Le dodici domande - Viaggi di Cultura

Viaggi di cultura 1
Vikas Swarup
Le dodici domande
Parma, Guanda 2005
Nell’India dei giorni nostri, un ragazzo povero e senza famiglia vive una vita
da fame, ai margini della società, ma riesce ad andare avanti grazie a tenacia,
furbizia e abilità. La sua vita è un continuo succedersi di disavventure, spesso
tragiche: omicidi, furti, violenze e fughe.
Poi però qualcosa cambia, e anche per lui sembra aprirsi uno spiraglio di
luce: partecipa a un quiz televisivo e incredibilmente vince, rispondendo
correttamente a tutte le dodici domande. Come può un giovanotto povero e
ignorante conoscere risposte che prevedono una vasta cultura generale?
L’autore, con uno stile incalzante e commovente, racconta la vita del
protagonista a partire da quelle domande, rivelando con grande intensità
emotiva le gioie e le sofferenze di Ram Mohammas Thomas.
Scacciata dei polacchi dal Cremlino di Mosca,
di Lissner Ernst (1874-1941)
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Jean-Christophe Romer
Russia d’Asia?
in Outre-terre, revue française de géopolitique, 2004/1- numero 6
Da diversi anni la rivista Outre-terre offre le sue analisi internazionali a un
pubblico a metà via tra quello accademico e universitario e quello giornalistico.
Rispetto alle riviste italiane che potrebbero ricordarla – schierate su posizioni
ben riconoscibili e con alleati molto saldi – Outre-terre è un punto di
osservazione più libero. I problemi vengono discussi da angolazioni diverse e
spesso con notevole competenza.
Il saggio che qui pubblichiamo di Jean-Christophe Romer ne è un bell’esempio:
basterebbe l’incipit, con questa sorprendente scoperta [per chi non è esperto] di
una Russia arrivata al Pacifico prima che al Baltico a fare comprendere il taglio
originale dell’analisi. Né poteva essere diversamente: nel bene e nel male la
Francia resta la Francia, difficile omologarla o allinearla – in fila e ubbidiente
– dietro i comandi del Dipartimento di Stato.
Traduzione di Emanuela Canghiari.
RUSSIA E ASIA
Modo produttivo asiatico, dispotismo orientale, occidentalismo contro slavofilia, Eurasia e eurasismo... Sono tutti termini che hanno attraversato la storia della
Russia, indipendentemente dal tipo di regime che l’ha caratterizzata nel corso dei
secoli. La persistenza di questi termini, idee e scuole di pensiero destinate ad interpretare la natura del potere mostra quanto l’Asia fosse importante per la Russia, nella
cultura politica così come nel suo immaginario.
La Russia è una potenza asiatica? La domanda è vecchia quanto la Russia stessa.
Eppure, nessuna risposta definitiva può essere data su uno stato che, da Caterina II
a Eltsin, si concepisce di meno come un paese che come un “universo”, o addirittura
un impero, nel senso tradizionale del termine. Da questo punto di vista, il processo
di formazione dell’Impero russo mette in luce tutta la complessità del quesito iniziale
e la difficoltà di trovarvi una risposta.
La conquista dei territori dell’est era
stata avviata già dall’epoca della Russia
di Kiev (XI-XII secolo). Tuttavia, le invasioni tartaro-mongole della metà del
XIII secolo e i tre secoli di successiva occupazione hanno sospeso questa marcia verso l’est. Hanno lasciato alla Russia, però, una forte impronta culturale e
linguistica, conferendole una parte della
sua dimensione asiatica. Con la liberazione dal giogo mongolo, a cavallo tra il
XV e il XVI secolo, la Moscovia riprende la conquista degli spazi orientali, in
particolare dopo che Ivan IV il Terribile assumerà il titolo di “zar”. Il dibattito
che suscita l’etimologia della parola “zar”
tra gli storici è rivelatore dell’ambivalenza alla base dell’universo russo: si tratta,
com’è comunemente riconosciuto, di
una “slavizzazione” di “Cesare” oppure, come suggerito dallo storico Nicolas
Karamzine all’inizio del XIX secolo, di
un “nome dato in origine agli imperatori d’oriente e poi ai khan tartari, e che
significa in persiano trono, autorità suprema”?
