PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO E CRESCITA PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO E CRESCITA: SCAMBIO POLITICO ED ESTENSIONE DEL MERCATO Leonello Tronti La questione: crescita lenta, produttività, impoverimento Da molti anni, ormai, l’economia italiana stenta a crescere. Dopo il 1995 il tasso di crescita medio annuo del prodotto lordo italiano è stato dell’1,5 per cento. Si tratta di un valore modesto, significativamente inferiore a quello dell’Unione Europea a 15 (2,3 per cento) e a quelli di Francia (2,2 per cento), Regno Unito (2,8 per cento), Stati Uniti (3,2 per cento), Spagna e Grecia (entrambi 3,8 per cento). Dopo il 2000 il tasso si crescita italiano è rallentato ulteriormente, portandosi all’1,1 per cento l’anno. La crescita italiana è stata superiore a quella giapponese e pari a quella tedesca e svizzera, ma anche l’aumento dell’occupazione è stato nettamente maggiore. Protraendosi nel tempo, le difficoltà di crescita hanno prodotto effetti di notevole impoverimento relativo. Nel 1995 gli italiani disponevano di un reddito per abitante al di sopra della media europea, maggiore di quello del Regno Unito e prossimo a quello di paesi tradizionalmente prosperi come la Francia o la Svezia. Oggi, dopo più di un decennio 183 184 Quaderni di ricerca sull’artigianato di crescita lenta, si trovano otto punti sotto la media europea e 17 punti sotto il Regno Unito. La cattiva performance italiana (una caduta di 13,5 punti percentuali tra 1995 e 2006, fatta pari a 100 la media europea) risalta in modo ancor più netto se la si confronta con i molto più contenuti ridimensionamenti di Germania, Francia e Portogallo e, all’opposto, con il miglioramento delle posizioni relative di Regno Unito, Spagna e Grecia (11, 12 e 15 punti rispettivamente) (figura 1). Figura 1 - Pil pro capite relativo – Differenze tra 2006 e 1995 (Differenze tra numeri indice in base media Ue15=100) 50.0 40.4 40.8 40.0 30.0 20.0 16.0 14.7 15.1 15.5 8.3 10.0 8.8 11.7 10.5 10.6 10.8 4.7 0.0 1.5 1.8 2.8 0.0 -0.3 -0.2 -4.2 -7.9 -10.0 -13.5 -2.9 -6.3 -12.1 20 0 Fonte: Eurostat. Poiché nel periodo l’occupazione è cresciuta in misura notevole (del 15,2 per cento, ovvero di 3,3 milioni di occupati) e più della popolazione, con un significativo aumento della quota degli occupati tra le persone in età di lavoro, la ragione del declino relativo dell’economia italiana non può che essere ascritta alla bassa crescita della produttività. È qui che si è spezzato il circolo virtuoso alla base del precedente successo italiano. Se dopo la Seconda guerra mondiale la produttività cresceva in Italia PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO E CRESCITA sempre un po’ più della media europea, consentendo al Paese di guadagnare lentamente ma continuamente terreno, migliorando progressivamente il tenore di vita sino a raggiungere livelli paragonabili ai maggiori paesi europei, intorno alla metà degli anni ’70 la tendenza si arresta. La posizione internazionale italiana cessa di migliorare per poi subire dagli anni ’90, caso unico tra i paesi europei, un arretramento senza precedenti nella storia repubblicana. In termini di prodotto per occupato, nel 1995 l’economia italiana presentava più di 14 punti percentuali di vantaggio rispetto al valore medio dell’Unione. Oggi quel vantaggio è perduto. Tengono ancora agganciata l’Italia alla media europea gli orari di lavoro che, data la bassa diffusione del lavoro a tempo parziale, risultano in media più lunghi1: il valore di quanto produce in un anno un italiano risulta ancora non inferiore al valore medio dell’Unione soltanto perché gli italiani sono impegnati più spesso con contratti a tempo pieno2. Se, però, consideriamo la produttività oraria (che ovviamente è un indicatore più accurato, perché misura la potenza produttiva del lavoro indipendentemente dalla sua durata), questa magra consolazione viene meno. Nel 1995 la posizione italiana sopravanzava di cinque punti la media europea; nel 2006, dopo un tracollo di 15 punti (figura 2), non ne supera il 90 1 Si vedano Tronti, 2005; Istat, 2006. Bisogna peraltro ricordare che il nostro tasso di occupazione, ovvero la proporzione di persone in età di lavoro sulla popolazione nella stessa fascia d’età, è ancora significativamente inferiore alla media europea, e dunque il numero relativamente elevato di ore lavorate l’anno dagli occupati si applica a una popolazione comparativamente piccola, e non è indice di un impegno lavorativo della popolazione particolarmente elevato. 