con l’inquietudine e delle metafore del destino:
«Da alcuni anni l’apocalisse riscuote successo. Anche come
parola, soprattutto come parola. È possibile che insorga qualche assuefazione; per il momento, però, il titolo di un libro, o
di un articolo, di un convegno, di un film, che contenga la parola apocalisse, attrae l’attenzione. Al limite, vende. Non si dimentichi che è sempre esistito ed esiste una sindrome da cupio
dissolvi, quel désire de catastrophe a cui accenna Jeudy, quel
“demone della perversità” di cui parla Edgar Allan Poe. Per restare al 1992, una compilation di autori su un disco a 33 giri reca il titolo Apocalypse hard-core; una recente pubblicazione a
dispense s’intitola Apocalisse degli animali; non c’è giorno che
sulla carta stampata e nelle cronache televisive la parola apocalisse non faccia la sua brava comparsa, fin nei titoli, soprattutto
nei titoli. Quella parola ha alle spalle duemila anni di vita, ma
34
fino ad oggi nessuno le aveva decretato un simile successo, e
nessuno se ne sarebbe fatto strumento di comunicazione per
messaggi diretti a un pubblico non colto. Se, ripercorrendo gli
orrori della guerra nel Vietnam (il massimo della moderna tecnologia di morte che ritorna alle ancestrali pulsione di morte) il
regista Francis Ford Coppola ha rivisitato Cuore di tenebra di
Conrad [1906], dandogli però il titolo di Apocalypse Now
[1979], una qualche ragione c’è stata. Intento d’attrazione pubblicitaria? Effettivo sentire apocalittico dell’autore? Non è interessante: interessa che la metafora ha funzionato: tanto che nessuna cinematografia ha cambiato quel titolo. Ma ogni significato religioso è sparito. La paura, e dunque il presente come angoscia, ha preso il sopravvento» [Placanica, 1993: 179].
In verità piú che di fine, in armonia col suo saggio su La trasfigurazione del politico, Maffesoli preferisce parlare, appunto,
di trasfigurazione alludendo al processo di migrazione dell’energia che animava il vecchio modo politico di concepire la vita
sociale. Questo dinamismo si è trasferito in direzione di un
processo di tribalizzazione.
«D’altronde, il politico cos’era se non l’associarsi attraverso
un contratto per fare la storia, per operare in maniera volontaria, attraverso i partiti, sulla società? Ora mi sembra che si stia
disegnando una tribalizzazione, delle tribú, un tribalismo»
[Maffesoli, in Paolozzi, 1992]. Maffesoli considera soprattutto
la tendenza al fenomeno per il quale ci si raggruppa per affini,
e si costituiscono piccole entità che hanno come asse di intervento non tanto la trasformazione della società rivoluzionaria,
socialista, riformista, ecc., quanto «il piacere di essere insieme
per essere insieme».
Si verifica una sorta di inversione cronologica che ribalta la
proiezione sul futuro dell’ideale democratico e valorizza il presente come campo di esplicazione di una ricerca prevalentemente edonistica, del piacere del carpe diem, del qui e ora, soprattutto da parte dei giovani.
È una forma soft di apocalisse, una forma minore e dolce
«che mostra la volontà non di cambiare la società bensí di aggirarla, di giocarci insieme attraverso un sistema combinatorio.
35
La realtà viene accettata e poi si trovano le chiavi per entrarci.
Un atteggiamento, insomma, meno attivo che tuttavia non ha
nulla di passivo» [Maffesoli, in Paolozzi, 1992].
I giovani prendono le distanze dalle grandi utopie e dagli
ideali per coltivare minuscole utopie, tanto minuscole da non richiedere piú neppure l’esigenza del loro riconoscimento e della
loro tematizzazione. Essi guardano alla realtà da un’angolatura
epicurea anche se la affrontano con generosità, con solidarietà.
Cosí compongono un bricolage della realtà mentre le utopie
non cercano la libertà globale bensí delle libertà interstiziali.
«Leggevo un’inchiesta – dichiara Maffesoli – dalla quale viene fuori che i giovani in Francia, non prendono precauzioni
contro l’Aids. Su questa malattia, sulla guerra del Golfo, la mia
impressione è che la gente se ne preoccupi poco. Sí, sanno che
quella peste è in agguato ma allo stesso tempo continuano a fare l’amore senza preservativo. Cosí, sulla guerra del Golfo, concordo con Baudrillard che quel conflitto è come se non fosse
avvenuto. Io definirei questo atteggiamento “stoicismo contemporaneo”; ciò su cui non posso agire, mi diventa indifferente.
Non dico che non esiste ma non posso fari niente. Con la guerra atomica la reazione è identica. Questo è il problema delle libertà interstiziali, di quelle nicchie in cui ci si accomoda con se
stessi, con gli altri e con la vita. Non credo al ritorno all’individualismo. Su questa posizione battono gli intellettuali che hanno perso gli ideali sessantottini della società perfetta della loro
giovinezza ma non traduce una posizione della vita reale. La
tribalizzazione consiste in una serie di piccole entità legate insieme da emozioni estetiche, sentimentali, musicali, sportive.
Galileo diceva: eppur si muove. Io dico: eppure tiene. La società tribalizzata tiene» [Maffesoli, in Paolozzi, 1992].
Come accettare le molte sfide che dobbiamo affrontare in
questo fine secolo? La risposta di Maffesoli fa leva soprattutto
sulla ridefinizione del nostro rapporto col presente. Smettere di
odiarlo in primo luogo, e trattarlo per quello che è, per superare
quella che Alain Touraine definisce come «crescente dissociazione tra i problemi del mondo e quelli dell’io» [Touraine, 1990: 7]
che rende del tutto visibile il movimento della socializzazione della difesa dell’identità e destruttura qualsiasi discorso sul rapporto
36
tra comportamenti conformi e comportamenti devianti sancendo
la crisi di quel «campo epistemico» dal cui ambito quelle definizioni trovano «significato e applicazione» [Tomeo, 1979: 35].
In un mondo caratterizzato da grandi organizzazioni e da
industrie culturali, diventano concretamente visibili gli ambiti e
i luoghi in cui si esprime fortemente la necessità di difendere la
nostra identità: ospedali, scuola e soprattutto la televisione.
Commenta Touraine:
«Chi sono io, malato all’ospedale? Sono ancora padrone
della mia vita, del mio corpo, della mia morte, oppure sono vittima della logica impersonale delle tecniche ospedaliere? La
scuola, a tutti i livelli, non è forse sempre piú orientata verso i
bisogni del mercato del lavoro e delle aziende? Che cosa ne è
allora delle nostre preoccupazioni di salvaguardare l’istruzione,
la formazione della personalità dei bambini? E cosí la televisione provoca un sentimento di vicinanza per essere umani sino a
ieri invisibili, ma nello stesso tempo trasforma tutto in spettacolo e, a volte, in merce. In definitiva ci si può anche richiudere
nella propria identità individuale e collettiva ma non si può lasciare da parte per troppo tempo i problemi sociali piú rilevanti» [Touraine, 1990: 10].
E ormai impossibile fornire alla domanda «Chi sono? Da
dove vengo?» una sola risposta che possa restare identica per
tutta la vita:
«Ci sono invece diverse possibilità di risposta, cosí come ci
sono diverse appartenenze e diversi livelli di identità. Quale risposta si scelga, quale livello di identità venga di volta in volta
evidenziato, dipende sia dalle circostanze esteriori che dai desideri e dalle inclinazioni della persona che agisce» [Beck-Gernsheim, 2002: 138].
3. Paradigmi e «sensazione di cattivo funzionamento»
Per trovare qualche utile punto di riferimento, in una situazione molto complessa come quella che caratterizza l’attuale,
difficile passaggio d’epoca, potranno essere utili alcune delle ri37
flessioni kuhniane sul concetto di «paradigma». In particolare le
considerazioni sullo sviluppo delle discipline scientifiche potranno aiutarci a meglio riflettere sulla crisi delle società complesse e
sulla individuazione di nuovi possibili paradigmi conoscitivi.
Kuhn usa il termine «paradigma» in due sensi differenti. In
un primo senso esso denota l’intera costellazione di credenze,
valori tecniche, ecc., condivise da una data comunità. Da questo punto di vista scrive Kuhn:
«Un paradigma è ciò che viene condiviso dai membri di una
comunità scientifica, e, inversamente, una comunità scientifica
consiste di coloro che condividono un certo paradigma»
[Kuhn, 1969: 213]. Le scienze naturali hanno definito diversi
esempi di paradigmi. In particolare la fisica ottica, ha elaborato
il paradigma corpuscolare, ondulatorio, quantistico.
Nel secondo senso esso determina solo una parte di quella
costellazione, cioè soluzioni concrete che sono utilizzate come
modelli o come esempi che possono essere utilizzati per la soluzione di altri problemi che riguardano quella che Kuhn definisce «scienza normale».
Secondo Kuhn, lo sviluppo di una disciplina scientifica passa attraverso alcuni stadi fondamentali:
1) Lo stadio preparadigmatico. Questo stadio è caratterizzato
dalla carenza di convinzioni, risultati e metodi comunemente
accettati da tutti i membri di una data comunità scientifica.
2) Il periodo di ricerca normale che ha inizio con l’emergere
di un paradigma. Il paradigma definisce le opinioni riguardanti
la struttura del mondo, i metodi e le tecniche di ricerca e le teorie accettate, traccia i limiti che distinguono i problemi da risolvere da quelli da lasciar cadere. La produzione del paradigma
suscita un tipo di ricerca caratterizzato dalla socializzazione del
gruppo degli scienziati.
3) Il periodo di crisi, in cui il paradigma fino ad allora accettato incontra dei problemi che esso stesso ha generato ma che
non può risolvere. Si intuisce che nel paradigma c’è qualcosa
che non va, ma nessuno sa veramente che cosa. Nulla è considerato piú come scontato e vincolante. Col termine di «rivoluzione scientifica» Kuhn designava «quegli episodi di sviluppo
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non cumulativi, nei quali un vecchio paradigma è sostituito,
completamente, o in parte, da uno nuovo incompatibile con
quello» [Kuhn, 1969: 119].
4. Si tratta, in questo caso, di un intervento attivo nella crisi,
in qualche modo risolutore di nuovi problemi, di una fondamentale riduzione di complessità. In questo processo Kuhn individua non pochi punti di contatto nello sviluppo sociale, in
quello politico e in quello scientifico. L’elemento che accomuna
i tre ambiti è «la sensazione di cattivo funzionamento che può
portare a una crisi» [Kuhn, 1969: 120]. In questa «sensazione»
è, per Kuhn, il requisito preliminare di ogni rivoluzione. «Analogamente alla scelta fra istituzioni politiche contrastanti, –
scrive Kuhn – la scelta tra paradigmi contrastanti dimostra di
essere una scelta tra forme incompatibili di vita sociale. Poiché
ha questo carattere, la scelta non è, e non può essere determinata esclusivamente dai procedimenti di valutazione propri
della scienza normale, poiché questi dipendono in parte da un
particolare paradigma, e questo paradigma è ciò che viene messo in discussione» [Kuhn, 1969: 121].
5. Il periodo di rivoluzione, in cui prende forma un nuovo
paradigma che rende di nuovo possibile la ricerca normale.
«Il nuovo paradigma non è una conseguenza logica, un affinamento o una generalizzazione del suo predecessore; è un nuovo modo di vedere ed interpretare i fenomeni. Quindi, il mutamento non può essere descritto, e neppure ricostruito, sulla base di considerazioni logiche e metodologiche. Nessuna logica
della scoperta scientifica può spiegare il “meccanismo” del mutamento, perché esso è codeterminato da fattori esterni alla logica, e cioè psicologici e sociologici» [Amsterdamski, 1980: 346].
Schumpeter mise giustamente in risalto il fatto che le innovazioni hanno continuamente rivoluzionato la struttura economica, e considerò il «processo della distruzione creatrice»
[Schumpeter, 1977: 77] come impulso fondamentale del capitalismo inteso come «forma e metodo di evoluzione economica» [Schumpeter, 1977: 78]:
«L’impulso fondamentale che aziona e tiene in moto la macchina capitalistica viene dai nuovi beni di consumo, dai nuovi
39
metodi di produzione o di trasporto, dai nuovi mercati, dalle
nuove forme di organizzazione, che l’intrapresa capitalistica
crea» [Schumpeter, 1977: 77]3.
I processi innovativi che hanno successo agiscono sull’intero
sistema sociale dando luogo ad una fase di diffusione nella quale l’innovazione originaria viene imitata e adottata da altri imprese e da altri attori economici, culturali, politici. Schumpeter
attribuisce un ruolo fondamentale all’innovatore come personaggio eroico, eccezionale, mentre sottovaluta gli imitatori come semplici gestori di routine.
Come afferma Kuhn la transizione da un paradigma in crisi
ad uno nuovo, dal quale possa emergere una nuova tradizione
di scienza normale, non è un processo cumulativo che si attua
attraverso un’articolazione o estensione del vecchio paradigma.
È un processo che implica che si maneggi lo stesso insieme
di dati di prima, ma ponendoli in un nuovo sistema di relazioni
reciproche e dando quindi loro una diversa struttura. Ciò che
prima di Copernico era considerato un pianeta, diventa una
stella; ciò che prima di Lavoisier era considerato «aria deflogistizzata», è come ossigeno dopo la rivoluzione.
La descrizione kuhniana di questo processo richiama l’allegoria platonica della caverna. Come gli schiavi, incatenati alla
roccia, devono scambiare l’apparenza con la realtà fino a quando uno di loro riesce a spezzare i legami e a uscire dalla caverna
per annunziare ai compagni che quelle che vedono sono solo
ombre e non oggetti reali, cosí coloro che sono vincolati dal paradigma accettato non sono in grado di abbandonarlo, di vedere le cose in un’altra luce, d’identificare una stella in ciò che
hanno creduto essere un pianeta, fino a quando qualcuno che
viene da fuori – un giovane studioso o qualcuno che ha appena
cominciato a lavorare in quel campo e non è incatenato alla tradizione – non guarda i fatti da un altro punto di vista, e persuade gli altri che di lí si ha una migliore prospettiva cognitiva.
Tuttavia in questa analogia vi è un’importante differenza.
Secondo Platone, lo schiavo, che spezzava le catene ed annunziava ai suoi compagni che avevano visto solo le ombre degli
oggetti reali, avrebbe rivelato la verità assoluta. Secondo Kuhn,
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colui che presenta il nuovo paradigma avanza una proposta altrettanto relativa quanto la vecchia: invita semplicemente a spostarsi in un’altra caverna. Il nuovo paradigma permetterà di risolvere alcuni problemi che non si potevano risolvere prima, ma
costringerà a ignorarne altri. Imporrà un modo particolare di
vedere il mondo, di scegliere i problemi, di accettare e confutare le soluzioni proposte [Amsterdamski, 1980: 347].
La crisi determina le condizioni per ricercare un nuovo paradigma, ma anche fattori psicologici e sociologici concorrono
a determinare quale concezione determinerà il nuovo paradigma. Come dice Amsterdamski, «la storia della scienza non è soltanto storia della ragione».
«Nessuna logica della scoperta scientifica può da sola spiegare il modo di superare la crisi generate nel quadro dei paradigmi accettati. La storia «interna» della scienza – cioè il processo di sviluppo della conoscenza ricostruito secondo alcune
regole metodologiche – non coincide col reale processo evolutivo della scienza, poiché quelle stesse regole metodologiche
sono codeterminate paradigmaticamente. Le rivoluzioni sono
dei punti di discontinuità nell’evoluzione della scienza: cambiano il nostro modo di vedere il mondo. Per comprendere questo
genere di mutamenti occorre andare al di là della logica della
scoperta scientifica (nel senso popperiano del termine): i fattori
extralogici, cioè psicologici e sociologici, da cui dipendono i
mutamenti di paradigma, sono altrettanto importanti di quelli
logici, ai fini della comprensione di questi processi» [Amsterdamski, 1980: ibidem].
Questa concezione relativistica è fatta propria da Raymond
Boudon il quale afferma che le costruzioni rappresentate da
modelli, nonostante costituiscano strumenti indispensabili di
conoscenza, sono sempre sorpassate dalla realtà [Boudon,
1985] e da Herbert A. Simon, il quale, in contrapposizione al
cosiddetto «modello olimpico» di razionalità, ha avanzato l’ipotesi che il processo evolutivo produca creature capaci di razionalità limitata e che, anche se il mondo fosse attraversato da
una fittissima rete di interconnessioni, nella maggioranza delle
situazioni che ogni giorno ci troviamo a fronteggiare, possiamo
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riconoscere solo un numero modesto di variabili che si impongono sulle altre [Simon, 1984].
Sulla base delle analisi kuhniane si può forse dire che oggi è
proprio il periodo di crisi a caratterizzare l’attuale passaggio
della modernità. I paradigmi fino ad oggi accettati incontrano
dei problemi che essi stessi hanno generato ma che non possono risolvere. Si intuisce che nel paradigma c’è qualcosa che non
va, ma nessuno sa veramente che cosa. Nulla è considerato piú
come scontato e vincolante. Col termine di «rivoluzione scientifica» Kuhn designava «quegli episodi di sviluppo non cumulativi, nei quali un vecchio paradigma è sostituito, completamente, o in parte, da uno nuovo incompatibile con quello»
[Kuhn, 1969: 119].
4. Approssimazioni
«Per quanto ancora senza dubbio industriali, esse hanno subito cambiamenti tanto profondi che è impossibile, oggi, presentarle sotto i loro vecchi nomi o ricorrendo alle vecchie teorie. Le società occidentali sono ora in diversi modi “postindustriali”: “postfordiste”, “postmoderne” e persino “poststoriche”» [Kumar, 2000: VIII].
Accenti non diversi usano i giuristi. Ad esempio cosí Michel
van de Kerchove e François Ost cercano di definire l’epoca postmoderna:
«Come definirla, mentre sembra sfuggire tra la profusione
dei segni e la mancanza di significato, e si sottrae alla concettualizzazione, tra l’estrema prossimità del villaggio globale e la
distanza radicale imposta dalla nostra finitezza umana? Cosa
conservare della pluri-dimensionalità del reale e del volatilizzarsi delle immagini, della fluidità dei discorsi e del groviglio
delle azioni, della moltiplicazione dei riferimenti e della dissoluzione dei significati? Comunicazioni, flusso, reti. Tutto ciò
comunica, certo: ma che cosa dice esattamente? Alcuni penseranno: declino, decadenza, disincanto. Altri diranno:
apparizione, novità, creatività. Avranno ragione gli uni come gli
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altri. Questo è il marchio della nostra epoca: la sovrapposizione
di tutti i codici, la loro messa in risonanza istantanea – una specie di accelerazione che rende quasi simultaneamente sia la
causa che l’effetto, l’azione e la reazione, un’idea e il suo contrario» [van de Kerchove, Ost, 1995: 3].
Mentre il moderno classico dislocava in direzione del futuro
le sue aspettative, il discorso sul Postmoderno è un discorso senza futuro. Una modernità, dunque, in frantumi, senza futuro,
non consapevole di se stessa. Giustamente Luhmann può affermare che manca una teoria adeguata, «una semantica del rapporto tra struttura e semantica, una teoria dell’autodescrizione
della società che si riproduce in strutture» [Luhmann, 1995: 13].
Evidentemente Luhmann pensa alla sociologia che, in questa
direzione, potrebbe avere un ruolo rilevante. Per quanto concerne l’analisi di merito, Luhmann sostiene che forse la proposta piú interessante è quella di Anthony Giddens che individua
alcune caratteristiche fondamentali del moderno nella «timespace – distanciation» e nel «reflexive monitoring of action».
Questi processi avrebbero «effetti “globali” su tutto l’ambito dell’agire» con conseguenze anche sul piano delle strutture e
delle semantiche. Quello che manca, secondo Luhmann è una
teoria sociale che sappia andare oltre l’orizzonte della modernità, che «non sia moderna nel senso che domani sia già superata» [Luhmann, 1995: ibidem].
«Questa carenza ha forse soprattutto ragioni metodologiche. La sociologia vuole infatti essere prevalentemente una
scienza empirica, intendendo però poi il concetto di “empirico” in senso molto ristretto, come propri rilevamento e valutazione di dati, e dunque come interpretazione di una realtà che
ci si è costruiti da soli. La possibilità di descrivere fatti indiscussi con concetti teorici diversi, di presentarli diversamente
ponendo altre distinzioni, non è presa in considerazione. Proprio questo metodo, che invero presupporrebbe una considerevole preparazione teorico specialistica, potrebbe essere il piú
fecondo» [Luhmann, 1995: 13-14; corsivo mio]. La sociologia
per Luhmann deve recuperare la possibilità di verificare «nuove combinazioni» e «nuove distinzioni».
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Un punto di riferimento per verificare queste analisi sul moderno è relativo al concetto di tecnica che in senso lato Luhmann definisce come «semplificazione funzionante», «forma di
riduzione della complessità costruibile e realizzabile, nonostante che non si conosca il mondo e la società in cui ciò avviene: la
tecnica viene verificata su se stessa» [Luhmann, 1995: 15].
In questo modo l’individualità moderna deve fare i conti
con nuovi imperativi sociali:
«L’interrogativo non è piú: “cosa si deve essere?”, ma: “come si deve essere?”. Se l’individuo viene posto ai margini della
tecnica, egli acquista la distanza necessaria per osservare il proprio osservare. Egli non sa piú solamente di sé. Egli non attribuisce piú solo a se stesso un nome, un corpo e una collocazione sociale. In tutto questo si sente minacciato. E in luogo di
questo acquista la possibilità di un’osservazione di secondo livello. L’individuo nel senso moderno è colui che è in grado di
osservare il proprio osservare. E chi non ci arriva, o non vi viene condotto dal proprio terapeuta, ha la possibilità di leggere
romanzi e di proiettarsi su se stesso, come uno, nessuno e centomila» [Luhmann, 1995: 15].
Ma la descrizione moderno non può essere affidata al solo
binomio tecnica-individualità.
Luhmann descrive la società moderna, dal punto di vista sociologico, strutturalmente come un sistema di funzioni differenziate che si autonomizzano, dentro e fuori la società, dal loro ambiente.
Da ciò deriva che i sistemi funzionali che si articolano per il
tramite della differenziazione, divenuti autonomi, si distinguono, dentro e fuori della società, rispetto al loro ambiente attraverso le proprie operazioni.
Come vedremo meglio piú avanti, bisogna cominciare a far
familiarizzare la ricerca con operazioni legate ai concetti di «distinzione», di «autoreferenza» e di «eteroreferenza».
Luhmann insiste particolarmente sulle categorie di «sistema» (che dispone della distinzione tra autoreferenza ed eteroreferenza) e su quella di «distinzione» la quale impedisce che il sistema si confonda costantemente con l’ambiente circostante
[Luhmann, 1995].
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Ma su questi aspetti, di portata epistemologica, ci soffermeremo in sede di analisi della proposta luhmanniana e baileyana
di una nuova teoria dei sistemi.
Il linguaggio dell’incertezza non si è radicato solo nei diversi
ambiti della vita quotidiana, ma attraversa le scienze e tutta
l’attività cognitiva stessa destabilizzandone la portata interpretativa. Viviamo quindi in società che non siamo piú in grado di
identificare, di cui non sappiamo disegnare la fisionomia, se
non attraverso una inflazione di definizioni, spesso sovrapposte
o contrapposte, semanticamente anodine e incapaci di ridurre
la complessità e l’opacità dei fenomeni sociali.
«Società dell’informazione» o «Società del rischio»? «Società della conoscenza» o «Società dell’incertezza»? «Società
delle reti e della comunicazione globale» o «Società degli individui»? Dovremo far riferimento ad una società che si atomizza
e individualizza progressivamente pervasa dal disagio, dalla solitudine, dall’incomunicabilità, dalle insicurezze?
Al linguaggio dell’incertezza sembrano informate le trasformazioni dello spazio pubblico e della politica sotto l’azione dei
media elettronici. Una ragione in piú per sviluppare adeguatamente una riflessione scientifica multidisciplinare sulla centralità che assume la dimensione del rischio nella ridefinizione del
concetto di sfera pubblica. Ma le contraddizioni sembrano
coinvolgere non solo la società, ma gli stessi tentativi di coglierne gli aspetti piú rilevanti.
L’inflazione del termine rischio, ad esempio, porta a confondere «rischio» e pericolo. Si è diffusa capillarmente una sensibilità alle nuove minacce prodotte dall’uomo stesso attraverso
l’uso indiscriminato e incontrollato delle scienze e delle tecnologie e l’egemonia incontrastata dell’economico.
«Nessuna società potrebbe tuttavia pretendere di sradicare la
totalità dei pericoli che si profilano necessariamente all’orizzonte.
Si constata piuttosto che, nel momento in cui i rischi piú forti
sembrano scongiurati, il cursore che segnala la sensibilità ai rischi
si sposta e fa affiorare nuovi pericoli. Ma oggi questo cursore è
collocato cosí in alto da stimolare una domanda di sicurezza del
tutto irrealistica. Cosí la “cultura del rischio” fabbrica pericoli.
45
Per fare un esempio un po’ triviale, la fame è stata a lungo per
l’umanità il vero rischio alimentare, e lo rimane in molti paesi.
Al contrario, nei paesi del benessere, è il fatto di mangiare che è
divenuto pericoloso: oltre al prione della mucca pazza, l’elenco
dei prodotti cancerogeni presenti negli alimenti aumenta ogni
mese. Puntare al rischio zero in campo alimentare significherebbe perciò astenersi dal cibo (“principio di precauzione”?). Dal
momento che questa strada è impraticabile, rimangono il sospetto e l’ansia: l’insicurezza è anche nel piatto» [Castel, 2004: 63].
Siamo di fronte a scelte che diventano decisive nella fase di
passaggio da una formazione economico-sociale ad un’altra. Ma
la politica non sembra in grado di operare scelte di questo tipo.
«La tecnologia è prodiga di promesse, propone ormai soluzioni per qualsiasi problema. Coglie la politica in un momento
di debolezza e la sfida con un’invadenza che può ridurne spazio e funzione. Non si discute il contributo grandissimo che le
tecnologie già danno, e continueranno a dare, all’efficienza amministrativa ed alla stessa costruzione di un nuovo spazio politico. Ma sempre piú spesso accade che i poteri pubblici centrali
o locali, si abbandonino ad una sorta di fiduciosa (o incosciente deriva tecnologica» [Rodotà, 2004]
5. «Modernità in polvere»: postdemocrazia
e mutamento giuridico
Colin Crouch usa l’espressione «postdemocrazia» nella convinzione che «ci muoviamo sempre di piú verso il polo postdemocratico e questo spiega il diffuso senso di disillusione e disappunto per il livello di partecipazione e per il rapporto tra la
classe politica e la massa dei cittadini in molte, forse nella maggior parte delle democrazie avanzate» [Crouch, 2003: 7] e Giovanni Jervis afferma che «il motivo principale per cui la psicologia – insieme alla scienza economica e alla sociologia – ha
qualcosa da dire sui problemi del mondo, consiste nel fatto che
è tramontata l’illusione di trovare soluzioni politiche generali»
[Jervis, 2002: 17].
46
Il politologo Andrew Gamble, indagando sull’attuale disincanto e fatalismo occidentale nei confronti della politica come
formazione, come espressione caratteristica di questo fatalismo,
si sofferma ad analizzare «l’incessante discorso di «fine» cui si
è assistito negli ultimi anni:
«Fine della storia, dell’ideologia, dello Stato-nazione, dell’autorità, della sfera pubblica, e persino della politica. Il nostro attuale destino sembrerebbe essere quello di vivere nelle gabbie di
ferro create da vaste forze impersonali, derivanti dalla globalizzazione e dalla tecnologia, in una società che è al tempo stesso antipolitica e apolitica priva della speranza e dei mezzi per immaginare o perseguire un futuro alternativo» [Gamble, 2002: 7].
Ad Appadurai sembra strutturale la rottura causata «dalle
forze congiunte della mediazione elettronica e dalla migrazione
di massa» [Appadurai, 2001: 24].
La «mediazione elettronica di massa» e la «mobilitazione
transnazionale» hanno infranto il monopolio degli Stati nazionali
come entità autonome nel processo di sviluppo della modernità.
Lo svilupparsi di diversi tipi di «sfere pubbliche diasporiche»
costituisce la cifra, l’indicatore specifico del moderno globale.
L’estensione e il mutamento dei diritti va di pari passo con il
fenomeno della globalizzazione e l’affermazione di un diritto
transnazionale. Ecco allora che si registrano tutta una serie di fenomeni che, in linea con l’ipotesi della radicalizzazione della modernità di Giddens, vanno nella direzione di un disembedding, di
uno «sganciamento» del diritto dallo spazio e dal tempo: positivizzazione, generalizzazione, universalizzazione, internazionalizzazione, specificazione.
In primo piano è la «mobilità dell’universo normativo» [Pizzorno, 2002; Ferrarese, 2000].
Beck partendo dalle profonde trasformazioni in corso [Beck,
2000b] individua i contorni di una relazione inedita tra mutamento sociale e mutamento giuridico.
La domanda chiave da cui parte Beck è la seguente: quali
sono le basi e i punti di riferimento materiali di «legami collettivi» transnazionali che non sono piú retti da un luogo (vicinato», dall’origine (famiglia) o dalla nazione (solidarietà dei citta47
dini organizzata dallo Stato)? Come verranno prese le decisioni
vincolanti a livello postnazionale e collettivo insieme? Come
sarà possibile l’agire politico nell’era della globalizzazione?
Quali trasformazioni giuridiche accompagneranno la «despazializzazione della vita e dell’agire sociale e politico che ormai
caratterizza la nostra vita quotidiana?» [Beck, 2000b: 222].
«Il risultato è che le comunità sociali e l’agire politico che su
queste si basa non può piú essere concepito come collocato in
un solo luogo. Nel dibattito sulla globalizzazione culturale e
politica, in questo senso va delineandosi un nuovo «grande racconto sulla despazializzazioni delle organizzazioni e delle identità sociali e politiche» [Beck, 2000b: ibid.].
Mentre scriviamo queste considerazioni è pienamente in
corso la campagna elettorale americana per le elezione presidenziali. Mai come questa volta è stato cosí forte e diffuso il riconoscimento che le presidenziali Usa non riguardano piú soltanto l’America e che gli Stati Uniti non possono piú condurre
le campagne politiche in uno «splendido isolamento» in un
mondo sempre piú interdipendente.
«Solo una dozzina d’anni fa, all’inizio degli anni ’90, il responsabile della campagna elettorale di Clinton, James Carville,
raccomandò allo staff elettorale di non pensare ai successi del
primo presidente Bush in Kuwait, sollecitandoli a concentrarsi
sull’economia perché le elezioni avevano sempre riguardato
l’America, gli affari interni – posti di lavoro, fisco, servizio sanitario, sicurezza sociale e mercato azionario – non l’Iraq, l’America latina, la Francia o la Cina. Non è piú cosí. Non dopo l’11
settembre, da quando Aids, riscaldamento globale, criminalità
internazionale, capitali finanziari, armi di distruzione di massa
e terrorismo presentano tutti il volto malevolo d’una nuova interdipendenza» [Barber, 2004].
La prospettiva della despazializzazione del diritto, in relazione
con la «grande trasformazione» planetaria richiama, senza pretesa alcuna di riproporne il pensiero, alcune interessanti analisi del
giurista che ad una concezione del diritto inteso come «unità di
ordinamento e di localizzazione» seppe far seguire la riflessione
sul diritto «preglobale» e globale. Carl Schmitt concluse a prefa48
zione a Der Nomos der Erde [1950] forse una delle sue opere migliori, con parole inaspettatamente cariche di speranza:
«Il pensiero degli uomini deve nuovamente rivolgersi agli ordinamenti elementari della loro esistenza terrestre. Noi siamo alla ricerca del regno di senso della terra […] È agli spiriti pacifici
che è promesso il regno della terra. Anche l’idea di un nuovo nomos della terra si dischiuderà solo a loro» [Schmitt, 1950: 15].
Le trasformazioni sono profonde e appaiono per molti versi
irreversibili.
«La trasformazione delle soggettività quotidiane attraverso
la mediazione elettronica e attraverso l’opera dell’immaginazione non è solo una fatto culturale e intimamente connesso alla
politica, attraverso i nuovi modi in cui gli affetti, gli interessi e
le aspirazioni individuali tagliano sempre piú trasversalmente
quelli dello Stato nazionale. Le “sfere pubbliche diasporiche”
create da questi incontri non sono piú di piccole dimensioni,
marginali o eccezionali. Sono parte della dinamica culturale
della vita urbana nella maggior parte dei paesi e continenti in
cui la migrazione e la mediazione di massa costituiscono assieme un nuovo senso del globale come moderno e del moderno
come globale» [Appadurai, 2001: 26].
Le «sfere pubbliche diasporiche» [Appadurai, 2001: 40] si
pongono come «crogioli di un ordine politico transnazionale»
[Appadurai, 2001: 41] i cui motori sono i mass media e i movimenti di profughi. Ciò contribuisce a frantumare la modernità
riducendola, appunto, in polvere.
Uno dei piú rilevanti mutamenti dell’ordine culturale globale è creato proprio dagli strumenti di comunicazione di massa,
cinema, televisione e video in testa, che trasformano il ruolo
stesso dell’immaginazione. Si determina insomma una nuova
«pratica culturale quotidiana attraverso cui l’opera dell’immaginazione viene trasformata» [Appadurai, 2001: 24].
L’immaginazione diventa una «pratica sociale»:
«Non piú pura fantasia (oppio dei popoli, le cui attività reali
stanno altrove), non piú pura via di fuga (da un mondo definito
prima di tutto da piú concreti obiettivi e strutture), non piú
passatempo per le élite (quindi non rilevante per la vita della
49
gente comune), e non piú pura contemplazione (irrilevante per
forme originali di desiderio e soggettività), l’immaginazione è
diventata un campo organizzato di pratiche sociali, una forma
di opera (nel duplice senso di lavoro fisico e di pratica culturale organizzata), e una forma di negoziazione tra siti d’azione
(individui) e campi globalmente definiti di possibilità. Questo
affrancamento dell’immaginazione collega il gioco della parodia (in alcuni contesti) al terrore e alla coercizione degli Stati e
dei loro avversari. L’immaginazione è oggi essenziale a tutte le
forme d’azione, è in sé un fatto sociale e l’elemento cardine del
nuovo ordine globale» [Appadurai, 2001: 50].
6. Il disagio del moderno e della postmodernità
«Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi
stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni.
Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere che ci si possa, un bel giorno trovare?» [F. Nietzsche, 1996: 3].
In apertura del suo Il disagio della postmodernità [Bauman,
2002] cita un libro apparso a Vienna nel 1930 col titolo Das
Unglück in der Kultur, ribattezzato nella successiva edizione
Das Unbehagen in der Kultur. Lo aveva scritto Sigmund Freud.
Nella versione inglese il libro uscí col titolo che poi sarebbe diventato in lingua inglese Civilization and Its Discontents e in
lingua italiana Il disagio della civiltà [Freud, 1971]. Con questo
titolo Freud lanciò una sfida alla «corrente consapevolezza di
sé dell’era moderna» [Bauman, 2002: IX], sconvolgendo la coscienza europea e determinando «il modo in cui ancora oggi
pensiamo alle previste e impreviste conseguenze dell’avventura
moderna» [Bauman, 2002: ibidem].
Scriveva Freud: «Mentre l’umanità ha fatto progressi costanti nella conquista della natura e può aspettarsene di piú
grandi ancora, un analogo progresso nella regolamentazione
dell’umana convivenza non può venir accertato con sicurezza
ed è probabile che in ogni tempo, come di nuovo anche oggi.
50
molti uomini si siano domandati se quel poco di civiltà che è
stato acquisito meriti davvero di essere difeso. Si potrebbe credere che debba essere possibile una nuova regolamentazione
dei rapporti umani che, per il fatto stesso di rinunciare alle
coercizione e alla repressione delle pulsioni, estingua le fonti
dell’insoddisfazione connessa con la civiltà, di modo che, non
piú travagliati dalla discordia interna, gli uomini possano dedicarsi all’acquisizione dei beni e al loro godimento. […] Sembra
piuttosto che ogni civiltà debba edificarsi sulla coercizione e
sulla rinuncia pulsionale; non sembra nemmeno certo che, una
volta cessata la coercizione, la maggioranza degli individui
umani sia pronta ad accollarsi l’esecuzione del lavoro richiesto
per l’acquisizione di nuovi beni materiali» [Freud, 1971: 147].
C’è una notevole assonanza tra Freud e l’ultimo Simmel della
Lebensanschauung [1997] e del Konflikt der modernen Kultur
[1976] che il primo individua nella repressione delle pulsioni e il
secondo nella «tirannia» delle forme, nel disagio della cultura.
Il mutamento continuo dei contenuti della cultura è per Simmel indice, ad un tempo, della fecondità della vita, ma anche della sua profonda contraddizione «in cui sta il suo eterno divenire
e mutarsi di fronte all’obbiettiva validità e l’autoaffermarsi delle
sue manifestazioni e forme, con le quali o nelle quali essa vive»
[Simmel, 1976: 107]. La vita muore e diviene costantemente nel
rapporto dialettico con le forme che si autonomizzano raggiungendo «una validità superiore al momento ed emancipata dalla
pulsione della vita stessa» [Simmel, 1976: 108]. Ciò determina
«una latente opposizione che scoppia ora in questo ora in quel
campo del nostro essere e agire» [Simmel, 1976: ibid.].
Nietzsche è punto di riferimento di queste riflessioni simmeliane. Egli prendendo le mosse dalla vita come quella «che
solo da sé determina se stessa ed è l’unica sostanza di tutti i
suoi contenuti» ha trovato «lo scopo che dà significato alla vita,
e che era a questa negato di trovare all’esterno di sé, nella vita
medesima, la quale è per sua essenza, incremento, continuo accrescimento, sviluppo della pienezza e potenza, di forza e bellezza, ricavato dal suo proprio fondo» [Simmel, 1976: 112]. Il
significato della vita non consiste in alcun suo fine determina51
bile, «ma nello svolgimento di se stessa, mediante il quale acquista, pel fatto che diviene sempre piú vita, un valore che si
eleva all’infinito» [Simmel, 1976: ibid.].
Coi mutamenti culturali che «divergono» rispetto ai lenti
mutamenti del passato, con lo sviluppo di nuove forme che vogliono abbattere le vecchie, si va determinando una sorta di
«opposizione contro la forma in generale» [Simmel, 1976: 113].
«Cosí si fa palese in tutte queste ed in molte altre manifestazioni il conflitto in cui la vita, per sua necessità essenziale, precipita, non appena essa, nel senso piú largo, diviene cultura, vale a dire o creatrice o atta ad appropriarsi ciò che è stato creato. Questa vita deve o generare forme o muoversi entro forme.
Noi siamo, sí, immediatamente la vita, e con questo si congiunge un sentimento, di cui non si può dare una piú precisa descrizione, di essere, di forza, di moto verso una meta; ma noi tale
sentimento possediamo solo nella forma che esso ogni volta assume, la quale, come ho già sottolineato, nel momento del suo
presentarsi si mostra appartenente ad un altro ordine, fornito
di diritto, e significato attinti da sé, e che afferma e pretende
un’esistenza sopravitale» [Simmel, 1976: 132].
Secondo Simmel tutto ciò apre una contraddizione profonda rispetto all’essenza della vita stessa che è caratterizzata da
una «dinamica fluttuante», dall’incessante differenziazione d’ognuno dei suoi momenti»:
«La vita è indissolubilmente vincolata alla necessità di diventare reale solo in forma del suo opposto, il che vuol dire in
una forma. Questa contraddizione diventa piú flagrante e sembra piú inconciliabile a misura che quella interiorità, che noi
non possiamo che chiamare semplicemente vita, si fa valere
nella sua pura energia senza forma, e a misura, d’altro lato, che
le forme, nella loro rigida esistenza per sé stante e nella loro
pretesa di possedere diritti imprescrittibili, si mettono avanti
come il vero senso e valore della nostra esiste; forse dunque
nella misura in cui la cultura si è sviluppata» [Simmel, 1976:
132-133].
I processi di razionalizzazione danno vita a patologie che
mortificano spesso le coscienze, le capacità di donne e uomini:
52
«La razionalità oggettiva veicolata dalle istituzioni, dai saperi e dalle forme di vita, si affida a meccanismi «giroscopici» di
autoregolamentazione, che certo transitano attraverso la coscienza individuale, ma solo in forma di automatismi anonimi,
respingendo – per loro natura – l’intervento di un pensiero non
preventivamente piegato a una tecnica, non instradato su percorsi virtualmente già programmati e preordinati. Senza un
supplemento di energia soggettiva, ogni tentativo imprevisto di
modificazione, di reinterpretazione e di riquadramento delle
procedure o dei contenuti specifici in contesto di senso diversi
o piú articolati (ossia ogni ri-soggettivazione dell’oggettività) rischia di venire ignorato o penalizzato» [Bodei, 2002: 184].
Dopo aver ricordato che la civiltà, «edificata sulla repressione delle pulsioni», ci fa guadagnare qualcosa ma allo stesso
tempo ci fa perdere dell’altro, Bauman riprende alcuni temi al
centro della riflessione freudiana. A proposito della bellezza
tanto ricercata dalla modernità: «questa cosa inutile che ci
aspettiamo che la civiltà stimi». In merito alla sporcizia: «ogni
genere di sporcizia sembra incompatibile con la civiltà». Sull’ordine: «ordine è una specie di coazione a ripetere che decide, grazie a una norma stabilita una volta per tutte, quando,
dove e come una cosa debba essere fatta, in modo da evitare
esitazione e indugio in tutti i casi simili tra loro».
Secondo Bauman, a sessantacinque anni dalla pubblicazione
de Il disagio della civiltà, qualcosa di importante è cambiato:
«Il tipico disagio della modernità derivava dal fatto di dover
pagare la sicurezza restringendo la sfera della libertà personale,
e quindi dal non poter impostare la vita sulla ricerca della felicità. Il disagio della postmodernità deriva invece da un ricerca
del piacere talmente disinibita che è impossibile conciliarla con
quel minimo di sicurezza che l’individuo libero tenderebbe a
richiedere» [Bauman, 2002: XII].
L’analisi interdisciplinare sulla natura della vita sociale, sottolinea la dimensione della socialità come difesa nei confronti
dell’angoscia. Questa difesa, che si articola ai diversi livelli della
realtà, individuale, istituzionale e societaria ha certamente una
53
forte relazione col classico problema dell’ordine. Senza ordine –
si fa rilevare – la vita quotidiana non sarebbe sopportabile
Nella conduzione della vita quotidiana evitiamo il panico,
costruiamo e conserviamo le nostre identità, organizziamo le relazioni sociali nel tempo e nello spazio, condividiamo significati.
Viene meno la sicurezza che è la condizione essenziale della
comunicazione, del dialogo tra le culture e, spesso si approfondisce la contraddizione tra individuo e sistema:
«Siamo indotti a cercare, come Ulrich Beck ha causticamente osservato, soluzioni personali a contraddizioni sistemiche;
cerchiamo la salvezza individuale da problemi comuni. Tale
strategia ha ben poche speranze di sortire gli effetti desiderati,
dal momento che non intacca le radici stesse dell’insicurezza;
inoltre, è precisamente questo ripiegare sulle nostre risorse e
capacità individuali che alimenta nel mondo quell’insicurezza
che tentiamo di rifuggire» [Bauman, 2001: V].
La postmodernità ci immerge in un mondo impalpabile e
imprevedibile fatto di liberalizzazione, flessibilità, competitività
e caratterizzato allo stesso tempo da endemica incertezza che
costringe ciascuno di noi a consumare «la propria ansia da solo,
vivendola come un problema individuale» [Bauman, 2001: V].
Manca, dunque, un’adeguata teoria della società capace di
gettare qualche luce sulla natura e le implicazioni dei processi di
de-strutturazione degli spazi tradizionali della politica, in una fase caratterizzata da trasformazioni tecno-sociali che deformano
e determinano lo sfaldamento delle tradizionali modalità di partecipazione politica e di formazione del «discorso pubblico».
Manuel Castells fa riferimento alla «società informazionale»,
attribuendo a questa forma dell’organizzazione sociale e produttiva un’accezione diversa da quella implicata nella piú diffusa definizione di «società dell’informazione». La nuova struttura
sociale «è associata alla nascita di un modo di sviluppo mai visto
prima, l’informazionalismo, storicamente plasmato dalla ristrutturazione del modo di produzione capitalista alla fine del XX
secolo» [M. Castells, 2002: 15], in realtà, aggiunge Castells, «conoscenza e informazione costituiscono elementi critici in tutti i
modi di sviluppo, in quanto il processo produttivo è sempre ba54
sato su un certo livello di conoscenza e di elaborazione delle
informazioni. Tuttavia, la peculiarità del modo di sviluppo
informazionale consiste nel fatto che la sua fonte principale di
produttività è l’azione della conoscenza sulla conoscenza stessa.
L’elaborazione dell’informazione è volta al miglioramento della
tecnologia di elaborazione delle informazioni in quanto fonte di
produttività, in un circolo virtuoso di interazione tra le fonti del
sapere della tecnologia e l’applicazione della tecnologia allo scopo di perfezionare la generazione della conoscenza e l’elaborazione delle informazioni» [Castells, 2002: 17-18].
7. La società mondiale del rischio
«Sguardo cosmopolita significa che in un mondo di crisi
globali e di pericoli generati dal progresso le vecchie distinzioni
– tra dentro e fuori, nazionale e internazionale, noi e gli altri –
perdono il loro carattere vincolante e che per sopravvivere c’è
bisogno di un nuovo realismo, un realismo cosmopolita» [U.
Beck, La società cosmopolita, 2003: 24].
«“Post” è la parola in codice per un disorientamento che si
fa moda. Rinvia ad un oltre che non sa nominare, ma resta legato ai contenuti che nomina e nega, nell’irrigidimento di ciò che
è noto. Passato piú “post”: è questa la ricetta di fondo con cui
noi, in verbosa e ottusa incomprensione, fronteggiamo una
realtà che ci appare in disgregazione» [Beck, 2000: 13].
Un’idea di fondo si impone: siamo testimoni oculari di una
rottura all’interno della modernità.
Questa rottura va colta nel dinamismo plastico di una modernità che si sta liberando dalla sagoma della società industriale classica per darsi una nuova forma: la forma, appunto,
della «società (industriale) del rischio». La comprensione di
questo processo è aspetto essenziale per comprendere il difficile bilanciamento delle contraddizioni tra continuità e rottura
della modernità le quali si riflettono nella contrapposizione tra
modernità e società industriale, tra società industriale e società
del rischio [Beck, 2000].
55
Nel XIX secolo la modernizzazione ha dissolto la vecchia
struttura della società feudale con la sua organizzazione per ceti
e ha prodotto il quadro di fondo della società industriale, allo
stesso modo, oggi, la modernizzazione si muove, non senza processi contraddittori, in direzione del dissolvimento della la società industriale e fa sorgere da essa il profilo di un’altra società:
«Nel XIX secolo la modernizzazione ebbe luogo sullo sfondo del suo opposto: di un mondo fatto di tradizioni e di una
natura che andava conosciuta e dominata. Oggi […] la modernizzazione ha consumato e perduto il suo opposto, e si ritrova
confrontata con se stessa, con le premesse e con i principi funzionali della società industriale. La modernizzazione interna all’orizzonte di esperienza premoderno è sostituita dalla modernizzazione riflessiva. Come nel XIX secolo furono demistificati
i privilegi di ceto e le immagini del mondo religiose, oggi il disincanto investe la comprensione della scienza e della tecnica
caratteristiche della società industriale classica, le modalità della vita familiare e lavorativa, i ruoli maschili e femminili. […]
Oggi è questo nuovo antagonismo tra modernità e società industriale (in tutte le sue varianti) a far apparire sfocati i nostri
quadri di riferimento – abituati come siamo a pensare la modernità nelle categorie della società industriale. La tesi di questo libro è che siamo testimoni non della fine, ma dell’inizio
della modernità, di una modernità proiettata al di là dei suoi
caratteri industriali classici» [Beck, 2000: 15].
Come motore della trasformazione della società, non vale
piú la razionalità finalizzata a uno scopo, ma la conseguenza secondaria che sempre piú si addensa attorno a questioni generali
e vitali: rischi, pericoli, individualizzazione, globalizzazione
[Beck, 1999].
La distinzione tra società industriale e società del rischio è
necessaria perché i rischi di quella «razionalizzazione continua
della società industriale che comunemente si chiama modernizzazione» creano nuove forme della coscienza e dell’organizzazione sociale. Laddove il problema centrale della società industriale tradizionale consisteva nella necessità di legittimare la
distribuzione diseguale della ricchezza socialmente prodotta, il
56
problema della società del rischio consiste nella distribuzione e
limitazione di rischi associati, nella cultura e nella politica, a
pericoli reali.
Rischio, pericolo e sicurezza sono le quintessenze della comunicazione sui problemi della società attuale. Ha fatto notare
Beck che nello stesso modo in cui con la crescita della weberiana Zweckrazionalität cresce anche l’incalcolabilità delle sue
conseguenze, anche «nella società del rischio le conseguenze
sconosciute e non volute assurgono al ruolo di forza dominante
nella storia e nella società» [Beck, 2000: 29].
Il disastro di ∂ernobyl, il terrorismo, gli sconvolgimenti climatici, le crisi economiche e finanziarie, la manipolazione genetica ci hanno ormai fatto toccare con mano che, oltre alle
economie e ai consumi, sono diventati globali anche i pericoli.
Viviamo ormai in quella che Beck definisce «società mondiale
del rischio». Tutto ciò non solo porta a ridefinire concetti come
«terrorismo e guerra», «globalizzazione economica e neoliberismo», «Stato e sovranità», «guerra e pace», «sicurezza interna e
sicurezza esterna» ma anche le procedure stese attraverso le
quali cerchiamo di conoscere la realtà. È necessaria, per diversi
aspetti una ridefinizione delle scienze a partire dalla rifondazione concettualmente, empiricamente e organizzativamente della
sociologia «come scienza transnazionale della realtà» [Beck,
2001: 20]. La sociologia può avere un ruolo importante all’interno dello spazio che si è aperto per un «confronto cosmopolitico attorno ai fini, ai valori, ai presupposti e ai percorsi delle
modernità alternative» [Beck, 2001: 20].
Ciò richiede una ridefinizione dei saperi, dei rapporti tra le
scienze e dei percorsi formativi, in sintesi quella che Beck definisce «svolta epistemologica».
«È questa svolta epistemologica a dischiudere un nuovo orizzonte: lo sguardo cosmopolita costituisce il nucleo di un adeguato senso della realtà. Esso non è una semplice idea, una mera contro-immagine, ma una necessità esistenziale per aprire alle sfide della globalità il senso dell’irrealtà, la scienza dell’irrealtà del nazionale» [Beck, 2003: 27].
57
A circa un mese dell’attentato terroristico dell’11 settembre
2001, Ulrich Beck fa un appello alla necessità della chiarezza e
della precisione concettuale e sostiene che è ormai diventata
una questione di sopravvivenza la critica pubblica «dei concetti
zombie con i quali pensiamo e agiamo politicamente» [Beck,
2001b]. Il terrorismo transnazionale ha aperto un nuovo capitolo nella «società mondiale del rischio».
«Chi vede il mondo come rischio terroristico diventa incapace di agire. È questa la prima trappola predisposta dai terroristi. La seconda trappola è questa: il rischio del terrorismo percepito e politicamente strumentalizzato scatena i bisogni di sicurezza che cancellano la libertà e la democrazia, vale a dire ciò
che rende superiore la modernità. Se ci vediamo posti di fronte
alla scelta: libertà o sopravvivenza è già troppo tardi, perché
realisticamente la maggioranza dell’umanità deciderà contro la
libertà. Il pericolo piú grande non è dunque il rischio, ma la sua
percezione, che libera la fantasia del pericolo, privando cosí la
società moderna della sua capacità d’azione» [Beck, 2001b].
Per contrastare efficacemente il terrorismo transnazionale,
per Beck è necessario un «sistema di Stati cosmopolitico basato
sul riconoscimento dell’alterità degli altri». In questo sistema
cosmopolitico Beck vede la possibilità di superare ogni concezione «zombie» della politica e recuperarne su scala planetaria
la forza di orientamento.
Jeremy Rifkin parla di una visione del mondo radicalmente
nuova basata su «un insieme di postulati completamente differenti da quelli che informano il nostro pensiero al giorno d’oggi» su cui quella che Ulrich Beck definisce «società mondiale
del rischio» [Beck, 2003: 7] non può piú rinviare attenzione e
una piena, seppur tardiva, assunzione di responsabilità etica.
Da questo punto di vista si può ben dire che non è per indulgere ad una retorica, ad una metafisica o ad una «filosofia
senza empiria» [Beck, 2001a: 29] della globalizzazione che Ulrich Beck è indotto a parlare – come già prima si metteva in
evidenza – della necessità «di rifondare e fondare concettualmente, empiricamente e organizzativamente la sociologia come
scienza transnazionale della realtà» [Beck, 2001a: 20]. La sociologia può avere un ruolo importante all’interno dello spazio
58
che si è aperto per un «confronto cosmopolitico attorno ai fini,
ai valori, ai presupposti e ai percorsi delle modernità alternative» [Beck, 2001a: 20].
La globalizzazione è un processo pluridimensionale che ha
effetti collaterali diversi. Non c’è soltanto una globalizzazione
economica: «La globalizzazione è anche una pluralizzazione
culturale, la nuova necessità di sviluppare forme di vita transnazionali. A questo si aggiunge il fatto che anche nel campo politico abbiamo a che fare con una pluralizzazione di attori, che non
ci sono piú soltanto Stati che agiscono tra di loro intrattenendo
relazioni diplomatiche, ma che emerge un gran numero di nuovi
attori transnazionali» [Beck, 2001: 49; corsivi miei].
E forse in quest’ottica si muove la forma di potere tipica di
quella che Zygmunt Bauman definisce «epoca liquido-moderna» [Bauman, 2002] col suo nuovo tipo di potere globale che
ha come obiettivo primario «l’abbattimento di tutti i muri che
ostacolano il flusso di nuovi poteri globali fluidi» [Bauman,
2002: XIX].
Perché il «potere globale» possa diffondersi il mondo deve
essere senza barriere:
«Qualsiasi rete densa e fitta di legami sociali, e in particolare
una rete profondamente radicata nel territorio, è un ostacolo da
eliminare. I poteri globali sono intenti a smantellare tali reti per
poter godere di una costante e crescente fluidità, la principale
fonte della loro forza e garanzia della loro invincibilità. Ed è la
caducità, la friabilità, l’inconsistenza e la provvisorietà dei legami e delle reti di interazione umana che consente, in ultima analisi, a tali poteri di assolvere il loro intento» [Bauman, 2000].
Beck, si chiede che cosa abbiano in comune l’11 settembre
2001, il disastro di ∂ernobyl, gli sconvolgimenti climatici, il dibattito in materia di manipolazione genetica, la crisi finanziaria
dei paesi asiatici e la minaccia attuale di attentati terroristici, e
segnala un paradosso fondamentale: quello tra il nostro linguaggio, la nostra capacità di comunicare e la realtà. Questo paradosso ha due facce: la prima riguarda la nostra capacità di «nominare», «definire», «comprendere» la difficilissima fase della
vicenda planetaria che stiamo vivendo e di intervenire in essa; la
seconda, strettamente collegata alla prima, consiste nella estre59
ma difficoltà di «creare un linguaggio o un sistema di simboli
che informasse i cittadini delle discariche di scorie radioattive. Il
problema consisteva nel capire quali caratteristiche dovesse avere per poter comunicare lo stesso messaggio anche a distanza di
diecimila anni» [Beck, 2003: 7-8]. Sul secondo problema, quello
di instaurare un dialogo con un futuro lontano, sul quale si sofferma Beck con un efficacissimo esempio, non c’è stata soluzione: una commissione nominata ad hoc dal Congresso americano,
composta da fisici, antropologi, linguisti, studiosi del cervello,
psicologi, biologi molecolari, archeologi, artisti, ecc., dopo aver
studiato i simboli piú antichi dell’umanità, la struttura di Stonehenge (1500 a.C.) e delle piramidi, la storia della ricezione di
Omero e della Bibbia, ha dovuto ammettere il fallimento.
Beck conclude quella che è stata definita, da tantissimi punti di vista, «società dell’informazione», altro non è, in realtà,
che l’esatto contrario: cioè una «società dell’incertezza»4, una
«società mondiale del rischio» come dice Beck, una società che
non riesce ad informare le generazioni future sui pericoli che
abbiamo disseminato nel mondo con l’utilizzazione di determinate tecnologie:
«Nel mondo moderno, il divario tra la lingua dei rischi
quantificabili, in base ai quali pensiamo e operiamo, e il mondo
dell’incertezza non quantificabile, che abbiamo creato noi stessi, si amplia sempre piú, seguendo il ritmo dello sviluppo tecnologico. Le decisioni che abbiamo preso in passato in materia
di energia nucleare e quelle attuali in merito allo sfruttamento
dell’ingegneria e della manipolazione genetica, della nanotecnologia, dell’informatica e cosí via scatenano conseguenze imprevedibili, incontrollabili e addirittura incomunicabili, che minacciano la vita del nostro pianeta» [Beck, 2003: 9-10].
Il concetto di rischio è fortemente intrecciato con la storia
della modernità. Esso presuppone, comunque, che i decisori
cerchino di rendere prevedibili e controllabili le conseguenze
latenti o imprevedibili delle scelte operate. La specificità dell’attuale situazione è, a dir poco, allarmante:
«La novità della società mondiale del rischio consiste nel
fatto che le conseguenze e i pericoli globali frutto delle decisioni della nostra civiltà sono in netto contrasto con il linciaggio
60
del controllo istituzionalizzato e con la promessa di controllare
la situazione nell’eventualità di catastrofi messe sotto gli occhi
dell’opinione pubblica mondiale (come nel caso di ∂ernobyl,
ma ora anche dagli attacchi terroristici di New York e Washington). È proprio in questo che consiste l’esplosività politica
della società mondiale del rischio, che ha il suo fulcro nella società dei mezzi di comunicazione di massa, nella politica, nella
burocrazia, nell’economia, ma non necessariamente sul luogo
dei fatti» [Beck, 2003: 10-11]. Si è parlato di incertezza radicale che riguarda i mondi sociali e materiali e le modalità stesse
dell’azione politica [Bennet, 1994: 3].
La nascita di una «società del pericolo globale» è un fatto
drammatico, traumatico che dissolve ogni tentativo di definire
il tipo di società in cui viviamo. La società del rischio, dunque,
può diventare sistematicamente una società della paura e quindi, sostanzialmente, una non società. Di ciò si rendeva perfettamente conto Niklas Luhmann quando osservava che «il decisore, a differenza del coinvolto, quando decide ha almeno la possibilità di tener conto della conoscenza tecnica5, della sua fiducia in se stesso, delle sue sicurezze, mentre il coinvolto dipende
dal credere che siano altri a dominare la situazione» [Luhmann, 1996: 131].
Che cosa ha rappresentato l’11 settembre, che cosa ha rappresentato l’implosione delle Twin Towers? L’attacco terroristico è stato qualcosa di piú e di diverso di una guerra, di un crimine. Per Ulrich Beck ha rappresentato fondamentalmente «il
collasso del linguaggio» che «esprime la nostra condizione nel
vivere in quella che io chiamo «società mondiale del rischio»
[Beck, 2003a: 247].
Ma è necessario chiedersi che cosa accomuna questo attentato ad episodi diversi come il disastro nucleare di ∂ernobyl, il riscaldamento globale, il morbo della mucca pazza, il confronto
sul genoma umano, la crisi finanziaria asiatica? La risposta è che
tutti questi episodi sono accomunati dal diffondersi della «società mondiale del rischio» come prodotto dell’accelerazione
dello sviluppo tecnologico e dei processi di modernizzazione.
61
«L’accelerazione della modernizzazione ha prodotto un abisso tra il mondo del rischio quantificabile, nel quale pensiamo e
agiamo, e il mondo delle insicurezze non quantificabili che stiamo creando. Le decisioni passate sull’energia nucleare e le decisioni presenti sull’impiego della tecnologia genetica, della genetica umana, della nanotecnologia genetica, ecc. hanno scatenato conseguenze imprevedibili, incontrollabili e in definitiva
incomunicabili che in ultima analisi possono mettere a repentaglio la vita sulla terra» [Beck, 2003a: 249]6.
Nella modernità la nozione di «rischio» è legata a quella di
«calcolo» e quindi alla possibilità della scienza e della tecnologia e del welfare state di rendere probabile, l’improbabile, di
programmare il futuro e quindi di proteggere il genere umano
dai pericoli. Nella società mondiale del rischio si entra nella
sfera del rischio incalcolabile, incontrollabile. Scienza e tecnologia sembrano impotenti persino nella capacità di fornirci descrizioni, letture, spiegazioni dei pericoli, delle minacce.
«Rischio incontrollabile» è una contraddizione in termini.
Eppure, è l’unica espressione adatta a descrivere le incertezze e
i pericoli di secondo ordine, innaturali, creati dall’uomo, prodotti, con i quali ci dobbiamo confrontare e che travalicano i
confini [Beck, 2003a: 249].
Non si tratta tanto del mero aumento quantitativo dei rischi,
quanto, piuttosto, di quella che Beck definisce «uscita dai confini
di rischi incontrollabili» sul piano spaziale, temporale e sociale.
I mutamenti climatici, l’inquinamento atmosferico, il buco
dell’ozono sono rischi che appartengono alla dimensione spaziale nel senso che fuoriescono dai confini degli Stati nazionali.
Il cibo geneticamente modificato e le discariche di scorie radioattive che continuano a rappresentare un pericolo per un
lunghissimo periodo appartengono alla dimensione temporale.
Nella dimensione sociale i potenziali di rischio si collegano
al problema dell’individuazione delle responsabilità, cioè alla
difficoltà di individuare in modo giuridicamente rilevante chi
commette criminalità informatica [Sette, 2000], chi causa l’inquinamento ambientale, chi determina una crisi finanziaria.
«L’espressione “rischi incontrollabili” deve essere intesa come sinonimo di ricollegare tali rischi ad una fonte precisa; essa
62
significa, cioè, che essi sono difficilmente imputabili a un particolare soggetto e che è arduo riuscire a controllarli al livello degli Stati nazionali. Significa anche che i limiti della possibilità di
assicurarsi privatamente svaniscono, in quanto questa assicurazione si basa sulla fondamentale capacità di compensare i danni e sulla possibilità di stimarne la probabilità mediante un calcolo quantitativo del rischio. In questo modo, la questione centrale nascosta nella società globale del rischio è come fingere il
controllo sull’incontrollabile – in politica, nel diritto, nella
scienza, nella tecnologia, in economia e nella vita quotidiana»
[Beck, 2003a: 250].
I conflitti ecologici sono di per sé globali; le crisi finanziarie
globali, soprattutto nella loro fase iniziale, possono essere individuate e affrontate al livello nazionale; la minaccia delle reti del
terrore globale può essere meglio contrastata con una politica
del dialogo.
È necessario andare oltre le istituzioni politiche globali nate
nel secondo dopoguerra. Già a partire dai primi anni ’70 queste istituzioni sono state sostituite con soluzioni adeguate alle
varie crisi presentatesi di volta in volta. Superare gli accordi di
Bretton Woods è urgente in quanto non possiamo restare ancora privi di un governo globale. Da questo punto di vista – come
è stato fatto notare – il peggio è che «proprio nel momento in
cui la necessità di istituzioni internazionali è piú forte che mai,
la fiducia in quelle che esistono […] non è mai stata piú bassa»
[Stiglitz, 2001: 5].
8. Paura ed entropia
«Gli occhi del caos brillano sotto i veli dell’ordine»
[J.C.F. Hölderlin].
«Il disordine come oggetto privilegiato della conoscenza: è questa
senza dubbio una delle innovazioni piú importanti del XX secolo» [Prigogine, Stengers, 1980: 92].
«Ora, l’osservatore che osserva e la mente che pensa e forma concetti sono essi stessi indissociabili da una cultura, dunque da una
63
società hic et nunc. Ogni conoscenza anche quella di tipo piú fisico, subisce una determinazione sociologica. In ogni scienza, anche
in quella di tipo piú fisico, vi è una dimensione antropo-sociale.
Immediatamente, la realtà antropo-sociale si proietta e si inscrive
nel nucleo stesso della scienza fisica» [Morin, 2001: 5-6].
«Energia e informazione sono simmetricamente correlati in modo
complesso nella società moderna. L’uso efficace dell’energia dipende dall’informazione mentre la trasmissione dell’informazione
alternativamente è solamente possibile attraverso l’uso dell’argomento che veicola il messaggio, e il consumo di energia per spostare il messaggio dalla sua posizione originaria a quella di destinazione. La relazione tra materia – energia e informazione è una
delle piú cruciali questioni che si pongono nella scienza dei sistemi. Purtroppo, questa relazione è stata trascurata e rimane frontiera della scienza dei sistemi» [K.D. Bailey, 1994: 176].
«Questo potere è un riflesso della paura; si nutre della paura; è la
paura trasposta in un’altra chiave, perché dove c’è questo tipo di
paura la mente genera potere, per proteggersi e liberarsi della
paura. Tale paura è al cuore del problema della libertà oggi. In
due modi: la tendenza di una civiltà tecnologica a creare un potere
illimitato, sia quello del governo sia quello dell’opinione; la sua capacità di provocare una volontà di conformismo attraverso i nuovi
mezzi di comunicazione» [K.D. Polanyi, 1987: 170].
«Ricordiamo ciò che ha detto Clausius: “l’universo si evolve e cresce nell’entropia”. L’entropia è la freccia del tempo. Accanto alle
leggi reversibili della dinamica ci sono le leggi irreversibili che
possiamo trovare ovunque (nel flusso del calore, nei fenomeni del
trasporto, nella chimica, nella biologia, ecc.) e un cui il futuro e il
passato possono svolgere ruoli differenti» [Prigogine, 2000, cit. in
Bindé, 2003: 160].
L’analisi luhmanniana richiama sorprendentemente certe
analisi weberiane per le quali «il progresso della differenziazione e della razionalizzazione sociale significa quindi nel suo risultato, se non assolutamente sempre, almeno normalmente, una
distanza in complesso sempre maggiore di coloro che sono praticamente immersi entro le tecniche e gli ordinamenti razionali
da questa loro base razionale – che a loro rimane in complesso
nascosta come al “selvaggio” rimane nascosto il senso delle pro64
cedure magiche del suo stregone» [Weber, 1958: 301]. Per Weber «il «selvaggio» conosce, intorno alle condizioni economiche
e sociali della propria esistenza, infinitamente piú dell’uomo
«civilizzato». E non avviene neppure universalmente che l’agire
degli uomini «civilizzati» proceda in modo soggettivamente piú
«razionale rispetto allo scopo» [Weber, 1958: ibid.].
Il guadagno di razionalità dell’uomo «civilizzato» rispetto al
«selvaggio» consiste nel suo orientamento rispetto alle due categorie della fede e della fiducia:
«1) la fede generalmente acquisita nel fatto che le condizioni
della sua vita quotidiana – tram, ascensore, denaro, tribunale,
esercito, medicina, ecc. – siano fondamentalmente di carattere
razionale, cioè prodotti umani accessibili alla conoscenza, alla
creazione e al controllo razionale; 2) la fiducia nel loro funzionamento razionale, cioè conforme a regole note, e non già irrazionale – quale è quello dei poteri che il selvaggio vuole influenzare attraverso il suo stregone – e quindi nella possibilità, almeno in linea di principio, di «fare i conti» con esse, di “calcolare”
il loro atteggiamento, di orientare il proprio agire in base ad
aspettative precise, create per loro mezzo» [Weber, 1958: 302].
In un testo di trentacinque anni fa, Vertrauen. Ein Mechanismus der Reduktion sozialer Complexität [1968], recentemente
tradotto in italiano, Luhmann fa vedere come la funzione della
fiducia si dispieghi «nella tensione fra presente e futuro» [De
Giorgi, 2002] nella quale «si proietta nel presente il dramma
dell’incertezza e il rischio del non sapere» [De Giorgi, 2002:
XVII]. Il sapere, infatti, esclude il rischio e non ha bisogno della fiducia. «Il non sapere, invece, impone al singolo, al sistema
personale o sociale, la necessità di reperire un dispositivo di assorbimento dell’incertezza che rischia di paralizzare l’agire»
[De Giorgi, 2002: ibid.].
«Il fondamento di ogni forma di fiducia è piuttosto il presente come continuum ininterrotto di eventi che si avvicendano, come totalità degli Stati rispetto ai quali gli eventi possono
accadere. Il problema della fiducia consiste dunque nel fatto
che il futuro racchiude molte piú possibilità di quelle che possono essere messe in atto nel presente e che perciò possono es65
sere trasferite nel passato. L’insicurezza concernente quanto è
accaduto è solo la conseguenza della circostanza elementare
che non tutto il futuro può diventare presente e perciò stesso
passato. Il futuro trascende la capacità dell’uomo di anticiparlo. Eppure egli deve vivere nel presente con un futuro sempre
troppo complesso. Per questa ragione deve ridimensionare il
suo futuro a misura del suo presente, vale a dire ridurre la complessità» [Luhmann, 2002: 19].
In Familiarità, confidare e fiducia, Luhmann sostiene che i
grandi sistemi funzionali si basano non soltanto sul confidare
ma anche sulla fiducia.
«In assenza del primo elemento, si diffonderà anche un sentimento di insoddisfazione e alienazione e perfino di anomia,
che può anche non avere un impatto immediato sul sistema.
Ma se manca il secondo elemento si trasforma il modo in cui la
gente prende decisioni su questioni importanti. La fiducia, è
bene ricordare, è un atteggiamento che consente di prendere
decisioni che comportano rischi. Lo sviluppo della fiducia e
della sfiducia dipende dal milieu locale e dall’esperienza personale. Queste condizioni possono essere estese dalla cultura televisiva, come nel caso dei leader politici. La verifica e il controllo della fiducia e la percezione continua degli eventi simbolici che finiscono per distruggerla richiedono un ambiente relativamente concreto. Dipendono da una riduzione strutturale
preliminare della complessità. Richiedono inoltre una relazione
visibile con la propria decisione di accettare un rischio» [Luhmann, in Gambetta, 1989: 134].
Oggi, come si accennava sopra, la società del rischio può diventare sistematicamente una società della paura e quindi, sostanzialmente, una non società.
Secondo Luhmann questo processo regressivo può essere
efficacemente contrastato, come vedremo piú avanti, solo attraverso il valore universale della comunicazione.
Luhmann sostiene che la «particolarità dei rapporti di persona a persona» consiste nel fatto che «essi generano inevitabilmente comunicazione e, mediante comunicazione (selettiva),
sistemi sociali» [Luhmann, 1985b: 127-128].
66
Il discorso riguarda anche il rapporto di fiducia nei confronti non solo delle scelte, delle decisioni, ma anche della stessa tecnica.
«Oggi la situazione è tale – osserva Luhmann – che il rischio
è diventato un importante fatto sociale. Lo possiamo capire
quando si tratta di scegliere una professione, di difendere i
propri interessi economici, di individuare un luogo di residenza. Una volta erano decisioni semplici, che non comportavano
grandi riflessioni. Oggi la società non ammette errori o ripensamenti, ogni decisione può essere definitiva, e pericolosa» [Luhmann, 1993]. Luhmann individua i settori a piú alta densità di
rischio nell’economia, nella finanza, nel gioco delle banche centrali, nella pianificazione della produzione. Un altro potente
fattore di rischio è rappresentato dall’intrusione delle mafie e
della criminalità organizzata nelle manovre finanziarie. Alla domanda se possiamo imparare a convivere con il rischio, Luhmann fornisce una risposta che in qualche modo lo avvicina alle posizioni di Habermas:
«Occorre sviluppare una nuova cultura, che non si basi sulla presunzione di sapere le cose meglio degli altri, nella quale ci
si confronti con il rischio e si contrappongano i differenti punti
di vista, che renda possibile il dialogo e il ricambio delle posizioni maggioranza-minoranza, che informi e aggiorni» [Luhmann, 1993]7.
Solo nella comunicazione c’è la possibilità, anche per Luhmann, di allentare la morsa della paura, di quella paura che addirittura «può sollevare la pretesa di essere universale: volonté
générale» [Luhmann, 1989: 226].
Questo obiettivo coinvolge ormai, nel terzo millennio, l’umanità su scala planetaria ed esprime una semplice prospettiva
nella quale possa essere la comunicazione e non la paura a diventare volontà generale.
In questo c’è assoluta consonanza di vedute tra Luhmann e
Norbert il quale aveva affermato che «la comunicazione è il cemento della società, e […] coloro che si sono assunti il compito
di preservare i canali di comunicazione sono gli uomini maggiormente responsabili della sopravvivenza o della rovina della
nostra società» [Wiener, 1966: 161].
67
In verità questa problematica relativa alla paura e alla tendenza da parte delle tecnologie a creare poteri illimitati e incontrollati, non era estranea a Karl Polanyi il quale osservava
acutamente:
«Questo potere è un riflesso della paura; si nutre della paura; è la paura trasposta in un’altra chiave, perché dove c’è questo tipo di paura la mente genera potere, per proteggersi e liberarsi della paura. Tale paura è al cuore del problema della libertà oggi. In due modi: la tendenza di una civiltà tecnologica a
creare un potere illimitato, sia quello del governo sia quello
dell’opinione; la sua capacità di provocare una volontà di
conformismo attraverso i nuovi mezzi di comunicazione» [Polanyi, 1987: 170]. E richiama una brano assai significativo della
Great Transformation dove è contenuta la critica piú radicale
che forse sia stata mai mossa al mito del mercato autoregolato:
«La nostra tesi è che l’idea di un mercato autoregolato implicasse una grossa utopia. Un’istituzione del genere non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare
la sostanza umana e naturale della società; essa avrebbe distrutto l’uomo fisicamente e avrebbe trasformato il suo ambiente in
un deserto. Era inevitabile che la società prendesse delle misure per difendersi, ma qualunque misura avesse preso, essa ostacolava l’autoregolazione del mercato, disorganizzava la vita industriale e metteva cosí in pericolo la società in un altro modo.
Fu questo dilemma a spingere lo sviluppo del sistema di mercato in un solco preciso ed infine a far crollare l’organizzazione
sociale che si basava su di esso» [Polanyi, 1974: 6].
In Soziologie des Risikos, Luhmann si chiede se non sia
un’illusione aspettarsi aiuto da una maggiore comunicazione (o
in quelle che della comunicazione definisce «varianti»: maggiore informazione, maggior sapere, maggior partecipazione, maggior apprendimento, maggior riflessione) e se non sia destinata
ad allargarsi la sfiducia e, quindi, la cesura tra decisori e coinvolti. La sua risposta è che allo stato attuale la ricerca empirica
esibisce il quadro problematico tracciato e che l’attenzione del
ricercatore si sposta «sulla speranza di poter compensare o almeno attenuare questa contrapposizione mediante la comunica68
zione» [Luhmann, 1996: 129]. Il punto è quello di «rendere oggettivo» l’atteggiamento nei confronti del rischio, per orientare
la disponibilità al rischio del singolo da un lato e, dall’altro, per
eliminare timori e paure che possono attaccare in modo irreparabile una disponibilità al rischio ragionevole. La fiducia negli
esperti, nelle tecnologie, nelle promesse e nella scrupolosità degli altri diminuisce e rischia di diventare sfiducia.
Il riferimento alla comunicazione è comunque fortemente
problematico. Per Luhmann la comunicazione esplicita è un’operazione che «mette a fuoco un mondo in un’affermazione, alla quale, poi, nel corso dell’ulteriore comunicazione, si può rispondere con un sí o con un no; è un’operazione, in altri termini, che può procedere in base all’accettazione o al rifiuto»
[Luhmann, 1996: 132]. L’autopoiesi del sistema comunicativo
della società si compie attraverso il «sí» e il «no», l’accettazione
e il rifiuto. Essa, attraverso il codice linguistico, «impedisce che
alla fine non vi sia piú nulla da dire perché tutti si sono messi
d’accordo su tutto» [Luhmann, 1996: ibid.].
«Il punto è evidente: le possibilità dei sí e dei no non sono
distribuite in modo uguale e nel normale funzionamento della
società si può prevedere in modo sufficiente se comunicando
un’offerta di senso ci si troverà di fronte a un sí o a un no. Ne
deriva cosí una prevalenza della comunicazione accettata su
quella rifiutata, ma questo non è dovuto all’essenza della comunicazione e nemmeno, come crede Habermas, a una norma
connaturata che rende valide in senso razionale soltanto le comunicazioni che cercano il consenso; al contrario, l’alta quota
di comunicazione che ricerca il consenso è il risultato della
continua computazione di computazioni, cioè del reticolo ricorsivo di tutti i singoli contributi alla comunicazione» [Luhmann, 1996: 132-133]. La comunicazione dipende da altre comunicazioni, essa è «ricorsiva» (la ricorsività ha una funzione
ordinatrice) in quanto è connessa ai risultati di operazioni precedenti e si pone in connessione con ulteriori operazioni.
Per Luhmann la memoria è una sorta «processo» di riconoscimento della ricorsività delle operazioni che evita la ripetizione di operazioni già compiute e si apre a ciò che è nuovo nel
mondo.
69
«La memoria, cioè, non coincide con l’informazione, ma riguarda piuttosto la capacità di selezionare, di restare indifferenti nei confronti della maggioranza dei dati ambientali per
individuarne alcuni che producono delle differenze, cioè delle
informazioni, per il sistema. La memorie è per cosí dire preliminare rispetto all’informazione: è la condizione dell’informatività di alcuni dati, nei confronti di una molteplicità di altri che
vengono dimenticati» [Esposito, 2001: 10]. La memoria, quindi, coordina gli eventi, organizza degli schemi, crea delle regole
per la realizzazione delle operazioni, crea un ordine e tollera il
disordine.
Jürgen Habermas, dal canto suo, fa notare che, a proposito
di globalizzazione, a scavalcare le frontiere non sono solo i
mercati, ma anche i processi di alterazione dei cicli ecologici
degli impianti macrotecnologici:
«Termini come “∂ernobyl”, “buco dell’ozono”, “piogge acide”, ecc. segnalano incidenti o modificazioni ambientali che –
per intensità e ampiezza – non sono piú governabili all’interno
del quadro nazionale e quindi sovraccaricano la capacità organizzativa dei singoli Stati. Le frontiere diventano permeabili
anche sotto un altro aspetto. Alludiamo alla criminalità organizzata e soprattutto al commercio di droga e di armi» [Habermas, 1999: 42].
Per quanto riguarda l’ingegneria genetica, Habermas sostiene che essa potrebbe «modificare la nostra autocomprensione
di “esseri di genere”, nel senso che essa potrebbe intaccare, assieme alle moderne concezioni del diritto e della morale, anche
i non aggirabili fondamenti normativi dell’integrazione sociale»
[Habermas, 2002: 29].
Nell’ultima sua opera, il decimo volume dei Kleine politische
Schriften, significativamente intitolato Der Gespaltene Western
(L’Occidente diviso) [Habermas, 2004], Habermas vede nella
realtà planetaria del dopo 11 settembre un Occidente che sembra avere perso definitivamente l’unità di valori comuni. Al liberalismo americano di tipo imperiale la vecchia Europa sembra contrapporre un lento processo di costruzione identitaria e
un’idea diversa di diritto internazionale. È possibile – si chiede
70
Habermas – parlare ancora di costituzionalizzazione del diritto
internazionale?
In un recente articolo Jacques Derrida e Jürgen Habermas
[Derrida, Habermas, 2003] avevano scritto:
«Durante i mesi di piombo precedenti lo scoppio della guerra in Iraq una divisione del lavoro moralmente oscena aveva
scosso le coscienze. La grande operazione logistica dell’inarrestabile spiegamento di forze militari e la febbrile operosità delle
organizzazioni di soccorso umanitario si innestarono l’una nell’altra come ruote dentate. Lo spettacolo si svolse senza interruzioni anche sotto gli occhi della popolazione irachena che –
privata di qualsiasi possibilità di iniziativa – ne sarebbe stata la
vittima. Senza dubbio la forza dei sentimenti ha rimesso in piedi i cittadini europei. Nello stesso tempo, però, la guerra ha reso gli europei consapevoli del fallimento, profilatosi da lungo
tempo, della loro politica estera comune. Come in tutto il mondo, la disinvolta violazione del diritto internazionale ha acceso
anche da noi in Europa una polemica sul futuro dell’ordine internazionale». Derrida e Habermas arrivano a dubitare dell’efficacia della futura costituzione europea in assenza di una politica comune.
«Una politica progettuale che non esiga dagli Stati membri
soltanto la rimozione degli ostacoli alla concorrenza, ma anche
una volontà comune, è attenta alle idee e al modo di sentire dei
cittadini stessi. Le deliberazioni a maggioranza circa le scelte e
gli orientamenti piú impegnativi in politica estera possono essere accettate solo se le minoranze perdenti sono solidali. Questo
però implica un sentimento di appartenenza politica. Le popolazioni devono in un certo modo «accrescere» le loro identità
nazionali, estendendole a una dimensione europea. […] Tutto
questo solleva la questione dell’«identità europea». Solo la consapevolezza di un destino politico comune e la convincente
prospettiva di un futuro comune può far sí che la volontà della
maggioranza non tolga la voce alle minoranze sconfitte» [Derrida, Habermas, 2003]. L’ultimo Habermas sembra essere diventato piú pessimista ed evocare la fatale presenza di Carl
71
Schmitt incarnatasi in un liberalismo imperiale che antepone la
sua etica a quella del diritto internazionale.
L’antico progetto kantiano di un ordine civico mondiale sembra paurosamente arretrare – nelle parole di Habermas – ad una
serie di «apporzionamenti», come direbbe Schmitt, del diritto
internazionale, di diversi campi del diritto internazionale, cioè
ad una divisione de facto del mondo in sfere di interessi come
riequilibrio rispetto all’ordine mondiale unipolare americano.
Da quella che definisce «roboante monotonia dell’attuale
letteratura sociologica sulla globalizzazione», Peter Sloterdijk
estrapola alcuni motivi che avranno possibilità di diventare nei
prossimi secoli «qualcosa come temi perenni o universali giornalistici»: «da un lato l’argomento secondo il quale occorra di
tanto in tanto concordare un modus vivendi tra il locale e il globale; dall’altro, il fatto che le comunità politiche «dopo la modernità» abbiano dato inizio a una nuova costellazione «al di là
dello Stato nazionale»; in terzo luogo, che il mondo globalizzato venga sottoposto a una tensione politica e morale dovuta al
prodursi di una differenza sempre piú marcata tra ricchi e poveri; in quarto luogo, che l’avanzante logoramento della biosfera e l’inquinamento delle acque, dell’aria e del terreno trasformi l’umanità, volens nolens, in una comunione ecologica di interessi dal cui dialogo e dalla cui coscienza dovrà prendere piede una nuova cultura della ragione in grado di prevedere le
conseguenze future piú lontane» [Sloterdijk, 2002: 169].
«La legge dell’entropia e le leggi della termodinamica costituiscono la base di un modo di pensare postmoderno riguardo
al mondo e al nostro rapporto con esso, un modo di pensare che
ci può aiutare a fermare l’attuale crisi energetica e l’effetto serra
e può renderci uniti in una nuova visione comune del futuro.
«La visione entropica del mondo promuove una scienza empatica, basata sul recupero del senso di rapporto e partecipazione alla vita sul pianeta in opposizione alla scienza piú convenzionale che enfatizza il senso di distacco e di sfruttamento
della natura e dell’ambiente. In una civiltà entropica si dovrebbero progettare nuovi strumenti e nuove tecnologie per una sostenibilità a lungo termine e per la durata delle risorse al di là
72
dell’iperefficienza a breve e della profittabilità immediata. Una
cultura entropica identifica ogni attività economica semplicemente come un’estensione dell’ambiente.
«[…] La crisi energetica sempre piú acuta e la tendenza al
riscaldamento globale ci obbligheranno a riconsiderare gli assunti fondamentali sui quali la nostra civiltà è stata costruita. Il
nuovo quadro entropico ci offre un mezzo per una efficace critica all’ordine esistente e per dare le direttive di un nuovo corso per il secolo appena iniziato» [Rifkin, 2003: 35-36].