A partire dalla fine del XVI secolo,
la conquista si dirige principalmente verso l’Oriente. L’occupazione della Siberia
sarà intrapresa intorno al 1581 dai commercianti russi con l’appoggio dei cosacchi condotti dall’ottomano leggendario Ermak (?-1585). Questa “conquista
dell’est” permette ai Russi di raggiungere
l’Oceano Pacifico alla metà del XVII secolo. La città di Ochotsk è fondata nel
1649 e Sakhalin e le isole Kuruli sono
scoperte lo stesso anno – nonostante la
storiografia giapponese metta in dubbio
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questa “scoperta” da parte dei Russi. Ad
ogni modo, è bene constatare che la scoperta e lo sfruttamento della Siberia e
della costa pacifica sono anteriori all’accesso della Russia al mar Baltico e al mar
Nero, datando rispettivamente l’inizio e
la fine del XVIII secolo. Malgrado le distanze e le aspre condizioni climatiche, la
conquista dell’est siberiano è stata paradossalmente più facile di quella dei mari
Nero e Baltico, in quanto non vi era nessuna potenza, svedese o ottomana, che
potesse arginare la progressione dei Russi. Questa marcia verso l’Oriente e in seguito verso l’Asia centrale rivela la natura stessa dell’Impero russo che, secondo
l’analisi di Duroselle, si presenta innanzitutto come un “impero conquistatore”
(ovvero “durevole, legato alle dinastie”
e marcato da una “sanguinosa epopea”)
ma anche, in secondo luogo, come un
impero alla costante ricerca di stabilità
sulle frontiere. Sebbene non si possa parlare, in questo caso, di un impero coloniale nel senso tradizionale del termine,
la dimensione economica non era certo
assente dalla conquista russa e coloro che
ne traevano più vantaggio erano proprio
i commercianti.
Grazie ai possedimenti in Estremo
Oriente, la Russia sarà la prima potenza
occidentale – europea – a stipulare accordi e trattati con delle nazioni asiatiche
come la Cina o il Giappone. Ciò ha incoraggiato, fino alla metà del XIX secolo, la tendenza dei dirigenti russi a considerare l’Estremo Oriente come un loro
dominio riservato, oggetto di una di-
plomazia particolare. Il risultato, secondo Henry Kissinger, è che durante tutto il XIX secolo il dipartimento d’Affari
asiatici del Ministero russo degli Esteri
conservò una certa autonomia. Infatti,
considerandosi fuori dal “concerto europeo”, questo organismo conduceva la
propria politica in modo indipendente
dalla Cancelleria e dalle firme di trattati
o dichiarazioni di guerra che si succedevano in Europa. A ciò è seguita ovviamente una serie di crisi quando, alla fine
del XIX secolo, la Gran Bretagna e gli
Stati Uniti cominciarono a interessarsi a
questa parte del mondo e il Giappone si
sviluppò considerevolmente.
Com’è oramai dimostrato, la guerra russo-giapponese tra il 1904 e il 1905
è stata promossa dagli anglosassoni allo
scopo d’indebolire le posizioni della
Russia in Estremo Oriente. La sconfitta
russa in questo conflitto (la prima di una
potenza europea di fronte ad una potenza non-europea) ha avuto una risonanza
considerevole in Russia così come in ciò
che ancora non si chiamava Occidente.
L’Asia, quindi, rappresenta una realtà in Russia, sia in ambito storico-culturale che politico. Questa realtà e l’immaginario a cui ha dato vita affondano
le loro radici nei limiti geografici e nel
peso della storia. Dall’impero degli Zar
a quello dei Soviet fino alla Federazione
attuale, possiamo constatare la persistenza di un certo tropismo asiatico. Mosca
conferma e rinforza una rete di rapporti
bilaterali con le principali potenze asiatiche, approfittando spesso delle crisi
per inserirsi in un gioco diplomatico nel
quale, altrimenti, non rappresenterebbe
un partner naturale.
