11 ottobre 2014 - Scuola Primaria Chicca Gallazzi

OMELIA di Don Emmanuele Silanos alla S. Messa di inizio anno delle nostre scuole
sabato 11 ottobre 2014
Ricordo che il primo professore che mi fece apprezzare l’arte fu il mio insegnante di artistica
della nostra scuola media, il Prof. Claudio Scillieri. Oggi anche lui festeggia assieme a noi, dal
Cielo, gli anniversari delle nostre scuole. E chissà se anche a lui succedeva quello che succede
a me, ogni volta che ascolto queste parole di Gesù che racconta la parabola del seminatore: a
me viene sempre in mente un quadro molto famoso, un’opera d’arte di un grande pittore
francese che si chiama Jean-Francois Millet. Millet è un pittore che ama descrivere la vita della
campagna. Ama dipingere la gente semplice nei momenti più veri, reali della sua vita
quotidiana.
In quel quadro, il seminatore è ritratto mentre con un gesto ampio ed elegante sparge i semi
sul suo campo. È un uomo certo di sé, fiero, che con quel gesto afferma la speranza che la sua
terra porti frutto.
Ora, chi è il seminatore? È un lavoratore. E chi è il lavoratore per eccellenza? È Dio. È Dio che
sin dal primo giorno della storia del mondo si è messo a lavorare, si è impegnato nel lavoro
della Creazione del mondo, un lavoro, un’opera, che continua in ogni istante della storia. Dio è
il seminatore. Colui che getta i semi di Grazia dentro la storia del mondo. E che cos’è il campo?
Il campo sono io, è la mia vita. Dio esce tutti i giorni e comincia a spargere nella mia vita dei
semi, dei segni, dei fatti. E, come dice Gesù nel Vangelo, alcuni cadono sulla terra buona, altri
sulla strada, altri sulla roccia, altri vengono portati via dagli uccelli. Così è dei semi sparsi
durante la mia giornata. Alcuni io li faccio miei, li accolgo, ne faccio buon uso, li faccio fruttare.
Altri non li raccolgo, li schivo, li ignoro. I semi che Dio getta nella mia vita possono essere di
ogni tipo: sono il sole che sorge al mattino, sono le persone che incontro, i sorrisi degli amici,
la richiesta di aiuto di uno sconosciuto. Sono il dolore di una persona cara, la notizia di un
fatto bello o di uno triste, drammatico. Tutto ciò che mi accade è come un seme che io posso
accogliere o ignorare, un segno con cui Dio mi invita a riconoscere la Sua Presenza e che
desidera che io porti frutto nella mia vita. E Dio è come quel seminatore di Millet: non si
demoralizza di fronte all’insuccesso, e il giorno dopo torna, di nuovo a seminare nella mia e
nella nostra vita.
Ma c’è anche un altro quadro, molto simile a quello di Millet e altrettanto famoso, forse anche
più famoso, dipinto da un altro genio dell’arte che si chiama Van Gogh. Van Gogh si reputava
discepolo di Millet al punto che rifaceva ogni suo quadro. Cercava di farlo uguale ma secondo
il suo stile, così che ne uscivano quadri decisamente diversi, assolutamente originali. Così è
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anche del seminatore di Van Gogh. Le pennellate sono più spesse, più rozze, verrebbe da dire,
più pesanti, meno raffinate di quelle di Millet. I colori sono più intensi, le figure quasi
abbozzate, più imprecise, con i contorni più evidenziati, quasi grossolani. Ma se il seminatore
di Millet è Dio, il seminatore di Van Gogh chi è? Sono io. Siamo noi. Siamo noi che, come il
seminatore di Van Gogh, ci alziamo ogni giorno e ripetiamo lo stesso gesto di Dio, imitiamo la
sua energia creativa e cerchiamo attraverso il nostro lavoro di modellare la realtà, di
plasmarla secondo la nostra creatività, secondo il nostro desiderio di portare frutto, di
costruire qualcosa, di lasciare un segno nella storia del mondo. Così il nostro lavoro partecipa
del lavoro di Dio, la nostra opera diventa parte dell’opera di Dio. Non sarà uguale, è un po’ più
rozzo, più impreciso, più grossolano, eppure, viene da dire, altrettanto vero, altrettanto reale.