2 185 186 Quaderni di ricerca sull’artigianato per cento. La gravità della caduta risalta a fronte della sua singolarità: l’Italia si ridimensiona pesantemente, mentre gli altri grandi paesi europei mantengono le loro posizioni o le migliorano. Figura 2 - Pil per ora lavorata relativo – Differenze tra 2006 e 1995 (Differenze tra numeri indice in base media Ue15=100) 50.0 45.2 40.0 30.0 24.5 18.5 20.0 16.6 10.0 7.6 4.4 0 0.7 1.3 1.7 8.4 10 11.2 11.2 12.9 5.3 2.5 0.0 -4.2 -2.7 -2.2 -1.2 -2 -1 -0.8 -10.0 -14.8 IE NO SK LT LU HU UK G R US CK JP NL SE FI FR 15 DE PT AT EU BE CH DK RO EU IT ES -20.0 Fonte: Eurostat. Questa pessima performance si colloca nel quadro dell’urto congiunto di tre grandi sfide, comuni a tutti i paesi dell’area dell’euro: la diffusione delle nuove tecnologie, l’affacciarsi ai mercati globali di concorrenti nuovi e agguerriti e, infine, l’adozione della moneta unica e la fine con essa della possibilità di guadagnare competitività attraverso la svalutazione della moneta nazionale. Tutte e tre le sfide hanno richiesto alle economie europee – e ancor più all’economia italiana, legata all’esportazione di beni tradizionali e storicamente caratterizzata da tassi di inflazione più elevati – di varare riforme strutturali profonde, intelligenti e tempesti- PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO E CRESCITA ve. Ma le riforme in Italia sono state attuate solo parzialmente e con grandi difficoltà, soprattutto sul piano del consenso. Le misure su cui si è trovato l’accordo non sono state sufficientemente profonde né coordinate da una visione strategica d’insieme, così che non hanno dato i frutti sperati3. La difficoltà delle misure richieste va compresa anche alla luce delle grandi trasformazioni che hanno comunque attraversato il sistema economico e il mercato del lavoro. Tra queste si segnala il lento e progressivo esaurirsi dell’esodo agricolo e il venir meno dei benefici effetti di un processo di sostituzione di posti di lavoro nel settore primario, a bassa produttività, con altri assai più produttivi nell’industria e nei servizi (Istat, 2008). Poi la cosiddetta “terziarizzazione dell’economia” ovvero l’aumento, assoluto e relativo, dell’occupazione nei servizi (generalmente a produttività stagnante) a scapito della manifattura (a produttività crescente) – quest’ultima spiazzata o delocalizzata verso paesi con costi molto inferiori (la cosiddetta “deindustrializzazione”). Questi processi di trasformazione strutturale del sistema produttivo si sono intrecciati con il forte aumento dell’offerta di lavoratori immigrati e con una riforma dei rapporti di lavoro che ha creato molte posizioni flessibili e temporanee, spesso in occupazioni poco qualificate, poco remunerate e a bassa produttività. Peraltro, la flessibilizzazione, quando non la precarizzazione del lavoro si sono 3 Si vedano Gallino (2003, 2006), Sylos Labini (2004), Boeri et al. (2005), Saltari e Travaglini (2006), Daveri (2006). Per un’acuta analisi teorica dei problemi di riforma del sistema economica, condotta con il sussidio di un modello teorico di equilibrio generale, rimando a Blanchard e Giavazzi (2003), i cui risultati vengono discussi più avanti nel par. 3. 187 188 Quaderni di ricerca sull’artigianato addensate al margine dell’occupazione, sulle leve in ingresso nel mercato, contenendone la remunerazione e spesso sottovalorizzandone il capitale umano4. Infine, tra le cause delle difficoltà strutturali dell’economia italiana non vanno dimenticati il peso del debito pubblico, gli squilibri finanziari ereditati dagli anni ’80, aggravati dalla mancata crescita, e il venir meno del ruolo trainante delle imprese pubbliche nell’area strategica degli investimenti in tecnologia e innovazione. In particolare, alle varie fasi del processo di privatizzazione e di ridimensionamento del ruolo economico dello Stato si è accompagnata nelle grandi imprese private una lunga stagione di “cattivi padroni” e finanzieri d’assalto5, più impegnati ad acquisire, spezzettare e rivendere con grandi plusvalenze le imprese che a innovarle e riorganizzarle per tenere testa al mercato globale. Queste grandi trasformazioni, che peraltro hanno interessato in varia misura anche altre economie avanzate, hanno certamente influito con forza maggiore sui ritardi di aggiustamento dell’economia italiana al nuovo clima tecnologico e globale. Perché? Il modello di Sylos Labini Per analizzare le cause della stagnazione e dell’impoverimento relativo dell’economia italiana, possiamo adottare come schema interpretativo di 4 Su questo aspetto si veda, tra i numerosi altri, il ricco e documentato volume a cura di Contini e Trivellato (2006). 