I vincoli della geografia e il
peso della storia
In varie tappe del processo di costruzione dell’impero, i Russi si sono posti
degli interrogativi sulla propria identità.
Queste domande riaffiorano, in particolare, quando la Russia si trova a doversi attribuire un nuovo sistema politico o
economico, dei contorni geopolitici – in
una parola: un’ideologia – in quei momenti in cui ha bisogno d’identificare
chi siano, all’esterno, i suoi amici e i suoi
nemici.
Questi interrogativi sono apparsi
alla fine del XV secolo (liberazione dai
mongoli e formazione dello stato russo moderno), all’inizio del XVII secolo
(conquista della Siberia) e all’inizio del
XIX secolo (Guerra patriottica), poi dal
XX secolo con lo stabilimento dello stato
sovietico. Ritornano, in modo altrettanto legittimo, alla fine del XX secolo.
La domanda resta sempre la stessa:
la Russia è “la parte orientale dell’Europa o il confine occidentale dell’Asia”?. È
“ponte o barriera tra la civiltà europea e
quella asiatica”? La risposta più comune
è quella di considerare la Russia come
una sintesi di queste due culture, il frutto di questa doppia influenza e, in base
a scuole e tendenze, privilegiare il primato dell’Occidente o quello dell’Oriente. All’inizio del XIX secolo emergono
due scuole di pensiero che diventano in
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qualche modo un’ossessione per la cultura politica russa – anche se le idee che
espongono precedono, e sorpassano, il
XIX secolo.
Una linea di pensiero, pur riconoscendo le influenze tartaro-mongole e
turche (in particolare in ambito linguistico) ritiene che l’avvenire della Russia sia in Europa, poiché “la politica,
l’economia, la mentalità, l’ideologia, la
letteratura e le arti russe sono eminentemente europee”. L’altra scuola insiste,
al contrario, sulla specificità russa, rigettando ogni influenza di un Occidente giudicato decadente e corrotto. Non
è un caso che queste scuole appaiano in
quanto tali all’indomani del 1812, anno
della “Campagna di Russia” per la Francia e “Guerra patriottica” per i Russi.
Quest’episodio storico, ovvero la prima
grande sconfitta di Napoleone, è stato sicuramente un’occasione, per i Russi, per
riflettere sul sentimento di patriottismo.
Dalla scuola filo-slava nasce anche una
corrente estrema che sboccherà, all’inizio
del XX secolo, nel “movimento eurasiatista”, il quale non solo rifiuta l’idea di una
qualsivoglia influenza europea, ma considera che gli interessi della Russia siano
esclusivamente asiatici, che la sua eredità
culturale derivi soltanto da Gengis Khan
e che i suoi alleati naturali siano la Cina,
l’India e l’Islam.
Sul piano culturale, la doppia componente Oriente-Occidente della politica russa è messa in luce dagli storici
contemporanei. La rivalutazione dell’immagine di Pietro il Grande, primo zar
europeo, è particolarmente rappresen-
tativa del dibattito. Se è vero che costui
ha fatto entrare la Russia in Europa, per
farlo ha dovuto mettere in atto delle pratiche ereditate direttamente dalla tradizione tartaro-mongola (“dispotismo
orientale”), come ad esempio il rafforzamento della servitù, le deportazioni per
lavoro forzato, l’appropriazione di terre
e di uomini (“le anime”) che vi lavoravano, così come l’istituzione di una casta
di funzionari interamente sottomessa al
Principe, secondo una gerarchia stabilita
nella “tavola dei ranghi” del 1722.
L’eredità tartaro-mongola si ritroverebbe ugualmente in ambito strategico.