L’ultimo Rifkin sostiene che negli ultimi duecento anni le società occidentali hanno consumato piú energia di tutte le altre civiltà che si sono succedute nel nostro pianeta. Indubbiamente
l’energia ha avuto un ruolo importante nell’ascesa, nella crisi e
nel crollo delle civiltà, ma, come dimostrarla la crisi attuale e il
preoccupante surriscaldamento della terra, «le leggi che regolano
il flusso dell’energia sono ferree e, se infrante, possono far crollare un sistema sociale. Le leggi della termodinamica stabiliscono,
in ultima analisi, quali sono i limiti che l’uomo, nel tentativo di
dominare l’ambiente, non potrà mai oltrepassare. Le società che
tentano di superare i vincoli imposti dal loro stesso regime energetico rischiano la catastrofe» [Rifkin, 2003: 35-36]. L’infrastruttura energetica centralizzata e gerarchizzata agisce sull’economia
e determina una vulnerabilità complessiva della società.
La trasformazione della natura del lavoro, l’emergere delle
biotecnologie e la rivoluzione nelle comunicazione, la crescente
temporalizzazione dell’attività economica e «la lotta globale fra
economia e cultura stanno cambiando radicalmente sia la concezione sia la realtà del mondo che ci circonda» [Rifkin, 2002: 6].
John R. McNeill nel suo Something New Under the Sun sostiene che il «il mondo in cui viviamo è ecologicamente insostenibile» [McNeill, 2002: 456], parla di «società umane insostenibile» alcune delle quali sono scomparse e di altre numerose che
sono sopravvissute perché hanno saputo cambiare modo di vita.
«Inconsapevolmente il genere umano ha sottoposto la terra
a un esperimento non controllato di dimensioni gigantesche.
Penso che col passare del tempo, questo si rivelerà l’aspetto piú
importante della storia della storia del XX secolo […] Nella
73
storia dell’ambiente, il XX secolo acquisisce una peculiarità a
motivo dell’accelerazione davvero impressionante di un gran
numero di processi che comportano il cambiamento ecologico
[...] Talvolta le differenze quantitative diventano qualitative. È
il caso del cambiamento ambientale verificatosi nel XX secolo.
Scala e intensità dei cambiamenti sono stati tali da trasformare
in questioni globali fenomeni che da millenni avevano carattere
locale. L’inquinamento atmosferico ne è un esempio. L’uomo
ha inquinato l’aria a livello locale da quando ha appreso a domare il fuoco, mezzo milione di anni fa. La fusione del piombo
in epoca romana sulle coste mediterranee arrivava a inquinare
l’aria delle regioni artiche. Ultimamente, però, l’inquinamento
atmosferico ha raggiunto livelli e dimensioni tali da ripercuotersi sui processi fondamentali della chimica dell’atmosfera
mondiale. Insomma, la scala del cambiamento può mutare le
condizioni di fondo» [McNeill, 2002: 3-4].
Non è possibile avere sicurezza sulla forma che potrebbe assumere un disastro ecologico, quello che è possibile affermare
è che prima o poi si presenteranno dei problemi ecologici seri.
«Il futuro, persino quello prossimo, non è semplicemente
inconoscibile, bensí precipuamente incerto. Alcuni scenari appaiono senz’altro piú probabili di altri; ma non c’è nulla di stabilito, determinato. E a ben guardare, il futuro è piú aleatorio
di quanto non sia stato: si prospettano possibilità radicalmente
diverse perché la tecnologia è diventata assai influente, perché
le idee si diffondono con grande rapidità, perché il comportamento riproduttivo – una variabile solita mutare a ritmo lentissimo – registra delle accelerazioni. Inoltre tutte queste variabili
sono piú interattive di quanto non siano in genere state in passato, sicché il sistema complessivo di società e ambienti globali
è caratterizzato da un’incertezza sempre maggiore, è piú caotico che mai» [McNeill, 2002: 457]. Negli ultimi secoli, e soprattutto nel Novecento, lo stile di vita industriale si è fondato sull’energia solare «immagazzinata», dice Rifkin in forma di carbonio, petrolio e gas naturale. La nostra civiltà si sta ora avvicinando alla fine del proprio regime energetico come testimoniano i cambiamenti naturali in atto «stupefacenti per natura e dimensione» [Rifkin, 2002: 165].
74
Le scienze naturali e sociali possono avere un ruolo di fondamentale importanza ad incidere sulle scelte che la civiltà dovrà
compiere sul proprio regime energetico. Ciò implica svolte determinanti, di sistema, la necessità di fare i conti «con il deterioramento progressivo delle proprie infrastrutture e con la conseguente morte e decomposizione della società» [Rifkin, 2002: 165].
Le società fondate sul petrolio, il regime, sono diventate «società entropiche» e la civiltà degli idrocarburi è sotto pressione.
Hans Jonas è arrivato a ritenere irrinviabile un’etica per il
futuro dell’uomo [Jonas, 1990 e 2000] e già nei primi anni ’90
osservava:
«Il pianeta è sovrappopolato, ci siamo presi troppo spazio,
siamo penetrati troppo nell’ordine delle cose. Abbiamo turbato
troppo l’equilibrio, abbiamo già condannato troppe specie all’estinzione. La tecnica e le scienze naturali ci hanno trasformato da esseri dominati dalla natura a dominatori della natura: È
questa situazione ad avermi indotto a fare un bilancio filosofico
e a chiedermi se la natura morale dell’uomo lo possa permettere. Non siamo forse chiamati, ora, a un tipo completamente
nuovo di dovere, a qualcosa che prima in verità non esisteva –
ad assumere la responsabilità per le generazioni future e la condizione della natura della terra?» [Jonas, 2000: 7].
È proprio dei primissimi anni ’90 l’esortazione di Jonas a
coltivare la paura in quanto possibilità di salvezza:
«Coltivate la paura; la paura ci aiuterà a trovare il modo per
salvarci»
Si tratta di quella paura – argomenta Jonas – che è capace di
guardare al futuro e di costringere l’uomo a pensare, a comprendere che lo spaesamento degli uomini nella società ellenistica li rendeva vittime di un dio, mentre l’odierno homeless è
vittima solo di se stesso. A nulla serve auspicare regressi di tipo
pretecnologico. Il punto essenziale è per Jonas quello di rendere la vita compatibile con l’ambiente. Questo è il senso del
prossimo secolo.
«C’è un altro segno, – osserva Jonas – che non è di per sé
molto incoraggiante ma rappresenta paradossalmente una speranza: la natura comincia a ribellarsi. Assistiamo a catastrofi
75
ambientali che potrebbero spingere i politici e le masse a fare
qualcosa per le generazioni future. Questa, però, è una speranza debole, il mio vero augurio è che l’educazione possa cambiare i costumi. Io propongo una visione per cui la natura non è
indifferente, non è “libera” da valori, non è uno dei valori che
nascono come prodotto di valutazione da parte di una mente, o
di una società. Noi abbiamo una sorta di missione: decidere liberamente che cosa fare. E dobbiamo decidere che bisogna almeno preservare, rallentare il degrado, la corsa della catastrofe.
Non è una questione psicologica, ma un problema filosofico, di
fondamento» [Baudino 1993].
In discussione sono, su scala planetaria, i principi stessi della democrazia, non soltanto in termini di sovranità condivisa
ma anche in termini di controllo territoriale dal momento che
«[…] se le frontiere territoriali e politiche diventano sempre
piú porose e permeabili, allora i principi fondamentali della democrazia liberale – cioè autogoverno, demos, consenso, rappresentanza e sovranità popolare – diventano tutti concetti problematici» [McGrew, 1997: 12].
La globalizzazione inciderebbe pertanto su aspetti fondamentali dello Stato sociale caratterizzato dalla democrazia di
massa: in primo luogo la globalizzazione agisce sulla certezza
giuridica ed efficienza dello Stato amministrativo, in secondo
luogo sulla sovranità dello Stato territoriale, in terzo luogo sull’identità collettiva e in quarto luogo sulla legittimità democratica dello Stato nazionale.
9. Conoscenza ed entropia: verso una «società entropica»?
«Disordine è qualsiasi fenomeno che, in rapporto al sistema considerato, sembra obbedire al caso e non al determinismo del sistema stesso, tutto ciò che non obbedisce alla stretta applicazione
meccanica delle forze secondo gli schemi di organizzazione prefissati. È “rumore”, in termini di comunicazione, ogni perturbazione
che alteri o disturbi la trasmissione di una informazione. L’errore
è qualsiasi ricezione inesatta di un’informazione. L’errore è qualsiasi ricezione inesatta di un’informazione in rapporto alla sua
76
emissione. Ora, per quanto riguarda la macchina artificiale, tutto
ciò che è disordine, rumore, errore accresce l’entropia del sistema,
cioè comporta la sua degradazione, la sua degenerazione e la sua
disorganizzazione. La nozione di entropia, dal momento che le
nozioni di organizzazione e di informazione sono legate, è legata
anch’essa, non soltanto alla nozione di disordine, ma anche a
quella di rumore e di errore (generatori di disordine)» [E. Morin
1994: 115-116].
«Nessuna scienza ha voluto conoscere la categoria piú obiettiva
della conoscenza, quella del soggetto conoscente. Nessuna scienza
naturale ha voluto conoscere la sua origine culturale. Nessuna
scienza fisica ha voluto riconoscere la sua natura umana. La grande cesura tra le scienze della natura e le scienze dell’uomo nasconde nel medesimo tempo la realtà fisica delle seconde, e la realtà
sociale delle prime. Ci scontriamo con l’onnipotenza di un principio di disgiunzione: esso condanna le scienze umane all’inconsistenza extra-fisica, e le scienze naturali all’inconsistenza della loro
realtà sociale. Come dice giustamente von Foerster, l’esistenza di
scienze dette sociali indica il rifiuto di permettere alle altre scienze
di essere sociali (e aggiungo di permettere alle scienze sociali di
essere fisiche)» [Morin, 2001: 6].
«Le leggi sono tentativi umani di estrapolare regole generali dai risultati sperimentali, e non l’oggetto dell’esperimento. Si tira a indovinare, e la congettura per un po’ sembra valida, perché passa
attraverso il setaccio sperimentale. Ma con un setaccio piú fine
può darsi che non passi piú. Quindi le leggi sono solo congetture,
sono estrapolazioni nell’ignoto» [R.P. Feynman, 1999: 33].
Ma come è possibile oggi ripensare la società tenendo conto
dei profondi mutamenti che si sono verificati nella struttura
della conoscenza, dell’informazione e nei rapporti stessi tra le
scienze? È possibile tornare a descrivere la società senza affrontare i nodi transdisciplinari che, per molti versi, la legano sia alle scienze umane sia alle scienze della natura?
Ma soprattutto, oggi, in un’epoca di grande tumulti, di trasformazioni profonde su scala planetaria, è possibile continuare
a pensare e ad agire attraverso pratiche, come direbbe Morin,
fondate sulla superspecializzazione da una parte, e sulla compartimentazione e il frazionamento dall’altro? [cfr. Morin, 2000].
77
Evidentemente la risposta non può che essere negativa, essendo il tema della descrizione della società della «seconda modernità» uno degli aspetti essenziali, se non il piú importante,
che piú mette in evidenza la crisi di «saperi» frammentati incapaci di stabilire nessi permanenti tra conoscenza, natura e società. Tenteremo, dunque, pur in estrema sintesi, un’analisi interdisciplinare che metta costantemente a confronto informazione, conoscenza e società cercando di tenerci distanti dalle
banalizzazioni e dalle semplificazioni. Un tentativo, dunque,
che fa proprio il modo di vedere sociologico di David Lyon
quando osserva:
«Il carattere speciale e utile della sociologia sta nel suo saper
collocare eventi e tendenze specifici nel loro piú ampio contesto strutturale e storico. In tale maniera possiamo cominciare a
distinguere tra lo scostamento di corto raggio da qualche norma e la scissione di piú lungo respiro rispetto alle condizioni
esistenti, tra il socialmente significativo e il banale e transitorio» [Lyon, 1997: 19].
In questo testo si usa l’espressione «società entropica» con
riferimento soprattutto ai lavori di Edgar Morin da una parte, e
alla grave situazione planetaria che stiamo vivendo dall’altra,
che a mio modo di vedere rende irrinviabile la riforma dei saperi e la ridefinizione delle relazioni stesse tra i saperi stessi.
Anche nelle scienze sociali le città vengono descritte come organismi dissipativi ad alta entropia e gli studi che adottano il
paradigma entropico si fanno sempre piú numerosi anche in riferimento alla relazione tra sistema economico e sistema ecologico e con «un forte impulso alla ridefinizione dei confini disciplinari e delle metodologie, in modo da tener conto anche del
problema dei fini che ciascuna disciplina o approccio si pone»
[Barca, 2002: 188].
«Non è un caso che diversi studiosi un questo campo concentrino in modo sistematico la loro attenzione su problemi di
natura epistemologica, e si interroghino sul rapporto tra l’economia e la fisica, tra le scienze biologiche e quelle sociali e storiche, tra il pensiero economico e quello filosofico. La critica al
riduzionismo economico è di fatto un punto di partenza in co78
mune e trova un terreno particolarmente fertile in ricerche di
tipo empirico (storia, antropologia, geografia dello sviluppo,
ecc.) in grado di tenere conto della diversità dei fattori che agiscono nel mondo reale, della complessità di interazioni tra
mondo umano e mondo non umano. I fondamenti stessi del
pensiero ecologico degli ultimi decenni. I suoi punti di riferimento, hanno in comune una forte trans-disciplinarità» [Barca,
2002: ibidem].
Già Norbert Wiener associava il concetto di entropia a quello di modello e lo connetteva «con il concetto di informazione e
della sua misura, che è essenzialmente una misura di ordine»
Wiener, 1966: 35]. Per Wiener «quanto piú un tipo di struttura
è probabile, tanto meno ordine esso contiene, poiché ordine significa essenzialmente mancanza di casualità» [Wiener, 1966:
ibidem]. Wiener pensa pure ai modelli sociali, o, meglio, alla
specie umana organizzata in una forma sociale, quando afferma:
«L’apparente finalità del “modello” delle specie che sopravvivono è determinato non da una forma vitale che le spinge costantemente verso livelli superiori, ma un processo di erosione,
per cui sopravvivono soltanto quelle forme che sono ragionevolmente in equilibrio con il proprio ambiente. D’altro canto,
quelle forme che sono meno in armonia con il loro ambiente
sono eliminate nel processo di competizione con le forme piú
adatte. Il modello di una specie è quindi prodotto da un processo di eliminazione» [Wiener, 1966: 65].
Come «animale che comunica in una società», che agisce
nel mondo sulla base di modelli con cui organizza il mondo
stesso sulla base delle informazioni, l’uomo può strutturare stabilmente il proprio comportamento attraverso la formazione.
Da questo punto di vista, Wiener sottolinea «la straordinaria
capacità di apprendere dell’uomo come carattere peculiare della specie» [Wiener, 1966: 110]. Si stringe, dunque un nesso forte tra formazione e informazione che scandiscono sincronicamente i processi di adattamento e di evoluzione.
«L’informazione è dunque un termine per indicare il contenuto di ciò che è scambiato con il mondo esterno non appena
noi ci adattiamo ad esso e ad esso facciamo sentire il nostro
79
adattamento. Il processo di ricezione e di utilizzazione dell’informazione s’identifica con il processo del nostro adattamento all’ambiente esterno, e del nostro vivere in modo effettivo in questo ambiente» [Wiener, 1966: 141].
Alla luce di questa impostazione ben si comprende come,
nelle intenzioni di Wiener la cibernetica non fosse tanto una
nuova scienza quanto piuttosto una disciplina che in modo
coerente e integrato metteva in comunicazione discipline diverse, nella convinzione che «noi abbiamo bisogno di un pensiero
che realmente unifichi le diverse scienze» [Wiener, 1966: 73]8.
Niklas Luhmann e Raffaele De Giorgi riprendono da George Spencer Brown, il concetto di forma [Brown, 1979].
Il messaggio raffigura, dà forma.
Il sovrapporsi di figure, di forme, come abbiamo visto, rende opache le forme non le indica. L’eccesso di notizie, di informazioni, annega nel rumore i messaggi. Questo eccesso determina, rumore, entropia.
Nella prospettiva cibernetica wieneriana il disordine entropico, il «rumore è controllabile solo attraverso la creazione di
«isole d’entropia localmente decrescente» [Wiener, 1996: 29].
Il concetto di entropia, nei confronti del quale Warren Weaver in un’esposizione classica della teoria dell’informazione
[Shannon, Weaver, 1971], mostrò entusiasmo ed esaltazione,
deriva dalla termodinamica, dove funge da complemento della
seconda legge, la tendenza inesorabile dell’universo, e di ogni
sistema isolato in esso presente, a degradare verso uno stato di
disordine crescente. In conseguenza della seconda legge, «entropia» sta a designare l’incremento di qualità dei sistemi come
mescolanza, disordine, casualità9.
Il termine turbolenza è altra qualità attribuibile all’entropia.
Essa è essenzialmente instabilità, «disordine a tutte le scale,
piccoli vortici all’interno dei grandi vortici», comporta, «una
grande dissipazione di energia», è «movimento diventato casuale» [Gleick, 2001: 124]. Da questo punto di vista «il carattere comune di tutte le definizioni possibili è che l’entropia di un
sistema fornisce una misura della capacità del sistema di subire
trasformazioni spontanee» [Elkana, Menahem, 1978: 463].
80
Secondo David Ruelle, «l’entropia misura la quantità di caso presente in un sistema» [Ruelle, 1987: 115].
In natura si riscontra una tendenza verso la degradazione dell’energia, cioè «l’energia tende a trasformarsi in energia inutile»10.
Come abbiamo già visto la sovrabbondanza di informazioni
oltre una certa soglia critica, inflaziona il senso, genera «rumore», altera la trasmissione dell’informazione [Morin, 1994], è
alla base dei processi di crescita del disordine e dell’entropia
del sistema sociale.
«Disordine è qualsiasi fenomeno che, in rapporto al sistema
considerato, sembra obbedire al caso e non al determinismo
del sistema stesso, tutto ciò che non obbedisce alla stretta applicazione meccanica delle forze secondo gli schemi di organizzazione prefissati. È “rumore”, in termini di comunicazione,
ogni perturbazione che alteri o disturbi la trasmissione di una
informazione. L’errore è qualsiasi ricezione inesatta di un’informazione. L’errore è qualsiasi ricezione inesatta di un’informazione in rapporto alla sua emissione. Ora, per quanto riguarda
la macchina artificiale, tutto ciò che è disordine, rumore, errore
accresce l’entropia del sistema, cioè comporta la sua degradazione, la sua degenerazione e la sua disorganizzazione. La nozione di entropia, dal momento che le nozioni di organizzazione e di informazione sono legate, è legata anch’essa, non soltanto alla nozione di disordine, ma anche a quella di rumore e
di errore (generatori di disordine)» [Morin, 1994: 115-116].
Da questo punto di vista il problema del ruolo da assegnare
alle nuove tecnologie dell’informazione si traduce nella possibilità che esse vengano pensate come «sistemi informativi» la cui
funzione non consiste tanto nella conservazione, trattamento e
trasmissione dell’informazione, quanto nella capacità di contribuire, in interazione con il soggetto umano, a quella riduzione
dell’incertezza che equivale alla riduzione della complessità o del
disordine che caratterizza il rapporto tra sistema e ambiente.
Il concetto di casualità o disordine è infatti quello che piú di
ogni altro identifica in negativo la categoria di informazione,
nel senso di entropia negativa11, equivalente alla riduzione del
disordine/rumore.
81
La chiave di volta della teoria contemporanea dell’entropia
è la scuola del «non-equilibrio termodinamico» e particolarmente l’equazione di Ilya Prigogine. La caratteristica che accomuna le definizioni possibili di entropia è che l’entropia di un
sistema una misura della capacità del sistema di subire spontaneamente trasformazioni. Come scrivono Elkana e Menahem:
«È illuminante esaminare la connessione tra la prima e la seconda legge in relazione alla disponibilità di energia. La prima
legge si riferisce soltanto alla «contabilità» generale dell’energia
di un sistema. La seconda legge ha invece a che fare con l’utilità dell’energia, cioè con la sua disponibilità a compiere lavoro.
Il fatto che l’entropia di un sistema chiuso aumenti sempre significa che i processi spontanei in un sistema chiuso tenderanno a trasformare in energia termica le quantità eccedenti di
energia meccanica, elettrica o chimica. Poiché non è possibile
convertire completamente l’energia termica in lavoro, il significato di questo processo è che, se si lascia a se stesso un sistema
chiuso una quantità di energia via via minore sarà utilizzabile
per ottenere lavoro. Si afferma talora che in natura si riscontra
una tendenza verso la degradazione dell’energia, ossia che l’energia tende a trasformarsi in energia inutile. Piú un sistema è
prossimo allo stato di massima entropia, piú la sua energia è
degradata» [Elkana e Menahem, 1978: 471].
Le caratteristiche fondamentali dei sistemi sono spazio, tempo, materia, energia e informazione
Per quanto riguarda le definizioni di sistema, ci sembra piú
convincente quella che delimita l’ambito del sistema alla scelta
compiuta dall’osservatore:
«Il sistema è il prodotto di una relazione osservatore-oggetto o anche, in chiave operazionale, il risultato di una operazione che l’osservatore compie su una complessità disorganizzata,
o infine, in termini costruttivistici, una “costruzione” dell’osservatore» [Lanzara, Pardi, 1980: 33].
Nei sistemi chiusi non c’è scambio di materia, in quelli aperti, invece si verifica un’interazione o uno scambio di materia o
di energia. Un sistema chiuso passa attraverso una sola fase di
organizzazione, mentre un sistema aperto attraversa almeno
due fasi organizzative distinte.
82
«Mentre gli equilibri nei sistemi chiusi si basano su reazioni
in parte reversibili, nei sistemi aperti lo stato stazionario non è
mai reversibile, non consente cioè di risalire alle condizioni iniziali né come totalità né per uno qualsiasi dei suoi elementi»
[De Angelis, 1996: 20].
Approssimativamente si può dire che «entropia» non è tanto misura dell’informazione o dell’incertezza, quanto piuttosto
una grandezza che misura il livello di «disordine» di un sistema. Essa può essere interpretata in termini probabilistici, come
entropia massima (completo disordine; ogni caso sarà egualmente probabile; sarà impossibile spiegare le variazioni di un
fenomeno) o entropia minima (completo ordine, dati un certo
numero di elementi, uno di essi sarà probabile e, dunque, la
sua probabilità sarà pari a uno, mentre tutti gli altri avranno
una probabilità pari a zero.
«Il secondo principio della termodinamica e la teoria di
Boltzmann affermano che l’entropia, cioè il disordine, dell’universo tende sempre piú ad aumentare. Certo è possibile diminuire l’entropia in una zona determinata, a condizione di farla
aumentare ancor di piú in un’altra. Come sosteneva Erwin
Schrödinger gli esseri viventi sopravvivono traendo continuamente dal loro ambiente entropia negativa. Gli organismi viventi si alimentano di entropia negativa. Un organismo si mantiene stazionario assorbendo continuamente ordine dall’ambiente in cui vive» [Schrödinger, 1970].
Si può dire che nel corso del XIX secolo le idee di ordine e
di disordine hanno un inserimento stabile all’interno dei processi conoscitivi. Ma sono opportune precisazioni sui loro significati:
«Se il disordine è divenuto oggetto della conoscenza, stabile
e riproducibile, mentre l’ordine è ormai raro e transitorio, resta
pur sempre il fatto che solo gli Stati ordinati sono in grado di
“lavorare”. Solo essi possiedono un’energia suscettibile di essere
convertita ed estratta, solo essi possono quindi funzionare come
motori. Da questo momento, l’evoluzione irreversibile verso l’equilibrio fa passare il sistema da uno Stato in cui è ordinato ed
utilizzabile a uno Stato in cui è disordinato e inutilizzabile, poi83
ché tutta la sua energia è degradata, ma in cui le sue proprietà
sono stabili e riproducibili. L’ambiguità e i paradossi che circondano la nozione di entropia […] provengono quindi in parte
dal fatto che la fisica del XIX secolo ha dissociato il carattere
utilizzabile da quello conoscibile, mentre ha mantenuto l’identificazione tra scienza ed equilibrio. Sebbene corrisponda a uno
stato di energia “degradata”, soltanto l’equilibrio è oggetto della
scienza, o comunque costituisce il riferimento rispetto al quale
si può studiare ogni altra situazione. Lo stesso stato di non-equilibrio sarà in fin dei conti caratterizzato dalla sua distanza e si
potrà credere per qualche tempo che tutte le sue proprietà siano deducibili da tale distanza. Ma ormai due forme di equilibrio
convivono senza giungere a una sintesi, una legata all’ordine,
l’altra al disordine» [Prigogine, Stengers, 1980a: 92-93].
Di grande interesse è il riferimento che Prigogine e Stengers
fanno al rapporto tra scienze biologiche e sociali.
Descrivere una società o un organismo vivente in termini di
equilibrio o in termine di ordine, si chiedono i due autori, significa «presentare una descrizione oggettiva o una descrizione
normativa?». Prigogine e Stengers fanno riferimento a questo
proposito al fatto che spesso, storicamente si è imposto il modello d’ordine basato sulla «rappresentazione vitalista» «nella
quale biologia e sociologia comunicano direttamente: il funzionamento di un organismo vivente o sociale sarebbe il prodotto
di un’armoniosa coordinazione interna degli organi, di una sana
divisione delle funzioni» [Prigogine, Stengers, 1980a: 93]. Prigogine e Stengers vanno comunque oltre l’«identificazione tra
società armoniosa e organismo in buona salute» richiamando
l’applicazione di procedimenti matematici alle scienze umane:
«Non si è semplicemente parlato della razionalizzazione di
una disciplina, che può essere realizzata dal progresso della conoscenza, ma della razionalizzazione del campo sociale, che si
suppone opera della storia. Sarà dunque affidato alla decifrazione delle tendenze della storia il compito di legittimare lo sforzo
del pensiero, e questo potrà d’ora in avanti essere oggettivo e
normativo insieme, poiché tende a uno stato che è ideale rispet84
to all’attuale irrazionalità, ma che costituisce altresí lo stato finale a cui conduce la storia» [Prigogine, Stengers, 1980a: ibid.]12.
Alla constatazione, dunque, che le leggi della natura fanno
parte di un universo «aperto» si accompagna, la consapevolezza che la passione che guida oggi le scienze costruisce «un
“passaggio stretto” tra due forme di alienazione: la sottomissione a leggi che riducono l’invenzione a un’apparenza e la rassegnazione al gioco arbitrario di avvenimenti aleatori inintelligibili. È questo momento privilegiato, questo punto di biforcazione che è al centro della Nuova alleanza, e che l’evoluzione
della fisica ha successivamente confermato» [Prigogine, Stengers, 1992, in Prigogine, Stengers, 1999: XV].
Si tratta di quella stessa consapevolezza che, vent’anni prima, spingeva Prigogine e Stengers a individuare un percorso di
superamento della classica separatezza tra scienze umane e
scienze naturali:
«Nel momento in cui scopriamo la natura nel senso della
physis, possiamo anche cominciare a comprendere la complessità dei problemi con cui si confrontano le scienze sociali. Nel
momento in cui impariamo il “rispetto” che la teoria fisica ci
impone nei confronti della natura, dobbiamo pur imparare a rispettare gli altri approcci intellettuali. Dobbiamo imparare a
non giudicare piú le varie forme di sapere, di pratica e di cultura prodotte dalle società umane, ma a incrociarle, a stabilire
nuovi canali di comunicazione. Soltanto in questo modo possiamo venire incontro alle richieste senza precedenti del nostro
tempo» [Prigogine, Stengers, 1999: 286-287]13.
Anche per Morin, è necessario reintegrare l’osservatore nell’osservazione nel senso che le dimostrazioni di impossibilità, in
relatività, in meccanica quantistica, o in dinamica hanno dimostrato che era impossibile descriverà la natura dall’«esterno»,
come semplice spettatore. Non si tratta soltanto di reintegrare
l’osservatore nell’osservazione ma di cogliere il potenziale comunicativo ed espansivo del termine «descrizione»:
Descrizione e comunicazione sono inscindibilmente connesse.
«La descrizione è una comunicazione e questa comunicazione è sottomessa a restrizioni molto generali che la fisica può imparare a riconoscere in quanto queste descrizioni ci identificano
85
come esseri macroscopici, collocati nel mondo fisico. Le teorie
fisiche presuppongono ormai la definizione di possibilità di comunicazione con la natura, la scoperta di questioni che essa può
capire – a meno che non siamo noi che non possiamo capire le
sue risposte al riguardo» [Prigogine, Stengers, 1999: 275].
Si tratta della stessa consapevolezza con la quale Edgar Morin quasi nello stesso periodo sosteneva che i progressi maggiori nelle scienze contemporanee si erano verificati reintegrando
l’osservatore nell’osservazione.
«Ora, l’osservatore che osserva e la mente che pensa e forma concetti sono essi stessi indissociabili da una cultura, dunque da una società hic et nunc. Ogni conoscenza anche quella
di tipo piú fisico, subisce una determinazione sociologica. In
ogni scienza, anche in quella di tipo piú fisico, vi è una dimensione antropo-sociale. Immediatamente, la realtà antropo-sociale
si proietta e si inscrive nel nucleo stesso della scienza fisica»
[Morin, 2001: 5-6].
Ma questa constatazione del tutto evidente è destinata a rimanere isolata:
«Nessuna scienza ha voluto conoscere la categoria piú obiettiva della conoscenza quella del soggetto conoscente. Nessuna
scienza naturale ha voluto conoscere la sua origine culturale.
Nessuna scienza fisica ha voluto riconoscere la sua natura umana. La grande cesura tra le scienze della natura e le scienze dell’uomo nasconde nel medesimo tempo la realtà fisica delle seconde, e la realtà sociale delle prime. Ci scontriamo con l’onnipotenza di un principio di disgiunzione: esso condanna le scienze umane all’inconsistenza extrafisica, e le scienze naturali all’inconsistenza della loro realtà sociale. Come dice giustamente von
Foerster, l’esistenza di scienze dette sociali indica il rifiuto di
permettere alle altre scienze di essere sociali (e aggiungo di permettere alle scienze sociali di essere fisiche)» [Morin, 2001: 6].
In direzione del superamento dell’onnipotente «principio di
disgiunzione» si muovono le considerazioni di Domenico Parisi quando, mettendo in rapporto le simulazioni – come nuovo
strumento attraverso il quale conoscere e capire meglio la
realtà – col processo di avvicinamento tra scienze sociali e
scienze naturali, osserva:
86
«Le simulazioni avranno un impatto rivoluzionario sulle
scienze dell’uomo soprattutto perché esse rappresentano una
forte spinta a superare tre grandi separazioni sulle quali si sono
costituite storicamente le scienze dell’uomo e, prima di loro, la
riflessione filosofica sugli esseri umani e le loro società: la separazione tra la mente degli esseri umani e la natura, la separazione tra gli esseri umani in quanto individui e le loro società e
culture, la separazione tra lo studio degli esseri umani e delle
loro società al presente, come sono oggi e comunque indipendentemente dal loro passato, e lo studio del passato degli esseri
umani e delle società umane, e il loro cambiare nel tempo. […]
Cosí ogni separazione tra individui e società, tra scienze della
mente e scienze sociali, viene a cadere» [Parisi, 2001: 258-259].
Il concetto di caos va inteso, dunque, come categoria – chiave per comprendere proprio la società di oggi.
«L’idea di caos è invece anzitutto un’idea energetica, essa si
accompagna al ribollire, al fiammeggiare, alla turbolenza. Il
caos è un’idea preesistente alla distinzione, alla separazione, all’opposizione, un’idea dunque di indistinzione, di confusione
fra potenza distruttrice e potenza creatrice, fra ordine e disordine, fra disintegrazione e organizzazione, fra hybris e dike14.
Diventa allora manifesto che la cosmogenesi si effettua nel, e
tramite il caos. Caos è esattamente ciò che è inseparabile nel fenomeno bifronte tramite il quale l’Universo, contemporaneamente, si disintegra e si organizza, si disperde e si costituisce
attorno a molti nuclei» [Morin, 2001: 62-63]15.
L’organizzazione è ciò che connette neghentropia e informazione. Non si ha entropia senza organizzazione preliminare
e senza «un’organizzazione produttrice-di-sé, cioè senza “anello” generativo» [Morin, 2001: 335]. Ogni sistema macroscopico può essere letto secondo la sua entropia S e la sua neghentropia –S, in rapporto alla considerazione del suo disordine o
del suo ordine; il segno + riguarda il «debito organizzazionale» il segno – riguarda il «credito organizzazionale».
La neghentropia non si differenzia dall’entropia se considerata nel quadro delle organizzazioni non attive e dei sistemi
chiusi dove può essere considerata in negativo in quanto non
87
indica alcun processo evolutivo. Nel quadro delle organizzazioni attive e produttrici-di-sé, la neghentropia ha le caratteristiche del processo originale antagonistico al processo entropico.
«Possiamo quindi definire la neghentropia in termini attivi,
produttivi e organizzazionali. In termini statistici, ogni organizzazione è un’isola di neghentropia, ma questa isola, se non nutrita di organizzazione generativa o rigenerata dall’organizzazione attiva, non può che erodersi a ogni trasformazione. Il termine
“neghentropia” è in questo caso una tautologia e significa che
un’organizzazione è organizzazione. In termini dinamici, un’organizzazione è neghentropica se è dotata di virtú organizzatrici
attive, le quali, in ultima analisi, esigono un anello ricorsivo produttore-di-sé. Il concetto di neghentropia, cosí esteso, è il volto
termodinamico di ogni rigenerazione, riorganizzazione, produzione, riproduzione di organizzazione. Esso trae origine e forma
nell’anello ricorsivo, ciclico, rotatorio, che ricomincia incessantemente e ricostruisce incessantemente l’integrità dell’essere
macchina» [Morin, 2001: 337]16. La ricorsività ha funzione ordinatrice in quanto genera forme relativamente stabili.
Viene meno, pertanto, la visione riduzionistica ottocentesca
incentrata sulla «filosofia dell’ordine e della pulizia» per la quale ogni cosa era etichettata e collocata al proprio posto. In generale si può dire che l’epistemologia della complessità, le teorie della comunicazione, la semantica e le teorie fisico-matematiche del caos «hanno dissolto il falso presupposto che fra linguaggio e realtà cosí come fra linguaggio e stati psichici, stati
interni sussista una relazione intrinseca, ordinata e coerente»
[Gargani, 1999b: 5].
Per Heidegger il pensiero occidentale identifica la verità con
la concordanza della rappresentazione con la cosa, invece linguaggio e comunicazione «non riflettono una nozione essenzialista di verità come corrispondenza, bensí hanno un carattere costitutivo e costruttivo rivestendo la funzione di un principio di
articolazione e di strutturazione dell’esperienza sulla base di fattori e di pratiche contingenti e casuali» [Gargani, 1999b: 6]17.
Michel Foucault constata che nella modernità «la profonda
inerenza reciproca di mondo e linguaggio si trova […] disfatta»
88
[Foucault, 1988: 57], «cose e parole si separeranno. L’occhio
sarà destinato a vedere, e a vedere soltanto; l’orecchio solamente a udire. Il discorso avrà bensí per compito di dire ciò che è,
ma non sarà nulla piú di ciò che dice» [Foucault, 1988: 57-58].
Jean Baudrillard sostiene che l’esigenza del pensiero è contraddittoria in quanto essa non consiste nell’adattarsi ai fatti
per astrarre da essi qualche costruzione logica quanto piuttosto
«nell’istituire una forma, una matrice d’illusione e di disillusione» [Baudrillard, 1996: 103].
Abbiamo precedentemente ricordato la posizione di Richard Rorty [Rorty, 1989] il quale colloca sullo stesso piano,
dal punto di vista metodologico, le considerazioni casuali sul
Dna o sul Big Bang e quelle che ci portarono a parlare di «secolarizzazione» o di «tardo capitalismo», dissolvendo cosí. la
dicotomia tradizionale fra scienze della natura e scienze dello
spirito, fra Naturwissenschaften e Geistwissenschaften, fra spiegazione e comprensione.
Qui ci interessa mettere in evidenza come un nuovo rapporto tra le scienze è possibile anche in rapporto ad una «svolta»
epistemologica anche a livello metodologico che sappia valorizzare i processi tendenti all’auto-organizzazione e all’ordine.
«La mente, il linguaggio, l’intenzionalità emergono da quel
processo dinamico nel quale si manifesta – come scrive Paul
Davies – la curiosa propensione della materia e dell’energia ad
auto-organizzarsi». L’idea «dell’ordine dal caos» sembra uno
sberleffo al secondo principio della termodinamica, ma non bisogna ovviamente dimenticare che i sistemi caotici che si autoorganizzano sono esposti all’ambiente e conseguentemente
possono liberare l’entropia in eccesso.
La categoria neurofisiologica del rientry definita da Edelman [Edelman, 1999], piena di floride implicazioni per la filosofia, risulta essere un aspetto della tendenza della natura all’auto-organizzazione. Quella che qui viene delineata è dunque
una «razionalità non piú concepita in termini di verità come
corrispondenza, di rispecchiamento, bensí in quelli di formazione di processi costruttivi e di modelli operativi che aprono il
discorso alle scienze empiriche e alle scienze umane in direzio89
ne del contesto sociale, delle forme di vita, della responsabilità
storica e specificamente, per quanto concerne questo lavoro,
verso le comunità pratiche, le istituzioni, le organizzazioni sociali» [Gargani, 1999b: 113-114]18.
Per quanto riguarda l’informazione in particolare, si prende
in considerazione la possibilità che, come sostiene Bakan
[Bakan, 1974], essa sia organizzata su piú livelli, e che a qualunque livello possa esserci un’intrinseca assenza di informazione.
Il processo di riduzione dell’incertezza è per sua natura discontinuo. In questo senso lo scienziato Richard P. Feynman
parlando della fisica, quanto alla ricerca tendente a individuare
nuove leggi, mette in evidenza il carattere provvisorio e discontinuo dei tentativi di riduzione dell’incertezza:
«Le leggi sono tentativi umani di estrapolare regole generali
dai risultati sperimentali, e non l’oggetto dell’esperimento. Si
tira a indovinare, e la congettura per un po’ sembra valida, perché passa attraverso il setaccio sperimentale. Ma con un setaccio piú fine può darsi che non passi piú. Quindi le leggi sono
solo congetture, sono estrapolazioni nell’ignoto» [Feynman,
1999: 33].
10. «Non equilibrio», «Nuova teoria dei sistemi»,
«Entropia sociale», «Teoria dei sistemi viventi»
Kenneth D. Bailey, uno dei massimi rappresentanti della
Nuova teoria dei sistemi (Nts), in Sociology and the New Systems Theory [Bailey, 1994], sostiene che la teoria dei sistemi
sociali negli anni ’90 non solo non è piú caratterizzata dal funzionalismo degli anni ’60, ma si apre ai contributi di altre teorie
come l’analisi del non-equilibrio, la teoria dell’entropia sociale,
la teoria dei sistemi viventi, all’autopoiesi e alla nuova sociocibernetica. Il fine di Sociology and the New Systems Theory è
proprio quello di far vedere come questi approcci possano integrarsi, in particolare la teoria dei sistemi, e la teoria sociologica.
Per molte ragioni la nuova teoria dei sistemi si è sviluppata
seguendo una traiettoria, in parte parallela, ma sostanzialmente
90
in forme diverse dal mainstream sociologico rappresentato
Alexander, Giddens, Collins. Ciò è stato causato anche dal peso e dal ruolo che il positivismo ha avuto nella sociologia americana. Turner [Turner 1990] ha sostenuto che la sociologia
americana è nel complesso antipositivistica con piccoli gruppi
di positivisti, mentre Alexander considera la sociologia americana come permeata di principi positivistici.
Alexander [Alexander, 1982] pone quattro postulati a fondamento di quella che definisce «positivistic persuasion»: 1) la
distinzione tra empirico e non empirico; 2) l’esclusione delle
questioni filosofiche o non empiriche; 3) assunzione di una
consapevolezza scientifica; 4) affrontare le questioni teoriche in
relazione all’osservazione empirica.
Secondo Bailey la teoria dei sistemi viventi possiede in qualche modo queste caratteristiche positivistiche. Miller [Miller,
1978] condivide i quattro postulati di Alexander ma indica un
relativo grado di contenuti non empirici. Gli altri piú rilevanti
approcci alla nuova teoria dei sistemi, alla teoria dell’entropia
sociale, e alla teoria autopoietica sono molto piú distanti dai
postulati alexanderiani. Esaminando la teoria dell’entropia sociale e quella autopoietica, lo studioso non distingue l’empirico
dal filosofico. Invece la teoria dell’entropia sociale e quella autopoietica hanno esplicitamente un fondamento epistemologico. Sia la teoria autopoietica, sia la «new sociocybernetics» propongono analisi sofisticate sulla relazione tra osservatore ed osservato che vanno ben oltre la semplicistica classica nozione
positivistica dell’osservazione empirica. La teoria autopoietica,
infatti, incorpora la nozione di «osservatore» nel modello in
modo sofisticato. Piuttosto che escludere le questioni filosofiche, la teoria autopoietica, spesso, le valorizza.
La teoria dell’entropia sociale non divide il livello empirico e
quello non empirico, ma mette in evidenza l’interazione dialettica fra i tre livelli: 1) concettuale; 2) empirico; 3) operazionale.
Una ragione importante per studiare la nuova teoria dei sistemi è che essa consente di studiare importanti processi sociali
trascurati da altri approcci come l’entropia, l’autopoiesi, i rapporti tra materia, energia e informazione, i processi di controllo
91
(sociocibernetica). Mentre la sociologia classica si concentrava
sui problemi dell’equilibrio, la nuova teoria dei sistemi mette in
evidenza il «non-equilibrio», formulato in gran parte in termini
di processi entropici con i quali tutti i sistemi viventi, inclusi
quelli sociali, devono confrontarsi, Insieme con quello dell’entropia e dell’autopoiesi, anche i rapporti energia-informazione
sono importanti e richiedono come afferma Bailey «integrative
theoretical attention» [Bailey, 1994: 5].
Bailey fa riferimento al neofunzionalismo [Alexander, 1982,
1990; Alexander e Colomy, 1990], alla teoria della strutturazione [Giddens, 1979, 1982, 1984] e dall’approccio conflittualista
[Collins, 1975].
La teoria sociale e la teoria dei sistemi sociali seguono traiettorie parallele e hanno dei punti in comune. Questi punti di
contatto, secondo Bailey, consentono l’inizio di un processo di
integrazione tra teoria dei sistemi e teoria sociologica. Le questioni affrontate dalla teoria dei sistemi, trascurate dal mainstream sociologico, possono apportare alla teoria sociologica
ampiezza e ricchezza di vedute.
Mentre il neofunzionalista Alexander usa il termine «sistema» occasionalmente, Giddens lo usa in modo estensivo. La
sua analisi del rapporto tra sistema e struttura è un indubbio
contributo alla teoria dei sistemi. Al di là delle polemiche contro il funzionalismo, Giddens sostiene che struttura, sistema e
strutturazione, concettualizzati in modo appropriato sono termini necessari per la teoria sociale [Giddens, 1979]. Il concetto
di struttura non è in contraddizione con quello di sistema. Il
termine «struttura sociale» comprende due elementi: i modelli
dell’interazione e la continuità dell’interazione nel tempo. Come viene usato da Giddens il termine «struttura» si riferisce a
«proprietà strutturale» o «proprietà strutturante», con le proprietà strutturanti vincoliamo spazio e tempo nel sistema sociale. La «struttura» si riferisce alle regole e alle risorse, organizzate come proprietà dei sistemi sociali. Col termine «sistema»
Giddens intende relazioni riprodotte tra attori e collettività, organizzate come regolari pratiche sociali [Giddens, 1979].
Per «sistema sociale» Giddens relazioni regolarizzate per
l’interconnessione tra individui e gruppi che può essere bene
92
analizzata come tipica come «ricorrente pratica sociale». I sistemi sociali sono sistemi dell’interazione sociale che in quanto tali riguardano determinate attività dei soggetti umani ed esistono nel corso del tempo. I sistemi «hanno strutture» o, meglio,
«hanno proprietà strutturanti». Le strutture «sono caratterizzate dall’assenza del soggetto» [Giddens, 1979].
Lo studio della strutturazione del sistema sociale è lo studio
dei modi in cui tale sistema attraverso l’applicazione di regole e
risorse generative, e nel contesto di conseguenze non previste
(unintended outcome), è prodotto e riprodotto nell’interazione.
Analizzando esplicitamente la General System Theory di
Bertalanffy, Giddens si sofferma in particolare sul sistema tecnologico sostenendo che per capire i progressi tecnologici, la
teoria dei sistemi deve capire il grande impatto che essi hanno
nella vita sociale e i cui pieni effetti si avranno nel futuro.
In queste analisi Bailey trova che nella distinzione tra teoria
generale dei sistemi e sistema tecnologico, Giddens includa anche la teoria dell’informazione e la cibernetica.
Per Giddens il concetto di «strutturazione» implica la dualità della struttura che mette in relazione, fondamentalmente, il
carattere ricorsivo della vita sociale ed esprime la mutua dipendenza tra struttura e azione. La teoria della strutturazione respinge ogni differenziazione tra sincronia e diacronia o tra statico e dinamico. «Struttura» significa sia «consentire» sia «costringere». Per Giddens lo studio della strutturazione del sistema sociale è lo studio dei modi in cui questo sistema, attraverso
l’applicazione delle regole generative, delle risorse e del contesto dei risultati imprevisti, si produce e riproduce nell’interazione. Bailey non vede alcun conflitto diretto tra la teoria della
strutturazione di Giddens e la teoria sistemica. Piuttosto considera entrambi come paralleli e compatibili. Il difetto del funzionalismo non era tanto nell’uso della relazione duale sincronico/diacronico, quanto piuttosto quello di non considerarli
come le due facce della stessa medaglia.
Per quanto riguarda la teoria conflittualistica di Collins, Bailey sostiene che egli discute la teoria funzionalista sotto l’etichetta dell’«ideologia», ritenendo che l’unica traiettoria possibile
93
per una sociologia «comprensiva» ed esplicativa sia quella conflittuale. Tuttavia Bailey trova diversi punti di contato fra la sociologia del conflitto di Collins e la teoria dell’entropia sociale.
In conclusione, per Bailey, i lavori di Alexander, Giddens e
Collins contengono diversi punti di contatto e di contiguità.
È proprio da queste dense considerazioni che Bailey è spinto ad approfondire l’analisi della «metateoria» di Ritzer [Ritzer,
1990a], come «studio sistematico della struttura sottostante alla teoria sociologica» [Ritzer, 1990: 18, in Bailey, 1994].
Bailey, considera le relazioni riprodotte nel tempo tra attori
e collettività, e organizzate in pratiche sociali regolari come «il
valore di entropia sotto il livello massimo».
Riferendosi ai sistemi sociali, Bailey afferma che per questo
tipo di sistemi bisogna considerare come unità di base gli individui, in quanto essi stessi sistemi, e come confini dei confini politici (città, provincia, regione, Stato, ecc.) Il loro studio – come
tutti gli studi sistemici – deve considerare contemporaneamente
il tutto e le parti senza separarle [Bailey, 1994, p. 327].
«Il valore di entropia sotto il livello massimo», applicato ai
sistemi sociali, riconosce che essi stessi sono «sistemi variabili»
o caratteristiche, essenzialmente permanenti come il colore della pelle, il sesso e la data di nascita [Bailey, 1994: ibid.].
Il concetto di entropia ci consente di spiegare perché il funzionalismo ha sbagliato insistendo sulla nozione di «equilibrio», assimilando quest’ultima al concetto di «ordine». Bisogna notare, infatti, che lo stato di equilibrio di un sistema corrisponde ad un’«entropia massima» e quindi al massimo «disordine». L’equilibrio, dunque, non è ordine, integrazione; è, piuttosto, il suo contrario.
Per Bailey l’analisi del «non-equilibrio» era preclusa alla sociologia di Parsons [Bailey, 1994: 75]. Per lui – cosa inusuale
per un teorico sistemico – equilibrio era sinonimo di ordine. In
questo modo l’analisi del cambiamento sociale (anche se non
interamente) era escluso nella nozione di equilibrio. Da ciò derivava che il ruolo dell’azione individuale è stato minimizzato o
trascurato in modo tale da far apparire i modelli sistemici come
deterministi.
94
L’analisi di Bailey va ancora piú in profondità facendo notare come uno dei limiti piú vistosi di Parsons non è tanto nel fatto che gli individui non sembrano aver alcun ruolo nella società, quanto piuttosto nella sua visione meccanica, quasi dogmatica, dell’equilibrio. Se prevale sempre l’equilibrio, ciò significa che il ruolo dell’individuo è del tutto vanificato, fagocitato
dalle strutture economiche, biologiche, fisiche e ambientali
[Bailey, 1994: 76].
Bailey condivide l’osservazione di Ritzer [Ritzer, 1988] secondo la quale proprio questa concezione dell’equilibrio e dell’individuo fa del funzionalismo un modello conservatore.
Bailey sottolinea nei seguenti punti il contributo della Nts:
1) Rigore metodologico e critica dell’equilibrio e del funzionalismo. Analisi metodologica dei rapporti micro-macro. Operativizzazione dell’entropia e della teoria in generale.
2) Operativizzazione e specificazione teorica del problema
dell’ordine.
3) Nuovo approccio alla relazione tra struttura dell’azione,
struttura del processo, o struttura dell’azione, con un nuovo
rapporto tra analisi sincronica e diacronica secondo la prospettiva di Giddens [Giddens, 1979].
4) Inclusione di tempo e spazio nella teoria dei sistemi sociali [Miller, 1978; Bailey, 1990; Giddens 1979].
5) Nuova analisi dell’azione e dell’ordine.
6) Analisi della filosofia dei sistemi e della tecnologia dei sistemi.
7) Formazione del contesto per l’analisi del conflitto, dell’interazione, dei network.
8) Connessione tra il livello ideativo e quello empirico dell’analisi.
9) Legame tra energia e informazione.
10) Offerta di una struttura per la comparazione.
11) Analisi dell’autoriproduzione e della autoregolazione
(autopoiesi).
12) Analisi della relazione tra osservatore e osservato.
13) affronta la questione della riduzione della complessità
(Luhmann, 1982c).
95
14) valorizza il cambiamento attraverso il mezzo dell’entropia e l’analisi del «non equilibrio».
15) Fondazione dell’analisi di tipo culturale e normativo.
16) Formazione di un framework per l’analisi macro, multidisciplinare e multidimensionale.
17) Formazione di un contesto e di un framework per l’accumulazione del sapere.
Da questo ampio framework generale molto opportunamente è stato estrapolato un set di indicazioni tecnico-metodologiche basate sul rigore metodologico che differenzia profondamente la Nts dallo strutturalfunzionalismo [cfr. Trobia, 2001].
Parsons aveva separato analiticamente energia e informazione nella sua teoria del controllo, cosicché l’informazione appariva collocarsi ad un livello piú alto dell’analisi, con la motivazione che la sua analisi fosse piú compatibile con la ricerca dei
fattori culturali e sociali, e quindi poco idonea per la sociologia. Parsons vedeva l’argomento «materia» direttamente inserito nella struttura fisica dello spazio-tempo e quindi lontano
dall’arena sociologica. In questo modo restava legato alla purezza analitica del sistema astratto.
«Energia e informazione sono simmetricamente correlati in
modo complesso nella società moderna. L’uso efficace dell’energia dipende dall’informazione mentre la trasmissione dell’informazione alternativamente è solamente possibile attraverso l’uso
dell’argomento che veicola il messaggio, e il consumo di energia
per spostare il messaggio dalla sua posizione originaria a quella
di destinazione. La relazione tra materia – energia e informazione è una delle piú cruciali questioni che si pongono nella scienza dei sistemi. Purtroppo, questa relazione è stata trascurata e
rimane frontiera della scienza dei sistemi» [Bailey, 1994: 176].
Alla relazione tra materia – energia e informazione corrisponde la relazione tra informazione e conoscenza in cui la
prima è risultato dell’azione comunicativa dell’uomo che –
come dice Morin – la strappa al rumore nel processo perenne
e complesso di costruzione di senso e significati, per immetterla in un altro processo piú ampio di cui la seconda assume
la guida in quanto la «conoscenza è organizzatrice»19 [E. Morin, 1993: 111].
96
Nonostante i tentativi di restringerne l’impiego, nel linguaggio comune il termine «informazione» è utilizzato in senso molto piú ampio, che porta spesso a notevole confusione. A questa
vaghezza e genericità, secondo Turner e Pidgeon [Turner e Pidgeon, 2001] contribuisce un fattore di grande importanza:
«Si tratta della tendenza propria degli esseri umani a ritenere che il mondo sia pieno di messaggi indirizzati a loro, e di
comportarsi come se si trovassero all’estremità ricevente di
moltissimi canali di comunicazione che partono tanto dal mondo materiale, quanto dal mondo sociale». Turner e Pidgeon riprendono la distinzione introdotta dal teorico dell’informazione Cherry [Cherry, 1957] tra canali di comunicazione e canali
di osservazione sostenendo che il problema di avere informazioni dalla natura e di utilizzarle per modificare le nostre teorie
sul mondo deve essere tenuto distinto dal problema che riguarda la teoria della comunicazione:
«Madre Natura non comunica con noi attraverso segni o servendosi di un linguaggio. Un canale di comunicazione deve essere distinto da un canale di osservazione» [Cherry, 1957: 216].
Turner e Pidgeon da ciò ricavano interessanti indicazioni:
«La natura dell’informazione è, evidentemente, molto piú
complessa di quanto lascerebbe supporre la definizione fornita
dalla teoria dell’informazione. Le informazioni su qualsiasi tipo
di evento sono sempre disponibili da qualche parte nell’universo, ma sono totalmente inutili a meno che non rechino un messaggio a un’entità neghentropica, tendente all’ordine. Una delle
proprietà di queste entità è che cercano costantemente di assorbire neghentropia decodificando e raccogliendo sempre piú
informazioni. D’altra parte, macchine casuali non possono essere “informate”, perché l’informazione può essere assorbita
solo da entità sufficientemente ordinate da aver “fissato” in
qualche maniera altre informazioni. Ne consegue che l’informazione non si trova tutta a un solo livello, e bisogna invece
pensare a una gerarchia di livelli di informazione» [Turner,
Pidgeon, 2001: 177].
Per Morin, «neghentropia» e «informazione «costituiscono
due concetti-enigma molto discussi. In sede di analisi generale
dei rapporti tra ordine e disordine, Morin sostiene che essi de97
vono essere pensati assieme, contemporaneamente «nei loro caratteri antagonistici ben noti e nei loro caratteri complementari
ignoti» [Morin, 2001: 48]. Questi termini, essendo legati l’uno
all’altro, formano una sorta di anello in movimento. Questo
concetto introduce una rivoluzione di principio e di metodo legata alla cosmogenesi e alla genesi del metodo che farà affermare a Morin che non è possibile «sfuggire a quest’idea incredibile: è disintegrandosi che il cosmo si organizza» [Morin, 2001:
ibid.]. C’è, dunque, un passaggio costante dalla turbolenza all’organizzazione che ha riscontro nella termodinamica di Prigogine per la quale fenomeni organizzati possono verificarsi spontaneamente a partire da uno squilibrio termodinamico. Il principio dell’order from noise [von Foerster, 1960] diventa «principio di organizzazione tramite il disordine» [Morin, 2001: 56].
La scuola di Bruxelles alle strutture di equilibrio contrappone
le strutture «dissipative» le quali «forniscono il paradigma dello
squilibrio come sorgente di ordine» [Giorello, 1982: 583]20.
Niklas Luhmann, riprendendo l’«hobbesian problem of order», si pone la questione «come è possibile l’ordine sociale?» e
fornisce una risposta che mette in primo piano un concetto fondamentale quello di «senso» come concetto che indica, caratterizza e delimita l’unità di un’azione [Luhmann, 1981b]. Nella ridefinizione luhmanniana della sociologia la categoria di senso
ha un ruolo centrale. Nelle Moderne Systemtheorien [Luhmann,
1973] con le quali sviluppa la sua controversia teorica con Habermas, Luhmann sostiene che è il senso a definire il soggetto e
non viceversa.
Mentre gli organismi si integrano sulla base della vita, i sistemi sociali, per Luhmann, si integrano sulla base del senso:
mentre gli organismi sono totalità viventi che consistono di
parti viventi, i sistemi sociali non consistono di parti viventi, di
uomini ma di azioni identificate in modo dotato di senso.
«Senso» è per Luhmann concetto fondamentale della sociologia. I sistemi sociali sono sistemi di senso Sinnsysteme), sistemi
dotati di senso (sinnkonstituierende Systeme). La coscienza non
regola piú l’immissione dei dati nel sistema psichico; non regola
il processo di input /output, ma le prestazioni dell’esperienza.
98
Il senso si pone come forma ordinativa dell’umano esperire
vivente. Riprendendo Husserl, Luhmann individua un punto di
certezza nel fatto che i dati momentanei che costituiscono di
volta in volta l’esperire vivente rinviano sempre e irrevocabilmente ad altro: l’esperire vivente non ha chiusure entro se stesso, non ha limiti, ma è rinviato a qualcosa che momentaneamente non fa parte dei dati che lo costituiscono. La nozione di
scelta diventa in questo modo strutturale.
«Questo essere rinviato al di là di se stesso, questa trascendenza immanente dell’esperire vivente non è oggetto di scelta,
ma è quella condizione dalla quale soltanto deve costituirsi
ogni libertà di scelta» [Luhmann, 1973: 18]. La libertà di scelta
ha, dunque, radici profonde in una struttura chiaramente individuabile, il senso che si pone come risultante dell’esperienza
vissuta e della trascendenza delle sue altre possibilità.
Il soggetto è, quindi, «sistema che si serve del senso». Il sistema-soggetto utilizza il senso come strategia di comportamento selettivo:
«Tramite le identificazioni di senso, è possibile raccogliere e
tenere assieme una quantità di rinvii, singolarmente non afferrabili, ad altre possibilità di esperienza vissuta, è possibile creare una unità, è possibile creare una unità nella quantità del
possibile e, partendo da questo orientarsi poi, in modo selettivo, verso i singoli aspetti del contesto dei rinvii. È un fatto indicativo che la selezione di una specifica utilizzazione del senso
neutralizzi temporaneamente o neghi altre possibilità, ma non
le scarti definitivamente come possibilità: Attraverso gli atti selettivi, il mondo non si restringe all’ambito di attenzione scelto,
in un determinato momento, ma rimane conservato come orizzonte per il rinvio ad altre possibilità e, quindi, resta il terreno
di altre selezioni successive. Diventa cosí possibile mettere in
relazione tra loro una quantità di atti selettivi e rafforzare, perciò, la selettività sebbene il potenziale di fatto esistente rimanga immutatamente minimo per l’attenzione» [Luhmann, 1973:
4]. Secondo Luhmann Parsons aveva superato la visione meramente comportamentistica e sulla scorta di Weber definisce
l’azione tramite il senso concepito mentalmente. Ma il senso è
99
visto come caratteristica di azioni e non come selezione entro
un universo di altre possibilità. Parsons supera la visione hobbesiana impostando il problema dell’ordine non piú in rapporto alla contingenza del senso soggettivamente inteso. L’ordine,
quindi, non è piú sullo stesso piano del potere ma diventa
struttura normativa che supera la contingenza del senso e garantisce la complementarietà dell’attesa. Ma, dal momento che
il concetto di senso non è considerato funzionalisticamente, la
struttura normativa dell’ordine è costretta a postulare l’esistenza di altre strutture (norme, istituzioni, valori generalmente accettati, ecc.).
In Wie ist soziale Ordnung möglich?, Luhmann riprende la
questione dell’ordine partendo proprio dal senso. L’interpenetrazione nel rapporto tra persone e sistemi sociale può verificarsi solo «per il tramite della donazione di senso» [Luhmann,
1981b: 123].
«Il senso è l’elemento piú universalmente accessibile, in genere, per sistemi personali e sociali, piú generale di posizione e
negazione, poiché le operazioni di affermazione e della negazione hanno senso, dal canto loro, solo in riferimento a qualcosa di sensato» [Luhmann, 1981b: ibid.].
Per i sistemi personali e sociali il senso è «la forma di elaborazione dell’esperire in sé».
«Tutto ciò che potrebbe essere differenza può essere solo se
indicato come sensato e ha esso stesso, d’altro canto, un senso.
Perciò bisogna partire dal concetto di senso oppure ritornare
ad esso quando si tratta di problemi di pluralità di referenze sistemiche e di interpenetrazione» [Luhmann, 1981b: ibid.]. Il
senso considera tutto ciò che viene esperito nel quadro di un
rimando ad altre possibilità funziona da mediatore, e schiude
ad ogni sistema uno spazio operativo
«Sistemi personali e sistemi sociali non sono tenuti insieme da
un sovra-sistema globale, né da un ordine cosmologico della loro
natura, né da un general action system. Nel luogo teorico, dove
ciò era previsto, subentra ora il concetto di senso, cioè la costrizione alla coordinazione aperta, mobile» [Luhmann, 1981b:
ibid.]. Il senso, dunque, si presenta anche come complessità
100
esplicitando le differenze che esistono tra persona e persona e tra
persone e sistema sociale, tra comunicazione e sistemi sociali.
Il problema dell’ordine, per Luhmann, non può essere piú
risolto dislocando – come faceva la tradizione – il problema
della relazione tra gli uomini nei «sicuri recessi» dell’etico e/o
privato, o definendo la società attraverso sistemi solo parziali
come quello politico o economico.
Ma allora, in un quadro caratterizzato da un cosí alto grado
di astrazione come è possibile l’ordine sociale? La risposta di
Luhmann è che l’ordine è possibile attraverso il senso, attraverso la formazione di sistemi sociali che «possano mantenersi per
un po’ di tempo entro confini stabili nei confronti di un ambiente “sovracomplesso”».
Per Roberto Esposito l’«ordine» cosí inteso, coincide con
una visione del diritto come sottosistema che garantisce la coincidenza tra «esclusione inclusiva» e «inclusione esclusiva» del
proprio ambiente:
«La sua funzione non è affatto quella di ricondurre gli uomini ad un ordine dato in natura; e neanche quella di determinare il maggior numero possibile di azioni legittime, come vorrebbero da un lato l’interpretazione giusnaturalistica e dall’altro quella positivistica. Certo, esso ha anche il compito di produrre certezze per aspettative non ovvie; ma proprio tale ruolo
lo costituisce come sistema immunitario della società dal momento che la produzione di certezze da parte del diritto avviene non per via affermativa, ma per via negativa, non attraverso
l’uso del “sí”, ma attraverso quello dei “no” […] Se l’unico
modo di garantirsi rispetto alla delusione delle aspettative è
quello di predisporsi ad affrontarle in termini di diniego, il sistema immunitario del diritto non avrà piú il compito di proteggere la comunità dai conflitti, ma, al contrario, attraverso di
essi: “Il diritto non risolve soltanto i conflitti, ma li rende possibili e addirittura li produce” [Luhmann, 1982d: 14]. Da questo
punto di vista Luhmann si lascia alle spalle la classica dicotomia oppositiva tra ordine e conflitto – il conflitto come ciò che
impedisce l’ordine, l’ordine come ciò che elimina il conflitto –
su cui si basa il paradigma hobbesiano dell’ordine come ancora
Parsons lo intende» [Esposito: 57-58].
101
11. Ordine, disordine, organizzazione
«Sull’orlo dell’equilibrio, la termodinamica descrive un mondo
stabile. Se c’è una fluttuazione, il sistema risponde ritornando al
suo stato d’equilibrio, caratterizzato da un extremum di entropia o
da qualsiasi altro potenziale termodinamico. Ma la cosa piú sorprendente è che questa situazione cambia radicalmente quando ci
allontaniamo dall’equilibrio: In queste condizioni le fluttuazioni
possono dare vita a nuove strutture di spazio-tempo. È per questo, le leggi dell’evoluzione devono essere non-lineari. Ci stiamo
ora muovendo verso strutture dissipative che corrispondono a
nuove organizzazioni sovramolecolari. Tutte queste nuove strutture si verificano in punti di biforcazione. Cioè, dove le vecchie
strutture diventano instabili e nascono le nuove. È la nascita della
complessità» [Y. Prigogine, 2000, cit. in Bindé, 2003: 161]
C’è, dunque, una relazione molto forte tra disordine, ordine
e organizzazione:
«Ordine, disordine, organizzazione si sono cosí co-prodotti
insieme, simultaneamente e vicendevolmente. Sotto l’effetto degli incontri aleatori, i vincoli originari hanno prodotto ordine organizzazionale, le interazioni hanno prodotto interrelazioni organizzazionali. Si può dire però che, sotto l’effetto dei vincoli originari e delle potenzialità organizzazionali, i movimenti disordinati,
provocando incontri aleatori, hanno prodotto ordine e organizzazione. Vi è quindi un anello di co-produzione reciproca: ordine-disordine-interazioni-organizzazione» [Morin, 2001: 57-58].
Nell’idea di caos come «disintegrazione creatrice» [Morin,
2001: 63] non bisogna vedere solo distruzione e disorganizzazione.
Bisogna concepire, invece, «il disordine come oggetto privilegiato della conoscenza: è questa senza dubbio una delle innovazioni piú importanti del XX secolo» [Prigogine, Stengers,
1980: 92].
Si è ritenuto tradizionalmente che il tempo sia diverso dallo
spazio per il possesso della direzione. Lo spazio viene considerato «isotropo», cioè non dipendente dalla direzione, mentre il
tempo come intrinsecamente «asimmetrico». Il passaggio da
«precedente» a «successivo» viene considerato come irreversibi102
le. Vi sono fondamentalmente due interpretazioni di questo fenomeno. La prima mette in evidenza la dimensione soggettiva
del mondo umano nel concepire il fenomeno, la seconda, invece, lo considera come caratteristica intrinseca della natura. Piú
diffusa tra gli scienziate è certamente la seconda interpretazione, anche se alcuni illustri filosofi aderirono alla prima interpretazione. Come Spinoza che considerò il tempo «merus modus
cogitandi». Se, sulla scorta della seconda interpretazione, si attribuisce alla differenza tra tempo e spazio valore di fenomeno
oggettivo. L’interpretazione per la quale i fenomeni naturali vadano in una certa direzione viene espressa dal secondo principio della termodinamica che prevede l’«irreversibilità» e l’«aumento di entropia». La variazione della direzione del tempo, a
partire da Boltzmann, viene identificata con la direzione della
variazione di entropia. La relazione «piú tardi di» in termini di
aumento di entropia. Tra due stati, il «successivo» è quello che
ha maggiore entropia. La metafora di Eddington della «freccia
del tempo» si riduce alla «freccia dell’entropia crescente».
Recentemente Prigogine ha osservato che oltre alle leggi
della natura disponiamo anche della termodinamica la quale ci
dà un’immagine diversa del mondo in chiave evolutiva:
«Ricordiamo ciò che ha detto Clausius: “l’universo si evolve
e cresce nell’entropia”. L’entropia è la freccia del tempo. Accanto alle leggi reversibili della dinamica ci sono le leggi irreversibili che possiamo trovare ovunque (nel flusso del calore,
nei fenomeni del trasporto, nella chimica, nella biologia, ecc.) e
un cui il futuro e il passato possono svolgere ruoli differenti»
[Prigogine, 2000, cit. in Bindé, 2003: 160].
Per la seconda legge della termodinamica, i fenomeni irreversibili creano entropia.
«Sull’orlo dell’equilibrio, la termodinamica descrive un
mondo stabile. Se c’è una fluttuazione, il sistema risponde ritornando al suo stato d’equilibrio, caratterizzato da un extremum di entropia o da qualsiasi altro potenziale termodinamico.
Ma la cosa piú sorprendente è che questa situazione cambia radicalmente quando ci allontaniamo dall’equilibrio: In queste
condizioni le fluttuazioni possono dare vita a nuove strutture di
103
spazio-tempo. È per questo, le leggi dell’evoluzione devono essere non-lineari. Ci stiamo ora muovendo verso strutture dissipative che corrispondono a nuove organizzazioni sovramolecolari. Tutte queste nuove strutture si verificano in punti di biforcazione. Cioè, dove le vecchie strutture diventano instabili e
nascono le nuove. È la nascita della complessità» [Prigogine,
2000, cit. in Bindé, 2003: 161]21.
È la fine delle concezioni fondate sullo sviluppo lineare delle strutture di spazio-tempo e dell’affermarsi delle strutture
della contingenza e della fluttuazione.
In questa posizione di Prigogine sembra che la scienza prenda posizione sul carattere plurale del futuro, dal momento che
ci muoviamo verso strutture dissipative biforcate che rendono
molto piú improbabile la previsione della natura. È l’imporsi
dell’incertezza e della complessità sulla linearità e la semplicità.
Discutendo della mancanza di una teoria generale dell’organizzazione, Prigogine e Stengers sostengono che noi disponiamo di alcuni concetti come quello di «ordine per fluttuazione»
e di «informazione», «allo stato attuale delle cose però non si
può dare un senso preciso all’idea che i viventi e le società funzionano per scambio di energia e di informazione» [Prigogine,
Stengers, 1980b].
12. La società entropica e la necessità di una svolta
epistemologica nelle scienze sociali
«È questa svolta epistemologica a dischiudere un nuovo orizzonte:
lo sguardo cosmopolita costituisce il nucleo di un adeguato senso
della realtà. Esso non è una semplice idea, una mera contro-immagine, ma una necessità esistenziale per aprire alle sfide della globalità il senso dell’irrealtà, la scienza dell’irrealtà del nazionale» [U.
Beck, 2003: 27].
«Se la società moderna viene determinata dalla differenziazione
sociale, allora è difficile immaginare che tutti i sistemi funzionali
convergano entro gli stessi confini territoriali, cioè che i confini
tra la Francia e la Germania o quelli tra il Brasile e il Paraguay segnino anche il passaggio a un diverso tipo di comunicazione di
104
massa, a un’altra scienza, a sistemi finanziari differenti, e che in
corrispondenza di essi o cessi l’attenzione alla politica mondiale. I
confini che delimitano la scienza dalla non scienza, l’economia
dalla non economia, il diritto dal non diritto, sono prodotti dalla
logica stessa del sistema funzionale. Perciò si può parlare, propriamente, soltanto di una società mondiale. […] Questo è un argomento a favore del fatto che la differenziazione funzionale esige e
anche produce una società mondiale. D’altra parte abbiamo delle
difficoltà di percezione e, legati come siamo alla tradizione, reagiamo tentennando a questa prospettiva» [N. Luhmann, 1994, cit.
in Korte, Mättig, 1997].
«Un’epistemologia biologicamente fondata non darà forse una risposta esauriente alla singolarità dell’individuo, alla sua capacità
di creare, di provare emozioni e di produrre opere artistiche, poetiche, musicali, pittoriche o idee scientifiche, ma certamente contribuirà a rendere la nostra vita piú ricca» [G.M. Edelman, 1997]
Si sta diffondendo, con argomenti fondati, una visione entropica del mondo [Rifkin, 2003]. L’esigenza primaria e quindi
quella di promuove una scienza basata sul recupero del senso
di rapporto e partecipazione alla vita sul pianeta in opposizione
alla scienza piú convenzionale che enfatizza il senso di distacco
e di sfruttamento della natura e dell’ambiente. La crisi energetica sempre piú acuta e la tendenza al riscaldamento globale ci
obbligheranno a riconsiderare gli assunti fondamentali sui quali la nostra civiltà è stata costruita. Il nuovo quadro entropico ci
offre un mezzo per una efficace critica all’ordine esistente e per
imprimere svolte decisive in settori fondamentali della convivenza. Come rileva Rifkin in una civiltà entropica si dovrebbero progettare nuovi strumenti e nuove tecnologie per una sostenibilità a lungo termine e per la durata delle risorse al di là
dell’«iperefficienza a breve e della profittabilità immediata»
[Rifkin, 2003].
Lo Stato nazionale è stato creatore, controllore e contenitore della società e quindi ha condizionato la sociologia tracciandone, rigidamente, i confini. Per questo il cosmopolitismo diventa questione scientifica che riguarda la sociologia, la coscienza europea e del mondo:
105
«Il cosmopolitismo trasposto nella realtà è una questione vitale della civiltà europea, della coscienza europea e, al di là di
questo, dell’esperienza e della coscienza del mondo, poiché
nella metodologia dello sguardo cosmopolita potrebbe celarsi
la forza capace di spezzare il narcisismo autocentrico dello
sguardo nazionale e la sorda incomprensione nella quale esso
mantiene il pensiero e l’agire, illuminando gli uomini nella cosmopolitizzazione dei loro mondi vitali e delle loro istituzioni»
[Beck, 2003a: 9].
Persino nella metodologia delle scienze sociali hanno dominato teorie per le quali, perché siano possibili l’identità, la politica, la società, la comunità, la democrazia, l’individuo, l’attore,
la persona devono delimitarsi contro ciò che è loro estranea. È
in questo modo che nasce, spesso, un falso empirismo, pieno di
«steccati mentali» e ciò che è parziale e territorialmente delimitato viene generalizzato, universalizzato e assunto come dice
Beck «a “logica” del sociale e del politico (nazionalismo metodologico)» [Beck, 2003a: 13].
Ma l’empatia cosmopolita realizzatasi nel mondo contro la
guerra in Iraq attraverso ciò che Beck definisce «globalizzazione delle emozioni» non deve porsi pone sostituto dell’empatia
nazionale, invece la dimensione transnazionale e quella cosmopolita devono essere, come abbiamo già visto, complementari
alla ridefinizione della dimensione nazionale e locale. Lo sguardo cosmopolita è qualcosa di diverso dal cosmopolitismo in
quanto rispetto a quest’ultimo richiede una svolta epistemologica costituendo «il nucleo di un adeguato senso della realtà»
[Beck, 2003a: 27].
Questa svolta epistemologica coinvolge gli aspetti fondamentali della società a cominciare dallo sguardo nazionale «introvertito delle scienze sociali», in quanto:
1) «Gli effetti reciproci dei rischi globali cancellano nella dimensione spaziale, temporale e sociale i confini nazional-statali
della realtà, del pensiero e della ricerca» [Beck, 2003a: 52].
2) Si delineano processi di «integrazione cosmopolitica» che
vanno indagati con strumenti nuovi e richiedono ricerche di tipo comparatistico e confronti tra Stati nazionali. Da questo
106
punto di vista a ragione Boudon rivaluta le ricerche di Tocqueville (in particolare le analisi sviluppate nella seconda edizione
del 1845 de La democrazia in America). La sociologia di Tocqueville come quella di Weber si caratterizza che elabora in
maniera critica la materia storica e sociale ponendo dei «perché?» e cercando di trovare delle risposte seguendo linee metodologiche che sono proprie di tutte le discipline scientifiche.
Tocqueville – secondo Boudon – riesce a spiegare alcune differenze che ancora oggi saltano agli occhi tra la «cultura» americana e le culture europee.
3) «Le persone e i paesi alla periferia della società globale
del rischio si vedono colpiti entro i confini della loro esistenza
da minacce esterne ripartite globalmente – ad esempio dai propri peccati ecologici (correlati alla loro povertà), dal sospetto di
fiancheggiare il terrorismo, dalle crisi finanziarie ripartite globalmente o dall’uso sconsiderato delle risorse da parte dei paesi industriali dell’Occidente» [Beck, 2003a: 53].
4) «I rischi globali manifestano un’esplosività non soltanto
fisica, ma anche politica. I rischi mondiali producono una sfera
pubblica mondiale. Quanto maggiore è l’onnipresenza massmediatica della minaccia, tanto piú indifferente ai confini è la forza politica della percezione del rischio […] Questo sguardo cosmopolita è invece generato dalla percepita emergenza delle
conseguenze globali dell’agire legato al progresso» [Beck,
2003a: 53-54; corsivo mio]. Beck distingue tra insecurities (sociali nel senso di insicurezze insite nello Stato sociale), lack of
safety (minacce di avvelenamenti, di criminalità e di violenza
sulla salute e sulla vita) e uncertainties (perdita di certezza, ad
esempio quella nel progresso, nella scienza, negli esperti)
[Beck, in Beck, Giddens, Lash, 1999].
Come ha osservato Giddens vi sono, da una parte, processi
di diffusione estensionale delle istituzioni moderne universalizzate tramite i processi di globalizzazione [Giddens, Vivere in
una società post-tradizionale, in Beck, Giddens, Lash, Modernizzazione riflessiva, 1999: 102] e dall’altra, processi di mutamento
intenzionale che si possono definire di «radicalizzazione della
107
modernità» [Giddens, 1994], di svuotamento di senso, di sotterramento e di problematizzazione della tradizione.
Si determinano in pratica delle fragilità (che dissolvono le
identità sociali che si sono formate con la società industriale –
le culture corporative di classe, la divisione del mondo maschile [occupazione] e di quello femminile [famiglia]). Tali processi
di individualizzazione vanno di pari passo con i processi di globalizzazione.
Come ha osservato Giddens «noi siamo la prima generazione che vive in un ordinamento post-tradizionale di dimensione
cosmopolita».
«Ciò significa anche che i vecchi confini tra il pubblico e il
privato non sono piú un riparo: si creano nuove reti e monopoli della comunicazione, da una parte all’altra del mondo. Il vicinato non dipende piú dalla vicinanza, diventano possibili movimenti sociali a distanza nell’intero globo. Tutto ciò si somma in
una gigantesca «crisi della vittoria» delle istituzioni politiche e
delle legittimazioni dell’Occidente dopo la fine della guerra
fredda. Il progetto europeo dell’industrialismo democratico illuminato si sbriciola, rimane senza base.
Chi ha davanti agli occhi questi spostamenti e le erosioni
nella struttura stessa della modernità europea, deve osservare
come e dove nascono nuove strutture, nuove coordinate e nuovi orientamenti. Se nella situazione di stabilità degli anni ’70 e
’80 ha dominato la prospettiva della dissoluzione, nell’incertezza che ha seguito la fine della guerra fredda prevale la prospettiva della ristrutturazione. Qui, però, si presenta una difficoltà
sostanziale: le nuove formazioni strutturali, se mai si cercano,
vengono cercate nell’orizzonte delle vecchie categorie [Beck,
1999: 31-32].
Già Habermas aveva osservato che mass-media elettronici
sono stati resi simultaneamente presenti a una sfera pubblica
ubiquitaria. Osservando la Rivoluzione francese, Kant fece riferimento alle reazioni di un pubblico che vi prendeva parte. Allora egli identificò il fenomeno di una sfera pubblica mondiale
che soltanto oggi – nel contesto cosmopolitico della comunicazione – sta diventando realtà. Persino le potenze mondiali de108
vono fare i conti con il peso delle proteste internazionali. In
ogni caso è cominciata l’obsolescenza dello «stato di natura»
ancora perdurante tra gli Stati: essi sono in grado di dichiararsi
guerra, ma hanno già perso la propria sovranità. La situazione
cosmopolitica non è piú certamente una chimera, anche se siamo ancora ben lontani dall’averla raggiunta. Cittadinanza politica e cittadinanza cosmopolitica costituiscono cosí un continuum che, nonostante tutto, sta già prendendo forma.
Niklas Luhmann, dal canto suo, aveva esplicitamente posto
la questione di cominciare a orientare la ricerca sociologica nella direzione non tanto delle unità locali, quanto piuttosto in direzione della «società mondiale».
È possibile non tenere conto del fatto che viviamo in un
mondo scosso alle fondamenta? È possibile non rendersi conto
del fatto che, pur tra molte contraddizioni, si sta delineando lo
spazio esperenziale di una civilizzazione globale caratterizzata
da eventi globali quotidiani?
Ma ci sono questioni – alcune delle quali abbiamo già affrontato precedentemente – che piú da vicino interessano la
qualità della ricerca. È possibile, ad esempio, espungere da essa
il mondo delle emozioni e dei sentimenti?
Il neuroscienziato Antonio Damasio in un importante testo,
apparso recentemente, Looking for Spinoza. Joy, Sorrow, and
the Feeling Brain [Damasio, 2003] – sostiene che le emozioni
sono «azioni o movimenti in larga misura pubblici, ossia visibili
ad altri nel momento in cui hanno luogo» [Damasio, 2003: 40],
mentre i sentimenti sono sempre nascosti come tutte le immagini mentali invisibili a chiunque altro tranne a colui che le produce. Le emozioni – dice Damasio – si esibiscono nel teatro del
corpo; i sentimenti in quello della mente. Le emozioni «fanno
parte dei meccanismi elementari preposti alla regolazione dei
processi vitali» [Damasio, 2003: ibid.]; anche i sentimenti contribuiscono a questa regolazione, ma ad un livello superiore.
Da questa impostazione deriva che l’eliminazione dell’emozione e del sentimento dallo scenario umano implica un impoverimento di ciò che poi sarà la fase successiva dell’«organizzazione dell’esperienza».
109
«Se le emozioni sociali e i sentimenti corrispondenti non
vengono adeguatamente dispiegati, e se il legame fra situazioni
sociali da una parte, e gioia e dolore dall’altra, si rompe, l’individuo si trova nell’impossibilità di classificare nella propria memoria autobiografica l’esperienza degli eventi servendosi di
quel marchio affettivo che servirebbe ad attribuirle la sua qualità “buona” o “cattiva”. Questo precluderebbe di accedere a
qualsiasi livello successivo nella costruzione dei concetti di bene e di male, e in particolare impedirebbe la costruzione, culturale e ragionata, di che cosa debba essere considerato buono o
cattivo, in relazione al bene e al male che ne deriva» [Damasio,
2003: 193].
Senza mantenere un rapporto con il variegato mondo delle
emozioni sociali, risulterebbero sicuramente impoverite e piú
imprecise le nostre categorie conoscitive. È proprio da queste
riflessioni che sia Damasio sia Elster22 fanno derivare dei fertili
e stimolanti itinerari di ricerca interdisciplinare. Interessante ad
esempio è la considerazione di una specifica relazione tra neurobiologia e comportamento etico che coinvolge anche il diritto, la giustizia, le credenze religiose, la cultura e la politica:
«Ho il sospetto che in assenza delle emozioni sociali e dei
sentimenti conseguenti – anche basandosi sull’improbabile assunto che in tali circostanze le altre abilità possano conservarsi
intatte – gli strumenti culturali che conosciamo come comportamenti etici, credenze religiose, leggi, giustizia e organizzazione politica, o non sarebbero comparsi affatto, o sarebbero
emersi come costruzioni intelligenti di tipo molto diverso. Prudenza, però: non intendo dire che emozioni e sentimenti abbiano causato da soli, l’emergere di quegli strumenti culturali. In
primo luogo, i dispositivi neurobiologici che probabilmente facilitano l’emergere di tali strumenti culturali includono non solo emozioni e sentimenti, ma anche quella capace memoria personale che permette agli esseri umani di costruirsi un’autobiografia complessa, nonché il processo della coscienza estesa che
consente. È ragionevole supporre che la neurobiologia avrà un
ruolo importante nelle future spiegazioni di questi fenomeni
culturali; ma per comprenderli in modo soddisfacente dovremo
110
prendere in considerazione anche idee provenienti da altre discipline, quali l’antropologia, la sociologia, la psicoanalisi e la
psicologia evoluzionista, nonché i risultati di studi nel campo
dell’etica, del diritto e della religione» [Damasio, 2003: 194].
Insomma, Damasio avanza una concreta ipotesi di ricerche
inter e trans-disciplinari «volte a verificare ipotesi basate sulla
conoscenza integrata dei risultati di tutte queste discipline e della neurobiologia» [Damasio, 2003: 193].
Anche in questo senso si muovono le considerazioni di Jon
Elster sulle emozioni come «oggetto di norme sociali».
Esse non sono – come vedremo meglio piú avanti – come
sabbia nel meccanismo dell’azione. Questa descrizione è del
tutto inadeguata. Le emozioni stesse possono essere regolate da
criteri di razionalità e possono facilitare l’attività cognitiva invece di ostacolarla [Elster, 1994].
Le emozioni svolgono una funzione che non può sfuggire
all’analisi sociologica in quanto danno un significato e una direzione alla vita. L’azione sociale nasce dalle emozioni. Si potrebbe dire che esse si inseriscono nella formazione e fanno
parte della genesi dei «meccanismi sociali».
Dopo aver giustamente osservato che la «spiegazione attraverso meccanismi sociali» deriverebbe dalla sociologia di medio raggio di Robert K. Merton, lo studioso della serendipity
[Merton, Barber, 2002], che le teorie sono «soprattutto strumenti per spiegare – piuttosto che costruzioni concettuali, visioni del mondo o punti di vista etici», che la stretta relazione
tra teoria e ricerca empirica debba essere posta al centro dell’indagine scientifica, Filippo Barbera [Barbera, 2004] osserva:
«Dopo un periodo di egemonia – durato fino circa agli anni
’70 – la crisi dei “paradigmi deterministici” riporta al centro
dell’attenzione la prospettiva delle teorie dell’azione e del principio di razionalità in sociologia. In questo contesto, i lavori di
James S. Coleman, Raymond Boudon e Jon Elster hanno contribuito a costruire alcuni principi chiave della spiegazione sociologica attraverso meccanismi. Dal loro lavoro emerge che
per meccanismi sociali si intendono quei processi causali situati
al livello del sistema d’azione, piú o meno osservabili e attivabi111
li in condizioni non completamente determinate, in grado di
generare un certo macrofenomeno» [Barbera, 2004: 41].
