Diritto costituzionale regionale
Giurisprudenza costituzionale rilevante
1. La vicenda storica del regionalismo in Italia
Il contributo della Corte costituzionale all’attuazione del modello costituzionale
originario
• Il ritaglio delle materie secondo il criterio verticale del livello degli interessi:
Sent.6 luglio 1972 n.138
• Il necessario coordinamento tra competenze regionali e competenze
statali:Sent.12 luglio 1976 n.175
2. Il pluralismo istituzionale
• Le Regioni come enti di rappresentanza generale degli interessi della
collettività regionale: Sent.5-21 luglio 1988 n.829
• Le autonomie territoriali come strumento di affermazione del principio
democratico e della sovranità popolare: sent.10-12 aprile 2002 n.106
• L’autonomia propria degli enti territoriali regionali: Sent.365/2007
3. L’autonomia statutaria
• Il contenuto eventuale degli statuti: sent. 372/2004; sent.378/2004; sent.
379/2004
• Il limite dell’armonia: sent.304/2002
4. La forma di governo regionale
• La presuntiva unità di indirizzo politico derivante dalla contemporanea
investitura popolare di Presidente e Consiglio: sent.12/2006
• La forma di governo incentrata sull’elezione diretta del Presidente della
Giunta: sent.18 dic.13 genn.2004 n.2
5. La potestà legislativa regionale
• La materia ambiente come materia trasversale nella quale spettano allo Stato
le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme
sull’intero territorio nazionale e alla Regione la cura di interessi funzionalmente
collegati con quelli propriamente ambientali: sent.4-24 giugno 2003 n.222 e
sent.10-26 luglio 2002 n.407
• L’assunzione del potere legislativo in sussidiarietà: sent.25 settembre-1
ottobre 2003, n.303
6. La partecipazione delle Regioni all’esercizio di funzioni statali
• Il principio di leale collaborazione: sent.14-18 ottobre 1996 n.341; sent.18-18
luglio 1997 n.242 e sent.31/2006
• Il valore dei pareri della Conferenza unificata Stato-Regioni-città: sent. 19-28
dicembre 2001 n.437
Sentenza 138/1972
Giudizio
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente CHIARELLI - Redattore
Udienza Pubblica del 24/05/1972 Decisione del 06/07/1972
Deposito del 24/07/1972 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:
Massime:
6244 6245 6246 6247 6248 6249 6250 6251 6252 6253
Atti decisi:
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SENT. 138/72 A. REGIONI - ORDINAMENTO REGIONALE - PRESUPPOSTO LA ESISTENZA DI
INTERESSI REGIONALMENTE LOCALIZZATI - AFFIDAMENTO ALLA CURA DI ENTI DI
CORRISPONDENTE ESTENSIONE TERRITORIALE - COMPETENZA DELLO STATO PER LA
CURA DI INTERESSI UNITARI. REGIONI ORDINARIE - COMPETENZA LEGISLATIVA MATERIE DI CUI ALL'ART. 117 DELLA COSTITUZIONE - ADOZIONE DI UN CRITERIO
MERAMENTE FORMALE E NOMINALISTICO PER LA LORO DEFINIZIONE - INSUFFICIENZA
- RIFERIMENTO ALLA SOSTANZIALE DIVERSITA' DEGLI INTERESSI PUR NELL'AMBITO DI
UNA STESSA ESPRESSIONE LINGUISTICA - DISTINZIONE TRA LA COMPETENZA DIRETTA
DELLO STATO IN DATE MATERIE E LA SUA FUNZIONE DI INDIRIZZO E DI
COORDINAMENTO IN ALTRE - FIERE E MERCATI DI DIMENSIONI NAZIONALI O
INTERNAZIONALI - COMPETENZA DELLO STATO - LEGGE 16 MAGGIO 1970, N. 281, ART. 17
- DELEGAZIONE AD EMANARE DECRETI DI TRASFERIMENTO DELLE FUNZIONI STATALI
ALLE
REGIONI
ESCLUSIONE
DI
ILLEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE.
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La stessa ragion d'essere dell'ordinamento regionale risiede nel fatto che la Costituzione, presupponendo
l'esistenza di interessi regionalmente localizzati, ha disposto che essi siano affidati alla cura di enti di
corrispondente estensione territoriale. Dovendosi pertanto le regioni considerare come enti esponenziali
di interessi di livello regionale, e' d'uopo ritenere che l'ordinamento costituzionale, come impone che
siffatti interessi si soggettivizzino nelle Regioni e siano ad esse imputati (restando allo Stato, in armonia
con l'art. 5 Cost., solo il potere di stabilire i principi fondamentali) cosi' esige, nel quadro di una
razionale individuazione delle due sfere di competenza, che allo Stato faccia capo la cura di interessi
unitari, tali in quanto non suscettibili di frazionamento territoriale. Per la definizione delle materie di
competenza delle regioni ordinarie elencate nell'art. 117 Cost., non e' sempre sufficiente dunque il
ricorso a criteri puramente formali e nominastici. Anche se nel testo costituzionale solo per alcune di
esse viene espressamente indicato il presupposto di un sottostante interesse di dimensione regionale, per
tutte occorre di volta in volta verificare, per una obbiettiva discriminazione fra le sfere di attribuzione
regionali e statali se, pur nell'ambito di una stessa espressione linguistica, si debbano identificare materie
sostanzialmente diverse secondo la diversita' degli interessi, regionali o sovraregionali, desumibile
dall'esperienza sociale e giuridica. In proposito, tuttavia, va anche tenuto presente che mentre, in certi
casi, gli interessi sostanziali da curare, facendo immediatamente capo alla intera comunita' nazionale,
giustificano una diretta competenza dello Stato, in altri, invece, le esigenze unitarie, essendo esterne
rispetto agli interessi, regionalmente localizzabili, eppercio' affidati alla competenza delle regioni,
consentono allo Stato, relativamente ad essi, solo interventi di indirizzo e coordinamento. Vanno
ricondotti alla prima, e non alla seconda ipotesi, quando abbiano dimensione nazionale o internazionale,
le "fiere" e i "mercati", rispetto ai quali, pur in mancanza di una espressa specificazione, nell'art. 117, del
limite della "regionalita'" le competenze legislative e amministrative devono ritenersi assegnate dalla
Costituzione alle regioni solo per le manifestazioni di carattere regionale. Con tali principi non poteva
porsi, ne' si pone, in contrasto, l'art. 17 della legge di delega 16 maggio 1970, n. 281 (in base alla quale
sono stati emanati i decreti legislativi di trasferimento delle funzioni statali alle regioni (cfr. le massime
C
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D
)
.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Riferimenti normativi
legge 16/05/1970 n. 281 art. 17
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SENT. 138/72 B. REGIONI ORDINARIE - INERZIA NELL'ESERCIZIO DELLE LORO
COMPETENZE - POTERE SOSTITUTIVO DELLO STATO - INSUSSISTENZA - CURA DEGLI
INTERESSI UNITARI ANCHE NEI TERRITORI DELLE REGIONI - COMPETENZA DELLO
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In caso di inerzia delle regioni nell'esercizio delle loro competenze non e' riconosciuto allo Stato il potere
di sostituirsi ad esse. Percio' se allo Stato non facesse capo, anche nei territori delle regioni, la cura degli
"interessi unitari", fondamentali esigenze della intera comunita' nazionale rischierebbero di restare
i n s o d d i s f a t t e .
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SENT. 138/72 C. REGIONI ORDINARIE - COMPETENZA LEGISLATIVA - MATERIA DI CUI
ALL'ART. 117 DELLA COSTITUZIONE - LEGGE 16 MAGGIO 1970, N. 281, ART. 17, LETT. B TRASFERIMENTO DELLE FUNZIONI STATALI ALLE REGIONI "PER SETTORI ORGANICI DI
MATERIE" CON ESPRESSO RICHIAMO AL PRECETTO COSTITUZIONALE - NON
PREGIUDICA LA DEFINIZIONE E IL CONTENUTO DELLE SINGOLE MATERIE NE' PUO'
ESTENDERE LA SFERA DI COMPETENZA LEGISLATIVA REGIONALE - INTERPRETAZIONE
DELL'INCISO - POSSIBILE NON CORRISPONDENZA ALLA QUALIFICAZIONE LINGUISTICA
DELLE MATERIE ENUMERATE - FUNZIONI AMMINISTRATIVE IN ALTRE MATERIE DELEGABILITA'
ALLA
REGIONE
CON
LEGGE
ORDINARIA.
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A una legge ordinaria che faccia espresso riferimento alle competenze elencate nell'art. 117 Cost. (e
dunque in primo luogo a quelle legislative) non e' consentito di attribuire alle regioni, modificando le
sfere di competenza stabilite, piu' di quanto ad esse e' riservato dalla norma costituzionale. Quando,
percio', l'art. 17 della legge 16 maggio 1970, n. 281 (contenente la delega ed emanare i vari decreti
legislativi di trasferimento delle funzioni alle regioni ordinarie) dispone (lett. b) che il trasferimento
debba avvenire "per settori organici di materie", e' chiaro che, pur nel volere che "alle Regioni siano
assegnate per intero le materie indicate nell'art. 117 della Costituzione" (cfr. sent. n. 39 del 1971), la
legge lascia ovviamente impregiudicato il problema attinente alla definizione ed al contenuto di siffatte
materie. D'altronde se nel secondo comma dell'art. 17 della legge n. 281 del 1970 si prendono in
considerazione, sia pure in riferimento al passaggio degli uffici, "competenze statali residue", rispetto a
quelle da trasferire ai sensi dell'art. 117 Cost. e per esse si prevede, di massima, la delega in base all'art.
118, secondo comma, Cost., cio' vuol dire che i "settori organici di materie" non corrispondono - o
possono non corrispondere - alla pura e semplice qualificazione linguistica delle singole voci elencate
nella disposizione costituzionale. Tuttavia, in ordine al trasferimento delle funzioni amministrative statali
alle regioni, la legge ordinaria - oltre che adempiere all'obbligo costituzionale risultante dal combinato
disposto degli artt. 117 e 118, primo comma, e dell'VIII disp. fin. della Costituzione - puo', sulla base di
valutazioni discrezionali, affidare alle regioni (art. 118, secondo comma, Cost.) anche poteri non
compresi
nella
sfera
di
attribuzioni
regionali
costituzionalmente
garantita.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118 co. 2
Costituzione disposizioni transitorie e finali, VIII
Riferimenti normativi
legge 16/05/1970 n. 281 art. 17 lett. b
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SENT. 138/72 D. REGIONI ORDINARIE - COMPETENZE COSTITUZIONALI RICONOSCIUTE INTERESSI REGIONALI COINVOLGENTI INTERESSI DI DIMENSIONE ULTRAREGIONALE IMPLICAZIONI - NON DIMINUZIONE DELLE ATTRIBUZIONI REGIONALI MA INDIRIZZO COORDINAMENTO DEL LORO ESERCIZIO DA PARTE DELLO STATO - LEGGE DI
DELEGAZIONE 16 MAGGIO 1970, N. 281, ART. 17, PRIMO COMMA, LETT. A - CRITERI
DIRETTIVI PER IL TRASFERIMENTO DELLE FUNZIONI ALLE REGIONI "PER SETTORI
ORGANICI DI MATERIE" - APPLICABILITA' ALLE SOLE MATERIE CHE LA COSTITUZIONE
VUOLE TRASFERIRE ALLE REGIONI. REGIONI ORDINARIE - COMPETENZE - RISPETTO
DELLE ESIGENZE UNITARIE NELLE MATERIE TRASFERITE - GARANZIA COSTITUITA DAI
PRINCIPI FONDAMENTALI STABILITI NELLE LEGGI DELLO STATO PER QUANTO
RIGUARDA LA POTESTA' LEGISLATIVA E DALLA FUNZIONE STATALE DI INDIRIZZO E DI
COORDINAMENTO
PER
LA
FUNZIONE
AMMINISTRATIVA.