Negli anni Trenta, per esempio, l’ammiraglio Castex sostiene una reale continuità tra Gensis Khan e Stalin in termini
d’orientamento politico principale. Per
Castex – ma si tratta di un’interpretazione a posteriori – Gengis Khan avrebbe
conquistato l’Asia soltanto per rinforzare le sue frontiere esteriori in vista di un
obiettivo: l’Europa. Ora, anche se allo
stesso modo degli eredi diretti di Gengis Khan (Ogödeï Khubilaï Khan) alcuni
zar si sono accontentati di un’unica direzione (quella orientale), dimenticando
il progetto occidentale, quest’ultima idea
non fu mai totalmente abbandonata dai
dirigenti successivi. L’orientamento occidentale ricompare, secondo Castex, a
partire dai primi anni di potere sovietico: “[...] sin dal principio la Russia sovietica ha condotto le sue operazioni in
uno spirito anti-europeo”. In altre parole, e secondo la formula attribuita a Lenin: “arriverete a capo dell’Occidente at-
traverso l’Oriente”. Allo stesso modo, al
congresso di Baku nel settembre 1920,
Zinoviev affermava che “la Russia tende la mano all’Asia non per farle condividere le proprie concezioni sociali, ma
perché 800 milioni di asiatici sono necessari per abbattere l’imperialismo e il
capitalismo europei”. Consolidare le retrovie asiatiche: in questa formula risiede
tutta l’ambiguità della postura sovietica
nei confronti della Cina anteriore o posteriore al 1949. In altre parole, per riprendere Castex: “la Russia è sul punto
di trovare in Cina la base e le risorse indispensabili alla sua manovra anti-europea”. Ma i fatti, sin dai primi anni del
bolscevismo, hanno annullato questa
tendenza e, dalla fine degli anni Venti,
Mosca aveva abbandonato la sua linea
principale per trovarsi “all’avanguardia
del mondo bianco contro le eventuali
minacce dell’altro continente”. Questa
valutazione di Castex datata 1935 sarà
ripresa da lui stesso nel 1955: la Russia
sovietica come “baluardo dell’Occidente” di fronte ad una minaccia più ad est,
di fronte a ciò che ad ovest è chiamato
comunemente “il pericolo giallo”.
Così, la Russia è consapevole di essere, allo stesso tempo, una potenza europea, una potenza asiatica e un baluardo dell’Occidente. Nonostante alla fine
degli anni Trenta Mosca rinunci, per
mancanza di mezzi, alla sua politica asiatica, l’espansionismo giapponese le farà
ricordare l’importanza degli interessi in
Asia. Nel periodo interbellico, infatti,
l’avversario principale dei Russi in Asia
è proprio l’imperialismo giapponese; si
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dimentica spesso che nel corso del XX
secolo la Russia (URSS) ha avuto ben tre
conflitti con il Giappone: nel 1904-05,
nel 1937-39 e nel 1945.
L’ostilità del periodo 1937-39 finirà dopo la battaglia di Khalkin Gol nel
1939, un evento fondamentale per la
storiografia militare sovietica che coincide con la firma del patto germano-sovietico. Due anni più tardi, nell’aprile del
1941, Mosca e Tokyo sottoscrivono un
accordo di non-aggressione e neutralità.
Con questo patto, la Russia riesce a consolidare il fronte orientale, sapendo di
doversi occupare sul lato occidentale del
Terzo Reich (anche se l’entrata in guerra è avvenuta prima del previsto). Sarà,
infine, sotto richiesta esplicita degli Stati Uniti, alla conferenza di Teheran e soprattutto a Yalta, che Mosca s’impegnerà
a dichiarare guerra al Giappone nei tre
mesi che seguono la fine delle tensioni
con la Germania. L’utilizzo della bomba A era in quel momento qualcosa di
completamente ipotetico. Come compensazione all’entrata in guerra contro il
Giappone, Stalin esige una controparte:
i territori persi dalla sconfitta del 1905,
ovvero il sud del Sakhalin e l’arcipelago
delle Kurili […].