L’analisi di Barbera, anche se andrebbe approfondita, pone
alcuni elementi – desumibili anche dalle opere di Coleman,
Boudon e Elster, Gambetta, ecc. – che indubbiamente possono
contribuire a potenziare la spiegazione e l’interpretazione sociologica, attenuando cosí la sempre piú diffusa «opacità sociale»
[Boudon, 2003; Bailey, 1990 e 1994]. Ciò richiede non solo il
superamento – come ci sforziamo di argomentare in diverse
parti di questo lavoro – di vecchie e paralizzanti dicotomie, ma
una vera e propria svolta epistemologia che rompa la gabbia
della contrapposizione tra scienze umane e scienze naturali.
Questo processo si sta sviluppando in diversi ambiti disciplinari e in questo lavoro facciamo riferimento solo ad alcuni di essi
[Boudon, 2003; Bailey, 1990 e 1994; Barca, 2002; Bateson,
1993 e 1997; Beck, 2000, 2002, e 2003; Bodei, 1992, 2002;
Boudon, 2002; Calvino, 1988; Changeux, 2003; Changeux e Ricoeur, 1998; Ceruti, 1986, 1994 e 1998; Damasio, 2003; Donati,
2004; De Sousa Santos, 2003; Edelman, 1993; Edelman e Tononi, 2000; Elster, 2001, 2004; Feynman, 1998; Gallino, 1992;
Gambetta, 2004; Gargani 1999a, 1999b; Geertz, 1988 e 1995;
Habermas, 2004 e 1996, 1999, 2001; Israel, 2004; van de Kerchove e Ost, 1995 e 1997; G.O. Longo, 2003; Luhmann, 1994,
1995 e 1996; Lyon, 1997; Marchesini, 2002; Maturana e Varela,
1992; Morin, 1977, 1985, 1989, 1999, 1999a, 1999b; Parisi,
2001; Prigogine, 2001 e 1995, Prigogine, Stengers, 1980, 1994,
1999; Rifkin, 2002 e 2003; Sen, 2001 e 2004; Sloterdijk, 2002].
Di fronte a questi fermenti che criticano il riduzionismo
economico e polarizzano l’attenzione su problemi di natura
epistemologica che vanno al di là del mero ambito disciplinare
e si interrogano sul rapporto tra l’economia e la fisica, tra le
scienze biologiche e quelle sociali e storiche, tra il pensiero economico e quello filosofico, sul nesso esistente tra mondo umano e non umano, sembrano ancora limitative e chiuse in ambito
strettamente sociologico le considerazioni di Barbera quando
osserva riferendosi ai lavori di James S. Coleman, Raymond
Boudon e Jon Elster:
112
«Questi autori, pur avendo solo occasionalmente tradotto le
loro intuizioni teoriche e metodologiche in progetti di ricerca
empirica, hanno creato importantissimi strumenti analitici e
teorici. Il loro lavoro ha anche preparato il terreno per l’emergere di un movimento di studiosi contemporanei, i quali hanno
nella costruzione di un approccio analitico alla teoria sociologica e nell’integrazione tra teoria e ricerca sociale le principali
bandiere» [Barbera, 2004: ibid.].
Si parlava prima della prospettiva damasiana di realizzare ricerche inter e trans-disciplinari volte a verificare ipotesi basate
sulla conoscenza integrata dei risultati di discipline diverse e
della neurobiologia. Anche Elster sembra avvicinarsi a questa
prospettiva nella convinzione che contenuti emozionali sono alla base, come motivazioni, dell’azione, dei desideri, e delle credenze dell’agente. In particolare le credenze derivano dalle
informazioni di cui l’attore dispone; e la quantità delle informazioni raccolte de riva dai suoi desideri e dalle sue credenze.
Come sostiene Elster, le emozioni svolgono una funzione
che non può sfuggire all’analisi sociologica in quanto danno un
significato e una direzione alla vita. L’azione sociale nasce dalle
emozioni. Contenuti emozionali sono alla base, come motivazioni, dell’azione, dei desideri, e delle credenze dell’agente. In
particolare le credenze derivano dalle informazioni di cui l’attore dispone; e la quantità delle informazioni raccolte de riva
dai suoi desideri e dalle sue credenze.
«La razionalità e le emozioni sono spesso considerate come
entità diametralmente opposte. “Razionale” e “emotivo” corrispondono alla descrizione di due caratteri antitetici. Si suppone che le emozioni interferiscano con la nostra capacità di formare credenze razionali o di fare scelte razionali. Sono come
sabbia nel meccanismo dell’azione. Non occorre molta riflessione per accorgersi che questa descrizione è inadeguata. Le
emozioni stesse possono essere regolate da criteri di razionalità
e possono facilitare l’attività cognitiva invece di ostacolarla»
[Elster, 1994, 55-56].
Elster mette in evidenza il fatto che esistono persone con
abilità e acume infallibili nell’interpretare le parole, le azioni e i
113
comportamenti altrui alla luce delle emozioni su cui si fondano
ritiene di dover molto ad alcuni romanzieri e drammaturghi come Jane Austen, Stendhal di moralisti come Seneca, Plutarco,
Montaigne, La Rochefoucauld. Ma molte delle conoscenze in
merito provengono anche dalle scienze sociali, dalla psicologia,
dalla biologia, dalle neuroscienze.
In estrema sintesi si può dire con Elster che «le piú importanti esperienze emotive tendono ad avere antecedenti cognitivi
complessi» [Elster, 2001: 39].
Le emozioni si distinguono in quanto stati capaci di influenzare il comportamento umano «perché sono al contempo profondamente viscerali e profondamente cognitive» [Elster, 2001: 53].
Con il termine cultura, secondo Elster, è possibile designare
«qualunque insieme di comportamenti, norme, valori, credenze
e concetti di dimensioni piú che individuali, ma nel contempo
meno che universali» [Elster, 2001: 95].
In prima approssimazione una cultura comprende quei
comportamenti che sono costanti o frequenti in un gruppo e
che non si osservano, o, si osservano meno frequentemente in
altri gruppi. Elster fa riferimento a comportamenti distruttivi
innescati da «culture dell’invidia» o a «culture del bere». Nel
primo caso diventano frequenti anche i comportamenti di
gruppi che tendono a non suscitare l’invidia. Nel secondo caso,
nei paesi nordici uno dei modello piú seguiti è quello dell’abuso di superalcolici. Questo modello non è seguito dai paesi latini in cui si impone, invece quello del consumo quotidiano di
vino. Nonostante i due modelli abbiano in comune il fatto di
causare ugualmente la cirrosi epatica, il primo viene, di solito.
maggiormente associato a comportamenti violenti.
Elster cerca di individuare alcuni punti di riferimento nella
fitta trama di relazioni che intercorrono tra le emozioni e la
cultura. Il piú importante di questi fili costitutivi, di grande importanza anche ai fini del nostro itinerario di «posizionamento» e contestualizzazione del discorso sulla devianza, è quello
che lega le emozioni e le norme sociali.
Da questo punto di vista si può sostenere che 1) le azioni
umane complesse sono prodotte da processi cognitivi; 2) le
114
emozioni possono essere oggetto di processi cognitivi; 3) i processi cognitivi possono essere conseguenza di emozioni. In
molti casi le tre relazioni interagiscono l’una con l’altra.
In particolare:
1) le emozioni costituiscono la base principale delle norme
sociali. Dice Elster «anche se il fondamento emotivo delle norme sociali può essere universale, il comportamento oggetto di
queste norme varia da un gruppo all’altro» [Elster, 2001: 106];
2) alla diversità di culture corrisponde una diversità di concepimento delle stesse emozioni. «Anche se le emozioni sono
in se stesse universali (come credo), non per questo debbono
essere universalmente conosciute» [Elster, 2001: ibid.];
3) «quando appartiene al repertorio concettuale di una cultura, un’emozione può divenire oggetto di norme sociali prescrittive o proscrittive, e manifestarsi pertanto con minore o
maggiore frequenza di quanto sarebbe altrimenti osservato»
[Elster, 2001: ibid.].
Elster considera le emozioni come supporto delle norme sociali le quali hanno quattro caratteristiche:
a) sono un precetto non strumentale ad agire o ad astenersi
dall’agire (la norma che prescrive di vestirsi di nero ai funerali);
b) una norma è sociale quando è condivisa e risaputa dal
gruppo. Esistono norme non strumentali che sono puramente
private;
c) le norme sociali regolano il comportamento per mezzo di
sanzioni. «Quando rifiuto di avere a che fare con una persona
che ha violato una norma sociale, posso arrecare ad essa un
danno finanziario. Ma soprattutto faccio sí che essa percepisca
la sanzione come un veicolo di emozioni come il disprezzo e
l’ostilità, e di conseguenza provi vergogna. Dal punto di vista
materiale, l’aspetto principale della sanzione è il costo pagato
dal sanzionatore per penalizzare il sanzionato e non. Quanto
piú mi costa rifiutare d’avere a che fare con te, tanto piú avvertirai il disprezzo dietro il mio rifiuto e sarà acuta la tua vergogna» [Elster, 2001: 107-108];
d) le norme sociali si fondano sull’emozione della vergogna,
suscitata dal disprezzo che traspare dal comportamento sanzio115
natorio degli altri. Il disprezzo e la vergogna hanno una base
cognitiva nella credenza che la persona che ne è fatta oggetto
abbia qualità negative. «Benché la tendenza all’azione immediatamente associata alla vergogna sia quella di nascondersi o
sparire, o perfino di uccidersi, l’emozione influenza il comportamento anche indirettamente spingendo l’individuo ad evitare
situazioni che potrebbero suscitarla» [Elster, 2001: 108].
La prefigurazione della vergogna può essere, dunque, un regolatore efficace dei comportamenti e, piú in generale, si può
dire che le emozioni del disprezzo e della vergogna sono osservate in tutti i gruppi, mentre le azioni prescritte o impedite dalle norme, come ad es. l’incesto, i matrimoni precoci, ecc., variano da gruppo a gruppo.
Damasio ne L’errore di Cartesio [Damasio, 2000] precisa che
la distinzione emozione/ragione è fuorviante in quanto le emozioni sono forme di consapevolezza intelligente in quanto:
1) «altrettanto cognitive quanto gli altri percetti» [Damasio,
2000: 22];
2) forniscono all’organismo aspetti essenziali della ragion
pratica;
3) «fungono da guide interne» nel rapporto tra soggetto e
circostanze» [Damasio, 2000: ibidem].
Per Damasio le emozioni e i sentimenti sono fondamentali
per la comprensione della mente. Non si tratta certamente di
svalutare, in questo modo la razionalità ma di mettere in evidenza «l’idea che la ragione può non essere cosí pura come la
maggior parte di noi ritiene che sia, o vorrebbe che fosse, e che
certi aspetti del processo dell’emozione e del sentimento sono
invece indispensabili per la razionalità» [Damasio, 1997: 37].
Sul punto c’è identità di vedute tra Damasio ed Elster:
«La razionalità e le emozioni sono spesso considerate come
entità diametralmente opposte. “Razionale” e “emotivo” corrispondono alla descrizione di due caratteri antitetici. Si suppone che le emozioni interferiscano con la nostra capacità di formare credenze razionali o di fare scelte razionali. Sono come
sabbia nel meccanismo dell’azione. Non occorre molta riflessione per accorgersi che questa descrizione è inadeguata. Le
emozioni stesse possono essere regolate da criteri di razionalità
116
e possono facilitare l’attività cognitiva invece di ostacolarla. Infine, le emozioni hanno un ruolo indispensabile da svolgere,
quello di dare un significato e una direzione alla vita. Senza le
emozioni non ci sarebbe neppure una ragione per agire. […]
L’azione è causata sia dai desideri che dalle credenze dell’agente; le credenze dalle informazioni di cui dispone; e la quantità
delle informazioni raccolte dai suoi desideri e dalle sue credenze» [Elster, 1994: 55-56]. Per Elster l’azione è causata sia dai
desideri sia dalle credenze di chi agisce. Le credenze derivano
dalle informazioni di cui dispone, e la quantità delle informazioni deriva, a sua volta, dai desideri e dalle altre credenze.
Daniel Goleman sostiene che gli esseri umani posseggono
due menti «una che pensa, l’altra che sente» [Goleman, 1999:
27]. Queste due, profondamente diverse, modalità di conoscenza interagiscono per costruire la nostra vita mentale.
«Nella maggior parte dei casi, queste due menti, l’emozionale e la razionale, operano in grande armonia e le loro modalità di conoscenza, cosí diverse, si integrano reciprocamente
per guidarci nella realtà. Di solito c’è un equilibrio fra mente
razionale ed emozionale; l’emozione alimenta e informa le operazioni della mente razionale, mentre questa rifinisce e a volte
oppone il veto agli input delle emozioni. Tuttavia, la mente
emozionale e quella razionale sono facoltà semi-indipendenti:
ciascuna di esse […] riflette il funzionamento di circuiti cerebrali distinti sebbene interconnessi. Spesso – forse quasi sempre – queste due menti sono perfettamente coordinate; i sentimenti sono essenziali per il pensiero razionale, proprio come
questo lo è per i sentimenti. Ma quando le passioni aumentano
d’intensità, l’equilibrio si capovolge; la mente emozionale
prende il sopravvento, travolgendo quella razionale» [Goleman, 1999: 28].
Il concetto di razionalità, insieme con quello di giustizia sociale, è uno dei concetti normativi piú importanti impiegati nelle scienze sociali. È intuitivo che essere razionali significa agire
nel modo migliore possibile rispetto a un determinato fine, o
utilizzare nel modo migliore le risorse e i mezzi disponibili per
raggiungere una meta. Proprio su questo concetto di raziona117
lità, fondamentalmente un «costrutto normativo», ma con forti
valenze empiriche ed esplicative, si sono fondate la teoria dei
giochi, la teoria delle decisioni, la sociologia, la criminologia, la
scienza politica. La razionalità non è soltanto un ideale normativo (nel senso che nessuno di noi è mai soddisfatto delle deviazioni occasionali ala razionalità), ma anche «il presupposto di
ogni atto ermeneutico» [Elster, 1997: 230]. Per cercare di capire e spiegare meglio il comportamento degli altri anche il sociologo, come l’economista e il politologo deve partire dall’ipotesi
che gli uomini tendano a comportarsi, in generale, come esseri
razionali. Senza questa ipotesi di partenza non potremmo attribuire desideri e convinzioni sulla base dei quali interpretiamo i
comportamenti.
Si è già accennato alla posizione di Jeremy Rifkin sulla la necessità di una visione del mondo totalmente nuova fondata su
una riforma radicale del pensiero e di quella di Ulrich Beck che
pone l’esigenza di rifondare e fondare concettualmente, empiricamente e organizzativamente la sociologia come scienza
transnazionale della realtà. La sociologia può avere un ruolo
importante all’interno dello spazio che si è aperto per un «confronto cosmopolitico attorno ai fini, ai valori, ai presupposti e
ai percorsi delle modernità alternative» [Beck, 2001: 20].
«La legge dell’entropia e le leggi della termodinamica costituiscono la base di un modo di pensare postmoderno riguardo
al mondo e al nostro rapporto con esso, un modo di pensare
che ci può aiutare a fermare l’attuale crisi energetica e l’effetto
serra e può renderci uniti in una nuova visione comune del futuro. Non è possibile avere sicurezza sulla forma che potrebbe
assumere un disastro ecologico, quello che è possibile affermare è che prima o poi si presenteranno dei problemi ecologici seri. Il futuro, persino quello prossimo, non è semplicemente inconoscibile, bensí precipuamente incerto. Alcuni scenari appaiono senz’altro piú probabili di altri; ma non c’è nulla di stabilito, determinato. E a ben guardare, il futuro è piú aleatorio
di quanto non sia stato: si prospettano possibilità radicalmente
diverse perché la tecnologia è diventata assai influente, perché
le idee si diffondono con grande rapidità, perché il comporta118
mento riproduttivo – una variabile solita mutare a ritmo lentissimo – registra delle accelerazioni. Inoltre tutte queste variabili
sono piú interattive di quanto non siano in genere state in passato, sicché il sistema complessivo di società e ambienti globali
è caratterizzato da un’incertezza sempre maggiore, è piú caotico che mai» [McNeill, 2002: 457]. Negli ultimi secoli, e soprattutto nel Novecento, lo stile di vita industriale si è fondato sull’energia solare «immagazzinata», dice Rifkin in forma di carbonio, petrolio e gas naturale. La nostra civiltà si sta ora avvicinando alla fine del proprio regime energetico come testimoniano i cambiamenti naturali in atto «stupefacenti per natura e dimensione» [Rifkin, 2002: 165].
Da qui l’importanza di un nuovo rapporto tra scienze naturali e sociali che possa davvero incidere sulle scelte che la civiltà dovrà compiere sul proprio regime energetico per contrastare il deterioramento progressivo delle proprie infrastrutture
con la conseguente morte e decomposizione della società.
«Non si tratta soltanto […] di rivendicare il superamento
della scissione fra uomo e natura, per muoversi in una visione
olistica delle interpretazioni all’interno della biosfera. Né si
tratta di reclamare la difesa a oltranza della manifestazione naturale nella sua purezza a fragilità. Il richiamo è in questo caso
a un ecologismo pragmatici e non antiumanista, un ecologismo nel quale la contingenza del processo evolutivo umano
(che implica una rottura della prospettiva antropocentrica dell’evoluzionismo progressionista) sia trasformata in un valore
positivo, in un impegno pratico alla salvaguardia della nostra
specie: proteggere la natura per proteggere noi stessi» [Ceruti,
1998: 49]
Quella di elaborare la differenza fra scienza e discipline
umanistiche è stata a lungo una moda, diventata col tempo
noiosa.
«Il metodo di risoluzione dei problemi, il metodo delle congetture e delle confutazioni è praticato da entrambe. È sempre
praticato nella ricostruzione di un testo danneggiato, come nella costruzione di una teoria della radioattività». Parlando di
Gadamer, sempre Popper ha affermato: «Io ho mostrato che
119
l’interpretazione dei testi (ermeneutica) lavora con metodi
schiettamente scientifici» [Popper, 1977: 353]. E poi: «il metodo delle scienze sociali, come anche quello delle scienze naturali consiste nella sperimentazione di tentativi di soluzione per i
loro problemi» [Antiseri, 2000: 7-8].
Certe divisioni artificiali, fondate spesso su schemi ideologici, non giovano certamente allo spirito scientifico.
«Difatti riducendo il concetto di razionalità a quello ricavato dai metodi delle scienze esatte – e svilendo, cosí il ruolo delle altre forme di conoscenza a quello di semplici ancelle della
conoscenza scientifica –, si scarica sulle spalle della scienza un
fardello insostenibile, che questa non è in grado di sopportare»
[Israel, 2004; 10]. È essenzialmente quanto afferma Michel
Foucault nella postfazione a Le normal e le pathologique [Canguilhem, 1998] la tesi di dottorato in medicina del filosofo della scienza Georges Canguilhem:
«In termini molto grossolani potremmo dire che la storia
delle scienze si è occupata a lungo (di preferenza se non esclusivamente) di alcune discipline “nobili” e che derivano la loro
dignità dall’antichità della fondazione, dall’alto grado di formalizzazione, dall’attitudine matematizzante e dal posto privilegiato che occupavano nella gerarchia positivista delle scienze [...]
Canguilhem ha ribaltato il problema; ha centrato l’essenza del
suo lavoro sulla storia della biologia e su quella della medicina
ben sapendo che l’importanza teorica dei problemi sollevati
dallo sviluppo di una scienza non è per forza direttamente proporzionale al grado di formalizzazione che essa ha raggiunto.
Ha dunque fatto scendere la storia delle scienze dai vertici (matematiche, astronomia, meccanica galileiana, di Newton, teoria
della relatività) verso regioni in cui le conoscenze sono molto
meno deduttive».
Interessanti sono le osservazioni di un matematico miranti
non tanto ad appesantire il già sovraccaricato fardello delle cosiddette scienze esatte, ma, piuttosto, a criticare tutti gli approcci riduzionismi, nell’interesse di una concezione non riduttiva e parziale di razionalità:
120
«L’idea di razionalità è qualcosa di assai piú vasto di quanto
viene predicato dalle varie concezioni riduzionistiche. Dovrebbe essere chiaro che la battaglia per la difesa della razionalità –
la quale non deve starci a cuore meno di certi suoi esagitati fautori di facciata – non ha assolutamente nulla a che fare con la
difesa a oltranza di una metafisica materialistica. Al contrario,
siamo convinti che l’affermazione di una visione autenticamente razionalista e scientifica passi attraverso l’assunzione di un
approccio fenomenologico e attraverso il rifiuto di presentare
come risultati scientifici oggettivi le varie ideologie metafisiche,
esplicite o latenti che esse siano. Questo punto di vista è certamente difficile – perché un atteggiamento ideologico è certamente assai piú comodo, soprattutto se mascherato da oggettivismo scientifico –, ma rappresenta l’unica maniera efficace di
difendere la razionalità» [Israel, 2004: ibid.].
Solo l’idea e le pratiche di una razionalità siffatta possono
impedire quella «patologia del sapere» che parcellizzando e disgiungendo le conoscenze compromettono quella che Morin
definisce «conoscenza della conoscenza» [Morin, 1989].
Si determina, in questo modo la produzione e riproduzione
di nuove ignoranze e parcellizzazioni del sapere:
«Cosí dunque è il medesimo processo che compie le piú alte
imprese mai portate a termine nell’ordine della conoscenza e
che, allo stesso tempo, produce nuove ignoranze, un nuovo
oscurantismo, una nuova patologia del sapere, un potere incontrollato. Questo fenomeno dal doppio volto ci pone un problema di civiltà cruciale e vitale. Noi cominciamo a capire che, pur
essendo totalmente dipendente dalle interazioni fra le menti
umane, la conoscenza sfugge ad esse e costituisce una potenza
che diviene estranea e minacciosa. Oggi, l’edificio del sapere
contemporaneo si eleva come una Torre di Babele, che ci domina piú di quanto noi la dominiamo» [Morin, 1989: 18].
Il tentativo di ottenere un pensiero «purificato», positivisticamente assolutizzato, e infallibile ha avuto come risultato solo
quello dello svuotamento. Morin dà atto a Popper di avere rovesciato le ideologie della teoria scientifica come portatrice di
certezza, spiegando che, al contrario, che la caratteristica specifica della scientificità di una teoria risiede nel «fallibilismo».
121
«Da una parte, i progressi della microfisica portavano a cogliere un tipo di realtà di fronte al quale veniva meno il principio di non contraddizione. Dall’altra, il teorema di Gödel stabiliva l’indecidibilità logica in seno ai sistemi formalizzati complessi» [Morin, 1989: 20].
Il matematico ci mostra la genesi dell’«ideologia della macchina vivente» – secondo la quale l’uomo non è altro che una
macchina e che persegue la possibilità di realizzare una macchina che diventa uomo – chiede l’abbandono di dubbi e riserve
sulla possibilità di determinare le leggi assolute e universali che
reggerebbero il funzionamento del pensiero: «leggi scientifiche
che si costituiscono astraendo dallo specifico (e quindi dalla
temporalità concreta), leggi immanenti che individuano le permanenze dietro le apparenze del cambiamento, e che reggono
l’esplicarsi di ogni circostanza possibile» [Israel, 2004: 94].
Il discorso di Israel è interessante in quanto getta luce sul
periodo in cui cominciò a prender piede l’ideologia della macchina vivente che coincide con i primi tentativi, in analogia con
la fisica-matematica di matematizzare le scienze umane e sociali. Con accenti, palesemente divertiti scrive Israel:
«Fu nel corso del Settecento – e accanto al materialismo radicale di La Mettrie e dei seguaci estremi del macchinismo cartesiano – che prese forma la matematica sociale di Condorcet,
ovvero il tentativo di definire con metodi matematici esatti la
procedura che avrebbe dovuto seguire una giuria di tribunale
per formulare una sentenza «giusta», o quella necessaria per determinare le forme ottimali di rappresentanza politica attraverso le elezioni. E fu in questo periodo che presero forma i primi
tentativi di matematizzazione dell’economia, nell’ambito dei
quali ebbe un’importanza primaria quello di descrivere in forma matematica esatta i gusti o preferenze di un soggetto economico, mediante la cosiddetta “funzione di utilità”» [Israel,
2004; 94-95]. Ha fatto osservare Alexandre Koyré che la caratteristica distintiva della scienza newtoniana consiste proprio
nel legame stretto tra «matematica ed esperimento nella trattazione matematica dei fenomeni vale a dire dei dati forniti dall’esperienza o (come in astronomia, dove non si possono fare
122
esperimenti) dall’osservazione» [Koyré, 1972: 21]. Corsivi
miei]. La scienza newtoniana si sviluppa sulla base della filosofia corpuscolare e del metodo logico (identico all’analisi matematica in generale) dell’analisi atomistica degli accadimenti e
degli eventi globali, «il metodo cioè di ridurre i fenomeni dati
alla somma dei loro componenti atomici elementari (nei quali
sono, in ultima analisi, risolvibili)» [Koyré, 1972: ibid.]. Questo sfolgorante successo della scienza newtoniana impose praticamente il suo metodo come riferimento «tipico-ideale» non
solo per l’edificazione della scienza, ma, come dice Koyré, «di
qualsiasi tipo di scienza».
Queste analisi riguardano anche la sociologia e le scienze sociali in generale.
Quando si definisce la sociologia come «scienza della società» si pongono due problemi. Il primo è relativo a che cosa è
scienza, il secondo riguarda le caratteristiche distintive della sociologia rispetto ad altre scienze sociali come la storia, l’economia, la scienza della politica, l’antropologia culturale, la psicologia sociale, la demografia.
Questi problemi di definizione e distinzione sono legati all’origine stessa della sociologia.
Per Auguste Comte la sociologia occupa un posto privilegiato tra le scienze. Ad essa è riservato un piano superiore rispetto
all’astronomia, alla fisica, alla chimica e alla biologia. Certamente, questa tendenza a stabilire primati non va nella direzione di
stabilire un rapporto equilibrato tra le diverse discipline.
Ogni disciplina tende naturalmente all’autonomia attraverso
la delimitazione del suo ambito, il linguaggio che elabora, le
tecniche che utilizza e le teorie cui fa riferimento.
L’organizzazione disciplinare nasce nel XIX secolo, in particolare con la formazione delle moderne università, e si sviluppa
nel corso del secolo XX con il progresso della ricerca scientifica. Tutte le discipline hanno, dunque una loro storia, nascita,
istituzionalizzazione, evoluzione, decadenza.
«Tale storia si iscrive nella storia della società. Per cui lo studio della disciplinarità – vale a dire l’organizzazione della scienza in discipline – deriva dalla sociologia della conoscenza, da
123
una riflessione interna a ciascuna disciplina ma anche da conoscenze esterne. Non basta lavorare all’interno di una disciplina
per conoscere tutti i problemi che ad essa afferiscono. La fecondità della disciplinarità nella storia della scienza non ha bisogno di essere dimostrata: da una parte la disciplinarità delimita un ambito di competenza senza il quale la conoscenza si
diluirebbe e diventerebbe vaga: dall’altra, essa svela, estrapola
o costruisce un “oggetto” degno di interesse per lo studio
scientifico […] L’istituzionalizzazione disciplinare comporta
tuttavia al tempo stesso un rischio di iperspecializzazione e un
rischio di “cosificazione” dell’oggetto studiato del quale si rischia appunto di dimenticare che è estrapolato o costruito, e
viene invece percepito come una cosa in sé. I rapporti e le affinità di tale oggetto con altri oggetti trattati da altre discipline
saranno dunque negletti, come anche i rapporti e le affinità
dell’oggetto con l’universo di cui fa parte. La frontiera disciplinare, il suo linguaggio e i concetti che le sono propri isolano la
disciplina rispetto alle altre e rispetto ai problemi che trascendono le singole discipline. Rischia cosí di formarsi quello spirito iperdisciplinare che, al pari di qualsiasi altro senso di possesso, impedisce ogni incursione al di fuori della propria particella
di sapere» [Morin, 1999b: 14].
La storia della scienza non è solo storia della costituzione
autonoma e dello sviluppo delle discipline, ma anche storia dei
processi che hanno portato alla rottura delle rigidità disciplinari, delle frontiere, degli sconfinamenti, delle ibridazioni che si
consolidano in nuove discipline.
«È dunque, allo stesso tempo, la storia della formazione dei
gangli complessi in cui discipline diverse si aggregano e si agglutinano. In altre parole, se la storia ufficiale della scienza è
quella della disciplinarità, un’altra storia, che le è legata e inseparabile, è quella delle “inter- trans- poli-disciplinarità”» [Morin, 1999b: ibid.].
Una nozione utilizzata in un determinato sistema di riferimento può diventare innovativa in un altro sistema:
«Cosí la nozione di “informazione”, derivata dalla pratica
sociale, ha assunto un senso scientifico preciso, nuovo nella
teoria di Shannon; poi è entrata nella biologia per iscriversi nel
124
gene. Essa si è allora associata alla nozione di “codice”, derivata dal linguaggio giuridico, che si è “biologizzata” nella nozione
di “codice genetico”. La biologia molecolare dimentica spesso
che, senza le nozioni di patrimonio, codice, informazione, messaggio – tutte venute da altre discipline – l’organizzazione del
regno vivente sarebbe inintelligibile. Ancora piú importanti sono i trasferimenti di schemi cognitivi da una disciplina a un’altra. Claude Lévi-Strauss non avrebbe per esempio potuto elaborare la sua antropologia strutturale se non avesse frequentato
New York – nelle trattorie, sembra – Roman Jakobson che aveva già elaborato la linguistica strutturale; e Jakobson e LéviStrauss non si sarebbero incontrati se non fossero stati, l’uno e
l’altro, rifugiati europei [...] Innumerevoli sono le migrazioni di
idee e di concezioni, le simbiosi e trasformazioni teoriche dovute alle migrazioni di scienziati cacciati dalle università naziste
o staliniste» [Morin, 1999b: ibid.].
Anche la scuola delle Annales, come testimoniano i lavori di
Georges Duby e Jacques Le Goff, ha aperto la storia all’antropologia e ad altre scienze.
Si costituisce in questo modo una scienza storica aperta «a
molti fuochi, a molte dimensioni ivi compresa quelle delle altre
scienze umane». Lo stesso è avvenuto per la preistoria che è diventata «una scienza policompetente e polidisciplinare» in relazione al fatto che «la costituzione di un oggetto al tempo stesso
interdisciplinare, polidisciplinare e transdisciplinare permette
dunque di creare lo scambio, la cooperazione e la policompetenza» [Morin, 1999b: 15].
Anche l’ecologia ha utilizzato gli strumenti di discipline diverse come la geografia, la geologia, la batteriologia, la zoologia
e la botanica.
In questa direzione si è sviluppata anche l’astrofisica in un
rapporto stretto tra fisica, macrofisica e astronomia. Questa
convergenza ha consentito l’elaborazione di uno schema cognitivo cosmologico che ci consente non solo di comprendere il
nostro universo e la sua storia ma di intrecciare la fisica e l’astronomia con la filosofia.
Questi processi incentivano una visione della realtà che si
presenta alla mente dell’uomo come «un complicato intreccio di
125
elementi nessuno dei quali può essere separato dagli altri, proprio perché ciascuno di essi non è un elemento in sé e per sé,
ma la tessera di un mosaico di significati» [Voltaggio, 1999: 38].
La trama della realtà si apre alla complessità:
«Le parole che, a poco a poco, cercano di definire una volta
per tutte il mosaico, come essere, materia, natura, Dio, ecc.
rappresentano assai meno la connotazione di situazioni reali
che non piuttosto il tentativo di chiudere in una parola e in un
concetto una complicata trama di rapporti. In questa prospettiva, l’uomo non è come l’ingegnere che lavora all’esecuzione di
un progetto, ma piuttosto come il bricoleur che, «per caso»
scopre il significato e l’uso di un oggetto, la cui natura intrinseca non prevedeva né l’uno, né l’altro […] Lo sviluppo del pensiero astraente non «scopre» la realtà, ma la costruisce come un
universo di significati e di simboli ed è questo universo il vero
contenuto della scienza» [Voltaggio, 1999: ibid.].
La realtà non viene scoperta ex abrupto, ma viene costruita
come un universo, una rete di significati e di simboli.
Una volta, tuttavia, che il mosaico è stato messo a punto,
vengono inventate le regole per definirlo, in primo luogo quelle
del calcolo e quelle della misurazione che sono proprie dei processi di astrazione attraverso i quali procede la scienza. La matematica unifica il mosaico delle significazioni attraverso l’ipotesi
e la sua verifica fattuale, in un rapporto con le altre discipline e
con la capacità di immaginazione e di invenzione creatrice.
Il processo di simbolizzazione che porta alla scoperta va
considerato come parte di un processo piú generale e come
momento di un’impresa collettiva.
Piaget parlava di un «cerchio delle scienze» che legherebbe
tra loro le varie scienze.
La difficoltà, non tanto di rinchiudere in una definizione rigida di società tutto ciò che sta avvenendo nel mondo, quanto
piuttosto di individuare una cifra significativa della società contemporanea allo scopo di avvicinare i saperi alla sua comprensione in modo da farne derivare pratiche e strategie di intervento piú credibili ed efficaci, sembra ridurre notevolmente
l’ottimismo previsionale quanto alla possibilità di accedere alla
126
complessità del reale planetario. Ciò ha conseguenze inedite: la
complessità dilaga senza essere ridotta, aumentando cosí il carattere «entropico» della nostra società.
Kuhn, a questo proposito, parlerebbe di diffusa «sensazione
di cattivo funzionamento» come elemento fondamentale attraverso cui la scienza recepisce il disagio delle formazioni sociali,
come requisito preliminare di ogni rivoluzione scientifica. Da
qui ha inizio il processo per la conquista di una migliore prospettiva cognitiva23.
Questa prospettiva non potrà essere credibilmente perseguita se non si ha chiaro che nessuna logica della scoperta scientifica può da sola spiegare il modo di superare la crisi generate
nel quadro dei paradigmi accettati.
«Oggi sta emergendo un paradigma cognitivo che comincia
a gettare un ponte tra scienze e discipline che non comunicano.
Il regno del paradigma dell’“ordine” che esclude il disordine –
paradigma che si traduceva in una concezione deterministica e
meccanicistica dell’universo – comincia a scricchiolare in vari
punti. In campi diversi, le nozioni di ordine e di disordine chiedono sempre piú insistentemente, nonostante le difficoltà logiche che si creano, di essere concepite in maniera complementare e non piú soltanto antagonistica: tale esigenza è stata formulata sul piano teorico da von Neumann (teoria degli atomi autoriproduttori) e da von Foerster (order from noise); si è imposto nella termodinamica di Ilya Prigogine che ha dimostrato
che, in condizioni di turbolenza appaiono fenomeni di organizzazione; trova spazio in meteorologia sotto il nome di “caos”, e
l’idea di caos “organizzatore” è diventata centrale a partire dai
lavori e dalle riflessioni di David Ruelle» [Morin, 1999b: 16].
127
II. Criminalità e devianza
«L’accordo non violento ha luogo ovunque la cultura dei sentimenti ha messo a disposizione degli uomini mezzi puri d’intesa. Ai
mezzi legali e illegali di ogni genere, che sono pur sempre tutti insieme violenza, è lecito quindi opporre, come puri, i mezzi non
violenti. Gentilezza d’animo, simpatia, amor di pace, fiducia e tutto quanto si potrebbe aggiungere ancora, sono la loro premessa
soggettiva. Ma la loro manifestazione oggettiva è determinata dalla
legge [...] che mezzi puri non sono mai mezzi di soluzioni immediate, ma sempre di soluzioni mediate. Essi non si riferiscono quindi mai direttamente alla risoluzione di conflitti fra uomo e uomo
ma solo attraverso l’intermediario delle cose. Nel riferimento piú
concreto dei conflitti umani a beni oggettivi si dischiude la sfera
dei mezzi puri. Perciò la tecnica, nel senso piú ampio della parola,
è il loro campo proprio e adeguato. Il loro esempio piú calzante è
forse la conversazione, considerata come una tecnica di civile intesa» [Walter Benjamin, 1962: 54-55].
1. «Postmoderno» tra relazione sociale, ordine,
libertà e controllo
Le descrizioni delle società contemporanee sono spesso idolatriche. Esse sono accomunate, stando alle piú recenti analisi
di David Lyon, da un piatto determinismo che porta a considerare l’innovazione tecnologica «come la forza trainante, che
produce la società dell’informazione e le stesse cybersocietà»
128
129
[Lyon, 2002: 31]. Fa notare efficacemente Lyon che il potenziale tecnologico non coincide mai con il futuro delle società.
Da questo punto di vista opportunamente uno dei concetti
fondamentali al centro della riflessione sociologica, quello di
«relazione sociale», è sottoposto a revisione critica.
Secondo Pierpaolo Donati, la relazionalità tra le componenti di libertà (lib) e le componenti di ordine-controllo (lab) nell’azione sociale va ripensata «diversamente da come l’ha pensata la modernità, cioè secondo quello che io chiamo un codice
relazionale» [Donati, 1998: 232-233]. Parsons sottovaluta quelle che Habermas definisce patologie della modernità, e dal
punto di vista epistemologico non ha visto «la distanza fra osservatore e osservato: cioè, non ha tematizzato la relazione conoscitiva come relazione, essa stessa sociale» [Donati, 1998:
239]. In questo modo Parsons tematizza le nozioni di sistema
normativo e di sistema sociale, mentre non tematizzata, rimane
quella di sistema relazionale. Da qui la contraddizione tra integrazione sociale e integrazione sistemica rilevata da Habermas
sia in Parsons che in Luhmann.
Per Donati la sociologia, negli ultimi decenni, non ha fatto
che dichiarare il fallimento parsonsiano di definire la teoria
moderna sul dilemma libertà/controllo. Riprendere queste critiche non significa far ripiegare sul passato la riflessione sociologica, ma, piuttosto di prospettare il «dopo-moderno» come lo
definisce Donati. La crisi della dialettica tra libertà e controllo
pone di fronte ad una svolta la teoria sociologica. Le grandi trasformazioni, accelerate dalla globalizzazione, mutano le caratteristiche del moderno: libertà significa nascita di «nuovi soggetti», controllo, «nuove regole sociali».
«Nascono nuove teorie dei soggetti e delle regole sociali. Ma
anche queste rappresentazioni risultano insufficienti a interpretare quanto accade, cioè il passaggio al dopo-moderno, perché
non colgono la novità del sociale (dovrei dire: la novità del modo in cui il sociale può essere prodotto in quanto umano, per
distinzione col sociale non umano). Le teorie che rimangono nel
framework lib/lab vedono ancora libertà e controlli sotto forma
di soggetti e regole, ma non il farsi della società. Fare società –
130
diventa in modo peculiare, per la prima volta nella storia umana
– tessere una rete di reti di relazioni che attuano generi differenti di comunicazione» [Donati, 1998: 239].
La proposta di Donati è quella di ripartire dai problemi lasciati irrisolti da Parsons riconsiderando:
1) il ruolo del soggetto nell’azione sociale evitando sia la
soggettivizzazione neoindividualista, sia la de-soggettivizzazione
sistemica à la Luhmann. L’individuo è dentro e fuori l’azione
sociale;
2) il problema della «natura» stessa del sociale in modo di
considerarlo innanzitutto come struttura relazionale. Parsons e
Luhmann evitano sistematicamente di considerarlo tale. «Lungi dall’essere un sistema fatto di tanti sistemi sistematicamente
divisi e collegati fra loro, la società apparirà come una rete di
reti di relazioni intrecciate fra soggetti» [Donati, 1998: 250];
3) in sintesi: il sociale «è una stoffa sui generis, che condivide con altre realtà una potenzialità sistemica senza essere di per
sé sistemica, che non è il prodotto degli individui anche se ha
bisogno degli individui per esistere. Questa realtà è sfuggita a
Parsons perché non l’ha vista come relazionalità. L’irriducibilità della relazione sociale ai suoi poli estremi (la pura soggettività e il puro sistemico) indica che il «fatto irritante» della società (come lo chiama Archer, 1995) è costitutivo della persona
umana (non aggiuntivo rispetto all’individuo, come ancora
pensa Parsons) e delle reti sociali che le persone umane costruiscono. Il sociale non può essere mai dismesso, vuoi quando si
perseguono finalità meramente valoriali (come nei sogni delle
sociologie che pensano a un rinnovato «primato» del politico o
dell’etico: per esempio nella formulazione di Caillé, 1993: il sociale è, invece, proprio la condizione della loro reciproca differenziazione e integrazione» [Donati, 1998: 252].
Parsons non ha colto lo spessore relazionale della sociologia
di Simmel per il quale:
«Il punto di partenza di ogni formazione sociale è soltanto
l’interazione tra persona e persona. Per quanto le origini storiche della vita sociale, cosí come erano effettivamente configurate, siano avvolte nelle tenebre, l’analisi genetica e sistematica
131
di tale vita deve partire da questa relazione semplicissima e immediata, dalla quale vediamo ancor oggi scaturire innumerevoli
nuove formazioni sociali. Lo sviluppo successivo sostituisce
l’immediatezza delle forze interagenti con la creazione di formazioni superindividuali di ordine piú elevato, che appaiono
come portatrici autonome di quelle forze, e assorbono e mediano i rapporti reciproci degli individui tra di loro. Queste formazioni appaiono nelle configurazioni piú svariate; nella realtà
tangibile come nelle pure idee e nei prodotti della fantasia, nelle organizzazioni complesse come nelle rappresentazioni degli
individui» [Simmel, 1984: 257-258].
Per Luhmann la genesi della società si sposta sul versante
della comunicazione.
Il processo di comunicazione ha inizio non appena gli uomini entrano in contatto tra di loro:
«La comunicazione è l’evento elementare che costituisce in
generale azioni, nel senso di unità artificiali delimitate e rapportabili tra loro in modo conforme al senso e che si produce
simultaneamente alla costituzione del sistema sociale, che rende a sua volta possibile la continuità della comunicazione stessa» [Luhmann, 1982: 5]. Da una parte la comunicazione consente nei sistemi sociali l’attribuzione di azioni e, dall’altra, essa
stessa è resa possibile dal processo di attribuzione. Non c’è,
dunque, un prius, ma una stretta relazione, interdipendenza,
Una conseguenza immediata di questo ragionamento è che
l’autoreferenza è una proprietà di tutta la realtà e non solo del
soggetto che la osserva dal di fuori. La soggettività stessa va
considerata non piú in astratto, ma come soggettività dei processi, raggiungibile solo attraverso la differenziazione dei sistemi
osservati.
La «stoffa» del sociale va ripresa anche dal versante della relazione intersoggettiva dei comportamenti che risultano
profondamente modificati dai sistemi a cominciare da quello
massmediatico.
Da questo punto di vista, a ragione Postman sostiene che
con la televisione la vita diventa «un evento stilizzato, pubblicizzato dal mezzo» e che «noi giungiamo a preferire la vita dei
132
mezzi di comunicazione alla realtà stessa» [Postman, 1991: 73].
Ci troviamo sempre piú immersi in un mondo di esperienza delegata.
Nel corso dell’evoluzione l’uomo potenzia sempre piú l’attività di ricerca di informazioni addizionali utili all’azione e,
quindi, costituisce la base di queste fonti nella cultura, nel patrimonio accumulato di simboli e significati. Questa base informazionale non è solo una semplice espressione della nostra esistenza biologica, psicologica e sociale, ma ne costituisce come
dice Geertz, il prerequisito.
«[...] Noi siamo animali incompleti o non finiti che si completano e si perfezionano attraverso la cultura – e non attraverso la cultura in genere, ma attraverso forme di cultura estremamente particolari: dobuana e giavanese, hopi e italiana, di classe superiore e inferiore, accademica e commerciale. La grande
capacità di apprendere dell’uomo e la sua duttilità sono state
notate spesso, ma ancor piú decisiva è la sua estrema dipendenza da un certo tipo di sapere: la costruzione di concetti, l’apprendimento e l’applicazione di sistemi specifici di significato
simbolico» [Geertz, 1998: 64].
Per Geertz noi viviamo in una lacuna di informazioni.
«Tra quello che ci dice il nostro corpo e quello che dobbiamo sapere per funzionare c’è un vuoto che dobbiamo riempire
noi stessi, e lo riempiamo con le informazioni (o disinformazioni) fornite dalla nostra cultura. Il confine tra quel che si controlla in modo innato e quel che si controlla culturalmente è
mal definito e oscillante» [Geertz, 1998: 65].
La natura umana è risultato di interazione e non della mera
somma di fattori innati e di fattori culturali.
In primo piano è anche il classico concetto di ordine.
Riprendendo la teoria di Talcott Parsons per il quale l’obiettivo principale della sociologia è quello di risolvere il problema
dell’ordine, allo scopo di interpretare la «vincolatezza» dei sistemi sociali, Anthony Giddens riformula la questione dell’ordine come problema che riguarda la comprensione del modo
in cui i sistemi sociali «vincolano» il tempo e lo spazio. Secondo questa impostazione l’ordine viene concepito come «pro133
blema di distanziazione spazio-temporale, ossia del modo in cui
il tempo e lo spazio vengono coniugati per coniugare presenza
e assenza» [Giddens, 1994: 26]. Nella modernità il livello di distanziazione spazio-temporale aumenta notevolmente rispetto
alle società agricole precedenti. Il fenomeno della globalizzazione è fortemente intrecciato con la problematica della distanziazione spazio-temporale. Quest’ultima rinvia alle relazioni
che intercorrono tra implicazioni locali fondate sulla compresenza e interazione a distanza fondata su connessioni di presenza e assenza.
«Nell’epoca moderna – scrive Giddens – il livello di distanziazione spazio-temporale è molto piú elevato che in qualsiasi
altro periodo precedente e le relazioni tra forme ed eventi sociali locali e distanti subiscono di conseguenza uno “stiramento”. La globalizzazione si riferisce essenzialmente a questo processo di stiramento, nella misura in cui i vari rapporti che legano tra loro diversi contesti sociali o regioni diventano una rete
che avvolge l’intero pianeta» [Giddens, 1994: 71]. La globalizzazione è fenomeno circolare, dunque che lega, con uno scambio di effetti reciproci, un ambito locale a un ambito da esso
distanziato. In gioco sono «relazioni sociali mondiali» che entrano in un rapporto dialettico anche perché gli eventi locali
possano andare in direzione opposta alle relazioni distanziate
che li modellano. La trasformazione in ambito locale è da considerare componente della globalizzazione in quanto «estensione laterale delle connessioni sociali nel tempo e nello spazio».
Ciò che oggi avviene nell’ambito di un distretto urbano ha certamente collegamenti con fattori che avvengono a distanze remote rispetto all’ambito locale (mercato mondiale della moneta, mercato delle merci). Ma, in generale, la risultante dell’interazione locale-globale non può essere tanto ricondotta a fattori
costanti o, come dice Giddens, ad «una serie generalizzata di
mutamenti che agiscono in una direzione univoca» [Giddens,
ibidem], quanto piuttosto all’interazione di tendenze contrapposte. Ciò implica, come sottolinea Daniel Bell, il recupero del
concetto di scala per il quale ogni cambiamento di scala di
un’istituzione implica un cambiamento di forma che ha pure ri134
svolti di instabilità. Con la rivoluzione delle comunicazioni in
atto si determina un mutamento di scala delle attività umane.
Le interazioni comunicative «in tempo reale», per Bell, rendono possibile «un’economia internazionale interdipendente». Le
caratteristiche di questa economia vanno sempre piú assumendo le caratteristiche di un sistema instabile in cui i cambiamenti
nella grandezza di alcune variabili, o una crisi in un punto
qualsiasi, si ripercuotono su tutto il sistema.
«La gestione dei cambiamenti di scala – scrive Bell – è uno
dei problemi piú antichi che ogni istituzione sociale, fosse essa
la chiesa, l’esercito o l’impresa economica, per non parlare del
sistema politico, ha dovuto affrontare. Le società hanno la tendenza a funzionare in maniera soddisfacente finché esiste una
congruenza nei rapporti di scala tra le attività economiche, l’organizzazione sociale e il controllo politico e amministrativo.
Oggi ci troviamo e però di fronte a una progressiva perdita delle proporzioni. Lo Stato nazionale è divenuto troppo piccolo
per governare i grandi problemi, e troppo grande per quelli
piccoli. Lo Stato nazionale, con la sua politica politicante, si rivela sempre meno capace di gestire le gigantesche maree dell’economia internazionale, ed è al tempo stesso troppo grande,
quando le decisioni politiche siano concentrate in un solo centro burocratico, per rispondere alle diverse esigenze ed iniziative delle varie unità locali e regionali poste sotto il suo controllo» [Bell, 1994: 81].
Lo sviluppo delle relazioni sociali globalizzate da una parte
contribuisce ad attenuare aspetti del sentimento nazionalistico
degli Stati-nazione e può dall’altra attivare sentimenti equivalenti nella sfera locale.
E come afferma Giddens: «Nello stesso tempo in cui le relazioni sociali subiscono uno “stiramento laterale” assistiamo,
nell’ambito dello stesso processo, al rafforzamento delle pressioni per ottenere una maggiore autonomia locale e una identità culturale regionale» [Giddens, 1994: 72].
Secondo Giddens, dal modo in cui le istituzioni moderne
sono «collocate» nel tempo e nello spazio, è possibile identificare alcune caratteristiche distintive della modernità. Proprio
135
nel grande dinamismo e nella portata globalizzante delle istituzioni moderne risiede il tratto specifico della loro differenziazione rispetto alle culture tradizionali.
«Nelle società premoderne lo spazio coincide generalmente
con il luogo, dal momento che le dimensioni spaziali della vita
sociale, per la gran parte della popolazione, sono dominate in
molti sensi dalla “presenza”, ossia da attività localizzate. L’avventura della modernità separa sempre piú lo spazio dal luogo
favorendo i rapporti tra persone “assenti”, localmente distanti
da ogni data situazione di interazione “faccia a faccia”. Nelle
condizioni della modernità il luogo diventa sempre piú fantasmagorico: ciò significa che i luoghi sono pervasi e modellati in
misura crescente da influenze sociali relativamente distanti da
essi. Ciò che struttura il luogo non è semplicemente ciò che ne
occupa la scena; la “forma visibile” della località nasconde le
relazioni distanziate che ne determinano la natura» [Giddens,
1994: 29-30]. Per quale motivo, si chiede Giddens, la separazione del tempo e dello spazio è cosí rilevante per l’estremo dinamismo della società moderna?
In primo luogo la separazione del tempo e dello spazio e la
loro formalizzazione come dimensioni standardizzate e «vuote»
spezza il legame tra l’attività sociale e la sua esplicazione in determinati «contesti di presenza». Nel momento in cui si verifica
la disaggregazione delle istituzioni, queste devono per cosí dire
sintonizzarsi con nuovi livelli di distanziazione spazio-temporale. In questa operazione, le istituzioni entrano nell’orbita del
globalismo e con la sua specifica e indefinita1 forma di coordinazione del tempo e dello spazio. Da qui prende corpo la disponibilità al cambiamento «tagliando i vincoli delle consuetudini e delle pratiche locali» [Giddens, 1994: 31].
In secondo luogo Giddens mette in evidenza la grande capacità di dinamismo e di razionalità delle organizzazioni moderne che consente di collegare la sfera locale e quella globale
attraverso tecnologie avanzate che influiscono sulla vita di milioni di persone.
Il terzo aspetto, sottolineato da Giddens, riguarda la ricombinazione del tempo e dello spazio «per formare uno scheletro
136
storico di azione e di esperienza davvero mondiale» [Giddens,
ibidem].
Mutamenti tecnologici evolutivi coinvolgono globalmente il
tessuto della vita2. Del decennio appena trascorso s’è parlato
addirittura di «decade digitale», cioè come di «un periodo in
cui l’impiego delle tecnologie video digitali ha avuto una grande estensione nei sistemi televisivi, sia nella ricezione che nella
trasmissione del segnale»3.
La stessa televisione come apparato testuale, tecnologia e
forma culturale non solo diventa «parte di, ed aiuta a, formare
la coscienza storica, la politica nazionale e internazionale»4.
2. Globalizzazione, mobilità normativa e criminalità
I processi di globalizzazione incrementano la complessità
dei rapporti tra economia politica e diritto.
«Oggi viviamo un processo di globalizzazione analogo a
quello di un secolo e mezzo fa, ma senza le istituzioni globali in
grado di affrontarne le conseguenze. Possediamo un sistema di
governance globale, ma siamo privi di un governo globale, Ancora peggio, proprio nel momento in cui la necessità di istituzioni internazionali è piú forte che mai, la fiducia in quelle che
esistono […] non è mai stata piú bassa» [Stiglitz, 2001: 5].
Abbiamo già visto che Beck parlando dei potenziali di rischio legati alla dimensione spaziale e a quella sociale affronta i
problemi relativi all’individuazione delle responsabilità, cioè
alla difficoltà di individuare in modo giuridicamente rilevante
chi commette criminalità informatica, chi causa l’inquinamento ambientale, chi determina una crisi finanziaria. Beck in particolare propone di dotare l’alleanza contro il terrorismo di un
fondamento giuridico internazionale [Beck, 2003: 48-49] in grado di realizzare anche una politica del dialogo credibile «innanzitutto nei confronti del mondo islamico, ma anche di altre
culture che vedono nella globalizzazione una minaccia per la
loro dignità» [Beck, 2003: 49], e quindi di evitare le chiusure
americane.
137
«Infine, – scrive Beck, – i pericoli insiti nella società mondiale del rischio potrebbero essere sfruttati per creare strutture
regionali per la cooperazione tra Stati multinazionali e cosmopoliti. L’ultimo esempio a tal proposito è il coinvolgimento di
Mosca nelle decisioni della Nato, pur non facendo formalmente parte dell’alleanza» [Beck, 2003: 49-50].
Alessandro Pizzorno tra gli effetti della globalizzazione elenca
anche la «mobilità dell’universo normativo» [Pizzorno, 2002].
Queste mobilità unitamente alle nuove modalità di produrre
diritto «“market-friendly”, ossia sensibili alla logica degli interessi e dei mercati, assumendo moduli giuridici di tipo pragmatico e flessibile, che contraddicono vistosamente i caratteri formalistici del sistema giuridico» [Ferrarese, 2002: 7], si prestano
a manipolazioni e a margini di discrezionalità che rendono piú
permeabile alla criminalità il mondo degli affari transnazionali.
«La mobilità dell’universo normativo dipende, oltre che dalla imprevedibile variabilità dei casi cui le norme si debbono applicare, anche dalla variabilità delle fonti che le producono.
Cioè dal diffondersi di quelle procedure che potrebbero denominarsi di forme di autolegislazione. In altre parole, le regole
dell’azione dei privati vengono sempre piú dettate dai privati
stessi (o, piú esattamente, da loro rappresentanti, avvocati o altri
agenti delegati) attraverso i loro contratti accordi, e sono quindi
pensate in funzione dei loro interessi immediati, con poca considerazione alla loro coerenza in un sistema generale di regole. La
produzione giuridica appare allora dominata dagli studi associati di consulenza, generalmente situati negli Stati Uniti. Da questi
si producono le norme che regolano i rapporti di produzione e
distribuzione internazionale dei beni» [Pizzorno, 2002].
Con la mutazione del sistema internazionale verificatasi dopo il 1989, lo Stato moderno comincia a sperimentare un terza
e originale fase di sviluppo nel processo di monopolizzazione
attraverso «una straordinaria rivalutazione della distribuzione
privatistica delle chances» [Armao, 2002].
Questo ordine sociale «leggero e cangiante» fondato prevalentemente sugli interessi economici pone alla ricerca interdisciplinare l’urgenza di «un’indagine ricognitiva rispetto ai rapporti
138
tra sfera politico-giuridica e sfera economica» al fine di verificare se esistano ancora le caratteristiche essenziali di quei sistemi giuridici che «soprattutto nella tradizione europea, sembrano fonte di nuovi vincoli e certezze» [Ferrarese, 2000: 34].
Il diritto costituiva il contrappeso fondamentale all’imporsi
dell’esclusivo linguaggio degli interessi:
«Il diritto era un contrappeso rispetto agli interessi in quanto si proponeva di costituire un altro linguaggio, alternativo rispetto a quello della “negoziazione”: il linguaggio dell’”argomentazione”, ossia della ragione (e non della razionalità) e degli argomenti, che possono essere spesi per giustificare le decisioni e le regole giuridiche. Con il ricorso all’argomentazione si
ricostituiva un linguaggio per la sfera pubblica, capace di contenere e contrastare il linguaggio degli interessi, ma lo si costituiva dall’interno degli Stati, con piú o meno sensibili differenze tra gli stili argomentativi scelti all’interno delle varie culture
nazionali» [Ferrarese, 2000: 34-35].
Questa perdita di punti di riferimento, l’assottigliarsi dei
confini rende estremamente difficile una teoria esplicativa della devianza «poiché essa, per sua natura, si fonda sulla possibilità di distinguere comportamenti conformi e non di associare
alcune caratteristiche degli autori alle caratteristiche dei comportamenti definiti chiaramente come illeciti o devianti, di individuare fattori o cause favorenti, osservando o misurando la
loro incidenza sull’andamento dei fenomeni che di tali comportamenti sono espressione» [Prina, 2003]. Quello della devianza è certamente un settore in cui diventa sempre piú difficile fare ricerca.
«Il mondo della criminalità è spesso oscuro, minaccioso, imperscrutabile. Qualunque comportamento che violi una norma
viene dissimulato come qualcosa di diverso, viene protetto dai
sospetti, nascosto. Cosí, quando entrano in questo regno della
finzione e della simulazione, gli studiosi di scienze sociali devono, ancor piú di quando fanno ricerca in altri campi, esercitare
“l’arte della diffidenza”, essere attenti a non lasciarsi ingannare
dalle apparenze, saper guardare dietro le quinte» [Barbagli,
Gatti, 2002: 13].
139
Il mondo della criminalità non solo è oscuro e minaccioso
ma, ai nostri giorni, è caratterizzato da dimensioni transnazionali attraverso processi continui di espansione e penetrazione
nelle sfere dell’economia, della finanza e della politica.
Particolarmente difficile è l’analisi della criminalità organizzata e delle mafie che agiscono su scala transnazionale sulla base della grandi opportunità, dalle nuove windows of opportunity offerte dai processi di globalizzazione che sembrano riprodurle in modo allargato.
L’economista Peter A. Lupsha sviluppa il concetto di window of opportunity [Lupsha, 1997] dividendo i gradi della criminalità organizzata in tre fasi, predatoria, parassitaria e simbiotica. Nella fase predatoria la criminalità è essenzialmente una
forma di gangsterismo urbano: essa usa la violenza soprattutto
in modo difensivo per eliminare i nemici e per il controllo del
territorio. La successiva fase parassitaria si sviluppa quando si
sviluppa una «interazione corruttiva» [Jamieson, 1997: 462]
con i settori legittimi del potere, e quando l’esistenza di un potere criminale in un determinato territorio coincide con il bisogno di una parte di alcuni centri di potere legali di utilizzare un
servizio illegale. È necessaria una window of opportunity che,
negli Stati Uniti, fu rappresentata dal proibizionismo.
«La fase simbiotica è caratterizzata da un legame di reciproco bisogno tra Stato e criminalità organizzata, cosí che gli organi
dello Stato invece di essere indeboliti dal parassita, dipendono
dal parassita per perpetuarsi. A questo stadio, la popolazione
non è piú difesa dallo Stato perché gli strumenti tipici di controllo, quali le leggi, le forze dell’ordine e la magistratura, sono
stati invasi dalla presenza mafiosa» [Jamieson, 1997: ibid.].
Le principali organizzazioni mafiose in Italia, Cosa nostra, la
camorra e la ’ndrangheta, nelle modalità specifiche conosciute,
hanno attraversato ciascuna di queste fasi «attraverso un costante processo di riequilibrio dei poteri tra legalità e illegalità, e tra
il potere pubblico e il potere privato» [Jamieson, 1997: ibid.].
Jamieson sostiene che negli anni recenti, le organizzazioni
criminali italiane hanno saputo sfruttare le opportunità offerte
dai grandi cambiamenti geopolitici mondiali, dall’internaziona140
lizzazione dei mercati commerciali e finanziari, dalla caduta
delle frontiere e dai progressi tecnologici e scientifici, soprattutto nella sfera della telecomunicazioni.
Questi processi vengono in qualche modo accelerati da alcune caratteristiche negative assunte dalla globalizzazione. In
particolare, la completa e assoluta vittoria del modo di produzione capitalistico ha portato ad una globalizzazione economica senza alcuna «globalizzazione giuridica» autentica, all’imporsi di una lex mercatoria che «contrappone al diritto statuale
(e a quello internazionale) la libertà contrattuale e riconosce
nel contatto l’unico istituto centrale della globalizzazione che
nei mercati liberi e concorrenziali ha trovato la molla del suo
sviluppo» [Rossi, 2003].
Anche le mafie, al pari degli Stati-nazione, subiscono la forte
pressione della globalizzazione: «Per riuscire a sopravvivere alla
competizione per le quote del mercato mondiale, entrambi si rifanno alla razionalità economica che spinge a preoccuparsi meno che in passato dell’affinità o etnicità…» [Strange, 1998:
166]. Nonostante come imprese transnazionali, le mafie esistano
già da tempo «quello che è nuovo è il loro numero, lo sviluppo
dell’ambito delle loro operazioni transnazionali e il grado in cui
la loro autorità nella società e nell’economia mondiale compete,
intaccandola, con quella dei governi» [Strange, 1998: 165].
3. Ripensare il crimine
«Sia il pubblico che gli Stati hanno ormai abbracciato la concezione di “criminale razionale”. Ciò rende piú facile incolpare il reo di
tutti gli aspetti del crimine, invece di dividere le colpe con la società che crea condizioni che costringono alcune persone a commettere reati. Se la condizione criminale è frutto di una decisione
individuale, allora l’individuo è moralmente responsabile, e merita
di essere punito. Il grande vantaggio di questo tipo di ragionamento è che, una volta che l’individuo è sotto il nostro controllo, non
possiamo fare altro che punire. In questo maniera, la rieducazione
e riabilitazione dei detenuti non rientrano piú tra i compiti del carcere. Inoltre non dobbiamo intraprendere programmi sociali costosi per migliorare le condizioni sociali che generano la crimina141
lità, né dobbiamo attuare ancora piú dispendiose riforme sociali.
Assumere che gli individui compiono scelte pienamente razionali
che li portano a intraprendere attività criminali ci fa risparmiare
ingenti somme di denaro» [Williams, McShane, 1999: 36].
«Con la sua vittoria sul comunismo, il vecchio programma del capitalismo per il progresso economico è esaurito e si richiede una
nuova serie di impegni. Non ha senso continuare a invocare le
economie aperte se non si affronta il fatto che le riforme economiche in atto aprono le porte solo a piccole élite globalizzate mentre
lasciano fuori la maggior parte dell’umanità. Attualmente la globalizzazione capitalistica si limita a interconnettere le élite che vivono sotto le campane di vetro e liquidare l’apartheid della proprietà occorre andare oltre i confini esistenti sia dell’economia sia
del diritto» [De Soto, 2001: 247].
«Ecco dunque l’umanità tutta percorsa da un’evoluzione che si
vorrebbe fosse unanime. Ecco il genere umano che all’improvviso
pretenderebbe di autoaccusarsi pubblicamente e spettacolarmente
di tutti i crimini da esso effettivamente commessi contro se stesso,
“contro l’umanità”. Infatti qualora si cominciasse ad autoaccusarsi, domandando perdono per tutti i crimini commessi un passato
contro l’umanità, sulla Terra non vi sarebbe piú neppure un essere
innocente, e dunque piú nessuno in grado d’indossare le vesti di
giudice o d’arbitro» [Jacques Derrida, 2004].
I processi che si sono analizzati implicano una ridefinizione
dei concetti classici di devianza e di criminalità e un affinamento degli strumenti metodologici per l’analisi di fenomeni inediti
«L’espansione indefinita e universale della criminalità, la sua
diffusione nel tempo e nello spazio attraverso processi continui, la sua penetrazione nelle sfere dell’economia, della finanza
e della politica, mutano completamente la questione. Si scopre
con stupore e sconcerto che la delinquenza e la criminalità sono diventate le modalità di formazione di plusvalore, delle strategie per l’acquisizione di posizione di potere assai diffuse e generalizzate, in quanto costituiscono le attività economiche piú
redditizie e assumono dimensione planetaria. Tali attività hanno ormai da tempo cessato di riguardare solo i gruppi marginali e le classi pericolose. Inoltre non possono piú essere conside142
rate come espressione di comportamenti meramente individuali dissociabili dal funzionamento dei contesti sociali in cui si radicano, ossia l’economia, la finanza e il potere. Le pratiche criminali, infatti, sono diventate una delle modalità di funzionamento di tali ambiti. Prendere coscienza significa quindi fare i
conti con lo sconvolgimento delle nostre categorie mentali piú
consolidate» [De Maillard, 2002: 18-19].
Non solo devianza e criminalità non sono separabili dai fenomeni sociali locali e globali, ma è necessario risalire alle loro
cause.
A ragione De Maillard si pone un interrogativo: o si è in
presenza di manifestazioni patologiche di un ordine che, nel
complesso resta valido, o i sistemi sociali sono irreversibilmente
corrotto per cui è necessaria una loro radicale trasformazione.
Non basta dire che i sistemi sociali sono in crisi è necessario individuare le origini della crisi e «che cosa entra specificamente
in crisi». Basteranno alcune opportune contromisure, «oppure
siamo in presenza di una manifestazione di una rivoluzione storica di cui non è ancora possibile valutare appieno la natura e
l’ampiezza?» [De Maillard, 2002: 19]. Per De Maillard un dato
è certo ed è da individuare nella crisi delle forme politiche moderne e, specificamente, degli Stati:
«La crisi riguarda in particolare lo Stato-nazione che ha costituito la base e il fulcro dell’organizzazione politica, economica e sociale del dopoguerra. La tesi che intendiamo sviluppare,
infatti, parte dal presupposto che l’espansione della criminalità
organizzata, economica e finanziaria rappresenti una delle modalità in cui si esprime la crisi delle forme politiche moderne,
in particolare degli Stati. Di conseguenza, si tratta di un fenomeno che non può essere definito come fortuito, locale, congiunturale o reversibile» [De Maillard, 2002: 20].
In particolare, il rapporto tra crescita della criminalità organizzata, economica e finanziaria da una parte e crisi delle
forme politiche moderne determinato dalla globalizzazione
dall’altra, e stato è stato rafforzato da una sfrenata deregolamentazione che De Maillard definisce «subita e allo stesso
tempo voluta».
143
Il vero problema, per De Maillard non è tanto quello della
valutazione delle trasformazioni, quanto piuttosto quello che
riguarda il modo in cui viene percepita la loro reale portata.
«In particolare è opportuno sottolineare l’esito paradossale
a cui giunge la mondializzazione, che se da una parte unifica
lo spazio degli scambi e delle comunicazioni, dall’altro promuove, dal punto di vista sociologico, una proliferazione indefinita e incontrollabile delle forme di socializzazione, che
sempre piú spesso si caratterizzano un po’ ovunque per la tendenza a ripiegarsi sulla dimensione identitaria o comunitaria.
[…] Ciò pone crescenti problemi all’ordine pubblico, specie
quando i gruppi comunitari adottano riferimenti morali o sociali che non corrispondono a quelli promossi un tempo dallo
Stato-nazione. La rinuncia piú o meno volontaria dell’autorità
statuale all’inquadramento delle popolazioni attraverso le pratiche educative disciplinari o coercitive che caratterizzano lo
Stato sociale ha avuto degli esiti ben precisi. A tal proposito si
deve quindi constatare che l’incremento delle mafie e dei fenomeni mafiosi trova una precisa corrispondenza nell’allentarsi dei legami sociali in precedenza promossi e messi in forma dallo Stato-nazione e dallo Stato sociale» [De Maillard,
2002: 21-22].
È necessario, dunque, riconfigurare il campo del controllo
della criminalità, cambiare i sistemi di controllo della criminalità in sintonia con l’individuazione delle patologie delle società
complesse, con i nuovi problemi che riguardano la sicurezza e
le nuove modalità di percepire l’ordine sociale, con le nuove
concezioni della giustizia «tutte dettate dalle trasformazioni sociali ed economiche che hanno connotato il tardo Novecento»
[Garland, 2004: 155].
Per Garland la tarda modernità ha trasformato alcune delle
condizioni sociali e politiche su cui si basava il controllo della
criminalità «ponendo nuovi problemi in tema di delinquenza e
di insicurezza, contestando la legittimità e l’efficacia delle istituzioni assistenziali e ponendo nuovi limiti ai poteri dello Stato-nazione» [Garland, 2004: 158].
144
4. Un nuovo codice di guerra civile?
Stando ad Enzensberger di universale nel mondo c’è ancora
la guerra:
«Gli animali lottano, ma non fanno la guerra. L’unico essere
fra i primati a praticare sistematicamente, su vasta scala e con
una certa euforia l’uccisione dei suoi simili è l’uomo» [Enzensberger, 1994: 3].
Le analisi di Enzensberger arrivano a prevedere i fenomeni
di diffusione della violenza e del terrorismo che caratterizzano
ormai la quotidianità globale:
«L’indizio piú concreto che conferma la fine dell’ordine bipolare del mondo sono le trenta, quaranta guerre civili attualmente in corso su tutto il globo. Non è possibile neppure riportarne la cifra esatta, perché il caos non è numerabile. Ma
tutto fa pensare che in futuro potranno solo aumentare» [Enzensberger, 1994: 6].
Un nuovo codice di guerra civile molecolare sembra informare di sé la metropoli moderna:
«In realtà la guerra civile ha già fatto da tempo il suo ingresso nelle metropoli. Le sue metastasi sono parte integrante della
vita quotidiana delle grandi città, e questo non solo a Lima e
Johannesburg, Bombay e Rio, ma anche Parigi e Berlino, Detroit e Birmingham, Milano e Amburgo. I suoi protagonisti non
sono soltanto terroristi e agenti segreti, mafiosi e skinhead, trafficanti di droga e squadroni della morte, neonazisti e vigilantes,
ma anche cittadini insospettabili che all’improvviso si trasformano in hooligan, incendiari, pazzi omicidi, serial-killer» [Enzensberger, 1994: 11].
Dal cavalcavia della Gardesana, ragazzi italiani facevano volare macigni mortali. Forse per riscoprire un presente di cui sono stati privati, forse per riappropriarsi dell’emozione dell’attimo fuggente, forse perché hanno smarrito la percezione della
morte, forse per sperimentare l’intelligenza delle pietre come le
bombe intelligenti del generale Schwarzkopf.
Viviamo una vera e propria «guerra molecolare» come la
definisce Enzensberger citando un testo del ’51 di Hannah
145
Arendt. Le origini del totalitarismo descrivono l’allargamento
capillare dell’odio fino a al suo diventare «un fattore politico
decisivo in tutte le questioni pubbliche».
«Cosí penetrò in tutti i pori della vita quotidiana, diffondendosi in tutte le direzioni, assumendo le forme piú fantastiche e
imprevedibili». Nel momento in cui sia la propria vita sia quella degli altri perdono valore, la caduta di senso arriva oggi all’estremo limite, sconvolgendo ogni possibile strategia di contrasto, sconvolgendo ogni forma di pensiero politico da Aristotele
a Marx e Weber.
«In un mondo in cui errano bombe umane – dice Enzensberger – non rimane altro che un’utopia negativa: il primordiale mito hobbesiano della lotta di tutti contro tutti» [Enzensberger, 1994: 24].
Un mito primordiale che si diffonde capillarmente nelle metropoli.
Fra le associazioni informali che si sono lasciate «avvizzire»,
Christopher Lasch annovera non solo la famiglia ma anche il
quartiere, come luogo di educazione ai principi della vita civile
che favorisce una «spontanea fiducia pubblica», come punto di
mediazione, piú della scuola tra famiglia e mondo esterno, come fondamento informale dell’ordine sociale. Da questo punto
di vista, particolarmente significativa è la vicenda della controurbanizzazione di Los Angeles che incarna «il trionfo e insieme
il crollo del liberalismo» [Lasch, 1992: 203]. Si tratta ormai di
una città che – come afferma Lasch – «ha voltato le spalle alla
strada» per far posto ad una «militarizzazione della vita urbana» e dare ad essa la forma massiccia e prismatica del quarzo. Il
volto bifronte di uno Stato poliziesco ma nello stesso tempo
inefficiente e incapace di garantire ordine e sicurezza, si incarna nel profilo della città-fortezza, luogo geometrico d’espressione del groviglio di comunità recintate e di zone chiuse e pesantemente presidiate. Polizia, burocrazia scolastica, burocrazie sanitarie e assistenziali combattono ormai battaglie perdenti
contro il crimine, la malattia e l’ignoranza. La cultura globale
non ha piú nulla di liberale intrisa com’è di edonismo, di crudeltà, di disprezzo e di cinismo.
146
5. Diritto e comunicazione
La produzione habermasiana degli anni ’80 è indirizzata,
fondamentalmente in due direzioni: 1) la ridefinizione dell’ambito problematico della verità e dell’oggettività; 2) il rapporto
attivo tra teoria critica e ricostruzione dei processi storici secondo stadi di razionalità morale e istituzionale. Lo sviluppo
della teoria del diritto in questa direzione, come vedremo meglio in seguito, è la prova di un programma coerente di ricerca
fortemente legato ai problemi vecchi e nuovi delle democrazie
contemporanee. Lo stesso Habermas in uno scritto del 1986
sostiene che la definizione della procedura della formazione
della volontà fa riferimento innanzitutto ai soggetti coinvolti
come autori di una propria regia per dare risposte ai problemi
pratico-morali che si presentano davanti a loro con oggettività
storica. Il filosofo non ha chiavi d’accesso privilegiate alle verità
morali e la filosofia non sottrae a nessuno la responsabilità pratica. Al quesito di come si possa giustificare moralmente l’agire
morale e realizzare le condizioni necessarie per un’esistenza degna dell’uomo, si può trovare una risposta, anche se solo procedurale. Habermas propone, dunque, una concezione restrittiva delle prestazioni dell’etica filosofica, un’«autocomprensione modesta» [Habermas, 1990: 73] che contribuisca a chiarire
e fondare il punto di vista morale. Ma sarebbe del tutto errato
aspettarsi che essa «chiarisca il nucleo universale delle nostre
intuizioni morali e con ciò confuti lo scetticismo dei valori»
[Habermas, 1990: 73-74].
Il discorso riguarda molto da vicino i rilievi che sono stati
mossi ad Habermas circa la sua pretesa di criticare il presente
sulla scorta di un’utopistica «società ideale» o di norme di base
di una «società ben ordinata» costruite a tavolino. A differenza
di Rawls e Nozick, come lo stesso sociologo tedesco ha cercato
di chiarire in Vergangenheit als Zukunft [Habermas, 1992: 102
sgg.], Habermas, pur riconoscendo l’importanza di questo approccio, non vuole delineare una teoria politica normativa. Il
suo interesse è piuttosto orientato alla ricostruzione dei rapporti effettivi muovendo da una premessa di fondo: nella prassi co147
municativa quotidiana, gli individui socializzati non possono
fare a meno di usare la loro lingua corrente anche in modo
orientato all’intesa. Nella prassi quotidiana ci incontriamo con
pezzi di idealità tutte le volte che prendiamo sul serio ciò che
diciamo o avanziamo la pretesa che ciò che abbiamo detto sia
vero o giusto o veritiero. Insomma, la vita quotidiana ci mette a
diretto contatto di pretese di validità sulle quali possiamo ragionare solo con argomenti i quali, a loro volta, potranno essere
sottoposti a verifica critica alla luce di ulteriori esperienze e
informazioni. Il nostro vivere in società è intessuto di idealizzazioni inevitabili che hanno a che fare col medium del linguaggio
attraverso il quale si verifica la riproduzione della vita.
«Come singoli, – faceva notare Habermas – possiamo sempre decidere di manipolare altre persone o di agire in modo
apertamente strategico. Ma non è possibile che tutti si comportino sempre cosí come lo conosciamo. Altrimenti, ad esempio,
la categoria della menzogna perderebbe di senso; alla fine la
grammatica del nostro linguaggio subirebbe un collasso. Fenomeni come l’appropriazione della tradizione e la socializzazione
diventerebbero impossibili. Dovremmo allora farci dei concetti
della vita sociale e del mondo diversi da quelli con cui operiamo
finora quando partecipiamo a questa vita e ci troviamo in un
mondo fatto cosí come lo conosciamo. Con ciò voglio solo dire
che quando faccio riferimento ad idealizzazioni non si tratta di
ideali che il singolo teorico nella sua solitudine contrappone alla
realtà cosí come essa è: io faccio riferimento solo ai contenuti
normativi incontrati nelle nostre pratiche e senza i quali non potremmo vivere, perché è un fatto che il linguaggio, con tutte le
idealizzazioni che impone ai parlanti, è un elemento costitutivo
delle forme di vita socioculturali» [Habermas, 1992: 103-104].
Quello di agire comunicativamente non è un desiderio, ma
un obbligo che si esplica in tanti momenti della vita: dalla famiglia al rapporto col sapere, dalle funzioni elementari della società alla ricerca della cooperazione per evitare l’uso di uno
strumento dispendioso come la forza. Nei mondi vitali condivisi intersoggettivamente e comunicanti tra di loro si può fare,
dunque, riferimento ad uno sfondo comune di consenso, che
148
richiede una prassi basata sull'agire comunicativo. L’agire comunicativo è cosa diversa dall’argomentazione. Quest’ultima
riguarda sfere come il diritto, la scienza e la critica d’arte, che
nel corso delle conquiste evolutive vengono istituzionalizzate in
modo tale cioè, come dice lo stesso Habermas, che «socialmente possiamo attendercele da determinate persone in determinati tempi e luoghi» [Habermas, 1992: 113]. L’agire comunicativo riguarda l’ambito di un mondo linguisticamente pre-strutturato e interpretato, in forme di vita culturali condivise, in contesti normativi, tradizioni, ecc. Habermas parla a questo proposito di «mondi della vita permeabili l’uno nei confronti dell’altro che si compenetrano e si collegano come in una rete» [Habermas, 1992: ibid.]. Con Clifford Geertz si può affermare che
questi scambi comunicativi e questa costruzione di rapporti sociali si verificano sulla base di simboli e di sistemi simbolici. Si
tratta, dunque, di reti di rapporti e di scambi culturali.
È lo stesso Geertz, in accordo con Max Weber, a precisare
questo concetto di cultura, ritenendo «che l’uomo sia un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto, affermo che la cultura consiste in queste reti e che perciò la
loro analisi è non una scienza sperimentale in cerca di leggi,
ma una scienza interpretativa in cerca di significato» [Geertz,
1988: 11].
«Infatti il significato specifico che per noi ha un elemento
della realtà, si trova naturalmente altrove che non in quelle sue
relazioni che ha in comune con molti altri. La relazione della
realtà con idee di valore, che le danno significato, nonché l’isolamento e l’ordinamento degli elementi del reale cosí individuati sotto il profilo del loro significato culturale rappresenta
un punto di vista del tutto eterogeneo e disparato di fronte all’analisi della realtà in base a leggi, e al suo ordinamento in
concetti generali» [Weber, 1958: 90-91]5.
Da un punto di vista sociologico, il diritto è da intendersi
come sistema informativo ed in particolare la norma non è altro che un atto di comunicazione, cioè un messaggio, avente
particolari caratteristiche di descrittività e, in senso lato, di pre149
scrittività. Un messaggio, cioè, che appare indirizzato a orientare azioni e aspettative d’azione.
In questo senso, dunque, la norma conferisce senso e significato all’azione, in senso weberiano.
In una prospettiva comunicativa, ogni norma combina fondamentalmente due elementi:
1) ciò che viene indicato (l’evento, l’azione, di cui si tratta);
2) ciò che viene collegato all’indicazione (la descrizione,
l’ordine, il permesso, il divieto, la facoltà).
In quanto messaggi, le norme si muovono nell’ambito di
uno spazio discorsivo. Il tema del rapporto fra diritto e comunicazione riguarda, dunque, l’esplicitazione e lo studio del particolare spazio discorsivo generato dalle norme giuridiche, in
quanto – come ha indicato Ferrari [Ferrari, 1987b] – caratterizzate da:
1) istituzionalità (cioè sono emanate da un’istituzione. Si badi che qui il termine istituzione viene inteso nella sua accezione
sociologica, come insieme di modelli di comportamento dotati
di cogenza normativa);
2) eteronomia (la produzione normativa è cioè esterna agli
attori sociali);
3) sanzionabilità (cioè ad ogni norma è collegata una sanzione);
4) onnicomprensività (qualsiasi azione umana, cioè, è giuridicamente rilevante, o perché vietata ovvero permessa dalla
norma, o perché, semplicemente, non contemplata, quindi libera, e come tale giuridicamente tutelabile contro chiunque intenda impedirla)6.
In quanto sistema simbolico-comunicativo, il diritto può essere esposto a numerosi fattori di distorsione, che sono sia di
natura endogena sia di natura esogena.
Essi sono fondamentalmente:
a) l’ambiguità o l’oscurità della fonte;
b) l’influenza dello spazio discorsivo sui significati (argomentazione e contesto);
c) l’ambiente (una stessa norma può avere significati diversi
in relazione alla diversa configurazione della relazione sistemaambiente);
150
d) i significati diversi da lessico a lessico e le loro contaminazioni incrociate (ad esempio, il concetto di «nesso di causalità», di «inondazione», di «contagio», ecc.);
e) il tempo trascorso dall’emanazione della norma;
f) l’attività interpretativa (interna ed esterna al sistema giuridico; consapevole o inconsapevole);
g) i significati non condivisi da individuo a individuo;
h) i mezzi di comunicazione di massa.
Il diritto, tuttavia, è un fenomeno complesso e diversificato,
che mette in movimento, come si è visto circuiti comunicativi,
relazioni comunicative che scaturiscono, in aggiunta alle regole
del diritto positivo, da tutta una serie di «fatti giuridici» (generatori di effetti di diritto), di «atti» (creatori di diritto) e di «pratiche», segnatamente interpretative [Landowski, 1999: 73].
Vediamo di esaminare in dettaglio ciascuno degli elementi
prima messi in evidenza, cercando al contempo di compiere alcune riflessioni di tipo teorico.
Il primo problema è quello che riguarda il modo in cui il legislatore scrive e comunica le norme. Dal punto di vista dell’analisi comunicativa, si tratta – parafrasando H. Lasswell – di rispondere alla domanda: «Chi dice cosa a chi e come?».
Da questo dipende l’efficacia stessa del diritto, se – come afferma L. Friedman – questa si realizza solo nel momento in cui
la norma produce effetti conformi alle intenzioni di coloro che
l’hanno posta in essere (il legislatore). Se tali intenzioni sono
oscure, il diritto sarà inevitabilmente inefficace.
Altra questione è quella della sovrapproduzione normativa,
la quale – come ha avvertito Niklas Luhmann – pone seri problemi di riduzione della complessità nei sistemi giuridici contemporanei. Alcuni autori hanno parlato di inquinamento giuridico (legal pollution), di entropia sistemica. Teubner ha riassunto nella nozione di «iperciclo» i paradossi, le riflessività,
l’aggrovigliamento delle fonti e delle decisioni caratteristici delle postsocietà.
Per quanto riguarda lo spazio discorsivo, occorre dire che
chi parla può avere interesse a farsi capire, ma anche a non farsi capire. L’ambiguità e la vaghezza di un messaggio può giova151
re agli interessi di chi lo enuncia, perché ne amplia – per esempio – gli spazi di discrezionalità operativa, permettendogli di
sostenere in futuro, che non solo una, ma piú azioni diverse tra
loro potranno essere compiute in conformità a quel messaggio.
Si tenga anche conto, inoltre, del fatto che le norme giuridiche sono spesso il risultato di compromessi politici, di giochi implementativi i quali risultano molto lontani da quel concetto puro di razionalità individuato da Weber. Di qui la loro oscurità.
Anche l’ambiente in cui il messaggio normativo ricade, considerato nei suoi aspetti culturali e per le finalità con cui recepisce, filtra e trasforma i messaggi, è un elemento importante.