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Poiche' negli interessi regionali che radicano nelle regioni determinate competenze costituzionali,
possono essere mediatamente coinvolti interessi di dimensione ultra-regionale, (cfr. la massima B) nella
legge di delega 16 maggio 1970, n. 281 (in base alla quale sono stati emanati i vari decreti di
"trasferimento delle funzioni") si e' voluto che, quando cio' si verifica gli interessi ultraregionali siano
salvaguardati non gia' attraverso una diminuzione qualitativa o quantitativa delle attribuzioni regionali,
ma, piu' correttamente, indirizzandone e coordinandone l'esercizio. Di conseguenza, i criteri direttivi
della delega secondo cui il trasferimento deve avvenire per "settori organici di materie", con contestuale
riserva allo Stato (art. 17, primo comma, lett. a) della sola funzione di indirizzo e di coordinamento,
predisposti come sono al fine di evitare che l'esercizio delle corrispondenti potesta' regionali comporti un
sacrificio delle "esigenze di carattere unitario", risultano applicabili alle sole materie che la Costituzione
vuole trasferite alle regioni. In conclusione, nella legge n. 281 del 1970, in coerenza con il disegno
costituzionale (cfr. la sent. n. 39 del 1971) ferme restando le competenze regionali, il rispetto delle
esigenze unitarie viene ad essere garantito per quanto riguarda l'esercizio, da parte delle regioni, nelle
materie trasferite, della potesta' amministrativa, dalla funzione statale "di indirizzo e di coordinamento".
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Riferimenti normativi
legge 16/05/1970 n. 281 art. 17 co. 1 co. lett. a
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SENT. 138/72 E. COSTITUZIONE - LAVORI PREPARATORI - VALORE - COMPETENZA
REGIONALE IN MATERIA DI FIERE E MERCATI - LIMITAZIONE A QUELLI DI CARATTERE
LOCALE.
(COSTITUZIONE,
ARTT.
117
E
118).
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Anche se ai lavori preparatori della Costituzione non si puo' - in linea generale - attribuire valore
decisivo, neppure e' consentito negare ad essi ogni rilevanza, semplicemente quando se ne deducano
argomenti in armonia col quadro di insieme nel quale le singole norme cui essi si riferiscono vanno
collocate e interpretate. Percio', nella specie, ai fini dell'esatta individuazione dell'oggetto della materia
"fiere e mercati", assegnata dagli artt. 117 e 118 della Costituzione alla competenza legislativa e
amministrativa delle regioni a statuto ordinario, giova ricordare che in seno all'Assemblea costituente
(cfr. Atti, vol. III, 5508) un emendamento inteso ad aggiungere ai sostantivi "fiere e mercati" la
qualificazione "locali" venne respinto esclusivamente in considerazione della sua non dubitabile
s u p e r f l u i t a ' .
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
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SENT. 138/72 F. FIERE E MERCATI - DISTINZIONE IN REGIONALI E SOVRAREGIONALI IN
BASE NON AL CRITERIO DELLA MERA LOCALIZZAZIONE TERRITORIALE, MA AL
CARATTERE TERRITORIALMENTE QUALIFICATO DELLE DUE MANIFESTAZIONI CRITERIO GIA' ACCOLTO DAGLI STATUTI DELLE REGIONI SPECIALI - MANCANZA IN ESSI
E NELL'ART. 117 DELLA COSTITUZIONE PER LE REGIONI ORDINARIE DI UN ESPRESSO
RIFERIMENTO
AL
LIMITE
DELLA
REGIONALITA'
IRRILEVANZA.
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La distinzione delle "fiere" e dei "mercati" secondo il loro diverso carattere, territorialmente qualificato,
e' gia' da tempo nota nell'ordinamento statale (cfr. r.d.l. 29 gennaio 1934, n. 454), e in quello delle
regioni ad autonomia speciale. Per quanto riguarda queste ultime la circostanza che gli Statuti,
nell'attribuire alla competenza delle regioni la materia dell'industria e commercio (cfr. ad es. l'art. 4 dello
Statuto per la Sardegna) o la materia delle "fiere e mercati" (cfr. ad es. l'art. 11 dello Statuto per il
Trentino-Alto Adige, e l'art. 4 dello Statuto per il Friuli-Venezia Giulia) non specifichino - proprio come
avviene, quanto alle regioni ordinarie, per l'art. 117 Cost. - il limite delle regionalita' (cfr. la massima A),
non ha impedito che - riguardo a "fiere" e "mercati" - fossero riconosciute di competenza regionale (cfr.
ad es., D.P.R. 19 maggio 1950, n. 327, per la Sardegna; D.P.R. 30 giugno 1951, n. 574, per il
Trentino-Alto Adige; D.P.R. 26 agosto 1965, n. 1116, per il Friuli-Venezia Giulia) solo le manifestazioni
di carattere regionale. Agli effetti della qualificazione delle "fiere" e dei "mercati" come "regionali" o
"sovraregionali" (nazionali e internazionali) e della competenza, rispetto alle une e agli altri, dello Stato
o delle Regioni, non ha rilievo la circostanza che la fiera si svolga in questa o in quella parte del territorio
nazionale, in questa o in quella regione. Hanno invece decisiva importanza la ampiezza del bacino
commerciale, industriale o agricolo, al quale fiere e mercati si riferiscono, e l'estensione del mercato sul
quale essi spiegano influenza (fino al punto che, quando si tratti di un mercato internazionale, sorge
l'esigenza di coordinare le iniziative dei vari Stati, come e' dimostrato dalla convenzione di Parigi del 22
novembre 1928, ratificata dall'Italia con col r.d.l. 13 gennaio 1931, n. 24).
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
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SENT. 138/72 G. REGIONI ORDINARIE - FIERE E MERCATI - TRASFERIMENTO DELLE
FUNZIONI AMMINISTRATIVE STATALI NELLA MATERIA - D.P.R. 15 GENNAIO 1972, N. 7,
ART. 1, SECONDO COMMA, LETT. A - ESTENSIONE DEL TRASFERIMENTO ANCHE CON
RIGUARDO A FIERE NAZIONALI ED INTERNAZIONALI NON PERIODICHE - FONDAMENTO
NELL'ART. 118, SECONDO COMMA, DELLA COSTITUZIONE - DISCREZIONALITA'
DELL'AFFIDAMENTO DI POTERI NON COMPRESI NELLA SFERA REGIONALE ESCLUSIONE
DI
ILLEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE.
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In un giudizio di legittimita' costituzionale vertente su un decreto legislativo di trasferimento delle
funzioni statali relative a materie assegnate dalla Costituzione alle regioni ordinarie, qualora le
disposizioni impugnate riguardino tutte poteri riservati allo Stato, nessuna influenza puo' produrre la
circostanza che altre disposizioni dello stesso decreto delegato abbiano trasferito alle regioni competenze
amministrative non comprese nelle materie stesse. Percio' nella specie, il D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 7
(trasferimento delle funzioni in materia di "fiere e mercati") essendo stato impugnato (con ricorsi delle
Regioni Liguria, Emilia-Romagna e Puglia) nelle parti relative al mancato trasferimento di alcune delle
competenze relative alle fiere internazionali e nazionali, non ha valore la considerazione che altre norme
del decreto in questione hanno operato il trasferimento alle regioni anche di funzioni inerenti a fiere
nazionali e perfino internazionali (quando non siano organizzate, con periodicita', dagli enti riconosciuti
ai
sensi
dell'art.
2
del
r.d.l.
n.
454
del
1934).
Riferimenti normativi
decreto del Presidente della Repubblica 15/01/1972 n. 7 art. 1 co. 2 co. lett. a
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SENT. 138/72 H. REGIONI ORDINARIE - FIERE E MERCATI - TRASFERIMENTO DELLE
FUNZIONI AMMINISTRATIVE STATALI E DEL RELATIVO PERSONALE - ESCLUSIONE
DELLE MANIFESTAZIONI A CARATTERE SOVRAREGIONALE - D.P.R. 15 GENNAIO 1972, N.
7, ART. 1, SECONDO COMMA, LETT. A E B; ART. 2, COMMI PRIMO, TERZO E QUARTO;
ARTT. 3, 4 E 8, QUARTO COMMA - NON VIOLANO GLI ARTT. 117 E 118 E DISP. FIN. VIII
DELLA COSTITUZIONE E L'ART. 17 DELLA LEGGE DELEGANTE 16 MAGGIO 1970, N. 281 ESCLUSIONE
DI
ILLEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE.
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Poiche' e' da escludere che nella materia delle "fiere e mercati", assegnata dalla Costituzione alla potesta'
legislativa e amministrativa delle regioni, debbano essere comprese le manifestazioni a carattere
sovraregionale, devono ritenersi, nella specie, non fondate - senza bisogno di ulteriore, analitico esame le questioni di legittimita' costituzionale (proposte, con i ricorsi n. 42, 44 e 45 reg. ric. 1972, delle
Regioni Liguria, Emilia-Romagna e Puglia) in riferimento, agli artt. 117 e 118 e disp. fin. VIII della
Costituzione, e all'art. 17 della legge di delega n. 281 del 1972, n. 7, (trasferimento alle regioni delle
funzioni relative a fiere e mercati che hanno conservato allo Stato poteri inerenti a fiere, mostre,
esposizioni, nazionali ed internazionali (art. 1, comma secondo, lett. a e b) 2, commi primo, terzo e
quarto, 3, commi primo, terzo e quarto, 4 ed 8: concernenti rispettivamente la riserva allo Stato della
competenza relativa alle fiere internazionali organizzate da enti riconosciuti ai sensi dell'art. 2 del r.d.l.
29 gennaio 1934, n. 454, alle esposizioni e mostre a carattere internazionale e universale, ed al
riconoscimento degli enti organizzatori di fiere nazionali ed internazionali; la limitazione dei poteri
regionali inerenti agli enti organizzatori di fiere internazionali alla sola designazione di due componenti
del consiglio di amministrazione; il conferimento, rispetto agli enti organizzatori di fiere nazionali, al
presidente del consiglio dei ministri del potere di designare tre componenti del consiglio di
amministrazione, fra i quali la Regione nel cui territorio la fiera ha luogo e' obbligata a scegliere il
presidente, e ai ministri dell'industria e per il tesoro del potere di nominare ciascuno un componente dei
collegi dei revisori dei conti, il conferimento al presidente del consiglio dei ministri del potere di
emanare
il
calendario
delle
fiere,
mostre
ed
esposizioni).
Parametri costituzionali
Costituzione art. 76
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Costituzione disposizioni transitorie e finali, VIII
Altri parametri e norme interposte
legge 16/05/1970 n. 281 art. 17
Riferimenti normativi
decreto del Presidente della Repubblica 15/01/1972 n. 7 art. 1 co. 2
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SENT. 138/72 I. REGIONI ORDINARIE - FIERE E MERCATI - TRASFERIMENTO DELLE
FUNZIONI AMMINISTRATIVE STATALI E DEL RELATIVO PERSONALE - D.P.R. 15 GENNAIO
1972, N. 7, ART. 3, TERZO COMMA - POTERE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI
MINISTRI DI DESIGNARE TRE COMPONENTI DEL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE
DEGLI ENTI ORGANIZZATORI - NON VIOLA GLI ARTT. 5 E 123 DELLA COSTITUZIONE ESCLUSIONE
DI
ILLEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE.