Mosca ha anche altri problemi
in questa seconda metà del decennio:
l’ascesa del partito comunista (PCC) in
una Cina che, su scala mondiale, si considerava come parte della sfera d’influenza occidentale. È per questo che i sovietici restavano prudenti nei confronti di
un’eventuale presa di potere da parte del
PCC. Quest’ultima avrebbe rappresen-
tato certamente una vittoria del “movimento comunista internazionale”, ma
anche, e soprattutto, l’emergere di un
PC sul quale la Russia non avrebbe potuto esercitare alcuna influenza, così come
lo faceva sui partiti e sui paesi dell’Europa dell’est. Quest’attitudine è rivelatrice della diffidenza ancestrale della Russia
nei confronti della “massa cinese”, dovuta ad una concorrenza tra gli “interessi di
potenza” e gli “interessi di classe”.
A partire dal 1949 e ancor più dal
1950, il nord-est e il sud-est asiatici diventano un secondo fronte della guerra
fredda. In questa occasione, l’URSS non
si presenta come una potenza asiatica,
ma piuttosto come una potenza europea
e asiatica allo stesso tempo. Ne è testimonianza questa confidenza di Molotov
a Eden in occasione della conferenza di
Ginevra del 1954: “cosa volete, [i Cinesi] non pensano come noi!”. Visione lucida, poiché, malgrado la sua presenza e
influenza in Asia, l’URSS all’epoca non
può essere considerata come una potenza
asiatica. Potremmo dire che “ha potere”
in Asia, ma non che sia “una potenza”
asiatica. I suoi interessi sono innanzitutto e forse esclusivamente “occidentali”.
L’Asia è strumentalizzata come campo di
lotte delocalizzate dello scontro maggiore tra l’est e l’ovest. […] Soltanto a partire dall’inizio degli anni Ottanta Mosca
sembra prendere veramente coscienza
del fatto di poter essere anche una potenza asiatica. Questo cambiamento coincide con una fase di crisi tra l’URSS e i
suoi “partner-avversari” occidentali: Polonia, euro-missili, Afghanistan, forma-
zione del triangolo Washington-Pechino-Tokyo. Anche se rimane ampiamente
retorico, il discorso sovietico subisce
qualche variazione rispetto ai periodi
precedenti. A partire dal 1981, i dirigenti sovietici e in particolare il Ministro degli Esteri Gromyko invece di concentrarsi sulla natura della relazione tra l’URSS
e ogni singolo paese asiatico, affronta
oramai un nuovo tema, quello della sicurezza collettiva in Asia. Gromyko propone così l’adozione di misure di fiducia (in tema di sicurezza militare), in un
modo simile a quello realizzato in Europa. Questa proposta si distanzia da quelle, più antiche, che miravano a costruire
delle “zone di pace” nell’oceano Indiano,
in Europa centrale e settentrionale o nei
Balcani. Assistiamo, a partire dall’inizio
di questo decennio, alla nascita di una
rappresentazione globale di una nuova
regione “Asia-Pacifico”, una fraseologia
ripresa dai sovietici ma che era in vigore
nel mondo occidentale (soprattutto negli Stati Uniti) da una quindicina d’anni.
Il trattato d’amicizia e di cooperazione sino-giapponese del 1978, al quale si aggiungono il riconoscimento diplomatico di Washington nei confronti
della Repubblica Popolare Cinese e poi,
nel 1980, la promessa americana di concedere armi a Pechino, rappresenta una
vera e propria sfida per Mosca. Una volta
costituito il triangolo “anti-egemonico”,
Washington proclama la Cina “sedicesimo membro della NATO”: queste manovre diplomatiche in triangolo coincidono con il decollo dell’Estremo Oriente
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sovietico nello scenario militare, segnato
da un potenziamento del suo effettivo e
dalla distribuzione di missili di portata
intermedia ss20. La crisi è all’apice, ma
l’URSS ha ritrovato la sua dimensione
di potenza in Asia e sono gli anni dello
scontro tra egemonie. Bisognerà aspettare la seconda metà degli anni Ottanta
perché adotti una nuova postura verso il
continente e si ponga questa volta come
una vera potenza asiatica, proponendo
una visione a lungo termine che va al di
là del carattere affabulatore della sua politica e della sua strategia passate.