Il discorso giuridico che riguarda direttamente o indirettamente norme va distinto a seconda dei diversi gruppi verso cui
esse si dirigono. Il messaggio si adatta dunque a ciascun gruppo, a seconda che esso riguardi la legislazione, il discorso giudiziario, e infine il discorso dottrinale dei giuristi.
In definitiva, «il carattere e gli interessi dell’uditorio particolare influiscono necessariamente, inter alia, sulla natura del
messaggio che esso comunica».
Il tempo modifica il senso socialmente condiviso degli elementi della comunicazione. In particolare, la connotazione e
perfino la denotazione delle parole. Un esempio classico è
quello che riguarda il concetto di «comune senso del pudore»,
che acquista significati diversi in tempi diversi.
Il problema dell’attività interpretativa è assolutamente centrale nella riflessione sul rapporto fra diritto e comunicazione.
Ogni attore sociale che interviene nel processo comunicativo
svolge, piú o meno consapevolmente, un’attività interpretativa.
A tale meccanismo non sfuggono gli stessi operatori del diritto.
L’interpretazione non può essere svolta se non attraverso un
processo semiotico che è, come ha detto Eco, teoricamente illimitato.
Poiché ogni messaggio, allorché viene trasmesso e recepito,
deve essere anche interpretato, appare evidente come a ogni
passaggio interpretativo esso possa cambiare, talvolta sensibilmente, di significato. Il che equivale a cambiare di contenuto.
L’attività di interpretazione è fondamentalmente «creativa», an152
che se verte su norme; tanto è vero, che essa risulta centrale nei
paesi di common law.
Per alcune correnti della filosofia del diritto la teoria del diritto è addirittura fondamentalmente analisi e interpretazione
del linguaggio, che tocca tre livelli: a) il linguaggio del legislatore; b) il metalinguaggio della giurisprudenza; c) il meta-metalinguaggio della teoria del diritto.
Spostandoci dal lato dei destinatari della comunicazione,
non si può non osservare che essi possono conoscere il significato socialmente condiviso delle espressioni che usano, specialmente delle parole, ma possono anche non conoscerlo, equivocando sui termini, spesso inconsapevolmente, per ignoranza di
un codice linguistico particolare.
Questo comporta tutta una serie di problemi, strettamente
collegati con l’autoreferenzialità dell’universo discorsivo del ceto dei giuristi.
Non c’è dubbio che i mezzi di comunicazione di massa influiscano oggi in modo decisivo nella rappresentazione del diritto e della giustizia presso l’opinione pubblica. Tali rappresentazioni sono veicolate dagli operatori dell’informazione e della comunicazione spesso in modo distorto. È molto significativo il
fatto che essi non posseggano di regola alcun milieu semiotico
specializzato. Le notizie che essi forniscono, tuttavia, non sono
vuote, e spesso si compongono di concetti e di parole che però
assumono un significato diverso, che si impone nei processi di
rappresentazione e di percezione della giustizia. Fenomeni di
questo genere incidono potentemente sulla trasmissione dei
messaggi normativi, ingenerando a volte incertezza, a volta equivoci nei destinatari di tali messaggi. Naturalmente, la televisione
è il mezzo di comunicazione piú esposto a tali distorsioni.
Nel caso dei processi in televisione, ad esempio, l’effetto
deformante della telecamera produce un risultato corrotto, facendolo apparire al contrario particolarmente genuino, e nel
contempo – come hanno osservato Giglioli, Cavicchioli e Fele
[Giglioli, Cavicchioli, Fele, 1987] – aggrava di sanzioni non
previste il ruolo del cittadino inquisito.
Le distorsioni vanno da un’eccessiva amplificazione in senso
politico delle questioni legali e processuali fino a un loro so153
stanziale stravolgimento, deformazione e manipolazione, nel
senso anzitutto della spettacolarizzazione. Quest’ultima rappresenta il registro stilistico preferito dalla televisione e dai media
in generale, e ciò non può non avere conseguenze di amplissima portata, come è stato ampiamente dimostrato in ricerche
condotte in ambito politologico.
La società è composta da sistemi di relazione, che – come ha
affermato Luhmann – sono sostanzialmente di tipo comunicativo. Il diritto è un sistema di comunicazioni normative che generano aspettative. Il suo compito è quello di portare a congruenza le aspettative normative di riferimento degli individui.
Per Ferrari è «cruciale l’analisi del processo comunicativo
che ha per oggetto messaggi normativi giuridici e l’individuazione dei diversi media che si interpongono in tale processo interattivo» [Ferrari, 1987a: 127].
Il sistema giuridico è deputato a produrre senso: esso «mette in circolazione nuovi significati, pone in essere istituzioni e
regole specifiche» [Ost e van de Kerchove, 1997: 21].
Il sistema giuridico informa di sé l’ambiente circostante e le
cose: «per con-formare le cose e ricondurle al proprio prescritto,
il diritto dà loro senso e forma: a volte si occuperà di informare
ciò che è ancora senza forma, altre volte (piú sovente) si occuperà di de-formare ciò che aveva già senso e forma in un altro
registro» [ivi, 21]. La sua funzione primaria è quella di de-nominare: le norme pertanto, da un punto di vista sociologico, non
sono altro che un atto di comunicazione, cioè messaggi, aventi
particolari caratteristiche di descrittività e, in senso lato, di prescrittività. Un messaggio, cioè, che appare indirizzato a orientare
azioni e aspettative d’azione: in questo senso, dunque, la norme
conferiscono senso e significato all’azione, in senso weberiano.
Denominare significherebbe normalizzare, istituire, regolare: «Il diritto identifica le persone e le cose; letteralmente, le fa
venire all’esistenza giuridica. Denominando, classificando, gerarchizzando, il diritto attribuisce ruoli giuridici ai diversi attori della vita sociale. Ad ognuno di questi statuti, annette diritti
e doveri, oneri e privilegi» [ibid.].
La valenza comunicativa delle regole giuridiche è stata esplicitata dalle ricerche sugli atti linguistici [Austin, 1987; Sbisà,
154
1989]: il denominare giuridico si dimensiona sul livello del fare,
creando aspettative, ruoli, giochi di reciprocità, digressioni, trasgressioni; svelando «[…] la fecondità dell’universo surreale,
narrativo, performativo prodotto dal diritto» [Ost e van de Kerchove, 1997: 23; corsivo mio].
In una prospettiva comunicativa, ogni norma combina fondamentalmente due elementi:
1) ciò che viene indicato (l’evento, l’azione, di cui si tratta);
2) ciò che viene collegato all’indicazione (la descrizione,
l’ordine, il permesso, il divieto, la facoltà).
In quanto messaggi, le norme si muovono nell’ambito di
uno spazio discorsivo. Il tema del rapporto fra diritto e comunicazione riguarda, dunque, in primo luogo l’esplicitazione e lo
studio del particolare spazio discorsivo generato dalle norme
giuridiche.
Le norme in quanto dispositivi comunicativi orientano e
guidano l’azione sociale, mappandone le direzioni di senso e
sviluppando le interazioni e le reciprocità: è la condivisione di
regole, norme, aspettative che dota l’azione di senso socialmente condiviso e storicamente prestabilito, come direbbe Weber;
le stesse norme comunque comprenderebbero le paradossalità
[Ost e van de Kerchove, 1997] del sistema giuridico, il rumore
(noise) che interverrebbe nella ricezione delle strutture normative di questo si aggiunge alla caratteristica capacità di negoziazione che definisce gli attori sociali, pertanto per azione sociale
intenderemo una «[…] sequenza intenzionale di atti forniti di
senso che un soggetto individuale o collettivo […] compie scegliendo tra varie alternative possibili, sulla base di un progetto
concepito in precedenza ma che può evolversi nel corso dell’azione stessa, al fine di conseguire uno scopo, ovvero di trasformare, ovvero di trasformare uno stato di cose esistente in altro
a esso piú gradito, in presenza di una determinate situazione
[…] della quale il soggetto tiene coscientemente conto nella
misura in cui dispone a suo riguardo di informazioni e conoscenze» [Gallino, 1993: 69; corsivi miei].
Per interazione sociale intenderemo la «[…] relazione tra
due o piú soggetti individuali o collettivi, di breve o lunga du155
rata, nel corso della quale ciascun soggetto modifica reiteratamente il suo comportamento o azione sociale in vista del comportamento o dell’azione dell’altro, sia dopo che questa si è
svolta, sia anticipando o immaginando […] quale potrebbe essere l’azione che l’altro compirà in risposta alla propria o per
altri motivi» [Gallino, 1993: 396]7.
Le norme verrebbero a coincidere con gli schemi di interpretazione delle azioni proprie e altrui, schemi previsti dalla
struttura sociale, consisterebbero in strumenti per rendere stabili, prevedibili, dotate di senso condiviso le attività relazionali;
corrispondono a vincoli e risorse per l’azione, come le ha definite Giddens: sarebbero dei vincoli per il grado di prevedibilità
e stabilità e perché aspettative stabilite socialmente; varrebbero
da risorse grazie alla loro valenza interpretativa e la possibilità
di negoziarle. Le loro principali funzioni si riassumerebbero
nei seguenti punti:
• esse strutturano le relazioni: si parte dall’assunto che sia necessario un insieme normativo complesso perché gli attori
sociali si pongano in relazione reciproca;
• descrivono e rappresentano gli assetti relazionali: gli status, i
ruoli, le posizioni nel contesto sociale;
• rappresentano le coordinate significative per l’azione sociale;
• producono forme organizzative.
Le norme instaurano rapporti con gli attori sociali, rapporti
strumentali ed interpretativi: gli attori sociali infatti ne fanno un
uso significativo e ne rappresentano la capacità semantica. Il
soggetto è coinvolto in processi di conferma e di trasformazione:
nel primo caso, l’attore sociale riproduce, conserva e diffonde le
norme; nel secondo caso ne innova la portata, le negozia, le trasgredisce; in entrambi i casi comunque egli attua processi di costruzione/ri-costruzione, definizione/ri-definizione di senso.
Le norme, come prima indicato, sono messaggi, «entità semiotiche composte di segni o di simboli che vengono trasmessi e
circolano in ambienti di varia ampiezza e complessità» [Ferrari,
1996: 257]; consistono in un condizionamento, in un far essere.
Considerare le unità fondamentali del sistema giuridico
quali messaggi o unità comunicative, significa considerare il fenomeno giuridico quale fenomeno complesso e diversificato,
156
che mette in movimento circuiti comunicativi, relazioni comunicative che scaturiscono da tutta una serie di processi segnatamente interpretativi [Landowski, 1999: 73]; e ancora sostenere
che la società è composta da sistemi di relazione, che – come ha
affermato Luhmann – sono sostanzialmente di tipo comunicativo: comunicazione e azioni conseguenti sono i principali aspetti
dei sistemi sociali e la sorte dell’una è legata all’evoluzione delle
altre [Luhmann, 1990: 294].
Il diritto si configurerebbe allora come sistema di comunicazioni normative che generano aspettative, reciprocità e, nella
definizione del proprio campo [Ost e van de Kerchove, 1997],
dialogicità.
In How to do things with words, lavoro postumo del 1962,
Austin sostiene che dire è fare: parlare è agire, la sua provocatoria posizione considerava gli enunciati pronunziati non tanto
per «dire» qualcosa bensí per «fare» qualcosa: non si può dissertare sulla verità di alcune affermazioni, bensí intenderle come modificazioni immesse nel contesto perché avvenga o muti
qualcosa8. Austin [1987] individua tre tipi di atti:
• l’atto locutorio: tale espressione comprende l’atto di dire
qualcosa e le conseguenti capacità fisico-materiali (avere voce, usarla, emettere suoni) e le abilità nell’utilizzare un codice; (emissione di significato);
• l’atto perlocutorio: l’espressione intende la produzione di effetti sul contesto, dunque sull’ambiente vero e proprio e sugli interlocutori, in termini di emozioni, credenze, stati psicologici [Sbisà, 1989: 58 sgg.]; (raggiungimento di effetti);
• l’atto illocutorio: si riferisce all’impatto, alla forza che una
certa enunciazione abbia, per convenzione, in termini di valore, rispetto un determinato contesto di enunciazione;
(produzione di forza convenzionale).
Una particolare importanza riveste, all’interno della nostra
analisi, il concetto di atto illocutorio, per i seguenti motivi:
• rispetto alle norme: qui intese come genuina illocuzione, ciò
che maggiormente sottolineiamo è il valore e la convenzionalità, che presuppongono l’accordo;
• rispetto al contesto: ci soffermiamo a valutare l’importanza
delle dinamiche gruppali e sociali in particolare, alle relazio157
ni tra interlocutori, rapporti di potere, status, ruoli, aspettative, ecc.;
• rispetto alla recezione: bisogna considerare la negoziazione
di senso che avviene nelle interazioni sociali e considerare il
re-cepimento di una norma come inserito in un piú ampio
contesto di narrazione, di strategie e tattiche comunicative.
La norma creata nel contesto giuridico può equipararsi a
«far essere» dunque, ad azione che innesca processi in un sistema piú ampio: il rapporto che si delinea è quello di norma-azione che si intesse nel sistema giuridico-schema narrativo. La norma diviene porzione di senso, azione comunicativa, che si inserisce in un processo piú vasto, che comporta fasi, relazioni mezzo-a-fini, scopi, risultati [Sbisà, 1989: 39 sgg.].
La norma (azione comunicativa) inserita in tale schema narrativo è connessa:
• alla qualificazione del soggetto del fare: «la quale dipende da
una manipolazione di questi da parte di un destinatore e implica fra l’altro l’assunzione di un poter fare e/o di un dover
fare» [Sbisà, 1989: 41];
• alla sanzione del fare del soggetto da parte di un destinatoregiudice: «cioè a una retribuzione e/o riconoscimento che garantisca il senso di questo fare» [Sbisà, 1989: 41].
I due momenti sono riconducibili al riconoscimento della
azione: riconoscimento che avviene attraverso la competenza
dell’attore sociale (le sue intenzioni; la possibilità di produrre
effetti; il poterli controllare; le sue interpretazioni) e attraverso
la sanzione (una sorta di «competenza a ritroso», che mira a riconoscere effetti e attribuire responsabilità).
La norma assumerebbe la qualità di azione comunicativa
nella doppia connotazione di messaggio, emesso e destinato a
produrre effetti e di azione innescante un processo, il cui feedback – pur sortendo varie e sfumate risposte – si organizza attorno a due principali polarità: la conferma/la trasgressione.
La norma includerebbe in sé i semi della sua negazione: della
distorsione del senso – che si disloca tra le due principali polarità: essa – per la natura medesima della sua «risolubilità» – porta con sé il carattere del mutamento sociale, del divergere, e di
rifondazione continua attraverso ogni interazione sociale. Nella
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capillare negoziazione di senso, il dis-senso, la devianza assumerebbero valore comunicativo. Di ribaltamento e di ridondanza.
Di amplificazione dell’azione [De Leo, Patrizi, 1992].
6. Diritto, crisi e «porosità» postmoderne
«L’iper-realtà è ciò che si ottiene quando un Panopticon si evolve a
tal punto da essere in grado di persuadere tutti della sua inesistenza:
le persone continuano a credere di essere libere, sebbene il loro potere sia ormai svanito. Le televisioni, i telefoni, le radio e le reti di
computer sono potenti strumenti politici, dal momento che la loro
funzione un è produrre o distribuire beni materiali, ma influenzare
le idee e le percezioni umane. L’illusione di democrazia offerta dagli
utopisti delle Cmc, secondo queste critiche altro non è che l’ennesimo tentativo di distogliere l’attenzione dall’attività del potere reale
svolta dietro le quinte delle nuove tecnologie: la sostituzione della
democrazia con uno Stato mercantile globale, che esercita il controllo attraverso la manipolazione realizzata con l’appoggio dei media piuttosto che con i piú ortodossi mezzi di sorveglianza. Perché
torturare la gente quando questa pagherebbe per accedere al controllo elettronico della mente?» [E. Rheingold, 1993: 16].
Trattare il tema della devianza ci permette non solo di considerarne le possibili fenomenologie, di rivelarne la complessità e
la sua conseguente trattazione interdisciplinare, ma anche di poter riconsiderare un concetto fin troppo abusato, sempre piú un
concetto zombie [Beck, 2001]. L’occasione si dimostra proficua
per proporre una revisione critica del concetto di devianza e diritto, revisione che tenga conto dei recenti sviluppi di ordine metodologico ed epistemologico che ruotano attorno alla complessità sociale. In questo quadro diventa importante ridefinire alcune categorie analitiche allo scopo di eliminare le inevitabili incrostazioni che il concetto di devianza ha accumulato nel tempo.
Riconsiderare la devianza implica pertanto la riconsiderazione del diritto, in particolare, e della società in termini di relazioni comunicative: in questa sede pertanto affronteremo lo
studio della devianza intesa come sistema di azioni comunicative. Essa verrà situata all’interno di un contesto sociale i cui le159
gami sembrano essersi dissolti attraverso ricombinazioni anomiche, fluide, negoziabili, le cui nuove configurazioni tenderebbero a gravitare intorno a concetti quali: a) rischio, pericolo,
sicurezza; b) identità e gestione strategica della reputazione; c)
violenza spettacolare.
In questa parte del nostro lavoro si cercherà di considerare
la devianza come sistema di azioni comunicative. Ciò significa
far riferimento ad un approccio interdisciplinare, sistemico e
insieme demistificante nello studio della devianza: la sociologia
deve, dunque, prestare particolare attenzione alle interazioni e
ai processi comunicativi fra i soggetti che producono devianza,
essendo quest’ultima fenomeno sempre interattivo e biunivoco;
cosí facendo si ampliano le potenzialità euristiche del concetto.
Il fuoco dell’attenzione è centrato quindi sulle funzioni e sugli
effetti che la devianza svolge in questi processi e interazioni,
per i sistemi e i soggetti coinvolti.
Secondo Ulrich Beck, la distinzione tra società industriale e
società del rischio è necessaria perché i rischi di quella «razionalizzazione continua della società industriale che comunemente si chiama modernizzazione» creano nuove forme della coscienza e dell’organizzazione sociale. Laddove il problema centrale della società industriale tradizionale consisteva nella necessità di legittimare la distribuzione diseguale della ricchezza
socialmente prodotta, il problema della società del rischio consiste nella distribuzione e limitazione di rischi associati, nella
cultura e nella politica, a pericoli reali.
Rischio, pericolo e sicurezza sono le quintessenze della comunicazione sui problemi della società attuale. Ha fatto notare
Beck che nello stesso modo in cui con la crescita della weberiana Zweckrazionalität cresce anche l’incalcolabilità delle sue
conseguenze, anche «nella società del rischio le conseguenze
sconosciute e non volute assurgono al ruolo di forza dominante
nella storia e nella società» (Beck, 2000: 29). Questo contesto
sembra dare ragione a Niklas Luhmann, quando andando ben
oltre Weber e Parsons (che consideravano l’azione individuale
come nucleo dell’azione sociale in quanto cosciente e razional160
mente orientata), la considera come caratterizzata nella sua variabilità e inaffidabilità
È sempre Luhmann a mettere in dubbio, come abbiamo visto, «quanto normale sia ancora il normale».
In questo quadro diventa importante ridefinire alcune categorie analitiche allo scopo di eliminare le inevitabili incrostazioni che il concetto di devianza ha accumulato nel tempo.
Il diritto diventa complesso nel suo simbiotico rapporto con
la realtà sociale. Volendo citare a contrario Luhmann, il diritto
non è in grado di ridurre la complessità: esso di per se stesso
vive in una realtà complessa perché deve rispondere a realtà
complesse e ne diviene ricettore di contraddizioni. La complessità si delinea innanzitutto come molteplicità di codici, di riferimenti valoriali e normativi, di rappresentazioni pluriverse della
normatività.
Ewick e Silbey non a caso propongono di analizzare il concetto di legality [Ewick e Silbey, 1998], intendendo con questa
espressione il campo semantico in cui si manifesta l’osservanza e
percezione non solo delle norme codificate bensí di tutte le
espressioni normative del vivere consociato. Le autrici rilevano
che la semantica normativa che emerge da questo intreccio è caratterizzata dall’ibridismo e dal meticciamento: in tal senso gli individui, nelle loro interazioni quotidiane, attingeranno da mappe
orientative e normative dalla piú vaga e mescolata origine.
Le due studiose focalizzano la loro attenzione sul soggetto,
considerando il concetto di legal consciousness come le concezioni e le percezioni che gli attori sociali producono relativamente alla natura, le funzioni, la comprensione e gli usi che del
diritto quotidianamente fanno.
I lavori sulla legal consciousness utilizzano i metodi interpretativi per l’analisi dei resoconti personali al fine di descrivere
come i diversi attori sociali facciano esperienza e comprendano
le fenomenologie che possono essere ricondotte al normativo.
In The Common Place of Law, Ewick and Silbey [Ewick, Silbey 1998: 22] elaborano il concetto di legality, che definiscono
come quell’insieme di significati, fonti di autorità, pratiche cultu161
rali che in un qualche modo rinviano al normativo sebbene non
necessariamente approvate o riconosciute dal diritto ufficiale.
Il concetto di legality offre l’opportunità alla comunità accademica di spostare il focus d’attenzione dai temi tradizionali
delle istituzioni legali formali alla prospettiva che esamina le
modalità attraverso le quali il diritto è prodotto nelle e attraverso le interazioni sociali comuni (Ewick e Silbey, 1998: 20).
Il concetto di legality si incontra con quello di internormatività di Carbonnier e con quello di interlegalità di De Sousa
Santos: se il primo si riferisce «[…] ai quei fenomeni che nascono dai rapporti tra categorie, ordini, sistemi di norme differenti e i cui effetti – percepiti in termini di adeguamento ed influenza reciproca o di conflitto – si manifestano anche a livello
individuale» [Favretto, in De Piccoli, Favretto, Zaltron 2001:
23]; il secondo considera «[…] quei fenomeni che nascono dall’intersezione di ordinamenti normativi plurimi e che si realizzano nelle concrete azioni degli individui, dei gruppi e delle società» [Favretto, in De Piccoli, Favretto, Zaltron 2001: ibid.].
De Sousa Santos sostiene che la transizione verso la postmodernità abbia trasformato sostanzialmente il fenomeno giuridico, esso è attraversata da continue ri-definizioni e approssimazioni tali da richiedere la necessità di utilizzare nuovi paradigmi analitico-concettuali [De Sousa Santos, 1995]. Allora obiettivo principale degli scienziati giuridici è quello di costituire
un’ermeneutica critica che possa ricontestualizzare il diritto:
questo processo è infatti segno dell’emergenza della spazialità e
della temporalità contro i concetti assolutizzati di spazio e tempo dello Stato moderno, e dunque inclusione delle differenze e
del pluralismo giuridico: «Tutto il diritto è contestuale. La decontestualizzazione del diritto operata dalla scienza giuridica si
fonda sulla conversione della giuridicità in un spazio astratto
(vuoto: cioè suscettibile di essere occupato) e in un tempo
astratto (cronologico: cioè suscettibile di essere misurato), a loro volta trasformati in espressioni di universalità. […] Le spazialità sono potenzialmente infinite: la spazialità della casa, della scuola, dell’impresa, della prigione, della strada, dei campi.
E lo stesso accade con le temporalità: la temporalità del conta162
dino, del leader politico, della donna, del lavoratore salariato,
dell’escursionista, ecc. Un contesto è una piattaforma di incontro fra spazialità e temporalità concrete, che si costituiscono in
una rete di relazioni dotate di un tipo specifico di intersoggettività. Tale specificità è insita in ciascuno degli elementi strutturali del contesto: unità della pratica sociale, forma istituzionale,
meccanismo di potere, forma del diritto e modo della razionalità. Cosí il diritto è contestuale nel senso forte per cui tutti i
contesti producono diritto. Ciò nonostante, il significato e la rilevanza sociale di queste produzioni variano grandemente» [De
Sousa Santos, 1990: 23]. L’analisi del pluralismo giuridico e
l’individuazione di particolari contesti giuridici (il contesto domestico, il contesto della produzione, il contesto della cittadinanza, il contesto della mondialità) portano a riflettere sul carattere interlegale della struttura normativo-semantica della società e considerare il carattere di sovrapposizione, intersezione,
complementarietà, antagonismo, porosità delle diverse comunità giuridiche che attraversiamo: «Forse piú che in ogni altra
epoca, viviamo in un tempo di porosità e, pertanto anche di
porosità giuridica, di un diritto poroso costituito da molteplici
reti di giuridicità che ci obbligano a costanti transizioni e trasgressioni» [De Sousa Santos, 1990: 28].
Per le caratteristiche su elencate i soggetti dell’interlegalità
sono nomadi, stranieri, turisti [Bauman, 1999] che attraversano
le frontiere giuridiche: le quattro soggettività corrispondenti ai
contesti giuridici (la soggettività individuale, la soggettività della famiglia, la soggettività della classe, la soggettività della nazione) non presentano una configurazione fissa di soggettività,
esse piuttosto sono caratterizzate dal mutamento e dalla transizione: «[…] il mutamento è costante, in funzione delle condizioni che contestualizzano la nostra pratica sociale. Ciascuna
attuazione sociale ha un legame privilegiato con uno dei quattro contesti strutturali e tale vincolo determina quale delle soggettività strutturali organizzerà, e in quale attuazione concreta,
la specifica configurazione di soggettività con cui ci appropriamo della nostra pratica.[…]. Le reti di legalità sono, cosí, anche reti di soggettività» [De Sousa Santos, 1990: 29].
163
Il concetto di interlegalità appare fecondo per l’analisi della
crisi e del mutamento giuridico e sociale e per evidenziare la
crisi del diritto moderno in termini di de-normativizzazione e
di fine del feticismo giuridico, ovvero come «[…] conversione
del diritto e della legalità statali in un unico meccanismo di trasformazione sociale» [De Sousa Santos, 1990: 30-31].
La crisi del diritto porterebbe al sorgere, come afferma De
Sousa Santos, a nuove forme di soggettività giuridica, ovvero al
collettivismo della soggettività contro il vecchio collettivismo
astratto.
La porosità delle frontiere giuridiche si configurerebbe come permeabile anche rispetto alla trasgressione e all’illegalità,
fenomeni i quali si situerebbero come esiti «normali» degli attraversamenti giuridici: «Le reti e le configurazioni di legalità
qui proposte implicano che le nostre pratiche socio-giuridiche
includono sempre momenti di illegalità. La porosità dei differenti ordini giuridici ci obbliga a costanti transizioni e trasgressioni. Il rispetto per alcune frontiere giuridiche porta a violarne
altre. Siamo dunque, in questo senso, non soltanto nell’interlegalità; siamo anche trasgressori obbligati» [De Sousa Santos,
1990: 30].
In tale contesto, sembrano delinearsi i seguenti possibili scenari epistemologici:
a) rottura e dispersione delle dicotomie classiche della modernità (natura/società; Stato/società civile; giustizia formale/giustizia comunitaria);
b) contaminazione, ibridazione, e porosità come categorie
d’indagine;
c) riconsiderazione della spazialità e della temporalità e delle loro declinazioni;
d) mutamento come costante e la sua individuazione in termini di direzioni di senso;
e) negoziazione contro rottura, infiltrazione contro cohibentazione;
f) negoziazione, intesa principalmente come attività ermeneutica e fondante la reciprocità nella direzione della differenziazione e della affermazione delle diversità.
164
Nell’economia del nostro discorso rientra il riconoscimento
del carattere ambiguo dei fenomeni di normativizzazione e la
loro valenza complessa in termini di interpretazione soggettiva,
di rappresentazioni normative, percezioni normative, nella direzione di ricerca sulle caratteristiche costruite e ri-costruite,
negoziate e rappresentate del piú esteso tessuto normativo [Favretto, 2001: 23].
7. Complessità e nuovi campi dialogici
La complessità del sistema giuridico si manifesta essenzialmente come: a) molteplicità di codici in interazione continua;
b) fenomeno scaturente da interconnessioni porose e reversibili; c) intersecazione multidimensionale di livelli, pratiche interpretative, rappresentazioni.
Non esistono piú regole certe. Si pensi ad esempio ai compromessi dell’ordine nazionale nei confronti di organismi internazionali, sovranazionali e transnazionali [Beck, 2001]. Oltre al
noise nella ricezione del sistema normativo complesso e alle
elaborazioni e rappresentazioni che gli attori sociali ne forniscono, il sistema giuridico secondo Ost e van de Kerchove presenta particolari paradossi [Ost e van de Kerchove, 1997: 6
sgg.]: a) il diritto regge la differenza tra la legalità e l’illegalità,
sebbene non possegga la matrice integrale del codice legale e
dell’illegale; b) esso non ha di fatto accesso diretto ai fatti che
domina; c) esso possiede frontiere porose e reversibili, sia al
suo interno che al suo esterno; d) le regole instaurate per pacificare i conflitti e guidare i comportamenti sono esse stesse la
posta di un conflitto permanente; e) gli attori del gioco sono
tanto compagni quanto avversari; f) la conoscenza del diritto –
a causa della sua pluri-dimensionalità e pluri-spazialità – implica il situarsi nello stesso tempo dentro e fuori; g) «la sua legittimità riposta tanto sul consenso di cui beneficia quanto sulla
possibilità del dissenso su cui si accomoda».
I paradossi – emblematici di questo dis-ordine simbolico –
premono ad adottare un altro metodo rispetto a quello scientifico tradizionale e dicotomico: la complicatezza del diritto – os165
sia «[…] l’accumulazione di sequenze semplici: l’effetto prodotto dalla ripetizione di uno stesso codice o di una stessa logica» [Ost e de Kerchove, 1997: 5] – cede il passo alla complessità – «[…] la molteplicità di codici in interazione, come diversità di logiche in opera i cui movimenti sono lineari ma anche
ricorsivi; le causalità, multiple e circolari. Un automa è sempre
prevedibile; un organismo complesso, in quanto creativo e interattivo, lo è molto meno» [Ost e de Kerchove, 1997: ibid.].
Rispetto la natura dei fenomeni da analizzare, i due autori
notano che appena si smette di cercare una spiegazione univoca che semplifichi, decidendo e stabilendo un ordine semantico
e normativo, si impongono la pluralità dei punti di vista, la loro
necessaria relatività e la loro intima solidarietà: ognuno richiamando l’altro e appoggiandovisi con il pretesto di rifiutarlo.
La via che si propone è la sostituzione del concetto di sistema
con quello di campo sociale, la cui unità elementare non è piú l’elemento di luhmanniana memoria, bensí un contesto/campo dialettico chiamato entre-deux. Attraverso tale teoria dialettica si
recupera intanto il concetto di terzo, «[…] nuovo elemento, un
terzo che trasforma l’uno e l’altro dei due poli» [Ost e van de
Kerchove, 1997: 8], la terza dimensione, «“il terzo escluso”, il
quale, come il rimosso della psicanalisi, faccia ritorno con insistenza nella forma di un sintomo» [Ost e van de Kerchove,
1997: ibid.], dimensione emergente dallo stesso campo dialettico; altro da sé; possibilità di superare le opposizioni binarie e le
dicotomie della modernità: infatti «la complessità del fenomeno giuridico esige, infatti, la messa in luce delle tensioni che si
stabiliscono permanentemente fra questi due poli e che permettono di dar conto ad un tempo delle oscillazioni e della
molteplicità di combinazioni con le quali la realtà ci pone a
confronto» [Ost e van de Kerchove, 1997: 16].
I deux sono polarità, strutture di senso poste in mutuo rapporto dall’entre, che deve essere letto in chiave dialettica: l’entre-deux è dunque una cornice di interazione, cornice che è
con-fine, ovvero che possiede un interno e un esterno: essa è
porosa, reversibile, instabile. Questa idea di campo sociale permette di recuperare l’interazione e i suoi diversi livelli: recupe166
ra il concetto di gioco, di negoziazione ricorsiva, di con-fine,
del «tra» dentro-fuori, di «scivolamento tra un dentro e un
fuori». La metafora del gioco e la dialettica senza sintesi dell’entre-deux rompono il percorso tradizionale dell’analisi giuridica che anziché porre in atto opposizioni insanabili tenta di ricomporre definizioni univoche. Dai due autori vengono individuate cinque coppie concettuali, espressioni delle relazioni giuridiche, dialettiche e paradossali che si manifestano nell’universo normativo [Ost e van de Kerchove, 1997: 15 sgg.], queste
sono:
• strategia/rappresentazione;
• cooperazione/conflitto;
• realtà/finzione;
• regolazione/indeterminazione;
• internalità/esternalità.
Queste coppie concettuali dimostrano quanto il modello ludico e dialettico siano in grado di analizzare i fenomeni normativi: l’entre-deux mostra quanto sia piú proficua una comprensione sfumata del giuridico, in cui il gioco, mosso a chiave interpretativa, riassume sia il carattere di play che di game, ovvero contiene in sé sia una dimensione soggettivistica che una dimensione oggettivistica. Ne considereremo di seguito alcune
utili al nostro discorso.
Rispetto la prima coppia concettuale, strategia/rappresentazione, l’obbiettivo è provare che ogni fenomeno giuridico prevede una dimensione strategica o strumentale del diritto, quanto una dimensione rappresentativa o simbolica: pertanto il processo, sia penale che civile, se si volesse studiare sotto questa
prospettiva, rivelerebbe tanto aspetti di spettacolarizzazione
(soprattutto il processo penale che per natura è spettacolare, e
in cui particolare rappresentazione viene date al criminale)
quanto aspetti strumentali di applicazione del diritto: non bisognerebbe infatti applicare metodi riduzionismi che inficino le
oscillazioni tra le due polarità.
La coppia di opposizioni cooperazione/conflitto, con-senso/dis-senso, pone la distinzione tra giochi finiti (condotti per
vincere, attratti al polo del conflitto) e giochi infiniti (in cui
167
prevale la volontà di cooperare): il diritto si manifesta comunque come fenomeno ambivalente, in cui poter riconoscere insieme una componente irenologica e una componente polemologica. La natura irenologica si riscontra nei casi in cui i giocatori/contendenti, si avvalgono di arbitrati e mediazioni, strutture che privilegiano il negoziato alla contestazione, il compromesso e la conciliazione alla decisione secca; la natura polemogena si
ravvisa nei processi giudiziari che prevedono necessariamente
vincitore/vinto, giochi condotti allo scopo di vincere. Il fenomeno ha comunque natura ibrida, la distanza tra i due poli si
riduce drasticamente, se si pensa che «[…] questi processi cerchino, cosí come richiede ogni gioco a somma variabile, di stabilire tra le parti delle relazioni paradossali di “compagni/avversari” e di giungere a soluzioni che, come implica ogni forma
di compromesso, facciano allo stesso tempo delle stesse dei
“vincenti/perdenti”» [Ost e van de Kerchove, 1997: 20].
L’opacità dei fenomeni giuridici si rivela in forme processuali di cui lo stesso diritto è parte, parte della stessa catena di
produzione di senso: il senso giuridico si trova implicato in dinamiche di decostruzione e ricostruzione: «Il pensiero della
complessità conduce […] ad accettare l’idea che un sistema sia
sempre al contempo se stesso e altro da sé, se stesso ed il suo
“altro”. […] al posto di un’opposizione binaria e irriducibile e
di termini, qui si intuisce l’intreccio dei contrari[…]avvolgimento spiraliforme di un gioco che non cessa di giocarsi da se
stesso, di un diritto che non smette di autoregolarsi perché è
sempre altro da sé» [Ost e van de Kerchove, 1997: 25-26].
8. Normale vs deviante
Nella società che Donati definisce «dopo-moderna», non si
verifica soltanto una sorta di dominio dell’incertezza. In quella
che è stata definita altrimenti col termine equivoco di «società
postmoderna» si diffonde una condizione esistenziale anomica
che – come vedremo meglio piú avanti – rende i comportamenti individuali e collettivi instabili in cui – come afferma
168
Bauman – alle regole subentra non solo il rischio ma anche
l’azzardo.
«In realtà, il messaggio veicolato oggi con grande potere di
persuasione dai piú diffusi ed efficaci media culturali (e, aggiungiamo, facilmente fruibile dai ricettori sulla base della loro
esperienza personale, assistita e sostenuta dalla logica della libertà del consumatore) comunica l’essenza indeterminata e
leggera del mondo: in un mondo simile, ogni cosa può accadere, ogni azione può essere intrapresa, ma nulla si può fare
“una volta per tutte”. Qualsiasi cosa accade in modo improvviso e si dissolve senza lasciare traccia. In questo mondo, i legami sono disseminati in una serie di incontri successivi, le
identità sono mimetizzate da maschere indossate una dopo
l’altra, le storie di vita sono frammentate in una serie di episodi che rivestono importanza per un periodo breve vincolato ad
una memoria effimera. Non si sa nulla con certezza, ed ogni
aspetto dello scibile si può conoscere in modi differenti: tutte
le modalità di conoscenza sono comunque provvisorie e precarie, ed ognuna vale l’altra. Se un tempo si ricercava la certezza,
ora la regola è l’azzardo, mentre l’assunzione di rischi prende
il posto del perseguimento tenace degli obiettivi» [Bauman,
1999: 65].
Una società «vulnerabile», insicura, anomica, come quella
che stiamo tentando di descrivere, nel momento in cui perde la
dimensione del nomos, smarrisce in modo simultaneo il senso
di ciò che non nomos è: tutto è devianza, nulla è devianza.
Scrive Luhmann:
«Ci si può chiedere quanto normale sia ancora il normale
[…] ma pur con tutte le turbolenze che erodono le tradizioni,
non si può seriamente contare sul fatto che la normalità o, meglio la differenza tra normale e deviante scompaia, o che dobbiamo disabituarci a osservare la società mediante questa distinzione, poiché ciò non porta piú a nulla. Bisognerebbe piuttosto chiedersi cosa si riesce a vedere se si mantiene la distinzione normale/deviante (comunque la si voglia truccare semanticamente) come strumento per osservare la società di oggi.
[…] Come si può raggiungere un consenso sociale (o anche
169
soltanto un accordo comunicativo provvisorio) se ciò non può
accadere che nell’orizzonte di un futuro di cui, come ognuno
sa, anche l’altro può parlare soltanto nella forma del probabile/improbabile?» [Luhmann, 1996: 2-3].
Germán Silva García [2000] ha riconsiderato la portata
epistemologica ed euristica del termine «devianza», definisce
quest’ultimo pregno ideologicamente e connotato negativamente, espressione della dicotomia «tra ciò che è normale o
corretto e ciò che è deviato». Il concetto perderebbe ogni capacità interpretativa dei fenomeni sociali perché semanticamente negherebbe la possibilità di pluralismo valoriale e normativo, presupponendo persino che, «[…], chi si conforma
alle norme segua sempre i modelli istituzionalizzati di comportamento, agendo in modo congruente, mentre i soggetti
che delinquono non seguano modelli di comportamento e valori propugnati dal sistema. Tuttavia non possiamo immaginare coloro che si confermano alle norme come un blocco omogeneo di maggioranza» [Silva García, 2000: 121]. L’autore
preferisce adottare il termine di «divergenza» (divergencia):
quest’ultimo include il conflitto (essendo il conflitto un tema
fondamentale della divergenza), che appare semanticamente
meno parziale, ed inoltre presenta sensibili capacità interpretative. Oggetto della divergenza è infatti la diversità: quest’ultimo «[…] è l’oggetto della sua conoscenza»; la diversità è caratteristica di mutamento di ogni interazione sociale, è la contraddizione gestibile all’interno delle interazioni e del sistema
piú amplio; è la possibilità e il riconoscimento di selettività da
parte del sistema. La divergenza è il riconoscimento delle diverse modalità interattive sociali, ed il suo rapporto con la
struttura sociale, in termini di controllo, pone feconde possibilità di analisi del continuum micro-macro. La divergenza assume le forme di una delle possibili azioni sociali: essa esprime
sí il conflitto ma anche la ridondanza, considerare la divergenza come comunicazione di ritorno, enfatica e ridondante, significa valutarne le valenze comunicative ed espressive [cfr.
Ghezzi, 2001].
170
9. Devianza, comunicazione, reputazione, identità
Di solito, quando parlano di devianza, i sociologi intendono
riferirsi ad un comportamento che presenta alcune proprietà.
Queste possono essere ricondotte alle seguenti cinque, naturalmente elaborabili in formulazioni diverse e con contenuti di
senso soggetti ad una certa variabilità:
1) la devianza si riferisce alle aspettative connesse ad un
orientamento normativo. È considerato come deviante quel
comportamento che abbia violato le aspettative istituzionalizzate di una data norma sociale;
2) il comportamento deviante viene individuato come tale
dal gruppo, sicché mutando il gruppo può mutare l’individuazione di ciò che va considerato deviante;
3) i criteri di individuazione di ciò che appare come comportamento deviante in una determinata situazione mutano col
mutare delle situazioni;
4) diversi tipi di devianza appaiono intimamente legati, piú
che ad un tipo di personalità dell’attore, a determinati ruoli
sociali;
5) il comportamento deviante può assumere intensità e direzioni diverse.
Si può parlare di un continuum nel quale conformismo e devianza si collocano in termini di graduazione senza soluzione di
continuità. Non si deve ipotizzare un’entità a sé stante, il «comportamento deviante» con i suoi specifici contenuti, contrapposta ad un’altra entità a sé stante, il «conformismo», con i
suoi altrettanto specifici e irriducibili contenuti. In realtà si può
far riferimento ad un unico comportamento, il quale di volta in
volta, sulla base di valutazioni di gruppo o di valutazioni situazionali, può colorarsi dell’uno o dell’altro significato. Ogni analisi di un fenomeno deviante deve logicamente far riferimento
agli elementi «strutturali» del sistema culturale.
Quando e come un’azione può essere considerata delinquente?
Emler e Reicher [Emler e Reicher, 2000] considerano la delinquenza come una categoria dai contorni sfumati, organizzata
171
attorno ad alcuni punti di riferimento: ci sono atti prototipicamente delinquenziali sulla cui interpretazione il consenso è
unanime (uccidere per motivi banali, rubare oggetti di grande
valore, rapinare con la minaccia delle armi, rapinare una persona per ottenere un riscatto, per esempio), ma attorno al prototipo si pongono molteplici azioni (la maggior parte, si potrebbe
dire) che possono essere interpretate in modo diverso in rapporto a molteplici fattori culturali e contestuali, oltre che alle
caratteristiche di chi è la vittima o di chi deve giudicare.
Il senso comune attribuisce generalmente al termine devianza un significato negativo (un deviante è chi va contro norme o
aspettative sociali condivise: ruba, si comporta da folle, non rispetta le regole del vivere civile).
Secondo Giddens [Giddens, 1990], le norme come schemi
di interpretazione delle azioni proprie e altrui forniti dalla
struttura sociale, si presentano al soggetto sia come «vincoli»,
sia come «risorse» per l’azione. Rappresentano dei vincoli in
quanto forniscono stabilità e prevedibilità alle relazioni secondo costellazioni di aspettative il cui senso è socialmente condiviso. Sulla scorta di G.H. Mead [1972] si può dire che le norme rappresentano delle risorse in virtú della valenza interpretativa che è insita nelle relazioni che prefigurano. Questa valenza
si esprime anche attraverso pratiche di trasformazione delle relazioni attraverso la manipolazione delle norme quali, ad esempio le pratiche, di negoziazione normativa che attenuano le
contrapposizioni tra i soggetti attraverso forme negoziali.
Soprattutto in situazioni relazionali nuove o di conflitto, il
soggetto può trovarsi nella condizione di dover operare delle
vere e proprie scelte riferite alle norme a partire dai presupposti
regolativi forniti dalle strutture sociali.
«Attraverso le proprie scelte normative il soggetto può collaborare alla conservazione delle norme e degli assetti istituzionali in cui le applica, in quanto riferirsi adattivamente ad una
norma significa riprodurla, confermarla e diffonderla, oppure
può agire in modo creativo e volto alla trasformazione degli assetti relazionali, negoziando le norme stesse, non confermandole, trasformandole, proponendo l’uso di altre norme. In en172
trambi i casi il soggetto, oltre a partecipare attivamente alla costruzione e alla ricostruzione delle interazioni e delle relazioni
di cui è parte, collabora alla produzione e alla riproduzione degli aspetti normativi dei gruppi e delle società a cui appartiene,
nonché alla continua produzione e riproduzione del proprio
tessuto normativo» [Favretto, 2001: 26-27].
Nei processi di ridefinizione dei contenuti normativi dei
ruoli, nei quali l’attribuzione di aspettative e la definizione dei
diritti e dei doveri possono essere sottoposti a costante negoziazione da parte di coloro che si percepiscono in condizione di
svantaggio o di scarso potere [Favretto, 2001: 29].
In questo senso la trasgressione delle norme e la devianza
devono essere intese come comunicazione polisemica, a volte,
come costruzione di senso alternativa, aprendo per gli osservatori un ampio e complesso campo problematico.
Una nuova concezione del comportamento deviante è stata
sviluppata muovendo da diversi riferimenti teorici come la teoria dei sistemi, a teoria delle interazioni, dal funzionalismo, dalla teoria delle rappresentazioni simboliche.
Un importante carattere comune a tutte le interpretazioni
sociologiche del comportamento deviante – fa rilevare Luhmann – consiste nel fatto che al sistema non viene imputato solo il comportamento conforme, ma anche quello deviante, il
quale viene considerato una componente del sistema sociale
strutturato. La distinzione tra comportamento conforme e comportamento deviante non segna quindi i confini del sistema nei
confronti del suo ambiente: essa è una differenziazione interna
al sistema. I sistemi sociali non constano solo di azioni «buone». Sia il comportamento conforme alle aspettative, sia quello
ad esse contrario viene riferito, in base al suo senso, a strutture
di aspettative – o da parte dell’agente stesso o da parte di altri
che coesperiscono il suo agire, lo interpretano, lo assoggettano
a pretese normative di aspettative. Come ha spiegato Max Weber, a decidere della validità di un ordinamento non è tanto la
sua effettiva osservanza, quanto il fatto che l’agire sia orientato
a tale ordinamento.
173
Niklas Luhmann nella Sociologia del diritto [Luhmann,
1977] sostiene che una delusione delle aspettative normative
non si verifica solo perché altri agiscono in modo inaspettato,
ma anche e soprattutto «perché altri aspettano in modo inaspettato e, in questo aspettare in modo inaspettato, trovano la
loro identità» [Luhmann 1977, 139]. Luhmann individua
esplicitamente il rapporto stretto che si stabilisce tra identità e
comunicazione. E ciò si verifica anche nella sfera della pura
devianza che si caratterizza, si «autoconsidera» come priva di
norme e si orienta in modo puramente cognitivo all’ordinamento normativo dominante per poter meglio agire contro le
norme. Ma, sostiene Luhmann, anche il delinquente «allorché
viene messo in condizioni di comunicare, comincia ad argomentare e a sviluppare propri valori, se non proprie norme, in
quanto altrimenti egli non potrebbe rappresentare se stesso né
potrebbe avere un futuro nel sistema» [Luhmann 1977, 140].
Sia da parte dell’ordine sia da parte del deviante si hanno problemi di assorbimento di delusioni. La società deve prestare
una grande attenzione ai processi di formazione e di comunicazione delle devianze. Una società in rapido mutamento e con
un bisogno elevato di innovazioni «deve sviluppare meccanismi che siano in grado di scoprire, anche in comportamenti
devianti, le chances di nuove strutture, e che quindi non si lascino ingannare dall’apparente antigiuridicità o addirittura immoralità del nuovo, ma siano in grado di reagire senza indignazione e con una disposizione all’apprendimento» [Luhmann,
1977: 155-156].
Già Sutherland sottolinea che i processi di apprendimento
che causano il comportamento deviante, sono analoghi ai processi di apprendimento che conducono al comportamento
conforme, cosí che anche in questo senso la devianza diventa
una reazione «normale».
Nella seconda e ultima versione dei Principles of Criminology del 1947, Sutherland sostiene che il comportamento criminale viene appreso e risulta dall’«interazione con altri mediante un processo di comunicazione» [Sutherland, Cressey,
1996: 14].
174
Si tratta, in pratica, di discernere in questi codici comunicativi elaborati dagli adolescenti, messaggi diversi che possono
voler significare la presenza di una manifestazione di disagio
individuale o relazionale; possono voler indicare la volontà, talvolta inconsapevole, di modificare l’assetto delle relazioni prefigurato dalle norme o la loro inadeguatezza rispetto alla situazione in cui vengono applicate. In casi del genere la ricerca di
altre norme potrebbe essere interpretata come atto deviante da
parte di osservatori o di attori compartecipi alla interazione,
ma potrebbe anche acquisire, attraverso il ripetersi e lo stabilizzarsi, nuova valenza e forza regolativa. Gli atti trasgressivi e devianti, come vedremo meglio piú avanti, possono comunicare
la rilevata fragilità dei comportamenti normativi stabiliti dagli
adulti e dai pari e l’esigenza di promuovere la ridefinizione della propria identità personale e sociale.
Dal punto di vista dell’analisi sociologica possono essere individuate almeno due posizioni diverse. La prima si richiama
alle teorie del self-labelling. In questo caso ai membri delle culture giovanili è riconosciuta ben poca autonomia: la loro identità, la loro immagine è definita dall’esterno, quasi sempre come negativa e deviante. L’eventuale devianza del gruppo sarebbe quindi frutto dell’etichettamento. L’ambiguità dei messaggi
delle culture giovanili che si basano piú sull’apparire che sul dire, presta in particolar modo il fianco all’interpretazione negativa data dall’esterno.
Un secondo filone di ricerca riconosce invece ai giovani la
capacità di costruire piú autonomamente la loro identità che
viene ad assumere un carattere riflessivo e interattivo. Essere
«contro», essere «diversi» serve a isolare e a identificare meglio
la propria identità, o almeno a capire che cosa le è estraneo
[Rebughini, 2000]. Attraverso il gruppo sub-culturale si attua
una definizione provvisoria e transitoria del proprio sé. Si rifiutano dati ruoli ci si autorappresenta in modo diverso per essere
piú visibili, provocatori, comunicativi, aiutandosi in questo modo a definire meglio il proprio sé. L’originalità aiuta a definire il
senso di identità personale.
175
A seguito delle ricerche dell’interazionismo simbolico [Becker,
1987; Matza, 1976], è divenuto, però, chiaro che nei comportamenti etichettati come devianti ci possono essere elementi di
originalità e innovazione, anche se non immediatamente accettati o condivisi dall’opinione pubblica. I movimenti di contestazione hanno fatto propria questa prospettiva portando innovazioni consistenti nella comprensione della situazione giovanile, nella considerazione della follia, di molte forme di diversità,
di iniziative originali nella loro polemica contro lo status quo.9
Si è però giunti frequentemente, al di là dei chiarimenti apportati dai contributi citati, al paradosso per cui ogni atto non
conforme alle regole sociali veniva considerato creativo. È chiaro che non si può considerare indiscriminatamente ogni forma
di protesta o di rottura delle regole dell’esistente come innovazione La teoria delle minoranze attive [Moscovici, 1976] ha
permesso di chiarire sul piano della concettualizzazione sociopsicologica la differenza fra devianza distruttiva o amorfa e devianza innovativa. Perché ci sia innovazione è necessario che
un gruppo, minoritario per la propria specificità di essere in
polemica con l’ordine esistente, non si limiti a protestare, ma
elabori, partendo dalla propria contrapposizione con il gruppo
maggioritario, una nuova alternativa definizione di realtà [Berger e Luckmann, 1999] impegnandosi ad agire per trasformarla
in una realtà concreta. Il linguaggio, in modo particolare, rende
oggettive e accessibili a tutti le esperienze comuni all’interno
della comunità linguistica, diventando base e strumento di una
cultura collettiva.
In questo modo, la devianza innovativa può essere inquadrata nel quadro delle innovazioni culturali che come afferma
Wendy Griswold [Griswold, 1997]10 sebbene possano realizzarsi casualmente e in forme non prevedibili, presentano alcuni
elementi costanti: 1) determinati periodi sono piú favorevoli di
altri alla produzione di innovazione; 2) anche le innovazioni seguono alcune convenzioni; 3) alcune innovazioni hanno piú
probabilità di altre di istituzionalizzarsi. Fra l’azione della minoranza attiva e quella dei devianti tout court esiste una differenza radicale che riguarda l’atteggiamento verso i confini della
moralità: mentre nel primo caso si mette in atto uno sforzo per
176
spostare (modificare) tali confini, nel secondo caso non si rispettano i limiti che pure sono conosciuti.
A ragione, dunque, Emler e Reicher propongono una sorta di
svolta cognitivo-epistemologica rispetto alle categorie tradizionali, sostenendo che la devianza adolescenziale non può essere capita facendo ricorso ai modelli sociopsicologici che centrano il
loro interesse su carenze o patologie della personalità («regolatori interni») degli attori sociali, né ai modelli sociologici che enfatizzano il ruolo della scomparsa dei «regolatori esterni» causata
dall’affermarsi della società di massa che ha portato alla perdita
di ogni forma di vita comunitaria in cui i rapporti interpersonali
erano assai vivi e il controllo sociale poteva essere esercitato.
In altri termini la gran parte delle teorie sulla devianza condividono l’assunto che la devianza sia causata da una socializzazione mancata o non completa, carenza questa che diventa particolarmente evidente in adolescenza. Il rapporto tra devianza e
mancata socializzazione, dunque, è utilizzato per spiegare anche
l’interdipendenza tra devianza e adolescenza; chi non riesce a superare i compiti di sviluppo che contrassegnano la transizione
dall’infanzia all’età adulta, o diventa direttamente deviante o cade preda di gruppi coetanei che portano, quasi senza eccezione,
alla devianza.
Queste impostazioni (mancata socializzazione per mancanza
di controllo esterno o di controllo interno), tuttavia, trascurano
completamente di analizzare le basi sociopsicologiche delle azioni devianti, cioè il contesto immediato in cui la devianza si attiva
(o non si attiva) e il significato che essere o non essere devianti
ha per gli adolescenti.
Le critiche alle interpretazioni, sia sociologiche sia psicologiche, della devianza argomentate da Emler e Reicher non riguardano le varie correnti dell’interazionismo simbolico, con cui anzi
mostrano di dialogare.
Emler e Reicher fanno riferimento ad alcune nozioni-chiave.
a) Non è vero che la vita sociale attuale si caratterizzi inevitabilmente per l’assenza di scambi significativi fra attori anonimi perché privi di storia. I rapporti sociali sono la sostanza dell’esperienza quotidiana, la comunicazione avviene non fra
177
estranei, ma generalmente fra persone che si conoscono e che
nutrono reciproci sentimenti, siano essi positivi, negativi, o ambivalenti.
b) L’azione umana è ampiamente controllata dall’esigenza di
avere una reputazione. Questa esigenza è sostenuta dal fatto
che le persone si conoscono, hanno aspettative reciproche, si
rappresentano le caratteristiche dei propri interlocutori.
La reputazione implica che ogni attore sappia anche che gli
altri esprimono giudizi su di lui (o su di lei) e questo fa sí che
l’attore si sforzi di confermare o di modificare l’immagine di sé
che ha fornito agli altri e che questi elaborano.
Il medium attraverso cui questo processo sociale si compie è
la conversazione che si svolge fra i componenti dei gruppi piú
diversi: in tali conversazioni si realizzano scambi continui circa
le conoscenze e i rapporti sociali che ciascuno costruisce e sperimenta.
Con Clifford Geertz si può affermare che questi scambi comunicativi e questa costruzione di rapporti sociali si verificano
sulla base di simboli e di sistemi simbolici. Si tratta, dunque, di
reti di rapporti e di scambi culturali. È lo stesso Geertz, in accordo con Max Weber, ad evidenziare l’approccio interpretativo [Geertz, 1988: 11].
Ma che funzione ha la reputazione nelle vicende sociali e
perché le società generano esigenze di reputazione?
Negli scambi che si realizzano nei mondi vitali, gli individui
si scambiano favori e dispetti: non è detto che ad uno di questi
atti si possa rispondere immediatamente. Le relazioni di credito e di debito possono durare a lungo prima di essere risolte.
Può anzi accadere che siano risolte attraverso altre persone che
entrano nello scambio. Tu mi aiuti e dopo qualche tempo io mi
sdebiterò aiutando un tuo amico o familiare. È ovvio che questo può accadere soltanto fra persone che si conoscono e ricordano i favori (o gli sgarbi) fatti o ricevuti.
Esiste, di fatto, una «economia informale» per cui tutti i
membri di un gruppo o di una collettività diventano reciprocamente interdipendenti. Da questo punto di vista potrà dire
Simmel che «il punto di partenza di ogni formazione sociale è
178
soltanto l’interazione tra persona e persona» [Simmel, 1984:
257-258], che «la società non è che la sintesi o il termine generale per indicare l’insieme di questi rapporti di interazione particolari» [Simmel, 1984: 258] e ancora che «società è il nome
con cui si indica una cerchia di individui, legati l’un l’altro da
varie forme di reciprocità» [Simmel, 1983: 42]. La società,
quindi, come insieme di reticoli e di rappresentazioni. Come
dice Moscovici, per Simmel la sociologia è una scienza delle relazioni in cui viene elaborato sia l’individuale sia il collettivo.
In rapporto a ciò, è ovviamente utile conoscere la reputazione delle persone con cui ci imparentiamo o facciamo affari, oppure, piú semplicemente, che frequentiamo.
In breve, se gli attori sociali sono consapevoli, oltre che della reputazione attribuita a conoscenti piú o meno prossimi, anche di quella di cui godono loro stessi, è comprensibile che se
ne prendano cura e facciano di tutto per proteggerla.
L’interazionismo simbolico ha mostrato che i nostri interlocutori, siano essi prossimi o assai distanti, traggono da quanto
facciamo inferenze sulle nostre caratteristiche personali; consapevoli di ciò, noi tentiamo di influenzare le conclusioni a cui
essi (gli «altri») giungono. Come sostiene Goffman [Goffman,
1986], lo scopo di tutto ciò che facciamo in pubblico è quello
di presentare noi stessi; controlliamo le nostre azioni in modo
che gli altri ci attribuiscano certe particolari qualità.
Queste considerazioni, secondo Emler e Reicher, si possono
applicare anche alla reputazione, avendo cura, però, di mantenere una distinzione fra il concetto di reputazione e quello
goffmaniano di «prima impressione». La reputazione infatti
può essere monitorata dall’individuo meno facilmente delle
prime impressioni, in quanto consiste in una valutazione che i
nostri interlocutori possono controllare in modo quasi completo. Non è creata da un individuo isolato che incontriamo incidentalmente, ma viene elaborata negli scambi che si realizzano
entro i diversi gruppi sociali (nelle comunità): proprio per questo ha una vitalità ed una sorta di continuità inerziale sua propria. Una volta che ci si è fatti una reputazione è molto difficile
modificarla.
179
D’altra parte è anche vero che, in certe contingenze particolari, la reputazione può essere perduta se non viene «coltivata»
con attenzione da chi se l’è costruita. In altre parole, ogni attore deve agire in situazioni pubbliche in modi il piú possibile
coerenti con la reputazione che vuole mantenere.
È dato per scontato dal senso comune che il «tenerci» ad
avere una certa reputazione e il fare di tutto per mantenerla riguardi soltanto una reputazione positiva e socialmente approvata. Le scienze sociali, però, in contrasto con tale credenza
diffusa, mostrano che ci sono individui che si ostinano ad agire
in modo da mantenere e rafforzare una reputazione negativa.
Questo apparente paradosso può essere decodificato: è dimostrato che è piú facile esprimere qualcosa di chiaro e specifico
circa se stessi rompendo le regole invece che rispettandole.
Come si possono comunicare, in altre parole, certe proprie
caratteristiche? Come ci si può far notare. Mentre è difficile
rendere evidenti le proprie qualità positive [Skowronski e Carlston, 1989] è molto piú agevole dare informazioni su se stessi
mettendo in atto comportamenti socialmente disapprovati.
Questi dati permettono di cogliere la centralità che ha il
concetto di reputazione per la comprensione della devianza
adolescenziale in particolare.
A differenza di quello che sostengono diverse teorie psicologiche, non è vero che gli atti devianti siano commessi da individui isolati, preoccupati soprattutto di tenere nascosto quello
che fanno.
Già Piaget [Piaget, 1932], nel suo studio sullo sviluppo del
pensiero morale, aveva sostenuto che le violazioni piú importanti delle regole sono pubbliche: un primo esplicito esempio si
trova osservando i giochi dei bambini. D’altra parte, anche se
alcuni reati, generalmente poco rilevanti, vengono commessi da
individui isolati, senza complici, non esiste un tipo di delinquenza che in assoluto possa definirsi solitaria. Reati quali il
furto, il vandalismo, lo spaccio di droga, la rapina sono generalmente commessi insieme con altri.
Una prova significativa del fatto che i devianti non tendono
a tener nascosto quello che fanno è fornita dalla dimostrata at180
tendibilità dei loro resoconti personali sulle trasgressioni commesse e dalla scarsa correlazione tra la propensione a mentire
dei devianti e l’ammissione dei reati. I resoconti stessi svolgono
la funzione di un vero e proprio «testo comunicativo» di presentazione di sé.
Ogni azione deviante, dunque, ha sin dall’inizio un suo
pubblico: il fatto che si sia progettata e realizzata di nascosto rispetto a tutori e rappresentanti della legge non deve far inferire
che non se ne discuta, per progettarla, in un certo contesto e
con un certo pubblico «specializzato».
Chi di fronte al proprio pubblico si è costruito una solida
reputazione da deviante è probabile si impegni per riaffermarla
e consolidarla.
È evidente che questa tesi è molto vicina a quella sostenuta
dagli studiosi che fanno capo alla Labelling Theory [Becker,
1963; Lemert, 1967]: sono eventi drammatici, generalmente il
primo arresto, che spingono gli individui a passare dalle prime
trasgressioni occasionali, attuate da moltissimi, soprattutto in
età adolescenziale (devianza primaria), ad un coinvolgimento
piú profondo con un ruolo deviante (devianza secondaria).
Gli eventi drammatici ricordati hanno effetti cosí rilevanti
perché fanno sí che gli individui implicati emergano dall’anonimato; acquisiscano, in altre parole, una reputazione pubblica che
li fa formalmente identificare come devianti (o delinquenti).
Va rilevato, tuttavia, che mentre a teoria dell’etichettamento
riconosce agli attori sociali, nel passaggio dalla devianza primaria a quella secondaria, una scarsa o nulla capacità di iniziativa,
Emler e Reicher sostengono la tesi, confermata da molteplici
dati di ricerca che gli attori sociali sono consapevoli della reputazione (o etichetta) che possono acquisire obbedendo alle norme sociali o trasgredendole, e perciò le loro azioni sono intenzionalmente orientate ad influenzare il risultato del processo di
etichettamento.
Si può dunque affermare che la devianza si origina da una
scelta coerente che esprime un messaggio chiaro e comprensibile: come chi opera nella legalità tiene ad apparire un cittadino che rispetta la legge, l’individuo che si è identificato in un
181
ruolo di deviante vuole mostrare al suo «pubblico» che non deflette dall’orientamento che ha preso.
Nel 1960, Glaser nel riformulare la teoria delle associazioni
differenziali di Sutherland [Sutherland, 1978] rifacendosi alla
teoria dei ruoli di George H. Mead, afferma che ai fini dell’apprendimento della delinquenza è importante l’identificazione
con modelli criminali, piú che l’associazione con essi. Il fattore
determinante per la criminogenesi è quindi il processo di identificazione, inteso come processo sociopsichico mediante il
quale si tende a rendersi simili, ad omologarsi a certi modelli
scelti come tipico-ideali. In questo processo di costruzione
identitaria l’individuo tende a far propri anche i valori normativi ed etici associati a tali modelli.
L’identificazione non richiede un contatto interpersonale
poiché può realizzarsi anche verso modelli (reali o immaginari)
con i quali non vi è stato un rapporto diretto. L’identificazione
con soggetti delinquenti può verificarsi in diversi modi: a seguito di esperienze dirette con associazioni di delinquenti, attraverso una valutazione positiva dei ruoli delinquenziali rappresentati dai mass media oppure a seguito di una reazione negativa a forze che si oppongono alla criminalità. La teoria di Glaser
permette cosí di spiegare le azioni criminali commesse da parte
soggetti che sono abitualmente inseriti in gruppi sociali non
criminali.
Gli adolescenti perseguono differenti progetti reputazionali
la cui realizzazione può avere ripercussioni notevoli sulla qualità del loro agire sociale. Non si possono evidentemente comprendere né le scelte, né le azioni degli adolescenti se non si conosce il contesto sociale in cui essi vivono e agiscono. Emler e
Reicher danno particolare rilievo, nello svolgimento delle loro
argomentazioni, a due aspetti del contesto: l’ordinamento istituzionale della società che gli adolescenti sperimentano direttamente grazie al contatto col sistema scolastico in cui sono inseriti ed attraverso il contato con le altre agenzie statuali (la polizia, il sistema sanitario, l’organizzazione del mercato del lavoro,
le banche, ecc.); i gruppi sociali informali, in particolare i gruppi di coetanei.
182
10. Adolescenti, circuiti comunicativi e «modelli
di successo»
Gli studi sull’adolescenza hanno recentemente valorizzato la
nozione di compiti di sviluppo. Dalla riconsiderazione di tale
nozione emerge che non si può definire una lista di compiti di
sviluppo valida per gli adolescenti di tutte le epoche e di tutte
le situazioni, ma che in ogni contesto socioculturale occorre individuare gli specifici compiti proposti agli adolescenti.
Questo orientamento non è banalmente relativista: riconosce che oltre ad alcuni problemi che gli adolescenti comunque
affrontare (sviluppo fisico, per es.) occorre cogliere il proprium
di altri compiti che il momento storico e la specificità di ogni
contesto propone a che esce dall’infanzia per entrare nel mondo adulto. Una cosa è essere adolescenti nel Nord Italia, dove i
problemi di inserimento nel mercato del lavoro sono assai ridotti, altra cosa è esserlo in certe regioni del nostro Sud, dove
la prospettiva postscolastica è quella della disoccupazione prolungata. Scarsa attenzione è posta dalle scienze sociali sui compiti inerenti ai rapporti con l’ordine formale-istituzionale. Mentre nell’infanzia, in genere, i genitori fungono da mediatori per
l’individuo e l’ordine istituzionale, nell’adolescenza si pone con
forza il problema dell’orientamento verso, e del rapporto con,
le autorità formali che rappresentano le istituzioni.
L’allarme sociale nato in questi ultimi anni in merito a episodi delittuosi commessi da minorenni e in particolare al loro
coinvolgimento in attività criminali tipiche delle organizzazioni
mafiose si è andato costruendo facendo anche riferimento a
quegli elementi che caratterizzano la fisionomia, negli ultimi
cinque anni, della criminalità minorile: un aumento di minori
di anni 14 denunciati, un cambiamento nella «qualità» dei reati
commessi e un aumento del coinvolgimento dei minori in attività illecite tipicamente mafiose.
Proprio rispetto a quest’ultimo punto sembra che in Italia si
siano levate molte voci di denuncia sia dell’opinione pubblica
sia da parte di tutti gli «operatori» (magistrati, operatori sociali, forze di polizia, ecc.) che a vario titolo si trovano quotidiana183
mente a contatto con questo fenomeno. A livello legislativo la
risposta al problema in questione si è realizzata attraverso l’emanazione di alcune leggi tra cui la legge 27 maggio 1991, n.
176, con la quale il nostro paese aderisce alla convenzione Onu
circa la prevenzione della delinquenza minorile e la legge 21 luglio 1991, n. 216, con la quale si finanziano progetti elaborati
da Comuni e da associazioni delle regioni meridionali per l’attivazione di interventi di prevenzione della delinquenza e di risocializzazione nell’area penale.
Alla questione in esame si è anche interessata la «Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle
altre associazioni criminali similari» presentando una relazione,
nel marzo 1991, sulla delinquenza minorile con particolare riferimento alle zone ad alta densità criminale di stampo mafioso.
Ancora, nel maggio del 1992 l’Ufficio centrale per la giustizia
minorile ha organizzato un meeting internazionale di esperti
sull’uso strumentale dei minori in attività illecite che ha confermato il dilagare del fenomeno in Italia come all’estero. Le conoscenze che ne sono derivate hanno confermato che è sensibilmente aumentato il rischio di un rapporto di strumentalizzazione, di tipo generale e specifico, tra criminalità organizzata di
stampo mafioso e minori, in particolare in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania. Il rischio è oggi ancora piú grave se si pensa
che in alcune aree del territorio nazionale i modelli mafiosi
possono essere fortemente attraenti per i ragazzi che con essi si
confrontano. Dell’aprile 2001 sono alcuni dati allarmanti. Da
un sondaggio del giornale della chiesa cefaludese effettuato
nelle ultime classi di 12 istituti tecnici. Dei 163 diciottenni che
hanno risposto al questionario il 34% ha risposto che per lavorare ci vuole la raccomandazione, il 26% è disposto a rinunciare ai sogni e il 20% è rassegnato a rimanere in «parcheggio»per
diversi anni. Non solo: il 73% ritiene di dover lasciare il paese
per avere un’occupazione, mentre l’88% pensa che il tipo di lavoro che vorrebbe non esiste a Cefalú.
Le reti delle relazioni e delle comunicazioni intraterritoriali
non sono caratterizzate solo dai simboli e dal linguaggio, ma
dai comportamenti di dominio su cui si innestano fatti crimina184
li. Come osserva Giuseppe Casarrubea «il territorio mafioso è
pervaso dalla cultura dell’illegalità in quanto luogo nel quale si
esercita la vessazione e lo strapotere, si negano i diritti di ciascuno, si mantiene una condizione tribale-feudale a fronte di tutte
le conquiste fondamentali dei diritti umani» [Casarrubea, 1996:
131]. Le organizzazioni mafiose riescono a mantenere contatti
con le istituzioni legali «fornendo loro strumenti di autoconservazione (intimidazione dei concorrenti, influenza elettorale,
ecc.) e ottenendo in cambio prestigio e reputazione» [Becchi,
2000: 75].
Le organizzazioni criminali riescono ad acquisire autorevolezza nella società in cui sono inseriti che viene riconosciuta dalla popolazione locale. Ancor piú dell’organized crime americano,
Cosa nostra siciliana, per potenziare questi processi di legittimazione del proprio potere, del proprio prestigio e della propria
autorità, si avvale di reti di relazioni ampie, variegate e capaci di
includere soggetti dotati di potere e di prestigio nella società legale. «L’estensione e la qualità dei relé cui è raccordata sono un
presupposto cruciale del suo potere» [Becchi, 2000: 99].
Un aspetto importante è quello che riguarda le politiche
preventive orientate al contrasto, e a modificare le condizioni
entro cui oggi avviene l’opzione a favore di una carriera criminale, riducendo il flusso dei nuovi ingressi nelle file criminali
La mafia, le mafie hanno rappresentato e, per alcuni versi,
continuano ancora a rappresentare un vero e proprio «modello
di successo» [Sciarrone, 2000].
In conclusione, la proposta di studiare la devianza come
processo comunicativo, di costruzione dell’identità e della reputazione meglio potrà consentire lo studio dei processi di riconfigurazione e di ricombinazione delle identità, sugli stati
anomici, di insicurezza e rischio, sui processi di violentizzazione [Athens, 1992 e 1997], sulla gestione strategica di identità e
reputazione [Gambetta, 2004], e sulle rappresentazioni massmediatiche di violenza, rischio, insicurezza.
In questo modo sarà possibile gettare qualche luce sui circuiti comunicativi di gruppo, e sulla logica della comunicazione di gruppo, sull’appartenenza di gruppo e sul livello di coin185
volgimento in «giochi di ruolo» e in atti di devianza. Si tratta
di un sistema complesso di relazioni, di interdipendenze [Emler e Reicher, 2000: 271], di relé. Essere membro di un gruppo
implica l’adesione alle norme del gruppo sulla devianza e, viceversa, un determinato livello di coinvolgimento nella devianza dipende dal fatto di appartenere a un gruppo con particolari norme. Il gruppo è importante nel mondo sociale degli adolescenti, la stragrande maggioranza di essi afferma di essere
parte di un qualche tipo di gruppo. Questi elementi sembrano
indicare che la decisione di infrangere le norme viene presa
nell’ambito del gruppo. L’apprendimento è di tipo dialettico,
interattivo ed include aspetti edonistico-comunicativi, esplicandosi attraverso la comunicazione intra-gruppale, risente del
potere simbolico dei media, in termini di configurazione dell’identità e identificazione e riorganizzazione simbolica della
stessa.
La scelta di una teoria della devianza come comunicazione
ci sembra apra possibilità concrete di sviluppare ricerche empiriche in particolare sulla la delinquenza minorile non solo per
meglio comprendere i fenomeni di devianza nella fase di costruzione dell’identità, ma anche di comprendere meglio genesi
e strutturazione del comportamento e della personalità mafiosi.
Ciò può esser utile al fine di migliorare la valutazione e l’incisività delle politiche pubbliche di contrasto della criminalità e
del sistema mafioso. Con la convinzione, molto efficacemente
manifestata da David Garland che lo Stato ha una capacità decisamente limitata di garantire la sicurezza ai cittadini:
«La lezione che si può trarre è che lo Stato-nazione non può
piú sperare di governare attraverso l’imposizione di obblighi a
soggetti ubbidienti, facendo perno sulla sua sovranità, e questo
vale sia se si tratta di garantire la prosperità economica sia, infine, se si tratta di mantenere legge e ordine. Nel mondo complesso e differenziato della tarda modernità, un governo legittimo e capace di incidere deve delegare il potere e condividere la
mission del controllo sociale con organizzazioni e comunità a
livello locale. Non è piú possibile, infatti, fare affidamento sulle
“competenze dello Stato”, su agenzie burocratiche poco sensi186
bili e su soluzioni valevoli universalmente e imposte dall’alto.
Da tempo i teorici sociali e politici hanno sottolineato che, nelle società complesse, un governo che intenda essere efficace
non può fondarsi sul dominio e sulla coercizione centralizzati.
Occorre, invece, che lo Stato promuova la capacità di governance delle organizzazioni e delle associazioni della società civile, insieme ai poteri locali e alle competenze che essi possiedono. Stiamo scoprendo – e non anzitempo – che tutto ciò è vero
anche in rapporto al controllo della criminalità» [Garland,
2004: 328-329].
L’analisi di Garland è sorprendentemente vicina alle esigenze di nuove strategie «locali» di lotta alle criminalità organizzate e alle mafie. Per quanto, in particolare, riguarda la Sicilia, un
aspetto fondamentale della lotta alla mafia consiste proprio nei
nuovi processi di identificazione sociale e di sviluppo della fiducia in ambito locale.
Processi di questo tipo si sono verificati, in forma embrionale attorno ai primi anni ’90 a partire dal 1990 a Capo d’Orlando [Costantino, 1993a; Costantino, 1993b; Costantino, 1993c;
Costantino, Fiandaca 1994; Costantino, 1998] con Tano Grasso e il movimento antiracket orlandino che è riuscito a bloccare, attraverso l’iniziativa associata, e i tentativi della mafia di
mettere radici nel piccolo centro balneare del messinese.
L’esperienza di Capo d’Orlando esemplifica, per molti versi,
forme di iniziative, come quelle auspicate da Garland, che hanno come protagonista la società civile una reazione antimafiosa
che fuoriesce dagli schemi politico-istituzionali tradizionali e si
sviluppa sul terreno di una rivolta etica che assume connotati
inediti. I commercianti e gli imprenditori orlandini minacciati
dall’estorsione mafiosa, piuttosto che accettare la protezione
imposta dalla stessa mafia, sono riusciti a sviluppare forme
cooperative di autotutela e reti fiduciarie orientate secondo
quella specifica etica che dovrebbe presiedere allo svolgimento
dei loro affari. In questo modo, essi hanno spontaneamente
reagito e si sono mobilitati per la difesa non di regole morali
generali e astratte, bensí strettamente funzionali ai loro interessi economici.
187
È comunque significativo che questa reazione legata a interessi specifici abbia finito con l’incoraggiare la mobilitazione
dell’intera comunità orlandina e persino con lo stimolare l’azione antimafia dello Stato. È un esempio assai significativo, anche se non ha avuto a tutt’oggi diffusione in altre parti della Sicilia, da non trascurare o dimenticare, anche perché va nella direzione auspicata da Garland, nella direzione, cioè, di una possibile «governance siciliana» «delle organizzazioni e delle associazioni della società civile», che, «insieme ai poteri locali e alle
competenze che essi possiedono», potrà essere in grado di costruire una reale società civile.
III. Devianza, diversità e riconoscimento sociale:
il caso dell’omosessualità1
«Bisogna innanzi tutto che sappiate qual è la natura dell’uomo e
quali prove ha sofferto; perché l’antichissima nostra natura non era
come l’attuale, ma diversa. In primo luogo l’umanità comprendeva
tre sessi, non due come ora, maschio e femmina, ma se ne aggiungeva un terzo partecipe di entrambi e di cui ora è rimasto il nome,
mentre la cosa è perduta. Era allora l’androgino, un sesso a sé, la cui
forma e nome partecipavano del maschio e della femmina: ora non
è rimasto che il nome che suona vergogna» [Platone, Simposio].
«L’uomo piglia a materia anche se stesso, e si costruisce, sissignori,
come una casa. Voi credete di conoscervi se non vi costruite in
qualche modo? E ch’io possa conoscervi, se non vi costruisco a
modo mio? E voi me, se non mi costruite a modo vostro? Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. Ma che
conoscenza può essere? È forse questa forma la cosa stessa? Sí,
tanto per me, quanto per voi; ma non cosí per me come per voi:
tanto vero che io non mi riconosco nella forma che mi date, né voi
in quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia
di continuo. Eppure non c’è altra realtà fuori di questa, se non
cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi,
agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che
voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per
voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che
riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.
Ah, voi credete che si costruiscano soltanto le case? Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fare altrettanto. E la costru188
189
zione dura finché duri il cemento della nostra volontà» [Pirandello, Uno, nessuno, centomila].
«Solo grazie alla metamorfosi, assunta nel significato piú radicale
che qui ho dato, sarebbe possibile sentire ciò che un uomo è al di
là delle sue parole, la vera sostanza di un essere vivente non è
possibile coglierla se non in questo modo. È un processo enigmatico, di cui praticamente non è ancora stata esplorata la natura,
eppure non c’è altra maniera di accedere davvero a un’altra persona» [E. Canetti, La coscienza delle parole].
«Ciascuno la possiede, ciascuno la usa, ciascuno la considera
perfettamente naturale. Ma ben pochi si rendono conto di dovere
ad essa il meglio di ciò che sono» [E. Canetti, Massa e potere].
«La dignità dell’uomo, come insegnava Pico della Mirandola, sta
per l’appunto nella sua capacità proteiforme di trasformarsi. Noi
non siamo delle semplici macchinette a gettone, che si mettono in
movimento quando la moneta è entrata, in quanto a differenza
dello spinarello, noi abbiamo quello che gli psicanalisti chiamano
l’Ego, il quale saggia la realtà e configura gli impulsi che provengono dall’Id. Cosí possiamo conservare il controllo di noi stessi
mentre ci arrendiamo a metà di fronte alle monete falsificate, ai
simboli, ai surrogati. La nostra doppia natura, in equilibrio tra
animalità e razionalità, trova espressione nel mondo bifronte del
simbolo con la sua volontaria sospensione dell’incredulità» [E.
Gombrich, Arte e illusione].
«Dobbiamo aprire il vocabolario della descrizione e dell’analisi
culturale, affinché vi trovino posto concetti quali divergenza, varietà e disaccordo» [Clifford Geertz, Mondo globale, mondi locali,
cultura e politica alla fine del ventesimo secolo].
Le riflessioni che seguono presentano una serie di indicazioni sulle possibilità euristiche che lo studio sociologico delle
omosessualità riveste sotto il profilo epistemologico, socioculturale ed etico-politico, partendo dalla considerazione che l’identità sociale cosí come le espressioni della sessualità sono risultato di processi di costruzione sociale condizionati pesantemente da fattori culturali.
La sessualità e le omosessualità in particolare sono, di fatto,
state cancellate, tranne alcune recenti pregevoli eccezioni [Barbagli e Colombo, 2001; Saraceno, 2003] dall’agenda di ricerca
190
sociologica italiana. Gli unici, anche se esigui, aspetti positivi
cui si può far riferimento sono costituiti dal fatto che lo Statuto
regionale della Toscana riconosce le convivenze gay e lesbiche,
mentre quello dell’Emilia Romagna nel suo preambolo afferma
«la pari dignità sociale delle persone senza alcuna discriminazione», compreso l’orientamento sessuale. Una delle piú gravi
responsabilità è stata quella, tra le altre di ordine teorico ed epistemologico, di privare i curricula accademici degli studenti di
una serie di concetti ed argomenti utili per esplorare e rendere
conto dei mutamenti sociali, politici e civili che hanno luogo
nelle società complesse e che stentano a manifestarsi in Italia.
Sovente il disinteresse verso il fenomeno ha determinato
persino scarse evidenze empiriche sulle quali confrontare ipotesi, o molto piú semplicemente assenza di dati utili al fine di
pianificare interventi culturali e politiche pubbliche.
Tranne i dati raccolti e interpretati da Barbagli e Colombo
[2001], non si sa nulla della popolazione gay e lesbica siciliana,
e palermitana in particolare, non se ne conoscono, per esempio, la composizione, le dinamiche di adattamento alla cultura
locale, le differenziazioni per genere, gli stili di vita, i rapporti
di fruizione con lo spazio urbano, le forme di aggregazione.
La situazione è piú preoccupante ed allarmante se ci riferiamo
ad altre fenomenologie diverse dall’omosessualità, come i bisessuali, i transessuali, i transgender, gruppi sociali che forse sono
connotati ancora piú spregiativamente ed incompresi all’interno
stesso dei gruppi omosessuali, che vivono un doppio stigma dunque. È opportuno infatti non pensare mai all’omosessualità come
carattere omogeneo di un gruppo, le letture piú ingenue spesso
ne hanno fornito misconoscimenti semplicistici tali da rappresentare e leggere l’omosessualità quale fenomeno unitario, rendendo
invisibili, per esempio, le differenze di genere [Bertone, 2002].
Mancano dati, ma elementi ancora piú determinanti, mancano la comprensione di fenomeni che permetterebbero una
lettura critica della società contemporanea e la consapevolezza
dell’importanza che tali fenomeni rivestono.
Studiare sociologicamente le omosessualità potrebbe aprire
filoni di studio fecondi ed avere forti ricadute nella formulazione di politiche sociali, di inclusione sociale, nella comprensione
191
dei legami e delle appartenenze socio-affettive emergenti nella
postmodernità, nell’esplorazione critica del concetto di diritti
di cittadinanza2, nell’analisi piú oculata delle politiche familiari
e nella ridiscussione del concetto medesimo di famiglia; nello
studio delle genitorialità omosessuali; delle forme di socializzazione dei giovani gay e delle giovani lesbiche; dei diritti civili.
1. Il movimento omosessuale in Italia
Negli Usa le politiche dell’identità (identity politics) divennero discorso diffuso subito dopo gli anni ’60: fu proprio in quel
momento che la comunità gay e lesbica fu considerata come
gruppo e che sempre piú individui fecero il proprio coming out.
Gli Stati Uniti rappresentano il contesto di critica sociale
che, negli anni ’70, ha favorito l’esplodere della contestazione
studentesca e l’emergere dei movimenti emancipazionisti dei
neri, delle donne, e degli omosessuali. E se nelle piazze si scende a reclamare i propri diritti civili ancora negati, nelle università si dà vita ai «cultural studies».
Il sapere critico che si va costruendo in questi anni mette in
discussione i modelli culturali whasp3, e la loro egemonia all’interno di un universo sociale variegato, non piú disposto a negare
le proprie specificità. La lotta degli omosessuali prende le mosse
da un episodio di ribellione avvenuto nel 1969 in un bar frequentato da omosessuali4, lo Stonewall, in seguito alle ripetute umiliazioni e violenze subite dagli avventori da parte della polizia.
È a questa data che si fa risalire la nascita ufficiale del movimento di protesta omosessuale, sebbene vi siano stati altri esempi anche nella storia passata. In Italia il particolare tipo di censura, d’origine controriformistica, consisterà nel non parlare, neanche al negativo, di ciò che si allontana dalla norma5. Se ne negherà pertanto l’esistenza. L’Italia si è infatti caratterizzata per un
orientamento alla negazione, piuttosto che alla repressione dell’omosessualità: il primo codice penale dell’Italia unita, nel 1998,
eliminò il riferimento ai (e la sanzione dei) rapporti omosessuali
tra adulti consenzienti nel privato; l’intervento era limitato all’esistenza di motivi di pubblico scandalo. Questo orientamento
192
corrispondeva a quello della Chiesa cattolica, nella quale la sodomia era considerata un peccato innominabile, ma veniva tollerata
di fatto [Dall’Orto, 1988]. Anche durante il fascismo si preferí
continuare con la strategia del silenzio, evitando di nominare l’omosessualità nel codice penale, per non confermarne in questo
modo la rilevanza sociale. Al tempo stesso, venivano attuate forme di repressione da parte della polizia, dai pestaggi al confino.