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Gli enti preposti all'organizzazione di fiere nazionali non godono di autonomia costituzionalmente
rilevante e non appartengono alla organizzazione interna regionale. Va percio' escluso che l'art. 3, terzo
comma, del D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 7 (trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni
amministrative statali in materia di "fiere e mercati" e del relativo personale) con cui al presidente del
consiglio dei ministri, rispetto agli enti organizzatori di fiere nazionali, si conferisce il potere di
designare tre componenti del consiglio di amministrazione, fra i quali la regione e' obbligata a scegliere il
presidente, sia in contrasto con gli artt. 5 e 123 della Costituzione.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 5
Costituzione art. 123
Costituzione art. 76
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Costituzione disposizioni transitorie e finali, VIII
Altri parametri e norme interposte
legge 16/05/1970 n. 281 art. 17
Riferimenti normativi
decreto del Presidente della Repubblica 15/01/1972 n. 7 art. 3 co. 3
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SENT. 138/72 L. REGIONI ORDINARIE - FIERE E MERCATI - TRASFERIMENTO DELLE
FUNZIONI AMMINISTRATIVE STATALI E DEL RELATIVO PERSONALE - D.P.R. 15 GENNAIO
1972, N. 7, ART. 4 - POTERE DEL MINISTRO PER IL TESORO DI DESIGNARE UN
COMPONENTE DEI COLLEGI DEI REVISORI DEI CONTI DEGLI ENTI OPERANTI NELLA
MATERIA DI FIERE E MERCATI ANCHE DI LIVELLO REGIONALE - GIUSTIFICAZIONE CON
LA PERMANENZA DI INTERESSI FINANZIARI DELLO STATO - MENOMAZIONE DELLA
COMPETENZA
REGIONALE
ESCLUSIONE.
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La disposizione dell'art. 4 del D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 7 (trasferimento alle regioni a statuto ordinario
delle funzioni amministrative statali in materia di fiere e mercati e del relativo personale) dalla quale
viene attribuita al ministro per il tesoro la designazioni di un componente dei collegi dei revisori dei
conti degli operanti, in genere, "nella materia indicata nell'art. 1" si applica anche alle fiere e ai mercati
di livello regionale, sui quali le regioni hanno competenza in base alla Costituzione. Tuttavia, poiche' il
ministro puo' provvedere alla designazione solo "in relazione alla permanenza di interessi finanziari dello
Stato", anche per gli enti organizzatori di fiere regionali la presenza, nel collegio dei revisori, di un
componente di nomina statale e' giustificata da uno specifico interesse statale (il cui presupposto, peraltro
le regioni, ritenendolo opportuno, potranno rimuovere) eppercio', dovendosi valutarla nel complesso
della pienezza dei poteri trasferiti, non puo' essere considerata come una menomazione delle competenze
r e g i o n a l i .
Parametri costituzionali
Costituzione art. 76
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Costituzione disposizioni transitorie e finali, VIII
Altri parametri e norme interposte
legge 16/05/1970 n. 281 art. 17
Riferimenti normativi
decreto del Presidente della Repubblica 15/01/1972 n. 7 art. 4
Pronuncia
N. 138
SENTENZA 6 LUGLIO 1972
Deposito in cancelleria: 24 luglio 1972.
Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 194 del 26 luglio 1972.
Pres. CHIARELLI - Rel. BONIFACIO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Prof. GIUSEPPE CHIARELLI, Presidente - Prof. MICHELE FRAGALI - Prof.
COSTANTTNO MORTATI - Dott. GIUSEPPE VERZÌ- Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - Dott. LUIGI OGGIONI - Dott. ANGELO DE MARCO Avv. ERCOLE ROCCHETTI - Prof. ENZO CAPALOZZA - Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI - Prof. VEZIO CRISAFULLI - Dott. NICOLA REALE - Prof. PAOLO ROSSI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 1, secondo comma, lett. a e b, 2, primo, terzo
e quarto comma, 3, 4, 8, quarto comma, del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 7 (trasferimento alle Regioni a
statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di fiere e mercati e del relativo
personale), promossi con ricorsi proposti dalle Regioni Liguria, Emilia-Romagna e Puglia, notificati il 25
e 26 febbraio 1972, depositati in cancelleria, rispettivamente, il 2, 3 e 4 marzo 1972 ed iscritti ai nn. 42,
44 e 45 del registro ricorsi 1972.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 24 maggio 1972 il Giudice relatore Francesco Paolo Bonifacio;
uditi gli avvocati Lorenzo Acquarone e Francesco Pulvirenti, per la Regione Liguria, gli avvocati
Francesco Galgano e Guido Viola, per la Regione Emilia - Romagna, l'avv. Antonio Sorrentino, per la
Regione Puglia, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto:
1. - Tre ricorsi, rispettivamente della Regione Liguria (24 febbraio 1972, n. 42), della Regione
Emilia-Romagna (25 febbraio 1972, n. 44) e della Regione Puglia (25 febbraio 1972, n. 45), hanno
promosso alcune questioni di legittimità costituzionale concernenti varie disposizioni del d.P.R. 15
gennaio 1972, n. 7, che ha disciplinato il trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni
amministrative in materia di fiere e mercati.
2. - La Regione ligure ha impugnato, per violazione della sfera di competenza su "fiere e mercati"
attribuitale dagli artt. 117 e 118 della Costituzione ed in riferimento, altresì, agli artt. 5, 76, 115, 123, 125
e 130 della Costituzione, le seguenti disposizioni del predetto decreto legislativo:
a) l'art. 1, secondo comma, lett. a, nella parte in cui vengono sottratte al trasferimento le fiere
internazionali organizzate da enti costituiti e riconosciuti ai sensi dell'art. 2 del r.d. 29 gennaio 1934, n.
454, per la gestione periodica di tali manifestazioni;
b) l'art. 2 che, attribuendo alle Regioni solo il potere di promuovere il riconoscimento degli enti
organizzatori di fiere internazionali (potere, peraltro, non esclusivo) e di fiere nazionali, esclude il
trasferimento di tutti i poteri dello Stato inerenti ai due tipi di enti, ponendosi - oltre tutto - in contrasto
con lo stesso disposto dell'art. 1, comma secondo, lett. a;
c) l'art. 3, terzo comma, che impone alla Regione di scegliere il presidente degli enti costituiti per le
fiere nazionali tra tre membri del consiglio di amministrazione designati dal Presidente del Consiglio dei
ministri.
A fondamento dell'impugnativa la Regione deduce che dagli artt. 117 e 118 Cost., dall'VIII disp.
trans. Cost. e dall'art. 17 della legge di delegazione 16 maggio 1970, n. 281, risulta che i poteri dello
Stato avrebbero dovuto esser trasferiti per "settori organici di materie": la stessa riserva delle funzioni di
indirizzo e di coordinamento, che nella materia de qua trova puntuale regolamentazione negli artt. 6 ed 8
del decreto, non può in alcun modo esser realizzata sottraendo alle Regioni un intero settore di loro
competenza, senza con ciò violare e le norme costituzionali che stabiliscono la sfera di attribuzioni
regionali e gli stessi criteri direttivi enunciati nella legge delegante.
3. - Questioni analoghe sono state proposte dalla Regione Emilia-Romagna. Partendo dal
presupposto che viola gli articoli 117 e 118 Cost. e la stessa delega legislativa ogni atto legislativo dello
Stato che sottragga determinati settori della materia alle Regioni ovvero realizzi le esigenze di carattere
unitario mediante forme di ingerenza dello Stato diverse dall'esercizio di funzioni di mero indirizzo e
coordinamento, la ricorrente denuncia l'illegittimità costituzionale:
a) dell'art. 1, comma secondo, lett. a, nella parte in cui si escludono dal trasferimento le funzioni
inerenti alle fiere internazionali organizzate dagli enti riconosciuti ai sensi del decreto n. 454 del 1934;
b) dell'art. 1, comma secondo, lett. b, nella parte in cui esclude il trasferimento delle funzioni che
concernono esposizioni e mostre internazionali ed universali;
c) dell'art. 2, comma primo (e, conseguentemente, commi terzo e quarto), nella parte in cui riserva
allo Stato il riconoscimento degli enti costituiti per le fiere nazionali e internazionali;
d) dell'art. 3, nella parte in cui presuppone la designazione statale di membri del consiglio di
amministrazione (comma primo) e del collegio dei revisori (comma secondo) negli enti per
l'organizzazione di fiere internazionali;
e) dell'art. 3, per quanto riguarda la riserva al Presidente del Consiglio della designazione di membri
del consiglio di amministrazione (comma terzo) e la riserva al Ministro dell'industria di un componente
del collegio dei revisori (comma quarto) per gli enti organizzatori di fiere nazionali;
f) dell'art. 4, relativamente alla riserva al Ministero del tesoro della designazione di un componente
del collegio dei revisori dei conti negli enti, istituzioni ed organizzazioni locali operanti nella materia
indicata nell'art. 1;
g) dell'art. 8, comma quarto, che riserva al Presidente del Consiglio di emanare, su proposta del
Ministro per l'industria, il calendario delle fiere, mostre ed esposizioni nazionali ed internazionali
(disposizione che risulterebbe, oltre tutto, in contrasto con la previsione del secondo comma, secondo la
quale l'esercizio delle funzioni di indirizzo e di coordinamento può esser delegato al Presidente del
Consiglio solo di volta in volta e per affari particolari).
4. - Anche la Regione Puglia sostiene che alcune disposizioni del decreto di trasferimento violano
contemporaneamente e le norme costituzionali relative alla sfera di attribuzioni regionali ed i criteri
direttivi della legge di delegazione. In particolare l'esclusione di ogni competenza della Regione in
materia di fiere internazionali non si può giustificare né con l'esigenza di riserva allo Stato delle funzioni
di indirizzo e di coordinamento (soddisfatte attraverso gli strumenti e le modalità previste nell'art. 8), né
con l'inerenza alle relazioni con gli stati esteri, salvaguardate dall'art. 6 che mantiene ferme le
corrispondenti competenze statali: ne deriva l'illegittimità dell'art. 1, comma secondo, lett. a, e, di
conseguenza, del primo e del terzo comma dell'art. 2, che sottraggono alle Regioni ogni competenza in
tema di riconoscimento degli enti costituiti per le mostre, fiere ed esposizioni internazionali e riducono il
loro intervento ad una semplice facoltà di promozione, nonché dei primi due commi dell'art. 3, che,
limitando la partecipazione regionale agli enti fieristici suddetti, escludono il potere legislativo che alle
Regioni spetta in forza delle norme costituzionali. Lo stesso discorso, ad avviso della ricorrente, vale per
le fiere, mostre ed esposizioni di carattere nazionale, per le quali, anzi, c'è contraddizione fra il
trasferimento delle funzioni amministrative, operato dall'art. 1, e l'esclusione della facoltà di
riconoscimento dei relativi enti (art. 2, primo comma). Costituzionalmente illegittimi sarebbero, infine,
gli ultimi due commi dell'art. 3: manca di coerenza la norma che attribuisce al Ministro per l'industria il
potere di nominare un componente del collegio dei revisori e particolarmente grave è la norma che
impone nei consigli di amministrazione la partecipazione di tre membri designati dal Presidente del
Consiglio, nell'ambito dei quali va scelto il presidente dell'ente.
5. - Nei tre giudizi si è costituito - con atto del 15 marzo 1972 - il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la Corte respinga i ricorsi.