5 Si vedano, ad esempio, Mucchetti, 2003; Gallino, 2005; Dragoni e Meletti, 2008. PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO E CRESCITA base il modello di crescita della produttività del lavoro proposto da Sylos Labini (1984, 2004). Questo studio procede quindi a una rivisitazione del modello mirata non tanto a verificarne di nuovo la capacità esplicativa, che viene data per scontata, quanto ad esplorare le cause sottostanti gli andamenti delle variabili che, in accordo con le linee analitiche da esso proposte, bloccano la crescita della produttività dell’economia italiana. Il modello di Sylos Labini si basa essenzialmente su due forze economiche fondamentali. La prima è quella dell’“effetto Smith”, ovvero della capacità della dimensione del mercato di sostenere economicamente la divisione e la specializzazione del lavoro: due processi che ancora oggi possiamo considerare come forma fondamentale dell’innovazione, sia di processo che di prodotto. Sylos ci ricorda che, per Smith, l’aumento delle capacità produttive del lavoro dipende dalla divisione del lavoro, che a sua volta dipende dall’estensione del mercato. In termini altrettanto semplici, Sylos (2004) nota che le innovazioni si possono dividere in “grandi invenzioni” (degli scienziati) e “piccole invenzioni” (dei lavoratori e, aggiungo io, degli imprenditori), e che queste ultime sono endogene e più importanti delle prime per la crescita economica, in quanto quelle accadono più raramente, e spesso richiedono un rilevante adattamento dei sistemi produttivi e delle modalità di consumo; mentre le piccole invenzioni sono più frequenti e non richiedono grandi adattamenti, ma piccoli aggiustamenti continui, nei sistemi produttivi come nei consumi. 189 190 Quaderni di ricerca sull’artigianato Questa visione è confermata dalla moderna teoria dell’impresa6, che riconosce che qualunque processo produttivo, oltre al prodotto cui è finalizzato, genera nel suo operare concreto un complesso di informazioni (spesso microinformazioni) sulla sua stessa funzionalità, che costituiscono una vera e propria risorsa economica aggiuntiva, ma possono essere raccolte e utilizzate solo da chi è direttamente implicato in esso. Questa realtà, ovviamente, è sempre esistita; ma, con l’elevazione dei livelli di conoscenza della manodopera e con la flessibilità senza precedenti dei sistemi produttivi basati in misura sostanziale sull’informatica e la telematica, ha assunto rilevanza strategica per l’innovazione e la competitività dell’impresa. In altri termini, i sistemi produttivi avanzati offrono più di quelli tradizionali, a chi sa avvalersene, la possibilità di utilizzare le “piccole innovazioni” per il miglioramento continuo di processi e prodotti. Ma, come per il passato, la sostenibilità economica della divisione del lavoro alla base di questi processi di innovazione dipende dall’estensione del mercato. La seconda forza trainante la crescita della produttività nel modello di Sylos Labini è quella dell’“effetto Ricardo”. Questo è basato sul ruolo della crescita del prezzo relativo del lavoro come fattore di spinta all’introduzione da parte delle imprese di nuovi macchinari, nuove tecnologie e nuove forme di organizzazione. Per Ricardo, la produttività cresce come effetto di un risparmio diretto del coefficiente di lavoro, a sua volta determinato da un aumento del costo relativo del lavoro, ossia da un aumento dei salari rispetto al prezzo delle macchine. Su questo punto si può dire che Ricardo 6 Ad esempio Roberts, 2004. PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO E CRESCITA fornisca un importante approfondimento dell’analisi di Smith sul legame tra alti salari e prosperità economica: le retribuzioni reali debbono crescere, non solo perché esse sono il principale sostegno ai consumi delle famiglie, ma perché sono anche il fondamentale elemento di pungolo alle imprese sul terreno dell’innovazione tecnologica e organizzativa7. Ricardo inaugura così un lungo filone della teoria della crescita economica che si sviluppa annoverando autori di orientamento diversissimo, da Marx, Marhall, Keynes e Schumpeter per giungere in Italia, ai nostri giorni, sino a Sylos Labini, Tarantelli e Roncaglia. Una volta introdotti gli effetti fondamentali, vediamo dunque in concreto il modello di Sylos. (1) La formalizzazione, che ordina le variabili per importanza da sinistra verso destra, pone la crescita della produttività del lavoro in dipendenza dalla crescita del pil (effetto Smith), dalla differenza tra la crescita del tasso di salario e quella dei prezzi dei macchinari (effetto Ricardo), con un lieve ritardo temporale, e da altre due variabili. La prima è data dalla differenza tra la crescita del costo del lavoro per unità di prodotto (unit labour cost o ulc) e quella dei prezzi, la seconda evidenzia (con un maggior ritardo rispetto all’effetto Ricardo) il ruolo residuo della crescita degli investimenti. È utile soffermarsi sulla penultima grandezza (differenza tra costo del lavoro per unità di prodot7 Non è inutile ricordare che a favore degli alti salari militano anche le ragioni di ordine microeconomico enunciate dalla teoria dei salari di efficienza (ad es., Shapiro e Stiglitz, 1984). 