È proprio questo il centro del discorso di Vladivostok pronunciato da
Gorbaciov il 28 luglio 1986, nel quale
affronta il tema dello sviluppo economico dell’Estremo Oriente sovietico e
quello della normalizzazione del paese
nell’ambito della regione Asia-Pacifico.
In questo senso, propone una conferenza di tipo Helsinki con tutti i paesi che
si affacciano sull’oceano, poiché Mosca
era favorevole all’“inclusione della regione Asia-Pacifico nel processo globale di
sicurezza internazionale”. Tutto ciò mostra che l’URSS dava per scontata la sua
partecipazione a questa conferenza, poiché “l’Unione Sovietica è un paese che
appartiene anche alla regione Asia-Pacifico”.
Regione Asia-Pacifico: l’espressione, entrata nel vocabolario sovietico, acquisisce un’importanza tale che a partire
dal 1987 apparirà semplicemente come
una sigla (ATR) anche nelle pubblicazioni ufficiali. […] Passiamo quindi da
una concezione essenzialmente dogmati-
ca a una formula decisamente più operativa che dimostra la volontà dei sovietici d’investire in questa regione sul piano
diplomatico, politico ed economico. In
Gorbaciov c’è anche l’intenzione di sbarazzarsi dei vincoli mondialisti dei suoi
predecessori e abbandonare le zone di
crisi completamente improduttive sia in
termini politici che diplomatici o economici.
Così, pur difendendo l’idea di “Casa
comune europea”, Gorbaciov intende
cambiare approccio verso il continente
asiatico. Cercando di decostruire le ideologie alla base del rapporto tra l’URSS e
altri paesi, punta ad avvicinarsi all’“Asia
che cammina” e agirvi come una potenza
regionale. La normalizzazione di questo
rapporto con la Cina, il riconoscimento
della Corea del Sud e i tentativi di riavvicinamento con il Giappone fanno parte
di questa strategia. Questa logica non si
limita all’Asia continentale, ma si estende anche all’Asia degli arcipelaghi: i contatti con i paesi dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico) e
gli accordi importanti con i micro-stati
del Pacifico (in particolare con Vanuatu e Kiribati sulla pesca) rientrano in un
grande progetto di denuclearizzazione
del Pacifico, concretizzato con l’adesione
dell’URSS al trattato di Rarotonga il 15
dicembre 1986. Questi elementi dimostrano la volontà sovietica d’aumentare il
proprio peso politico e diventare un attore essenziale di questa regione Asia-Pacifico in pieno decollo economico. […]
Parzialmente deideologizzate già dal
1986-87, le relazioni tra l’URSS e l’Asia
subirono le naturali conseguenze della caduta del muro di Berlino. Tuttavia,
questo evento così importante non assume lo stesso valore in Asia. Pur costituendo uno dei fronti della guerra fredda, l’Estremo Oriente non aveva certo le
stesse caratteristiche del fronte principale europeo. L’Asia non ha mai avuto il
carattere omogeneo – o di doppia omogeneità politica, economica e soprattutto strategica – dell’Europa. La bipolarità
dell’Europa non faceva presa su questo
continente in cui la Cina, per quanto comunista, non poteva sommarsi in potenza all’URSS o, più precisamente, al comunismo sovietico.
Per la Russia post-sovietica, l’Asia resterà comunque una questione considerevole sia in termini di politica interna
che di diplomazia. Per Mosca si tratta, in
effetti, di conservare o piuttosto erigere
la Russia a passaggio da Oriente a Occidente, con l’obiettivo d’avvalersi di una
posizione centrale (fatto contestato da
Stati Uniti e da certi governi della regione). L’Asia, agli occhi dei Russi, rimanda
sia a un immaginario nazionale sia a una
realtà politica ed economica che volevano dominare.