Premesso che il punto centrale delle impugnative promosse dalle Regioni è costituito dall'esclusione
dal trasferimento delle funzioni in tema di fiere internazionali, organizzate dagli enti appositamente
riconosciuti ai sensi del r.d.l. n. 454 del 1934, l'Avvocatura osserva che occorre distinguere fra fiere
internazionali periodiche e fiere organizzate una tantum ed è giustificato che per quelle della prima
categoria le funzioni restino allo Stato, giacché si tratta di materia non rientrante nel concetto di "fiere e
mercati" di cui all'art. 117 della Costituzione. La periodicità, infatti, pone problemi di relazioni
internazionali, valutari, di commercio internazionale e di bilancia dei pagamenti, doganali, di tutela di
brevetti e marchi, che non possono non spettare allo Stato ed ai quali non si può far fronte con la sola
riserva della competenza statale sulle relazioni internazionali fatta salva dall'art. 6 dell'impugnato
decreto. Il mancato trasferimento delle fiere internazionali qualificate risponde peraltro allo stesso
interesse delle Regioni, giacché viene eliminata ogni pericolosa concorrenza e si realizza un
coordinamento anche temporale che trova il suo strumento nel calendario fieristico demandato dall'art. 8
alla competenza del Presidente del Consiglio.
L'infondatezza della censura principale dimostra, secondo l'Avvocatura, l'infondatezza anche delle
censure accessorie concernenti il riconoscimento degli enti organizzatori delle fiere internazionali e la
nomina dei loro organi di amministrazione e di revisione. Per quanto riguarda, invece, l'impugnativa
dell'art. 3 del decreto delegato nella parte concernente l'inclusione obbligatoria di rappresentanti
designati dallo Stato negli organi degli enti organizzatori di fiere nazionali, la legittimità delle
disposizioni è dimostrata - così conclude la difesa dello Stato - dalla circostanza che si tratta di
manifestazioni che travalicano l'ambito delle singole Regioni: le quali, peraltro, conservano la
competenza principale nell'iter delle destinazioni e delle nomine.
6. - Le tre Regioni ricorrenti hanno replicato in rispettive memorie alle tesi dello Stato ed hanno
ulteriormente approfondito i motivi esposti a sostegno dei ricorsi.
La difesa della Regione Liguria osserva che la periodicità di alcune fiere internazionali non è un
elemento idoneo a giustificare la permanenza della competenza statale: si tratta pur sempre di fiere e si
rientra, quindi, nella materia assegnata alle Regioni dall'art. 117 della Costituzione. Mentre da un lato i
problemi di carattere internazionale vanno assolti attraverso i mezzi che l'ordinamento predispone per
garantire l'unità di indirizzo ed il coordinamento fra le varie Regioni, assumono particolare rilievo i
principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 39 del 1971: se il trasferimento era imposto per
"settori organici di materie", ogni funzione amministrativa concernente le fiere avrebbe dovuto esser
trasferita, non dovendosi soddisfare le esigenze della unitarietà con il "ritaglio" di settori di materie. A
maggior ragione, perciò, è illegittima la conservazione allo Stato della competenza a riconoscere gli enti
organizzatori delle fiere nazionali, che dà luogo ad un non consentito frazionamento di materia, ed
illegittima è l'ingerenza dello Stato nelle nomine degli amministratori (oltre tutto contrastante anche con
gli artt. 5 e 123 Cost., che rispettivamente garantiscono le autonomie degli enti locali e riservano alle
Regioni l'organizzazione interna dei loro uffici), non giustificabile col carattere sovraregionale degli
interessi coinvolti, giacché le disposizioni in tema di indirizzo e di coordinamento, contenute nell'art. 8
del decreto delegato, sono ben sufficienti alla loro tutela.
La Regione Emilia-Romagna, dopo aver inquadrato le attuali questioni in un'ampia visione della
complessa problematica inerente al trasferimento delle funzioni dallo Stato alle Regioni (visione nella
quale un ruolo preminente viene assegnato al nuovo contesto normativo in cui tale trasferimento va
valutato) ed aver rilevato che, soprattutto alla luce dei criteri direttivi enunciati nella legge di
delegazione, ogni riserva allo Stato di settori delle materie indicate nell'art. 117 Cost. è illegittima,
procede ad un analitico esame delle singole disposizioni impugnate, mette in evidenza che il decreto
delegato de quo trasferisce alle Regioni le funzioni amministrative riguardanti le fiere internazionali non
periodiche: l'esclusione del trasferimento delle fiere periodiche non si può giustificare, dunque, con la
problematica inerente al loro carattere internazionale, perché questo è comune anche alle fiere non
periodiche. Si tratta, quindi, della ritenzione di un "settore di materia", non consentita né dalla
Costituzione né dalla legge delegante e non giustificata da quelle esigenze di unità di indirizzo e di
coordinamento alle quali si deve far fronte con gli altri strumenti appositamente previsti
dall'ordinamento. Analogamente, non si giustifica l'esclusione dal trasferimento delle funzioni
riguardanti le esposizioni e mostre internazionali ed universali: se sono state trasferite le esposizioni e
mostre nazionali, ciò significa che lo stesso legislatore delegato muove dalla premessa che nella
competenza attribuita alle Regioni rientrano anche quelle di interesse ultraregionale. Anche in tema di
riconoscimento degli enti fieristici valgono analoghe considerazioni, giacché dal decreto delegato risulta
trasferita la materia inerente agli enti interprovinciali, esclusa quella riguardante gli enti per le fiere
nazionali ed internazionali, ancora una volta realizzandosi una non consentita ritenzione di un "settore di
materia". Un'illegittimità conseguenziale colpisce gli artt. 3 e 4 ed illegittima è la riserva al Presidente
del Consiglio di emanare su proposta del Ministro per l'industria il calendario fieristico nazionale ed
internazionale (art. 8, quarto comma): si tratta, infatti, di un potere che, collocandosi all'interno della
funzione di indirizzo e di coordinamento, dovrebbe essere esercitato, come il decreto delegato prevede in
via generale, mediante deliberazione del Consiglio dei ministri.
La difesa della Regione Puglia osserva che la "periodicità" non può giustificare la riserva allo Stato
delle fiere internazionali organizzate da enti riconosciuti ai sensi del decreto del 1934: se nell'ambito
della materia "fiere e mercati" fosse lecito e ragionevole discriminare quelle periodiche da quelle
occasionali, la "periodicità" dovrebbe essere assunta a criterio di discriminazione anche delle fiere
nazionali, interprovinciali e così via. Se, invece, si vuol far leva sul carattere internazionale, non regge la
distinzione basata sulla periodicità od occasionalità, né, d'altra parte, si può sostenere che l'esercizio delle
funzioni amministrative da parte delle Regioni inciderebbe sull'osservanza delle leggi statali in tema di
valute, dogane, ecc., ovvero sulle relazioni internazionali, salvaguardate dagli artt. 6 e 8 dello stesso
decreto delegato con disposizioni che resterebbero integre ed applicabili anche se le norme impugnate
dalla Regione venissero dichiarate illegittime. Alla violazione degli artt. 117 e 118 Cost. si accompagna così prosegue la Regione - l'ancor più evidente violazione dell'art. 76 Cost., giacché la legge delegante ha
riservato allo Stato solo una funzione di indirizzo e di coordinamento, che non può certo estrinsecarsi né
nella sostituzione del soggetto al quale l'attività da indirizzare e coordinare istituzionalmente compete né
nella pesante interferenza statale nella composizione degli organi di amministrazione e di controllo degli
enti organizzatori di fiere nazionali ed internazionali.
7. - Nella discussione orale i difensori delle tre Regioni ricorrenti e l'Avvocatura generale dello Stato
hanno ampiamente illustrato le rispettive tesi.
Considerato in diritto:
1. - I tre ricorsi indicati in epigrafe propongono questioni in gran parte identiche e pertanto i relativi
giudizi, congiuntamente discussi nell'udienza pubblica, possono essere riuniti e decisi con unica
sentenza.
2. - Le questioni portate all'esame della Corte hanno ad oggetto alcune disposizioni del d.P.R. 15
gennaio 1972, n. 7, dalle quali risulta che non tutte le funzioni inerenti alle "fiere" ed ai "mercati" sono
state trasferite alle Regioni a statuto ordinario. In particolare, le censure riguardano la riserva allo Stato
della competenza relativa alle fiere internazionali organizzate da enti riconosciuti ai sensi dell'art. 2 del
r.d.l. 29 gennaio 1934, n. 454 (art. 1, comma secondo, lett. a), alle esposizioni e mostre a carattere
internazionale od universale (art. 1, comma secondo, lett. b) ed al riconoscimento degli enti organizzatori
di fiere nazionali ed internazionali (art. 2, commi primo, terzo e quarto); la limitazione dei poteri
regionali inerenti agli enti organizzatori di fiere internazionali alla sola designazione di due componenti
dei consigli di amministrazione (art. 3, comma primo) e l'ingerenza dello Stato negli enti organizzatori
delle fiere nazionali, realizzata col conferimento al Presidente del Consiglio del potere di designare tre
componenti del consiglio di amministrazione, fra i quali la Regione è obbligata a scegliere il presidente,
e con la designazione da parte del Ministro per l'industria di un componente dei collegi dei revisori dei
conti (art. 3, commi terzo e quarto); il potere del Ministro per il tesoro di nominare un componente del
collegio dei revisori negli enti operanti nella materia trasferita (art. 4); il potere del Presidente del
Consiglio di emanare il calendario delle fiere, mostre ed esposizioni nazionali ed internazionali (art. 8,
quarto comma).
In relazione a tali impugnative le Regioni Liguria, Emilia-Romagna e Puglia sostengono che le
indicate disposizioni sono in contrasto sia con le norme costituzionali che alle Regioni attribuiscono la
competenza in materia di "fiere e mercati" (artt. 117, 118 e VIII disp. fin. Cost., e, secondo l'assunto
della Regione ligure, sotto alcuni aspetti anche con gli artt. 5 e 123 Cost.) sia con la legge di delegazione
16 maggio 1970, n. 281, e, conseguentemente, con l'art. 76 Cost.: dal complesso di queste norme di
raffronto risulterebbe che tutte le funzioni attinenti alla materia de qua andavano trasferite e che lo Stato
avrebbe dovuto a sé riservare non già competenze puntuali su singoli settori, sibbene solo una funzione
di indirizzo e di coordinamento.
3. - La problematica sollevata dai ricorsi, ancorché articolata in svariate denuncie di illegittimità
costituzionale, deve essere esaminata in modo unitario. La sua soluzione, infatti, dipende strettamente
dall'esatta individuazione dell'oggetto della materia "fiere e mercati", assegnata dall'articolo 117 Cost.
alla competenza legislativa delle Regioni e, con perfetta corrispondenza, dal successivo art. 118, primo
comma, anche alla loro competenza amministrativa: ond'è che la decisione del presente giudizio,
ancorché abbia ad oggetto immediato solo la titolarità di funzioni amministrative, esige che sia definita,
nella materia de qua, l'intera sfera (legislativa ed amministrativa) delle attribuzioni regionali
costituzionalmente garantite, a tutela della quale le ricorrenti agiscono.
Ciò posto, la Corte ritiene che molteplici ed univoci argomenti sorreggano la conclusione che in base
alle citate norme costituzionali alle Regioni spettino solo poteri inerenti a fiere e mercati di livello
(massimo) regionale.