191 192 Quaderni di ricerca sull’artigianato to e prezzi) perché essa regola l’evoluzione della distribuzione primaria del reddito. Possiamo infatti notare che la quota del lavoro nel redito (SL) è definita nel modo seguente: (2) SL = , ( N d + N i ) ×w N ×w = = ulc ×p Y ×p Y ×p 1 dove Nd è l’occupazione dipendente, Ni quella indipendente, w il costo del lavoro unitario, Y il prodotto, p i prezzi e N l’occupazione totale. Possiamo quindi esprimere la quota del lavoro come rapporto tra il costo del lavoro per unità di prodotto e i prezzi. In termini di variazioni abbiamo: S&L = ul&c + p& 1 + (ul&c ×p& 1 ) (3) , da cui, con l’assunzione di trascurabilità del termine di interazione, ricaviamo la condizione di stabilità: (4) S&L 0 ul&c S&L 0 ul&c p&, p&, che segnala che la quota del lavoro nel reddito sarà stabile se la variazione del costo del lavoro per unità di prodotto è pari a quella dei prezzi; mentre, se la variazione è inferiore (superiore) a quella dei prezzi, la quota diminuisce (cresce). L’effetto Smith rivisitato Come abbiamo notato, le economie dell’euro sono chiamate a riorganizzarsi per fronteggiare le sfide delle nuove tecnologie, dei nuovi concorrenti PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO E CRESCITA globali e della moneta unica; e la strategia comune per assicurare la crescita è quella di rendere più competitivi sia il mercato del prodotto sia quello del lavoro, essendo la regolazione dell’offerta di moneta ormai esogena. Blanchard e Giavazzi (2003), con l’ausilio di un modello di equilibrio generale a due mercati, illustrano la sequenza degli elementi rilevanti di questa strategia comune (Figura 3). Anzitutto la liberalizzazione del mercato del prodotto deve riuscire a ottenere un aumento della pressione concorrenziale tale da contenere i prezzi, stimolare l’innovazione e favorire la crescita della produttività. Contenimento dei prezzi, innovazione e produttività, a loro volta, consentono all’economia di mantenere la propria posizione competitiva, almeno nei confronti dei concorrenti tradizionali (i partner nell’area dell’euro). Parallelamente, nel mercato del lavoro, le riforme devono moderare la crescita del costo del lavoro e dei salari. Ma la moderazione non deve essere portata al punto da diventare controproducente: il contemporaneo contenimento dei prezzi deve infatti assicurare comunque la crescita del potere d’acquisto delle retribuzioni e, per questa via, della domanda interna. Se il mercato del lavoro è troppo liberalizzato rispetto a quello del prodotto, i salari perdono potere d’acquisto e i consumi interni ristagnano; se è troppo liberalizzato il mercato del prodotto rispetto a quello del lavoro, i salari sono troppo elevati, le imprese non fanno profitti e sono spinte a trasferirsi altrove o falliscono, cresce la disoccupazione. Solo l’equilibrio tra i due mercati assicura che l’economia cresca stabilmente, trainata dalla domanda estera (per il canale della moderazione dei prezzi) e da quella interna (per quello dell’aumento del potere d’acqui- 193 194 Quaderni di ricerca sull’artigianato sto dei salari). Figura 3 – Aggiustamento strutturale delle economie dell’euro ed “effetto Smith” Mercato del prodotto Mercato del lavoro Liberalizzazione del mercato del prodotto Flessibilizzazione del mercato del lavoro Contenimento dei prezzi Moderazione salariale Competitività internazionale Crescita del potere d'acquisto Innovazione Produttività Effetto Smith Domanda estera Crescita Domanda interna Fonte: elaborazione su Blanchard-Giavazzi (2003). Invece per un paese che, come l’Italia, abbia messo in atto una significativa riforma del mercato del lavoro prima di avere adeguatamente riformato il mercato del prodotto e, quindi, senza un’adeguata pressione concorrenziale su prezzi e margini, le conseguenze sono perverse: da un lato il declino della quota del lavoro nel reddito (impoverimento relativo dei dipendenti e delle loro famiglie), dall’altro prezzi elevati – con la duplice conseguenza negativa di una perdita di competitività internazionale (pur in presenza di profitti significativi) e di un rallentamento dei consumi. In un contesto di inasprimento della concorrenza internazionale, i prezzi elevati si traducono in un freno alla crescita dal lato delle esportazioni, mentre il rallentamento dei consumi frena la crescita sul mercato interno. In un sistema economico gravato da numerosi segmenti strutturalmente protetti dalla concorrenza (interna e/o internazionale), la moderazione PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO E CRESCITA salariale non accompagnata da una (almeno) altrettanto stringente pressione su prezzi e margini consente l’accumulo di rendite ingenti. È questo quanto si verifica nell’economia italiana. Nell’insieme dell’economia, dopo il 1993 l’incidenza delle rendite da oligopolio (o meglio, da debolezza o assenza di concorrenza) sul valore aggiunto cresce al ritmo medio di 0,4 punti percentuali l’anno, assicurando alle imprese beneficiarie un flusso di 195 196 Quaderni di ricerca sull’artigianato risorse che, ai prezzi del 2000, tra il 2000 e il 2007 approssima l’importo medio di 108 miliardi di euro l’anno8 (Figura 4). Figura 4 - Accumulazione delle rendite da assenza di concorrenza nell’economia italiana prima e dopo il 1993. Anni 1980-2003 (Valori assoluti a prezzi costanti 2000 in migliaia di euro e incidenze 8 Sulla base della letteratura internazionale (si veda in particolare Griffith-Harisson, 2004), considero qui come proxy delle rendite da oligopolio i profitti eccedenti il “normale” tasso di redditività di un mercato di concorrenza. La procedura di stima proposta da Griffith e Harisson si basa sul mark-up del valore aggiunto rispetto alla somma del costo del lavoro e del capitale. In particolare, gli autori stimano il costo del capitale come costo d’uso dello stock di capitale, che assumono pari a una proporzione costante (10 per cento). Con questo metodo, stimano che il settore privato non agricolo dell’economia italiana risulti gravato dalle rendite più elevate tra tutti i paesi considerati (14 paesi UE più gli Stati Uniti): tra il 1985 e il 2000 il valore del mark-up è di 1,40 contro 1,26 della media. L’indicatore per l’Italia mostra anche, nello stesso periodo, l’incremento più forte sino a raggiungere a fine periodo il valore di 1,50. La metodologia proposta da Griffith e Harisson, tuttavia, sovrastima le rendite italiane perché non tiene conto del reddito da lavoro degli indipendenti, in Italia particolarmente numerosi. Se si considera questo aspetto, il costo del lavoro aumenta e le rendite si riducono in misura corrispondente. Io utilizzo, quindi, un indicatore leggermente diverso, correggendo quello proposto con la formula: rendite = valore aggiunto – ((costo del lavoro + reddito da lavoro degli indipendenti) + + costo d’uso del capitale). Inoltre stimo il costo d’uso del capitale, corretto per il reddito da lavoro degli indipendenti, al 7,5 per cento dello stock di capitale ai prezzi di sostituzione. Il costo del capitale così calcolato mi sembra sufficiente in quanto supera, in media, di circa 3,5 punti percentuali il valore degli ammortamenti. Nel settore privato non agricolo, nel periodo 1985-2000 considerato da Griffith e Harisson, la mia stima delle rendite da assenza di concorrenza equivale a un mark-up di 1,20, e il valore dell’anno finale è pari a 1,23. Questo valore è meglio confrontabile con quello degli altri paesi che, comunque, dovrebbe essere anch’esso corretto al ribasso per il reddito da lavoro degli indipendenti (peraltro assai minore). 197 PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO E CRESCITA percentuali sul pil) 12,0 120.000 10,0 100.000 Migliaia di euro 2000 8,0 80.000 Incidenza delle rendite sul pil (scala di ds.) 6,0 60.000 4,0 40.000 Rendite a prezzi costanti 2000 (scala di sin.) 2,0 20.000 - 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 Fonte: Elaborazione dell’autore su dati Istat, conti nazionali. Le rendite si accumulano nei servizi alle imprese e nei servizi sociali e personali, nella produzione di energia elettrica, gas e acqua, nel comparto agricolo (dove, non a caso, si va esaurendo l’esodo occupazionale iniziato negli anni ’30 del Novecento) (Figura 5). Incrementi minori, ma comunque significativamente superiori alla media si registrano nell’estrazione di minerali non energetici e nelle attività di trasporto e comunicazione. Figura 5 - Livello delle rendite da assenza di concorrenza nei settori dell’economia italiana prima e dopo il 1993. Anni 1980-2003 (Incidenze percentuali sul valore aggiunto; totale al netto del settore della pubblica amministrazione, difesa e as- 198 Quaderni di ricerca sull’artigianato sicurazioni sociali) 40,0 Constructions 30,0 Manufacturing, energy, gas and water 20,0 Trade, repair, hotels and restaurants, transport and communication 10,0 Total (excluding public administration) 0,0 Health, education and other social and personal services Banking, finance and business services Agriculture, forestry and fishing -10,0 -20,0 -30,0 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 Fonte: Tronti, 2006. All’opposto (non senza un legame con quanto appena osservato), significative cadute dei precedenti livelli di redditività interessano molte attività della manifattura (pelli e cuoio, carta, stampa ed editoria, fabbricazione di combustibili, macchine e apparecchi meccanici, mezzi di trasporto, altre industrie manifatturiere), le costruzioni, la pesca. Ma le cadute più gravi si concentrano in alcune delle più rilevanti attività manifatturiere esposte alla concorrenza internazionale – estrazione di minerali energetici, alimentari, bevande e tabacchi, prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi, macchine elettriche ed elettroniche. PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO E CRESCITA La vistosa e diseguale crescita delle rendite dopo il 1993 rivela che le politiche di privatizzazione delle imprese pubbliche non solo non hanno accresciuto la competitività dei settori protetti ma anzi, paradossalmente, l’hanno significativamente ridotta. Di conseguenza le attività manifatturiere, esposte alla concorrenza internazionale, sono state ancor più schiacciate tra l’incudine