Abbiamo detto che il nostro lavoro è partecipazione e imitazione del lavoro di Dio, ma qual è il
lavoro di Dio per eccellenza? E qual è il lavoro con cui noi, più che attraverso qualsiasi altro
lavoro, partecipiamo dell’opera di Dio? È l’educazione. Dio è il più grande educatore della
storia. Mettendo quei semi, lui ci educa perché la nostra vita porti frutto. E così facciamo noi,
con i nostri figli, i nostri amici, i nostri studenti, le persone che Lui ci affida.
Così la nostra opera educativa diventa eco dell’opera, più grande e profonda, di Dio. Così la
nostra vita diventa testimonianza. Cosa vuole dire testimoniare? Vuole dire affermare un
Altro. Educare vuole dire testimoniare ciò che abbiamo di più caro e comunicarlo a coloro che
amiamo perché lo conoscano anche loro. Questo è educare, questo è testimoniare.
Noi sappiamo tutti che in greco testimonianza si dice martirio. Sappiamo che martiri sono
coloro che testimoniano con la propria vita (e la propria morte) Dio, il Mistero che fa tutte le
cose.
Sono appena tornato da un viaggio in Siberia, dove abbiamo una casa della nostra Fraternità.
È un posto in cui per 8 mesi all’anno c’è la neve e dove le temperature raggiungono i 40 gradi
sotto zero. Sono stato lì per presentare al Vescovo il progetto di una chiesetta molto semplice
nella periferia di Novosibirsk. Il nostro prete, don Alfredo, che sarà il parroco di questa chiesa
mi ha portato a vedere un posto bello e terribile. Terribile perché era un lager, un campo di
concentramento sovietico sotto il comunismo, nei pressi di una cava di pietra. Bello perché mi
ha fatto vedere il posto dove sono morti, martiri, tanti preti, suore, laici uccisi in quel lager. E
proprio lì dove loro sono morti oggi scorre un fiume che non gela mai, neanche a meno 40
gradi. E l’acqua di quel torrente è buona, fresca e, soprattutto, miracolosa. Tanti sono stati
guariti da quell’acqua che è adesso considerata l’acqua dei martiri. Così, in quel luogo, hanno
costruito un santuario ortodosso, grande e bellissimo. Ecco, il nostro prete vorrebbe che
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almeno una pietra della nostra piccola chiesetta sia presa dalla cava di pietra in cui
lavoravano quei martiri.
Il martirio, la testimonianza, porta frutto. Il martire è come un seme gettato nella terra che è il
popolo di Dio. E dentro questo corpo, dentro questo popolo, porta frutto. La nostra vita se è
vissuta come testimonianza di amore per un Altro, porta frutto. Come porta frutto la vita dei
tanti cristiani che in questi mesi stanno testimoniando il loro amore a Cristo e alla verità
anche di fronte alla violenza cieca di chi odia la loro e la nostra fede. Come continuano a
portare frutto le vite di chi ci ha testimoniato, fino alla morte, l’amore a Cristo e al prossimo,
come ha fatto don Isidoro Meschi, che tante volte ha celebrato la messa da questo altare. O
come ha fatto, più semplicemente, più ordinariamente, mi verrebbe da dire, la Chicca Gallazzi,
la mia amata zia Chicca, che ha vissuto per affermare nel suo lavoro di insegnante il desiderio
di imitare l’opera educativa di Dio. E quanto questo abbia portato frutto lo vediamo oggi nella
scuola a lei dedicata. O don Carlo Costamagna, che come don Isidoro, ha educato tanti ragazzi
che sono poi stati all’origine delle scuole di cui oggi ricordiamo l’anniversario.
E martirio è la vita di ciascuno di noi nel momento in cui essa ci rimanda in modo potente e
inequivocabile al Mistero che è il senso ultimo della nostra vita e della nostra morte. Martirio
è, allora, anche la vita di Jonathan, che in questi anni così brevi e così intensi ci ha testimoniato
che la nostra vita partecipa di un Mistero che non possiamo comprendere tutto subito ma che
è come un seme gettato nella terra buona della nostra vita. Un seme, che, come dice Gesù nel
Vangelo, muore perché è destinato a portare dei frutti di grazia che noi ancora non
conosciamo.
Domandiamo che anche la nostra vita, il nostro lavoro, il nostro sforzo educativo siano una
testimonianza splendente e semplice di un Amore che ci precede e che non smette di gettare
semi di grazia nella nostra vita.
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