Giova anzitutto ricordare che in seno all'Assemblea costituente (cfr. Atti, vol. III, 5508) un
emendamento inteso ad aggiungere ai sostantivi "fiere e mercati" la qualificazione "locali" venne
respinto esclusivamente in considerazione della sua non dubitabile superfluità. Orbene, anche se ai lavori
preparatori non si può attribuire valore decisivo, neppure è consentito negare ad essi ogni rilevanza,
specialmente quando se ne deducano argomenti in armonia col quadro di insieme nel quale le singole
norme vanno collocate ed interpretate. A tal proposito va tenuto ben presente che la stessa ragion
d'essere dell'ordinamento regionale risiede nel fatto che la Costituzione, presupponendo l'esistenza di
interessi regionalmente localizzati, ha disposto che essi siano affidati alla cura di enti di corrispondente
estensione territoriale. Dovendosi pertanto le Regioni considerare come enti esponenziali di interessi di
livello regionale, è d'uopo ritenere che l'ordinamento costituzionale, come impone che siffatti interessi si
soggettivizzino nelle Regioni (restando allo Stato, in armonia con l'art. 5 Cost., solo il potere di stabilire i
principi fondamentali), così esige, nel quadro di una razionale individuazione delle due sfere di
competenza, che allo Stato faccia capo la cura di interessi unitari, tali in quanto non suscettibili di
frazionamento territoriale. E questa affermazione, già di per sé non contestabile, appare avvalorata dal
rilievo che altrimenti, non essendo riconosciuto allo Stato il potere di sostituirsi alle Regioni in caso di
loro inerzia, fondamentali esigenze dell'intera comunità rischierebbero di restare insoddisfatte.
Non si può affermare, dunque, che per la definizione delle materie elencate nell'art. 117 Cost. sia
sempre sufficiente il ricorso a criteri puramente formali e nominalistici. Anche se nel testo costituzionale
solo per alcune di esse viene espressamente indicato il presupposto di un sottostante interesse di
dimensione regionale, per tutte vale la considerazione che, pur nell'ambito di una stessa espressione
linguistica, non è esclusa la possibilità di identificare materie sostanzialmente diverse secondo la
diversità degli interessi, regionali o sovraregionali, desumibile dall'esperienza sociale e giuridica.
A ciò non contraddicono né l'oggetto né i criteri direttivi della delega contenuta nell'art. 17 della
legge 16 maggio 1970, n. 281, in forza della quale sono stati emanati i vari decreti legislativi di
trasferimento delle funzioni e, fra questi, quello intorno al quale qui si controverte. È evidente che una
legge ordinaria, facendo espresso riferimento alle competenze regionali elencate nell'art. 117 Cost. (e,
dunque, in primo luogo a quelle legislative), non avrebbe potuto attribuire alle Regioni più di quanto è
loro riservato dalla norma costituzionale, non essendo ad essa consentito di modificare una sfera di
competenza stabilita dalla Costituzione: sicché, quando dispone (art. 17, lett. b) che il trasferimento
debba avvenire "per settori organici di materie", la legge lascia ovviamente impregiudicato il problema
attinente alla definizione ed al contenuto di siffatte materie. E si può anche aggiungere che non sembra
che al legislatore delegante siffatto problema sia sfuggito: se nel secondo comma dello stesso art. 17 si
prendono in considerazione, sia pure in riferimento al passaggio degli uffici, "competenze statali residue"
rispetto a quelle da trasferire ai sensi dell'art. 117 Cost. e per esse si prevede, di massima, la delega in
base all'art. 118, secondo comma, Cost., ciò vuol dire che i "settori organici di materie" non
corrispondono - o possono non corrispondere - alla pura e semplice qualificazione linguistica delle
singole voci elencate nella disposizione costituzionale.
Argomento non valido è quello che le Regioni ricorrenti credono si debba trarre, a favore delle loro
tesi, dalla connessione fra il trasferimento che, come si è detto, la legge di delega dispone debba avvenire
per settori organici di materie e la contestuale riserva allo Stato (art. 17, lett. a) della funzione di
indirizzo e di coordinamento. Tale connessione fu già messa in luce da questa Corte nella sentenza n. 39
del 1971, ma va qui precisato che essa va intesa in un senso affatto diverso da quello fatto valere dalle
ricorrenti. Una volta accertato, per quanto innanzi si è detto, che la legge delegante ha imposto di
trasferire quelle materie che la Costituzione vuole fossero trasferite, ai criteri direttivi della delega si
deve assegnare, per quanto riguarda gli aspetti qui rilevanti, lo scopo di predisporre lo strumento col
quale si possa evitare il rischio che, nelle materie trasferite, l'esercizio delle corrispondenti potestà
regionali comporti un sacrificio delle "esigenze di carattere unitario". È vero, infatti, che pur in presenza
di interessi regionali, che radicano nelle Regioni determinate competenze costituzionali, possono essere
mediatamente coinvolti interessi di dimensione ultraregionale: si è voluto che questi ultimi siano
salvaguardati non già attraverso una diminuzione qualitativa o quantitativa delle attribuzioni regionali,
ma, più correttamente, indirizzando e coordinandone l'esercizio. In tal modo si delinea, come la Corte
rilevò nella già citata decisione, un sistema coerente col disegno costituzionale, giacché, ferme restando
le competenze regionali, il rispetto delle esigenze unitarie è garantito dai principi fondamentali stabiliti
nelle leggi dello Stato per quanto riguarda la potestà legislativa, dalla funzione statale di indirizzo e di
coordinamento per quanto riguarda la potestà amministrativa.
4. - Applicando gli esposti principi all'attuale thema decidendum, si deve riconoscere che in base alla
Costituzione le attribuzioni legislative e le corrispondenti attribuzioni amministrative delle Regioni
hanno ad oggetto solo fiere e mercati di carattere regionale, giacché queste manifestazioni, quando
abbiano più vasta dimensione, corrispondono ad interessi sostanziali che fanno immediatamente capo
alla intera comunità nazionale ed appartengono, conseguentemente, alla competenza dello Stato: col che
si vuol dire che siamo fuori delle ipotesi nelle quali le esigenze unitarie, esterne rispetto ad un interesse
regionalmente localizzabile, consentono solo interventi di indirizzo e di coordinamento. Non si può
infatti ragionevolmente ritenere che per il problema qui in esame possa aver rilevanza la circostanza che
una fiera nazionale od internazionale si svolga in questa o in quella parte del territorio nazionale, in
questa od in quella Regione. Hanno invece decisiva importanza l'ampiezza dell'area commerciale,
industriale o agricola alla quale le fiere ed i mercati si riferiscono e l'estensione del mercato sul quale essi
spiegano influenza (fino al punto che, quando si tratti di un mercato internazionale, sorge l'esigenza di
coordinare le iniziative dei vari Stati, come è dimostrato dalla Convenzione di Parigi relativa alle
esposizioni internazionali del 22 novembre 1928, ratificata dall'Italia con il r.d.l. 13 gennaio 1931, n. 24).
Del resto, la distinzione delle fiere e dei mercati secondo il loro diverso carattere, territorialmente
qualificato, era già da tempo nota al nostro ordinamento (cfr. r.d.l. 29 gennaio 1934, n. 454) e, quel che
più conta, risulta essere stata pacificamente utilizzata nella ripartizione delle competenze fra lo Stato e le
Regioni a statuto speciale, nel senso di riconoscere di spettanza di queste ultime - si trattasse di
competenza esclusiva o concorrente - solo le manifestazioni di carattere regionale, senza che alcun
rilievo abbia mai avuto la circostanza che gli Statuti, proprio come avviene per l'art. 117 Cost., non
specificassero il limite della regionalità (cfr. ad es., d.P.R. 19 maggio 1950, n. 327, per la Sardegna;
d.P.R. 30 giugno 1951, n. 574, per il Trentino-Alto Adige; d.P.R. 26 agosto 1965, n. 1116, per il
Friuli-Venezia Giulia).
5. - Le considerazioni fin qui svolte non sono infirmate dal rilievo che l'art. 1, secondo comma, lett.
a, dell'impugnato decreto legislativo ha operato il trasferimento alle Regioni anche delle funzioni inerenti
a fiere nazionali e perfino internazionali, quando non siano organizzate (con periodicità) dagli enti
riconosciuti ai sensi dell'art. 2 del r.d.l. n. 454 del 1934.
La Corte osserva in proposito che la legge delegata ha disciplinato il trasferimento di "funzioni
amministrative", in ordine alle quali la legge ordinaria - oltre che adempiere all'obbligo costituzionale
risultante dal combinato disposto degli artt. 117 e 118, primo comma, e dell'VIII disp. fin. della
Costituzione - può, sulla base di valutazioni discrezionali, affidare alle Regioni (art. 118, secondo
comma, Cost.) anche poteri non compresi nella sfera di attribuzioni regionali costituzionalmente
garantita. Sicché - mentre in questa sede non viene in questione se ed in quali limiti il legislatore
delegato avesse il potere di provvedere in proposito - si deve concludere che sulla legittimità
costituzionale delle disposizioni impugnate, che tutte riguardano poteri riservati allo Stato, nessuna
influenza può produrre la circostanza che altre disposizioni dello stesso decreto delegato abbiano
trasferito alle Regioni competenze amministrative non comprese nella materia "fiere e mercati" ad esse
attribuita dall'art. 117 della Costituzione.
6. - Dovendosi escludere, per gli esposti motivi, che nella materia delle fiere e dei mercati assegnata
dalla Costituzione alla potestà legislativa ed amministrativa delle Regioni debbano essere comprese le
manifestazioni a carattere sovraregionale, vanno dichiarate non fondate - senza bisogno di ulteriore,
analitico esame - tutte le questioni di legittimità costituzionale proposte dalle Regioni ricorrenti a
proposito delle disposizioni, innanzi indicate, che hanno conservato allo Stato poteri inerenti a fiere,
mostre, esposizioni nazionali ed internazionali, non risultando violata nessuna delle norme di raffronto
invocate nei ricorsi (neppure, per quanto riguarda l'art. 3, terzo comma, gli artt. 5 e 123 Cost., giacché gli
enti ivi menzionati, contrariamente all'assunto della Regione ligure, né godono di autonomia
costituzionalmente rilevante né, per le cose dette, appartengono all'organizzazione interna regionale).
Resta, perciò, solo da esaminare l'art. 4, denunziato nella parte in cui viene attribuita al Ministro per
il tesoro la designazione di un componente dei collegi dei revisori dei conti degli enti operanti nella
materia indicata nell'art. 1: poiché, attraverso questo generico rinvio, la disposizione riguarda anche le
fiere ed i mercati di livello regionale, sui quali le Regioni hanno competenza in base alla Costituzione,
occorre accertare se, limitatamente a questo aspetto, quel potere sia stato legittimamente conferito.
La Corte ritiene che anche quest'ultima questione sia non fondata. Potendo il Ministro per il tesoro
provvedere alla designazione solo "in relazione alla permanenza di interessi finanziari dello Stato", la
presenza, nel collegio dei revisori, di un componente di nomina statale è giustificata da uno specifico
interesse statale (il cui presupposto, peraltro, le Regioni, se ne valuteranno l'opportunità, potranno
rimuovere) e, valutata nel complesso della pienezza dei poteri trasferiti, non può esser considerata come
una menomazione delle competenze regionali.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale concernenti - nelle parti indicate in
motivazione - l'art. 1, comma secondo, lett. a e b, l'art. 2, commi primo, terzo e quarto, l'art. 3, l'art. 4 e
l'art. 8, comma quarto, del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 7, contenente disposizioni sul "trasferimento alle
Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di fiere e mercati e del relativo
personale", sollevate dai ricorsi indicati in epigrafe in riferimento agli art. 117 e 118 ed all'VIII
disposizione finale della Costituzione, nonché in relazione all'art. 17 della legge 16 maggio 1970, n. 281,
ed in riferimento all'art. 76 della Costituzione, e, per quanto riguarda l'art. 3, terzo comma, anche in
riferimento agli artt. 5 e 123 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 luglio 1972.
GIUSEPPE CHIARELLI - MICHELE
FRAGALI - COSTANTINO MORTATI GIUSEPPE
VERZÌGIOVANNI
BATTISTA BENEDETTI - FRANCESCO
PAOLO BONIFACIO - LUIGI OGGIONI ANGELO DE MARCO - ERCOLE
ROCCHETTI - ENZO CAPALOZZA VINCENZO MICHELE TRIMARCHI VEZIO CRISAFULLI - NICOLA REALE PAOLO ROSSI.