della competizione di prezzo sul mercato globale e il martello dell’aumento di prezzi e tariffe sul mercato interno, replicando in modo drammatico un antico e perverso copione del sistema economico italiano9. Dopo il 1990 si è consumato nell’economia italiana uno “scambio politico”10 tra i partner sociali fortemente e gravemente asimmetrico, che ha consentito un’incisiva riforma del modello contrattuale e delle forme di lavoro (protocollo del ’93, “pacchetto Treu”, legge “Biagi”) a fronte di una politica di privatizzazioni incapace di coniugarsi con effettive misure di liberalizzazione, o con altre forme di regolazione del mercato del prodotto capaci di esercitare una forte pressione competitiva su prezzi e margini. Lo scambio politico asimmetrico tra i partner sociali ha prodotto un assetto del sistema economico strutturalmente squilibrato, il cui risultato in estrema sintesi è costituito da prezzi più alti (figura 611) e salari più bassi (figura 7) della media 9 Non è difficile ricordare la storica contrapposizione tra industrie “produttive” e servizi “parassitari” che animò il dibattito di politica economica italiano sin dagli anni ’60, fino a costituire negli anni ’80 il perno della politica del “patto tra i produttori” di Agnelli e Lama. 10 Traggo questo concetto da Ezio Tarantelli, che a proposito di patti sociali che comportassero una riduzione del benessere dei lavoratori e delle famiglie parlava, anzi, di “scambio politico masochistico” (cfr. Tarantelli, 1995). 11 Si noti che i prezzi all’esportazione presentano, rispetto ai paesi dell’area dell’euro, un differenziale anche mag- 199 200 Quaderni di ricerca sull’artigianato dei paesi concorrenti. Figura 6 - Prezzi al consumo in Italia e nei paesi dell’area dell’euro. Anni 1996-2007 (Numeri indice in base 1996=100) 130,0 6,0 Italia 125,0 5,0 120,0 4,0 115,0 3,0 110,0 Differenze in p.p. Numeri indice 1996=100 Area Euro 2,0 Differenze (scala ds.) 105,0 1,0 100,0 0,0 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Fonte: Eurostat. Peraltro, la sottrazione dell’offerta di moneta alla regolazione nazionale e il suo governo comunitario avendo a target l’inflazione media europea hanno potuto cullare per periodi anche prolungati le imprese più legate ai mercati locali nell’illusione di poter accrescere i profitti praticando aumenti di prezzo maggiori del costo del lavoro e di quelli degli altri mercati, senza rischiare con questo i rigori di una conseguente politica monetaria restrittiva. Ma il mercato opera molto presto la sua vendetta: con un’inflazione più alta della media europea e salari più bassi, le esportazioni nette subiscono un tracollo e la domanda interna si ferma. È questo il caso in cui è venuta a trovarsi dal 1997 in poi l’economia italiana (figura 8). giore di quello dei prezzi al consumo. 201 PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO E CRESCITA Figura 7 – Retribuzioni reali per occupato in Italia e nei maggiori paesi europei. Periodo 1995-2006 (Numeri indice 1995=100; deflazionate con il deflatore dei consumi privati) Retribuzioni reali per occupato: evoluzione nel periodo 1995-2006 (Numeri indice 1995=100; deflazionate con il deflatore dei consumi privati) 140 135 Grecia 130 125 Regno Unito 120 Portogallo 115 110 Germania Francia 105 Italia 100 Spagna 95 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 Fonte: Eurostat. Figura 8 – Esportazioni nette dell’economia italiana e consumi delle famiglie. Anni 1980-2007 (differenza tra esportazioni e importazioni in valore assoluto a prezzi 2000 in migliaia di euro; per i consumi delle famiglie, medie mobili a 5 termini dei tassi annui di variazione %) 4,2 50.000 3,7 40.000 Esportazioni nette 30.000 3,2 20.000 2,7 10.000 2,2 1,7 - 1,2 -10.000 0,7 -20.000 Consumi delle famiglie (scala di ds.) 0,2 -30.000 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 202 Quaderni di ricerca sull’artigianato Fonte: Elaborazione dell’autore su dati Istat, conti nazionali. L’apparente stato di salute delle imprese, consentito dalla diffusione delle rendite generate dallo scambio politico asimmetrico, non è sostenibile: la stagnazione del mercato per i prodotti italiani, all’interno come all’estero, blocca l’effetto Smith, la specializzazione del lavoro e l’innovazione produttiva (figura 9). La crisi finanziaria internazionale coglie l’economia italiana in condizioni già gravemente indebolite rispetto ai concorrenti europei, e accentua ulteriormente l’urgenza della riorganizzazione e del rilancio. Figura 9 - Il caso italiano: asimmetria di regolazione tra mercato del prodotto e mercato del lavoro ed “effetto Smith” Mercato del prodotto Mercato del lavoro Liberalizzazione del mercato del prodotto Flessibilizzazione del mercato del lavoro Contenimento dei prezzi Moderazione salariale Competitività internazionale Crescita del potere d'acquisto Innovazione Produttività Effetto Smith Domanda estera Crescita Domanda interna Fonte: elaborazione su Blanchard-Giavazzi (2003). Per la produttività e la crescita. Scambio politi- PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO E CRESCITA co e patto sociale L’analisi delle cause dell’arresto della produttività dell’economia italiana, condotta sulla base delle dinamiche delle variabili chiamate in causa dall’“effetto Smith” nell’ambito del modello di Sylos Labini, compone un quadro generale ma ben delineato dei problemi dell’economia italiana che consente di intravedere il cammino necessario per risolverli. L’Italia ha perduto molto terreno rispetto ai partner internazionali e si è impoverita al punto che oggi la ripresa della produttività e il ritorno alla crescita, a tassi superiori a quelli dell’Unione Europea, sono diventati una priorità politica generale, di portata storica. La “questione produttività” è oggi il problema economico, e ha incalcolabili ricadute di natura politica e sociale. Solo risolvendolo il Paese potrà tornare a condividere il livello di vita dei grandi paesi europei, abbattere il debito pubblico a dimensioni accettabili, portare a compimento il disegno del sistema di welfare, avviare una nuova fase di benessere e sicurezza sociale per tutti. Purtroppo però, nonostante la sua gravità e persistenza, la questione produttività non è ancora accettata e affrontata liberamente dal sistema delle relazioni industriali per il rilievo che essa realmente ha. Valga per tutti l’esempio dell’impostazione minimalista e priva di visione strategica delle linee guida sul rinnovamento del modello contrattuale concordate tra Confindustria e parte del sindacato confederale, dalle quali sono assenti i temi fondamentali dell’abbattimento delle rendite, degli investimenti, della riorganizzazione delle imprese e dei luoghi di lavoro. Questa situazione di soffocante occultamen- 203 204 Quaderni di ricerca sull’artigianato to ha spinto alcuni economisti a lanciare (e non pochi altri a sottoscrivere) il manifesto Per un nuovo patto sociale per la produttività e la crescita12. L’ipotesi alla base del manifesto è che si debba presentare al Paese e alle parti sociali un grande obiettivo comune – la ripresa della produttività e della crescita – e chiedere a queste di dar vita a una social partnership semplice ed efficiente per il conseguimento di quell’obiettivo. Il documento si colloca nell’ambito della ricerca delle misure di livello micro per migliorare la performance produttiva delle imprese. Ma a livello macro la ripresa della crescita può essere raggiunta solo attraverso il riequilibrio dello scambio politico perverso che ancora blocca il sistema economico. I nuovi termini dello scambio debbono prevedere l’accettazione da parte delle imprese (e dei lavoratori in esse impegnati) di misure di effettiva liberalizzazione del mercato del prodotto, contro la disponibilità da parte del sindacato ad assecondare – e anzi a favorire – l’innovazione per la riorganizzazione dei luoghi e dei rapporti di lavoro, con i necessari investimenti da parte dell’impresa in cambiamenti tecnologici e organizzativi. I frutti della riorganizzazione devono consentire un contenimento dei prezzi sotto la media dell’area euro e una crescita retributiva reale e diffusa, in linea con la crescita della produttività del lavoro. Le retribuzioni reali debbono crescere perché, oltre ad essere un costo per le imprese, esse sono non solo la principale componente dei consumi delle famiglie, ma anche un fondamentale elemento di pungolo alle imprese sul terreno dell’innovazione tecnologica e organizzativa. Il so12 Il manifesto, redatto da Nicola Acocella dell’Università di Roma “La Sapienza”, da Riccardo Leoni dell’Università di Bergamo e da me nell’autunno del 2006, ed è consultabile sul sito http://www.pattosociale.altervista.org/. PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO E CRESCITA stegno alla crescita delle retribuzioni, il cui potere d’acquisto è oggi minacciato dalla crisi internazionale, costituisce oggi un elemento essenziale della strategia di stabilizzazione dell’economia. Questi obiettivi, è inutile nasconderlo, incontrano grandi resistenze. Anzitutto da parte degli imprenditori che preferiscono accontentarsi degli utili presenti piuttosto che investire risorse, ridurre e affinare le prerogative manageriali sull’organizzazione e concedere autonomia, iniziativa e responsabilità ai lavoratori per impiantare modelli organizzativi innovativi. E quindi, in particolare, da parte delle imprese protette dalla concorrenza, che non vogliono rinunciare alle barriere di cui oggi godono e accettare i rischi della competizione aperta. Ma forti resistenze provengono anche dalla parte sindacale che, nonostante il sommarsi della crisi della produttività italiana con i pesanti effetti reali della crisi finanziaria internazionale, ha ancora notevoli difficoltà ad entrare in una logica di corresponsabilizzazione nella riorganizzazione dei luoghi di lavoro; come pure a smantellare i privilegi di cui spesso godono i lavoratori nelle imprese protette. Il caso dell’Alitalia è sotto gli occhi di tutti13. Dal canto suo il governo, oltre a perseguire con rigore la liberalizzazione del mercato del prodotto e l’abbattimento delle rendite oligopolistiche, deve stimolare la riorganizzazione delle imprese e introdurre gli stessi cambiamenti organizzativi nella pubblica amministrazione14. I conservatori diranno 13 Il problema delle resistenze imprenditoriali e sindacali nei settori protetti è giustamente richiamato come fondamentale per il successo dell’aggiustamento strutturale dal citato lavoro di Blanchard e Giavazzi (2003). 