L’orientamento alla negazione, pur con una minore attività
repressiva, si ritrova nella Repubblica del dopoguerra. In particolare, ancora oggi alle unioni di fatto, tra persone dello stesso
sesso ma anche tra uomini e donne, non sono riconosciuti sotto
molti aspetti gli stessi diritti delle coppie coniugate. Il mancato
accesso ad una forma di riconoscimento giuridico della coppia
convivente comporta che una rottura di fatto non abbia alcuna
conseguenza giuridica: non vi è quindi alcuna tutela del convivente piú debole. Inoltre, in caso di morte del partner, non si ha
diritto alla pensione di reversibilità. Se la casa in cui i conviventi sono vissuti è proprietà del partner defunto, e se non sono
stati presi provvedimenti particolari per tutelare chi sopravvive,
questi può vedersi costretto ad abbandonarla. In caso di ospedalizzazione, il partner non ha gli stessi diritti (di visita, di
informazione e di decisione in situazioni di emergenza) di un
coniuge. Riguardo ai figli, non sono previste forme di riconoscimento del ruolo del convivente non genitore (Menzione, 2000).
Vi sono stati tuttavia, negli ultimi anni, alcuni mutamenti nella giurisprudenza, nella direzione del riconoscimento di alcuni
diritti amministrativi, sulla base dell’iscrizione in anagrafe come
conviventi «per motivi affettivi», e in altri ambiti quali le casse
pensionistiche di alcune categorie lavorative, quali i giornalisti.
Infine, il modo in cui è stata recentemente recepita la Direttiva 2000/78/Ce contro le discriminazioni sul lavoro basate su
religione o convinzioni personali, handicap, età o orientamento
sessuale presenta forti carenze nella tutela antidiscriminatoria
delle persone omosessuali.
L’orientamento alla negazione prima descritto è stato interpretato come un fattore importante dello sviluppo piú tardivo
di un movimento omosessuale in Italia, rispetto ad altri paesi
europei nei quali i movimenti erano spesso sorti in primo luogo
193
per combattere la repressione e criminalizzazione dell’omosessualità. Si possono addurre tre ragioni che giustifichino la mancata diffusione di movimenti in Italia. In primo luogo il contesto sociale che favorisce l’incontro con l’«altro» negli Stati Uniti
manca totalmente in Italia: nel nostro paese l’immigrazione è
un fenomeno piuttosto recente, dunque raramente gruppi etnici diversi si ritrovavano a convivere. L’esistenza di modelli culturali di tipo universalistico che prevedono una concezione universale di uomo nel quale bisogna riconoscersi hanno di fatto
impedito lo sviluppo del riconoscimento delle diversità che, rese esplicite, sono piuttosto additate come tentativi di allontanamento dal modello. Infine la differenza sessuale non è mai stata
politicizzata e, all’interno delle riflessioni marxiste per esempio,
si attestò a rango di differenza di ordine sovrastrutturale, quindi di secondaria importanza perché inerente il privato.
Il movimento gay in Italia nasce all’inizio degli anni ’70 e si
sviluppa soprattutto nella seconda metà del decennio. Condivide molte delle caratteristiche degli altri movimenti sociali che
scuotono il paese in quegli anni: la proliferazione di una rete di
piccoli gruppi di militanti, l’orientamento vicino alla sinistra radicale. Nel corso del decennio è anch’esso interessato da processi di articolazione organizzativa e forme di avvicinamento alle istituzioni politiche, soprattutto locali. Dal 1978 cominciano
anche le manifestazioni italiane collegate a quelle internazionali
del gay pride. Seppure nei gruppi del movimento omosessuale
fossero presenti anche donne lesbiche, la mobilitazione sociale
delle lesbiche avviene piuttosto, all’interno del forte movimento femminista di quegli stessi anni.
Negli anni ’80, il generale clima di smobilitazione investe
anche i gruppi del movimento omosessuale. Al tempo stesso, vi
è un consolidamento organizzativo, con lo sviluppo, dalla metà
degli anni ’80, dell’Arcigay nazionale, a cui aderiscono gran
parte dei gruppi del movimento gay (l’Arcigay era già nata nel
1980, come parte dell’Arci, organizzazione cultural-ricreativa
vicina alla sinistra storica, in primo luogo al partito comunista).
La questione dell’Aids rappresenta un fattore di mobilitazione importante del movimento, che si scontra con orientamenti
fortemente moralisti del governo e della Chiesa cattolica e con
194
una sostanziale assenza di politiche di prevenzione nella prima
metà degli anni ’80. In questi anni, nell’Arcigay emerge una forte presenza femminile, a cui nel 1990 è garantita la parità di rappresentanza negli organi dirigenti. Qualche anno dopo, nel
1996, si arriverà però alla divisione tra Arcigay e Arcilesbica.
Nel corso degli anni ’90 aumenta la visibilità del movimento
gay e lesbico, cosí come aumentano le prese di posizioni esplicite
del Vaticano contro le relazioni omosessuali. Il riconoscimento
giuridico delle coppie omosessuali diventa un obiettivo simbolico centrale del movimento: una campagna del movimento porta
alla creazione, in alcuni comuni, di registri comunali delle coppie
conviventi, come forma di pressione per un intervento legislativo
a livello nazionale che manca però tuttora [Rossi Barilli, 1999].
Se già negli anni ’90 le manifestazioni legate al Gay Pride
sono divenute eventi di massa (a Roma nel 1994 sfilano diecimila persone), è soprattutto il World Gay Pride di Roma 2000
a rappresentare un momento fondamentale per il movimento
Glbt e nell’esperienza di molti gay e lesbiche. Si impone infatti
come evento per la rilevanza mediatica dello scontro tra il movimento e la Chiesa cattolica e per l’impatto di una tale manifestazione di massa sull’opinione pubblica.
2. Mutamenti della percezione dell’omosessualità in Italia
In Italia l’omosessualità è ancora fonte di pregiudizio. Secondo una ricerca, non molto recente, riferita a dati raccolti nel
1991, in Olanda meno del 10% non avrebbe accettato vicini di
casa omosessuali, in Francia il 25%, mentre in Italia sarebbe
stato il 40% [Inglehart, 1997].
In questa sezione del lavoro considereremo la percezione e la
rappresentazione dell’omosessualità cosí come analizzati da diversi rapporti ed indagini sul comportamento sessuale o sulla condizione giovanile. In particolare terremo conto dell’indagine Demoskopea svoltasi tra il 1976 e il 1977; dei due rapporti Ispes del
1989 e del 1991; dei rapporti Iard pubblicati tra il 1993 e il 2002.
Non ci si occuperà di altri rapporti – sebbene precedenti – in cui
l’omosessualità è trattata in maniera marginale (cfr. Caletti, 1976)
195
La ricerca svolta per la Demoskopea fu curata da Giampaolo
Fabris e Rowena Davis e si basò su un campione di 2000 individui
di età compresa tra i 18 e i 64 anni [Fabris, Davis 1978]. I risultati
della ricerca indicarono l’incidenza dell’omosessualità in Italia pari al 4,4% della popolazione maschile e femminile, avvicinandosi
alla stima dell’Oms per l’Italia nello stesso periodo (4,5%).
Tabella 1. Incidenza dei rapporti omosessuali
Ha avuto un rapporto
omosessuale:
Si
No
Non indica
Totale
Tot %
Maschio %
4,4
93,1
2,5
100
6,5
91,2
2,3
100
Femmina %
2,3
94,8
2,9
100
Fonte: Fabris e Davis 1978, 325.
La percentuale si riferiva agli individui che avevano avuto
rapporti omosessuali: il numero di gay e lesbiche si stimò intorno all’1-2%, mentre l’8% era la percentuale di chi avrebbe voluto avere un rapporto omosessuale.
Tabella 2. Desiderio di rapporti omosessuali
Vorrebbe avere un rapporto Tot %
omosessuale:
Si
No
Non indica
Totale
8
90
2
100
Maschio %
6
93
1
100
Femmina %
10
88
2
100
Fonte : Fabris e Davis 1978, 327.
La percezione dell’omosessualità presenta – secondo gli autori – il permanere di stereotipi e le descrizioni patologiche e devianti: «È nei confronti dell’omosessualità che pesano le piú drastiche interdizioni. L’omosessualità è perversione, degenerazione,
vizio, nel migliore dei casi malattia: sempre una pratica contro
natura. Il comportamento omosessuale è considerato deviante e
lo stigma di omosessuale comporta l’emarginazione, la discriminazione, la costante prevaricazione dei “normali” nei confronti di
chi “è diverso” […] la somatizzazione dell’“anormalità” è tale da
196
essere facilmente individuabile a livello fisico, psichico, dai tratti
della personalità, ma anche dal modo di comportarsi, di abbigliarsi, ecc. Se un uomo, sarà spesso attraente nell’aspetto ma poco vigoroso e per niente virile; effeminato nella persona, nei gesti,
nel parlare; incline a reazioni fortemente emotive, sensibile e, piú
in generale, dotato di una serie di caratteristiche dell’aspetto e
della personalità femminili. Se donna, all’opposto, sarà mascolina, forte, intraprendente, muscolosa, impegnata in attività professionali e via dicendo» [Fabris e Davis 1978, 311-315].
Secondo i dati, la maggioranza degli italiani considerava l’omosessualità come elemento stigmatizzabile. In particolare, il
37% degli italiani considerava l’omosessualità come una malattia, una disfunzione dovuta a malformazioni di tipo congenito;
il 28% del campione considerava l’omosessualità come manifestazione di un disturbo psicopatologico derivato da traumi infantili o da ambienti familiari e sociali insani; il 19% ne dava
un giudizio di natura morale, definendola una forma di degenerazione e di vizio. Solo il 15% consideravano l’omosessualità
come una delle possibili manifestazioni della sessualità umana.
Tabella 3. Opinioni sulle cause dell’omosessualità
L’omosessualità:
Tot. %
È dovuta a malformazioni
dell’organismo e a fattori genetici
e in quanto tale è una forma di malattia 37
È dovuta a gravi disturbi psicologici
28
Non è una malattia, ma una forma
di generazione e di vizio
19
È una delle tante manifestazioni
della sessualità
15
Rappresenta una forma di liberazione
e di arricchimento della sessualità
1
Totale
100
Maschio % Femmina %
38
26
37
30
18
19
17
13
1
100
1
100
Fonte: Fabris e Davis 1978, 321.
Coerentemente con la percezione del fenomeno, il 73% degli intervistati consideravano che fosse necessario che gli omosessuali si curassero per poter conseguire una sessualità etero197
sessuale. Soltanto il 16% degli intervistati pensava che l’individuo omosessuale avrebbe dovuto accettare e vivere liberamente la propria sessualità.
Tabella 4. Come si dovrebbe comportare l’omosessuale
L’omosessuale dovrebbe:
Curarsi per poter avere
una sessualità eterosessuale
Accettare liberamente la sua
omosessualità senza reprimerla
Non so
Totale
Tot. %
Maschio %
Femmina %
73
69
76
16
11
100
19
12
100
14
10
100
Fonte: Fabris e Davis 1978, 321.
Nell’indagine tuttavia si evidenziarono alcuni risultati confortanti: in primo luogo sulla maggioranza del campione si stagliava
un numero di persone piú aperte e con atteggiamenti meno discriminatori; i ricercatori contestarono e criticarono gran parte
degli stereotipi circolanti e giunsero a posizioni condivise ai nostri giorni: «Il principio manicheo di dividere in omo ed eterosessuali, in normali e devianti, in comportamenti secondo e contro natura, non ha alcun fondamento. Omosessualità ed eterosessualità non si contraddicono, non sono antitetiche l’un l’altra,
coesistono negli stessi soggetti, e il polimorfismo originario e
tutt’altro che confinato nella fase infantile» [ibidem, 319].
Alla ricerca Demoskopea seguirono due rapporti a cura dell’Ispes. La prima pubblicata nel 1989 si riferiva ad un’indagine
condotta tra l’ottobre 1988 e il gennaio 1999 su un campione di
circa 2000 casi. I risultati emersi mostrarono come la posizione
della società italiana nei confronti dell’omosessualità fosse cambiata: alla domanda volta a rilevare eventuali esperienze omosessuali, il 7,7% degli italiani rispose affermativamente, mentre il
13,5% ammise di aver desiderato almeno una volta di avere un
rapporto sessuale con una persona dello stesso sesso. Nel 1991
parte dei dati già pubblicati confluirono nel rapporto definitivo
sulla condizione omosessuale in Italia [Ispes [1991). Il secondo
studio si basava su un campione di 3000 omosessuali contattati
attraverso l’Arcigay e tendeva a considerare in profondità il vissuto personale e l’esperienza degli intervistati. Dall’ultima ricerca
198
emersero risultati interessanti. Gli intervistati dimostrarono «un
forte rifiuto sociale dell’omosessualità, della sua esistenza e della
sua ammissibilità, ma al tempo stesso una qualche disponibilità
esistenziale a livello individuale» (ibidem, 79). Alla domanda sulle
modalità di trattamento dell’omosessualità da parte della società
il 48,8% si posizionò su opinioni non discriminanti, mentre il
54,7% non pensava che l’omosessualità fosse un pericolo sociale.
Come pensa si debba comportare la società
italiana nei riguardi del problema dell’omosessualità?
Proibire comportamenti omosessuali in pubblico
e in genere salvaguardarsi dagli omosessuali
Mantenere atteggiamento di civile indifferenza
Intervenire per rieducare gli omosessuali
Creare spazi dove gli omosessuali possano vivere
per conto loro senza disturbare gli altri
Difendere i diritti degli omosessuali e garantire
loro dignità pari a quella degli altri cittadini italiani
VALORI
%
11,2
22,3
10,6
7,7
48,8
Fonte: Ispes 1991, 29.
Lei crede che il diffondersi dell’omosessualità
costituisca un pericolo sociale?
Se si, per quali ragioni?
È PERICOLOSO
Minaccia per gli adolescenti
Diffusione delle malattie
Allentamento dei freni morali
Perdita del senso della famiglia
Diffusione della droga
Diffusione della prostituzione
NON È PERICOLOSO
VALORI
%
45,3
11,4
27,8
12,3
17,5
3,7
9,4
54,7
Fonte: Ispes 1991, 35.
Il 65% del campione inoltre rispondeva ipotizzando una
posizione neutra o positiva nei confronti di un parente omosessuale (il 35,3% ne avrebbe preso semplicemente atto, il 23,0%
ne avrebbe facilitato la condizione, il 6,7% si sarebbe detto
soddisfatto per la sincerità del rapporto), mentre il 62,7% prospettò una reazione neutra o positiva nell’incontrare una persona omosessuale del proprio sesso.
199
Il fatto di scoprire che un parente stretto è omosessuale
quale tipo di reazione Le ha creato o Le creerebbe?
Senso di disgusto per l’immoralità del comportamento
Timore per le conseguenze sociali/familiari
Desiderio di aiutarlo a tornare eterosessuale
Nessuna, semplice presa d’atto
Aiutarlo a vivere serenamente la sua condizione
Soddisfazione per la sincerità del rapporto
VALORI
%
11,6
15,1
8,8
35,3
23,0
6,7
A suo avviso l’omosessualità dipende prevalentemente da:
Fonte: Ispes 1991, 14.
Incontrando una persona omosessuale del suo stesso
sesso si trova in condizioni di
Disagio, non sapendo come comportarsi
Timore di ricevere attenzioni omosessuali
Disgusto
Paura di essere contagiato da malattia
Ammirazione per il suo coraggio
Attrazione inconsapevole
Nessun sentimento particolare
Attrazione fisica consapevole
VALORI
%
20,6
6,3
8,1
1,2
11,9
4,6
46,6
0,6
Altri elementi interessanti emersero rispetto alla percezione
che i soggetti intervistati avevano rispetto all’omosessualità. Il
49% circa la connotò in maniera non discriminatoria, poco piú
del 31% espresse un’opinione negativa(il 10% usò il termine
«malati», il 7,2% «anormali», il 2,1% «effeminati» o «pervertiti»), il restante 20% dimostro ben scarso interesse rispetto al
problema.
Persone attratte dallo stesso tetto
Malati
Diversi
Anomali, imperfetti
Effeminati, pervertiti
Altro dispregiativo
Altro
Fonte: Ispes 1991, 11.
200
VALORI
48,9
10,5
8,7
7,2
2,1
2,9
20,6
Fattori ambientali
Rapporto non equilibrato con i genitori
Evoluzione psichica non corretta
Squilibrio negli ormoni sessuali
Condizione ereditaria
Vizio
Nessuna causa particolare
Altro
VALORI
%
7,9
12,3
16,1
25,3
1,7
8,2
30,1
4,4
Fonte: Ispes 1991, 12.
Fonte: Ispes 1991, 16.
Qual è a suo avviso la definizione piú corretta di omosessuale?
Rispetto all’eziologia dell’omosessualità si registrarono una
certa confusione e disinformazione. Il 30,1 del campione attribuí il comportamento omosessuale a scelte personali, il 25,3%
ad uno squilibrio negli ormoni sessuali, il 16,1% a problemi
psichici e il 20% circa a fattori ambientali o familiari. La percentuale di chi considerava l’omosessualità un vizio scese dal
19% rilevato nel 1978 all’8,2%.
%
All’immagine dei gay e delle lesbiche erano comunque ancora legati degli stereotipi. Il 42,3% degli intervistati connotò i
gay come uomini effeminati e le lesbiche come donne mascoline; il 20,4% affermò che essi fossero riconoscibili per atteggiamenti, abbigliamento; mentre il 19,3% reputò non ci fossero
segni di particolare evidenza.
Di solito qual è l’aspetto che caratterizza di piú
una persona omosessuale?
L’atteggiamento effeminato per gli uomini
o troppo mascolino per le donne (voce, gesti)
Il modo di vestirsene in genere l’atteggiamento esteriore
Il carattere: timido, irascibile per gli uomini
o troppo deciso per le donne
Il fatto che pensi sempre o faccia continue allusioni
al sesso nei suoi discorsi
L’ambiente in cui vive (la casa, le amicizie…)
I suoi hobby e interessi (letture, musica,…)
Niente in particolare
Altro
Non sa
VALORI
%
42,3
20,4
5,7
3,4
5,7
1,8
19,3
3,1
1,0
Fonte: Ispes 1991.
201
Il rapporto del 1991 conteneva anche items rivolti ai soggetti che si autoidentificavano come gay e lesbiche, rispetto alla
percezione di loro stessi in quanto omosessuali e degli atteggiamenti degli italiani nei loro confronti.
Il 43% dichiarò di «avere paura rispetto alle conseguenze»,
il 18,1% si sentiva colpevole, l’11,3% immorale, il 5% disgustoso; al contrario il 26% si dichiarava tranquillo e addirittura
il 13,7% felice.
Sensazioni provate dopo aver scoperto di essere omosessuale
Colpevolezza
Immoralità
Disgusto
Paura delle conseguenze
Felicità
Tranquillità
Orgoglio
Altro
Non indicato
VALORI
%
18,1
11,3
5,0
43,0
13,7
26,0
7,0
10,8
4,8
Fonte: Ispes 1991, 46
Questi dati possono essere spiegati attraverso i dati che si registrarono rispetto alla percezione degli atteggiamenti degli italiani nei confronti delle persone omosessuali. Il 51,2% definí
l’atteggiamento prevalentemente discriminante o razzista; il 18%
lo dichiarava repressivo, l’8,7% indifferente mentre il 19,4%
espresse un giudizio positivo.
Per dare un quadro dell’evoluzione della percezione dell’omosessualità in Italia si includono nella nostra discussione i
rapporti di alcune indagini Iard pubblicati tra 1993 e il 2002
[Cavalli e De Lillo 1993; Buzzi, Cavalli e De Lillo 1997 e 2002;
Buzzi 1998].
L’omosessualità è stata inserita – nelle varie pubblicazioni –
nella sezione dedicata alla percezione delle norme sociali, alla
trasgressione e alla devianza.
Nella rilevazione del 1996, l’89,9% del campione (nel 1992
fu il 91,5% nel 1983 l’88,2%) considerò la società critica ed ostile nei confronti dell’omosessualità, mentre il 49,5 degli intervistati giudicò la stessa ammissibile sulla base del proprio sistema di
valori (nel 1992 fu il 40,8% nel 1983 il 36,7%). I giovani risultarono quindi ritenersi piú tolleranti di quanto non lo fosse la società. I ragazzi intervistati nel 1997 si dichiararono poco e per
nulla d’accordo a considerare l’omosessualità come patologia,
mentre l’82% non considerava gay e lesbiche come pervertiti.
Il quinto rapporto Iard presentava dati indicanti un netto
decremento della condanna sociale dei comportamenti omosessuali, anche i giovani indisponibili a rapporti omosessuali (il
40%) è comunque tollerante verso tali comportamenti [Buzzi,
Cavalli e De Lillo 2002].
Variazione nel tempo della percezione delle norme sociali. Percentuale di
coloro che considerano criticati dalla società i diversi comportamenti per anno di rilevazione (15-24 anni)
Avere esperienze omosessuali
Atteggiamento prevalente nella società italiana
nei confronti dell’omosessualità
Discriminante, razzista
Repressivo
Indifferente
Permissivo
Di accettazione
Di tolleranza
Non indicato
Fonte: Ispes 1991, 95.
202
VALORI
51,2
17,9
8,7
2,2
1,8
15,4
2,9
%
1983
1987
1992
1996
2000
88,2
91,6
91,5
89,9
82,7
Fonte: Buzzi, Cavalli e De Lillo 2002, 302 (parzialmente riportata da tab. 3.1).
3. Costruzione sociale dell’identità
«A volte ci si chiede se tutto quello a cui assistiamo nello spazio di
un anno in fatto di pubblica disamina e di valutazione penale delle cose del sesso non sia solo uno scherzo, escogitato da liberi cervelli che vorrebbero solo agitare di fronte ai loro contemporanei
203
lo spauracchio dell’ipocrisia. Un simile abisso di moralismo può
spalancarsi davanti ai nostri occhi solo in una finzione, non nella
realtà. Possibile che l’umanità – il cui cammino, dicono, procede
di pari passo con l’affrancamento dai soffocatori dei diritti individuali – sacrifichi con la sua volontà finalmente libera il proprio diritto all’autodeterminazione sessuale? No, la notizia doveva essere
falsa: Oscar Wilde è vivo, non l’hanno vergognosamente assassinato per un ghiribizzo dei suoi nervi. E Maksim Gorkij non ha dovuto subire ingiurie perché, uscendo dal carcere, è corso al capezzale della sua amante. Non è vero che gli esseri umani fuggono l’origine del loro divenire e la fonte della loro felicità come si fugge
un luogo appestato, che insozzano di giorno ciò che bramano di
notte, che l’uomo inganna se stesso e defrauda la donna della sua
pienezza vitale, e infligge la morte del disprezzo sociale alle Grazie
che allietano questa nostra povera esistenza» [K. Kraus, Morale e
criminalità].
Nella trattazione che segue si rifletterà sul concetto di identità sociale6, attraverso la lettura di classici della psicologia sociale e della sociologia, secondo una visione processuale e costruttivista della realtà sociale. Ci si soffermerà sull’importanza
dell’attribuzione di significato nell’interazione sociale e sulla
sua negoziazione, considerando l’identità sociale come prodotto di tali interazioni attributive di senso e rappresentata simbolicamente nello svolgersi di queste ultime.
La società è retta ed agita dalle percezioni che ciascuno degli attori ha di sé stesso rispetto al giudizio degli altri e del rapporto con gli altri: possiamo affermare pertanto che al fine della costruzione identitaria è imprescindibile il riconoscimento
intersoggettivo.
Il riconoscimento intersoggettivo corrisponde peraltro alla
necessità di comunicazione di cui ogni individuo è testimone
anche attraverso la forma del dialogo immaginario, forma peculiare di socializzazione della mente (socialization of mind),
che permettono all’individuo di non sentirsi mai solo, bensí in
perpetua conversazione con la mente, considerando quest’ultima come prodotto sociale, le cui dinamiche interne sono
profondamente influenzate da quelle sociali, pervenendo ad affermare che mente e società siano aspetti della medesima unità
204
[Cooley, 1992: 81]. L’immaginazione creerebbe cosí la base per
l’interazione nel mondo reale in termini di reazione, impressione, empatia [Cooley, 1992: 136 sgg.], aspettative di relazionalità: anzi il processo immaginativo diventa il filtro per l’azione
nel mondo sociale, diventa processo validativo per l’esistenza
dello stesso7.
L’immaginazione della reazione altrui è base della imaginary
sociability, e delle forme di interazione sociale8.
La gente nelle relazioni della propria quotidianità immagina
se stessa attraverso gli occhi degli altri e forma dei giudizi attraverso queste osservazioni immaginarie. Questa è la fase in cui il
sé viene acquisito e diviene oggetto sociale. Cooley individua
tre elementi principali: 1) l’immaginazione del modo in cui si
appare agli occhi degli altri; 2) l’immaginazione del giudizio
degli altri al nostro apparire; 3) conseguente sensazione (selffeeling) di orgoglio o mortificazione [Cooley, 1992: 183 sgg.].
Attraverso queste fasi il sé diventa oggetto di negoziabilità e
sanzionabilità sociale, esprimendo la sua connotante componente sociale: «Il locus del sé non si trova quindi unicamente
nella persona ma nello spazio sociale che essa occupa insieme
ad altri» [Hewitt, 1999: 96].
Il sé si forma all’interno e per mezzo di processi sociali, che
consistono nello specifico nello scambio di simboli significanti
(significant symbols) attraverso la funzione primaria dell’uomo
che è la comunicazione, sia con la gestualità che con l’uso di un
sistema di segni oggettivabili e accessibili quale il linguaggio
[Mead, 1977: 33 sgg.].
Tali processi comunicativi sono fondamentali per l’organizzazione sociale e per la diffusione degli atteggiamenti comuni
all’interno del gruppo, che si traducono in un esercizio di assunzione di ruoli (role taking) e di attitudini degli altri, altri che
si astraggono a tal punto divenendo «Altro generalizzato», concetto che rappresenta «tutte le risposte organizzate di tutti i
membri del gruppo. È l’“Altro generalizzato” che guida la condotta generata dai principi […]» [Mead, 1977: 177].
Attraverso l’assunzione di ruolo e la comunicazione di simboli significativi interiorizziamo le regole sociali di comporta205
mento, facciamo nostra la coscienza collettiva, prevedendone la
reazione rispetto ad ogni nostra azione: «Il controllo dell’azione dell’individuo in un processo cooperativo può aver luogo
nella condotta dell’individuo stesso, se egli è in grado di assumere il ruolo dell’altro. […] E cosí si verifica che il controllo
sociale […] si esercita intimamente ed intensivamente sul comportamento individuale o condotta, integrando l’individuo e le
sue azioni con il processo sociale organizzato di esperienza e
comportamento nel quale esso è implicato» [Mead, 1977: 258].
Il sé è capacità e possibilità riflessiva, diventa progetto dal
momento che ogni individuo «può essere l’oggetto delle proprie azioni. […] può agire verso se stesso come potrebbe agire
verso gli altri» [Blumer, 1983: 64].
Il sé diviene frutto di costruzioni e programmi di azione basati su ciò che è piú significativo per l’individuo: l’attribuzione
di senso è attività autoindicativa e riflessiva, è «un processo di
comunicazione dinamico in cui l’individuo nota le cose, le valuta, dà loro un significato, e decide la propria azione sulla base
di tale significato» [Blumer, 1983: 66].
Tale processo di autoindicazione significativa ha sempre luogo in un contesto sociale delineato e significato dalle connessione che le azioni individuali tessono e dalla rete di senso che
le interazioni umane tendono: ciò significa che ogni individuo
adeguerà la propria azione all’interpretazione delle azioni altrui, assumendo il ruolo degli altri, «[…] impadronendosi del
significato dei loro atti» [Blumer, ibidem]. L’Altro generalizzato
avrà il compito di rappresentare per l’individuo e nell’individuo la società: nella mancanza degli altri attori, l’individuo potrà pur sempre organizzare il proprio comportamento in accordo con le attitudini e le regole socialmente accettate e diffuse:
nella concezione meadiana l’altro generalizzato è fortemente
connesso al controllo sociale9.
Gli individui sono coinvolti in un incessante compito di costruzione e ricostruzione di ruoli rispetto al verificarsi e alla definizione di una particolare definizione: essi sono impegnati
nella costruzione della loro azione e l’azione è l’unità elementare della vita sociale, l’unità principale della negoziazione inte206
rattiva e l’unità necessaria per l’assunzione del ruolo, lo scambio di ruoli.
Nella proiezione di sé nei possibili ruoli si immaginano le
reazioni che gli altri potrebbero avere: la scelta cadrà sull’azione non sanzionata dalla reazione altrui.
«La società non è una struttura, ma un processo. Le definizioni delle situazioni emergono da questa continua negoziazione di prospettive. La realtà è una costruzione sociale. […] gli
individui negoziano le situazioni sociali» [Collins, 1997: 149].
Le principali attività umane sono dunque quelle di costruzione, di attribuzione e di negoziazione di senso: la comunicazione diventa allora vettore primario del senso, non solo perché
lo fluidifica attraverso il gruppo, ma perché come agenzia riflessiva lo rinvia all’individuo che ne diviene mittente e ricevente
insieme10 [Mead, 1977: 203 sgg.]: «l’essere umano può essere
l’oggetto delle proprie azioni» [Blumer, 1983: 64].
In tal senso i simboli veicolati all’interno del gruppo, diverranno parametro per una riorganizzazione costante e perenne
dell’identità intorno a quei valori che fondano la sua componente sociale.
Tale ri-costituzione identitaria è sempre a carattere cooperativo e relazionale; l’identità può cosí essere considerata come
espressione dinamica di un «io molteplice», non può essere ricondotta a riferimenti stabili o permanenti, bensí come esito
dei processi d’interazione sociale [Melucci, 1991].
Concetti chiave della prospettiva interazionista sono dunque:
interpretazione/definizione, significato/senso, reazione/negoziazione: «[…] gli esseri umani interpretano o «definiscono»le
azioni l’uno dell’altro, piuttosto che semplicemente reagirvi. La
loro «risposta» non si riferisce direttamente alle azioni reciproche, ma invece è basata sul significato che essi attribuiscono a
tali azioni. Cosí l’interazione umana è mediata dall’uso di simboli, dall’interpretazione, o dall’accertamento del significato
delle azioni reciproche. Questa mediazione significa che fra stimolo e risposta si inserisce un processo interpretativo che è appunto peculiare al comportamento umano» [Blumer, 1983: 64].
La posizione di Blumer ribadisce che la società deve essere
considerata come composta da unità agenti, le cui condizioni di
207
esistenza e le cui azioni vengono ad esistere rispetto ad una situazione e ed alla sua definizione e interpretazione che gli attori forniscono.
Attraverso questi copioni si definisce la realtà [Berger e
Luckmann, 1969] e si interviene su di essa cercando di adattarla alle condizioni di vita del gruppo: tale processo di adattamento è sempre processo cooperativo, relazionale, e dunque azione
collettiva [Blumer, 1983: 69] di adattamento reciproco di senso
e di definizione: «[…] qualunque mutamento sociale, in quanto
comporta un cambiamento nell’azione umana, è necessariamente mediato dall’interpretazione che ne danno le persone coinvolte: il mutamento si presenta sotto forma di nuove situazioni
in cui gli individui devono costruire nuove forme di azione.
Inoltre, […] le interpretazioni della nuova situazione non sono
determinate da condizioni che preesistevano alla situazione, ma
dipendono da quello che viene preso in considerazione e valutato nella situazione reale in cui si forma il comportamento. Si
possono avere facilmente variazione d’interpretazione quando,
in una data situazione, unità agenti diverse isolano oggetti diversi, o danno un peso diverso agli oggetti che notano, o li ordinano secondo schemi diversi. Nel formulare proposizioni sul
mutamento sociale sarebbe saggio riconoscere che ogni direzione di cambiamento è mediata da unità agenti che interpretano
la situazione in cui si trovano» [Blumer, 1983: 73].
Per sintetizzare la prospettiva simbolico-interazionista Sandro Segre [Segre, 2001: 5 sgg.] elenca i principali assunti di tale
orientamento secondo i seguenti punti: 1) gli esseri umani sono
caratterizzati da peculiari capacità simboliche, che – per la dimensione interpretativa che esse sottendono, – li distinguono
dagli animali; 2) la qualità di essere umano si acquista attraverso le capacità simboliche e le interazioni sociali; 3) gli individui
sono coinvolti attivamente e consapevolmente nella ricostruzione di sé e nelle interazioni con gli altri e il mondo; 4) le interazioni danno luogo a definizioni della situazione cui gli attori attribuiscono senso e contribuiscono a creare; 5) la società esiste
soltanto alla luce di queste interazione e attribuzioni di senso;
6) l’azione sociale è costruita attraverso processi di interpreta208
zione e non è prodotto di fattori che – alla ricerca di equilibrio
o nel definire funzioni – agiscono ineluttabilmente sugli individui [Blumer 1983: 68 sgg.].
4. Identità e riconoscimento intersoggettivo
Per Charles Taylor la nostra identità è qualcosa di piú
profondo di piú multiforme di qualsiasi nostra rappresentazione di essa.
«Sapere chi sono vuol dire in un certo senso capire dove sono. La mia identità è definita dagli impegni e dalle identificazioni che costituiscono il quadro o l’orizzonte entro il quale
posso cercare di stabilire, caso per caso, che cosa è buono o apprezzabile, che cosa devo fare, che cosa devo avversare o sottoscrivere. In altre parole, è l’orizzonte entro il quale mi è possibile assumere una posizione» [Taylor, 1993: 43]. Anche da questo punto di vista potrà affermare che «la definizione completa
dell’identità di una persona […] di solito comprende non solo
la sua posizione sulle questioni morali o spirituali, ma anche un
riferimento a una comunità» [Taylor, 1993: 54]. Per autodefinirmi devo cercare di rispondere alla domanda «Chi sono io?».
«E questa domanda – scrive Taylor – trova il proprio senso
originario nell’interscambio dei parlanti. Io definisco la mia
identità indicando la posizione da cui parlo: nel mio albero genealogico, nello spazio sociale, nella geografia degli status e
delle funzioni sociali, nei piú intimi rapporti con le persone che
amo, nonché – e si tratta di una componente decisiva – nella
sfera dell’orientamento morale e spirituale all’interno della
quale vivo i rapporti piú importanti e incisivi» [Taylor, 1993:
53]. Non possiamo diventare persone senza l’iniziazione a un
linguaggio:
«A insegnarmi il linguaggio del discernimento morale e spirituale è innanzitutto l’inserimento nella conversazione in corso
tra coloro che si occupano della mia educazione. I significati
che le parole-chiave hanno inizialmente per me sono quelli che
hanno per noi, ossia, insieme, per me e per i miei interlocutori.
209
Qui è decisiva una caratteristica particolare della conversazione: quando parliamo di una data cosa, questa diventa oggetto
insieme per me e per te, e non nel senso che un mio oggetto casualmente coincide con uno dei tuoi: le cose non possono ridursi a questo nemmeno se precisiamo che io so trattarsi di un
oggetto anche per te e tu sai trattarsi di un oggetto anche per
me. Quell’oggetto ci è comune in un senso forte che ho cercato
di descrivere altrove con la nozione di “spazio comune” o
“pubblico”. I vari usi del linguaggio danno vita a questi spazi
comuni, li istituzionalizzano, li mettono in risalto o li valorizzano…» [Taylor, 1993: 53].
L’uomo impara cosa siano collera, amore, ansia, desiderio di
integrità, solo attraverso la sperimentazione con gli altri nello
spazio del noi.
«È in questo senso che un essere solo non può essere un io.
Se sono un io è soltanto in rapporto con certi interlocutori: in
un senso, in rapporto con quei partner di conversazione che
condizionano il raggiungimento, da parte mia, della mia autodefinizione; in un altro senso, in rapporto con coloro la cui
presenza è ora cruciale perché io continui a padroneggiare i
linguaggi dell’autocomprensione – e naturalmente si tratta di
due classi che possono benissimo intersecarsi. Un io esiste solo
all’interno di quelle che io chiamo “reti di interlocuzione”»
[Taylor, 1993: 54].
«L’alterità, è vero, è un aspetto importante della pluralità, la
ragione per cui tutte le nostre definizioni sono distinzioni, per
cui non riusciamo a dire che ogni cosa è senza distinguerla da
ogni altra. L’alterità nella sua forma piú astratta è reperibile solo nella pura moltiplicazione degli oggetti inorganici, mentre
ogni vita organica mostra già variazioni e distinzioni, anche tra
gli esemplari di una stessa specie. Ma solo l’uomo può esprimere questa distinzione ed esprimere se stesso, e solo lui può comunicare se stesso e non solamente qualcosa – sete o fame, affetto, ostilità o timore. Nell’uomo l’alterità, che egli condivide
con tutte le altre cose e la distinzione che condivide con gli esseri viventi, diventano unicità, e la pluralità di esseri unici. Discorso e azione rivelano questa unicità nella distinzione. Mediante essi, gli uomini si distinguono anziché essere meramente
210
distinti, discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in
quanto uomini» [Arendt, 1989: 128].
Bisogna tenere conto, d’altra parte, del fatto che i soggetti
che danno vita ai processi non sono omogenei ma plurimi:
«La pluralizzazione dei soggetti coincide con la pluralizzazione del senso e con la moltiplicazione delle appartenenze nelle società complesse» [Melucci, 1996: 55].
Friedman si chiede cosa debba intendersi per «identità»,
che cosa significa identificarsi, ad esempio con la qualifica di
membro di un gruppo.
Agendo e parlando gli uomini mostrano se stessi, «rivelano
attivamente l’unicità della loro identità personale» [Arendt,
1989: 130], identità è per Friedman «un sentimento di sé»
[Friedman, 2002: 26] basato sulla differenza e la distinzione.
Nella società contemporanea si diffondono in ciascuno di noi
«segni di identità artificiali»: patenti di guida, passaporti codici
segreti che ci permettono di accedere a macchine bancomat o
ad altri tipi di servizi. La grande maggioranza della popolazione
statunitense ha un numero di previdenza sociale e in molti paesi
hanno una carta di identità, un permesso di soggiorno, ecc.
Ma i processi di identificazione possono verificarsi anche attraverso modalità che vanno oltre il sé e che piuttosto lo legano
ad altre entità o gruppi. Per molti «identità» è proprio quel
qualcosa che ci lega ad un gruppo.
Una identità, come ha affermato Charles Taylor, è definita
da «vincoli ed identificazioni»; questi «forniscono il quadro o
l’orizzonte all’interno del quale io posso cercare di determinare
di volta in volta cosa è bene, o meritorio, o cosa deve essere fatto o contrastare». L’identità, dunque, non è soltanto un sentimento di chi siamo, una definizione; è una «lente attraverso la
quale guardiamo il mondo» [Friedman, 2002: 26-27]. Le modalità di costituzione dell’identità e della autorità moderne e
contemporanee sono legate profondamente al tempo, allo spazio, e alla cultura. Nelle società occidentali tutti siamo membri
di famiglie, nelle culture non occidentali questi legami tendono
ad essere piú forti. Anche il genere condiziona profondamente
211
la nostra identità: la nostra identità è contrassegnata dall’essere
uomo o donna. La nostra identità è plasmata dalla razza, dalla
religione e oggi anche da fattori legati alle diversità sessuali.
Forse non esiste un prius identitario in quanto le identità si
sovrappongono in rapporto alla cultura, in luoghi e spazi differenti. Per molti nessun ruolo è primario, per altri, invece, un’identità si impone sulle altre. Ciò vale soprattutto per la nostra
società che Giddens ritiene errato definire «postmoderna».
«Anziché andare incontro ad un’era postmoderna, stiamo
entrando in un’era in cui le conseguenze della modernità si fanno sempre piú radicali e universali» [Giddens, 1994: 16].
In determinati contesti la stessa flessibilità può diventare sinonimo di «sradicamento» e di ciò che Giddens definisce «insicurezza ontologica» intendendo «l’atteggiamento della maggior
parte delle persone, che confidano nella continuità della propria
identità e nella costanza dell’ambiente sociale e materiale in cui
agiscono. Un certo senso di affidabilità delle persone e delle cose, cosí importante per la nozione di fiducia, è fondamentale per
la sensazione di sicurezza ontologica; di qui la stretta correlazione psicologica tra i due concetti» [Giddens, 1994: 96].
La sicurezza ontologica ha a che fare con «l’essere» o, per
dirla in termini fenomenologici con «l’essere nel mondo» [Giddens, 1994: ibid.]. C’è una correlazione necessaria tra sicurezza
ontologica e fiducia come aspetti individuali e sociali che riguardano il fenomeno societario. Il prius sembra consistere nella stabilizzazione della fiducia in se stessi, ma la fiducia in se stessi richiede un processo di sviluppo in cui si è appreso ad avere fiducia negli altri. Proprio questo processo riflessivo di relazioni iome-voi è determinante per la costituzione della società.
Come ha fatto notare recentemente in The corrosion of character, Richard Sennett [Sennett, 1999] smitizzandone la sostanza, la categoria di «flessibilità», a differenza di tante considerazioni acritiche o omologate, genera ansietà, incertezza, a
nessuno è chiaro quali rischi valga la pena correre e quali percorsi sono da seguire. L’effetto piú negativo della flessibilità è
che genera piú confusione è il suo impatto sul carattere dei singoli individui.
212
«Il “carattere” indica soprattutto i tratti permanenti della
nostra esperienza emotiva, e si esprime attraverso la fedeltà e
l’impegno reciproco, o nel tentativo di raggiungere obiettivi a
lungo termine, o nella pratica di ritardare la soddisfazione in
vista di uno scopo futuro. Insomma, tra la moltitudine dei sentimenti in cui ci troviamo costantemente immersi, siamo sempre impegnati nel tentativo di salvarne e rafforzarne qualcuno.
Sono questi sentimenti confermati che plasmeranno il nostro
carattere, definendo i tratti personali cui attribuiamo valore di
fronte a noi stessi e in base ai quali ci sforziamo di essere valutati da parte degli altri» [Sennett, 1999: 10].
La riproduzione della vita sociale ha luogo dunque attraverso un processo di reciproco riconoscimento intersoggettivo tra
gli individui, «[…] poiché i soggetti possono giungere ad una
relazione pratica con sé solo se imparano a concepirsi dalla
prospettiva normativa dei loro partner nell’interazione, come i
loro interlocutori sociali» [Honneth, 2002: 114]. Le risposte
scaturite dalle varie interazioni sociali divengono le risorse materiali e simboli alla base dei processi di costruzione identitaria.
Qui è da attribuire particolare attenzione alla modificabilità
e la variabilità delle componenti identitarie in relazione al riconoscimento operato dagli altri: l’azione umana è ampiamente
controllata dall’esigenza di avere una reputazione e di essere riconosciuti.
Tra le principali preoccupazioni della gente vi è quella di
avere e mantenere una reputazione, questa esigenza è sostenuta
dal fatto che le persone si conoscono, hanno aspettative reciproche, si rappresentano le caratteristiche dei propri interlocutori. Farsi e gestire una reputazione è compito tanto complesso
quanto fondamentale. Dobbiamo sapere non solo quali sono i
comportamenti appropriati, ma anche curare la nostra immagine offrendo interpretazioni accettabili del nostro comportamento nei casi in cui possa venire interpretata in modi che potrebbero danneggiare la reputazione che stiamo costruendo.
Bisogna creare, costruire e mantenere segni credibili, indicazioni distintive di affidabilità per il gruppo di cui facciamo parte, al fine di non apparire mai inappropriati, al fine di diffonde213
re le informazioni pertinenti rispetto alla nostra identità. «Gran
parte delle dinamiche di controllo sociale possono essere spiegate in riferimento alle opportunità che si hanno di gestire la
reputazione sociale; tali opportunità dipendono, a loro volta,
dalla posizione che occupano nelle reti sociali e dalle abilità degli individui di trarre vantaggio da esse» [Emler e Reicher,
2000: 336].
L’utilizzo di strategie identitarie e di controllo di informazioni è diffusa anche alla gestione delle indicazioni relative al
proprio genere e al proprio orientamento sessuale. Si pensi alla
necessaria validazione sociale delle proprie performance di genere [Kimmel, 2002: 182-183] e all’adeguatezza e coerenza delle rappresentazioni legate al proprio genere di appartenenza
[Goffman, 1976; Ruggerone, 1992].
I soggetti omosessuali non dispongono, come normalmente
avviene per gli individui di orientamento eterosessuale, di conferme, validazioni e approvazioni da parte della collettività sociale nelle interazioni quotidiane. Basti pensare a quanto accade nelle scuole italiane, agli adolescenti omosessuali o a quanti/e vivano in un clima di emarginazione, derisione e/o di violenza, nella mancanza di modelli positivi che esprimano la valorizzazione delle differenze [Plummer, 1989].
Ritornando alla realtà omosessuale adolescenziale, si potrebbero considerare brevemente la famiglia e la scuola. Le famiglie non sono preparate culturalmente e psicologicamente al
fatto che la propria prole possa essere omosessuale; da ciò consegue che la persona omosessuale viene educata secondo valori
e prospettive condizionate, appunto, dall’aspettativa eterosessuale e quindi non coerenti con la sua soggettività
A scuola il problema della sessualità è ancora quasi del tutto tabú: programmi e testi scolastici propongono un solo modello normativo (chiaramente eterosessuale) e non vengono
neanche ipotizzate altre possibilità di orientamento sessuale.
Spesso e tristemente, a scuola, gli/le alunni/e omosessuali sono
quotidianamente esposti a manifestazioni di omofobia, commenti verbali dispregiativi verso persone dichiaratamente
omosessuali o ritenute tali, sanzioni verso certi comportamenti
214
considerati socialmente inappropriati, soprusi fisici e, talora,
anche sessuali.
«Gay e lesbiche crescono in un contesto che ha insegnato
loro che rappresentano l’offesa peggiore, l’insulto piú pronunciato ma anche il piú temibile» [Pietrantoni, 1999: 19]. È quindi comprensibile che negli alunni omosessuali avvenga una
progressiva perdita della motivazione scolastica, dell’autostima
e una maggiore preoccupazione per la propria sicurezza.
«[…] per poter arrivare a un rapporto non frammentato
con se stessi i soggetti umani hanno sempre bisogno, oltre che
dell’investimento affettivo e del riconoscimento giuridico, anche di una stima sociale che consente loro di riferirsi positivamente alle proprie concrete qualità e capacità» [Honneth,
2002: 147].
5. Reputazione, attese collettive e normazione
della condotta sessuale
Esistono pertanto una serie di norme e di sanzioni che trovano nella collettività l’istituzione che le pone in essere, che si
manifestano attraverso assetti relazionali, attese, aspettative sociali circa il genere e i comportamenti sessuali corrispondenti. I
risultati dei rapporti demoscopici dimostrerebbero in particolare una diffusa intolleranza nei confronti dell’omosessualità e
una incapacità di guardare fluidamente alle diverse configurazioni ed espressioni assunte dalla sessualità umana.
Il rapporto tra i sessi diventa pertanto un principio ordinativo fondamentale all’interno dei processi sociali configurandosi
piú precisamente come struttura sociale di genere11 [Scott,
1986], attraverso la quale vengono apprese norme e valori relativi al «complesso processo di costruzione sociale e simbolica
dell’appartenenza e dei rapporti di sesso, che costituisce una
vera e propria struttura sociale» [Saraceno, 1996: 61].
Gli elementi valoriali e normativi espressi si connotano come schemi di interpretazione delle azioni proprie e altrui, schemi previsti dalla struttura sociale, consisterebbero in strumenti
215
per rendere stabili, prevedibili, dotate di senso condiviso le attività relazionali; corrispondono a vincoli e risorse per l’azione
[Giddens, 1990].
Esse strutturano le relazioni: descrivono e rappresentano gli
assetti relazionali: gli status, i ruoli, le posizioni nel contesto sociale relativi al genere; rappresentano le coordinate significative
per l’azione sociale; producono forme di legame socioaffettivo.
Il genere pertanto non è da considerarsi come entità fissata
a priori ma si crea, si sostanzia nel corso delle interazioni sociali, si presentifica quale interazione sociale. Le strutture sociali
di genere e gli agenti di socializzazioni pongono in essere e forniscono alla compagine sociale elementi valoriali, mappe cognitive, veri e propri repertori culturali e comunicativi con i quali i
soggetti si confrontano nella necessaria acquisizione del riconoscimento, cognitivo ed emotivo, e nei quali si declinano i gradi
e le qualità della reputazione collettiva e sociale [Emler e Reicher, 2000].
Tali aspettative e giudizi, formulati da una precisa comunità,
sono considerati strumenti indispensabili per comportarsi correttamente e congruentemente, per apprendere i modi di manifestare il proprio desiderio, per imparare anche quali tipi di desideri siano auspicabili da desiderare, per potere interpretare le
proprie emozioni in termini sessuali coerenti con il proprio genere. Si tratta di acquisire quelle abilità di codifica e decodifica
dei copioni necessari ad auto-rappresentarsi o a fingersi (passing) attore competente all’interno delle rappresentazioni sessuali della società.
Le indicazioni «disponibili» fornite dal contesto sociale saranno le etichette utili alla definizione della propria identità,
degli aggiustamenti da apportare, degli escamotages utili ad un
management strategico e al controllo di particolari espressioni
identitarie sociali [Goffman, 1961, 1963, 1963a, 1967, 1969;
Gambetta e Bacharach, 2000, 2001; Gambetta, 2004].
Gli attori sociali possono cercare di confermare o modificare i giudizi sociali e pertanto la propria reputazione attraverso
le interazioni quotidiane, il comportamento, i discorsi, gli stili
216
di vita, i consumi culturali, i racconti e la presentazione di sé
[Goffman, 1959].
Al fine di mantenere una reputazione bisogna darsi da fare
nel mondo sociale per consolidarla e mantenerla simbolicamente e materialmente, bisogna «farsi notare» utilizzando tutto
il repertorio di pratiche e rituali di appartenenza ed esibizione
di genere [Goffman, 1976].
Crearsi una reputazione e corrispondere alle aspettative sociali relativamente ai comportamenti sessuali diventa compito
fondamentale per creare senso di appartenenza ed identità: bisogna non solo essere consapevoli dei comportamenti piú appropriati a secondo delle situazioni (e talora tali frames influenzano profondamente il corso delle azioni, si veda Goffman, 1963 e 1975); bisogna altresí essere in grado di curare la
nostra immagine offrendo interpretazioni accettabili e condivisibili del nostro comportamento nei casi in cui possa venire interpretata in modi che potrebbero danneggiare la reputazione
che stiamo costruendo; è necessario inoltre sapere come usare
i nostri contatti sociali, le nostre relazioni in modo che ci permettano di diffondere informazioni che migliorino o proteggano la nostra immagine sociale; ed infine è utile essere in grado
di impiegare strategie di spiegazione e di argomentazione che
modifichino l’impatto di nostre azioni che potrebbero apparire inappropriate.
Questo ragionamento ci porta a definire la vita sociale quotidiana caratterizzata inevitabilmente da scambi significativi tra
attori che hanno una specifica biografia, fortemente definita,
negoziata e rinegoziata all’interno delle interazioni sociali.
Tali scambi significativi sono coordinati collettivamente dall’esigenza di avere una reputazione: tale necessità è sostenuta
dal fatto che la gente si conosce, ha aspettative reciproche, si
rappresenta le caratteristiche dei propri interlocutori.
La reputazione infatti implica che ogni attore sappia anche
che gli altri esprimono giudizi su di lui (o su di lei) e questo fa
sí che l’attore si sforzi di confermare o di modificare l’immagine di sé che ha fornito agli altri e che questi elaborano.
217
Il principale medium attraverso cui questo processo sociale
si compie è la conversazione che si svolge fra i componenti dei
gruppi piú diversi: in tali conversazioni si realizzano scambi
continui circa le conoscenze e i rapporti sociali che ciascuno
costruisce e sperimenta. Si creano immagini e rappresentazioni
delle categorie di appartenenza, si definiscono per differenza e
scarto le categorie che si discostano, o sono escluse, dalle sfere
dell’appartenenza.
I giovani omosessuali, pur avendo oggi un diversificato ventaglio di modelli piú che in passato, esperiscono varie forme di
discriminazioni, con gravi ricadute in termini psico-sociali12.
La negazione di risposte istituzionali, il misconoscimento e
le mistificazioni relative alla omosessualità incidono profondamente sulla piena espressione e realizzazione.
Con ciò non si vuole affermare che i giovani omosessuali vivano disfunzionalmente in quanto omosessuali, bensí che le risorse identitarie e simboliche a loro disposizione, a pari confronto con i loro coetanei eterosessuali, appaiono come beni
scarsi e falsati, nella migliore delle ipotesi, piú spesso assenti.
Che si tratti di curricula scolastici che ignorano l’omosessualità, di genitori che non si aspettano figli e figlie omosessuali; di operatori sociali, psicologi, medici carenti sotto il profilo
professionale; di mass-media che deformano attraverso stereotipi scontati l’immagine dell’omosessuale13; o piú semplicemente del gruppo dei pari che emargina o bullizza.
L’assenza di interventi o il loro proliferare riproducendo stereotipie producono effetti a livello espressivo-comunicativo nei
soggetti omosessuali relativamente alle questioni rapportabili
alla strutturazione di genere e ai ruoli ad esso connessi. Si possono indicare in primo luogo:
1) gli effetti legati all’identità, al sé: ogni azione infatti elabora elementi di identità, nel senso che ogni azione comunica, all’autore stesso e agli altri segni e significati relativi all’identità
soggettiva situazionale;
2) effetti relazionali: poiché l’azione richiama, propone, contiene schemi e messaggi di relazione interpersonale che riguar218
dano sia le persone interessate e coinvolte in quell’azione, sia,
simbolicamente, i gruppi e le reti di appartenenza;
3) effetti legati a regole interpretative d’azione: l’azione infatti è il risultato di processi interpretativi regolati da codici generalizzati, ma anche di processi d’azione in cui l’attore sembra
rispondere alla domanda «cosa e come si fa in questi casi?»;
4) effetti di sviluppo: ogni azione è una mossa in una prospettiva e/o di cambiamento, si tratta di una dimensione che riguarda la soggettività individuale, il vissuto di chi mette in atto
l’azione o del gruppo cui appartiene;
5) effetti normativi e di controllo, che riguardano il rapporto
con le sanzioni e le regole non formalizzate: non solo dobbiamo
continuamente rispondere alla domanda del «come si fa», ma è
come se rispondessimo sempre anche alla domanda «come reagiranno gli altri – quali altri – a quello che stiamo facendo?».
Le precedenti riflessioni ci portano pertanto a riconoscere
l’importanza dello studio dei circuiti comunicativi di gruppo, e
sulla logica della comunicazione di gruppo, l’appartenenza di
gruppo e il livello di coinvolgimento in performance relative al
ruolo di genere, nel caso in cui si manifestino forme di misconoscimento e di rifiuto dell’alterità (in questo caso specifico del
diverso orientamento sessuale).
Essere membro di un gruppo implica l’adesione alle norme
del gruppo relativamente al genere e ai suoi dispositivi di visibilità.
Se è vero che per gli adolescenti omosessuali contemporanei
reperire modelli, reali o immaginari o mass-mediatizzati, non è
piú un’impresa impossibile, di contro non è affatto scontato,
anzi è quasi del tutto assente il riconoscimento della popolazione omosessuale nelle proposte e nelle risposte educative, istituzionali, nelle politiche socioculturali, all’interno dei discorsi accademici, se non attraverso formulazioni che cristallizzano stereotipi e pregiudizi.
Ciò significa che gli omosessuali sono riconosciuti in quanto
categorie, vengono identificati, ma non vengono riconosciuti in
termini espressivi, intercorporei [Sparti, 2003], non vengono
219
loro accreditati stima e capacità pari a quelle degli altri membri
della società.
6. Identità devianti: riconoscimento negato,
reazione sociale ed etichettamento
Al fine di esplicitare gli effetti del misconoscimento possiamo fare riferimento alle posizioni teoriche ed epistemologiche
espresse dal gruppo di studiosi che fa capo alla teoria dell’etichettamento nello studio della devianza sociale14.
Al misconoscimento sono da riferire produzioni linguistiche
e formulazioni di categorie cognitive che fissano e falsano l’identità degli individui. Il misconoscimento sociale, relativo all’omosessualità, può essere concepito come un processo attraverso il quale membri di un gruppo, o di una società; interpretano un comportamento (o una caratteristica identitaria) come
non degno di considerazione sociale, non riconoscibile in senso
affermativo, pieno; etichettano gli individui che posseggono tali
caratteristiche e non gli accordano la loro considerazione sociale; riservano loro come trattamento le forme di non riconoscimento che reputano piú opportune (dal non riconoscimento
categoriale, cognitivo e identificativo alle forme di riconoscimento sociale negato piú «dense»15, quali la disapprovazione, il
disprezzo, l’elusione [cfr. Sparti, 2003: 152 sgg.]).
Considerare le fenomenologie del riconoscimento negato ci
permette di evidenziare piú direttamente i legami che intercorrono tra l’omosessualità e i processi di etichettamento e di categorizzazione che la definiscono socialmente [Plummer, 1981:
53 sgg.].
Al fine di considerare i processi interattivi di definizione sociale dell’omosessualità, appare opportuno altresí focalizzare
sull’esperienze e le biografie dei soggetti omosessuali16, adottando una prospettiva di analisi sequenziale nella quale il soggetto divergente è da ritenersi soggetto attivo «[…] non solo in
quanto ricostruisce cognitivamente il contesto in cui vive, ma
anche perché costruisce (o ri-costruisce) il senso della propria
220
identità anche attraverso l’azione e questa, a sua volta, implica
una mediazione costante tra il mondo interno (quello dei desideri, delle aspirazioni, delle possibilità) e quello esterno» [De
Piccoli et al., 2001: 45].
Lemert aveva distinto i concetti di devianza primaria e devianza secondaria. Mentre la devianza primaria è un allontanamento piú o meno temporaneo dalle norme17, la devianza secondaria, oggetto principale della sociologia, si manifesta a seguito della reazione sociale, ed il soggetto vi perviene attraverso
una definizione processuale attraverso le interazioni con Alter e
le istituzioni di controllo. In particolare la devianza secondaria
«consiste invece nel comportamento deviante o nei ruoli sociali
basati su di esso, che diviene mezzo di difesa, di attacco o di
adattamento nei confronti dei problemi, manifesti o non manifesti, creati dalla reazione della società alla deviazione primaria.
In realtà le “cause” originarie della deviazione perdono di importanza e divengono centrali le reazioni di disapprovazione,
degradazione e isolamento messe in atto dalla società» [Lemert, 1981: 65-66].
Di particolare rilevanza, nel passaggio da devianza primaria
a quella secondaria, sono gli effetti della percezione sociale e
del controllo: «Vi è un aspetto processuale della deviazione che
non possiamo non riconoscere, dal momento che, a seguito di
una ripetuta, costante deviazione o discriminazione negativa,
qualcosa cambia nella “pelle” del deviante. È un qualcosa che si
viene produrre nella psiche o nel sistema nervoso come una conseguenza delle sanzioni sociali, delle cerimonie di degradazione,
degli interventi “terapeutici” o “riabilitativi”. La percezione, da
parte dell’individuo, dei valori e dei mezzi, e la stima dei relativi costi si modificano in maniera tale che i simboli che hanno la
funzione di condizionare le scelte della maggior parte delle
persone finiscono per non sollecitare quasi piú in lui determinate risposte, o anche per produrre risposte contrarie rispetto a
quelle auspicate dagli altri» [Lemert, 1981: 65; corsivo mio].
Ciò che muta «nella pelle» dell’omosessuale è l’epidermide sociale, la sua identità si riorganizza intorno ai valori puniti dalla società, rendendo difficoltoso e costoso, in termini materiali e sim221
bolici, il processo di discoperta e di rafforzamento della propria
identità. Solitamente la società al fine di valorizzare la solidarietà
di gruppo e l’appartenenza, si discosterà dal deviante attraverso
processi di differenziazione per contrasto [Lemert, 1981: 90].
La reazione sociale si concretizza nelle varie forme di stigmatizzazione, «[…] processo che conduce a contrassegnare pubblicamente delle persone come moralmente inferiori, mediate etichette negative, marchi, bollature, o informazioni pubblicamente diffuse» [Lemert, 1981: 91], che inducono il soggetto discriminato a gravi forme di stress psicosociale e di non-riconoscimento del valore della propria diversità. Nel momento stesso in
cui si determina il riconoscimento negato di istanze identitarie,
si rompe il legame di appartenenza del soggetto alla collettività.
I processi di etichettamento contribuirebbero a limitare
dunque la successiva partecipazione dell’individuo etichettato
alle interazioni della vita sociale, o potrebbero inibirne molte:
l’azione considerata deviante avrebbe una eco psicosociale/micro-macro e determinerebbe retroattivamente da parte della
reazione sociale una risposta di tipo sociopsicologico/macromicro. Ne verranno modificate l’immagine di sé e l’identità sociale [Becker, 1963].
La stigmatizzazione, rileva ancora Lemert, con carattere di
forte attualità, determina nell’individuo un profondo senso di
ingiustizia, a causa dell’incoerenza tra stigma e sanzione, da un
lato, e tipo di azioni compiute, dall’altro, o tra stigma e sanzioni applicate in diversi luoghi o momenti o persino compiuti da
diversi soggetti rispetto il medesimo fatto.
La discriminazione, la marginalità e l’esclusione si esplicitano attraverso differenziazioni personali che determinano nell’individuo l’acquisizione di: «1) uno status moralmente inferiore; 2) specifiche conoscenze ed abilità; 3) un atteggiamento
generale ovvero una “visione del mondo”; 4) una particolare
immagine di sé, che si basa sull’immagine che gli viene rimandata dagli altri con i quali interagisce, ma non è necessariamente coincidente con essa» [Lemert, 1981: 109].
Il carattere transazionale e processuale dell’azione e del
comportamento divergente18 si rivelano strumenti utili per ipo222
tizzare uno studio delle fenomenologie del riconoscimento negato delle omosessualità, anche nei confronti delle configurazioni del riconoscimento negato meno nette, meno visibilmente
lesive, ma piú diffuse.
7. Diventare «significativi»: identità riconosciute,
differenza e diversità
«Sprofondare in se stessi nell’ádelon, nella latenza che custodiamo,
per scoprire il proprio nome, e portarlo poi faticosamente alla luce,
nell’illatenza, alétheia, questo è il viaggio del logos comune. Comune – il Cum, lo Xynón – è dunque doversi determinare, formare,
caratterizzare – doversi ek-ducere, trarre fuori dall’indistinto, rammemorando la propria individua essenza. Ma, ad un tempo, è necessario riconoscere sempre la soverchiante potenza dell’illimite sopra ogni nostra forma e ogni nostro nome, l’immensità dell’ádelon,
rispetto a tutto quanto ek-siste alla luce e perciò è da noi visibile –
teorizzabile. Impossibile, allora, non avvertire la responsabilità tremenda di quell’atto per cui decidiamo la nostra forma, per cui ci
definiamo di fronte all’apeiron onniavvolgente. Impossibile non avvertire tutta la potenziale hybris di quel volersi conoscere, che comporta voler essere ad un tempo veduto e vedente, pensante e pensato, amante e amato, soggetto e oggetto» [M. Cacciari, 1997: 30].
Il naturalismo della scuola interazionista spinge ad una ridefinizione del concetto di devianza e ne chiarisce la portata
semantica, evidenziandone le componenti ambigue. Matza individua nella trattazione della devianza tre fasi principali: «[…]
la sostituzione di una posizione correzionale con una consapevole valutazione o apprezzamento del soggetto deviante, l’implicita epurazione di una concezione patologica ponendo un nuovo accento sulla diversità umana, e l’erosione di una semplice
distinzione fra fenomeni devianti e convenzionali, risultante da
una piú intima conoscenza del mondo cosí come è, a favore di
una valutazione piú profonda che ne sottolinea la complessità»
[Matza, 1976: 25].
I nodi concettuali sottolineati – apprezzamento, diversità e
complessità – portano a riconsiderare in primo luogo l’espe223
rienza del soggetto e la creazione del suo mondo significativo; a
revisionare in termini semantici la nozione di devianza, connotata ideologicamente, e funzionale ad una visione dicotomica,
binaria della realtà sociale che rinvia all’opposizione concettuale devianza-normalità, riducendo di fatto le possibilità semantiche che, al concetto deriverebbero, in un contesto di pluralismo di valori, rapido mutamento e ambiguità, contesto culturali in cui «[…] i membri di una società possono dare ai fenomeni marginali delle risposte apertamente ambigue, oppure evasive, se vi è una qualche ragione per essere prudenti» [Matza,
1976: 27]; la complessità si riferisce ad una critica del riduzionismo e della spiegazione unicausale e al recupero, che nella
trattazione di Matza si fa esplicito [Matza, 1976: 28 sgg.], della
variabilità, dell’ambiguità, del pluralismo.
L’autore utilizza tre coppie concettuali attraverso le quali
chiarisce la sua posizione teorica: queste sono la correzione/rivalutazione, la patologia-diversità e la semplicità-complessità.
Nelle tre diverse coppie concettuali, si tende ad evidenziare il
ruolo della posizione correzionale, come tendente ad estirpare
la devianza, essa infatti «[…] ostacola la comprensione del fenomeno deviante perché è guidata e motivata dal fine di liberarsene» [Matza, 1976: 36].
La prospettiva positivista viene criticata sotto l’assunto della
patologia e della semplicità: nel primo caso si tendeva, ipostatizzando una condizione abnormale, ad eliminare il carattere
della diversità quale «[…] variante o cambiamento sostenibile»
(Matza, 1976: 75) e ad introdurre, per delimitare i fenomeni incontrollabili, le categorie della condanna e della cura: «La patologia non tiene conto della evidente sostenibilità e durata dell’impresa deviante e nemmeno della capacità soggettiva dell’uomo di creare novità e amministrare la diversità» [Matza, 1976:
76; corsivo mio].
La semplicità era causa di riduzionismo e incapacità di vedere ai fenomeni in modo non convenzionale e piú profondamente: le relazioni complesse sono individuabili solo se si tende
a vedere i fenomeni l’uno parallelamente all’altro19.
224
Rendere conto della complessità, riferendosi all’incorporazione
della diversità e delle differenze, implica un’attribuzione di significatività nei confronti di quei fenomeni che non sono stati mai, o
mai a sufficienza, ri-conosciuti. Si tratta pertanto sia di uno sforzo
cognitivo sia di una investimento e una trasmutazione di valori.
Matza considera il processo di stigmatizzazione come un
rapporto asimmetrico di produzione di significati: il bando20,
per esempio, è «l’elemento piú potente nel processo di significazione», in quanto presuppone una selezione, «l’essere schedati», discreditati, stigmatizzati, incasellati».
L’agente della significazione, responsabile delle definizioni di
normalità e del controllo, non agisce che attraverso una configurazione e stabilizzazione dei termini di identità dell’attore significato.
Con il declino del mito della purezza e della compattezza
dei processi identitari nella cultura occidentale, ritorna in primo piano il concetto di hybris che i greci intesero come violazione alla norma della misura, dei limiti che l’uomo non deve
oltrepassare nelle relazioni con gli altri uomini, con la divinità,
con la natura. Massimo Cacciari ci parla dell’hybris mostrandoci la genesi della «comunità» «al culmine della “differenza”»
[Cacciari, 1997: 31]. È l’hybris che ci fa conoscere il pluriverso
dell’Arcipelago:
«Sul frontone del tempio comune a tutte le isole e a tutte le
città dell’Arcipelago sta inciso: “conosci te stesso”. Doversi conoscere è a tutti i distinti comune; piú precisamente, conoscersi
è necessario per rinascere come perfettamente distinti. Assumere la propria forma è a tutti destino comune. Sprofondare in se
stessi nell’ádelon, nella latenza che custodiamo, per scoprire il
proprio nome, e portarlo poi faticosamente alla luce, nell’illatenza, alétheia, questo è il viaggio del logos comune. Comune –
il Cum, lo Xynón – è dunque doversi determinare, formare caratterizzare – doversi ek-ducere, trarre fuori dall’indistinto,
rammemorando la propria individua essenza. Ma, ad un tempo, è necessario riconoscere sempre la soverchiante potenza
dell’illimite sopra ogni nostra forma e ogni nostro nome, l’immensità dell’ádelon, rispetto a tutto quanto ek-siste alla luce e
225
perciò è da noi visibile – teorizzabile. Impossibile, allora, non
avvertire la responsabilità tremenda di quell’atto per cui decidiamo la nostra forma, per cui ci definiamo di fronte all’apeiron
onniavvolgente. Impossibile non avvertire tutta la responsabilità tremenda di quell’atto per cui decidiamo la nostra forma,
per cui ci definiamo di fronte all’apeiron onniavvolgente. Impossibile non avvertire tutta la potenziale hybris di quel volersi
conoscere, che comporta voler essere ad un tempo veduto e vedente, pensante e pensato, amante e amato, soggetto e oggetto»
[Cacciari, 1997: 29-30].
Da questo punto di vista la cosmontologia ellenica considera «la misura come ordine e come volano di armonia tra i diversi enti» [Marchesini, 2002: 199].
In questo concezione si sviluppa la tendenza a considerare il
mutamento come una sorta di scostamento dall’ordine naturale
delle cose.
«L’ordine tramandatoci dalla tradizione filosofica postellenica è fortemente autocentrato; […] mentre in un sistema complesso parlare di ordine significa in qualche modo rinvenire
strutture a rete, ridondanti e sviluppate in modo ricorsivo, tali
cioè da assicurare processi di auto-organizzazione e di etero-organizzazione, l’ordine essenzialista è una riduzione della complessità di rete, una potatura sulla ridondanza, la trasformazione della ricorsività diacronica in una struttura multistratificata
dove ogni piano mira alla sua congruenza e autarchia esplicativa in modo sincronico. L’ordine che ci ha lasciato in eredità la
cultura greca è mortificante nella sua staticità e nella semplificazione dei processi causali» [Marchesini, 2002: 200].
Con il postumanesimo muta radicalmente l’orientamento rispetto all’hybris che da di scostamento, devianza, rischio, pericolo, peccato diventa «motore di coniugazione dell’uomo con
il mondo» [Marchesini, 2002: 203].
Le espressioni classiche della devianza, considerate come
frutti della colpa di hybris come a) il deforme come destrutturazione dell’armonia prestabilita; b) l’informe, ossia la perdita
di riconoscimento della forma; c) l’ibrido, ossia il contaminato;
d) la chimera che nasce dall’assemblaggio di organi o tessuti
226
provenienti da esseri di differenti, con l’avvento della biotecnologia e dell’informatica vengono riviste alla luce di un nuovo
paradigma che legge Darwin sotto una nuova luce.
«Assegnare positività all’hybris significa perciò accettare
pienamente il divenire e l’incertezza del futuro, dimenticando
la pretesa simmetria tra previsione e spiegazione. Il deviante riprende il suo posto da protagonista nella storia scacciando
l’Hopeful Monster: giacché non è mai possibile a priori definire le cosiddette “belle speranze”. Abbandonarsi all’incertezza –
assegnandole un significato euristico –, non lo sconforto di una
resa senza condizioni al dominio dell’ignoranza – vuol dire da
una parte aprire l’orizzonte al vasto paniere delle possibilità,
dall’altra dimenticare la suggestione di uno schema archetipico
di partenza che incarni la perfezione. L’epistemologia dell’ibridazione pertanto non è solo volta a costruire nuove mappe cognitive per il futuro, ma è a rigore uno strumento interpretativo
del passato capace di riannodare il continuum antropologico.
Un flusso che ripropone l’hybris attraverso una pluralità di piani ibridativi e di spazi meticciati» [Marchesini, 2002: 203]21.
Tuttavia le reazioni significative di controllo da parte delle
istituzioni e della collettività si esemplificano, contrariamente a
quanto riferito rispetto all’ibridazione e al meticciamento cognitivo proposto da Marchesini, sotto forma di rappresentazione collettiva dell’ordine, del lecito e del moralmente accettabile, seguendo una logica piú prettamente binaria.
«Significare sta per simboleggiare, nel senso di rappresentazione o esemplificazione. Un oggetto che è significato, sia esso
uomo o cosa, è reso piú significativo. […]. Far sí che qualcuno
o qualcosa rappresenti qualcos’altro è un vero atto di creazione,
che richiede un’attribuzione di significato. Quindi la significazione come è prevedibile, rende il suo oggetto piú significante.
L’oggetto trae profitto, o sofferenza, da un significato piú intenso» [Matza, 1976: 244-245].
Bisogna pertanto riflettere sulle forme di attribuzione di significati, sull’identificazione degli indicatori di umanità e sulle
responsabilità necessaria che tutti noi, in quanto potenziali destinatari delle narrazioni e delle biografie dell’Altro, abbiamo
227
di sforzarci di comprendere e ri-conoscere, conoscere diversamente al fine di poter mette l’Altro in posizione di risposta.
Tale tensione non deve essere intesa come progetto kantiano di «riconoscimento appropriato alla persona in quanto tale
[…], ossia a prescindere e indipendentemente da ciò che la
persona fa o esprime» (Sparti, 2003: 180), quanto piuttosto come pratica del riconoscimento, consapevolezza di essere coinvolti in un processo in cui sono trasmesse risorse simboliche e
materiali per la formazione di un’identità.
Come precedentemente discusso, nella definizione dell’identità assume un ruolo particolare l’interazione in quanto momento di incontro e scambio di «beni di identità» (Goffman,
1981; Sparti, 2002), ossia tutto l’insieme di quelle risorse di natura simbolica che contribuiscono alla definizione della nostra
identità: «[…] l’identità, non essendo una proprietà ma il prodotto (variabile) di una storia di riconoscimenti, deve alimentarsi socialmente […]. Per questo cerchiamo di ottenere dagli
altri comportamenti di riconoscimento che valgono quali beni
di identità per noi. La considerazione accumulata o “guadagnata” presso gli altri è allora una sorta di capitale in relazioni sociali su cui sappiamo di poter contare anche in futuro, non tanto per ottenere vantaggi quanto per stringere legami, o per confermare dei segni di legame e ottenere cosí beni di identità.
Grazie a questi ho fiducia che il riconoscimento ricevuto non
perderà il suo valore, cosí che potrò continuare a essere non solo identificato ma anche riconosciuto cosí in futuro» [Sparti,
2002: 152].
È solo attraverso un riconoscimento di tipo estimativo –
l’acknowledgment o considerazione sociale – che mostriamo il
nostro grado di «responsività» (responsiveness), «[…] il nostro
impegno a riprodurre quegli stati di riconoscimento espressivo
ed intercorporeo che assicurano il nostro valore di persone fra
persone, appunto la nostra dignità umana» [Sparti, 2002: 151].
Il riconoscimento sociale diventa pertanto strumento della
conservazione: «[…], il riconoscimento promuove la conservazione di sé: sono riconosciuto anzitutto come degno d’essere
conservato […]» [Sparti, 2002: 157].
228
Non è un caso che il riconoscimento negato dia luogo alla
dis-appartenenza, che nei vissuti biografici dei giovani omosessuali è rapportata sovente alla sofferenza: «[…] le diverse forme di misconoscimento assumono per l’integrità psichica dell’uomo lo stesso ruolo negativo svolto dalle malattie organiche
nel contesto della riproduzione del corpo l’esperienza della degradazione e della mortificazione sociale mette a rischio l’identità degli esseri umani allo stesso modo in cui le malattie minacciano la loro vita fisica» [Honneth, 2002: 162].
Il riconoscimento si configurerebbe pertanto come dispositivo di reintegrazione del soggetto nella trama relazionale sociale e collettiva (caring), secondo una precisa considerazione della sua corporeità e della sua esperienza vissuta [Merleau-Ponty,
1965], «[…] alla prevenzione delle malattie corrisponderebbe
la garanzia sociale di rapporti di riconoscimento che consentono ai soggetti la protezione piú completa dalla sofferenza del
misconoscimento» [Honneth, 2002: 163].
Ciò potrebbe avvenire attraverso una lettura ed un’interpretazione dei segni della «malattia»22 che valorizzino le dimensioni interpretative, affettive ed empatiche dei soggetti, sviluppando forme dialogico-narrative inedite nelle quali sono gli stessi
attori ad alimentare tale processo maieutico-discorsivo [Leonzi,
1999: 54].
Il riconoscimento tenderebbe in primo luogo alla ricostruzione delle trame narrative e nella sottrazione dei soggetti omosessuali sociale da orizzonti e categorie disincarnati, asettici e
mistificatori, e (re)inserendo questi in contesti significativi di
cooperazione e di co-implicazione narrativa. Le strategie adottate pongono l’accento sull’empatia, la comprensione, la possibilità di avere spazi di espressione, il prendersi cura, «prendersi
cura senza avere una meta di cambiamento precostituita, prendersi cura per il solo fatto che l’altro è persona, è cittadino soggetto di diritto e dovere come me e in quanto tale deve essere
posto in grado di “essere”, indipendentemente dai comportamenti che mette in atto» [Merlo, 1996: 503].
Nel sistema reticolare l’individuo scambia la propria identità e vive l’appartenenza, lí dove si è definiti socialmente, dove
229
si controlla e si è controllati, dove si rappresenta e ci si rappresenta la realtà, il luogo delle rappresentazioni collettive [Merlo,
1996: 504 sgg.]. La rete è principalmente una rete di senso
[Geertz, 1998].
I processi di ri-significazione sociale dell’omosessualità, nella foro principale funzione di de-etichettamento, si esprimono
attraverso azioni di tipo simbolico-rituale miranti a ricompattare il senso di appartenenza e di comunità: «I rituali di cura di
gruppo costituiscono una sfida alle analisi incentrate sulla persona, dato che la loro efficacia non sta in una relazione verbale
intensa e privata fra curatore e paziente ma nella risonanza empatica prodottasi in gruppi che creano testimonianze di trascendenza» [Wilce in Duranti, 2001: 99; corsivo mio].
Il soggetto omosessuale, come chiunque altri, esperisce l’appartenenza alla collettività in termini processuali, interattivi e
dialogici, la ricerca di sé e della propria identità consiste nel ripercorrere, riconoscere e riconoscersi nel piú ampio tessuto di
trame sociali.
Raccontare e raccontarsi, riflettere e riflettersi, immaginare
e immaginarsi, confrontare e confrontarsi, riconoscere e riconoscersi nei discorsi quotidiani sono strumenti imprescindibili
per la formazione della propria identità.
«La prassi narrativa […] svolge altresí una funzione per la
comprensione delle persone che devono oggettivare la propria
appartenenza al mondo vitale di cui fanno parte nel loro ruolo
attuale di partecipanti alla comunicazione. Esse possono infatti
formare un’identità personale soltanto se riconoscono che la
sequenza delle proprie azioni costituisce una biografia descrivibile in modo narrativo, e possono formare un’identità sociale
soltanto se riconoscono di mantenere, attraverso la partecipazione alle interazioni, la propria appartenenza a gruppi sociali e
di essere qui coinvolti nella storia di collettivi descrivibile in
modo narrativo» [Habermas, 1997: 728].
Inserire nelle costruzioni di senso (nelle scuole, come in famiglia, cosí negli interventi sociali, e nelle politiche) l’omosessualità come possibile declinazione dell’alterità è un arricchimento significativo per la società nella sua complessità.
230
«I significati si sviluppano dinamicamente in processi interpretativi aperti in cui quanto maggiore è l’alterità dell’interpretante rispetto all’interpretato e quindi quanto maggiore è la
dialogicità del loro rapporto, tanto piú l’interpretazione si svolge in termini di risposta, di comprensione rispondente dialogica, di riformulazione creativa, di inventiva, piuttosto che di mera ripetizione, traduzione letterale, sostituzione sinonimica,
identificazione» [Ponzio e Petrilli, 2003: 35].
8. Conoscere, rappresentare, osservare, distinguere
Se si riflette, anche soltanto su alcuni dei termini usati nelle
analisi precedenti, come, ad esempio, «processi di ri-significazione sociale dell’omosessualità», di «de-etichettamento», si
può avere il senso e la portata dei grandi compiti inediti che
oggi devono affrontare le scienze sociali non solo nel ridefinire
il loro rapporto con la «devianza» e le «divergenze», ma con i
loro stessi statuti epistemologici.
Una sociologia che voglia ridefinire, dunque, le proprie categorie concettuali in modo tale cogliere meglio la sostanza delle grandi trasformazioni, non può non interrogarsi sul significato di termini come «conoscere», «rappresentare», «osservare»,
«distinguere».
Aprire, dunque, il vocabolario della diversità, della distinzione, della osservazione, significa cercare di porsi in sintonia,
di approssimarsi, in modo sempre piú significativo a quella infinita «diversità epistemologica del mondo» [De Sousa Santos,
2003: XII], che possa allentare e vincere la morsa di una «conoscenza arrogante che riconosce le conoscenze alternative solo nella misura in cui è in grado di cannibalizzarle» [De Sousa
Santos, 2003: XVI].
Si fa spesso confusione tra soggettivo e oggettivo. La distinzione è particolarmente importante dal punto di vista conoscitivo, anche perché, come dice Searle, gran parte della nostra visione del mondo dipende dal nostro concetto di oggettività e
dal contrasto tra l’oggettivo e il soggettivo.
231
Dal punto di vista epistemico «oggettivo» e «soggettivo» altro non sono che «predicati di giudizi». Il giudizio è «soggettivo» quando la sua verità o falsità non può essere stabilita «oggettivamente» in quanto verità o falsità non riguardano una
questione di fatto, ma dipende da atteggiamenti, sentimenti e
punti di vista di chi esprime il giudizio e di chi lo ascolta. Un
giudizio soggettivo è quindi «Rembrandt è un artista migliore
di Rubens». In questo caso si esprime una valutazione, un sentimento, un giudizio soggettivo. Giudizio oggettivo è, invece, è
«Rembrandt nel corso dell’anno 1632 visse ad Amsterdam» in
cui il riferimento ai fatti del mondo lo rende vero indipendentemente dagli atteggiamenti o dai sentimenti individuali.
Ai giudizi oggettivi corrispondono fatti oggettivi, cosí come
a giudizi oggettivamente veri corrispondono fatti oggettivi.
Morin fa notare che il pensiero sin dall’origine si sviluppa in
presenza della possibilità della sua distruzione.
«La spinta conoscitiva nasce da un’angoscia di morte, ma lo
sviluppo del pensiero acuisce la capacità di sofferenza, d’altra
parte, il pensiero è l’unico modo di elaborare, trasformare, tollerare la sofferenza stessa. Si può dunque comprendere che,
raggiunto un certo livello di coscienza, si desideri “chiudere i
conti” con le fasi precedenti. Realisticamente, allora, è soltanto
su di uno “zoccolo” sufficientemente consolidato di pensiero
logico, lineare, non contraddittorio che si può innestare la consapevolezza della complessità del pensiero» [Zanarini, 1990:
49-50]23 inteso come «una rappresentazione flessibile e intensionale del mondo» [Hofstadter, 2000: 367].
Francisco Varela parla della conoscenza come «enazione»
legata al verbo to enact che, tra i suoi significati ha anche quello
di «rappresentare», ad es., uno spettacolo e di «promulgare, ad
es. una legge». L’approccio enattivo alla cognizione si basa su
due punti tra di loro connessi:
1) la percezione è formata da azioni guidate percettivamente. La tradizione computazionalista e pone ad un livello astratto
il problema della comprensione della percezione interessandosi
prevalentemente al problema dell’elaborazione dell’informazione «relativo alla ricostruzione di proprietà pre-definite del
232
mondo» [Varela, 1992: 15]. Il punto di partenza dell’approccio
enattivo è piú concreto basandosi sullo studio di come colui
che percepisce guida le sue azioni in situazioni determinate;
2) le strutture cognitive emergono da schemi sensomotori
ricorrenti che rendono l’azione in grado di essere guidata percettivamente.
La cognizione dipende dall’esperienza consentita da un corpo che possiede determinate capacità sensomotorie individuali
che sono inserite in un contesto culturale e biologico piú ampio. La percezione non viene piú a dipendere da un mondo
pre-definito ma piuttosto dal percipiente, dalla struttura sensorio-motoria dell’agente cognitivo.