ARDUINO SALUSTRI - Cancelliere
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 175/1976
Giudizio
GIUDIZIO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE TRA ENTI
Presidente ROSSI - Redattore
Udienza Pubblica del 03/06/1976 Decisione del 12/07/1976
Deposito del 14/07/1976 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:
Massime:
8445 8446 8447 8448 8449 8450 8451 8452 8453 8454
Atti decisi:
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SENT. 175/76 A. REGIONI - URBANISTICA - COMPETENZA AD APPROVARE PIANI
REGOLATORI GENERALI (E LORO VARIANTI). (COSTITUZIONE, ARTT. 117 E 118; D.P.R. 15
G E N N A I O
1 9 7 2 ,
N .
8 ) .
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A norma degli artt. 117 e 118 Cost. e del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8, che ebbe ad operare il
trasferimento alle Regioni delle funzioni statali in materia urbanistica, alla Regione spetta il potere di
approvare i piani regolatori generali (e le loro varianti), predisposti dai comuni (art. 1, lett. d, del citato
d . P . R .
n .
8 ) .
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Riferimenti normativi
deliberazione giunta regione Lazio 06/08/1974 n. 2272
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SENT. 175/76 B. URBANISTICA - PIANI REGOLATORI GENERALI - ESTENSIONE
ALL'INTERO
TERRITORIO
COMUNALE.
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A norma dell'art. 7 della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, nel testo modificato dall'art. 1 della
legge 19 novembre 1968, n. 1187, i piani regolatori generali devono comprendere "la totalita' del
territorio
comunale".
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Riferimenti normativi
deliberazione giunta regione Lazio 06/08/1974 n. 2272
legge 17/08/1942 n. 1150
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SENT. 175/76 C. PARCHI NAZIONALI - RISERVA ALLO STATO - DELIMITAZIONE DELLA
M A T E R I E .
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La riserva allo Stato delle competenze in ordine ai parchi nazionali, tenuta ferma dall'art. 4, lett. s, del
d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11, per la sua collocazione nel contesto del decreto, si riferisce specificamente
alla materia che ne costituisce l'oggetto, cioe' all'agricoltura e foreste, caccia e pesca. - S. n. 142/1972.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Riferimenti normativi
deliberazione giunta regione Lazio 06/08/1974 n. 2272
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SENT. 175/76 D. PARCHI NAZIONALI - RISERVA ALLO STATO - ESTENSIONE QUANTO
A L L E
M A T E R I E .
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Le competenze statali in ordine ai parchi nazionali non si limitavano ne' si limitano agli aspetti piu'
strettamente inerenti all'agricoltura e foreste, caccia e pesca delle zone in essi incluse, comportano invece
una serie di vincoli e divieti, che inevitabilmente interferiscono anche con l'urbanistica.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Riferimenti normativi
deliberazione giunta regione Lazio 06/08/1974 n. 2272
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SENT. 175/76 E. PARCHI NAZIONALI - AZIENDA DI STATO PER LE FORESTE DEMANIALI POTERI - NON SI ESTENDONO ALL'ASSETTO DEL TERRITORIO RIENTRANTE NEL PARCO.
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Eccezion fatta per le autorizzazioni alle "costruzioni e ricostruzioni di qualsiasi genere", prevista dall'art.
3 del R.D. 7 marzo 1935, n. 1324, soltanto limitatamente ad alcune localita' indicate nella annessa
tabella, la vigente legislazione non attribuisce all'Azienda di Stato per le foreste demaniali, cui e' affidata
la gestione tecnica ed amministrativa del Parco Nazionale del Circeo, poteri che abbiano ad oggetto
l'assetto del territorio in esso rientrante. Rilievi analoghi valgono d'altronde, anche per gli altri parchi
n a z i o n a l i .
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Riferimenti normativi
deliberazione giunta regione Lazio 06/08/1974 n. 2272
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SENT. 175/76 F. PARCHI NAZIONALI - RISERVA ALLO STATO - COMPETENZE ESISTENTI
AL
MOMENTO
DEL
TRASFERIMENTO
DELLE
FUNZIONI.
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Le competenze riservate allo Stato in ordine ai parchi nazionali sono quelle esistenti al momento del
trasferimento
delle
funzioni
alle
Regioni.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Riferimenti normativi
deliberazione giunta regione Lazio 06/08/1974 n. 2272
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SENT. 175/76 G. PARCHI NAZIONALI - RISERVA ALLO STATO - NON COMPRENDE, IN
GENERALE,
COMPETENZE
IN
MATERIA
URBANISTICA.
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Salvo limitatissime eccezioni nessuna competenza suscettibile di essere qualificata, in senso proprio,
urbanistica puo' oggi considerarsi, relativamente ai Parchi nazionali, di spettanza dello Stato.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Riferimenti normativi
deliberazione giunta regione Lazio 06/08/1974 n. 2272
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SENT. 175/76 H. URBANISTICA - PARCHI NAZIONALI - COORDINAMENTO DELLE
COMPETENZE
RISPETTIVE
DELLA
REGIONE
E
DELLO
STATO.
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L'esercizio dei poteri urbanistici, che devono considerarsi trasferiti alle Regioni, incontra un limite nei
diversi poteri riservati allo Stato per la tutela degli interessi pubblici cui i parchi nazionali sono
istituzionalmente preordinati. Competenza regionale e competenza statale devono pertanto coordinarsi
tra loro, di guisa che possa realizzarsi un giusto contemperamento delle finalita' rispettive.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Riferimenti normativi
deliberazione giunta regione Lazio 06/08/1974 n. 2272
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SENT. 175/76 I. PARCHI NAZIONALI - APPROVAZIONE DI PIANO REGOLATORE
COMUNALE
INCLUDENTE
ZONE
DI
PARCO
PREVIA
INTESA.
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L'approvazione del piano regolatore deve essere condizionata, con riferimento alle parti di esso incidenti
sul Parco, ad intervenute intese con il Comune e, per quanto di sua competenza, con la Regione.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Riferimenti normativi
deliberazione giunta regione Lazio 06/08/1974 n. 2272
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SENT. 175/76 L. CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE TRA STATO E REGIONE - REGIONE LAZIO URBANISTICA - DELIBERAZIONE DELLA GIUNTA 6 AGOSTO 1974 - APPROVAZIONE DI
PIANO REGOLATORE - INCLUSIONE NEL PIANO DI ZONE INCLUSE NEL PARCO
NAZIONALE DEL CIRCEO - OMISSIONE DI PREVIA INTESA CON ORGANI DELLO STATO INCOMPETENZA
REGIONALE
ANNULLAMENTO
DEL
PROVVEDIMENTO.
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Non spetta alla Regione Lazio approvare il piano regolatore del Comune di Sabaudia, senza che, nelle
parti in cui comprende zone incluse nel Parco nazionale del Circeo, sia previamente intervenuta un'intesa
con
i
competenti
organi
dello
Stato.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Riferimenti normativi
deliberazione giunta regione Lazio 06/08/1974 n. 2272
Pronuncia
N. 175
SENTENZA 12 LUGLIO 1976
Deposito in cancelleria: 14 luglio 1976.
Pres. ROSSI - Rel. CRISAFULLI
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Prof. PAOLO ROSSI, Presidente - Dott. LUIGI OGGIONI - Avv. ANGELO DE
MARCO - Avv. ERCOLE ROCCHETTI - Prof. ENZO CAPALOZZA - Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI - Prof. VEZIO CRISAFULLI - Dott. NICOLA REALE - Avv. LEONETTO AMADEI Dott. GIULIO GIONFRIDA - Prof. EDOARDO VOLTERRA - Prof. GUIDO ASTUTI - Dott.
MICHELE ROSSANO - Prof. ANTONINO DE STEFANO - Prof. LEOPOLDO ELIA, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio promosso con ricorso del Ministro per l'agricoltura e le foreste, per delega del Presidente
del Consiglio dei ministri, notificato il 18 dicembre 1974, depositato in cancelleria il 24 successivo ed
iscritto al n. 18 del registro ricorsi 1974, per conflitto di attribuzione sorto a seguito della deliberazione
della Giunta regionale del Lazio 6 agosto 1974, n. 2272, che approva con modificazioni il piano
regolatore generale del Comune di Sabaudia.
Udito nell'udienza pubblica del 3 giugno 1976 il Giudice relatore Vezio Crisafulli;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Mario Fanelli, per il ricorrente.
Ritenuto in fatto:
1. - Con ricorso notificato il 18 dicembre 1974 e depositato il 24 dicembre 1974, il Ministro
dell'agricoltura e foreste per delega del Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocato generale dello Stato, ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente
della Giunta regionale del Lazio, avverso la deliberazione della Giunta regionale di approvazione, con
modifiche, del piano regolatore generale del Comune di Sabaudia (LT), per contrasto con gli artt. 117 e
118 Cost. in relazione all'art. 4, lett. s) del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11, che ha operato il trasferimento
alle regioni delle funzioni statali in materia di agricoltura e foreste.
L'approvazione del menzionato piano regolatore generale, che incide per gran parte sul Parco
nazionale del Circeo, violerebbe la competenza statale in materia di parchi nazionali, espressamente
riservata allo Stato dalla citata disposizione del d.P.R. n. 11 e prevista altresì dalla legge 25 gennaio
1934, n. 285, istitutiva del Parco nazionale del Circeo.
In via subordinata, la difesa dello Stato, ammesso che l'approvazione del piano regolatore generale
redatto dai comuni rientra nelle competenze urbanistiche della Regione e che il piano non può non
comprendere anche quella parte del territorio in cui sia stato istituito un parco nazionale sostiene che,
quanto meno, non possa negarsi la coesistenza di due sfere di competenza, quella statale, in materia di
parchi, e quella regionale, in materia urbanistica, e che, quindi, debba intervenire tra i due enti una intesa,
che, nella specie, è mancata.
2. - Il Presidente della Regione Lazio si è costituito in giudizio con deduzioni depositate il 19
maggio 1975, quindi oltre il termine di 20 giorni dall'ultima notificazione prescritto dall'art. 3 delle
Norme integrative, chiedendo il rigetto del ricorso.
3. - È intervenuto in giudizio il Comune di Sabaudia con atto depositato il 30 gennaio 1976.
Pur consapevole che la Corte costituzionale, in precedenti pronunzie, si è orientata nel senso
dell'inammissibilità dell'intervento, nel giudizio per conflitto di attribuzione, di soggetti non legittimati a
proporlo o resistervi (sent. nn. 13 e 206 del 1975), il Comune di Sabaudia ritiene di dover nuovamente
prospettare la opposta tesi della ammissibilità, sostenendo che: a) l'intervento come istituto processuale
generale non sarebbe incompatibile con la natura del giudizio per conflitto di attribuzioni; b) che i
contrari precedenti giurisprudenziali della Corte avrebbero ad oggetto l'intervento cosiddetto principale,
proposto da controinteressati al provvedimento impugnato; c) che nella specie si esplica un intervento ad
adiuvandum, a sostegno delle ragioni del soggetto resistente, da parte di un soggetto cointeressato al
provvedimento impugnato.
4. - Alla pubblica udienza, l'avvocato Carlo Selvaggi ha insistito per l'ammissibilità all'intervento del
Comune di Sabaudia. Di contrario avviso si è dichiarato il sostituto avvocato generale dello Stato Mario
Fanelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Questa Corte, con ordinanza letta in udienza, ritenuto che l'intervento del Comune di Sabaudia viene
prospettato come intervento adesivo nei confronti della Regione Lazio; che peraltro la Regione predetta
si è costituita fuori termine e non può svolgere quindi attività di parte in questo processo, di guisa che la
difesa delle attribuzioni che si assumono costituzionalmente spettanti alla Regione verrebbe assunta da
un soggetto diverso dal loro titolare, esclusivamente legittimato a ricorrere ed a resistere dinanzi a questa
Corte; senza pregiudizio della più generale questione dell'ammissibilità di interventi davanti a questa
Corte, specialmente nei giudizi su conflitti di attribuzione, ha dichiarato inammissibile l'intervento del
Comune di Sabaudia.