14 Qualche passo in quest’ultima direzione è stato fatto, con vigore. Ma non altrettanto può dirsi per le altre direzioni, 205 206 Quaderni di ricerca sull’artigianato che la finanza pubblica è talmente in difficoltà che l’Italia non può permettersi un programma di riforma del genere; ma si sbagliano. Il cambiamento di rotta, ormai ineludibile, ha bisogno, in realtà, di risorse più politiche che finanziarie. C’è anzitutto la necessità di una revisione degli obiettivi della politica economica e di una funzionalizzazione degli strumenti che già esistono al riequilibrio dello scambio politico. Non c’è bisogno di risorse aggiuntive, ma di finalizzare con coerenza e determinazione al disegno dell’efficienza delle imprese e del mercato del prodotto l’azione e le rilevanti risorse delle politiche industriali e formative già operanti: dall’Autorità antitrust a Mister prezzi, da Italia lavoro al Dipartimento per lo sviluppo, dagli Enti bilaterali ai Fondi interprofessionali, dall’Isfol ai fondi per la Formazione continua, ecc. Nell’azione di governo, come anche nell’autonoma iniziativa delle parti sociali e dell’opposizione, non c’è ancora alcuna seria presa di posizione né sulla necessità di porre termine alla crisi della produttività riequilibrando lo scambio politico attraverso un rapporto virtuoso tra prezzi e salari, tra mercato del lavoro e mercato del prodotto; né sul problema della riorganizzazione delle imprese per potenziare l’organizzazione del lavoro e la produttività. Il tema della reingegnerizzazione dei luoghi di lavoro resta ancora implicito, inespresso e imbarazzante, mentre quello della necessità di colpire le rendite e aprire alla concorrenza le aree protette, dopo i deboli tentativi del precedente governo e il generoso ma limitato tentativo della Robin tax sulle imprese petrolifere, è caduto anch’esso sotto silenzio. Infine, il parziale accordo tra Confindustria forse ancor più rilevanti. PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO E CRESCITA e confederazioni sindacali sul nuovo modello contrattuale si presenta ancora pervaso da una nefasta logica microeconomica e minimalista, in cui la dimensione e la responsabilità collettiva si riscontrano soltanto nella comune richiesta all’erario di finanziare senza contropartite gli sgravi per lo straordinario e i premi di risultato. È giunto il momento che la cultura e l’opinione pubblica si ridestino dal loro torpore mediatico e la politica e le parti sociali abbiano chiaro che bisogna fare di più: la questione produttività è talmente grave che non è possibile uscirne soltanto con vaghi riferimenti ai danni provocati dal “mercatismo” o dalla “mancanza di etica” della finanza, con sommari annunci di rimedi finanziari alla crisi internazionale e silenziose misure di politica economica, di incentivazione fiscale/contributiva di comportamenti più o meno virtuosi. C’è bisogno di un grande sforzo comune, di un investimento esplicito e prolungato nella qualità dell’economia reale, di un salto della coscienza collettiva, di mobilitare energie nuove e nuovi modi di lavorare, di risvegliare nel Paese così come nelle imprese e nei luoghi di lavoro, lo spirito di appartenenza, di comunità, di soddisfare il bisogno di cambiamento e di futuro. La mobilitazione, come è stato negli episodi cruciali della storia del nostro sviluppo economico e sociale – dalla Ricostruzione al rientro dell’inflazione a due cifre, sino all’aggancio all’euro – può avvenire attraverso la sottoscrizione di un nuovo patto sociale, di uno scambio politico equo e lungimirante, a somma positiva, capace di tornare a traguardare l’obiettivo di uno sviluppo sostenibile e condiviso, di varare un modo nuovo di lavorare e di crescere insieme che possa essere compreso e fatto proprio 207 208 Quaderni di ricerca sull’artigianato da tutti. Riferimenti bibliografici Acocella N., Leoni R., Tronti L. 2006, Per un nuovo Patto Sociale sulla produttività e la crescita, sul sito http://www.pattosociale.altervista.org/. Blanchard O., Giavazzi F. 2003, Macroeconomic effects of regulation and deregulation in goods and labour markets, “Quarterly Journal of Economics”, no. 118 (3). Boeri T., Faini R., Ichino A., Pisauro G., Scarpa C. 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