«Questa centrale preoccupazione della visione enattiva si pone in contrapposizione al punto di vista comunemente accettato,
secondo il quale la percezione è sostanzialmente una registrazione di informazioni ambientali esistenti al fine di ri-costruire una
parte della realtà del mondo fisico. Nell’approccio enattivo la
realtà non è un dato: essa dipende dal percipiente, non perché si
costruisce per capriccio, ma perché ciò che conta come un mondo rilevante è inseparabile da ciò che è la struttura del percipiente» [Varela, 1992: 16]. Essendo percezione e azione incorporate in processi sensorio-motori, capaci di auto-organizzazione, Varela postula «che le strutture cognitive emergano da schemi ricorrenti di attività sensorio-motoria» [Varela, 1992: 19].
Il processo cognitivo è un sistema che si organizza dando vita ad una rete di interazioni.
«I sistemi viventi sono sistemi cognitivi, e il vivere in quanto
processo è un processo di cognizione. Questa dichiarazione è valida per tutti gli organismi, con o senza un sistema nervoso»
[Maturana, Varela, 1985: 59].
Come afferma Maturana, «tutto ciò che è detto è detto da
un osservatore», e l’operazione cognitiva fondamentale compiuta è quella della distinzione. L’uomo come essere sociale
«centrato sul linguaggio» [Maturana, 1985: 43] è dotato della
capacità di divenire «osservatore» e di agire come se fosse
esterno alla situazione nella quale si trova. Un sistema vivente è
definito come una «unità di interazioni» e sono sistemi cogniti233
vi, «il vivere in quanto processo è un processo di cognizione»
[Maturana, 1985: 59].
«Noi diventiamo osservatori attraverso la generazione ricorsiva di rappresentazioni delle nostre interazioni, e interagendo
con diverse rappresentazioni simultaneamente noi generiamo
relazioni con le rappresentazioni con le quali possiamo poi interagire ripetendo questo processo ricorsivamente, rimanendo
cosí in un dominio di interazioni sempre piú grande di quello
delle rappresentazioni; noi diventiamo autocoscienti mediante
l’auto-osservazione; facendo descrizioni di noi stessi (rappresentazioni), e interagendo con le nostre descrizioni possiamo
descrivere noi stessi che descriviamo noi stessi, in un processo
ricorsivo senza fine» [Maturana, Varela, 1985: 60].
Per l’osservatore una entità, diventa effettivamente tale
quando egli può descriverla, cioè può enumerare le interazioni e
le relazioni dell’entità osservata. Per descrivere una prima determinata entità, l’osservatore deve poterla distinguere da un’altra seconda entità che egli può osservare interagire o mettersi
in relazione con la prima.
«Con questa operazione l’osservatore specifica una unità come una unità come un’entità distinta da uno sfondo e uno sfondo come il dominio nel quale un’entità è differenziata. Una
operazione di distinzione, tuttavia, è anche una prescrizione di
una procedura che, se eseguita, separa una unità da uno sfondo, indipendentemente dalla procedura di distinzione e dal fatto che la procedura sia fatta da un osservatore o da un’altra entità» [Maturana, 1985: 35].
La realizzazione delle diverse autopoiesi dei componenti di
un sistema sociale è elemento costitutivo del sistema sociale
stesso. A questo proposito Maturana precisa:
«Una collezione di sistemi viventi integrati una unità composita attraverso relazioni che non implicano la loro autopoiesi
non è un sistema sociale, e i fenomeni propri del suo funzionamento come una tale unità composita non sono fenomeni sociali […] La struttura di una società intesa come un particolare
sistema sociale è determinata sia dalla struttura dei suoi componenti autopoietici che dalle effettive relazioni che hanno luo234
go tra loro mentre la integrano. Perciò il dominio dei fenomeni
sociali, definito come il dominio delle interazioni e delle relazioni che un osservatore osserva tra i componenti di una società, risulta dal funzionamento autopoietico dei componenti
della società mentre la realizzano nelle influenze reciproche
delle loro proprietà» [Maturana, 1985: 39]. Una società opera,
dunque, come un sistema omeostatico che stabilizza le relazioni che ne fanno, appunto, un sistema sociale.
Come Spencer-Brown osserva nella prefazione alla edizione
del 1994 di Laws of form, l’universo è una potenzialità di apparenze: «Le sue regole sono le regole del possibile, chiamate da
Sakyamumi “i vincoli della coproduzione condizionata”, e da me
come “calcolo delle indicazioni”» [Spencer-Brown, 1994: VIII].
Il dato di partenza di Spencer-Brown sono le idee – fondamentali come convergenti in un principio interdisciplinare –
della «distinzione» (distinction), l’idea dell’«indicazione» (indication) e l’idea per la quale non possiamo fare un’indicazione
senza tracciare una distinzione.
Ogni «indicazione» per Spencer-Brown implica «dualità».
Non è possibile «produrre qualcosa» senza «coprodurre ciò che
esso non è».
Ogni «dualità» implica «triplicità»: «ciò che la cosa è, ciò
che non è, e i confini esistenti tra essi» [Spencer-Brown, 1994:
IX]. Come Spencer-Brown spiega, nel primo capitolo di Laws,
tu non è possibile «indicare» (indicate) qualcosa senza
«definire» (defining) due stati, e non è possibile «definire due
stati» senza «creare tre elementi». Nulla esiste in realtà in modo
separato dagli altri24.
Per Wassily Kandinsky la forma è rappresentazione e delimitazione che costituisce l’autonomia di un oggetto:
«Solo la forma come rappresentazione di un oggetto (reale o
irreale) o come delimitazione astratta di uno spazio, di una superficie, ha una sua autonomia» [Kandinsky, 1989: 47].
La forma in senso stretto, è il confine tra una superficie e
un’altra:
«Questa è la sua definizione esteriore. Siccome però tutto
ciò che è esteriore racchiude necessariamente in sé un’interio235
rità (piú o meno palese), ogni forma ha un contenuto interiore.
La forma dunque è l’espressione del contenuto interiore. Questa
è la sua vera definizione dal punto di vista dell’interiorità. E qui
bisogna ritornare all’esempio del pianoforte, sostituendo il «colore» con la «forma». L’artista è la mano che toccando questo o
quel tasto (cioè la forma) fa vibrare l’anima. È chiaro che l’armonia delle forme è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima.
Abbiamo definito questo principio il principio della necessità interiore.
Questi due aspetti della forma sono anche i suoi scopi. Per
questo la delimitazione esteriore è utile e opportuna quando fa
risaltare espressivamente il contenuto interiore della forma. La
forma esteriore, cioè la delimitazione che in questo caso si serve della forma come mezzo, può essere molto varia.
Ma nonostante tutte le possibili diversità, la forma non può
evitare due estremi e cioè:
1) o, in quanto delimitazione, serve a far stagliare un oggetto
materiale su una superficie, cioè a disegnarlo;
2) o, è astratta, cioè non rappresenta nessun oggetto reale.
Questi enti puramente astratti, che come tali hanno vita ed
esercitano un effetto, sono il quadrato, il cerchio, il triangolo, il
rombo, il trapezio e le innumerevoli altre forme sempre piú
complesse che non hanno una denominazione matematica speciale. Tutte queste forme hanno uguale diritto di cittadinanza
nel regno dell’astratto.
Fra questi due estremi c’è il numero infinito delle forme che
contengono entrambi gli elementi, e in cui prevale quello materiale o quello astratto» [Kandinsky, 1989: 49-50].
Per Hannah Arendt variazioni e distinzioni caratterizzano
ogni vita organica:
«L’alterità, è vero, è un aspetto importante della pluralità, la
ragione per cui tutte le nostre definizioni sono distinzioni, per
cui non riusciamo a dire che ogni cosa è senza distinguerla da
ogni altra. L’alterità nella sua forma piú astratta è reperibile solo nella pura moltiplicazione degli oggetti inorganici, mentre
ogni vita organica mostra già variazioni e distinzioni, anche tra
236
gli esemplari di una stessa specie. Ma solo l’uomo può esprimere questa distinzione ed esprimere se stesso, e solo lui può comunicare se stesso e non solamente qualcosa – sete o fame, affetto, ostilità o timore. Nell’uomo l’alterità, che egli condivide
con tutte le altre cose e la distinzione che condivide con gli esseri viventi, diventano unicità, e la pluralità di esseri unici. Discorso e azione rivelano questa unicità nella distinzione. Mediante essi, gli uomini si distinguono anziché essere meramente
distinti, discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in
quanto uomini. […] Azione e discorso sono cosí strettamente
connessi perché l’atto primordiale e specificamente umano deve nello stesso tempo contenere la risposta alla domanda posta
a ogni nuovo venuto: “Chi sei?”» [Arendt, 1989: 128-129].
Arendt sostiene che è nella natura di ogni cominciamento
che qualcosa di nuovo possa aver inizio senza che lo si possa
prevedere sulla scorta di accadimenti precedenti e che il discorso corrisponde al fatto della distinzione.
«Questo carattere di sorpresa iniziale è inerente a ogni cominciamento e a ogni origine. Cosí l’origine della vita della materia inorganica è un’infinita improbabilità dei processi inorganici, proprio come la nascita della terra dal punto di vista dell’universo, o l’evoluzione della vita umana dalla vita animale. Il
nuovo si verifica sempre contro la tendenza prevalente delle
leggi statistiche e della loro probabilità, che a tutti gli effetti
pratici, quotidiani, corrisponde alla certezza; il nuovo quindi
appare sempre alla stregua di un miracolo. Il fatto che l’uomo
sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e
con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo
nella sua unicità. Di questo qualcuno che è unico si può fondatamente dire che prima di lui. Se l’azione come cominciamento
corrisponde al fatto della nascita, se questa è la realizzazione
della condizione umana della natalità, allora il discorso corrisponde al fatto della distinzione, ed è la realizzazione della con237
dizione umana della pluralità, cioè del vivere come distinto e
unico essere tra uguali» [Arendt, 1989: 128-129].
Adriana Cavarero parla «dell’unicità irripetibile di ogni essere umano» [Cavarero, 1997: 47].
Anche Ilya Prigogine valorizza la «differenza» quando, discutendo del principio di conservazione dell’energia, cita esplicitamente il Deleuze del Nietzsche et la philosophie [Deleuze,
1962]25:
«La scienza, che descrive le trasformazioni dell’energia sotto
il segno dell’equivalenza, deve alla fine ammettere che soltanto
le differenze (come le differenze di temperatura o di energia
potenziale) possono produrre effetti che, a loro volta, saranno
ancora delle differenze. In questa prospettiva, la scienza dell’energia rivela e dissimula al tempo stesso, sotto le spoglie di forme tradizionali, la potenza della natura. Piuttosto che il dispositivo sperimentale, in cui la natura produttrice è padroneggiata, sottomessa a un’equivalenza prestabilita, bisogna, per comprenderla, evocare la fornace ruggente della macchine a vapore, il ribollire delle trasformazioni in un reattore chimico, la vita e la morte degli individui e della specie, altrettanti esperimenti in cui si dispiega la potenza della natura creatrice e distruttrice» [Prigogine, Stengers, 1999: 118-119].
Prigogine e Stengers – nella prefazione a La nuova alleanza
(1992) – sostengono che «il caos appare ormai come un elemento unificatore, non come un ostacolo, e che le “leggi della
natura”, concepite come “leggi del caos” non descrivono piú
un mondo chiuso, sottomesso a un’intelligibilità deterministica». Per Prigogine e Stengers diventa fondamentale pensare e
agire in questo multiversum in questo «mondo aperto con la
categoria di probabilità, cioè di possibilità» [Prigogine, Stengers, 1992, in Prigogine, Stengers, 1999: XV].
Il cambiamento sociale è preceduto dal cambiamento dell’azione degli attori sociali26 ed è sorretto dalla mutata interpretazione che gli attori forniscono degli eventi. Pertanto la società
non sarebbe agita che attraverso diversi ancoraggi di senso, generalizzazioni, rappresentazioni, categorizzazioni che si prestano all’utilità dello scambio comunicativo; la vita sociale è carat238
terizzata da un permanete flusso di attribuzione, acquisizione e
perdita di senso.
La cultura stessa è emblema di tale mutevolezza, fluidità,
processualità. La complessità si delinea innanzitutto come molteplicità di codici, di riferimenti valoriali e normativi, di rappresentazioni pluriverse della normatività.
Ciò ci porta a riflettere non solo rispetto al problema dell’incorporazione dell’alterità, ma anche della promozione di
politiche di riconoscimento delle istanze di cui sono portatrici
le diversità nella loro immediata concretezza e nella contestualità del loro esistere.
Porsi criticamente tali riflessioni ci invita a prendere atto
della necessaria condivisione di responsabilità, del moltiplicarsi
di nuove domande sociale e di nuovi attori, del bisogno di formulazioni politiche che tengano conto di queste forti tensioni,
iniziando dalla banale constatazione che la società è divenuta
differenziata fin troppo da poter essere considerata secondo
una prospettiva unitaria, centralizzata. La complessità, la dinamica e la diversità delle società moderne richiedono nuove forme di governance differenti, dinamiche e complesse (Kooiman,
2002: 81).
Nodo focale di questi discorsi è tuttavia il problema dell’identità, esso nasce come problema nel senso che l’uomo ha bisogno di rifletterci nel momento in cui ormai è entrata in crisi.
Per lo Stato moderno fondamentale è la decostruzione dell’identità personale, lo sradicamento culturale di ognuno per la ricostruzione di un’identità sociale. Quindi la ricerca dell’identità
nasce come un problema e ancora nella società postmoderna essa è un problema sebbene diverso da quello sopra descritto. Oggi esso è l’esatto contrario di un tempo, la ricerca consiste nell’evitare in tutti i modi la fissazione, la stabilità, la solidità. Un’identità stabile può essere solo controproducente in una società in
continuo mutamento in cui è opportuno saper indossare di volta in volta abiti diversi adeguati alle sempre diverse situazioni.
Un altro importante elemento di differenza tra i due modelli
di società evidenzia quali siano gli organi a cui spetta il compito di costruzione dell’identità.
239
Nel primo caso esso spetta sicuramente e solamente allo
Stato, che lo esercita attraverso le istituzioni; nel nostro caso esso appartiene ad ogni singolo individuo e forse per questo il
problema si fa ancora piú pesante, e si pone come limite alla
crescita di una società serena e non dell’incertezza27.
In condizioni di cambiamento radicale e di modernizzazione accelerata della società muta il compito dell’integrazione sociale che dovrà garantire «il controllo affettivo individuale da
un lato, e il mantenimento e la ricostruzione del nesso sociale
dall’altro» [Messner, 2000: 164]: il passaggio dalla società industriale alla società del rischio, secondo Messner, è proprio caratterizzato dal fatto che la «minaccia all’identità costituisce il fulcro» 28 [Beck, 1986].
Bisogna pertanto mutare anche le forme e gli obiettivi della
solidarietà civile nel riconoscimento dell’alterità dell’altro, in
primo luogo orientandola non alla compensazione bensí all’empowerment dei cittadini, proponendo programmi che assicurino e migliorino la qualità della loro partecipazione.
«La solidarietà, quindi, non consiste in un unicum, ma si
configura in modi diversi conformemente alle sfere dell’agire,
ai punti di riferimento morali, ai criteri di qualità e ai media di
scambio. Ogni forma proposta però deve, per farsi valere, superare il test dell’empowerment, deve dimostrare di servire a
rafforzare la partecipazione dei singoli, deve provare come e in
che misura può incoraggiarli e come apre nuovi campi all’apprendimento sociale che si collegano alle risorse, alle disposizioni e alle forme già esistenti in una comunità data» [Messner,
ibidem: 148].
Come si è Già visto, Habermas rileva, minuziosamente la
crescita dei processi di reificazione delle società capitalistiche
evolute accelerati dall’intervento dei sottosistemi economia e
Stato. Nelle sue piú recenti posizioni il sociologo tedesco articola e precisa l’analisi del diritto e del potere nella riproduzione simbolica del mondo vitale e le ipotesi della «colonizzazione
del mondo vitale».
In particolare in Faktizität und Geltung [Habermas, 1996]
Habermas ha osservato che a differenza della morale, il diritto
240
non regola nessi d’interazione in generale, bensí funge da medium all’auto-organizzazione di comunità giuridiche che, affermano la loro identità. È in questo modo che nel diritto vengono a configurarsi concreti e punti di vista teleologici. Le regole
morali esprimono una pura volontà universale, definendola come ciò che corrisponde all’eguale interesse di tutti, le regole
giuridiche, invece, esprimono anche la volontà particolare degli
appartenenti a una determinata comunità giuridica.
Habermas si colloca dalla parte della «deliberative democracy» che considera come fondamentalmente razionale, piuttosto che meramente negoziale il processo democratico.
Per Habermas il diritto non può limitarsi a soddisfare le esigenze funzionali di una società complessa, ma «esso deve anche
soddisfare le precarie condizioni di un’integrazione sociale passante da ultimo attraverso le prestazioni d’intesa di soggetti
agenti comunicativamente, vale a dire attraverso l’accettabilità
di pretese di validità» [Habermas, 1996: 104].
Sulla scorta di F. Michelman [Michelman, 1986] che definisce il diritto come «relazione», come «pratica sociale» e quindi
come «connessione intersoggettiva», Habermas coglie il nesso
interno tra sovranità popolare e diritti umani nella sostanza normativa a determinate modalità di esercizio dell’autonomia politica. Queste modalità non sono garantite dalle leggi universali,
ma «dalla struttura comunicativa d’una formazione discorsiva
dell’opinione e della volontà» [Habermas, 1996: 127].
Se la volontà razionale si esplica attraverso discorsi o attraverso trattative con procedure fondate discorsivamente la legittimità del diritto, per Habermas, in ultima istanza si fonda sull’istituzionalizzazione di strutture comunicative:
«Come partecipanti a discorsi razionali, i consociati giuridici devono poter verificare se una norma controversa trova (o
potrebbe trovare) consenzienti tutti i potenziali interessati. Di
conseguenza, il richiesto nesso interno tra sovranità popolare e
diritti umani consisterà nel fatto che il “sistema dei diritti” definisce precisamente le condizioni per cui le forme di comunicazione necessarie a una produzione giuridica legittima possono
241
essere anche giuridicamente istituzionalizzate» [Habermas,
1996: 127-128].
La sostanza dei diritti umani prende corpo nelle «condizioni formali necessarie a istituzionalizzare giuridicamente quel tipo di formazione discorsiva dell’opinione e della volontà in cui
è la sovranità del popolo ad assumere veste giuridica» [Habermas, 1996: 128].
In questo senso Habermas si sofferma a lungo a considerare
il rapporto di complementarietà tra diritto positivo e morale di
ragione:
«La mia tesi è che le norme giuridiche e le norme morali,
dopo essersi simultaneamente differenziate dall’eticità tradizionale al livello postmetafisico di fondazione, si sviluppino parallelamente come due tipi di norme d’azione diverse, e tuttavia
capaci d’integrarsi a vicenda. Perciò il concetto di autonomia
andrà pensato in maniera tanto astratta da poter assumere figura specificamente diversa in riferimento ora al primo ora al secondo tipo di norme: principio morale in un caso. Principio democratico nell’altro […] Tramite la componente di legittimità
della validità giuridica, il diritto positivo porta sempre dentro
di sé un incancellabile riferimento alla morale. Ma questo riferimento alla morale non deve indurci a subordinare il diritto alla
morale, nel senso di una gerarchia tra norme. L’idea di una “gerarchia delle fonti” appartiene al mondo del diritto premoderno. Piuttosto, la morale autonoma da un lato e il diritto positivo (sempre bisognoso di fondazione) dall’altro si collocano in
un rapporto di complementarità» [Habermas, 1996: 129-130].
Dal punto di vista sociologico va considerato che morale e
diritto positivo hanno la stessa matrice nell’ethos sociale in cui
etica convenzionale e diritto tradizionale si intrecciavano.
Questioni morali e questioni giuridiche si riferiscono evidentemente agli stessi problemi: cioè a come norme giustificate
possono legittimamente ordinare tra loro relazioni interpersonali oppure coordinare azioni, a come si possono risolvere consensualmente conflitti d’azione, a come si possono risolvere
consensualmente conflitti d’azione sullo sfondo di regole e di
principi normativi intersoggettivamente riconosciuti.
242
È necessario superare il pregiudizio per il quale la morale
avrebbe a che fare solo le relazioni sociali che dipendono dalla
responsabilità individuale, mentre diritto e giustizia dipenderebbero dalle «sfere istituzionali dell’interazione».
Per uscire da una mera dimensione localistica, nelle società
complesse, la morale deve tradursi in codice giuridico. A questo livello si pone la distinzione tra principio morale e principio
democratico al quale ultimo si devono la fissazione di procedure di una legittima produzione giuridica. In pratica, il principio
democratico fissa le modalità attraverso le quali di quella
«prassi d’autodeterminazione di soggetti giuridici che si riconoscono a vicenda come liberi ed eguali consociati» [Habermas, 1996: 134].
«Mentre il principio morale funziona da regola argomentativa per poter decidere razionalmente le questioni morali, il
principio democratico dà già per scontata la possibilità di decidere razionalmente le questioni pratiche – ossia la possibilità
di produrre discorsivamente (oppure con trattative proceduralmente disciplinate) tutte le fondazioni necessarie a dare legittimità alle leggi. Perciò il principio democratico non risponde alla questione – che andrà preliminarmente chiarita
con strumenti di teoria dell’argomentazione – se e come le
faccende politiche siano affrontabili in termini discorsivi.
Dando per scontato che una formazione politica razionale dell’opinione e della volontà sia sempre possibile, il principio democratico ci dice soltanto come ciò possa essere istituzionalizzato. Vale a dire tramite un “sistema dei diritti” che garantisca
a ciascuno eguale partecipazione a un processo di produzione
giuridica anch’esso (a sua volta) garantito nei suoi presupposti
comunicativi. Mentre il principio morale opera sul piano della
costituzione interna d’un determinato gioco argomentativo, il
principio democratico si riferisce al piano dell’istituzionalizzazione esterna (cioè direttamente condizionante l’azione) di
una paritaria partecipazione politica a quella formazione discorsiva dell’opinione e della volontà che si realizza in forme
comunicative a loro volta giuridicamente tutelate» [Habermas, 1996: 135].
243
Il principio democratico non solo stabilisce le procedure
della legittima produzione giuridica, ma nello stesso tempo
controlla la produzione dello stesso medium giuridico.
Si è già sottolineato il fatto che lo Stato sociale, all’interno
dello Stato democratico di diritto, fa propria questa funzione
che Habermas definisce come giuridificazione che garantisce la
libertà. Esso opera nella direzione di un attenuamento degli
imperativi del sistema economico nello stesso modo in cui le fasi precedenti della giuridificazione avevano frenato il sistema di
azione amministrativo.
In questo quadro risultano di grande importanza tutte quelle iniziative che possono attenuare gli aspetti patologici determinati dagli imperativi del sistema economico e tutelare, anche
informalmente, il sistema dei diritti.
Quella che viviamo può certamente definirsi come una nuova «età dei diritti»: mai come oggi i cittadini delle nazioni caratterizzate da sviluppo economico avanzato, regimi politici democratici e le politiche sociali hanno avuto riconosciuti formalmente tanti diritti, spesso genericamente etichettati come sociali. Fra i «nuovi diritti» ritroviamo diritti sociali in senso stretto
che Bobbio [Bobbio 1990: XIV-XV] definisce «diritti della terza generazione» (tra questi il piú importante è quello rivendicato dai movimenti ecologici: il diritto a vivere in un ambiente
non inquinato) ed emergenti «diritti della quarta generazione»
(riguardanti gli effetti sempre piú sconvolgenti della ricerca
biologica). Friedman [Friedman, 1990], ha parlato di un individualismo «espressivo» che si realizza nella scelta e nell’affermazione di un autonomo e originale stile di vita.
Sulla scorta dell’analisi di Bobbio si può proporre la seguente classificazione:
a) diritti di prima generazione, i cui titolari sono individui
fra loro formalmente eguali. Tali diritti si esercitano (in rem o
in personam) relativamente a beni o servizi offerti contro il pagamento di un prezzo sopportato dal titolare del diritto;
b) diritti di seconda generazione, riconosciuti spesso soltanto agli appartenenti a gruppi svantaggiati, e piú di recente, in
taluni casi, anche alla generalità della cittadinanza (universali244
smo), che hanno ad oggetto prestazioni monetarie o in natura
effettuate da agenzie pubbliche o pubblicamente regolate;
c) diritti di terza generazione, i cui titolari sono i singoli cittadini, in quanto portatori di interessi diffusi alla produzione e
alla tutela di taluni beni collettivi (come la tutela dell’ambiente)
e di una elevata qualità della vita; per quanto le controparti immediate siano spesso soggetti privati (imprese inquinanti, produttori, ecc.), il godimento di tali diritti richiede provvedimenti
statali, che talvolta assumono la forma della produzione diretta
del bene, ma di norma sono di tipo regolativo;
d) diritti di quarta generazione che consistono nella tutela di
interessi sempre piú diffusi che riguardano i danni derivanti dal
diffondersi di mutazioni biologiche riguardanti specie vegetali
o animali (prodotti transgenici, mucca pazza) o la specie umana); anch’essi andrebbero strutturati prevedendo un correlativo dovere di astensione a carico dei soggetti privati o pubblici
che pongono in essere attività potenzialmente lesive del bene
tutelato, nel quadro di appropriate prestazioni regolative statali
e transnazionali [cfr. La Spina, 2001].
Oltre alla gamma dei diritti e al numero dei loro portatori va
considerato anche un elemento soggettivo: la percezione che gli
attori sociali hanno di tali diritti, che nella cultura civica diffusa
nei paesi in questione risulta essere secondo Lawrence Friedman [Friedman, 1990: 97], sempre piú intensa e precisa: «Il cittadino moderno è particolarmente consapevole dei propri diritti, nel senso che egli è vieppiú capace di godere, far applicare
coattivamente, invocare tali diritti di quanto non fossero i cittadini delle società precedenti». Pertanto, non solo tale cittadino
è perfettamente consapevole dell’essere titolare di ceri diritti,
ma si attende, in linea teorica, anche che questi siano certi e giustiziabili, vale a dire il meno possibile dipendenti dalla discrezionalità di un amministratore o di un interprete della legge.
Ecco dunque che la rights-consciousness potrebbe ricollegarsi alla richiesta di previsioni normative piú formali, dunque di
piú certa applicazione, e piú in generale alla aspettativa di una
sempre piú incisiva e pervasiva tutela giuridica dei diritti individuali. La moltiplicazione dei diritti va di pari passo con l’e245
spansione del diritto. Tutte le sfere sociali sono potenzialmente
suscettibili di regolazione tramite il diritto [Friedman, 1990: 10
sgg.]. Risulterebbe cosí confermata la tendenza alla giuridificazione della società. Tuttavia, all’elevarsi della rights-consciousness fanno da contraltare la congestione del contenzioso la frequente scarsità, inefficienza, inefficacia e incontrollabilità delle
prestazioni sociali.
Possono rientrare in quest’ambito strategie di autotutela
informale, da parte dei titolari dei diritti, ovvero di tutela, anch’essa informale e non giudiziaria, realizzata dagli esecutori
dei provvedimenti concernenti i diritti medesimi, i quali esecutori attueranno, se possono e vogliono, tali provvedimenti in
modo flessibile, in ragione della natura dei diritti tutelati.
Il problema centrale è quello di fornire adeguata rappresentanza presso il sistema giuridico a interessi che altrimenti resterebbero pretermessi e promuovere forme di tutela alternative a
quelle giudiziarie.
Si può far riferimento a tre tipi di autotutela informale dei
diritti:
1) Autotutela extralegale, attraverso mezzi del tutto leciti,
non previsti dalle norme concernenti lo specifico diritto: selfhelp, associazioni e pratiche volontarie, ricorso al mercato (sanità scuola, ma anche polizia, recupero crediti, in forme private) individuazione e inseguimento di aree di «eccellenza sanitaria», o scolastica, e cosí via. L’istituzione di «tribunali» come
quelli del malato può rientrare nel caso in esame laddove questi, a dispetto del nome, costituiscano in realtà casse di risonanza per rendere piú efficaci e pressanti le denunce di disservizi;
diversamente rientreremo nella tutela (non nell’autotutela)
informale di diritti o interessi legittimi.
2) Autotutela infralegale, attraverso i mezzi che tengono
presenti le regole giuridiche concernenti un dato diritto, ma le
eludono, ponendo in essere comportamenti contrari allo spirito
di tali regole, ma non alla loro lettera, dunque, comportamenti
formalmente legittimi: regalie lecite agli erogatori delle prestazioni, prescrizioni sanitarie compiacenti, inclusione in categorie
246
tutelate, onde percepire piú agevolmente dei benefici che comunque spetterebbero.
3) Autotutela illegale, attraverso mezzi che contraddicono
tanto lo spirito quanto la lettera delle regole giuridiche vigenti,
esponendo quindi, in teoria, i «trasgressori» alle sanzioni del
caso. Vanno qui annoverati il ricorso a mercati illegali (come
quello della protezione), la corresponsione spontanea di somme, regalie, ecc., in genere tutti i casi in cui il soggetto omette
comportamenti prescritti o pone in essere comportamenti vietati al fine di conseguire la soddisfazione di un suo «diritto»
[cfr. La Spina, 2001].
In conclusione si può dire che l’autotutela informale rappresenti una seconda e spesso sofferta scelta a fronte di insoddisfacenti prestazioni che potrebbero essere in molti casi «facilmente» migliorate con opportuni accorgimenti organizzativi e procedurali e con una appropriata finalizzazione delle risorse.
D’altra parte autotutela informale va riguardata come il portato
diretto e pressoché ineliminabile della rivoluzione dei diritti e
della natura di talune prestazioni oggetto di diritti. Forse, in generale, un quantum di autotutela informale rientra con tutta
probabilità nella fisiologia delle società sviluppate, rappresentando, in quella misura, il superamento del bisogno di tutela
giuridica in pro di forme di tutela differenti in parte ancora da
inventare. Sta alla ricerca sociologica accrescere le conoscenze
empiriche sulle strategie di autotutela in atto praticate e sulla
loro diffusione e, in sede di conoscenza applicata, giudicare
quali fra esse siano eliminabili con aggiustamenti marginali o
comunque realistici del rendimento dei sistemi giuridico-amministrativi e quali costituiscano invece la forma migliore, o meno
peggiore, per assicurare il godimento pieno di diritti soggettivi,
interessi legittimi e moral rights delle diverse generazioni.
E fuor di dubbio dunque che i mutamenti identitari si riflettano nel diritto e che inevitabilmente modellino il diritto.
«Questioni di identità stanno alla base del movimento per i
diritti civili e delle leggi sui diritti civili. Emergono […] nelle
leggi sulla cittadinanza e sull’immigrazione e nelle concezioni
sui diritti umani e sui diritti delle minoranze […] Analogamen247
te, il declino della tradizione e l’ascesa dell’individualismo hanno un profondo impatto sulla struttura dell’autorità» [Friedman, 2002: 20-21]. La prospettiva di Friedman è quella di capire questo mondo che «non c’è mai stato prima», le nuove condizioni di vita e il modo «in cui esse hanno profondamente alterato anche il nostro senso del diritto, dell’ordine e dell’autorità» [Friedman, 2002: 22].
Friedman distingue tra forme di identità e autorità verticali,
proprie della società tradizionale e forme di identità e autorità
orizzontali propria della società moderna. Uomini e donne instaurano nella società moderna relazioni che si intessono su un
piano di eguaglianza. La forma identitaria che consente questo
tipo di relazioni è «aperta», «fluida», «incompiuta» e questa
apertura si mantiene anche quando la persona entra nella vita
adulta. Fluidità e poliedricità caratterizzano il «sé» moderno e
contemporaneo che lo pongono all’altezza dell’irrequietezza
dei nostri giorni. Robert Jay Lifton ha definito questo senso del
sé basato sull’irrequietezza «proteiforme».
Nella società contemporanea le relazioni diventano orizzontali e le stesse identità si dislocano orizzontalmente. Secondo
alcune analisi la Modernità avrebbe rivelato se stessa nel secolo
dei regimi di massa, quando la forma di razionalità da essa derivante ha espresso una volontà egemonica nei confronti della
Lebenswelt. Il «nucleo violento» [Henry, 1996: 168] della ragione moderna si sarebbe espresso pienamente in una visione
pianificatrice totalizzante, nella generalizzazione di forme di ordine e di disciplina, «omologando tutti i fenomeni viventi, esseri umani compresi, a criteri di efficienza e di risparmio bioenergetico» [Henry, 1996: ibid.].
«All’insegna dell’emancipazione, la civiltà occidentale ha invece prodotto manipolazione ideologica, violenza sui singoli e
sui molti, burocratizzazione, distruzione di risorse materiali e
ambientali, capillare diffusione del potere occulto e disciplinamento delle opinioni. La causa principale di tutto ciò sarebbe
da ricercare nel fatto che la ragione moderna è nata per estendere sul mondo il dominio del soggetto che la esprime: ciò non
248
è pensabile senza tecniche globali di produzione, di comunicazione, di regolazione e controllo sociale» [Henry, 1996: ibid.].
Nei confronti dei temi relativi all’empowerment dei gruppi
marginali le proposte piú innovative, ancora poco dibattute
nelle università italiane, provengono dai gruppi di studiose che,
muovendo da premesse femministe ed utilizzando una prospettiva d’analisi costruttivista, sviluppano le proprie teorie in direzione del riconoscimento delle istanze e dei punti di vista di cui
sono portatrici le minoranze [Fraser, 1995; Benhabib, 1992;
Young, 1990, 1996] all’interno della sfera pubblica.
Anche la vita private e le piú banali azioni quotidiane hanno valenza e valori politici, nei discorsi dei costruttivisti porre
all’attenzione dell’agenda politica il privato significa svelarne
le relazioni di potere esistenti: al centro della tradizione costruttivista risiede la domanda di inclusione popolare all’interno del dibattito pubblico e politico, inclusione a cui è legato
concettualmente il riconoscimento dei distinti punti di vista
degli attori.
Riconoscimento significa innanzitutto attribuire particolare
valore alle differenze sociali, alle esperienze e alle identità.
Piuttosto che produrre un sistema comune di significati, il discorso politico ha il compito necessario di comprendere la
realtà e l’esperienza delle differenze dell’alterità, abbattendo, in
primo luogo cognitivamente, il pregiudizio del dato per scontato. Secondo Zali Gurevich [1988] il vero riconoscimento presupporrebbe un processo di de-centramento (de-centering), di
estraneazione: «un riconoscimento non solo del fatto che io sia
il centro, nel senso che l’altro è diverso da me, ma anche che lui
è il centro, rendendo me l’altro differente. Cosi attraverso il
rendere estraneo e l’esperire l’alterità, le due parti del dialogo
possono essere realizzate» [Gurevich, 1988: 1189].
Ciò significa che quante piú diverse sono le identità che partecipano al discorso pubblico, piú vasto diventa il range di opzioni e di implicazioni che possono essere immaginate.
Il richiamo ai criteri di universalità e l’enfasi al consenso in
realtà non sarebbe altro che norme fortemente dipendenti dalle
culture in cui sono prodotte, espressioni di forme di potere che
249
invece di valorizzare la differenza mirano a calpestarne la valenza [Young, 1996; Gould, 1996].
L’attenzione nei confronti della differenza si esprime anche
attraverso il particolare risalto dato ai mondi vitali dei soggetti,
alle conoscenze incarnate dei cittadini ordinari, attraverso la legittimazione delle narrazioni (narrative) quali forme appropriate del discorso politico, si promuovono l’empatia e la possibilità di comprendere esperienze e vissuti a livello fisico, emotivo,
peculiari alle soggettività.
La riflessione è da indirizzare pertanto al modo in cui le persone definiscono ed esprimono i propri bisogni: il grave problema della disaffezione nei confronti del welfare state è proprio da
individuare nello scostamento di quest’ultimo dai problemi e
dalle domande sociali alimentati nella vita quotidiana.
Infatti «le categorizzazioni su cui si fondano le moderne politiche sociali svolgono una funzione di sterilizzazione delle differenze e di omologazione dei bisogni, assicurandone la gestione nello stesso momento in cui si approssimano l’uguaglianza
dei diritti minimi attraverso una loro rappresentazione standardizzata» [Fazzi, 2003: 19].
Un rispetto delle differenze implica pertanto un cambio di
rotta e una svolta linguistica e comunicativa delle politiche sociali che devono mirare a valorizzare le esperienze e le dimensioni della vita quotidiana, rispondendo ai bisogni cosí come
sono concretamente vissuti, «[…] al di là di ogni oggettivazione delle conoscenze e di ogni rappresentazione predefinita di
cosa sia il bisogno e di quali siano le aspettative ed i progetti di
vita individuali» [Fazzi, ibidem; Young, 1990: 38 sgg.29].
Nel riconoscimento delle varie diversità incorporate il ricercatore sociale non dovrà mai perdere di vista l’espressività, il
desiderio, l’affettività, la sessualità e la dimensione corporea30,
contestualizzando il proprio intervento ed analizzando nel fenomeno le componenti particolari piuttosto che presupporre
generalizzazioni.
Proposte notevoli che vanno in questa direzione, pur attestandosi sui temi della filosofia politica, fondano le riflessioni
critiche di Marion Iris Young [Young, 1990].
250
Young contesta gli atteggiamenti riduzionisti di costruzione
di criteri astratti e aprioristici di giustizia e di categorie sociali,
rielaborando i principali assunti sviluppati da autori postmoderni come Foucault, Derrida, Lyotard, Kristeva, e prestando
particolare attenzione alle rivendicazioni e alle istanze sostenute dai movimenti delle identity politics.
Gli elementi centrali della sua riflessione ruotano intorno all’importanza del «prestare ascolto a un’invocazione», sottolineando il carattere necessariamente responsivo (responsive)
delle politiche sociali, e del riconoscere la specificità dell’appello. «Il tentativo, proprio della nostra tradizione, di trascendere
questa finitezza nell’aspirazione ad una teoria universale non
produce altro che costrutti finiti, i quali eludono il carattere
della contingenza di solito riproponendo il dato sotto le spoglie
del necessario» [Young, 1990: 7-8].
L’ideale universalistico di cittadino ha di fatto determinato
l’esclusione dalla cittadinanza di tutti quei soggetti, i cui bisogni esistenziali, espressivi, ed affettivi mal si coniugavano con il
carattere di astrattezza e di universalità sostenuti dallo Stato.
Rispetto alle minoranze sessuali, si può affermare che lo
«sguardo normativo» dello Stato ha difatti situato le corporeità
secondo un asse estetico che ha legittimato la denigrazione e
l’abiezione di quei corpi (donne, immigrati, omosessuali, ecc.)
che si allontanano dalla norma.
La violenza (dalle aggressioni fisiche, alle molestie, le intimidazioni, le ingiurie, il bullismo) verso gli omosessuali può
essere pertanto interpretata, come suggerisce la Young, come
pratica sociale, sottolineandone il carattere sistemico, perché il
contesto sociale la rende ammissibile e, in certi casi, persino
accettabile: «[…] l’idea di perseguitare o schernire il compagno gay si presenterà a molti studenti “normali” della sua scuola» [Young, 1990: 80].
«[La violenza] è inoltre una pratica che si può quasi considerare legittima, nel senso che è tollerata. Poiché è cosí frequente ed è sempre presente come possibilità all’orizzonte dell’immaginazione collettiva, anche chi vi è estraneo finisce per
assuefarsi alla violenza. E poi, molte volte, chi compie atti di
251
violenza contro gruppi, ammesso che venga preso, riceve pene
lievi o addirittura inesistenti. In questa medesima misura la società rende i loro gesti accettabili» [Young, ibidem].
Il ri-conoscimento dell’omosessualità deve configurarsi non
solo sotto forma di mutato atteggiamento cognitivo, ma anche
come processo di considerazione delle diverse fenomenologie
che essa sottende31 e delle diverse risposte sociali che innesca e
con le quali dialoga, mutandosi e mutandole.
Gran parte della realtà sociale è stata ignorata o sottostimata
o trascurata, lo studio delle sessualità e delle loro forme di
espressività e di esistenza è stato sovente affidato ai campi di
indagine biologico e medico. Le sessualità, tuttavia, non sono
semplicemente espressione di impulsi e dati biologici, ma corrispondono a costruzioni sociali e culturali che necessitano di
analisi: esse sono prodotti della società, regolate, mantenute e
trasformate da processi sociali [Plummer, 2002: 489].
La necessità di esplorare un campo di studio cosí trascurato
pone il problema e l’esigenza anche di dotare la ricerca sociale
degli strumenti analitico-concettuali che meglio possano cogliere le trasformazioni in atto nella sfera delle sessualità umane.
Riconoscere i processi sociali che creano, regolano ed esprimono le omosessualità32 significa, per la ricerca sociale, generare questioni critiche che altrimenti rimarrebbero sopite e pensare al mutamento sociale come processo che ingloba le differenze anziché livellarle.
Tener conto dei processi sociali che negano, controllano e
rendono invisibili tali desideri forse ci porterebbe a riflettere
criticamente sulle strutture sociali e la «stratificazione dei corpi» [Young, 1990], rendendoci consapevoli che i soggetti che
danno vita ai processi sociali non sono omogenei ma plurimi:
«La pluralizzazione dei soggetti coincide con la pluralizzazione
del senso e con la moltiplicazione delle appartenenze nelle società complesse» [Melucci, 1996: 55].
252
IV. Evoluzione del fenomeno mafioso
e «mafie transnazionali»
È interessante riportare dal volume di Federico Varese, The Russian Mafia [Varese, 2001] alcune dichiarazioni che evidenziano ed
esplicitano la natura dell’interazione tra commercianti e il racket
criminale e il tipo di percezione che i primi hanno sviluppato nei
confronti del racket mafioso che offre servizi di protezione estorcendo denaro.
Petr (gran parte dei nomi sono fittizi per garantire l’anonimato dei
rispondenti), un commerciante di 41 anni, proprietario di un negozio nel distretto di Visim (area di Perm ad alta concentrazione
di criminalità anche in relazione alla elevata presenza di esercizi
commerciali), aperto di notte (si vendono beni di vario tipo, tra i
quali anche alcol), manifesta un atteggiamento estremamente positivo nei confronti della mafia, mettendo l’accento sull’efficacia
del crimine organizzato nel recupero della merce rubata:
«Se mi rivolgo alla mafia, in un solo giorno riesco ad avere indietro la mia merce: la persona stessa che mi ha derubato verrà in ginocchio da me, mi restituirà tutto e mi ricompenserà anche per la
perdita di una giornata di lavoro» [Varese, 2001: 111].
Anvar, un altro commerciante, ha una visione simile del racket:
«L’unica organizzazione che è in grado di aiutarmi è il racket. Senza il racket, non sarei in grado di sopravvivere. Io stesso provvedo
a proteggere il negozio durante le ore notturne, ma se il racket
non fosse presente, i miei affari andrebbero in rovina. Grazie a
Dio il racket esiste. Quello che fanno è punire chiunque mi crei
dei problemi. Se indico loro il numero di targa di coloro che mi
hanno creato dei guai, o se ne descrivo la fisionomia, posso essere
certo che queste persone saranno intercettate e punite» [Varese,
2001: 111-112].
253
«Ecco l’osservazione di un fabbricante, fattami circa vent’anni fa,
in risposta ai dubbi sull’efficacia della camorra in riferimento all’impresa: “Signore” fu la risposta “la camorra mi prende x lire al
mese, ma garantisce la sicurezza – lo Stato me ne prende dieci volte tanto, e garantisce niente”» [M. Weber, 1968, I: 195].
«Quando c’è una cosa buona, disse il diavolo, organizzala»
[D. Bell, 1991: 233].
1. Un modello di successo, una «window of opportunity»
Le inchieste giudiziarie delineano un profilo della mafia siciliana in assetto mimetico, totalmente immerso nella clandestinità. Non c’è dubbio che siano stati i successi dell’antimafia a
determinare, almeno per il momento, probabili strategie «sotterranee» piú caute, dirette, in primo luogo, a ripristinare il
«prestigio» e la «reputazione», in una parola, il «marchio di
qualità» di Cosa nostra, intaccato dai successi dello Stato. È
proprio il marchio che scandisce i ritmi di persistenza, di evoluzione o di declino di Cosa nostra. Come, e piú di tutte le industrie, la mafia ha bisogno di pubblicità, ma non può farsela
perché opera illegalmente; nelle diverse fasi si è appoggiata
pertanto a quella che, inopinatamente, le viene offerta dall’esterno. Per molti versi, i fini dei mezzi di informazione, del cinema e dei romanzi popolari sorprendentemente coincidono
con i fini di Cosa nostra, avendo sia gli uni sia l’altra lo scopo
di suscitare l’attenzione, di far colpo, di suscitare terrore, di
creare miti e misteri. L’interazione con il mondo dei mass-media, spesso, aumenta la confusione intorno al fenomeno mafioso e rende ancor piú difficile districare i fatti dalla finzione.
Ogni omicidio che avviene in Sicilia è automaticamente definito dai giornali «un delitto di mafia»; ogni pregiudicato di origine meridionale arrestato è «un boss»; ogni conto corrente sospetto è un veicolo di riciclaggio; ogni vetrina infranta è un’intimidazione a scopi estorsivi. Con le congetture infondate si rischia di favorire involontariamente i mafiosi: anche loro leggono i giornali e guardano la televisione, e li usano in modo stra254
tegico. Forse con l’era dei corleonesi questa commistione tra
esigenze pubblicitarie delle organizzazioni mafiose (una scorciatoia per incrementare forza intimidatrice e reputazione che
intaccava comunque le caratteristiche storiche delle organizzazioni mafiose come quella dell’immersione, della segretezza e
dell’invisibilità) e le esigenze di spettacolarizzazione dei media
e della politica, proprio in Sicilia, si sono intrecciate sino a dar
vita ad un mostruoso ibrido chiamato «visibilità». Da questo
punto di vista sarebbe molto interessante ritornare piú approfonditamente sullo scenario politico mafioso siciliano e sul
ruolo dei media nel decennio trascorso.
Lo storico Salvatore Lupo ha sostenuto che «la mafia un
giorno finirà, ma non per mano della modernità, cui in genere
essa si è adattata benissimo» [Lupo, 2002].
Il calcolo strumentale dell’agire mafioso porta a discernere
tra convenienza e possibilità del controllo monopolistico di
certi mercati illeciti (quello della droga e in certi casi quello dei
tabacchi). È prioritaria, dunque, l’apertura di una window of
opportunity come nel caso del proibizionismo americano. Ecco
perché la fine della stagione delle stragi non significa meccanicamente fine della mafia. Bisognerà ricordare che prima della
truculenta era corleonese, lo stragismo, l’uso sistematico del
delitto erano estranei alle strategie mafiose fortemente collegate
al potere politico istituzionale. Le reti affaristiche entro le quali
prospera il sistema mafioso devono offrire le migliori opportunità. Per questo non esistono settori privilegiati dell’azione della criminalità mafiosa validi una volta per sempre. Sono proprio queste caratteristiche del mercato criminale che legano
tradizione e innovazione e che ciclicamente strutturano l’organizzazione mafiosa all’insegna di un mix di accentramento e decentramento legato alle trasformazioni sociali e alla politica
stessa.
Di ciò aveva chiara consapevolezza Daniel Bell quando, a
proposito della criminalità organizzata, affermava:
«Come cambia la società, cosí cambia, anche se un po’ in ritardo, il suo tipo di delinquenza. Quando la società americana
è diventata piú “organizzata”, quando l’uomo d’affari america255
no è diventato piú “civile” e meno “bucaniere”, altrettanto
hanno fatto le organizzazioni del racket americano. E proprio
come si sono avuti importanti mutamenti nella struttura delle
aziende, cosí si è trasformata anche l’impresa criminale “istituzionalizzata” […] Ma negli ultimi quindici anni il racket industriale non ha offerto molto per quanto per quanto concerne la
possibilità di guadagno. Come lo stesso capitalismo americano,
la malavita ha spostato la sua attenzione dalla produzione al consumo. Al centro dell’attenzione della malavita organizzata si è
posto lo sfruttamento diretto del cittadino in quanto consumatore, soprattutto attraverso il gioco d’azzardo. E, mentre la
protezione di queste enormi entrate era inestricabilmente legata alla politica, il rapporto tra gioco d’azzardo e la malavita organizzata è diventato piú complicato» [Bell, 1991: 174].
Bell coglie un aspetto importante della «criminalità organizzata» quando ne mette in evidenza le relazioni con la politica.
Ma si tratta di una connotazione general-generica e non di natura sistemica come quella della mafia.
«La storia della mafia non è […] solo storia di un fenomeno
criminale, anzi in senso proprio non è storia di un fenomeno
criminale, bensí storia dei rapporti che la società ha stabilito
con il fenomeno criminale e viceversa. Senza questi rapporti il
fenomeno criminale non sarebbe mai stato mafia, e anche oggi
non sarebbe mafia. La storia della mafia è dunque storia dei
rapporti tra la mafia e la società civile, tra la mafia e la politica,
tra la mafia e le pubbliche istituzioni» [Renda, 1997: 13]. Per
questo è necessario mettere a fuoco le differenze profonde tra
il concetto di «criminalità organizzata» e quello di «mafia».
L’analisi dello storico non si ferma qui. Ma procede oltre,
per smitizzare il mito della «piovra», per mostrare la realtà interna della criminalità mafiosa, per farcene vedere le contraddizioni e le possibilità di superamento. L’opera di «smitizzazione» si sviluppa con la messa in discussione radicale dello stesso
lavoro storiografico: è possibile scrivere davvero una storia della mafia? Leonardo Sciascia sosteneva che la scrittura aveva
consumato nell’isola tutti i codici e ogni presa descrittiva, nella
convinzione che sulla Sicilia era impossibile scrivere, e che su
256
di essa si potesse solo riscrivere. Questa impossibilità è riferita
alla saturazione raggiunta dai linguaggi del mito, delle tragiche
pratiche della violenza e dello stragismo mafiosi, del trasformismo politico e della depressione. È vero, tuttavia, che sulla mafia, spesso si riscrive non riuscendo a cogliere le evoluzioni di
una organizzazione complessa col risultato che «l’inadeguatezza degli strumenti si associa oltretutto all’inadeguatezza delle
concettualizzazioni» [Strano, 1995: 24].
Il giudizio dello storico contribuisce, cosí, a riconsiderare il
fenomeno mafioso per mostrarcene gli intrecci, le connessioni
e, al tempo stesso, a individuare le possibilità di contrasto efficace in politiche di tipo sistemico che siano all’altezza della natura stessa di un fenomeno che riesce a mantenere, oltre a persistenze arcaiche rilevanti, anche notevoli innovazioni che derivano da culture organizzative, manageriali, tecnologiche e finanziarie avanzate. Nello stesso tempo l’individuazione delle
radici sistemiche del fenomeno mafioso pone nuovi compiti alle scienze sociali nel contrastare improbabili «mafiologie» basate su categorie general-generiche e atemporali, e pone l’esigenza di «un respiro interdisciplinare nuovo e piú ampio, sia per il
continuo incremento di complessità che il problema stesso evidenzia, ma anche per i profondi cambiamenti che hanno investito le scienze sociali in questi ultimi decenni» [De Leo, 1995:
3]. De Leo si riferisce, nel dettaglio, ai modelli e ai metodi che
derivano dalla sociologia, dalla psicologia dell’organizzazione,
dalla teoria dei sistemi e dai modelli di analisi delle interazioni
comunicative e si riferisce in particolare alle ricerche di M. Depolo, G. Sarcinelli [Depolo, Sarcinelli, 1991], di N. Luhmann
[Luhmann, 1990], M. Von Cranach, R. Harré [Von Cranach,
Harré 1991], G. De Leo, P. Patrizi [De Leo, Patrizi 1992].
Da questo punto di vista, giustamente Antonio La Spina auspica che l’analisi delle organizzazioni mafiose e della loro
«evoluzione» possa giovarsi del contributo della specifica
branca delle scienze sociali che va ricompresa sotto la denominazione di «Teoria dell’organizzazione» [La Spina, 2002]. Ma
gli approfondimenti in questa direzione – sono stati di scarso
rilievo – anche se già alla fine degli anni ’60 il criminologo
257
Cressey, parlava di criminalità organizzata in termini di burocrazia in senso weberiano organizzata, come abbiamo già visto, attorno a tre ruoli chiave specializzati, coinvolti in un processo di
tipo circolare: questi sono il corrupter, il corruptee e l’enforcer.
Gli interrogativi di Renda sono radicali. È possibile – si
chiede – studiare scientificamente una organizzazione complessa come quella mafiosa che fa della segretezza uno dei suoi fondamenti? Una storiografia seria – ma nel complesso tutte le
scienze sociali – devono ammettere che non è possibile scrivere
una storia della mafia che abbia come soggetto narrante i protagonisti del mondo mafioso. Ciò non significa, certamente,
sottovalutare il fatto che la diffusione del fenomeno del pentitismo ha aperto alla ricerca interessanti possibilità di nuove acquisizioni informative e conoscitive sul sistema mafioso. Bisogna, dunque, abbandonare vecchi schemi, antichi pregiudizi
che creano della mafia un’immagine dotata di forza totalizzante, che attinge la sua linfa alle fonti perenni del mito, esaminando le diverse forme di rappresentazione del fenomeno in ambiti territoriali diversi, valutando l’intreccio tra strumenti di comunicazione di massa e manifestazioni concrete del fenomeno
mafioso. Nel caso della Sicilia troppo spesso realtà e rappresentazione si mescolano sino a formare un ibrido – e a potenziare
forme e processi perversi di ibridazione sociale – che, piú che
uno stereotipo, è un elemento di falsificazione della realtà, o, in
ogni caso, una sorta di prisma deformante che impedisce un
accesso conoscitivo non deformato o opacizzato alla realtà. I
media spesso creano, o contribuiscono a creare, immagini, o
rappresentazioni del fenomeno mafioso del tutto fuorvianti o,
colte solo nella loro staticità, nei format piú corrispondenti alla
fiction o a produzioni cinematografiche di tipo hollywoodiano
[Beare, 2000; Lawton, 2002; Albano, 2003; Onofri, 1996; Pezzini, 1997; Costantino, Rinaldi, 2003], piuttosto che alla realtà
del fenomeno mafioso. A scapito della precisione, del rigore,
della profondità, i mezzi di informazione tendono troppo spesso a esagerare, a mitizzare, a far di ogni erba un fascio, associando tra loro fenomeni di natura diversa pur di aumentare il
loro mercato» [Gambetta 1994: XXVIII]. Spesso il linguaggio
258
e i simboli mediatizzati e spettacolarizzati dei media finiscono
con l’essere usati per comunicare e intimidire.
La storiografia piú seria ed avvertita ammette che è necessario ribaltare certi assunti della cosiddetta «mafiologia». ricostruendo e interpretando il fenomeno mafioso anche dal versante del modo in cui esso è inteso e vissuto dalla società. L’analisi diventa necessariamente interdisciplinare proprio nel momento in cui non si danno per scontate una «normalità mafiosa» e una «normalità sociale» di tipo statico, e si riconosce il
peso enorme degli strumenti di comunicazione di massa come
elemento potente di connessione tra le due «normalità» e,
quindi, di mediazione che agisce anche sui processi di regolazione sociale e sulle politiche di contrasto.
Si è parlato a ragione «di una normalità mafiosa complessa,
adattiva che si nutre di infinite emergenze nella ampia fascia di
confine con la normalità sociale», cosí come questa ultima si
alimenta talvolta anche di cultura mafiosa, mentre i mediatori
della comunicazione sociale attingono, influenzano e sono influenzati da entrambe le dimensioni» [De Leo, 1995: 18].
Ciò significa pure dare una risposta in termini di propositi
interdisciplinari di migliore conoscenza del fenomeno mafioso,
come organizzazione complessa, e di migliore efficacia delle
politiche di contrasto alla domanda se la mafia sia oggi in crisi
o se invece non stia attuando strategie di mimetizzazione:
«In sostanza, assumere l’esistenza, oggi, di una reale crisi
della mafia, è probabilmente adeguato, ma ciò non significa
che la mafia per questo sia stata emarginata ed esclusa dal corpo sociale perché questo implicherebbe cadere nell’ingenuità
di ritenere la mafia come un oggetto di studio e di lotta che sta
lí, ferma, incapace di adattamento, di innovazione e riorganizzazione, mentre sono proprio queste le capacità e le risorse che
hanno consentito a questo soggetto criminale di superare crisi e
sconfitte» [De Leo, 1995: ibidem].
È necessario, dunque, superare anche una sorta di arcaismo
metodologico che vede unicamente nel nucleo storico di Cosa
nostra il cuore dell’analisi inteso come struttura invariante del
fenomeno mafioso. A tal proposito sarà utile ricordare l’ultimo
259
intervento pubblico di Giovanni Falcone in occasione di un
convegno tenutosi a Roma nel maggio 1992, a tutt’oggi, ricco
di indicazioni utili anche per le mafie straniere e per le cosiddette mafie transnazionali:
«Il modello criminale mafioso, in quanto connotato da una
particolarissima specificità ambientale, a mio avviso non sarebbe trasportabile in altre realtà […] Posto in questi termini, ci si
accorge subito tuttavia che ci si trova di fronte a un falso problema. In realtà, nel panorama criminale internazionale, le
maggiori organizzazioni, anch’esse depurate delle loro specifiche connotazioni ambientali, presentano caratteristiche non
dissimili da quelle della mafia […] Tale unicità sostanziale del
modello organizzativo nelle piú importanti organizzazioni criminali operanti a livello internazionale, consente di usare per le
stesse il termine “mafia” in un’accezione certamente piú estensiva di quella che è normalmente in senso tecnico il significato
di questa parola, ma in una accezione tuttavia non priva di un
certo rigore scientifico» [Falcone, 1993].
Non basta, dunque, parlare senza specificazioni, di mafia e
di mafie, della mafia come semplice fenomeno criminale, cosí
come è necessario precisare che non ogni criminalità organizzata e mafia tout-court. Ciò che fa la differenza è anche nei modi
di produzione dei codici culturali e sub-culturali, nella capacità, non esclusivamente violenta, della mafia di piegare alle
propria proprie strategie e alla propria strumentazione organizzazione (passata da una modello funzionale elementare ad un
modello funzionale divisionale) modelli di comportamento,
forme di comunicazione, strumenti di comunicazione di massa
e, a giudicare da fatti recenti e meno recenti, persino lo stesso
sentimento religioso, al fine di determinare un ampio e ramificato sistema di rapporti di tolleranza e di collusione nella società. La storia della mafia è, per molti versi, la storia delle relazioni che tengono insieme la criminalità con le varie aree della
società civile, politica, istituzionale e viceversa.
Le reti delle relazioni e delle comunicazioni intraterritoriali
non sono caratterizzate solo dai simboli e dal linguaggio, ma
dai comportamenti di dominio su cui si innestano fatti crimina260
li. Come osserva Giuseppe Casarrubea «il territorio mafioso è
pervaso dalla cultura dell’illegalità in quanto luogo nel quale si
esercita la vessazione e lo strapotere, si negano i diritti di ciascuno, si mantiene una condizione tribale-feudale a fronte di
tutte le conquiste fondamentali dei diritti umani» [Casarrubea,
1996: 131]. Le organizzazioni mafiose riescono a mantenere
contatti con le istituzioni legali «fornendo loro strumenti di autoconservazione (intimidazione dei concorrenti, influenza elettorale, ecc.) e ottenendo in cambio prestigio e reputazione»
[Becchi, 2000: 75]. Le organizzazioni criminali riescono ad acquisire autorevolezza nella società in cui sono inseriti che viene
riconosciuta dalla popolazione locale. Ancor piú dell’organized
crime americano, Cosa nostra siciliana, per potenziare questi
processi di legittimazione del proprio potere, del proprio prestigio e della propria autorità, si avvale di reti di relazioni ampie, variegate e capaci di includere soggetti dotati di potere e di
prestigio nella società legale. «L’estensione e la qualità dei relé
cui è raccordata sono un presupposto cruciale del suo potere»
[Becchi, 2000: 99].
2. «Criminalità organizzata» e «mafia»
Il fenomeno «criminalità organizzata», affermatosi nel Novecento, è stato poco studiato come fenomeno sociale «per motivi che sembrano eminentemente riconducibili alla sua natura,
oltre che per le oggettive difficoltà a rintracciare nel grande corpus delle scienze sociali gli strumenti adeguati» [Becchi, 2000:
9]. Col termine di «criminalità organizzata» vengono definite
negli Stati Uniti alcune forme di criminalità gangsteristica che
violavano la legge proibizionistica. Il riferimento all’organizzazione intendeva sottolineare «la natura e in particolare l’intensità delle relazioni che intercorrevano tra i componenti delle
bande» [Becchi, 2000: 10]. Ma ciò che soprattutto contava in
queste organizzazioni «era la capacità di queste stesse bande di
esercitare un’influenza sulle istituzioni, e prima di tutto sulle
istituzioni locali, avvalendosi sia di collegamenti etnici sia della
261
notevole capacità di corruzione insita nella lucrosità delle attività realizzate» [Becchi, 2000: ibidem]. L’attività delinquenziale
della criminalità organizzata si caratterizza in quanto è orientata a fini di lucro ed è esercitata per trarre reddito non tanto da
crimini redistributivi, quanto piuttosto dalla produzione di beni e servizi illegali.
Daniel Bell cercando di indagare sul fenomeno, e analizzando i risultati della commissione Kefauver, parla di «mito della
mafia». I mafiosi potevano, a suo avviso, intromettersi con la
violenza nel giro delle case da gioco, proprio perché i proprietari di queste case erano assolutamente vulnerabili in quanto
non avevano alcuna «protezione» da parte della legge. Ed ecco
una prima critica alla commissione: non viene fatta distinzione
alcuna tra coloro che gestivano le case da gioco e i gangster e
parla genericamente di criminalità organizzata.
Nell’analisi del concetto, dotato di una latitudine di significato notevolissima, bisogna cogliere delle distinzioni (tra truppe mercenarie ad esempio e criminalità organizzata in senso
formale) e delle relazioni (con la politica, con le istituzioni, con
la stessa azione di contrasto istituzionale)
«Nella definizione di criminalità organizzata come qualcosa
di distinto dal fuori legge cosí come da una criminalità comune, magari contingente od episodica, hanno dunque rilevanza
diversi aspetti: l’esercizio di attività illecite che richiedono
un’organizzazione di una certa complessità, e per la loro lucrosità permettono di realizzarla, la capacità di quell’organizzazione di stabilire connessioni con il mondo esterno, dell’economia, della politica e delle istituzioni; la durata dell’organizzazione e la sua abilità nel riconvertirsi passando da un business
illegale all’altro» [Becchi, 2002: 162].
Secondo Ada Becchi il movimento antialcol fu una delle
modalità di «regolazione dei conflitti interetnici che contrassegnarono la faticosa costruzione di un’identità nazionale» [Becchi, 2002: 163]. Da questo punto di vista non deve meravigliare
l’intreccio tra norme proibizionistiche e criminalità organizzata
«In sostanza, il proibizionismo sembra spiegabile con la necessità per le istituzioni, ed in primo luogo per quella che nell’i262
dentità nazionale trova la sua irrinunciabile legittimazione, il
governo federale, di disporre di un nemico. La sua esistenza
giustifica il richiamo alla coesione tra tutti gli altri. Proibendo
qualcosa, si fornisce al nemico l’occasione per manifestarsi, ma
anche per organizzarsi, fortificarsi. Bisogna perciò disporre di
apparati di contrasto, e la dialettica di delle relazioni di mutuo
vantaggio tra apparati e criminalità si consolida come un processo sostanzialmente irreversibile» [Becchi, 2002: 163].
Le attività di contrasto avrebbero un ruolo di controllo,
un’influenza sull’orientamento del mondo criminale. Becker e
Stigler [Becker e Stigler, 1994], autorevoli esponenti della
scuola di Chicago si sono soffermati ad analizzare le distorsioni delle attività di contrasto. In merito, nelle loro analisi permangono spunti a tutt’oggi interessanti soprattutto relativamente alle loro riflessioni sull’influsso che le politiche di contrasto esercitano sulla criminalità. Non è da escludere che, certe volte questo influsso sia reciproco. È necessario che queste
strategie vengano valutate sui molteplici piani in cui sono implementate (dalla qualità delle forze di polizia, alle specificità
dei fenomeni criminali alle relazioni stesse tra criminalità e
azioni di contrasto). È questo un aspetto importante sulla qualità della valutazione delle politiche pubbliche di contrasto
della criminalità che richiedono sempre piú competenze interdisciplinari.
Becker e Stigler sostengono che va prestata una nuova attenzione all’analisi dei processi di istituzionalizzazione della
criminalità e delle relative «istanze di controllo» (polizia, pubblici ministeri, giudici, strutture penitenziarie. Questo tipo di
analisi, pur avendo vissuto una «inaudita fioritura» grazie alla
prospettiva dell’etichettamento, ha dovuto individuare nuovi
«strumenti teorici e metodologici» per potersi sviluppare, andando oltre la fase delle agenzie di controllo, dovendosi approdare – secondo Becker e Stigler [Becker e Stigler, 1994] –
all’individuazione di un «collegamento sistematico» tra processi di istituzionalizzazione della criminalità e delle «istanze
di controllo».
263
3. Crimine, «prevenzione» e «controllo sociale»
Il concetto di politica criminale appare strettamente connesso all’idea di prevenzione. Ogni teoria del crimine è del resto
anche teoria della prevenzione se si intende per «prevenzione»
«ogni attività individuale o di gruppo, pubblica o privata, tendente ad impedire uno o piú atti criminali» [Bandini et al., Criminologia: 675].
Il concetto di «prevenzione» viene tenuto distinto da quello
di «controllo» che pur avendo molti punti di contatto con esso,
viene utilizzato soprattutto per riferirsi alla reazione sociale che
segue al reato. In realtà se, sulla scorta di Kaiser [V.G. Kaiser,
Kriminologie, Heidelberg, 1997], intendiamo per «controllo
sociale» i meccanismi attraverso i quali la società esercita il proprio dominio sugli uomini che la compongono ottenendo da
questi l’osservanza delle sue norme, ci appare immediatamente
piú chiaro come il controllo sia un concetto piú ampio di quello di prevenzione, sicché il rapporto tra i due, piú che in termini di distinzioni, andrebbe meglio inquadrato in una relazione
di genere e specie o quanto meno, di successione cronologica o
di strumentalità: è l’opera degli strumenti di controllo a determinare di per sé la prevenzione dei comportamenti in contrasto
con le regole sociali, penali o extrapenali. Secondo questa prospettiva, si è allora differenziato tra un controllo sociale attivo,
comprendente l’insieme di quei meccanismi attraverso i quali si
cerca di prevenire i comportamenti indesiderati, e un controllo
sociale passivo, per riferirsi alla reazione nei confronti del comportamento deviante dalle regole sociali che include anche il
«momento preventivo».
Un tale controllo si dirà informale ove sia esercitato nell’ambito di gruppi primari (ad es. la famiglia) o secondari (ad es. la
scuola) il cui scopo principale non è il controllo stesso; oppure
formale qualora provenga da istanze il cui ruolo è invece definito proprio dall’esercizio di un tale controllo (ad es. polizia, magistratura). Il controllo formale, pur muovendosi prevalentemente sulla base di norme formalizzate (ad es, il codice, le leggi
penali e penali-processuali) e traendo da queste norme la pro264
pria qualificazione, è largamente assoggettato anche a regole
informali [Forti, 2002: 107].
James Buchanan [Buchanan, 1960] sostiene che le organizzazioni criminali agiscono in regime di monopolio. Nell’ambito
dell’economia criminale, l’opzione monopolistica è preferibile
rispetto a quella competitiva – propria dell’economia legale –
in quanto il monopolio evita – concentrandola – la riproduzione allargata del crimine.
Se si mira ad una definizione piú chiara del concetto di «criminalità organizzata» vengono fuori analogie tra mercati legali e
illegali. Schelling fa un esempio molto chiaro. Una banda di scassinatori dedita unicamente al furto senza pretese di contrastare o
estromettere gli altri ladri, costituisce un gruppo di «scassinatori
organizzati». Si può parlare invece di «crimine organizzato»
quando una banda comincia a sorvegliare il territorio per impedire invasioni da parte di altre bande, costringe eventuali concorrenti a unirsi per spartire il bottino o a andar via dalla città
[Schelling, 1984: 182-183]. In questo caso si ha una forma di
«spartizione giurisdizionale stabile» [Schelling, 1984: 182].
In Criminology [Sutherland e Cressey, 1996] scrivono:
«La criminalità organizzata, come sistema di comportamento
che si basa sulle leggi di mercato, prospera negli Stati Uniti, perché un vasto numero di cittadini domanda i beni e i servizi illeciti che i criminali mettono in vendita. Come osservava Walter
Lippman alla fine dell’epoca del proibizionismo, la distinzione
fondamentale, negli Stati Uniti, fra criminali comuni e criminali
organizzati sta nel fatto che il criminale comune è interamente
predatorio, mentre la persona che partecipa al reato su base razionale e sistematica offre qualcosa in cambio ai membri rispettabili della società» [Sutherland e Cressey, 1996: 418].
Concentrando gli sforzi, chi offre beni e servizi illeciti 1) taglia i costi, migliora le condizioni di mercato e raccoglie capitali; 2) contiene il monopolio di alcuni servizi illeciti o di tutti i
sevizi illeciti forniti un una data area geografica, sia essa un
quartiere o una grande città; 3) centralizza a livello locale le
procedure per indurre le agenzie incaricate di far rispettare la
legge e di amministrare la giustizia a chiudere un occhio sulle
265
attività illegali; accumula una notevole ricchezza, che può essere utilizzata per monopolizzare sempre piú le attività illecite o
anche quelle lecite.
«[…In America, è la domanda di beni e servizi illeciti che
produce le attività illecite. Queste attività, a loro volta investono parte dei profitti in imprese commerciali legittime o nella
politica. Robert F. Kennedy, quando era Procuratore generale
degli Stati Uniti, fece la seguente affermazione: “Una cosa mi
sembra quanto meno preoccupante – e secondo me è davvero
pericolosa – e cioè il fatto che i grandi uomini d’affari del
racket si intromettano sempre di piú nelle attività legittime”. I
membri di Cosa nostra hanno acquistato e gestito in passato, e
stanno ancora acquistando e gestendo, imprese legittime che
vanno dai Casinò di Las Vegas alle grandi società industriali.
Per di piú, alcuni di loro hanno depositato somme enormi nelle banche svizzere ed attingono a questi frutti del crimine ogni
qualvolta vogliono comprare o corrompere un’altra grossa fetta
d’America. La distinzione fra reati dei colletti bianchi e crimine organizzato sta scomparendo rapidamente» [Sutherland e
Cressey, 1996: 419-420].
Da una prospettiva marxista Pearce [Pearce, 1976] sostiene
che la criminalità lungi dall’essere nemico inconciliabile dello
Stato e una sorta di servitrice. I gruppi mafiosi servono al controllo sociale e a perpetuare delle strutture egemoniche esistenti.
Pearce si riferisce in particolare al ruolo della mafia nel sopprimere i movimenti radicali, ma esempi di rapporti di questo tipo
esistono in Giappone – e, come ha fatto notare Peter Hill, nella
Cina prerivoluzionaria. Vi sono, comunque, esempi di servizi
cruenti resi dai gruppi mafiosi a differenti rami dello Stato. Gli
esempi che piú colpiscono – fa notare Hill – [Hill, 2003: 31]sono quelli in cui i gruppi mafiosi sono cooptati negli apparati di
intelligence. Pearce ricorda i servizi prestati da «Lucky» Luciano alla marina militare americana e all’attività di intelligence nel
porto di New York durante la seconda guerra mondiale.
Per quanto riguarda la relazione tra Stato e gruppi mafiosi
interni ad esso, Hill cita il caso del sistema di tassazione siciliano. Fino al 1984 la riscossione delle imposte in Sicilia era ap266
paltata ad una ditta privata, la quale per circa vent’anni fu gestita dai cugini Salvo (i quali non erano soltanto protetti dai
mafiosi ma, secondo parecchi testimoni, erano essi stessi membri della famiglia di Salemi).
Ai Salvo era legalmente corrisposta una provvigione fino al
dieci per cento in cambio di un servizio svolto in modo efficiente grazie anche al loro potere di persuasione.
«Questo accordo rappresentava un caso singolare di cooperazione di fatto tra Stato italiano e la mafia: da quando la riscossione delle imposte è tornata nelle mani pubbliche, nel 1984,
l’evasione fiscale è cresciuta enormemente» [Gambetta, 1993:
225]. Gambetta arriva a sostenere che «i mafiosi si occupano
dell’ordine pubblico nel loro territorio come se fossero loro i responsabili della pubblica sicurezza» [Gambetta, 1993: 230].
Rispetto alla prospettiva neomarxista, priva di supporti empirici, Hill preferisce far leva sull’argomento che «lo Stato è
uno dei possibili consumatori dei servizi forniti dalla mafia»
[Hill: 2003: 32] anche se la protezione da parte dello Stato di
questi gruppi non è condizione necessaria della loro esistenza o
anche della loro apparente tolleranza. Anche se i giudici e i politici si oppongono alla persistente esistenza delle mafie, è tuttavia possibile che essi possano adottare politiche «quasi-cooperative» [Hill, 2003: 32-33].
4. La mafia e le mafie nell’era della globalizzazione
Lo storico ci dà ancora qualche elemento di riflessione sulla
mafia e sulle mafie dell’era della globalizzazione quando osserva:
«Insomma, per gli affari illeciti, come per quelli leciti, ci sono congiunture positive e congiunture negative. La mafia-Cosa
nostra è sopravvissuta alle alterne vicende di un secolo e mezzo
di storia cogliendo tali occasioni quando erano disponibili e facendo altre scelte quando difettavano. La continuità storica, il
radicamento sul territorio, la forza dei legami interni e la ricchezza delle relazioni esterne rappresentano per essa una risorsa, e non certo un vincolo» [Lupo, 2002].
267
L’invisibilità di Cosa nostra può significare anche ricerca di
nuove opportunità nei mercati globali, e di nuovi spazi nell’ambito della criminalità organizzata transnazionale. Ci sono alcuni
elementi che sostengono questa ipotesi. Un esempio può essere
costituito dallo sviluppo dell’industria dell’ingresso clandestino
(favoreggiamento e tratta) con organizzazioni capaci di penetrare nei mercati diversi con tecnologie sofisticate e di assicurare il
servizio per grandi distanze, anche attraversando frontiere diverse. Gli studiosi che si sono occupati del fenomeno dell’ingresso clandestino hanno sostenuto che il modello delle imprese
dedite a queste attività è in qualche modo vicino a quello dei distretti industriali e che aderisce alla segmentazione del mercato.
Queste organizzazioni non hanno struttura gerarchica e sono caratterizzate da forte mobilità interna anche in ragione dei
rapidi arricchimenti. Ci sono rapporti con la criminalità organizzata (di appalto di subappalto e di scambio di know-how) e
soprattutto si cerca di stabilizzare il servizio, come sta avvenendo sul confine italo-sloveno. Recentissimamente, l’inviato ad
Istanbul di un giornale di grande diffusione [Rumiz, 2002] è
riuscito ad intervistare il boss turco Selim, mercante di nuovi
schiavi.
È interessante, pur in estrema sintesi, riassumere l’intervista
per l’indubbio interesse conoscitivo che essa ha.
Innanzitutto il mercante di uomini si presenta come titolare
di un’azienda. Non è un mercante di morte, piuttosto sostiene
che «in Europa fanno notizia solo gli sbarchi che finiscono male» e non si parla invece della «decine di migliaia che arrivano a
destinazione senza un graffio. Il mio è un lavoro serio». Quindi
il boss turco passa a difendere marchio e reputazione come
un’organizzazione criminale degna di questo nome. Chi sono i
degenerati? «Quelli che per stracciare i prezzi si affidano ad avventurieri, non controllano l’affidabilità dei passeur, comprano
pescherecci che affondano, li fanno guidare a dei pazzi imbottiti di coca che non sanno governare gli sbarchi». All’intervistatore che chiede se la sua è un’impresa di mafia cosí risponde:
«Noi non ammazziamo la gente. Siamo solo organizzati in clan,
senza una cupola unica. Qui anche se ci conosciamo fra noi, re268
stiamo indipendenti». Si sente imprenditore a tutti gli effetti:
«Dò una risposta alla fame di alcuni e al bisogno di manodopera di altri. E poiché l’Europa non offre sponde legali all’immigrazione, ne costruisco di illegali». Il boss sostiene che nell’organizzazione ci sono tra dieci e quindici boss piú grossi di lui.
Il costo piú alto di seimila dollari è quello del trasporto fino in
Inghilterra. La polizia turca conosce tutte le organizzazioni, conosce addirittura ma non interviene non viene infranta alcuna
legge turca e poi «far emigrare la gente non è reato». I rapporti
con la polizia turca sono stati buoni, anche se oggi sembra che
si stia tentando di bloccare il traffico dei clandestini per rendere piú credibile l’ingresso della Turchia. «Ma è una pia illusione
– dice il boss – questa è la porta dell’Asia. Sarebbe come fermare il mare. Gli arrivi dalle zone calde del Sudest si sono fermati. I curdi dall’Iraq, dall’Iran o dall’Afghanistan non passano
quasi piú la frontiera. Invece sono sempre piú ampie le ondate
di africani che in Turchia riescono ad avere il visto d’ingresso.
E da qui il servizio assicura l’ingresso in Europa».
5. Una riconfigurazione interdisciplinare e transnazionale
delle mafie
Al centro della trattazione che segue è la possibile riconfigurazione sociologica del fenomeno delle mafie nella sua dimensione transnazionale con l’obiettivo triplice di: a) definirne le
principali prospettive di analisi, indicando i percorsi metodologici perseguiti; b) indicare i nessi con gli attori sociali che sono
coinvolti nella definizione e nelle dinamiche del crimine organizzato nonché le influenze dei loro interventi; c) contribuire
all’elaborazione di un modello di ricerca integrata che possa
contribuire al superamento di un’analisi monodimensionale e
riduzionista e dell’impasse metodologica qualità/quantità e
porre qualche base per l’uso di modelli di azione analiticamente flessibili che possano incentivare la cooperazione tra teorie,
metodi e tecniche piuttosto che drastiche scelte di campo [Barbera, 2002; Gambetta, 1992; Sciarrone, 1998]. È ovvio che
269
questa riconfigurazione della criminalità organizzata sul piano
scientifico-metodologico e sovranazionale vuole anche contribuire all’elaborazione di piú efficaci politiche di contrasto che
siano in grado di intervenire in contesti transnazionali. Ciò riguarda il problema fondamentale della governance globale.
Del 1990 è il volume della giornalista Claire Sterling, Cosa
non solo nostra. La rete mondiale della mafia siciliana, con una
prefazione di grande interesse di Michele Pantaleone. Nel libro, frutto di quattro anni di ricerche in Europa e nelle due
Americhe, si sosteneva che la mafia siciliana dal dopoguerra alla fine degli anni ’80 era diventata la piú potente organizzazione criminosa su scala mondiale con basi strategiche a Bangkok,
Londra, Monaco, Marsiglia, Caracas, San Paolo, nelle principali città statunitensi dalle quali hanno imposto l’uso dell’eroina e
poi della cocaina su tutti i continenti.
«A partire dal 1957 una piccola organizzazione di criminali
che si presumeva operasse entro i confini di un’isola mediterranea è diventata un “cartello” multinazionale dell’eroina che
opera in tutto il pianeta. Oggi costoro sono anche i trafficanti e
i mediatori di una parte cospicua dell’eroina che si produce nel
mondo. La mafia siciliana, anzi, è l’unica grande organizzazione criminale capace di trasferire in quantità massicce sia l’eroina sia la cocaina al di là di continenti e oceani» [Sterling, 1990:
3]. Solo all’inizio degli anni ’80, secondo Claire Sterling, si cominciarono a scoprire nel mondo tracce della presenza della
mafia siciliana, quando gli «uomini d’onore» siciliani avevano
occupato postazioni strategiche come Bangkok, Londra, Monaco di Baviera e Marsiglia, fino a Montreal, Caracas, San Paolo del Brasile, e circa venticinque città-chiave degli Stati Uniti.
Si erano infiltrati in Europa, Asia, Africa e America. Migliaia di
stranieri lavoravano per loro o con loro in tutto il pianeta: belgi, olandesi, britannici, thailandesi, libanesi, palestinesi, israeliani, turchi, cinesi, nepalesi, brasiliani, canadesi, americani. La
tesi centrale è che la mafia siciliana è la principale responsabile
della diffusione delle droghe a partire dal 1951, e dal 1970 è la
forza organizzata dominante sul piano internazionale. Si potrebbe dire, dunque, che la componente transnazionale della
270
mafia siciliana, sia stata aspetto fondamentale della sua fase di
sviluppo piú importante.
Gli eventi dopo la seconda guerra mondiale, racconta Sterling, «si svolsero come in un complotto satanico» [Sterling,
1990: 98]. Tutto sembrava spingere verso una svolta in peggio
decisiva la mafia siciliana, dalle «distrazioni» e permissività del
Governo militare alleato, alla deportazione di Lucky Luciano in
Italia; dall’atteggiamento accomodante dei politici italiani a quello inquisitorio del Congresso americano. La conferenza del
Grand Hotel des Palmes del 1957 sanciva una mutazione
profonda della mafia siciliana, un sovvertimento «che avrebbe
sparso i mafiosi siciliani in ogni angolo della terra» [Sterling,
1990: ibidem].
In quegli anni il mercato americano dell’eroina era assai modesto e i tossicomani non piú di cinquantamila
La prospettiva analitica della Sterling è fatta propria da uno
dei piú illustri studiosi del fenomeno mafioso come Michele
Pantaleone che nella prefazione al volume (definito «la piú completa cronaca-storia sul fenomeno mafioso pubblicata fin’oggi»),
sostiene che «la mafia non è piú la feroce industria del delitto
circoscritta alla Sicilia occidentale, ma una vera e propria industria di potere, presente ed operante sui due emisferi» [Pantaleone in Sterling, 1990: VII]. Da questo punto di vista è stato
osservato [Lupo e Mangiameli, 1990] che il familismo ritenuto
tipico della società siciliana, come «nucleo normativo e organizzativo che dà alla cosca la sua singolare solidità nei confronti
dell’eterno, venendo a mancare la quale si registra il collasso
dell’organizzazione» [Lupo e Mangiameli, 1990: 37].
La Conferenza mondiale sul crimine organizzato transnazionale, organizzata dalle Nazioni Unite a Napoli nel 1994, ha
posto le basi per mutamenti importanti con la trasformazione
della cooperazione internazionale giudiziaria e di polizia dalle
forme tradizionali basate su accordi intergovernativi, sulla
cooperazione operativa delle polizie, o di accordi bilaterali
formali o informali al fine di avviare indagini congiunte, nelle
forme di strategie e di politiche realmente dotate di respiro
globale.
271
La lotta alla criminalità organizzata transnazionale acquisiva
cosí piú spessore politico sino ad un livello di governance capace di superare l’ambito delle giurisdizioni statali, considerando
l’azione di contrasto alla criminalità come problema da governare attraverso l’adozione di soluzioni collettive e di una policy
adottata dalla maggior parte dei paesi. In questa prospettiva il
problema della lotta alla criminalità organizzata poteva avere
soluzioni adeguate nell’ambito della definizione di una politica
pubblica internazionale la cui responsabilità attenesse non piú
al singolo Stato, per la dimensione che la criminalità ha assunto
e per le conseguenze che hanno le attività criminose, ma all’intero sistema politico globale (Longo, 2002).
Il 17 maggio 1998 nel comunicato emesso a Birmingham,
dai capi di Stato e di governo dei paesi del G8 si individuava,
in sintonia con i processi di globalizzazione, l’intensificarsi della criminalità transnazionale che si estrinseca in molteplici forme: il traffico di sostanze stupefacenti e di armi, il traffico di
esseri umani, l’uso di nuove tecnologie per rubare, frodare ed
evadere la legge e il riciclaggio dei proventi di reato.
«Questi reati – si legge nel comunicato – costituiscono una
minaccia non solo per i cittadini e la comunità stessa, ma anche
una minaccia che mina alle fondamenta la democrazia e l’economia delle società tramite gli investimenti di denaro illecito da
parte dei cartelli internazionali, la corruzione, l’indebolimento
delle istituzioni e la fiducia nello Stato di diritto».