Successivamente, la difesa dello Stato ha insistito per l'accoglimento delle proprie tesi e conclusioni.
Considerato in diritto:
1. - Come riferito in narrativa, il ricorso del Ministro per l'agricoltura contesta il potere della Regione
Lazio di approvare il piano regolatore del Comune di Sabaudia, perché incidente anche su zone facenti
parte del Parco nazionale del Circeo, ogni competenza in ordine al quale si assume essere riservata allo
Stato in forza di quanto disposto nel d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11, di trasferimento alle Regioni a statuto
ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di agricoltura e foreste, caccia e pesca nelle
acque interne. In linea subordinata, si contesta che la Regione possa procedere a quella approvazione da
sola, senza "un accordo o un'intesa tra Stato e Regioni".
2. - Dalla normativa a livello costituzionale e legislativo disciplinante le materie su cui verte il
conflitto è dato ricavare taluni punti fermi, che si passa a specificare, quali necessarie premesse per la
risoluzione del conflitto medesimo.
Non vi ha dubbio, anzitutto (e lo riconosce in linea di principio la stessa difesa dello Stato) che, a
norma degli articoli 117 e 118 Cost. e del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8, che ebbe ad operare il
trasferimento alle Regioni delle funzioni statali in materia urbanistica, alla Regione spetta (per quanto
ora particolarmente interessa) il potere di approvare i piani regolatori generali (e le loro varianti),
predisposti dai comuni (art. 1, lett. d, del citato d.P.R. n. 8). Ed è certo altresì che, a norma dell'art. 7
della legge urbanistica 17 agosto 1942, numero 1150, nel testo modificato dall'art. 1 della legge 19
novembre 1968, n. 1187, i piani regolatori generali devono comprendere "la totalità del territorio
comunale" (larghe zone del quale, nel caso del Comune di Sabaudia, sono comprese nel Parco nazionale
del Circeo).
D'altro canto, le competenze statali in ordine ai parchi nazionali sono state tenute ferme dall'art. 4,
lett. s, del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11, sopra menzionato: onde il conflitto di attribuzione su cui la
Corte è chiamata a pronunziarsi. È vero bensì che tale riserva (che questa Corte, con sent. n. 142 del
1972, ebbe a giudicare costituzionalmente non illegittima), per la sua collocazione nel contesto del
decreto, si riferisce specificamente alla materia che ne costituisce l'oggetto, cioè all'agricoltura e foreste,
caccia e pesca, e non trova riscontro alcuno nel decreto n. 8, che pure contiene, nell'art. 8, una
elencazione di submaterie escluse dal trasferimento; ma le competenze statali in ordine ai parchi
nazionali non si limitavano né si limitano agli aspetti più strettamente inerenti alla materia anzidetta delle
zone in essi incluse, comportando invece una serie di vincoli e divieti, che inevitabilmente interferiscono
anche con l'urbanistica. Per convincersene, con particolare riguardo al Parco del Circeo, che viene in
considerazione nel presente giudizio, basta por mente alle finalità della sua istituzione, quali enunciate
nell'art. 1 della legge 25 gennaio 1934, n. 285 (tutelare e migliorare la flora e la fauna, conservare le
speciali formazioni geologiche nonché le bellezze del paesaggio, promuovere lo sviluppo del turismo),
nonché ai divieti stabiliti nel successivo art. 5 (ulteriormente specificati nel regolamento di applicazione
r.d. 7 marzo 1935, n. 1324).
Deve peraltro osservarsi che, eccezion fatta per le autorizzazioni alle "costruzioni e ricostruzioni di
qualsiasi genere", prevista dall'art. 3 del cit. regolamento soltanto limitatamente ad alcune località
indicate nella annessa tabella, la vigente legislazione non attribuisce alla Azienda di Stato per le foreste
demaniali, cui è affidata "la gestione tecnica ed amministrativa del Parco" (art. 2 della legge n. 285 del
1934), poteri che abbiano ad oggetto l'assetto del territorio in esso rientrante. Rilievi analoghi valgono,
d'altronde, anche per gli altri parchi nazionali.
E poiché le competenze riservate allo Stato in ordine ai parchi nazionali sono quelle esistenti al
momento del trasferimento delle funzioni alle Regioni, la conclusione (con alcune limitatissime
eccezioni, tra cui, per il Parco del Circeo, quella testé menzionata) è che nessuna competenza suscettibile
di essere qualificata, in senso proprio, urbanistica può oggi considerarsi, relativamente ai Parchi
nazionali, di spettanza dello Stato. Con il che può spiegarsi, in qualche misura, il già rilevato silenzio in
proposito del d.P.R. n. 8 del 1972, traendosene altresì il corollario che il Parco nazionale del Circeo non
è sottratto ai poteri regionali nella materia de qua, nessuna deroga risultando disposta al sopra
rammentato principio dell'art. 7 della legge urbanistica del 1942, così come modificato dall'art. 1 della
legge n. 1187 del 1968, secondo cui i piani regolatori generali devono comprendere l'intero territorio
comunale.
3. - Ma l'esercizio dei poteri urbanistici, che, alla stregua delle premesse sopra esposte, devono
considerarsi trasferiti alle Regioni, incontra, per altro verso ed in forza delle medesime premesse, un
limite nei diversi poteri riservati allo Stato per la tutela degli interessi pubblici cui i parchi nazionali sono
istituzionalmente preordinati. Competenza regionale e competenza statale devono pertanto coordinarsi
tra loro, di guisa che possa realizzarsi un giusto contemperamento delle finalità rispettive.
Una tale esigenza è stata, per la verità, in qualche modo avvertita dalla Giunta regionale che,
nell'approvare, con modifiche, il piano regolatore generale del Comune di Sabaudia, ha vincolato
quest'ultimo, in parziale accoglimento di osservazioni formulate dall'Azienda di Stato per le foreste
demaniali, ad "esaminare" i progetti di attuazione di determinate previsioni del piano "di concerto" con
l'Azienda medesima.
Senonché, così facendo, la Regione ha esercitato una facoltà, della quale poteva avvalersi come non
avvalersi (e non se n'è avvalsa, infatti, per altre previsioni del piano, che pure avevano formato oggetto di
osservazioni dell'Azienda e concernevano anch'esse zone comprese nel Parco): ciò che si appalesa
insufficiente a realizzare una efficace tutela degli interessi inerenti al Parco del Circeo, il cui
soddisfacimento è compito riservato allo Stato, e non può quindi essere rimesso alla discrezionalità della
Regione. Quel che è necessario a tal fine è, invece, che l'approvazione del piano regolatore sia
condizionata, con riferimento alle parti di esso incidenti sul Parco, ad intervenute intese con il Comune e,
per quanto di sua competenza, con la Regione. In questo senso e nei limiti sopra indicati, il ricorso per
regolamento di competenza proposto dal Ministro per l'agricoltura merita accoglimento.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara che non spetta alla Regione Lazio approvare il piano regolatore del Comune di Sabaudia,
senza che, nelle parti in cui comprende zone incluse nel Parco nazionale del Circeo, sia previamente
intervenuta un'intesa con i competenti organi dello Stato ed in conseguenza annulla, nelle parti predette,
la deliberazione della Giunta regionale del 6 agosto 1974, n. 2272.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 luglio 1976.
F.to: PAOLO ROSSI - LUIGI OGGIONI ANGELO DE MARCO - ERCOLE
ROCCHETTI - ENZO CAPALOZZA VINCENZO MICHELE TRIMARCHI VEZIO CRISAFULLI - NICOLA REALE LEONETTO AMADEI - GIULIO
GIONFRIDA - EDOARDO VOLTERRA GUIDO ASTUTI - MICHELE ROSSANO ANTONINO DE STEFANO - LEOPOLDO
ELIA.
ARDUINO SALUSTRI - Cancelliere
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 829/1988
Giudizio
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente SAJA - Redattore
Udienza Pubblica del 23/02/1988 Decisione del 05/07/1988
Deposito del 21/07/1988 Pubblicazione in G. U. 27/07/1988
Norme impugnate:
Massime:
12850
Atti decisi:
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SENT. 829/88. REGIONI A STATUTO ORDINARIO - TOSCANA - PARTECIPAZIONE AL FONDO
DI SOLIDARIETA' NAZIONALE ISTITUITO DALLA REGIONE PIEMONTE - EROGAZIONE DI
UN CONTRIBUTO FINANZIARIO - QUESTIONE DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE INFONDATEZZA. - L. R. TOSCANA 30 GIUGNO 1981. - COST., ART. 117; D.P.R. 24 LUGLIO
1 9 7 7
N .
6 1 6 ,
A R T .
2 5 .
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E' infondata la questione di legittimita' costituzionale della legge della Regione Toscana riapprovata il 30
giugno 1981 - sollevata in relazione all'art. 117 Cost., come attuato dall'art. 25 del d.P.R. 24 luglio 1977,
n. 616 - con la quale e' stata disposta l'erogazione di un contributo di venti milioni di lire a favore del
"Comitato nazionale di solidarieta'", istituito dalla Regione Piemonte per coordinare attivita' di soccorso
"in occasione di avvenimenti, anche di carattere internazionale, che sollecitino l'intervento concreto della
collettivita' regionale". Il contributo in questione e' una prestazione pecuniaria erogata 'una tantum' a
favore di un organo della Regione Piemonte e non gia' una erogazione di servizi o di denaro a favore di
singoli o di gruppi sociali, riconducibile al concetto di assistenza pubblica, quale oggetto della potesta'
legislativa regionale, ai sensi dell'art. 117 Cost. e dell'art. 25 del d.P.R. n. 616 del 1977. La questione di
legittimita' costituzionale della legge 'de qua', pertanto, va risolta rispondendo al quesito
dell'ammissibilita' di contributi erogati da una regione a favore di altre regioni, per motivi di solidarieta'
sociale. Alla collettivita' di una regione inerisce l'interesse a manifestare la propria solidarieta' a favore di
un'altra collettivita' regionale, contro un male od un pericolo - come quello della disoccupazione o
dell'emarginazione dal mondo produttivo - che possono colpire la cittadinanza in qualsiasi parte del
territorio nazionale. Gli interessi regionali non si esauriscono in quelli puntualmente desumibili dalle
competenze attribuite, dalla Costituzione o dallo Statuto, alla regione, ma comprendono anche quelli che
le regioni possono curare nell'esercizio della loro autonomia politica, quali enti esponenziali delle
collettivita' ad esse sottostanti, chiamati ad adempiere ai compiti fondamentali della promozione dello
sviluppo della persona umana e della solidarieta' sociale, dell'accrescimento della partecipazione
democratica e della cultura, e dell'impegno ad assicurare la convivenza pacifica tra i popoli (artt. 2, 3, 5,
9 e 11 Cost.). In base ai principi costituzionali sopra richiamati deve ritenersi che il principio di
territorialita' puo' subire deroghe, purche' giustificate dall'esigenza della presenza politica della regione in
rapporto allo Stato od alle altre regioni in relazione a tutte le questioni di interesse della comunita'
r e g i o n a l e .