La Convenzione contro la criminalità organizzata del dicembre 2000 al vertice Onu di Palermo, firmata da 121 dei 148
paesi intervenuti, ha approvato pure due protocolli d’intesa
contro la tratta delle persone e il traffico di immigrati clandestini. Il modello di associazione criminale contenuto nella Convenzione prevede la presenza di tre o piú persone che dispongano di una struttura permanente finalizzata al compimento di
delitti particolarmente gravi. Altra iniziativa importante è stata
quella della Commissione europea in materia di tutela degli interessi finanziari della Comunità, con l’adozione del cosiddetto
corpus iuris, un codice penale e di procedura penale che non
contempla, tuttavia, altri reati. ma bisognerà osservare che nel272
l’ambito dei paesi europei non disponiamo ancora di figure di
reato comuni alle diverse legislazioni.
Il procuratore nazionale antimafia, Vigna, ha fatto notare:
«Soltanto il reato di riciclaggio è stato configurato in modo
omogeneo, ma lo stesso non è ancora accaduto ad esempio, per
il delitto di associazione criminale e soprattutto – fatto piú
preoccupante – non abbiamo modelli di prova che siano reciprocamente utilizzabili […] L’obiettivo che occorre porsi, a livello internazionale, è quello di creare fattispecie comuni – tutte legate al fenomeno criminalità organizzata – e mezzi di prova
che possano circolare fra i vari paesi e che siano utilizzabili dalle diverse magistrature» [Vigna, 2001: 199].
Questa nuova impostazione della lotta alla criminalità organizzata transnazionale va certamente nella direzione della formazione di un efficiente sistema di governance globale auspicata da Stiglitz:
«Oggi viviamo un processo di globalizzazione analogo a
quello di un secolo e mezzo fa, ma senza le istituzioni globali in
grado di affrontarne le conseguenze. Possediamo un sistema di
governance globale, ma siamo privi di un governo globale, Ancora peggio, proprio nel momento in cui la necessità di istituzioni internazionali è piú forte che mai, la fiducia in quelle che
esistono […] non è mai stata piú bassa» [Stiglitz, 2001: 5].
Ma è necessario che le scienze sociali diano ancora un ulteriore contributo alla specificazione di ciò che si intende per criminalità transnazionale e alla individuazione delle sue caratteristiche specifiche. In questa direzione vogliono muoversi le considerazioni che seguono.
Questo contributo va inserito nel quadro di alcune ricerche
in corso sul fenomeno mafioso che rappresentano una prosecuzione del lavoro avviato con la realizzazione del un seminario internazionale di Palermo del 1993 sulla mafie tra vecchi e
nuovi paradigmi [cfr. Costantino, Fiandaca 1990 e Costantino
Fiandaca, 1994] e, in particolare, nell’ambito di una ricerca interdisciplinare sulle mafie, in cui gli aspetti di ordine qualitativo e quantitativo si intrecciano strettamente, all’interno di un
contesto, come quello mafioso, in cui la distinzione tendenziale
tra fatti, dati empirici, rappresentazione e interpretazione, si fa
273
anche metodologicamente piú ardua e, quindi, bisognosa di
piú avvertito controllo critico1.
A vent’anni dall’inizio della grande stagione antimafia in Sicilia e a un decennio delle stragi del ’92, di fronte al manifestarsi
di intrecci e connessioni tra le mafie dei diversi paesi che lasciano intravedere le trame polimorfiche di una rete transnazionale
dei traffici illeciti – in relazione non solo ai processi di globalizzazione con i loro «chiaroscuri» [Ceri, 2001], ma anche al finanziamento delle guerre attraverso traffici illeciti (che vanno
dal traffico di droga, armi, persone o qualsiasi bene possa essere
riciclato, al mercato nero e al riciclaggio di denaro), alle grandi
migrazioni internazionali, alla tendenziale diversificazione del
ventaglio delle attività svolte dai diversi sodalizi criminali2
[Massari, 2002] – sembrano ormai maturati i tempi per un rigoroso consuntivo critico da effettuarsi alla stregua di diverse
competenze disciplinari3 e sul piano transnazionale.
Questo lavoro sembra oggi di piú credibile attuazione, in relazione al fatto che il fenomeno empirico della criminalità organizzata transnazionale è entrato nell’agenda di ricerca di molte
discipline sociali, e che cominciano ad affacciarsi allo studio
della criminalità organizzata nuovi approcci in rapporto alla
globalizzazione e alla sicurezza – e fra questi di particolare interesse è quello delle discipline internazionalistiche [Kaldor, 2001;
Armao, 2001 e 2002; Longo, 2002; Monteleone, 2002].
Queste ricerche interdisciplinari possono contribuire in modo efficace a realizzare forme di politiche di contrasto globali.
Per la sociologia, e in particolare per la sociologia del diritto, sembra aprirsi, nel campo dell’analisi dei fenomeni delle
mafie transnazionali, una stagione interessante di verifica pratica e un confronto sul piano gnoseologico, assiologico, conoscitivo ed epistemologico di metodi e tecniche.
Da questo punto di vista si può ben dire che non è per indulgere ad una retorica, ad una metafisica o ad una «filosofia
senza empiria» [Beck, 2001a: 29] della globalizzazione che Ulrich Beck è indotto a parlare della necessità «di rifondare e
fondare concettualmente, empiricamente e organizzativamente
la sociologia come scienza transnazionale della realtà» [Beck,
2001a: 20]. La sociologia può avere un ruolo importante all’in274
terno dello spazio che si è aperto per un «confronto cosmopolitico attorno ai fini, ai valori, ai presupposti e ai percorsi delle
modernità alternative» [Beck, 2001a: 22].
La globalizzazione è un processo pluridimensionale che ha
effetti collaterali diversi. Non c’è soltanto una globalizzazione
economica:
«La globalizzazione è anche una pluralizzazione culturale, la
nuova necessità di sviluppare forme di vita transnazionali. A
questo si aggiunge il fatto che anche nel campo politico abbiamo a che fare con una pluralizzazione di attori, che non ci sono
piú soltanto Stati che agiscono tra di loro intrattenendo relazioni diplomatiche, ma che emerge un gran numero di nuovi attori
transnazionali» [Beck, 2001a: 49; corsivi miei]. E forse in quest’ottica si muove la forma di potere tipica di quella che Zygmunt Bauman definisce «epoca liquido-moderna» [Bauman,
2002] col suo nuovo tipo di potere globale che ha come obiettivo primario «l’abbattimento di tutti i muri che ostacolano il
flusso di nuovi poteri globali fluidi» [Bauman, 2002: XIX].
Anche le mafie, al pari degli Stati-nazione, subiscono la forte
pressione della globalizzazione: «Per riuscire a sopravvivere alla
competizione per le quote del mercato mondiale, entrambi si rifanno alla razionalità economica che spinge a preoccuparsi meno che in passato dell’affinità o etnicità…» [Strange, 1998: 166].
Non costituiscono certamente una novità i rapporti tra le
mafie italiane e la criminalità organizzata di altri paesi. Nel caso
dell’intreccio tra criminalità americana e siciliana, ad esempio,
si può parlare di mafia «siculo americana» (si pensi alla potente
e antica famiglia Cuntrera-Caruana di Siculiana che sviluppava
narcotraffici appunto «siculo-americani») con preciso riferimento al fatto che il fenomeno mafioso si è sviluppato in un costante rapporto tra i due paesi. Per questo non ha senso andare
alla ricerca di primati o di fissare miti originari in Sicilia. Ciò
che si è verificato negli anni piú recenti è l’infittirsi e l’espandersi dei vecchi rapporti e soprattutto la comparsa di nuovi attori del crimine internazionale fino alla creazione di una ragnatela che collega – con modalità organizzative specifiche – il crimine organizzato di molte parti del mondo.
275
«Mentre prima Cosa nostra siciliana e quella americana erano il vertice, per cosí dire, di questa rete, esse non sono piú sole
ad operare. Esiste una mezza dozzina di altre importanti organizzazioni criminali transnazionali, la maggior parte delle quali
collegate a Cosa nostra da accordi informali e interessi in comune. In Italia troviamo le due piú importanti coalizioni criminali,
la ’ndrangheta calabrese e la camorra in Campania. Al di fuori
dell’Italia vi sono contatti e accordi d’affari con la mafia cinese
e i cartelli colombiani della droga. L’espansione dei mercati illegali ha stimolato un’interazione piú ampia e piú frequente fra le
principali gang organizzate. Droghe, armi, immigrati clandestini
passano spesso attraverso le mani di 10-12 differenti operatori
affiliati a varie gang nazionali. Anche lo scambio fra merci illegali è diventato assai frequente giacché questi scambi contribuiscono a nascondere l’origine dei profitti delle autorità statali.
[…] La diplomazia transnazionale fra mafie nazionali è stata
agevolata dalla tendenza verso una maggiore concentrazione e
coordinazione fra i gruppi che formano la yakuza. In base alle
accuratissime stime della polizia giapponese, nel 1992 il sindacato Yamaguchi è riuscito ad annoverare circa il 40% degli affiliati della yakuza e a dominare piú di 1.300 gruppi minori, mentre nel 1980 la sua quota era solo dell’11%. Anche in Italia, la
società criminale sta chiaramente subendo lo stesso processo di
networking e concentrazione. Gruppi criminali di origine siciliana, calabrese, campana e pugliese sembrano aver intessuto
una fitta (e relativamente pacifica) rete di affari illeciti, smercio
di beni, informazioni e fondi» (Strange, 1998: 167-168).
Strange si sofferma pure ad analizzare le ultime arrivate nella
rete globale, e cioè le numerose mafie sviluppatesi nell’ex Unione Sovietica la cui crescita è stata incrementata dallo smantellamento degli apparati di partito e della sicurezza e dalle nuove
opportunità offerte dalla rapida e imprevista transizione all’economia di mercato.
Alessandro Pizzorno tra gli effetti della globalizzazione elenca
anche la «mobilità dell’universo normativo» [Pizzorno, 2002]4.
Queste mobilità unitamente alle nuove modalità di produrre diritto «“market-friendly”, ossia sensibili alla logica degli in276
teressi e dei mercati, assumendo moduli giuridici di tipo pragmatico e flessibile, che contraddicono vistosamente i caratteri
formalistici del sistema giuridico» [Ferrarese, 2002: 7], si prestano a manipolazioni e a margini di discrezionalità che rendono piú permeabile alla criminalità il mondo degli affari transnazionali. Con la mutazione del sistema internazionale verificatasi
dopo il 1989, lo Stato moderno comincia a sperimentare un
terza e originale fase di sviluppo nel processo di monopolizzazione attraverso «una straordinaria rivalutazione della distribuzione privatistica delle chances» [Armao, 2002].
6. La mafia siciliana
La domanda per i servizi offerti da Cosa nostra non proviene solo dalla politica, ma da tre diversi settori che potrebbero
continuare a giovarsi della protezione mafiosa. Il vero nodo
della questione nel lungo periodo, al di là della repressione, è
diminuire le occasioni in cui i cittadini possono sentire la necessità di ricorrere alla protezione mafiosa.
Il primo di questi mercati riguarda l’inefficienza della giustizia civile. Nell’Italia meridionale si riscontra una litigiosità molto elevata e il numero di dispute che finiscono in tribunale è altissimo. Questo è un indicatore indiretto del fatto che la domanda di arbitrato nel Mezzogiorno è molto intensa, cosí intensa, dice, da alimentare ben piú di un unico Stato. Giovanni
Falcone stesso ricordò che l’eccessiva lentezza dei procedimenti civili alimentava il ricorso al mafioso per conciliare le dispute, riscuotere crediti, ecc. Senza interventi rapidi, la domanda
di protezione da parte della gente comune per comporre le
controversie ordinarie rischia di continuare ad alimentare il
mercato della protezione mafiosa.
Occorre aggiungere ancora che, anche qualora la giustizia
civile si sveltisse, rimarrebbero due ostacoli. Il primo è che la litigiosità nel Mezzogiorno non riguarda solo dispute risolvibili
secondo le leggi dello Stato, ma anche faccende private che pur
non necessariamente illegali, non sono regolate dal diritto. (Bu277
scetta arriva ad affermare che se la figlia scappa con il tizio,
non è allo Stato che ci si rivolge, ma al mafioso).
Il secondo problema è che la giustizia civile non potrà mai
superare in velocità l’arbitrato informale del mafioso. «Per vincere questa battaglia – dice Gambetta – lo Stato deve aumentare la sua reputazione in concorrenza con quella della mafia»
[Gambetta 1992: XXIII].
Il secondo mercato per la protezione illegale è costituito
dalla corruzione, in particolar modo da quella connessa alla assegnazione di pubblici appalti. Corruzione e mafia sono fenomeni del tutto diversi, anche se i fragili accordi che corrotti e
collusi stipulano tra di loro possono all’occasione valersi della
protezione mafiosa.
Ne consegue che combattere la corruzione economica e sostenere la libera concorrenza anche nei mercati locali sottrae
domanda potenziale ai servizi mafiosi.
Il terzo mercato della protezione, il piú appetibile e pericoloso, riguarda la protezione dei traffici dei beni illegali, soprattutto i narcotici. I trafficanti di merci illegali sono grandi consumatori di protezione: un criminale derubato o «bidonato»
dai suoi compari non saprebbe a chi rivolgersi per ottenere
«giustizia». L’illegalità esclude questi traffici dalla protezione
dello Stato. Quando non esiste un’industria specializzata a proteggere, i trafficanti cercano di farsi giustizia da sé; ma se ci sono mafiosi disponibili, i delinquenti saranno ineluttabilmente
portati a diventarne clienti.
Il mercato principale per i «servizi» della mafia è da cercare,
dunque, nel capo delle transazioni instabili, in cui la fiducia è
fragile o assente.
Se consideriamo la mafia come «un cartello di “agenzie” di
protezione» (Gambetta 1994: XX), la persistenza del fenomeno
mafioso viene a dipendere da un lato dalla domanda di protezione, cioè dei potenziali clienti dei servizi mafiosi, e dall’altro
dall’offerta, vale a dire dai mafiosi stessi e dalla loro reputazione. Bisogna dunque chiedersi: i mafiosi riusciranno a sopravvivere? Si può dire che neppure dopo l’assassinio di Falcone e di
Borsellino, il sostegno alla mafia nei paesi della Sicilia è stato
completamente eroso.
278
Gambetta insiste sulla reputazione mafiosa come «il marchio
di intimidazione efficace di Cosa nostra»: «La reputazione, il
capitale mafioso piú importante, si fonda su meccanismi sottili
che non si sono ancora compresi a fondo» [Gambetta 1994:
XXVII]. La reputazione è il marchio che scandisce i ritmi di
persistenza, di evoluzione o di declino di Cosa nostra. Parte
della credibilità del marchio di Cosa nostra deriva dall’esterno,
dai media, dal cinema dalla televisione.
«Come e piú di tutte le industrie la mafia ha bisogno di
pubblicità, ma non può farsela perché opera illegalmente; si
appoggia pertanto a quella che, inopinatamente, le viene offerta dall’esterno» [Gambetta 1994: XXVII]. Per molti versi, i fini
dei mezzi di informazione, del cinema e dei romanzi popolari
sorprendentemente coincidono con i fini di Cosa nostra, avendo sia gli uni sia l’altra lo scopo di suscitare l’attenzione, di far
colpo, di suscitare terrore, di creare miti e misteri.
«A scapito della precisione, del rigore, della profondità, i
mezzi di informazione tendono troppo spesso a esagerare, a
mitizzare, a far di ogni erba un fascio, associando tra loro fenomeni di natura diversa pur di aumentare il loro mercato»
[Gambetta 1994: XXVIII]. Spesso il linguaggio e i simboli mediatizzati e spettacolarizzati dei media finiscono con l’essere
usati per comunicare e intimidire.
L’interazione con il mondo dei mass-media aumenta la confusione intorno al fenomeno mafioso e rende ancor piú difficile
districare i fatti dalla finzione. Ogni omicidio che avviene in Sicilia è automaticamente definito dai giornali «un delitto di mafia»; ogni pregiudicato di origine meridionale arrestato è «un
boss»; ogni conto corrente sospetto è un veicolo di riciclaggio;
ogni vetrina infranta è un’intimidazione a scopi estorsivi. Con
le congetture infondate si rischia di favorire involontariamente
i mafiosi: anche loro leggono i giornali e guardano la televisione, e li usano in modo strategico.
La piovra, la grande e fortunata saga mafiologica televisiva
che dal 1984 ha avuto moltissime edizioni, esordisce come fiction che amplifica e dilata la quotidianità informativa televisiva,
giornalistica e cinematografica sul fenomeno mafioso. Lo stru279
mentario è quello classico della fiction: superficialità analitica,
sprigionamento del dato emotivo e dell’immaginazione, spettacolarità drammaturgica, negazione totale della giustizia. E in
questa realtà il fenomeno mafioso come categoria fondamentale dei processi di ibridazione sul piano economico, politico, sociale e culturale, veniva colto proprio negli aspetti piú macroscopicamente spettacolari e totalizzanti. Tutto ciò contribuisce
spesso ad incrementare una sorta di «mitologia» e di «mistica»
mafiose che vengono incanalate dalle organizzazioni criminali
nel rafforzamento della loro reputazione, del loro nome, del loro marchio.
Si può dire che vengono a formarsi circuiti e strategie comunicative interne ed esterne alle cosche tese a potenziare l’immagine dell’organizzazione a potenziarne l’aura misteriosa e carismatica, ad utilizzare «il potere evocativo tipico degli stereotipi
culturali per rafforzare quel senso di appartenenza e di fedeltà
al gruppo che garantisce loro la sopravvivenza» [Armao, 2000:
77]. Non mancano casi di distorsione delle informazioni e delle
comunicazioni al fine di diffondere, sia all’interno sia all’esterno,
sfiducia e sospetto. Sin dall’inizio degli anni ’80, le famiglie appartenenti allo schieramento dei corleonesi hanno fatto un uso
estensivo delle cosiddette affiliazioni «riservate» al fine di nascondere l’identità dei propri uomini alle cosche rivali e proteggersi dalle rivelazioni dei «pentiti». Leonardo Messina nel 1992
dichiarava alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia che i corleonesi avevano creato «una Cosa nostra parallela». L’arresto di Riina, con l’escalation del segreto ha
portato perfino all’abbandono di un elemento centrale del sistema di legittimazione mafioso: l’affiliazione rituale dei novizi.
«Sotto l’egida dei corleonesi Cosa nostra è diventata il regno
della simulazione e della dissimulazione» [Paoli, 2000: 160].
Nel lungo questa prassi può comportare effetti devastanti, come testimoniano le pagine piú recenti della storia di Cosa nostra: la perdita di fiducia e solidarietà fra gli appartenenti alla
cosca, la distruzione di quel sentimento di comune appartenenza, che costituisce un elemento essenziale ed insostituibile per
la sopravvivenza delle famiglie mafiose.
280
Le imprese mafiose, benché non si disponga di documenti
scritti, sono dotate di una sorta di «codice professionale»
[Gambetta 1994, 168] che concernono il reclutamento, la reputazione, l’informazione e i diritti di proprietà [Gambetta
1994, ibidem].
Da questo punto di vista Gambetta può affermare che l’ingrediente fondamentale che le organizzazioni mafiose condividono non è né una struttura centralizzata né un’organizzazione
formale permanente, quanto piuttosto «un’identità commerciale, un’identità di fornitori di protezione “di qualità”» [Gambetta 1994, 224]. La mafia può dunque essere definita come «un
marchio particolare dell’industria della protezione». Diventare
membri della mafia significa firmare un contratto solo con una
famiglia particolare perché non esiste una organizzazione complessiva, al di sopra della famiglia singola, di cui si possa essere
membri, a cui si debba lealtà. Ma a sua volta la famiglia partecipa di quel profittevole marchio insieme ad altre famiglie: chiunque sia autorizzato a operare sotto i suoi auspici trae vantaggio
e dal timore ad esso associato. L’unico vero interesse in comune
che le famiglie hanno consiste nella conservazione e difesa di
questo marchio. I cartelli creatisi nelle varie province siciliane
dopo la seconda guerra mondiale e le norme a essi associate furono introdotti, oltre che per limitare i conflitti e dare stabilità
al settore, per soddisfare meglio quell’interesse: per mantenere
alta la reputazione, per limitare gli ingressi indiscriminati, per
scoraggiare gli impostori che volessero usare il marchio senza
licenza.
Il marchio è protetto dalle imitazioni tra tre principali segni
di identificazione: le origini etniche dei membri, il rito di iniziazione e la denominazione commerciale. I primi due segni sono
stati costanti nel tempo: gli affiliati sono stati invariabilmente siciliani e il rituale è praticamente uguale a quello del XIX secolo.
Per contro, il nome, dato che non è controllabile solo dall’interno, ha conosciuto qualche instabilità (Stiddari, Cursoti, Malpassoti, ecc.). Occorre un riconoscimento reciproco tra le famiglie
circa la legittimità dell’uso del marchio. Gambetta definisce la
mafia come quell’insieme di imprese: a) che operano nell’indu281
stria della protezione sotto un marchio comune; b) che si riconoscono vicendevolmente come legittimi fornitori di protezione mafiosa; e infine; c) che riescono a prevenire l’uso non autorizzato del marchio da parte di imprese «pirata» [Gambetta
1994: 226].
Bisogna ancora aggiungere che segreto e violenza strutturano un vero e proprio sistema normativo, un ordinamento giuridico alternativo a quello statale, in organizzazioni criminali come Cosa nostra e ’ndrangheta. Tramite il segreto le associazioni
mafiose si pongono come «entità autosufficienti» indipendenti
dallo Stato che le ha criminalizzato, diventano delle comunità
giuridiche indipendenti. I codici normativi di Cosa nostra e
’ndrangheta non sono scritti; le norme sostanziali e procedurali
emergono, tuttavia, dai resoconti degli ex adepti che oggi collaborano con la giustizia nonché da fonti esterne risalenti a diversi momenti storici.
7. Problemi di definizione
Il concetto di crimine organizzato, come abbiamo già visto,
è difficile da definire per le proprie caratteristiche di fluidità e
di polisemia, non esiste pertanto consenso intorno al concetto
che assume le dimensioni semantiche delle definizioni politiche,
legislative e applicative della sua entità (manifestazioni). La parola mafia è sinonimo di criminalità organizzata, ma i due concetti, pur avendo molti punti in comune, non coincidono [Pezzino, 1999]. Il crimine assume forma organizzata intervenendo
nei mercati illegali (racket, droga, prostituzione, traffico di armi, traffico di organi umani, traffico di esseri umani, riciclaggio
di denaro sporco, crimine cibernetico e telematico, ecc.).
«Criminalità organizzata», è termine – come ribadito piú
volte – generico, inafferrabile, polimorfico. Come fa osservare
Beare:
«[…] Le discussioni relative al “crimine organizzato” sono
immerse nella politica – dalla creazione dei mercati illegali in
primo luogo, alla dichiarazione della dimensione della “minac282
cia” e alla attivazione di legislazione straordinaria per affrontare il problema. Il vantaggio del “crimine organizzato” è che
può trattarsi di qualunque cosa colui che lo definisce voglia che
sia […]. La mancanza di consenso intorno al termine, l’invisibilità di una gran parte dell’attività, i legami naturali nelle vite del
pubblico per una larga percentuale di ciò che sono beni dipendenti dalla domanda (demand driven commodities), permette la
sensazione di coinvolgimento personale e fascino (a sense of personal relevance and fascination)»5 [M.E. Beare e Naylor, 1999;
corsivo mio].
Gli elementi su cui bisognerebbe riflettere teoricamente per
individuare l’essenza complessa del fenomeno sono: a) l’inafferrabilità di un concetto polimorfico la cui definizione manca
di condivisione all’interno della comunità scientifica (ma non
solo); b) l’impossibilità di definirne la consistenza, la difficoltà
di anticiparne le dinamiche di domanda e offerta6, di interpretarne le mosse; c) le forti connessioni e connivenze con gli apparati statali e le strutture dell’economia capitalistica7; d) una
componente edonistico-spettacolare che affascina e cattura il
pubblico8 e che caratterizza l’indeterminatezza nonché la normalizzazione delle pratiche rappresentative del fenomeno.
Da ciò deriva una forte ambiguità9 determinata non solo dalla «complicità del pubblico attraverso il supporto di vari beni e
servizi illegali» ma anche dal mescolamento di tale complicità
con l’evidenza della reale – o in alcuni casi esagerata – violenza
iniziata da alcuni di questi criminali organizzati per creare un
ambiente ambivalente e vulnerabile alla corruzione (ambivalent
and corruption-vulnerable environment). Questo milieu incoraggia la distorsione e la manipolazione» [Beare e Naylor, 1999].
Nonostante in questa sede non ci si proponga una definizione precisa di «criminalità organizzata» e di «criminalità organizzata transnazionale» (non si può non affrontare il problema
principale di cercare di individuare una definizione di crimine
organizzato che tenga conto dei continui e contemporanei avviluppamenti tra attività criminali e le riforme del libero mercato,
con il fine di poterne verificare e considerare le potenzialità euristiche in contesti sociali a complessità crescente.
283
A tal fine appare utile discutere – vagliando la piú recente
letteratura scientifica sull’argomento – alcune definizioni di crimine organizzato [Longo, 2002; Massari 2002], analizzandone i
principali paradigmi teorici nonché gli apparati metodologici.
Le prime definizioni di crimine organizzato si ebbero intorno agli anni Venti e soltanto nel 1967 che la definizione del
concetto divenne ufficiale attraverso le discussioni di sei famosi
ricercatori10 – ciascuno secondo metodi e prospettive diversi –
riunitisi nella Commissione presidenziale sul crimine organizzato negli Usa. Tra questi Ralph Salerno e Donald Cressey divennero rappresentanti di quella che sarebbe stata conosciuta
come la prospettiva tradizionale o di applicazione della legge
(law enforcement). I lavori della commissione servirono a «solidificare una particolare visione o versione di ciò che il “crimine
organizzato” era in nord America»: la posizione preponderante
rappresentata dagli assunti principali su cui si basavano i lavori
di Cressey [Cressey, 1967] fu ampiamente dibattuta all’interno
della comunità scientifica e degli apparati legislativi. Le caratteristiche del crimine organizzato (la mafia o Cosa nostra) individuate da Cressey ed inclusi nel dibattito furono:
• L’esistenza di un’alleanza a base nazionale di almeno 24 famiglie mafiose fortemente unite che controllano il crimine
organizzato negli Stati Uniti.
• Queste famiglie sono siciliane o discendenti da siciliani.
• Ciascuna famiglia ha una struttura gerarchica – con il numero di livelli determinato dalla complessità e la sofisticatezza
della divisione del lavoro della organizzazione criminale
(Boss; under-boss; lieutenants; soldiers).
• Le famiglie sono collegate a nove commissioni che sorvegliano le loro attività.
• Questa confederazione controlla non solo gli affari legali ma
anche le operazioni illecite.
La posizione di Cressey fu ben presto criticata. Dwight
Smith [1975], Daniel Bell [1962], Joseph Albini [1971, 1988,
1993] e Alan Block [1980] «espressero scetticismo rispetto alla
esistenza di questo gruppo cospirativo fortemente organizzato,
singolare ed estraneo». La teoria del crimine organizzato quale
284
cospirazione – etichettando gli italoamericani e non pregiudicando sistema politico ed operatori di giustizia con accuse di
corruzione – era funzionale alle rappresentazioni di un determinato sistema mediatico [Lawton, 2002] e al law enforcement.
Il paradigma della cospirazione, secondo la Beare, ha messo
in guardia nei confronti dei pericoli derivanti da «profezie che si
autoavverano» nella trattazione e nell’analisi dei fenomeni criminali organizzati: il problema consisterebbe allora nella definizione di crimine organizzato cosí come concepito non solo in
ambito prettamente legislativo bensí secondo le principali rappresentazioni sociali del fenomeno. «La “visione” cosí come raffigurata dai media/cinema, dalla polizia o dai politici diventa ciò
che il crimine organizzato è. Le statistiche della polizia confermano la correttezza di questa visione» [Beare e Naylor, 1999].
Le definizioni del concetto di crimine organizzato varierebbero
pertanto secondo le priorità del definitore [Hill, 2002: 47].
Vagliamo alcune definizioni di crimine organizzato (CO)
per rivelarne i limiti rispetto a quella dell’economista Tom Naylor che tratteremo per ultima.
La Commissione presidenziale sul crimine organizzato
(Pcoc) statunitense si esprimeva nel 1986 nei seguenti termini:
«il problema nel definire il crimine organizzato non deriva dalla parola “crimine”, bensí dalla parola “organizzato”. Mentre la
società riconosce e accetta certe azioni come criminali, non esiste un’accettazione condivisa rispetto a quando un gruppo criminale è organizzato. Il fatto che un’attività criminale organizzata non sia necessariamente crimine organizzato complica il
processo di definizione»11.
Il concetto cambia significato in rapporto al contesto in cui
è utilizzato: un contesto di tipo applicativo, di controllo e/o
contrasto, di law enforcement, tenderà a definire il concetto in
termini di tipo operativo, a differenza delle definizioni date in
contesto legislativo che opteranno per una versione strettamente legale o in contesto teorico e metodologico, d’analisi, che invece si rivolgono alla costruzione di un framework teorico ed
interpretativo. Del resto l’operazione di definizione si fa piú
difficile se consideriamo che CO si riferisce «[…] al crimine in
sé o all’organizzazione che lo perpetra» (Hill, 2002: 46).
285
Lo stesso Sutherland definisce il CO nel termine dei crimini
commessi: insieme ai syndicated crime, egli identifica i professional (project) crime e i white-collar crime che descrive come manifestazioni del medesimo fenomeno (Sutherland, 1937: 209).
Donald Cressey [Cressey, 1969: 319]12 considera il crimine organizzato, individuando tre ruoli chiave specializzati, coinvolti
in un processo che potremmo definire di tipo circolare: questi
sono il corrupter, il corruptee e l’enforcer; le altri componenti individuate quale divisione del lavoro e corruzione sebbene componenti del CO rendono la definizione problematica dal momento che non viene escluso il project crime (il crimine del professionista).
Il crimine organizzato si distinguerebbe dal crimine «normale» per la caratteristica che funzionerebbe come centro di
affari che soddisfa le richieste dei membri del mondo legale
[Hill, 2002: 49]13.
Thomas Schelling [1984: 182] aggiunge che caratteristica
fondamentale del CO oltre al coinvolgimento nei mercati illegali
– cosí come descritto dalla Task Force del 1967 – e gli affari legati alle varie forme di racket14, è «[…] il desiderio di esercitare
controllo governativo (governmental control) sul settore del
mercato illegale. Il CO non si comporta solo come business, ma
come government» [Hill, 2002: 49]. Peter Reuter [1983: XI]
obietta che la tesi del controllo monopolistico di Schelling non è
supportata dalla base empirica, egli fornisce una definizione piú
generale di CO – che arriva però a comprendere organizzazioni
di diversa natura, gruppi terroristici, cosí come culti religiosi –
come «organizzazioni che posseggono caratteri di durata, gerarchia e coinvolgimento in una molteplicità di attività criminali»15
[Reuter, 1983, 175], espressione di una competizione oligopolistica piuttosto che organizzazioni caratterizzate da un forte controllo centrale come le voleva Schelling.
La caratteristica individuata da Schelling – il ruolo di governo (ruolo di controllo) svolto dal CO – sarà approfondita e rielaborata da Gambetta [Gambetta, 1994], che nell’analisi teorica del fenomeno mafioso in Sicilia, vede nell’organizzazione
mafiosa un caso particolare di una specifica impresa economi286
ca, «un’industria che produce, promuove e vende protezione privata» [Gambetta, 1992: VII]16.
L’economista Lupsha [Lupsha, 1997], divide i gradi della
criminalità organizzata in tre fasi, predatoria, parassitaria e simbiotica. Nella fase predatoria la criminalità è essenzialmente
una forma di gangsterismo urbano: essa usa la violenza soprattutto in modo difensivo per eliminare i nemici e per il controllo
del territorio. La successiva fase parassitaria si sviluppa quando
si sviluppa una «interazione corruttiva» [Jamieson, 1997: 462]
con i settori legittimi del potere, e quando l’esistenza di un potere criminale in un determinato territorio coincide con il bisogno di una parte di alcuni centri di potere legali di utilizzare un
servizio illegale. È necessaria una window of opportunity che,
negli Stati Uniti, fu rappresentata dal proibizionismo.
«La fase simbiotica è caratterizzata da un legame di reciproco bisogno tra Stato e criminalità organizzata, cosí che gli organi
dello Stato invece di essere indeboliti dal parassita, dipendono
dal parassita per perpetuarsi. A questo stadio, la popolazione
non è piú difesa dallo Stato perché gli strumenti tipici di controllo, quali le leggi, le forze dell’ordine e la magistratura, sono
stati invasi dalla presenza mafiosa» [Jamieson, 1997: ibid.].
Le principali organizzazioni mafiose in Italia, Cosa nostra, la
camorra e la ’ndrangheta, nelle modalità specifiche conosciute,
hanno attraversato ciascuna di queste fasi «attraverso un costante processo di riequilibrio dei poteri tra legalità e illegalità, e tra
il potere pubblico e il potere privato» [Jamieson, 1997: ibid.].
Jamieson sostiene che negli anni recenti, le organizzazioni
criminali italiane hanno saputo sfruttare le opportunità offerte
dai grandi cambiamenti geopolitici mondiali, dall’internazionalizzazione dei mercati commerciali e finanziari, dalla caduta
delle frontiere e dai progressi tecnologici e scientifici, soprattutto nella sfera della telecomunicazioni. In merito sono molto
interessanti le considerazioni di Jennifer Sands sulla penetrazione da parte dei cartelli colombiani e delle mafie russe nel
territorio spagnolo [Sands, 2002)].
A ciò si deve aggiungere il finanziamento delle guerre per il
tramite del «trasferimento di beni» (traffici illeciti che vanno
287
dal traffico di droga, armi, persone o qualsiasi bene possa essere riciclato, al mercato nero e al riciclaggio di denaro). Si viene
in questo modo «a delineare un nuovo tipo di economia informale influenzata dalla globalizzazione in cui piú facile è per la
criminalità organizzata acquisire un ruolo significativo» [Monteleone e Rossi, 2002].
Il contesto di erosione dell’autorità statale, dovuta anche al
tipo di economia di guerra, ben descritto da Mary Kaldor, che
offre spazi sempre maggiori ad una strutturazione di legami tra
gruppi criminali e autorità politiche. Si vengono a creare «delle
“relazioni simbiotiche” con lo Stato attraverso una “corruzione
istituzionalizzata” che indebolisce sia la legittimazione del potere lecito che la sua autonomia funzionale» [Longo, 2001: 121].
Le «nuove guerre», secondo l’espressione di Kaldor, si muovono in un contesto «si muovono in un contesto di erosione
dell’autonomia dello Stato, e in alcuni casi estremi, in un contesto di disintegrazione d’esso» [Kaldor, 2001. 14]. Esse si svolgono, insomma, in un contesto di erosione del monopolio della
violenza legittima organizzata. Questo monopolio è stato sia
dall’alto con la transnazionalizzazione delle forze militari iniziata con le due guerre mondiali e con l’enorme infittirsi dei rapporti transnazionali nel secondo dopoguerra, sia dal basso attraverso il processo di «privatizzazione».
Si può dire che il termine «criminalità organizzata» costituisca oggi, piú che in passato, una «generalità piú strutturata» indagando la quale è possibile esplicitare le caratteristiche specifiche delle mafie transnazionali e, al tempo stesso, spiegarsi le
modalità specifiche di funzionamento delle mafie nei diversi
paesi d’origine? Forse la fluidità dei processi in corso non può
portarci a considerare la criminalità organizzata tout-court come «il modello tipico ideale della mafie» [Sciarrone, 2002: 76],
è tuttavia chiaro che su scala internazionale si stia definendo un
sistema di nuove opportunità criminali, quella che Alan A.
Block definisce come «un insieme di condizioni collettivamente chiamato «struttura di opportunità» [opportunity structure],
che va dal traffico di materiali nucleari, di stupefacenti, alla criminalità informatica, alla immigrazione clandestina, alla tratta,
288
alla pornografia, alla pedofilia, al riciclaggio di denaro sporco,
al traffico di armi, alla piú sofisticata criminalità finanziaria, e
possiamo ancora aggiungere: pirateria marittima, broker di organi umani, reti di usurai, facilitatori di adozioni illecite, falsificatori di documenti finanziari, killer a contratto, ecc. Tutto ciò
configura, su scala planetaria, una profonda penetrazione delle
pratiche criminali, nell’economia, la finanza, il potere politico.
Jamieson sostiene che negli anni recenti, le organizzazioni
criminali hanno saputo sfruttare le opportunità offerte dai
grandi cambiamenti geopolitici mondiali, dall’internazionalizzazione dei mercati commerciali e finanziari, dalla caduta delle
frontiere e dai progressi tecnologici e scientifici, soprattutto
nella sfera della telecomunicazioni.
A differenza del passato in cui i governanti per combattere
le guerre erano costretti ad aumentare le tasse e il debito, ad
eliminare «sprechi» come il crimine, la corruzione o l’inefficienza, a regolarizzare le forze armate, a sopprimere gli eserciti
privati, le nuove guerre avvengono viceversa in situazioni in cui
le entrate dello Stato diminuiscono per il declino dell’economia
e per la diffusione della criminalità, della corruzione e dell’inefficienza, la legittimità politica tende a scomparire.
C’è una osservazione importante di Jamieson che riteniamo
centrale per la nostra analisi:
«Insieme questi elementi – scrive Jamieson – hanno incoraggiato la progressiva unificazione dei mercati criminali, ora apparentemente regolati in aree di competenza geografiche e settoriali. Questo processo di graduale armonizzazione si è esteso anche in Italia: le recenti indagini giudiziarie indicano che gli accordi internazionali che riguardano le tre organizzazioni principali si fanno ora in comune; si è visto, per esempio, da diverse
operazioni congiunte compiute dalle forze dell’ordine di paesi
europei e americani, che Cosa nostra, la camorra e la ’ndrangheta hanno collaborato per riciclare i soldi dei cartelli colombiani» [Jamieson, 1997: 490].
Peter Hill – nel suo lavoro in corso di pubblicazione sulla
Yakuza giapponese17 – ci fornisce una definizione di CO che
maggiormente si avvicina all’analisi razionale del fenomeno e in
289
particolar modo si riferisce a «[…] strutture che esercitano attività legislative (rule-making), di imposizione fiscale (tax-collecting) nei confronti – ma non esclusivamente – di mercati illegali
in un dato settore economico e/o geografico» [Hill, 2002: 60].
L’autore perviene a tale definizione considerando una lista di
caratteristiche del CO elencate da Lupsha [Lupsha, 1986: 33],
Maltz [Maltz 1985, 24-32) and Abadinsky [Abadinsky, 1994: 6),
da cui derivano, inoltre, otto caratteristiche generali del CO:
1) Corruzione e violenza18: con la corruzione si ottiene l’isolamento dalla sfera del law-enforcement, mentre la violenza serve per esercitare la funzione di rule-making e scoraggiare la
gente a cooperare con la giustizia; piuttosto che l’uso e l’impiego effettivo della violenza, risorsa primaria del CO è la credibile minaccia del suo uso. Gerarchia: alla concezione di una struttura burocratizzata [Cressey, 1969] del CO (cosí come per un
governo o una grande corporazione), si sostituisce l’idea di una
struttura organizzativa composta di legami personali tra gli individui [Ianni, 1972 e 1974] (quasi «bonds of personal allegiance»), che lo fanno assomigliare alla struttura feudale.
2) Disciplina: la gerarchia è mantenuta attraverso un codice
di condotta e delle regolamentazioni; un’analisi comparata delle regole adottate da diverse organizzazioni CO mostrano un
certo grado di similarità [segretezza; obbedienza nei confronti
del proprio capo; rispetto della donna di un altro membro; fedeltà nei confronti dell’organizzazione] [Chu 2000; Gambetta,
1992].
3) Appartenenza e legami esclusivi: divenire membro di
un’organizzazione è limitato a caratteri di tipo etnico, familiare,
a contatti durante la detenzione, alla reputazione stabilita nelle
gang giovanili o nell’attività criminale di strada; nel caso della
yakuza si assiste a veri e propri rituali di iniziazione19.
4) Divisione del lavoro.
5) Continuità.
6) Controllo monopolistico.
7) Partecipazione in imprese criminali multiple.
8) Carattere prevalentemente non-ideologico (nel senso di
non identificazione con particolari gruppi politici)
290
Tali caratteristiche possono essere condensate in cinque fattori-chiave emersi dalla nostra considerazione della recente letteratura scientifica sulle mafie, da non considerarsi come mutuamente esclusivi bensí in forma di combinazione:
1) Aumento di rischio ed insicurezza e della loro percezione e
conseguente crescita della domanda di «protezione»;
2) mancanza di adeguato «controllo» da parte delle autorità
legittime;
3) eccesso di intervento burocratico;
4) esistenza di una domanda di mercato di beni e servizi illegali;
5) carattere flessibile, reticolare e information-oriented dell’organizzazione criminale;
6) carattere corporate dell’organizzazione criminale.
Tali fattori accennati in modo estremamente sintetico che
emergono con grande chiarezza dalle ricerche analizzate, aderiscono al paradigma della protezione e della reputazione elaborato da Diego Gambetta, che sembra mantenere un alto livello
applicativo ed euristico nel passaggio dall’analisi della mafia siciliana alle mafie transnazionali.
Al di là di ogni possibile sopravvalutazione le ricerche analizzate confermano che la griglia analitica di Gambetta nata per
l’analisi della mafia siciliana può contribuire – con tutte le opportune e necessarie valutazioni – a meglio studiare i fenomeni
mafiosi transnazionali e quindi a meglio implementare le policy
di contrasto. Gli studi di Federico Varese, Oriana Bandiera,
Yiu Chu Kong e Peter Hill confermano che i servizi di sostegno
al rispetto forzato dei contratti e, piú in generale, i servizi di
protezione, definiscono il nucleo delle attività della mafia russa,
delle relazioni tra mafia siciliana e riforma agraria, delle Triadi
di Hong Kong e della Yakuza giapponese. La mafia è quindi un
tipo di gruppo criminale organizzato specializzato nell’offerta di
protezione. Da queste ricerche risulta confermata l’analisi gambettiana della mafia come «industria che produce, promuove e
vende protezione privata» [Gambetta, 1994: XXXI]. Questa
analisi può essere generalizzata alle mafie transnazionali? In
questa direzione sembrano muoversi ricerche come quelle dello
studioso americano Lupsha che registra un processo di progres291
siva unificazione dei mercati criminali e di graduale armonizzazione della mafie e di Varese, Bandiera, Hill e Yiu Chu Kong,
pur nei diversi gradi di aggressività e di espansività. Yu Chu
Kong, ad esempio, sostiene che pur avendo avuto le triadi di
Hong Kong un ruolo nel crimine organizzato cinese, «è improbabile che siano i principali organizzatori malavitosi di progetti
criminali internazionali» [Yiu Chu Kong, 2000: 57]20.
E Peter Hill, d’altra parte, fa notare che l’idea della migrazione della yakuza sembra abbastanza inverosimile in quanto
per la criminalità giapponese guadagnarsi da vivere in Giappone è piú semplice che altrove. Sembra, invece, che la ricchezza
del Giappone stia fungendo da richiamo per le cosche criminali dei vicini paesi asiatici.
«Malgrado i formidabili problemi di trasferimento del crimine organizzato, sembra che questo stia avvenendo con le cosche cinesi, vietnamite, iraniane e altre bande le cui attività destano molte preoccupazioni. Ad oggi non esiste una chiara immagine dei rapporti di questi gruppi con le organizzazioni interne della yakuza: in alcuni casi sembrano cooperare, ma non
è affatto chiaro se questa è la norma» [Hill, 2002: 55].
Si può dire che il termine «criminalità organizzata» costituisca oggi, piú che le passato, una «generalità strutturata» indagando la quale è possibile esplicitare le caratteristiche generali
delle mafie transnazionali e, al tempo stesso, spiegarsi le modalità specifiche di funzionamento delle mafie nei diversi paesi d’origine? È chiaro che una risposta positiva a questa domanda implicherebbe la possibilità di una svolta sia sul piano della ricerca
scientifica, sia sul piano della cooperazione internazionale per
l’elaborazione di efficaci politiche transnazionali di contrasto.
Nelle ricerche considerate la mafia è considerata quale una
sorta di «specie» di un «genere», il «crimine organizzato» (in cui
sembrano coesistere le due dimensioni della generalità transnazionale e della specificità territoriale), piú ampio di quello riferito al caso siciliano, che include al suo interno Cosa nostra americana, la Yakuza giapponese, le Triadi di Hong Kong, ecc.
Per «crimine organizzato» si intenderà pertanto un gruppo
che cerca di «governare» il mondo del crimine, cosí come argo292
mentato da Thomas Schelling [«What is the business of organized crime?», Schelling 1984]. Un gruppo criminale organizzato
aspira ad ottenere un «monopolio» sulla produzione e distribuzione di certi «beni» (commodities) nel mondo dell’illegalità
criminale (the underworld). Un gruppo mafioso è un tipo particolare di crimine organizzato che si specializza nella fornitura
di uno specifico bene/servizio.
Gambetta ha identificato la «protezione» come bene specifico «prodotto, promosso e venduto» dalla mafia. Un gruppo finanziario dedito al traffico di stupefacenti (drug syndicate) internalizza i servizi di protezione o li acquista da un gruppo mafioso; ciò può intendersi come una forma di divisione del lavoro.
La mafia non è un fenomeno unitario e omogeneo, piuttosto,
è l’insieme di una varietà di gruppi in un dato contesto. La mafia differisce dal crimine organizzato nel tipo di relazioni che
stabilisce con lo Stato. La mafia e lo Stato sono entrambi agenzie che forniscono protezione. Secondo Schelling, mentre la mafia colpisce «direttamente» la giurisdizione statale, il crimine organizzato non esercita tale azione «diretta». Inoltre, la mafia è
disposta ad offrire protezione sia ad affari/transazioni legali (ma
scarsamente protette dallo Stato) sia a quelle illegali. La mafia
lucra sull’inefficienza dello Stato nel fornire efficienti servizi di
protezione alle transazioni legali: maggiore la confusione e l’ambiguità del sistema legale di un paese, maggiore la debolezza dei
servizi di sicurezza, maggiore l’inefficienza delle corti e del sistema giudiziario, maggiore sarà il successo e la prosperità delle organizzazioni mafiose. Inoltre, la mafia offre quella protezione
che lo Stato rifiuta di fornire e considera illegale. Per esempio,
la mafia protegge gli imprenditori contro potenziali o reali concorrenti e offre la propria forza/violenza per riscuotere debiti
con modalità che lo Stato reputa inaccettabili. La ragione per la
quale certi uomini d’affari/imprenditori/commercianti cadono
nella rete di protettori inaffidabili, «simulatori» di una reale
identità e reputazione criminale mafiosa, di cui godono i benefici senza dover affrontare i costi (ovvero, offrire protezione, con
i rischi che ne derivano), dipende dal fatto che non hanno concordato un «tetto» prima di aprire la loro attività (nel gergo rus293
so il nostro «pizzo» viene tradotto con il termine krysha, ovvero,
«tetto» [Varese, 2001: 97]. Questa è la migliore strategia se si
vuole che i propri affari prosperino: contattare e prendere accordi con un «tetto» di cui si ha fiducia, ottenendo «informazioni» preliminarmente all’avvio del business. Tale strategia va inquadrata nell’ottica della Rational Choice Theory e nei processi
di «riduzione dell’incertezza» da parte dell’imprenditore/commerciante che domanda e acquista protezione e, quindi, della riduzione del rischio di incorrere in criminali che si spacciano per
mafiosi senza averne i «titoli» e, soprattutto, senza dare prova di
onorare il «contratto» stipulato erogando un servizio efficiente
e sicuro di protezione. Gli imprenditori mossi da questo approccio razionale, cercano di localizzare le proprie attività in aree
controllate da gruppi che godono di una buona «reputazione»
nel garantire l’offerta di protezione. È anche possibile negoziare
la protezione di un «tetto» in un’area che è normalmente controllata da un altro «tetto». Questo tipo di negoziazione è essenziale per imprenditori che devono avviare la loro attività in una
particolare area ma che, al tempo stesso, non hanno alcuna ragione per fidarsi del «tetto» che ha titolarità di protezione di
quell’area. Un’altra ragione per la quale gli imprenditori raccolgono informazioni prima di avviare un’attività è legata alla «regola del primo arrivato». Una volta che un criminale si assicura
la protezione di un esercizio commerciale, ha diritto di precedenza sui successivi candidati. La vittima troverà, a questo punto, difficile cambiare «tetto» [Varese 2001: 101].
Piú ampia è la sfera delle attività che lo Stato «definisce» illegali, maggiore sarà la domanda di servizi offerti dalla mafia
violando le leggi, aspetto che la qualifica come un set di organizzazioni operanti in modo illegale e violento. La protezione
offerta dal potere mafioso non è erogata come un «bene pubblico», nel senso che questo termine assume nei moderni Stati
democratici liberali, infatti non vengono riconosciuti i diritti
dei cittadini e, per questo motivo, è improprio definire la mafia
come «uno Stato dentro lo Stato».
I gruppi mafiosi – secondo Varese – operano come «imprese» molto particolari, caratterizzate dall’assenza di norme giuri294
dico-legali che vincolano le normali imprese nell’economia di
mercato. La mafia non riconosce i diritti dei clienti e può liberamente «vittimizzarli» o imporre i propri servizi anche a coloro che non ne hanno fatto alcuna richiesta. Infatti, la protezione mafiosa emerge quasi sempre come forma di estorsione. Infine, la mafia penetra negli ambienti politici e ricorre a forme di
corruzione della polizia e del potere giudiziario a supporto dei
propri interessi, sebbene queste non siano caratteristiche distintive del fenomeno mafioso.
8. Come nasce il mercato della protezione
Il lavoro di Oriana Bandiera La Riforma agraria, il mercato
della protezione e le origini della Mafia siciliana: Teoria e ricerca
empirica [Bandiera, 2002] fa esplicito riferimento, come cornice teorico-interpretativa, al «paradigma dell’azione collettiva»
[Olson, 1983] incentrato, fondamentalmente, sugli assunti della «teoria della scelta razionale» e della «teoria dei giochi» e approda alle seguenti conclusioni:
• ciascun proprietario terriero sceglie «razionalmente» di acquistare protezione anche se questa scelta si rivela sub-ottimale per l’intera classe dei proprietari terrieri, nel senso del
mancato raggiungimento dell’equilibrio ottimo-paretiano
(massimizzazione dei vantaggi/benefici e minimizzazione
dei costi);
• a parità di condizioni (ceteris paribus), i profitti dell’organizzazione criminale mafiosa sono piú elevati dove il territorio
si presenta piú frammentato.
L’argomentazione si basa sul fatto che la protezione implica
«esternalità», nel senso che acquistando protezione ciascun
proprietario terriero dirotta i criminali sulla proprietà altrui.
L’analisi di Oriana Bandiera offre due contributi all’analisi
delle origini della mafia siciliana, innovando e sviluppando la
letteratura esistente sul tema, in particolare gli studi condotti
da Franchetti [Franchetti, 1993] e da Gambetta [1992]; il primo contributo consiste nella costruzione di un quadro teorico295
analitico per l’esame degli effetti della frammentazione terriera
sulla domanda di protezione privata, il secondo, riguarda la ricognizione e l’analisi di dati non ancora esplorati sull’attività
mafiosa in Sicilia alla fine del XIX secolo.
Il framework teorico è strettamente correlato a quello utilizzato da Milhaupt e West [Milhaupt e West, 2000], da Varese
per analizzare rispettivamente la mafia giapponese e russa.
Milhaupt e West sostengono che la Yakuza si è sviluppata
nel Giappone postfeudale sulla base di certe modalità con le
quali la mafia si è sviluppata in Sicilia. Il Giappone, come la Sicilia e la Russia, era caratterizzato da un rilevante incremento
della proprietà privata disgiunto dalle necessarie garanzie pubbliche, di tutela dei diritti di proprietà e di protezione statale
generale. Si tratta proprio – come è del tutto evidente – di quei
fenomeni fondamentali che contribuiscono in modo determinante creare le condizioni iniziale per l’attivazione dei circuiti
criminali operanti come «garanti» della proprietà privata in sostituzione di uno Stato debole e incapace di imporre decisioni
vincolanti in quanto privo di quel monopolio legittimato della
forza in grado di conferire efficacia all’applicazione delle leggi.
Varese, analogamente, dimostra che le origini della mafia
russa sono da collegare alla transizione all’economia capitalistica in un periodo in cui, come in Sicilia, le riforme istituzionali
determinarono la diffusione della proprietà privata senza che
questa fosse sostenuta dalla robustezza istituzionale di uno Stato capace di far valere il rispetto di tali diritti di proprietà, e
creando cosí le premesse per una elevata domanda di protezione privata. Come le ex guardie feudali siciliane, «gabelloti» e
«campieri», molti ex ufficiali del Kgb e molti soldati senza occupazione si trovarono nelle condizioni di rispondere e soddisfare tale domanda, a fronte dell’assenza o dell’inefficienza di
agenzie pubbliche di sicurezza e di protezione.
In sintesi, il diffuso banditismo, l’inadeguatezza dei servizi
di protezione e di sicurezza pubblici e la mancanza di insediamenti permanenti nelle zone rurali, favorirono l’emergere di
una domanda di protezione privata accolta e soddisfatta dalle
guardie armate, precedentemente al servizio dei signori feudali,
296
dotate di competenze e capacità rispondenti alle esigenze di
protezione della nuova classe di proprietari terrieri e con un
grado di autonomia, una volta abrogato il sistema feudale, che
consentiva loro di offrire protezione in un mercato altamente
competitivo caratterizzato dalla concorrenza fra i nuovi proprietari terrieri.
La fonti empiriche utilizzate per questa analisi mostrano che
i servizi forniti alle classi piú elevate conferirono alla mafia uno
status di legittimazione e di potere, usate come risorse per una
carriera indipendente orientata al perseguimento di interessi
autonomi21.
La sezione metodologica della ricerca, – particolarmente interessante anche come punto di riferimento di altri studi – dedicata alla presentazione dei risultati dell’analisi empirica, ruota
attorno la costruzione di un modello analitico formale che testa
il grado di correlazione tra i diversi livelli di frammentazione
della proprietà terriera (basso, medio, alto) e le attività mafiose.
L’elaborazione dei dati si basa su calcoli di tipo probabilistico e
l’applicazione di tecniche di analisi quali la regressione lineare
(sono presi in considerazione documenti storici del 1881 riferiti
ad un campione costituito da 70 città della Sicilia occidentale)
ed ha una cornice teorica modellata sulla «Game theory».
9. La struttura delle Triadi
La struttura delle Triadi non sembra – secondo Yiu Chu
Kong – modellarsi sull’impianto gerarchico, centro-periferia/e,
tipico di altre mafie internazionali, con al vertice un «padrino»
con il compito di dettare regole e ordini dall’alto e di dirigere le
diverse succursali e filiali locali ed estere dell’organizzazione,
piuttosto, la dinamica delle Triadi può essere interpretata piú efficacemente riferendosi ad un modello di tipo reticolare, flessibile, articolato, che accoglie al suo interno la coesistenza di organizzazioni parallele che si muovono seguendo percorsi indipendenti e impegnandosi in attività criminali tipiche e specifiche di
297
ciascuna gang che, nel loro complesso, costituiscono quella
struttura complessa che risponde al nome di Triadi di HK.
Le Triadi, sono in realtà «cartelli» composti da un certo numero di gang indipendenti che adottano la stessa struttura organizzativa e gli stessi rituali per conferire una certa omogeneità e un certo legame di appartenenza al gruppo ai propri
membri. Tali legami hanno prevalentemente una funzione di
natura simbolica, di fatto, sotto il profilo operativo, le Triadi
hanno una struttura «decentrata» e le diverse gang o gruppi
che ne fanno parte si interconnettono e stabiliscono rapporti di
interdipendenza solo a fini strategici in relazione a esigenze
contingenti, temporanee, senza che ciò costituisca la premessa
per la costruzione di una rete di vincoli e di relazioni cooperative di lunga durata.
Piuttosto che rappresentare un colosso del crimine organizzato internazionale, le Triadi di HK sembrano registrare un
progressivo declino con un evidente indebolimento del loro
potere sempre piú accentrato e gestito da gruppi criminali asiatici di nuova formazione operanti con logiche e dinamiche innovative rispetto alla tradizionale mafia cinese.
La nuova mafia cinese è caratterizzata da dinamiche organizzative e da strategie di azione in linea con il funzionamento
dei mercati internazionali e con i tempi imposti dai processi di
globalizzazione. Necessitano di risorse nuove, oltre che di una
ingente disponibilità di capitali finanziari e di liquidità corrente, molte delle quali di tipo «immateriale», quali: «informazione», «reputazione», «expertise» [saper fare, competenze tecnico-professionali, per esempio in ambito informatico o finanziario] capacità di management, capacità di intessere «reti» di relazioni e connessioni in tutto il mondo.
I normali affiliati a una Triade di HK, normalmente, non dispongono di queste risorse e non hanno saputo riadattarsi alle
trasformazioni socioeconomiche dello scenario internazionale,
mostrando scarsa propensione alla «innovazione» con evidenti
ricadute sul successo delle attività e dei progetti criminali gestiti sul piano internazionale che prevedono invece l’impiego di
un cospicuo capitale, di tecniche specialistiche, di estese con298
nessioni di affari e di grandi abilità manageriali e gestionali. I
membri delle Triadi, specializzati nell’esercitare violenza in una
delimitata area territoriale, non hanno né le capacità né le risorse e, di conseguenza, non hanno grandi vantaggi nel dedicarsi a
quel genere di traffici.
Paradossalmente, le Triadi, diventano esse stesse una risorsa
per i criminali internazionali, in particolare per i trafficanti di
eroina che le utilizzano come supporto, come fiancheggiatori,
nella conduzione dei loro affari; gli affaristi internazionali impegnati in operazioni illegali se ne stanno spesso in secondo
piano e impiegano membri delle Triadi o di altre gang solo per
lavori particolarmente rischiosi.
Le Triadi non disponendo di determinate risorse (capitali
finanziari, competenze tecniche specialistiche, ampie e diffuse
connessioni affaristiche, spiccate capacità manageriali, facilità
e velocità di accesso a fonti di informazione, capitale reputazionale, capacità di innovazione, ecc.) non otterrebbero «vantaggi competitivi» investendo in affari illegali a livello internazionale che, se pure altamente redditizi, necessitano di risorse
e condizioni iniziali sempre piú in sintonia con la fisionomia
dei nuovi mercati globali in cui hanno certamente un ruolo ed
un peso nevralgico beni quali informazione e conoscenza, particolarmente rilevanti per quelle nuove organizzazioni criminali che per movimentare i propri profitti, per realizzare buona
parte delle transazioni economiche illecite e per stabilire connessioni con altri «nodi» della «rete» criminale spesso ricorrono all’uso di tecnologie info-telematiche avanzate per le quali
si richiedono un know-how e un expertise che i membri delle
Triadi, quasi tutti con bassi livelli di istruzione, non sono in
grado di sviluppare e di acquisire.
I risultati della nostra analisi confermano quanto sopra già
accennato, e cioè che paradigma della protezione e della reputazione elaborato da Diego Gambetta sembra mantenere un alto livello applicativo ed euristico nel passaggio dall’analisi della
mafia siciliana alle mafie transnazionali e alla nozione di criminalità organizzata come nozione strutturata che può spiegare
generalità e specificità delle singole mafie.
299
Oltre a ciò si può ancora aggiungere – come è stato già notato – che non sembra proprio adeguato sostenere che l’analisi
di Gambetta rimanga legata ad un’impostazione funzionalistica
secondo cui l’evoluzione e la conformazione di un fenomeno
sociale possano essere dedotte dalle funzioni che esso svolge
[Paoli, 2000: 344]. Paoli si sofferma sull’interazione tra «contratti di status» e «contratti di scopo»:
«Con l’ingresso in una famiglia mafiosa, il nuovo membro
non stipula un contratto finalizzato al mero scambio di beni o
prestazioni economiche – come ipotizzano le analisi di impostazione utilitaristica – ma sottoscrive un patto per la vita, quello che Weber definisce un contratto di status» [Paoli, 2000:
346]. Con l’ingresso nella cosca non si verifica, per Paoli, soltanto uno scambio di prestazioni economiche, ma anche un
«contratto di affratellamento» che diventa una sorta di prius
che informerà di sé i contratti specifici di scopo per soddisfare
le esigenze strumentali dei singoli membri.
Ci suono alcuni luoghi weberiani che meriterebbero piú attenzione anche per affrontare le questioni in oggetto.
In Economia e società, nella sezione dedicata a Le categorie
fondamentali dell’agire economico, in un paragrafo intitolato «il
finanziamento dei gruppi politici», Max Weber individua la relazione piú diretta tra l’economia e i gruppi orientati in senso
extraeconomico nel «modo di procurare prestazioni di utilità
per l’agire del gruppo». La «dotazione di prestazioni di utilità
prodotte economicamente», può – secondo Weber – essere ricondotta ad alcuni tipi piú semplici fra i quali il finanziamento
intermittente, che può avvenire sulla base di prestazioni puramente volontarie o sulla base di prestazioni estorte. È sorprendente constatare come Weber – ed è un aspetto spesso ignorato
– leghi la tipologia delle prestazioni estorte alla camorra, alla
mafia, ad altri gruppi simili esistenti in India, in Cina o alle sette
e alle associazioni segrete con «approvvigionamento economico
affine». Queste prestazioni assumono spesso il carattere di «versamento periodico» in cambio di determinate «controprestazioni», e specialmente di garanzie di sicurezza. E in termini di vendita di fiducia di protezione e di sicurezza – come sostituto del300
la fiducia – sembra si sviluppasse la riflessione weberiana sulla
mafia e la camorra come possibile rilevare da una testimonianza
che lo stesso Weber ci fornisce in Economia e società22.
Come ha notato Filippo Barbera, Gambetta descrive la mafia in base alle sue funzioni, ma poi la spiega tramite l’interazione tra interessi, preferenza, credenze ed opportunità individuali [Barbera, 2002]. Come osserva lo stesso Gambetta:
«L’assenza di fiducia non costituisce di per sé una spiegazione sufficiente dello sviluppo della mafia. Se la fiducia scarseggia,
è ragionevole inferire che si produce una piú alta domanda di
protezione […] sostenere che questa domanda trovi una risposta naturale nella mafia o in qualsiasi altro soggetto, è una tesi
piattamente funzionalista. L’assenza di fiducia determina semplicemente una maggiore probabilità che nasca una risposta a
tale domanda, poiché rispondere diventa redditizio […] La mafia può rappresentare una soluzione, benché perversa, al problema della sfiducia, ma certo non l’unica» [Gambetta 1994: 99].
Se consideriamo la mafia come «un cartello di “agenzie” di
protezione» [Gambetta 1994: XX), la persistenza del fenomeno mafioso viene a dipendere da un lato dalla domanda di protezione, cioè dei potenziali clienti dei servizi mafiosi, e dall’altro dall’offerta, vale a dire dai mafiosi stessi e dalla loro reputazione. Bisogna dunque chiedersi: i mafiosi riusciranno a sopravvivere? Si può dire che neppure dopo l’assassinio di Falcone e di Borsellino, il sostegno alla mafia nei paesi della Sicilia è
stato completamente eroso.
Gambetta insiste sulla reputazione mafiosa come «il marchio
di intimidazione piú efficace di Cosa nostra»: «La reputazione,
il capitale mafioso piú importante, si fonda su meccanismi sottili che non si sono ancora compresi a fondo» [Gambetta 1994:
XXVII]. La reputazione è il marchio che scandisce i ritmi di
persistenza, di evoluzione o di declino di Cosa nostra. Parte
della credibilità del marchio «Cosa nostra» deriva dall’esterno,
dai media, dal cinema dalla televisione. La mafia, le mafie hanno rappresentato un vero e proprio «modello di successo»
(Sciarrone, 2000). Negli anni piú recenti si è molto sviluppata la
tesi, confermata da molteplici dati di ricerca, che gli attori so301
ciali sono consapevoli della reputazione (o etichetta) che possono acquisire obbedendo alle norme sociali o trasgredendole, e
perciò le loro azioni sono intenzionalmente orientate ad influenzare il risultato del processo di etichettamento [Emler e
Reicher, 2000]. Si può affermare che spesso la devianza si origina da una scelta coerente che esprime un messaggio chiaro e
comprensibile: come chi opera nella legalità tiene ad apparire
un cittadino che rispetta la legge, l’individuo che si è identificato in un ruolo di deviante vuole mostrare al suo «pubblico»
che non deflette dall’orientamento che ha preso.
Gli adolescenti perseguono differenti progetti reputazionali
la cui realizzazione può avere ripercussioni notevoli sulla qualità del loro agire sociale. Non si possono evidentemente comprendere né le scelte, né le azioni degli adolescenti se non si conosce il contesto sociale in cui essi vivono ed agiscono.
«Come e piú di tutte le industrie la mafia ha bisogno di
pubblicità, ma non può farsela perché opera illegalmente; si
appoggia pertanto a quella che, inopinatamente, le viene offerta dall’esterno» [Gambetta 1994: XXVII]. Per molti versi, i fini
dei mezzi di informazione, del cinema e dei romanzi popolari
sorprendentemente coincidono con i fini di Cosa nostra, avendo sia gli uni sia l’altra lo scopo di suscitare l’attenzione, di far
colpo, di suscitare terrore, di creare miti e misteri.
«A scapito della precisione, del rigore, della profondità, i
mezzi di informazione tendono troppo spesso a esagerare, a
mitizzare, a far di ogni erba un fascio, associando tra loro fenomeni di natura diversa pur di aumentare il loro mercato»
[Gambetta 1993: XXVIII]. Spesso il linguaggio e i simboli mediatizzati e spettacolarizzati dei media finiscono con l’essere
usati per comunicare e intimidire.
L’interazione con il mondo dei mass-media aumenta la confusione intorno al fenomeno mafioso e rende ancor piú difficile
districare i fatti dalla finzione.
Tutto ciò ci fa meglio comprendere come la ricerca sulle
mafie debba puntare sull’interazione, e non sull’alternativa, tra
modelli cognitivo-normativi e strategie di azione razionale.
È lo stesso Gambetta a chiarire le ragioni di questa interazione quando chiarisce che la sua analisi delle proprietà degli
302
attori sociali che trattano reciprocamente con altri sotto determinati vincoli e regole che controllano le loro azioni sono di tipo comportamentale e relazionale [Gambetta, 2000].
Le ragioni di questa interazione si colgono anche nelle esperienze di rivolta contro il racket e la mafia. L’esperienza di Capo d’Orlando esemplifica una reazione razionale antimafiosa
che – armonizzando valori e interessi – fuoriesce dagli schemi
politico-istituzionali tradizionali e si sviluppa sul terreno di una
rivolta etica che assume connotati inediti. I commercianti e gli
imprenditori orlandini minacciati dall’estorsione mafiosa, piuttosto che accettare la protezione imposta dalla stessa mafia, sono riusciti a sviluppare forme cooperative di autotutela e reti fiduciarie orientate secondo quella specifica etica che dovrebbe
presiedere allo svolgimento dei loro affari. In questo modo, essi
hanno spontaneamente reagito e si sono mobilitati per la difesa
non di regole morali generali e astratte, bensí strettamente funzionali ai loro interessi economici.
10. «Ordinamento giuridico» e mafia
«Das Kleinliche ist alles weggeronnen,
Nur Meer und Erde haben hier Gewicht»23.
J.W. Goethe
Queste rapide osservazioni sulle origini della mafia siciliana
e di quelle internazionali non possono non far riferimento, pur
rapidamente, all’aspetto giuridico-istituzionale al quale – come
si è visto – sono molto sensibili Becker e Stigler [Becker e Stigler, 1994] e – come vedremo successivamente – anche Williams, McShane e Gambetta. In particolare non si può sfuggire
alla domanda su come il diritto si è storicamente rapportato al
fenomeno mafioso. Mi sono occupato di questo aspetto particolare dell’analisi interdisciplinare della criminalità mafiosa con
alcune considerazioni sintetizzate in un titolo, per molti versi
«audace»: Mafia, diritto e morale: un caso siciliano [in Costantino, 1994]. Naturalmente, quell’intento non aveva nulla, per co303
sí dire, di «criminalizzante», ma intendeva semplicemente offrire qualche spunto di riflessione sulle diverse configurazioni storiche assunte dal rapporto tra diritto e morale e, nel caso specifico, nella dottrina di Santi Romano e di Carl Schmitt, ma anche di gettare al tempo stesso qualche luce sull’evoluzione storica di questo rapporto in un volume dal titolo: Sfere di legittimità e processi di legittimazione. Weber, Schmitt, Luhmann, Habermas. Se si riprendono in questa sede quelle questioni, e in
particolare quella relativa al rapporto tra diritto e morale, è
perché esse mi sembrano, nei loro aspetti piú generali, essere
diventate piú mature, se si può dire cosí, piú urgenti e piú centrali in tutte le scienze soprattutto nella società complesse che
sono state definite come «società entropiche».
È certamente rilevante quanto osserva Salvatore Lupo: «Non
è vero che la società siciliana abbia in ogni tempo steso sul fenomeno una cortina di silenzio: con esclusione forse degli anni ’50
di questo secolo, in Sicilia di mafia si parla sempre ad abundantiam, e quella di mafioso o di protettore di mafiosi è la qualifica
che tutti (mafiosi compresi) attribuiscono ai concorrenti, agli avversari politici, ai vari esponenti della pubblica autorità)» [Lupo, 1993: 10]. È un dato inconfutabile, tuttavia, che, per piú di
un secolo, la mafia, come fattispecie giuridica non sia esistita.
È solo dal 1982 con la legge Rognoni-La Torre, varata dopo
sanguinose stragi, che si avrà una normativa antimafia. In ambito
giuridico, ad altissimo livello, un giurista insigne come Santi Romano aveva riflettuto sul fenomeno mafioso con categorie moderne, che oggi diremmo anche di sociologia dell’organizzazione.
Le sue analisi sono, dunque, anche se da «situare» storicamente,
di grande interesse in un momento in cui si cerca di definire non
solo la «criminalità organizzata», e quelle che astrattamente sono
chiamate mafie «transnazionali», ma si delineano in diversi Stati
fenomeni di diffusione della criminalità che ricalcano non poche
modalità organizzative e di sviluppo della mafia siciliana.
Da questo punto di vista, proprio alla grande capacità di
Romano di mettere a confronto diritto e società doveva riferirsi
Niklas Luhmann quando lo cita esplicitamente come uno dei
primi sociologi del diritto.
304
Un’ulteriore sollecitazione ad approfondire la concezione di
Romano mi era venuta dal libro di Gambetta su La mafia siciliana [Gambetta, 2002] e dalla lettura di alcune pagine weberiane.
In Economia e società, nella sezione dedicata alle categorie
fondamentali dell’agire economico, in un paragrafo intitolato il
«finanziamento dei gruppi politici», Max Weber individua la
relazione piú diretta tra l’economia e i gruppi orientati in senso
extraeconomico nel «modo di procurare prestazioni di utilità
per l’agire del gruppo».
La «dotazione di prestazioni di utilità prodotte economicamente», può – secondo Weber – essere ricondotta ad alcuni tipi piú semplici fra i quali il finanziamento intermittente, che
può avvenire sulla base di prestazioni puramente volontarie o
sulla base di prestazioni estorte. È sorprendente constatare come Weber colleghi la tipologia delle prestazioni estorte alla camorra, alla mafia, ad altri gruppi simili esistenti in India, in Cina o alle sette e alle associazioni segrete con «approvvigionamento economico affine». Queste prestazioni assumono spesso
il carattere di «versamento periodico» in cambio di determinate «controprestazioni», e specialmente di garanzie di sicurezza.
Meno noto, se non ignorato, è un accenno, en passant, che Weber fa alla criminalità economica in termini di vendita di fiducia, di protezione e di sicurezza come sostituto della fiducia. Si
tratta di un semplice accenno dal quale non si può ricavare una
teoria compiuta ma che tuttavia rivela una felice intuizione che
solo recentemente è stata sviluppata da Diego Gambetta. Il
brano di Economia e società – già citato prima – è il seguente:
«Ecco l’osservazione di un fabbricante, fattami circa vent’anni
fa – in risposta ai dubbi sull’efficacia della camorra in riferimento
all’impresa: “Signore” fu la risposta “la camorra mi prende x lire
al mese, ma garantisce la sicurezza – lo Stato me ne prende dieci
volte tanto, e garantisce niente”» [Weber, 1968, I: 195].
Come è noto Diego Gambetta ha sviluppato una teoria di
grande interesse secondo la quale la mafia è un’industria che
«produce, promuove e vende protezione privata» [Gambetta,
1992]. Anche l’assonanza dell’interpretazione di Gambetta con
la pagina weberiana, rafforzò la mia analisi del fenomeno ma305
fioso su un dato essenziale: l’offerta di protezione, nella varietà
delle sue tipologie, pratiche e livelli di rilevanza, costituisce il
punto di riferimento primario per riflettere scientificamente
sulla genesi, sulla struttura e sulle dinamiche evolutive del fenomeno mafioso.
Il «paradigma» di Gambetta, se cosí lo possiamo definire, si
poneva come dirimente rispetto a definizioni vaghe come «la
mafia come metodo», «la mafia imprenditrice», «la mafia politica», «circuito potere-profitto», che non aiutavano a distinguere il fenomeno da molti altri, non riflettendone l’identità e facendoci capire i comportamenti reali dei mafiosi.
Definire la mafia come impresa, ad esempio, con una vaga
generalizzazione, significa aver accettato due ipotesi: per la prima la mafia è un’organizzazione complessa che agisce nell’ambito delle attività economiche illegali; per la seconda, l’obiettivo della mafia è la massimizzazione del profitto derivante dalle
attività illegali. Giustamente ha fatto osservare l’economista
Guido M. Rey che nell’ambito della definizione della «mafia
come impresa» ci si muove in un contesto meramente ipotetico
tutto da qualificare e verificare, ed è ben strano l’atteggiamento
di quanti ritengono di essere già arrivati alle conclusioni.
Alcuni dei rilievi critici mossi allora a Gambetta mi sembrava non tenessero conto a sufficienza dell’esigenza di confrontarsi con modelli esplicativi ben delimitati e selettivi della struttura della delle organizzazioni mafiose. C’è spesso alla base della critica o del rifiuto del modello della protezione una sorta di
pregiudizio descrittivo-cumulativo della mafia che, piú o meno
consapevolmente, deriva da quattro ostacoli fondamentali:
emotività, incertezza fattuale, interessi dei mezzi di informazione, mancanza di solidi riferimenti teorici.
Dal punto di vista giuridico, come vedremo, una attenta descrizione e tipizzazione della mafia forní il giurista Santi Romano. Il suo punto di partenza è la registrazione della potenza
dell’organizzazione mafiosa, tanto da ritagliarle un ruolo pari a
quello di ben altre organizzazioni – come la Chiesa – all’interno
dell’ordinamento giuridico e dello Stato. Al di là di ogni considerazione di merito, non si può non considerare la portata e
306
l’effetto di una operazione giuridico-sociologica di questo tipo
in relazione soprattutto al fatto che L’ordinamento giuridico di
Romano non restò semplicemente nelle mani dei suoi allievi,
ma contribuí, come rileva Gambetta, alla formazione di intere
generazioni di giuristi, di avvocati, produsse, se cosí si può dire, ideologie e culture giuridiche, ebbe accesso e credito in ambito europeo contribuí alla fondazione dello stesso Jus publicum Europaeum.
È proprio in questo ambito che prende corpo la teoria di
Carl Schmitt dello Stato come sfera della ricerca del possibile
vincitore e della forza. Per Schmitt, anzi, lo Stato costituisce la
sua specifica politicità come espressione sistematica di sovranità
e di unità. Dalla visione dello Stato come unità, anzi come unità
decisiva, deriva l’identificazione del suo carattere politico. Le
teorie pluralistiche che pongono lo Stato come «associazione
politica», senza differenze sostanziali, accanto ad altre associazioni – Schmitt pensa soprattutto alla dottrina di Harold J. Laski, ma, come abbiamo già visto, non gli era certamente estranea
la teoria del pluralismo di Santi Romano, – non sanno rendere
conto del contenuto specifico del «politico» [Schmitt, 1972: 127].
«In verità – scrive Schmitt – non esiste nessuna “società” o
“associazione politica”, ma solo un’unità politica, una “comunità” politica. La possibilità reale del raggruppamento di amico
e nemico è sufficiente a costituire, al di sopra del semplice dato
associativo sociale, un’unità decisiva che è qualcosa di specificamente diverso e insieme di decisivo nei confronti delle altre
associazioni. Se questa unità viene meno anche come eventualità, allora vien meno anche il “politico” stesso. Solo finché non
viene riconosciuta ed esaminata a fondo l’essenza del “politico”
è possibile pensare in termini pluralistici ad una “associazione”
politica accanto ad una religiosa, culturale, economica o di altro tipo, e configurabile in concorrenza con queste ultime»
[Schmitt, 1972: 128].
Il centro di riferimento costituito dalla teologia viene abbandonato in quanto «campo di lotta» e viene ricercato un
nuovo terreno neutrale. Non poche perplessità permangono,
tuttavia, sul fatto che, nella teoria schmittiana ci si trovi davve307
ro di fronte ad un radicale abbandono della teologia o se invece essa non ricompaia, in versione aggiornata, sotto la scorza
dura del pouvoir neutre e dello Stato neutrale che, sempre secondo Schmitt, avrebbero il compito di portare a compimento
un capitolo di teologia politica nel quale il processo di neutralizzazione realizza le sue formule classiche raggiungendo un
punto decisivo, il potere politico
La formalizzazione diventa in questo modo funzione della
neutralizzazione. Ne deriva una concezione forte del «positivismo giuridico» che conquista l’egemonia, imponendosi come
teoria universale che lega il concetto di Stato di diritto al «sistema di legalità statale funzionante in modo calcolabile senza riguardo a contenuti di fini di verità e di giustizia» [Schmitt,
1972: 128].
A questo egemonia – fondata prevalentemente sulla rimozione-dissoluzione di ogni rapporto tra diritto e morale – pur
da versanti e prospettive diversi, è possibile collegare anche la
dottrina di Santi Romano dell’ordinamento giuridico che, come
vedremo piú avanti, arriva a collocare nella categoria del diritto
«originario» le associazioni di tipo mafioso24.
Per quanto riguarda la dottrina generale qui analizzata, Schmitt
cita un passo particolarmente significativo de L’ordinamento
giuridico:
«In altri termini, l’ordinamento giuridico, cosí comprensivamente inteso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere, le norme medesime, che cosí rappresentano piuttosto
l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura» [Romano, 1977: 15-16].
La metafora delle pedine nello scacchiere riferita alle norme
ben corrisponde alla teoria dello Stato come machina machinarum e a una formalizzazione del diritto come congelamento
della legittimità nella legalità. In verità nella scacchiera schmittiana ogni mossa sembra predeterminata e prefigurare l’imminente, inevitabile scacco del giocatore che non sappia che le regole possono saltare allo stesso modo in cui la legge può servire
per fini e contenuti del tutto disparati e contrapposti.
308
E nella categoria del diritto «originario» collocò Santi Romano le associazioni di tipo mafioso. E la sostanza mitica, e la
potenza della loro struttura organizzativa, riaffiora anche da un
realismo giuridico teso a rispondere alla crisi dello Stato dell’inizio del secolo:
«La illiceità di esse non vale e non può valere se non di
fronte all’ordinamento statuale, che potrà perseguirle in tutti i
modi di cui dispone e quindi determinarne anche la fine, con
tutte le conseguenze, anche penali, che rientrano nella sua potestà. ma finché esse vivono, ciò vuol dire che sono costituite,
hanno un’organizzazione interna e un ordinamento che, considerato in sé e per sé, non può non qualificarsi giuridico. L’efficacia di tale ordinamento sarà quella che sarà: sarà infatti debole se forte sarà lo Stato; potrà talvolta essere anche cosí potente
da minare l’esistenza dello Stato medesimo; ma ciò non ha alcuna importanza per la valutazione giuridica dell’ordinamento» [Romano, 1977: 122-123].
È un brano di grande interesse e realismo che sembra schizzare, con grandiosa sintesi, la storia e l’evoluzione dei rapporti
tra mafia e Stato. Ma quel «sarà quel che sarà», riferito – con
approccio generalizzante – anche alle associazioni di tipo mafioso getta un’ombra, piú che chiarire, il rapporto legalità-legittimità che Romano poneva al centro della sua teoria dello Stato.
Queste associazioni, per Romano, – in un brano citato anche da Gambetta – hanno struttura organizzativa quasi analoga,
in piccolo, a quella dello Stato, un proprio ordine, autorità legislative ed esecutive, tribunali che dirimono controversie e puniscono, agenti che eseguono le punizioni, statuti simili alle leggi
dello Stato. Per Romano ogni forza che «sia effettivamente sociale» e abbia un’organizzazione, si trasforma per ciò stesso
tout court in diritto.
Il diritto legittimo non ha voce in capitolo nello stabilire la
liceità di siffatte associazioni in quanto non compete al diritto
positivo stabilire la «delittuosità e l’immoralità» di queste associazioni. La valutazione di merito viene trasferita da Romano
coerentemente con una dottrina allora prevalente – sul piano
309
etico-morale come sfera del tutto indipendente dalla valutazione giuridica.
In questo modo Romano non opera tanto una separazione
tra diritto morale, questione controversa e assai discussa, ma
sembra di fatto legittimare, ne fosse consapevole o meno, una
sorta di struttura tipico-ideale dell’ordinamento o della «associazione a delinquere» dotata di struttura organizzativa, di propri
statuti, e di una propria capacità diffusiva nella società. È probabile che Romano non si rendesse conto della reale portata di
questo paradigma – che accomuna Chiesa e organizzazione criminale nella sfera degli ordinamenti giuridici – e che lo inserisse
in uno schema teso a rimuovere il potenziale di crisi dello Stato
moderno intendendo sprigionare soprattutto uno spirito di trattativa con ordinamenti diversi che ne allentasse la debolezza.
Non si può non rilevare – va detto problematicamente – come dall’analisi giuridica di Romano siano derivate nel tempo
certe impostazioni e soprattutto pratiche giuridiche nell’analisi
del fenomeno mafioso. Il realismo giuridico della costruzione
di Romano si inserisce obiettivamente nel processo di costruzione del sostrato mitico del potere mafioso.
Anche da questa sorta di realismo giuridico radicale deriva
una certa interpretazione dell’autonomia del sistema giuridico,
e traggono origine concezioni e culture attive che informeranno di sé comportamenti non solo nel mondo della giurisprudenza, delle professioni ma anche nella società e nella politica.
Queste pratiche naturalmente che hanno piegato strumentalmente la sostanza teorica della concezione di Romano – contribuiranno a creare aree di agnosticismo, di indifferenza, di annacquamento del fenomeno mafioso, di modi di intendere la
legalità. In una parola, si sono oggettivamente inserite nel processo di tessitura della trama subculturale mafiosa.
Non si può sicuramente affermare quanto sia sufficientemente storicizzata la posizione di Gambetta quando afferma
che, dopo la seconda guerra mondiale, il realismo di Romano
venga utilizzato nella direzione della negoziazione e della trattativa con la mafia, piuttosto che in quella del suo deciso contrasto e che negli anni ’80 il giudice Carnevale farà ancora riferimento al paradigma di Santi Romano.
310
Certo è che la posizione di Romano ha contato, e non solo
sul piano giuridico. Al di là di inopportune generalizzazioni, la
concezione dell’ordinamento giuridico e la dottrina del pluralismo ha, in qualche modo, contribuito ad alimentare quel fenomeno di legittimazione del comportamento mafioso come se si
trattasse di un qualsiasi altro comportamento, di una manifestazione culturale consolidatasi nel tempo, mescolatasi con tradizioni, culture, visioni del mondo e della vita da razionalizzare
e istituzionalizzare.
La pratica della resistenza legittima, il sacrificio di tanti lavoratori, le iniziative di Danilo Dolci e, in particolare il contributo di uomini di legge come Falcone, Borsellino ha dimostrato che i percorsi giuridicamente istituzionalizzati della giustificazione possono aprirsi all’argomentazione e alla valutazione
morale e che l’ordinamento giuridico è realmente autonomo
solo quando le procedure istituzionalizzate della legislazione e
della giurisdizione garantiscono un’imparziale formazione del
giudizio e della volontà, facendo cosí penetrare nella politica
non meno che nel diritto una razionalità procedurale che spesso è anche di tipo morale25.
Solo in questo modo alle crepe aperte nell’organizzazione
mafiosa – un’organizzazione vecchia che non teme la modernità come afferma Lupo – potrà realmente seguire il crollo
mettendo fine al mito e ad una formidabile continuità storica.
11. L’analisi istituzionalista, la ricerca, l’azione di contrasto
Dopo aver preso in considerazione alcune delle piú rilevanti
interpretazioni (in cui la teoria è supportata dalla ricerca empirica) della genesi e sviluppo delle mafie, è opportuno, ora, al fine di completare un quadro che possa davvero consentire di fare qualche passo in avanti nella prospettiva interdisciplinare di
ricerca sulle mafie e sulla criminalità, confrontarsi con l’approccio di Milhaupt e West. La loro ricerca teorica ed empirica
si colloca nel solco della letteratura economica di taglio neoistituzionalista e presenta, appunto, un’analisi empirica estensiva che mostra come le strutture e le attività delle organizzazioni
311
criminali siano significativamente modellate dallo Stato. Il crimine organizzato rappresenta, secondo questa prospettiva, il
lato oscuro del potere privato, una risposta «imprenditoriale» alle inefficienze del sistema di tutela dei diritti di proprietà, una
struttura di «garanzie» fornita dallo Stato.
Al fine di essere efficiente, il potere privato richiede la partecipazione di «intermediari» che dispongono di informazioni,
tempo e abilità/competenze. Negli Stati Uniti, questa funzione
è tipicamente assolta dal ceto degli avvocati o da altre organizzazioni professionali che agiscono da «meccanismi di riduzione
dei costi di transazione» [Ferrarese, 2002; Pizzorno, 200;
Strange, 1998].
Tuttavia, quando tra diritti di proprietà e le istituzioni che
ne garantiscono il rispetto si verifica un’asimmetria, un dislivello, questi agenti possono emergere dalle strutture inefficienti e
operare fuori dai confini tracciati dalle norme giuridiche e sociali condivise [De Soto, 2001].
Questi «imprenditori illegali», dunque, rappresentano dei
sostituti dei servizi pubblici forniti dallo Stato, agendo come
«garanti» alternativi dei diritti di proprietà.
Per Milhaupt e West l’esperienza giapponese offre significativamente una rappresentazione del crimine organizzato analoga alle esperienze della realtà siciliana e russa, nonostante la diversità dei contesti di riferimento.
I risultati dell’analisi dei dati, sviluppata con il metodo della
regressione multipla, confermano l’interpretazione del fenomeno studiato, mostrando che i membri del crimine organizzato
in Giappone giocano un ruolo attivo da «imprenditori» sostituendosi alle strutture/sevizi di garanzia e di tutela dei diritti di
proprietà forniti dallo Stato in diversi ambiti quali la mediazione delle controversie, prestito di denaro, esproprio di beni immobili, controllo di corporation, controllo della criminalità non
organizzata.
Un dato va sottolineato: la ricerca evidenzia che il successo
del crimine organizzato è da inquadrare nell’ambito dell’«architettura statale» piuttosto che essere meccanicamente correlata al fallimento delle tradizionali strategie anticrimine.
312
L’analisi empirica supporta un’indicazione di tipo normativo: per combattere piú efficacemente il crimine organizzato, lo
Stato dovrebbe modificare la propria struttura di incentivi istituzionali e introdurre sistemi addizionali di garanzie.
Ciò rappresenta un ricchissimo punto di riferimento utile
per intervenire dal punto di vista istituzionale con strategie piú
appropriate nell’attuale situazione italiana soprattutto in merito
all’azione di contrasto.
Il punto di partenza – va ribadito – deve essere la considerazione dello Stato come «designer istituzionale» in ciascuna economia, fornendo l’architettura normativa per la regolazione dell’attività privata e del mercato, definendo quindi quali attività private e quali affari saranno considerate «illecite» e da criminalizzare e quali invece sono da incentivare e da supportare attivamente.
Abbiamo già preso in considerazione le interessanti osservazioni di Becker e Stigler [Becker e Stigler, 1994], autorevoli
esponenti della scuola di Chicago, i quali si sono soffermati ad
analizzare le distorsioni delle attività di contrasto. La concezione dello Stato come «designer istituzionale» si collega alle loro
riflessioni sull’influsso che le politiche di contrasto esercitano
sulla criminalità. Già si è detto che non è da escludere che, certe volte, questo influsso sia reciproco. La prospettiva neo-istituzionalista rafforza, dunque, l’esigenza che queste strategie vengano valutate sui molteplici piani in cui sono implementate
(dalla qualità delle forze di polizia, alle specificità dei fenomeni
criminali alle relazioni stesse tra criminalità e azioni di contrasto). È necessario, quindi, prestare una nuova attenzione all’analisi dei processi di istituzionalizzazione della criminalità e
delle relative «istanze di controllo» (polizia, pubblici ministeri,
giudici, strutture penitenziarie), perché ci si renda conto del
circuito che viene a crearsi, – secondo Becker e Stigler [Becker
e Stigler, 1994] si tratta addirittura di un «collegamento sistematico» – tra processi di istituzionalizzazione della criminalità
e delle «istanze di controllo».
Il modo in cui lo Stato esercita questa capacità influenza
non solo lo sviluppo delle organizzazioni legittime ma anche di
quelle illecite.
313
Nello spettro dei vari sistemi regolativi dei diritti di proprietà e delle attività economiche, il Giappone si colloca tra gli
Stati Uniti e la vecchia Unione Sovietica. Ciascuno di questi sistemi produce le proprie catene di crimine organizzato che riflettono l’ambiente istituzionale nel quale sono maturate e si
sono evolute.
L’aspetto centrale che emerge dallo studio di Milhaupt e
West è che le lacune e le brecce che si creano nel legittimo assetto istituzionale vengono colmate dal crimine organizzato,
pensato come potere privato illecito che compensa le inefficienze e le debolezze del potere pubblico statale.
L’analisi di Milhaupt e West si basa su due criteri euristici
per comprendere piú a fondo il ruolo giocato dal crimine organizzato in economia: il primo fa riferimento al crimine organizzato come «sistema imprenditoriale», il secondo mette a fuoco
le attività private del crimine organizzato definendole come
forma di «imprenditorialità illegittima» in quanto legata all’esercizio della violenza ed in grado di svilupparsi fuori dai confini dell’ordine statale.
Non esiste accordo su una definizione condivisa di crimine
organizzato né sulla spiegazione del fenomeno stesso. Il risultato è «un patchwork di idee, scarsamente collegate tra loro, che
non riescono a costituire un valido quadro teorico per la ricerca empirica» [Reuter, Kelly et al. (eds.) 1994]. La teoria economica ha tradizionalmente enfatizzato il monopolio che il crimine organizzato esercita sul traffico di merci illegali e sulla gestione di servizi illeciti. I criminali agiscono come imprenditori
che raccolgono i frutti di economie di scala e di rendite da monopolio mediante l’estorsione.
La letteratura sociologica, in contrasto con la prospettiva
economica, ha tradizionalmente focalizzato l’attenzione sulle
relazioni di tipo etnoculturale che caratterizzano la struttura
dei gruppi criminali e il grado di coesione al loro interno, trascurando la questione fondamentale della ricerca di un modello esplicativo del fenomeno che mostri le ragioni della loro costituzione.
Da analisi sociologiche piú recenti emerge chiaramente come «le organizzazioni criminali si sviluppino in contesti caratte314
rizzati da scarsa dotazione di fiducia, in cui le transazioni economiche diventano instabili e incerte».
Nessuno di questi approcci, tuttavia, è esaustivo e soddisfacente. L’interpretazione offerta dalla letteratura economica, viene messa in discussione dall’analisi di Gambetta secondo il
quale l’attività primaria delle organizzazioni criminali non è
tanto l’estorsione ma l’offerta di servizi di «protezione» privata,
sotto forma di supporto alla risoluzione delle dispute emergenti da contrasti per diritti di proprietà. Piuttosto che per il monopolio, il crimine organizzato compete con lo Stato per l’offerta di tali servizi.
L’analisi istituzionalista – adeguatamente integrata con la ricerca empirica – è un modo per intrecciare i due approcci interpretativi del crimine organizzato.
Come Gambetta sostiene con la sua teoria, le organizzazioni
criminali emergono in relazione al consolidamento di sistemi
formali di garanzia dei diritti di proprietà.
Il Giappone postfeudale, per esempio, come l’Italia postfeudale e la Russia postsovietica, è caratterizzato dall’incremento
dei sistemi di garanzia formale dei diritti di proprietà. Analogamente a questi altri paesi, il Giappone postfeudale è caratterizzato da una debolezza di meccanismi complementari di rinforzo e di sostegno di questi diritti. La transizione giapponese verso una società postfeudale ha provocato un vuoto e una distorsione di questi sistemi di protezione statale dei diritti di proprietà, lasciando uno spazio occupato da ex samurai, delinquenti e contadini ridotti in miseria.
La frattura e le asimmetrie createsi tra lo Stato e il sistema di
garanzia e di tutela dei diritti di proprietà ha favorito il sorgere
delle organizzazioni criminali – il lato oscuro del potere privato,
come forma di imprenditorialità illecita capace di colmare il
gap costituitosi nel sistema di regolazione statale. È quindi
l’ambiente istituzionale che, attraverso un processo degenerativo, crea le condizioni per l’affermazione del crimine organizzato che capitalizza le opportunità offerte dalle inefficienze e dalle debolezze del sistema di regolazione statale.
Sul piano della ricerca sulle mafie, crediamo, si possa dire –
secondo il punto di vista di Milhaupt e West – che sia necessa315
rio porre in primo piano l’esigenza di legare l’analisi di tipo sociologico-economica a quella di taglio istituzionale per cercare
di fare piú luce sui processi che determinano lo sviluppo delle
organizzazioni criminali nel mondo. Tra questi Milhaupt e West hanno il merito di segnalare la contraddizione piú macroscopica che sempre piú rischia di acuirsi negli Stati e nelle istituzioni della globalizzazione: quella perversa contraddizione che
consiste nella separazione tra il momento dello sviluppo economico-sociale e della democrazia da quello che riguarda il potenziamento della sfera pubblica e della capacità di regolazione
dello Stato. Gli Stati e le future istituzioni sovranazionali, potranno tenere sotto controllo il lato oscuro del potere privato e
contrastare credibilmente la criminalità solo se sapranno superare le attuali inefficienze e debolezze dei sistemi di regolazione
e sviluppare il sistema di garanzia e di tutela dei diritti di proprietà.
12. Qualche considerazione finale
Oggi, tuttavia, la indubbia maggiore conoscenza acquisita
sul fenomeno Cosa nostra e delle mafie rischia di perdere spessore di fronte ad alcune nebbie sollevate dai processi di globalizzazione.
Termini come Cosa nostra, «mafie straniere», «mafie transnazionali», «criminalità organizzata», sembrano, a volte, aggrovigliarsi sino a perdere spessore semantico, a farci perdere
la dimensione dei processi che rappresentano.
È necessario allora riprendere il monito di Giovanni Falcone quando affermava:
«Impariamo a riflettere in modo sereno e “laico” sui metodi
di Cosa nostra».
Era proprio questo lo spirito che animava il seminario internazionale su «La mafia tra vecchi e nuovi paradigmi» organizzato nel 1993 dall’Università di Palermo e da diversi centri di
studi e iniziative antimafia i cui risultati vennero poi pubblicati
316
in un volume laterziano significativamente intitolato, La mafia,
le mafie.
Si è affermato, precedentemente, che a vent’anni dall’inizio
della grande stagione antimafia in Sicilia, di fronte al manifestarsi di intrecci e connessioni tra le mafie dei diversi paesi e
del progressivo irrobustirsi della rete transnazionale dei traffici
illeciti sia sempre piú necessaria e urgente una mobilitazione di
competenze, di tecniche di contrasto sul piano transnazionale.
Questo processo è, oggi, piú concretamente realizzabile, anche in relazione al fatto che il fenomeno empirico della criminalità transnazionale è entrato nell’agenda di ricerca di molte
discipline sociali. Ciò è di grande importanza non solo per lo
studio della mafia e delle «criminalità organizzate», per l’approfondimento del rapporto tra globalizzazione e sicurezza, ma
anche per lo sviluppo delle scienze sociali in una prospettiva
interdisciplinare e transnazionale. Non deve sembrare eccessiva
la prospettiva cosmopolitica.
Una prospettiva di questo tipo richiede la consapevolezza
delle nuove dinamiche che si stanno sviluppando su scala nazionale e internazionale. Tutti i sistemi, compresi quelli organizzativi sono sottoposti all’evoluzione, per perpetuarsi, devono cambiare, conservando nuclei dell’identità originaria e acquisendone di nuovi. Questi mutamenti, negli ultimi anni, non
solo si verificano a ritmo piú intenso, ma vengono ad essere
sollecitati e si intrecciano in contesti in cui l’ambito locale e
quello globale interagiscono.
Forse, proprio per non perdere questa dimensione e questi
intrecci, ha sempre meno senso porsi domande di tipo ontologico su «Che cos’è la mafia siciliana?», interrogarsi in astratto
sulla «fine» di Cosa nostra, ipotizzare strategie mimetiche messe in atto dalla criminalità mafiosa o metafore di immersione
subacquea, senza pensare e impostare, appunto, sistematicamente e globalmente le strategie di contrasto. Per restare ancora sul terreno dell’analisi della mafia siciliana e della sua presenza in ambito locale bisognerà convincersi che si è aperta una
fase nuova sia per quanto riguarda l’analisi del fenomeno, sia
per quanto riguarda l’azione di contrasto.
317
Secondo i dati forniti da uno studio dell’Istituto di studi politici, economici e sociali «Eurispes» [Eurispes, 2003] «ammonta a quasi 43.000 milioni di euro il giro d’affari delle “quattro cupole” italiane» [Eurispes, 2003: 2]. Gli utili maggiori
provengono dal traffico di droga (25.926 milioni di euro), da
imprese (7.489), dal traffico di armi (5.219), dalla prostituzione
(2.241), e da estorsione ed usura (2.097). Secondo i dati dell’Eurispes, la ’ndrangheta detiene il primato degli affari per
quanto riguarda il traffico di droga (9.813 milioni di euro), seguita da Cosa nostra (8.005), camorra (7.2309) e Sacra corona
unita (878).
Per quanto riguarda l’impresa (appalti pubblici truccati e
compartecipazione in imprese divario tipo) Cosa nostra detiene
la leadership con un fatturato di 2.841 milioni di euro, seguita
dalla camorra (2.582) e dalla ’ndrangheta (2.066). Per quanto
riguarda la prostituzione, il primato spetta alla ’ndrangheta con
1.033 milioni di euro, seguita da Sacra corona unita (775), camorra (258) e Cosa nostra (176).
Il primato del traffico di armi spetta alla camorra con 2.066
milioni di euro; seguono ’ndrangheta (1.808), Cosa nostra
(1.549) e Sacra corona unita (516).
Per quanto attiene, invece, ad estorsione ed usura, il primato spetta ancora alla ’ndrangheta con un volume d’affari di
1.033 milioni di euro, seguita da camorra con 362 milioni di
euro ed ex equo da Cosa nostra e Sacra corona unita con 351
milioni di euro.
Questi dati testimoniano di quanto sia ancora alto il tasso di
penetrazione mafiosa e della necessità di una mobilitazione istituzionale per potenziare le politiche pubbliche di contrasto.
Come si legge nel Rapporto 2003 sull’economia del Mezzogiorno [Svimez, 2003], l’azione di contrasto non sembra riuscire a neutralizzare stabilmente le capacità di esercitare un capillare controllo del territorio, grazie al potere di intimidazione,
all’omertà e a un diffuso esercizio della pratica corruttiva. I dati
piú recenti sulla corresponsione del «pizzo» da parte di imprenditori e commercianti sono allarmanti, mentre si registrano
solo isolati episodi di denuncia.
318
«La struttura di Cosa nostra, posta al di sopra delle organizzazioni locali, lega tra loro una moltitudine di “famiglie” dislocate in tutta la regione siciliana, ed è ancora pienamente efficiente, anche se i suoi organismi dirigenziali sono ridotti all’essenziale e sono rappresentati, di fatto, da un pugno di uomini.
Individualismi e rivalità personali minano la coesione tra “famiglie” e i rapporti al loro interno, ma la tenuta complessiva della
struttura organizzativa è ancora sufficientemente salvaguardata
dal comune interesse ad evitare conflitti, che danneggerebbero
gli affari e renderebbero del tutto improponibile ogni tentativo
di ottenere benefici per gli affiliati detenuti» [Svimez, 2003:
719]. Nel Programma operativo nazionale (Pon) collegato al
QCS 200-2006 per le aree obiettivo 1, dedicato alla legalità:
«Sicurezza per lo sviluppo del Mezzogiorno d’Italia», si proponevano interventi con l’obiettivo di contrastare il legame negativo fra criminalità e crescita economica, con particolare riferimento alle regioni economicamente meno sviluppate nelle quali piú marcate sono le caratteristiche di «impresa» criminale, e
spezzare e spezzare questa spirale perversa.
Sulla scorta dei primi risultati ottenuti, il ministero dell’Interno – Dipartimento della pubblica sicurezza –, ha proposto
di estendere a tutte le aree dell’obiettivo 1 (nel periodo 20002006), gli interventi nel campo della sicurezza, al fine di conseguire l’obiettivo globale di «determinare, nel tempo, su tutto il
territorio del Mezzogiorno italiano, a partire dalle aree piú sensibili, condizioni, condizioni fisiologiche di sicurezza, pari o almeno paragonabili a quelle sussistenti nel resto del paese e comunque sufficienti a incidere, in modo strutturale e non contingente sul pesante gap che attualmente le caratterizza, nonché sulla permeabilità delle sue frontiere» [Svimez, 2002].
Il Pon Sicurezza per lo sviluppo del Mezzogiorno traduce la
strategia globale in tre assi di intervento, a loro volta articolati
in nove misure: 1) sviluppo e adeguamento delle tecnologie dei
sistemi informativi e di comunicazione per la sicurezza; 2) promozione e sostegno della legalità; 3) assistenza tecnica.
Queste strategie di contrasto, piú articolate e, per alcuni
aspetti piú incisive, pongono anche alla ricerca problemi di affinamento e di integrazione degli strumenti conoscitivi.
319
In particolare – come si è già detto – solo un modello di ricerca integrata può contribuire alla riconfigurazione della criminalità organizzata sul piano scientifico-metodologico e sovranazionale.
Bisogna guardarsi dalle definizioni astratte e totalizzanti e liberarsi da stereotipi e cristallizzazioni concettuali per evitare il
rischio che ritornino vecchie retoriche, che si verifichi un sovraccarico di metafore, che si formino nuove rappresentazioni
indulgenti al mito, nuovi stereotipi, che si imbocchino scorciatoie massmediatiche e spettacolarizzanti, che si perpetui, come
è stato sostenuto «il gioco di specchi tra realtà e rappresentazione» [Lupo, 2002: 42].
Bisogna far riferimento ai processi reali. Uno di questi processi, particolarmente positivo, non va trascurato. Per quanto
riguarda il nostro paese, un esempio di profonda innovazione
sul piano delle analisi della interdisciplinarità, della transnazionalità e dell’iniziativa di stimolo internazionale alla cooperazione, sia sul piano conoscitivo sia sul piano della concreta
azione di contrasto (che sta avendo effetti positivi sull’intero
sistema di contrasto della criminalità) è costituito dall’attività e
dai documenti e dalle iniziative sviluppati dalla Direzione nazionale antimafia che, in un rapporto efficace ed efficiente con
le Direzioni distrettuali antimafia e con le forze di contrasto di
tutto il mondo, ha dato vita ad una organizzazione capace di
conoscere meglio gruppi criminali presenti in Italia, i loro rapporti con le mafie locali e le diverse tipologie di mafia agenti
su scala mondiale26.
La Dna si avvale di avanzati moduli organizzativi che le consentono di dare flessibilità all’azione di coordinamento e di direzione e di collegare le strategie di contrasto a un data base
informativo e conoscitivo sempre piú ricco. Questi moduli sono sistematicamente verificati e aggiornati in collegamento con
una fitta rete di rapporti internazionali e attraverso l’utilizzazione di avanzatissime tecnologie informatiche che consentono alla Direzione nazionale antimafia di «modellarsi» sulla struttura
criminale che intende contrastare27.
È un esempio concreto di quel processo, al quale abbiamo
accennato piú volte nel corso di questo lavoro, che può real320
mente e concretamente segnare una riconfigurazione della criminalità organizzata, non solo sul piano scientifico-metodologico e sovranazionale, ma anche sul piano della definizione e attuazione di piú efficaci ed efficienti politiche di contrasto che
siano in grado di intervenire in contesti transnazionali. Da questo punto di vista il problema fondamentale della governance
globale, diventa quello della formazione di uno spazio di cooperazione internazionale di contrasto delle mafie e del terrorismo.
Anche l’iniziativa internazionale per la sicurezza, contro le
mafie e il terrorismo si ricollega al discorso complessivo che abbiamo sviluppato sulla necessità del superamento di una visione parcellizzata del sapere, di una anacronistica contrapposizione tra scienze naturali e scienze sociali. Si è Già detto sull’esigenza di superare quello che Ulrich Beck definisce «nazionalismo metodologico» [Beck, 2003: 265] che identifica le società
con le società degli Stati nazionali e considera gli Stati e i loro
governi come punto di riferimento della ricerca e delle politiche pubbliche. A quello metodologico Beck affianca anche un
«nazionalismo normativo». il primo, come è chiaro, riguarda la
prospettiva dello scienziato sociale che osserva, il secondo le
prospettive di negoziazione degli attori politici. Su questa base
i dogmi diventano le coordinate fondamentali delle scienze sociali. La critica del nazionalismo metodologico non significa
per Beck la scomparsa dello Stato nazionale, che al contrario
continuerà ad esistere e a trasformarsi in direzione di forme
transnazionali, né l’affermazione della fine dell’individuo.
Beck, in verità, vuole mettere un’evidenza un punto decisivo che riguarda sia le scienze sociali sia l’elaborazione delle politiche:
«L’organizzazione nazionale, intesa quale principio strutturante dell’azione sociale e politica, non serve piú come criterio
orientativo della prospettiva dell’osservatore nelle scienze sociali.
In questo senso, le scienze sociali possono reagire adeguatamente alla sfida della globalizzazione se si sforzano di superare
il nazionalismo metodologico e se si impegnano a sollevare
questioni empiricamente e teoricamente fondamentali negli
ambiti di ricerca specializzati, elaborando i fondamenti di una
scienza sociale e politica cosmopolita» [Beck, 2003: 267].
321
Note
Introduzione
1
2
3
322
«…Sembra che il nostro modo di pensare debba cambiare in certo qual
modo se come filosofi, storici, etnologi o quant’altro intendiamo dire
qualcosa di utile su un mondo in frammenti o intento a dissolversi, delle
identità instabili e dei rapporti allentati. In primo luogo, anziché occultare la differenza con luoghi comuni sull’“etica confuciana”, la “tradizione
occidentale”, il “temperamento meridionale” o la “mentalità musulmana”, con dubbie prediche morali sui valori universali o con opache banalità sull’esistenza di una unicità piú profonda, la dobbiamo riconoscere
apertamente ed esplicitamente. In secondo luogo, essa non va intesa come negazione della somiglianza, come il suo opposto, come la sua contrapposizione antitetica o contraddittoria. Va vista come un qualcosa che
contiene in sé tutto questo, lo situa, lo concretizza e gli dà forma. Dopo la
scomparsa dei blocchi e delle egemonie, ci troviamo di nuovo in un’era di
ramificazioni e intrecci disseminati e in sé differenziati. Le unità e le identità quali che siano, vedranno la luce e saranno negoziate a partire dalla
differenza» [Geertz, 1999: 24-25].
Giovanni Sartori si riferisce al pluralismo politico, crediamo tuttavia la
descrizione compatibile con i mutamenti in ambito giuridico.
Come hanno scritto due studiosi americani C.J Milhaupt e M.P. West,
«La criminalità organizzata prospera. Fiorisce nelle economie di transizione, persiste nelle nazioni sviluppate si sviluppa nella globalizzazione»
[Milhaupt, West, 2000]. Piú del 40 per cento dell’economia russa è controllata dai gruppi criminali. In Giappone l’influenza del crimine organizzato si estende dalla prostituzione ai corsi di golf, dalle banche alla sicurezza, ai disastri. Negli Stati Uniti continua ad occupare le prime pagine
dei giornali. Le Nazioni Unite hanno cominciato a dedicare risorse per
combattere la criminalità organizzata internazionale.
323
I. Conoscenza, comunicazione e devianza nella crisi della società moderna
1
324
Significativo è da questo punto di vista il vertice dei sette paesi piú industrializzati (G7) sulla «società dell’informazione» (Bruxelles), che ha rappresentato una importante occasione di confronto tecnologico tra Europa e Stati Uniti. Non s’è trattato di un classico incontro di routine. L’impetuoso sviluppo tecnologico di Stati Uniti e Giappone in questi anni,
soprattutto nell’area delle tecnologie dell’informazione, ha creato un’obiettiva asimmetria nei rapporti tradizionali tra il gigante della tecnologia e il partner europeo. Le due culture sembrano allontanarsi ogni giorno di piú. Gli Stati Uniti non sembrano per nulla disponibili a trattenere
la forza gigantesca e l’anticipo guadagnato durante la guerra fredda rispetto all’Europa. «La condizione politica (frammentazione) e culturale
(rinvio oppure omissione di grandi progetti di ricerca, ostilità tra partner) dell’Europa non è una colpa degli Stati Uniti. Molta responsabilità
ricade sui governi europei che hanno trascurato la ricerca e penalizzato
le proprie aziende di punta nel settore, se non altro per mancanza di visione e di comprensione ogni volta che si facevano nuovi piani economici. Se a questo problema aggiungiamo lo stato delle scuole, delle università, dei laboratori, dei centri di ricerca, e la fuga, ormai non piú misurabile, di intelligenze scientifiche dall’Europa (e dall’Asia) verso gli Stati
Uniti, si vede a occhio che una posizione di equilibrio non è piú possibile» [Colombo, 95]. L’Europa sembra dunque, grazie anche alle sue divisioni e alle sue instabilità e incertezze interne, avere accumulato un ritardo tale da rendere il suo ruolo estremamente precario sullo scenario
mondiale. L’innovazione tecnologia fondamentalmente americana e giapponese (soprattutto nella tecnologia digitale), accumulata rapidamente
attraverso la ricerca scientifica, la moltiplicazione industriale e la formazione delle infrastrutture, ha strutturato questi paesi come vere e proprie
società dell’informazione. Da questo punto di vista, nonostante la lungimiranza del progetto Delors tutto incentrato sulle nuove possibilità di
sviluppo offerte dalle nuove tecnologie dell’informazione e sulla individuazione della società dell’informazione come leva di una rivoluzione
con conseguenze forse piú rilevanti di quelle della stampa, l’Europa ha
dovuto prendere atto di una sconfitta. La conferenza di Bruxelles sancisce il dominio statunitense nella ricerca, nell’hardware, nel software, nelle infrastrutture di trasporto, nella cablatura (comunicazione attraverso
fibre ottiche), nel cinema, nel multimediale, nei videogiochi e nel controllo dei mercati. Nel contesto europeo, l’Italia ha un ruolo del tutto
marginale, impaniata com’è nelle maglie di un estenuante dibattito sulla
televisione, lontana dai punti alti di ricerca, con strutture universitarie
obsolete, sostanzialmente incapace attualmente di un’idea di sviluppo legata alle nuove tecnologie, attardata nei processi di privatizzazione, in ritardo sulle stesse scadenze imposte dall’Unione europea. In assenza del
know-how necessario, di un minimo di progettualità incentrata sulla collaborazione tra pubblico e privato, l’Italia, in occasione del G7, ha presentato un campionario di voci, spesso conflittuali, di rappresentanti
pubblici e privati.
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Scrive Luhmann: «Molte delle descrizioni correnti. Per esempio quelle
che rinviano all’economia capitalistica o alla tecnica scientificamente fondata, sono solo aspetti parziali di questa forma di differenziazione. Accanto ad essi, e sullo stesso piano, bisognerebbe menzionare anche le trasformazioni del diritto in diritto positivo, la forma statuale della politica,
la struttura scolastica dell’educazione, la costituzione di una famiglia dotata di particolari aspettative di intimità: e si arriva cosí, alla fine, a diverse differenziazioni funzionali» [Luhmann, 1987: 91-92].
Scrive Schumpeter: «Questo processo di distruzione creatrice è il fatto
essenziale del capitalismo, ciò in cui il capitalismo consiste, il quadro in
cui la vita di ogni complesso capitalistico consiste, il quadro in cui la vita
di ogni complesso capitalistico è destinata a svolgersi» [Schumpeter,
1977: 79].
«La memoria elettronica non mantiene le informazioni, ma solo le proprie decisioni: di qui evidentemente la centralità (e l’affinità) tra la telematica e le organizzazioni, che privilegiano entrambe il momento della selezione e la superiore capacità di controllo che risulta dal connettere decisioni (i nodi della rete, meri punti di connessione) e non direttamente
informazioni. Ma una società che assegna un ruolo sempre crescente alle
organizzazioni e che sembra passare dal modello dei mass media a forme
telematiche di diffusione della comunicazione non può allora essere descritta adeguatamente come società dell’informazione. Data la volatilità
dell’informazione, una società fondata sull’informazione sarà sempre oppressa da un eccesso di informazione virtuale ma nello stesso tempo cronicamente disinformata, alla ricerca costante di informazioni che rimpiazzino quelle che sia annullano nel momento in cui vengono comunicate»
[Esposito, 2001: 229].
Partha Dasgupta definisce la fiducia come un bene economico: «Non ha
grande importanza il fatto che non esista un’unità di misura chiara per
valutare la fiducia, perché in ogni dato contesto è possibile misurarne il
merito […] In questo senso la fiducia non è dissimile dalle merci come la
conoscenza o l’informazione» [Dasgupta, in Gambetta, 1989: 65].
Nel passaggio da un livello di accumulazione dell’informazione ad un altro viene meno il presupposto secondo il quale, dato un insieme di categorie, tutte le informazioni sono destinate a ridurre l’incertezza. È proprio a questo punto che si verifica la discontinuità. «Quando viene acquisito un elemento di informazione che non può essere ignorato, non può
essere classificato come un errore, e non può essere inserito nell’insieme
di categorie assunto, non è piú possibile approssimare il canale di osservazione in questione con un canale di comunicazione; per proseguire l’osservazione in modo fedele, diventa perciò necessario approntare un nuovo insieme di categorie all’interno del quale collocare tanto le informazioni vecchie quanto le nuove. Superato questo punto di discontinuità e stabilito un nuovo sistema di riferimento, il processo di riduzione dell’incertezza può essere riavviato» [Turner e Pidgeon, 2001: 178].
Sui temi riguardanti la tutela dell’ambiente che erano stati al centro del
suo Ökologische Kommunication, Luhmann sostiene che l’ecologia può
essere considerata solo un tema di comunicazione: «La società» afferma
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«non può imporre alla diossina di scomparire ma, con la comunicazione,
può costringere alla sua eliminazione». Altro tema affrontato da Luhmann è quello rappresentato dal rischio aids e al modo in cui la gente lo
affronta. «Le statistiche dimostrano» osserva Luhmann «che, pur cambiando solo in parte le abitudini sessuali, tutti pretendono di essere difesi
dall’esterno piuttosto che prendere delle precauzioni. Vogliono che sia la
società ad allontanare i rischi di infezione controllando i portatori del virus, piuttosto che essere costretti a vivere a rischio e quindi ad assoggettarsi a particolari comportamenti» [Luhmann, 1993].
Per Marx l’essenza umana naturale si realizza nella socialità stessa dell’uomo. Scienze della natura e scienze della società non possono che procedere assieme. Scrive a questo proposito Marx: «La scienza naturale, un
giorno, assumerà sotto di sé la scienza naturale: non ci sarà che una scienza. L’uomo è l’oggetto immediato della scienza; perché l’immediata natura sensibile è, per l’uomo, immediatamente la sensibilità umana (un’espressione identica), immediatamente come l’altro uomo presente a lui
sensibilmente; perché la sua propria sensibilità c’è per lui stesso come
umana sensibilità solo mediante l’altro uomo. Ma la natura è l’oggetto immediato della scienza dell’uomo. Il primo oggetto dell’uomo – l’uomo – è
natura, sensibilità, e le peculiari forze sensibili essenziali all’uomo, come
hanno la loro oggettiva realizzazione soltanto in oggetti naturali, cosí possono trovare la loro autoconoscenza soltanto nella scienza dell’ente naturale in genere. L’elemento stesso del pensare, l’elemento della manifestazione vitale del pensiero, il linguaggio, è di natura sensibile. Realtà sociale
della natura e scienza naturale umana, o scienza naturale dell’uomo, sono
espressioni identiche» [Marx, in Marx-Engels, 1976: 33].
Scrive Jacques Monod: «Gli eventi iniziali elementari che schiudono la vita dell’evoluzione ai sistemi profondamente conservatori rappresentati
dagli esseri viventi sono microscopici, fortuiti e senza alcun rapporto con
gli effetti che possono produrre nelle funzioni teleonomiche.
Ma una volta inscritto nella struttura del Dna, l’avvenimento singolare, e
in quanto tale essenzialmente imprevedibile, verrà automaticamente e fedelmente replicato e tradotto, cioè contemporaneamente moltiplicato e
trasposto in milioni o miliardi di esemplari. Uscito dall’ambito del puro
caso, esso entra in quello della necessità, delle piú inesorabili determinazioni. La selezione opera in effetti in scala macroscopica, cioè a livello
dell’organismo. […] Da questa necessità, e non dal caso, l’evoluzione ha
tratto i suoi orientamenti generalmente ascendenti, le sue successive conquiste, il dipanarsi ordinato di cui offre apparentemente l’immagine»
[Monod, 1970: 99].
Per Norbert Wiener la misura dell’informazione è la misura di un ordine,
mentre il suo opposto sarà la misura di un disordine e sarà quindi un numero negativo:
«Esso può essere reso artificialmente positivo con l’addizione di una
quantità costante, o partendo da qualche valore diverso da zero. Questa
misura del disordine è conosciuta nel campo della meccanica statistica
come entropia, e quasi mai decresce spontaneamente in un sistema isolato» [Wiener, 1966: 83 ].
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Questo concetto viene definito in termini piú rigorosi neghentropia, sinonimo di entropia negativa.
«A questo proposito, si è osservato che le concezioni della società in
quanto corpo organizzato tendono ad ingenerare l’idea di una ripartizione necessariamente stabile delle responsabilità, associata a una solidarietà
di tutti per la conservazione del tutto sociale. Coloro che hanno denunziato tali connotazioni hanno spesso chiamato in causa il trasferimento di
metafore dalla biologia alle scienze sociali, e hanno parlato di “biologismo”. Ora, richiamare qui la problematica delle metafore impure o illecite significa ignorare che le metafore biologiche, dal canto loro, sono sempre anzitutto metafore politiche. Poche metafore hanno avuto tanto successo quanto quelle che fanno della società un organismo biologico o
quelle che, inversamente, fanno dell’organismo una società basata sulla
divisione del lavoro e su una gerarchia di ordini e di controlli. Al punto
che tra le due descrizioni sembra regnare una sorta di armonia prestabilita e che nessuna di esse, a rigore, può dirsi origine dei concetti che essa
utilizza. Analogamente a quanto avviene in sociologia, un certo conservatorismo sembra interessare la descrizione fisiologica: si impone naturalmente la distinzione fra malattia e salute, tra normale e patologico, mentre è pressoché incomprensibile la trasformazione evolutiva» [Prigogine,
Stengers, 1980b: 180].
Scrivono Prigogine e Stengers: «Ma, se nessun privilegio, nessuna preminenza, nessun limite fissato definitivamente può segnare stabilmente la
differenza tra interrogazioni scientifiche e filosofiche, certamente non ci
può essere tra loro identità o sostituibilità. Noi crediamo di essere di
fronte ad una complementarietà di saperi che, in entrambi i casi, costituiscono la traduzione, seguendo regole piú o meno rigorose, di preoccupazioni culturali e storiche. Il problema è quello delle regole, dei metodi,
delle restrizioni» [Prigogine, Stengers, 1999: 283].
Le due figure mitiche Hybris e Dike, che incontreremo ancora parlando
di devianza, rappresentano nel contesto dell’analisi di Morin rispettivamente»il folle travalicare oltre i limiti e «la legge e l’equilibrio», il disordine e l’ordine, la disintegrazione e l'organizzazione.
«Se consideriamo l’universo su scala microfisica, l’universo non è piú che
una “poltiglia” di elettroni, di protoni, di fotoni, tutti esseri dalle proprietà mal definite in perpetua interazione [Thom, 1974]. Questa straordinaria “poltiglia” subatomica onnipresente ci indica che il caos soggiace
in permanenza quale tessuto interstiziale della nostra physis. L’atomo è la
trasformazione in organizzazione di questo caos […] L’organizzazione del
sistema può essere descritta come insieme di interazioni, in cui però è indescrivibile ogni interazione presa isolatamente. Sembra inoltre che l’atomo non sia soltanto caos trasformato in organizzazione e in ordine una
volta per tutte, ma che sia in genesi permanente, come se si autoproducesse e si auto-organizzasse senza posa nel gioco incessante delle sue interazioni interne» [Morin, 2001: 65].
«L’errore categoriale del cognitivismo […] consiste nell’attribuire alla
realtà delle proprietà che appartengono alle strumentazioni messe in opera dall’osservatore. Strumentazioni che sono indispensabili per rappre327
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sentare la realtà, ma che non devono essere spacciate o fraintese come categorie della realtà» [Gargani, 1999: 193].
Jean Baudrillard arriva ad affermare: «Ogni confusione del pensiero con
l’ordine del reale – questa pretesa “fedeltà” al reale da parte di un pensiero che l’ha fatto sorgere di sana pianta – è allucinatoria» [Baudrillard,
1996: 103].
Per Edelman, la peculiarità che piú colpisce nel cervello dei vertebrati superiori è che in esso si verifica il processo che egli ha definito «rientro».
Per alimentare l’esperienza cosciente numerosi gruppi di neuroni devono
interagire con rapidità e reciprocamente attraverso il processo denominato «rientro». Il problema del rientro è legato a quello della connessione e
dell’integrazione tra l’attività di aree funzionalmente separate. Edelman
sostiene che esiste nel nostro cervello un «insieme di interazioni mappate
tra il cervello, il resto del corpo e diverse rielaborazioni delle configurazioni di segnali che si originano nell’ambiente» [Edelman, 1999: 149]. Altra caratteristica del cervello e che le sue varie attività dipendono da «vincoli di valore», cioè quelle parti dell’organismo «forniscono una base vincolante per la categorizzazione e per l’azione» [Edelman, 1999: ibid.].
Quando il cervello è in azione, questi sistemi sono impegnati nel rilevare
il grado di rilevanza dei segnali, nel porre delle soglie e nel regolare gli
stati di veglia e di sonno.
Questo processo organizzatore nei sistemi viventi assume la connotazione
di processo «auto-organizzatore» [Morin, 1993: 26-30].
La prospettiva di Prigogine assume che esistano due tipi di comportamento: una tendenza verso lo stato del disordine e un’altra verso l’ordine.
«La distruzione dell’ordine prevale nelle vicinanze dell’equilibrio termodinamico; la creazione di ordine si può verificare lontano dall’equilibrio
purché il sistema obbedisca a leggi non lineari di un certo tipo. In questo
caso la comparsa di ordine è accompagnata da una instabilità degli Stati
che esibiscono l’usuale comportamento termodinamico (cioè quello disordinato). Tradizionalmente la termodinamica pare limitata all’equilibrio, al piú, vicino all’equilibrio e si interessa solo del primo tipo di comportamento; la teoria delle “strutture dissipative” si presenta allora come
un’estensione della termodinamica dei processi irreversibili a condizioni
lontane dall’equilibrio e mira a una trattazione sia della “distruzione” sia
della “creazione” di ordine nell’ambito dello stesso formalismo. In qualche senso essa risponde all’esigenza aristotelica di una scienza che sappia
adeguatamente modellizzare “generazione e corruzione”. La sua ambizione maggiore […] è quella di presentare una formulazione unificata dei fenomeni di auto-organizzazione nei sistemi complessi, cioè in quei sistemi
che coinvolgono un grande numero di subunità in interazione: evidenze
sperimentali come osservazioni quotidiane possono, sotto opportune
condizioni, rivelare un “comportamento coerente” che si estende ben oltre la scala della singola sub-unità» [Giorello, 1982: 583-584 ].
«L’essere vivente è costituito di materia estremamente corruttibile, e se
valessero solo le leggi fisiche, queste lo condannerebbero a una distruzione pressoché immediata. Di conseguenza, la vita si impone non come una
proprietà statica o una sistemazione strutturale stabile, ma come un pro-
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cesso, in questo caso come un processo permanente di lotta contro la degradazione e la morte» [Prigogine, Stengers, 1980b: 179].
Nel volume L’io multiplo, curato da Elster [1991], Thomas C. Schelling
rappresenta l’essere umano non tanto come singola individualità, quanto
piuttosto come molteplicità di soggetti diversi che si alternano tra loro in
relazione al contemporaneo stato chimico del corpo. Da questo punto di
vista collegarsi con determinate caratteristiche percettive, cognitive e affettive, o staccarsene, equivale a scegliere quale «individuo» occuperà
questo corpo e questo sistema nervoso» [Schelling in Elster, 1991: 192].
Tristram Engelhardt Jr. [Engelhardt Jr, 1991: 146], afferma che vi sarebbero prove fondate sul fatto che ciascun emisfero del cervello ha una sfera di coscienza almeno in parte indipendente.
Dal suo canto ha osservato Luciano Gallino: «La mente dell’attore rimane cosí composta da una popolazione di microsistemi, di modelli irrelati,
ciascuno dei quali appare di momento in momento rigidamente identico
a se stesso, ossia si autoreplica identicamente; e però non stabilisce, né
per la sua differenza “specifica” può stabilire, relazioni funzionali con altri. Una simile mente si presenta – dal punto di vista dei linguaggi interni
– come un sistema ecologico composto da individui linguistici di specie
differenti, pertanto non idonei a cooperare, né a trasmettere di sé una
rappresentanza allargata» [Gallino, 1987: 224]. Secondo Gallino ciò spiega il perché, su un numero crescente di individui, le sollecitazioni ad una
maggiore razionalità di comportamento non abbiano alcuna possibilità di
successo, mentre recuperano forte presa i «modelli di affettività e di valore» che derivano dalla tradizione».
Osserva Schelling: «Cosí la nostra mente ha almeno due ruoli da giocare:
quello di macchina che ragiona ed elabora le informazioni mediante le
quali scegliamo che cosa consumare da una lista di cose suscettibili di venire scambiate con le nostre risorse; e quello di macchina del piacere o di
organo che consuma, di generatore delle gratificazioni vere e proprie del
consumatore. In effetti, come un televisore può impaurire i bambini piccoli o arrecare dolore sotto forma di cattive notizie, cosí la mente è in grado di generare direttamente orrore ed estasi, irritazione e conforto, paura
e dolore non meno che riflessioni, speranze e ricordi gradevolissimi. Ma
ciò dipende in parte da un’altra caratteristica della mente, ossia dal fatto
che essa non fa sempre e solo cose piacevoli» [Schelling in Elster, 1991:
210-211]. Questo duplice funzionamento della nostra mente è spesso
ignorato da una cultura consolidata che preferisce valorizzarne una sorta
di unidimensionalità. Si sottolinea cioè soprattutto l’importanza della
mente come «strumento ausiliario» come «meccanismo di immagazzinamento, recupero e organizzazione delle informazioni, a cui fanno capo
compiti intellettuali come quelli del comunicare e del ragionare». Secondo Schelling si sottovaluta o non si riconosce, invece, «l’importanza di
imparare a far produrre alla nostra mente i pensieri, i ricordi e le anticipazioni esplorative capaci di darci gioia e conforto, e a farle escludere o
bandire tutte le realtà di segno opposto» [Schelling in Elster, 1991: 211].
Nella sostanza, si è consolidata una cultura che tendenzialmente respinge
quell’inconscio accomodamento delle nostre credenze allo scopo di atte329
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nuare le dissonanze cognitive. Eppure, nella prospettiva di Schelling, è
necessario contrastare questa tendenza, se non altro allo scopo di studiare
il modo in cui la mente possa venirci in aiuto.
«Tutto ciò è indipendente dal fatto che la mente divaghi in continuazione, sia una sorgente di fantasie e diventi facile preda di rompicapi, misteri
e sogni a occhi aperti. A quanto posso capire, però, ad agire è sempre la
stessa mente. È meraviglioso che faccia tutte queste cose. Ma è nel contempo imbarazzante pensare che, come sembra, sia dalla medesima mente che ci aspettiamo a un tempo, le sensazioni piú ricche e le analisi piú
austere. C’è un’interessante questione di prospettiva, una questione che
ricorda quella ben nota se le creature si riproducano per mezzo dei geni o
i geni per mezzo delle creature. Eccola: a progettare e a percorrere una
certa rotta della vita sono io con l’aiuto della mia mente o la mia mente
con l’aiuto della mia persona? Su chi sia ad avere il bastone del comando
non ho certezze» [Schelling in Elster, 1991: 212].
In un volume recente Enrico Bellone ritiene errato il considerare lo sviluppo di una scienza come retto da modalità «puramente culturali» [Bellone, 2003: XXII].
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II. Criminalità e devianza
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Per «disaggregazione dei sistemi sociali», Giddens intende «l’enuclearsi
dei rapporti sociali dai contesti locali di interazione e il loro ristrutturarsi
attraverso archi di spazio-tempo indefiniti» (Giddens, 1994: 32).
Piú recentemente si è arrivati a sostenere che Computer graphics, realtà
virtuale, alta definizione, tv via satellite, memorie ottiche, cd-rom, banche-dati, bancomat, multipos, telefoni cellulari, reti via modem, telefax,
videotel, televideo appartengono ormai alla nostra quotidianità e che «sono media, cioè luoghi, esperienze dove cresce l’informazione» (Paolo Vidali, Esperienza e comunicazione nei nuovi media, in Gianfranco Bettetini
e Fausto Colombo, Le nuove tecnologie della comunicazione, Milano,
Bompiani, 1993, p. 330).
S. Garassini e Barbara Gasparini, Rappresentare con i new media in G.
Bettetini, F. Colombo, Le nuove tecnologie della comunicazione, cit., p. 44.
Jen Ang, «Pubblico e ricezione. L’audience tra testi e contesti», in Problemi dell’informazione, n. 2, giugno 1992, p. 263. «Qui, – scrive Jen
Ang – i concetti che influenzano la ricezione dei mezzi di comunicazione
si riconnettono a relazioni di potere sociale e politico di piú vasta scala.
Infatti, si può anche immaginare di riscrivere una storia del mondo contemporaneo tenendo presente il fatto che la ricezione televisiva è diventata oggi una pratica universale della vita quotidiana. La guerra del
Golfo e la sua estesa copertura attraverso canali specializzati come la
Cnn, potrebbe costituire, anche in questo caso, un esempio ovvio. La ricezione televisiva in se stessa, o piú precisamente, il fatto che quasi tutti i
cittadini fanno oggi inevitabilmente parte dell’audience televisiva, potrebbe di conseguenza, essere considerata come una formidabile forza
storica» [ivi, pp. 263-264].
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In questo contesto ben si inserisce la definizione simmeliana dell’uomo
come «essere che distingue» [Simmel, 1995: 36]. Ciò «significa che la sua
coscienza viene stimolata dalla differenza tra l’impressione del momento
e quella che precede; le impressioni che perdurano, che si differenziano
poco, o che si succedono e si alternano con una regolarità abitudinaria,
consumano meno coscienza che non l’accumularsi veloce di immagini
cangianti, o il contrasto brusco che si avverte entro ciò che si abbraccia in
uno sguardo, o ancora il carattere inatteso di impressioni che si impongono all’attenzione» [Simmel, 1995: ibid.]. Cogliere le distinzioni significa
attuare un processo conoscitivo, essere permeabile nel rapporto con gli altri e con le cose, mantenere viva la sensibilità cercare ed elaborare le
informazioni: proprio l’esatto contrario del modo di essere del blasé.
«L’essenza dell’essere blasé consiste nell’attutimento della sensibilità rispetto alle differenze fra le cose, non nel senso che queste non siano percepite – come sarebbe il caso per un idiota – ma nel senso che il significato
e il valore delle differenze, e con ciò il significato e il valore delle cose
stesse sono avvertiti come irrilevanti. Al blasé tutto appare di un colore
uniforme, grigio, opaco, incapace di suscitare preferenze» [Simmel, 1995:
43; corsivo mio ].
Secondo Luhmann, che elabora «una teoria sociologicamente fondata
dello sviluppo del diritto» (La differenziazione del diritto) il diritto muta
in corrispondenza del soddisfacimento di tre imperativi funzionali: a) la
produzione di possibilità di tipo nuovo (differenziazione) il che implica
un aumento della complessità; b) la selezione delle possibilità effettivamente utilizzabili (positivizzazione); c) la stabilizzazione delle possibilità
utilizzabili (proceduralizzazione).
All’interno delle prospettive teoriche c’è chi come Pierpaolo Donati, considera l’azione e l’interazione sociali, quali espressioni simboliche di un
piú fitto sistema di relazioni, in cui descrivere il sociale in termini relazionali significa utilizzare un codice simbolico e il modello di rete [Donati,
1991].
Si pensi a frasi dichiarative quali: «Ti do la mia parola d’onore»; per una
rapida sintesi sull’argomento si veda Zani, Selleri, David, 1994.
«La conoscenza, ancora e sempre rinascente, è collegata con lo stato del
mondo, – osserva Maffesoli – ed è quando lo dimentichiamo che lo sfasamento inevitabile tra riflessione e realtà empirica diventa baratro invalicabile. Onde la mestizia, il cinismo o le altre forme di disincanto che sembrano prevalere oggi. In realtà, anche se non è che un punto di passaggio
tra passato e futuro, solo il presente è fonte feconda del pensiero. È il solo infatti a fornirci gli elementi, i fatti d’esperienza che ci permettono di
comprendere, al di là di tutti gli a priori, ciò che è allo stato nascente»
[Maffesoli, 1993: 9]. La post-modernità è una mescolanza di vecchio e
nuovo, una coincidentia oppositorum in cui conflitto, disordine e disfunzione finiscono col rafforzare il loro opposto. Venuta meno la ricerca delle grandi soluzioni, prevale la ricerca dell’adattamento e dell’utilizzazione
finalizzata alla massimizzazione della vitalità. Christopher Lasch coglieva
questi processi già alla fine degli anni Settanta nelle pagine introduttive
del suo ormai celebre The Culture of Narcisism:
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«Il disastro incombente è diventato preoccupazione quotidiana, tanto
normale e consueta che nessuno si chiede piú seriamente se e come il disastro potrebbe essere evitato. La gente si dedica affannosamente, invece,
alla ricerca di strategie di sopravvivenza, di modi per prolungare la propria esistenza personale o di sistemi per garantire il benessere del corpo e
la pace dello spirito» [Lasch, 1981: 15].
Sulla scorta delle analisi di Harvey e Jameson, Griswold cosí caratterizza
la cultura postmoderna: «1) Assenza di spessore, o meglio di una autoconsapevole superficialità. La profondità è stata sostituita da superfici
multiple. Non ci sono significati nascosti, perché comunque non c’è nulla sotto le superfici levigate che questa cultura esibisce. Gli occhiali da
sole a specchio o la superficie di vetro riflettente di un palazzo sono tipici oggetti culturali postmoderni, che rifiutano spessore e significato intrinseco, arrestando la penetrazione visiva alla superficie, restituendo
l’immagine dell’osservatore. 2) Il rigetto delle metanarrazioni [...] Un
aspetto di questo carattere è un senso indebolito della storia o del destino nazionale. Parlare di un concetto come il destino dell’America o dell’inevitabile trionfo del socialismo oggi suonerebbe terribilmente ingenuo. Cosí lo ha descritto Jameson [1989: 17]: “I paesi capitalistici avanzati sono oggi un campo di eterogeneità stilistica e discorsiva senza alcuna norma. Padroni senza volto continuano a modulare le strategie economiche che vincolano le nostre esistenze, ma non hanno piú bisogno di
imporre il loro discorso (o sono adesso incapaci a farlo): e la postalfabetizzazione del tardo mondo capitalistico riflette non solo l’assenza di
qualunque grande progetto collettivo ma anche l’indisponibilità della
stessa piú vecchia lingua nazionale”. 3) Frammentazione, cioè rottura
delle connessioni. La cultura postmoderna accoglie il frammentario, l’effimero, il discontinuo. Il pasticcio, il montaggio di elementi culturali tratti
da diversi tempi e luoghi è una convenzione della letteratura e dell’arte
postmoderne» [Griswold, 1997: 202-203]
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III. Devianza, diversità e riconoscimento sociale: il caso dell’omosessualità
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Il capitolo è frutto di riflessioni comuni con il coordinamento scientifico
dell’associazione Agedo (Associazione genitori di omosessuali). Esso si
configura come premessa di un progetto di ricerca sulla normazione della
condotta sessuale e sull’omosessualità in particolare nella città di Palermo. Riconoscere la valenza euristica dell’omosessualità e farne oggetto di
studio delle scienze sociali, e della sociologia in particolare, significa non
soltanto analizzare concretamente le forme di reazione sociale, di stigmatizzazione e di mutamento in atto negli atteggiamenti della gente, ma anche di aprire uno spazio fecondo nell’analisi del sistema giuridico, delle
ripercussioni dovute all’incorporazione delle «diversità» al suo interno,
dei mutamenti a livello delle rappresentazioni e percezioni sociali ma anche in termini di politiche pubbliche, di scuola ed istituti di socializzazione,
di ridefinizione di famiglia, di discussione del riconoscimento legale delle
relazioni di coppia. Alcune delle ricerche condotte non sarebbero state
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possibili senza la collaborazione e la disponibilità fornite da Claudio Cappotto, Cirus Rinaldi. Ringrazio altresí Paola Dall’Orto e Alessandro Galvani per il supporto ricevuto, confidando in una collaborazione duratura.
Nella estensione del concetto di cittadinanza alle componenti personali,
sessuali e corporee si veda Bell e Binnie, 2000; Evans, 1993; Nussbaum,
1998; Richardson, 1998; Weeks, 1998.
Cioè quelli di cui sono portatori gli anglosassoni bianchi, maschi, protestanti.
In realtà da una clientela Glbt (Gay, lesbian, bisexual, transgender).
Interessante al proposito la motivazione, che sotto il regime fascista, addussero alcuni parlamentari per rifiutare l’introduzione di una legge che
punisse l’omosessualità: era un problema che riguardava il resto dell’Europa, in Italia «invertiti» non ce n’erano.
Per approfondimenti si rinvia a Brubaker e Cooper, 2000 e Adams, 2003.
«It is worth nothing here that there is no separation between real and
imaginary persons; indeed, to be imagined is to become real, in a social
sense, as I shall presently point out. An invisible person may easily be
more real to an imaginative mind than a visible one; sensible presence is
not necessarily a matter of the first importance. A person can be real to
us only in the degree in which we imagine an inner life which exists in us,
for the time being, and which we refer to him. The sensible presence is
important chiefly in stimulating us to do this. All real persons are imaginary in this sense» [Cooley, 1992: 95-96].
«The mind is not a hermit’s cell, but a place of hospitality and intercorse.
We have no higher life that is really apart from the other people. It is by
imagining them that our personality is built up; […]. The life of the mind
is essentially a life of intercourse» [Cooley, 1992: 97].
«Through the use of language, through the use of the significant symbol,
then, the individual does take the attitude of others, especially these common attitudes, so that he finds himself taking the same attitude toward
himself that the community takes. This is what gives the principle of social control, not simply the social control that results from blind habit,
but a social control that comes from the individual assuming the same attitude toward himself that the community assumes toward him. In a habitual situation everyone takes a certain attitude insofar as the habit is one
which all have taken, that is, insofar as you have “institutions”» [Mead,
1977: 35].
«The importance of what we term “communication” lies in the fact that it
provides a form of behaviour in which the organism and the individual
may come an object to himself. It is that sort of communication which we
have been discussing […] communication in the sense of significant symbols, communication which is directed not only to others but also to the
individual himself» [Mead, 1977: 203].
Si consideri Saraceno e Naldini, 2001: 79 sgg.
Secondo Remafedi [1987], inoltre, la discriminazione causa nei giovani
omosessuali piú vulnerabili un aumento del rischio psicosociale in termini di: drop-out scolastico (il 28% degli studenti omosessuali riferisce di
avere cambiato se non abbandonato, la scuola in conseguenza di atti, piú
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o meno espliciti, di discriminazione) e di fughe da casa (il 26% riferisce
di aver tentato almeno una volta una fuga da casa).
Hall asserisce che «[…] there is always a price of incorporation to be
paid when the cutting edge of difference and trasgression is blunted into
spectacularization. […] what replaces invisibility is a kind of carefully regulated, segregated visibility» [Hall, 1992: 24].
La Labelling Theory rappresenta una svolta nella storia della sociologia
della devianza, un mutamento di prospettiva e di oggetto di studio: acquista particolare importanza la reazione sociale al fenomeno deviante e la
definizione di devianza stessa: l’attenzione si sposta alle agenzie di controllo sociale che definiscono e categorizzano i comportamenti devianti,
dal criminale a chi lo osserva e lo definisce tale; e opportuno aggiungere
inoltre che la prospettiva corrispondeva al mutamento politico-sociale in
atto negli Stati Uniti d’America e in particolare alle lotte per l’affermazione dei diritti civili delle minoranze etniche, all’allargamento delle possibilità d’istruzione per vasti strati della popolazione, all’affermazione dei diritti civili delle donne e degli omosessuali, ai grandi fermenti politici degli
anni sessanta. La prospettiva si basa essenzialmente su: 1) ciò che viene
definito deviante e che conseguentemente percepito socialmente come tale; 2) fra azione deviante e reazione sociale si instaura un rapporto e un
processo fortemente interattivo, cui consegue una riorganizzazione dell’identità deviante intorno all’etichetta sociale; 3) la circolarità del processo
tenderebbe a confermare che è lo stesso controllo sociale a produrre devianza; 4) viene inoltre suggerita un particolare cautela a definire pertanto
i comportamenti devianti, ed una cura a rivalutare le interpretazione che
della devianza danno i loro stessi autori. Si tratta pertanto di una visione
dal di dentro, che permette e coglie la riflessività dell’osservazione, è piuttosto attraverso l’osservazione che si possono cogliere i caratteri intimi
dei fenomeni, perché «[…] proprio l’atto di scrivere o di riferire obbliga
l’autore ad una interpretazione del mondo e interpretare è vagliare»
[Matza, 1976: 24].
L’espressione è goffmaniana [Goffman, 1981].
La rivalutazione del soggetto in quanto capace di senso, carattere già individuati da Weber e Mead, viene ribadito anche da Matza, altro importante
esponente della Labelling Theory, il quale riconosce che: «L’uomo partecipa ad un’attività significante. Egli crea la propria realtà e quella del mondo
attorno a lui, attivamente e strenuamente. L’uomo naturalmente – non soprannaturalmente – trascende le sfere esistenziali in cui è facile applicare i
concetti di causa, di forza e di reattività. Quindi non si possono considerare
naturalistici né una visione che concepisce l’uomo come oggetto, né dei
metodi che sondano il comportamento umano senza occuparsi del significato di tale comportamento. Tali posizioni e tali metodi sono esattamente
l’opposto del naturalismo poiché interferiscono a priori nel fenomeno da
studiare. Il naturalismo, applicato allo studio dell’uomo, non ha altra scelta
che concepire l’uomo come soggetto perché il naturalismo rivendica fedeltà
al mondo empirico. Nel mondo empirico l’uomo è soggetto e non oggetto,
tranne quando viene paragonato a un da se stesso o da un altro soggetto. Il
naturalismo deve scegliere la visione soggettiva e di conseguenza deve fon-
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dare il metodo scientifico con gli strumenti distintivi dell’umanesimo: esperienza, intuizione ed empatia. […]. Il suo solo impegno è la fedeltà al fenomeno in considerazione […]. Nello studio dell’uomo il naturalismo si configura come umanesimo disciplinato e rigoroso» [Matza, 1976: 23].
La devianza primaria produce infatti «[…] implicazioni soltanto marginali per la struttura psichica dell’individuo; essa non dà luogo ad una
riorganizzazione simbolica a livello degli atteggiamenti nei riguardi del sé
e dei ruoli sociali» [Lemert,1981: 65].
Si utilizza il termine divergenza cosí come teorizzato da Germán Silva
García [2000].
Matza individua due concetti fondamentali che esprimono la rivalutazione delle relazioni complesse in contesto sociale e che consentono di valutare la relazione tra fenomeni in termini dialettici. Il primo concetto, la
sovrapposizione, si riferisce alla connessioni, ai legami fluidi e incerti che
intercorrono tra le fenomenologie osservabili: «[…] la differenziazione,
marginale anziché evidente, fra normali e devianti, e la compenetrazione
notevole, seppure variabile, tra cultura deviante e cultura convenzionale.
Entrambi i temi si sensibilizzano allo scambio del traffico e al flusso regolari – sia di persone che di modelli e precetti – che si stabiliscono fra
mondi devianti e mondi normali. Cosí la distinzione concettuale tra devianza e normalità, per quanto possa essere necessaria, è espressa in un
modo che riconosce l’esistenza di un processo di scambio fra i due campi» [Matza, 1976: 112]. L’ironia, il secondo concetto, è da considerarsi
quale la possibilità latente che «[…] qualità intrinseche dei fenomeni, che
benché nascoste, culminano in risultati che deridono quelli attesi» [Matza, 1976: 115], essa si riferisce ad un’analisi temporale delle sovrapposizioni complesse, alla possibilità di ribaltamento di prospettiva, «[…] una
situazione o un risultato opposto a quello appropriato, e quasi lo schernisce» [Matza, 1976: 114]. È opportuno sottolineare comunque che Matza
non propone le opposizioni concettuali come delle vere e proprie dicotomie né in termini evoluzionistici: la relazione dei concetti è sempre da lettere in termini dialettici.
Matza introduce, nei capitoli conclusivi del suo Becoming deviant, il ruolo
svolto dalle istituzioni di controllo statali ed utilizza la metafora del mostro
gelido, del Leviatano la cui funzione «[…] consiste principalmente nel decretare secondo le leggi quali siano le attività e le persone da definire devianti, rendendole cosí opportunamente oggetto di sorveglianza e di controllo» [Matza, 1976: 229]. Lo scopo principale del bando è trasformare
moralmente un individuo e farne un colpevole, costruire un’immagine per
tenerne il virtuoso lontano e controllare in maniera sottile l’individuo, individuo che non sarà scoraggiato nel commettere le sue attività definite
devianti, bensí le commetterà. La demonizzazione si configura allora come
compenso per il Leviatano che ha fallito nella sua opera di dissuasione.
Tutto ciò richiede una svolta radicale anche nella considerazione della devianza nell’era in cui si sta verificando «l’integrazione tra intelligenza al
silicio e intelligenza biologica».
Segni che esplicitano il grado e la violenza dell’etichettamento e della reazione sociale all’omosessualità cosí come vissuti dai soggetti che, secondo
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quanto si cerca di affermare, diventano gli attori principali e i catalizzatori del cambiamento.
Douglas R. Hofstadter definisce il pensiero come «una rappresentazione
flessibile e intensionale del mondo» [Hofstadter, 2000: 367].
«In reality there never was, never could be, and never will be anything
at all. There! You always knew this. No other answer make sense. All I
teach is the consequences of there being nothing. The perennial mistake
of western philosophers has been to suppose, with no justification
whatever, that nothing have any consequences of there being nothing is
the inevitable apparence of “all this”. No problem!» [Spencer-Brown,
1994: IX].
In Che cos’è la filosofia [Deleuze, Guattari, 1996], il pensiero è descritto
come immerso in un caos di sfondo infinito. Il compito della filosofia è
quello di generare ordine e orientamento nel caos attraverso i concetti
che rivestono il ruolo di figure o configurazioni. I concetti sono autopoietici e autoreferenziali.
«[…] qualunque mutamento sociale, in quanto comporta un cambiamento nell’azione umana, è necessariamente mediato dall’interpretazione che
ne danno le persone coinvolte: il mutamento si presenta sotto forma di
nuove situazioni in cui gli individui devono costruire nuove forme di azione. Inoltre, […] le interpretazioni della nuova situazione non sono determinate da condizioni che preesistevano alla situazione, ma dipendono da
quello che viene preso in considerazione e valutato nella situazione reale
in cui si forma il comportamento. Si possono avere facilmente variazioni
d’interpretazione quando, in una data situazione, unità agenti diverse isolano oggetti diversi, o danno un peso diverso agli oggetti che notano, o li
ordinano secondo schemi diversi. Nel formulare proposizioni sul mutamento sociale sarebbe saggio riconoscere che ogni direzione di cambiamento è mediata da unità agenti che interpretano la situazione in cui si
trovano» [Blumer, 1983: 83; corsivo mio].
Per una trattazione si rinvia a Giddens, 1991.
Mentre «le istituzioni indebolite dello Stato sociale e del diritto stanno
perdendo il monopolio della violenza legittima simbolica a favore di coloro che “dispongono di modelli di legittimazione” apparentemente superiori e pubblicamente piú accettabili e di “mezzi di costrizione e di influenza piú sottili”» (Fabricius, 1998: 481, cit. in Messner, ibidem: 164).
Nelle citazioni si tiene conto dell’edizione italiana.
Jennifer Nedelski, studiosa di rapporti tra genere e diritto, attingendo
dalle ricerche di Antonio Damasio, un neurologo che ha dimostrato l’importanza del corpo e delle emozioni nei processi di ragionamento e di
giudizio, sostiene che l’esposizione alla diversità facilita non solo l’accettazione di esperienze e prospettive diverse ma anche la trasformazione
delle proprie risposte affettive [Nedelski, 1997]. Particolare riconoscimento della dimensione soggettiva e delle sue dimensioni estetiche e patemiche giunge dagli studi semiotici: Greimas e Fontanille, 1991; Fontanille, 2004; Marrone, 2001; sull’analisi semiotica del soggetto sessuato si
consiglia la lettura di Demaria, 2003. Utili riferimenti anche nel Dizionario degli studi culturali di Cometa, 2004, soprattutto alle voci curate da
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Marco Pustianaz che presentano una sintetica ma utile bibliografia degli
study gay e lesbici, e degli studi queer.
Non bisogna peraltro cadere nel vizio epistemologico di considerare i
gruppi minoritari come gruppi omogenei, dal momento che essi stessi rispecchiano le differenziazioni interne degli altri gruppi, quanto piuttosto
considerare il gruppo come «[…] qualcosa di plurimo, trasversale, fluido
ed elastico» (Young, 1990: 62).
Cosí come le altre forme di esistenza sessuale.
IV. Evoluzione del fenomeno mafioso e «mafie transnazionali»
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La ricerca, alla quale prenderanno parte anche studiosi di livello internazionale, si avvarrà dell’analisi e dell’elaborazione delle seguenti fonti: a)
materiali giudiziari (sentenze e provvedimenti di merito e di legittimità);
b) dati normativi e loro evoluzione nel ventennio; c) stampa locale, nazionale ed internazionale; d) contributi scientifici desumibili dalla letteratura
giuridica, economica, criminologica, sociologica e politologica nazionale
ed internazionale, e) analisi dei principali provvedimenti transnazionali in
materia di criminalità organizzata e delle politiche pubbliche di contrasto. Ci si propone di realizzare delle mappe concettuali – desunte anche
dalle ricerche empiriche nei vari paesi – (in questo intervento pur rapidamente cercheremo di analizzare le ricerche di Peter Hill sulla Yakuza, di
Federico Varese sulla mafia russa, di Yiu Chu Kong sulle Triadi cinesi che
mostrino i legami tra le idee che emergono dai dati e le interpretazioni
che essi sottendono: la necessità è quella di evidenziare puntualmente
l’ambiguità di “sovrainterpretazioni”, tese a delineare quasi-teorie che si
basano su quasi-fatti o addirittura su arte-fatti di tipo massmediatico.
Scrive Monica Massari: «Alla nutrita serie di commerci “tradizionali” – le
droghe, le armi, i prodotti di contrabbando – si sono recentemente aggiunti quelli basati sulla compravendita di donne, bambini, manodopera,
materiale nucleare, scorie radioattive, organi, valuta e strumenti di pagamento contraffatti» [Massari, 2002].
Sul punto si veda il dibattito aperto sulle pagine locali de la Repubblica da
un lungo articolo di Giovanni Fiandaca, Cosa Nostra una mafia sulla via
del declino?, 23 luglio 2002.
«[…] La mobilità dell’universo normativo dipende, oltre che dalla imprevedibile variabilità dei casi cui le norme si debbono applicare, anche dalla
variabilità delle fonti che le producono. Cioè dal diffondersi di quelle procedure che potrebbero denominarsi di forme di autolegislazione. In altre
parole, le regole dell’azione dei privati vengono sempre piú dettate dai privati stessi (o, piú esattamente, da loro rappresentanti, avvocati o altri agenti delegati) attraverso i loro contratti accordi, e sono quindi pensate in funzione dei loro interessi immediati, con poca considerazione alla loro coerenza in un sistema generale di regole. La produzione giuridica appare allora dominata dagli studi associati di consulenza, generalmente situati negli Stati Uniti. Da questi si producono le norme che regolano i rapporti di
produzione e distribuzione internazionale dei beni» [Pizzorno, 2002].
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M.E. Beare e R.T. Naylor (1999), Major issues relating to organized crime:
within the context of economic relationships, Nathanson Centre for the
study of organized crime and corruption, Law Commission of Canada,
April 4, 1999; della stessa autrice si vedano inoltre M.E. Beare (1996),
Criminal conspiracies: organized crime in Canada, Nelson Canada, Toronto; M.E. Beare (2000), Structures, strategies and tactics of transnational criminal organizations: critical issues for enforcement, paper presented at the
Australian Institute of Criminology, Australian Customs Service e Australian Federal Police – Transnational Crime Conference, Canberra, March
9-10, 2000; M.E. Beare (2000a), Facts from fiction – Tactics and strategies
of addressing organized crime and organized criminals, paper presented at
the Canadian Police College Seminar Series, Perspectives on organized
crime in Canada, wednesday, June 21, 2000
Sebbene recenti studi si siano occupati di identificare ed esplicitare modelli attraverso cui anticipare sviluppi, innovazioni o cambiamenti del crimine organizzato domestico e transnazionale; si veda in particolare P.Williams e R. Godson (2002), «Anticipating organized and transnational crime», in Crime, Law and Social Change, 37: 311-355, di cui si renderà conto nella trattazione che segue.
A tal fine si vedano i contributi di F. Varese [2001]; Hill, 2002 e Y.K.
Chu, 2000, nonché le analisi di Susan Strange, A. Pizzorno e M.R. Ferrarese sulle forme invasive del capitalismo contemporaneo e sul conseguente svuotamento di alcune funzioni tradizionalmente attribuite allo Stato
moderno, svuotamenti che in determinate circostanze determinano un vero e proprio vacuum di natura legislativa.
Si pensi al ruolo esercitato dalle fiction in tv e dai prodotti mediatici in
generale [B. Lawton, 1995 e 2002; M.E. Beare, 2000a].
Oltre al noise nella ricezione del sistema normativo complesso e alle elaborazioni e rappresentazioni che gli attori sociali ne forniscono, il sistema
giuridico secondo François Ost e Michel van de Kerchove presenta particolari paradossi [Ost e de Kerchove, 1997: 6 sgg.]: a) il diritto regge la differenza tra la legalità e l’illegalità, sebbene non possegga la matrice integrale del codice legale e dell’illegale; b) esso non ha di fatto accesso diretto ai
fatti che domina; c) esso possiede frontiere porose e reversibili, sia al suo
interno che al suo esterno; d) le regole instaurate per pacificare i conflitti
e guidare i comportamenti sono esse stesse la posta di un conflitto permanente; e) gli attori del gioco sono tanto compagni quanto avversari; f) la
conoscenza del diritto – a causa della sua pluri-dimensionalità e plurispazialità – implica il situarsi nello stesso tempo dentro e fuori; g) «la sua
legittimità riposta tanto sul consenso di cui beneficia quanto sulla possibilità del dissenso su cui si accomoda».
La commissione era composta da Donald Cressey, Ralph Salerno, Robert
Blakey, Charles Rogovin, Rufus King e Thomas Schelling [Beare e Naylor,
1999]
«The problem in defining organised crime, stems not from the word “crime”, but from the word “organised”. While society generally recognises
and accepts certain action as criminal, there is no standard acceptance as
to when a criminal group is organised. The fact that organised criminal
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activity is not necessarily organised crime complicates the definition process» [Pcoc, 1986: 25]: President’s Commission on Organized Crime
(1986), The Impact: Organized Crime Today, Washington, DC: U.S. Government Printing Office
Scrive Cressey: «[…] any crime committed by a person occupying, in an
established division of labour, a position designed for the commission of
crime providing that such division of labour also includes one position
for a corrupter, one position for a corruptee, and one position for an
enforcer» [Cressey, 1969: 319].
«[…] It functions as a business satisfying a demand among members of
the “legitimate” world» [Hill, 2002: 49]. Definizioni piú recenti sembrano piuttosto generiche. Si pensi alla definizione di crimine organizzato
fornita da Porteous nel suo Organized Crime Impact Study, preparato nel
1998 per il Ministry of the Solicitor General canadese: «Attività illecita
motivata economicamente intrapresa da ciascun gruppo, associazione o
ciascun altro corpo che consista di due o piú individui, se formalmente o
informalmente organizzata, il cui impatto negativo di detta attività potrebbe essere considerato significativo da una prospettiva economica, sociale, di generazione della violenza, salute o sicurezza ambientale» 14
[Porteous, 1998: 2, citato in Beare, 1999]. Questa definizione è una definizione ad ombrello ovvero una catch-all definition: tolti i requisiti della
durata, dell’organizzazione, della capacità di esercitare violenza e/o corruzione, il concetto di crimine organizzato potrebbe indicare ogni attività
criminale «che coinvolga almeno due persone e dove vi sia una motivazione economica di una qualche sorta» [Beare, 1999].
Attraverso un controllo monopolistico dell’attività di racket esercitato sul
mercato illegale, su affari legali, ovvero su fattori produttivi chiave quali il
lavoro.
«Organizations that have durability, hierarchy, and involvement in a multiplicity of criminal activities».
Nella sua Storia della mafia, Francesco Renda [Renda, 1997] fa notare come già il barone Turrisi Colonna, nei Cenni sullo stato attuale della sicurezza pubblica in Sicilia, pubblicato a Palermo nel 1864, parlasse di una «setta che trova ogni giorno nuovi affiliati nella gioventú piú svelta della classe rurale, nei custodi dei campi e nell’agro palermitano, nel numero immenso dei contrabbandi, che dà e riceve protezione e soccorsi da certi uomini che vivono nel traffico ed interno commercio, che poco teme la forza
pubblica, perché crede potersi facilmente involare alle sue ricerche, che
poco teme la giustizia punitrice, lusingandosi nella mancanza delle prove
e per la pressione che esercita sui testimoni» [Turrisi Colonna, 1864: 57].
Sul rapporto tra protezione, fiducia e violenza, precisa Gambetta:
La protezione non coincide con la violenza anche se per metter d’accordo due parti che litigano, proteggerne una dall’altra, scoraggiare la concorrenza a favore di un protetto, punire un «bidone» sul mercato della
droga, è necessaria la capacità di usare la forza o, meglio ancora, di minacciarne l'uso in maniera credibile. La confusione relativa al concetto
di protezione non si limita alla violenza, ma si estende anche al concetto
di fiducia. Per esempio si è interpretata la mia affermazione «la mafia
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vende fiducia» in modo letterale. Ciò che in realtà intendo è che negli
scambi in cui manca la fiducia, la protezione può rappresentarne il sostituto, un sostituto distintamente peggiore. È peggiore sia perché ricorrere
a una terza parte per trovare un accordo è piú costoso che riuscirci da soli; sia perché fare affidamento su una categoria di protettori specializzati
scoraggia in vario modo il perseguimento di forme fiduciarie piú efficienti, vale a dire direttamente gestite dalle parti o basate su regole morali di
comportamento; sia, infine, perché ciò rafforza, anziché allontanare, il sospetto, la paranoia, la paura presenti nei rapporti sociali, rendendo la vita
distintamente meno piacevole a viversi» [Gambetta, in Costantino, Fiandaca, 1994: 223]. Senza fiducia per Georg Simmel la società sarebbe destinata alla disintegrazione; «Cosí, come la società si disintegrerebbe in
assenza di fiducia tra gli uomini – sono pochissimi i rapporti che si fondano realmente su ciò che uno sa in modo verificabile dall’altro, pochissimi
durerebbero oltre un certo tempo, se la fiducia non fosse cosí forte o talora anche piú forte di verifiche logiche e anche oculari – cosí anche la
circolazione monetaria verrebbe meno in assenza di fiducia» [Simmel,
1984: 263].
Ringraziamo l’autore per la gentile concessione per averci fornito con anticipo delle parti del suo lavoro ancora in bozze dalle quali spesso citiamo. Il testo definitivo di Peter Hill è The Japanese Mafia: Yakuza, Law,
and the State, Oxford, Oxford University Press.
Con la corruzione si ottiene l’isolamento dalla sfera del law-enforcement,
mentre la violenza serve per esercitare la funzione di rule-making e scoraggiare la gente a cooperare con la giustizia; piuttosto che l’uso e l’impiego effettivo della violenza, risorsa primaria del CO è la credibile minaccia del suo uso: scrive Gambetta:
«Piú sarà solida la fama di un’impresa di protezione e minore sarà il bisogno di ricorrere alle risorse che ne costituiscono il fondamento» [Gambetta, 1992: 48]. Come è chiaro, Gambetta si riferisce ai concetti di reputazione ed onore.
Accordi sanciti dallo scambio di tazze di sake.
Dal canto suo, scrive, Monica Massari: «L’emergere di un villaggio criminale globale – di cui si paventa l’avvento – non deve, però, intendersi unicamente in termini di espansione delle attività criminali su scala internazionale. Una buona parte delle potenzialità criminogene insite nella globalizzazione non si traduce esclusivamente nelle attività condotte da
gruppi criminali tout court, quanto piuttosto in un contemporaneo scivolamento di soggetti legali in pratiche illecite e nella creazione di partnership sempre piú efficaci fra attori legittimi e soggetti criminali (De Maillard 2002; Nelken, 1998; Ruggiero, 1999; 2002; van Duyne, 1993)» [Massari, 2002].
Nel rapporto Bonfadini si legge: «I proprietari terrieri preferivano assoldare i banditi migliori e piú violenti come guardiani delle loro proprietà,
usando la reputazione criminale di questi come barriera difensiva e come
deterrente contro possibili attacchi predatori di altri criminali e, in questo
modo, creando le condizioni per la creazione di una vera e propria carriera o professione per i criminali piú temuti» [in Russo, 1964: 196].
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In un rapporto del ministro di Giustizia, un magistrato siciliano scrisse:
«[…] la mafia offre e riceve protezione allo stesso tempo; e piú la gente
chiede il suo aiuto piuttosto che rivolgersi al potere legittimo, piú questa
organizzazione si rafforza e cresce» [ibidem: 34].
Scrive Weber: «Ecco l’osservazione di un fabbricante, fattami circa
vent’anni fa, in risposta ai dubbi sull’efficacia della camorra in riferimento all’impresa: “Signore – fu la risposta – la camorra mi prende x lire al
mese, ma garantisce la sicurezza – lo Stato me ne prende dieci volte tanto,
e garantisce niente”» [Weber, 1968, I: 195].
«Ciò che è piccino è scorso via tutto quanto, /hanno qui peso ormai mare
e terra soltanto». Dalla poesia Ihro der Kaiserin von Frankreich Majestät
di Goethe citata da Carl Schmitt nella prefazione a Il nomos della terra
[Schmitt, 1991].
Ne I tre tipi di pensiero giuridico Schmitt tributa un omaggio a Santi Romano a proposito del fatto che il diritto non va considerato solo una
somma di regole, ma piuttosto come organizzazione complessa e differenziata dello Stato e quindi come ordinamento concreto che produce diritto. Schmitt, riprendendo quasi alla lettera L’ordinamento giuridico afferma che «sono le innumerevoli connessioni dell’autorità o del potere
statale che producono, modificano, attuano e garantiscono le norme giuridiche, pur non identificandosi con esse» [Schmitt, 1972: 260]. Sul punto si veda Romano, 1977: 15.
In Faktizität und Geltung scrive Habermas: «La mia tesi è che le norme
giuridiche e le norme morali, dopo essersi simultaneamente differenziate
dall’eticità tradizionale al livello post-metafisico di fondazione, si sviluppino parallelamente come due tipi di norme d’azione diverse, e tuttavia
capaci d’integrarsi a vicenda. Perciò il concetto di autonomia andrà pensato in maniera tanto astratta da poter assumere figura specificamente diversa in riferimento ora al primo ora al secondo tipo di norme: principio
morale in un caso. Principio democratico nell’altro […] Tramite la componente di legittimità della validità giuridica, il diritto positivo porta sempre dentro di sé un incancellabile riferimento alla morale. Ma questo riferimento alla morale non deve indurci a subordinare il diritto alla morale,
nel senso di una gerarchia tra norme. L’idea di una “gerarchia delle fonti”
appartiene al mondo del diritto premoderno. Piuttosto, la morale autonoma da un lato e il diritto positivo (sempre bisognoso di fondazione) dall’altro si collocano in un rapporto di complementarità» [Habermas, 1996:
129-130].
Dal punto di vista sociologico va considerato che morale e diritto positivo
hanno la stessa matrice nell’ethos sociale in cui etica convenzionale e diritto tradizionale si intrecciavano.
Come si legge in un documento che illustra le attività in ambito internazionale della Direzione nazionale antimafia: «Una delle “novità” delle dinamiche operative dei gruppi criminali strutturati (accanto a quella costituita dall’ampliamento dei mercati illeciti, che hanno ormai attinto anche
l’ambiente e gli esseri umani) è rappresentata dal suo modellarsi su schemi transnazionali. Con ciò si intende alludere al fatto che gruppi criminali
di diverse etnie o nazioni collaborano efficacemente fra loro nella gestio341
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ne di attività illecite. Si pensi, tanto per esemplificare, ai gruppi turchi,
macedoni, albanesi, kosovari che si impegnano nel settore dello smercio
di eroina, instaurando poi rapporti – da fornitori ad acquirenti – con le
mafie italiane (non solo quella pugliese – la sacra corona unita – ma anche
quella siciliana – Cosa nostra – e calabrese – la ’ndrangheta). La “transnazionalità” del crimine è, dunque, una caratteristica diversa della sua “internazionalità”. Con questa seconda locuzione ci si riferisce, infatti, alla
circostanza che un gruppo criminale non opera unicamente nel territorio
dello Stato ove è sorto, ma svolge la sua attività anche all’estero (ad es. è
noto che le famiglie di ’ndrangheta agiscono anche in Francia, Germania,
Australia, ecc); con la prima, invece, si intende alludere alla cooperazione
che gruppi criminali di diversa nazionalità instaurano fra di loro per gestire piú efficacemente determinati mercati criminali. Tale fenomeno è indotto dalla natura stessa di tali mercati che hanno spesso ad oggetto beni
mobili (stupefacenti, armi, esseri umani, denari di illecità provenienza, rifiuti radioattivi o comunque pericolosi) che debbono essere trasferiti dal
paese di produzione a quello di consumo (o di rifugio), attraversando territori di altri paesi. Da qui le sinergie fra i vari gruppi criminali che gestiscono il mercato, sinergie che non solo alimentano e sorreggono il traffico, ma potenziano i singoli gruppi che trovano ragione di maggior forza e
potenza nei rapporti che instaurano con le altre associazioni. A fronte di
tale fenomeno è necessaria una struttura che, modellandosi sulle sue caratteristiche, sia in grado di contrastarlo».
Sull’attività in ambito nazionale e internazionale della Direzione nazionale antimafia ringrazio il procuratore nazionale antimafia, dottor Pier Luigi
Vigna, per aver concesso a chi scrive e ad Antonio La Spina una lunga intervista presso la Dna e per avermi consentito di accedere alla lettura delle relazioni annuali sull’attività della medesima Direzione antimafia che
costituiscono un materiale prezioso per chiunque voglia studiare scientificamente le mafie e la criminalità organizzata sul piano nazionale e internazionale. L’analisi approfondita dell’attività della Dna e delle sue strategie organizzative e di contrasto sarà oggetto di un mio prossimo studio.
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Finito di stampare nel mese di novembre 2004
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