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Altri parametri e norme interposte
decreto del Presidente della Repubblica 24/07/1977 n. 616 art. 25
Riferimenti normativi
delibera legislativa Regione Toscana 30/06/1981
Pronuncia
N. 829
SENTENZA 5-21 LUGLIO 1988
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore
GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo
CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI,
prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Toscana n. 86/80 approvata il 30
giugno 1981, avente per oggetto: "Contributi della Regione Toscana al Fondo di solidarietà nazionale
istituito dalla Regione Piemonte", promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri,
notificato il 21 luglio 1981, depositato in cancelleria il 27 successivo ed iscritto al n. 48 del registro
ricorsi 1981;
Visto l'atto di costituzione della Regione Toscana;
Udito nell'udienza pubblica del 23 febbraio 1988 il Giudice relatore Antonio Baldassarre;
Uditi l'Avvocato dello Stato Mario Imponente, per il ricorrente, e l'Avvocato Fabio Lorenzoni per la
Regione;
Ritenuto in fatto
1. - Con ricorso notificato il 21 luglio 1981, il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, ha chiesto che venga dichiarata l'illegittimità costituzionale
della legge della Regione Toscana, riapprovata, a seguito del rinvio governativo, il 30 giugno 1981, con
la quale è stato disposto un contributo dell'ammontare di venti milioni di lire a favore del "Comitato
regionale di solidarietà" istituito dalla Regione Piemonte per coordinare attività di soccorso "in occasione
di avvenimenti, anche di carattere internazionale, che sollecitino l'intervento concreto della comunità
regionale".
Richiamando quanto già rilevato nell'atto di rinvio, l'Avvocatura dello Stato prospetta dubbi di
legittimità costituzionale sulla legge impugnata sotto un duplice profilo. Innanzitutto, perché violerebbe
l'art. 117 Cost., come attuato dall'art. 25 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, per il quale, in materia di
assistenza e di beneficenza pubblica, le regioni hanno soltanto funzioni di indirizzo, essendo affidato ai
Comuni l'esercizio delle concrete funzioni amministrative. Con l'erogazione operata con la legge
impugnata, la Toscana contravverrebbe a tale norma, prestando direttamente un servizio assistenziale nel
quadro di iniziative assunte anche da altre regioni per sostenere economicamente i lavoratori impegnati
nella vertenza FIAT e peraltro già fruenti della Cassa integrazione guadagni. In secondo luogo, sempre
ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, la stessa legge violerebbe il principio di territorialità, in quanto
diretta a produrre i suoi effetti al di là dei confini regionali e a tutela di interessi localizzati in altra
regione, e precisamente a favore di persone che risiedono e lavorano in Piemonte.
2. - Si è costituita nei termini la Regione Toscana, chiedendo che le questioni sollevate siano
dichiarate non fondate.
Relativamente alla prima censura, la Regione osserva che è vano richiamarsi alla ripartizione delle
funzioni amministrative tra comuni e regioni in materia di assistenza e di beneficenza, peraltro
erroneamente interpretata, quando all'esame della Corte costituzionale è sottoposta una legge regionale di
spesa. Questa, al contrario, dovrebbe essere inquadrata nell'ambito dell'autonomia di spesa posseduta
dalle regioni nell'ambito delle competenze garantite loro dalla Costituzione e dei principi generali che
regolano l'esercizio di quell'autonomia, fra i quali rientrerebbe senza dubbio l'adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà.
Quanto alla pretesa lesione del limite territoriale, la resistente osserva che se quest'ultimo, impedisce
di disciplinare rapporti o attività svolgentisi fuori del territorio della regione, non escluderebbe, tuttavia,
l'erogazione di un beneficio a favore di un soggetto avente sede fuori del medesimo territorio. A seguire
la tesi del ricorrente, sostiene la Regione, si arriverebbe all'assurda conclusione che dovrebbe essere
vietato di disporre qualsiasi pagamento a favore di qualsiasi soggetto avente sede fuori del territorio
regionale.
3. - In prossimità dell'udienza la Regione Toscana ha prodotto una memoria, con la quale, oltre a
ribadire gli argomenti già formulati all'atto della costituzione, precisa che, a suo avviso, la legge
impugnata rispetta il limite territoriale, in quanto, lungi dal disporre nei confronti di persone non
collegate con il territorio regionale, contiene in effetti un precetto diretto all'ufficio della Regione che
deve provvedere all'erogazione.
In secondo luogo, sempre a giudizio della Regione, il limite territoriale è ordinariamente inteso come
riferito all'ambito di validità degli atti legislativi o amministrativi di ciascuna regione, non già all'ambito
di efficacia, poiché numerose sono le fattispecie, comunemente ammesse, che producono effetti diretti o
indiretti in ordine a situazioni extra regionali, come nel caso delle attività regionali di rilevanza
internazionale (promozionali, culturali, etc.).
Infine, va tenuto presente, secondo la Regione, che nel definire il principio territoriale la Corte
costituzionale ha fatto riferimento a parametri diversi dai confini geografici, che investono la definizione
delle materie di competenza regionale o degli interessi nazionali.
Considerato in diritto
1. - Sottoposta al presente giudizio di legittimità costituzionale è la legge della Regione Toscana,
riapprovata il 30 giugno 1981, con la quale si attribuisce al "Comitato regionale di solidarietà" ivi
indicato un contributo di venti milioni di lire. Tale legge è impugnata dal Presidente del Consiglio dei
Ministri in quanto ritenuta lesiva:
a) dell'art. 117 Cost., come attuato dall'art. 25 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, il quale, riservando
ai comuni le funzioni amministrative relative all'organizzazione e all'erogazione dei servizi di assistenza
e di beneficenza pubblica, ne precluderebbe il diretto esercizio da parte delle regioni;
b) del principio di territorialità, che, vincolando la potestà legislativa di ciascuna regione ad operare
all'interno del territorio di propria spettanza, ne vieterebbe lo svolgimento a tutela di interessi
localizzabili in altra regione.
2. - Le anzidette censure non possono essere accolte, poiché né l'uno né l'altro dei limiti invocati
trovano applicazione, nei termini prospettati dal ricorrente, nella fattispecie dedotta nel presente giudizio.
2.1. - L'ipotesi di erogazione finanziaria contenuta nella legge impugnata non può essere ricondotta
al pur ampio concetto di assistenza e di beneficenza pubblica previsto come oggetto della potestà
legislativa regionale dall'art. 117 Cost., nel significato precisato dall'art. 22 del d.P.R. n. 616 del 1977.
Anche se appare giustificato dai motivi di solidarietà sociale, il contributo ivi previsto manca dei
caratteri strutturali propri delle prestazioni di assistenza e di beneficenza pubblica, in quanto, anziché
consistere in un'erogazione di servizi o di denaro a favore di singoli o di gruppi sociali, come richiesto
dal predetto art. 22 del d.P.R. n. 616 del 1977, è dato da una prestazione pecuniaria compiuta una tantum
dalla Regione Toscana a favore della Regione Piemonte o, più precisamente, a favore del Comitato
regionale di solidarietà, vale a dire di un organo della Regione Piemonte che è stato istituito al fine di
promuovere, coordinare e organizzare iniziative di soccorso e di aiuto a favore di popolazioni o di
categorie sociali particolarmente colpite da avvenimenti, anche di carattere internazionale, che sollecitino
l'intervento concreto della comunità regionale (cfr. legge Reg. Piemonte 28 gennaio 1982, n. 4, nonché la
deliberazione del Consiglio Regionale del Piemonte del 10 gennaio 1980, n. 545-263).
In altre parole, la legge impugnata non è, certo, esercizio della specifica competenza posseduta dalla
Regione Toscana in materia di assistenza e di beneficenza pubblica, ma costituisce una forma di
collaborazione e di cooperazione solidaristica della stessa Regione nei confronti della Regione Piemonte
in quanto ente politico impegnato, attraverso il proprio Comitato di solidarietà, in iniziative di soccorso e
di aiuto a favore di persone danneggiate da licenziamenti o sospensioni dal lavoro occorsi nel capoluogo
piemontese. Per tali ragioni, al fine di giudicare della legittimità costituzionale della legge impugnata,
non ha alcuna rilevanza domandarsi se, a norma dell'art. 117 Cost., come attuato dall'art. 25 del d.P.R. n.
616 del 1977, la regione possa concretamente erogare servizi di assistenza o di beneficenza pubblica, per
il semplice fatto che il problema sottoposto al presente giudizio consiste, piuttosto, nel decidere se una
regione possa disporre di contributi a favore di altre regioni per motivi di solidarietà sociale.
2.2. - In relazione a un diverso caso di versamento di fondi della Regione Trentino Alto-Adige a
favore di un istituto di cultura della Provincia di Trento, questa Corte ha già affermato che "gli interessi
regionali non sono soltanto quelli puntualmente rilevabili dalle competenze che (la Costituzione o) lo
Statuto attribuisce alla Regione" e che, anzi, "può esser configurato un interesse generale proprio della
Regione che questa può e deve tutelare" (sent. n. 56 del 1964). Ciò significa, in altre parole, che, al di là
delle finalità in relazione alle quali le regioni possono svolgere le proprie competenze legislative e
amministrative nelle materie loro attribuite, sussistono interessi e fini rispetto ai quali le regioni stesse
possono provvedere nell'esercizio dell'autonomia politica che ad esse spetta in quanto enti esponenziali
delle collettività sociali rappresentate.
Questo ruolo di rappresentanza generale degli interessi della collettività regionale e di prospettazione
istituzionale delle esigenze e, persino, delle aspettative che promanano da tale sfera comunitaria deriva
alle singole regioni dal complessivo disegno costituzionale sulle autonomie territoriali (come
ulteriormente precisato dal d.P.R. n. 616 del 1977) e, in primo luogo, dall'art. 5 Cost. e dai principi
fondamentali contenuti nelle disposizioni iniziali della Costituzione. Grazie a tali norme, infatti, si
afferma, per un verso, il principio generale che le autonomie locali costituiscono una parte essenziale
dell'articolazione democratica dell'ordinamento unitario repubblicano e, per altro verso, si attribuisce a
siffatto articolato complesso di istituzioni democratiche - ora sotto la denominazione di "Repubblica",
ora sotto quella di "Italia" - l'adempimento di una serie di compiti fondamentali: compiti che vanno
svolti, oltreché attraverso le proprie competenze, nella pienezza delle potenzialità di partecipazione
comunitaria di cui ciascuna istituzione è capace e che sono diretti a favorire il più elevato sviluppo della
persona umana, della solidarietà sociale ed economica, della democrazia politica, della cultura e del
progresso tecnico-scientifico, della convivenza pacifica tra i popoli (artt. 2, 3, 9 e 11 Cost.).
In base a questi principi, riprodotti dalla totalità degli statuti regionali e, per quel che qui concerne,
dagli artt. 1-5 dello Statuto toscano, si legittima, dunque, una presenza politica della regione, in rapporto
allo Stato o anche ad altre regioni, riguardo a tutte le questioni di interesse della comunità regionale,
anche se queste sorgono in settori estranei alle singole materie indicate nell'art. 117 Cost. e si proiettano
al di là dei confini territoriali della regione medesima. Si tratta, più precisamente, di una presenza che,
quando si manifesta al di fuori dell'ambito di validità delle potestà che la regione vanta nelle materie di
propria competenza, si realizza attraverso atti di proposta, di stimolo, di iniziative o, anche, attraverso
intese, accordi o altre forme di cooperazione, che possono comunque comportare, sia sotto il profilo
organizzativo sia sotto quello dell'esecuzione, spese a carico del bilancio regionale, le quali esigono
l'adozione di una legge ad hoc da parte della regione interessata.
2.3. - Del resto, questo particolare aspetto dell'autonomia regionale non è soltanto affermato nelle
disposizioni di principio della Costituzione e degli Statuti, ma è anche sviluppato nella legislazione
statale o in atti equiparati, nelle cui norme si rinvengono numerosissime fattispecie che coinvolgono le
regioni, nella loro qualità di enti rappresentativi delle rispettive comunità e degli interessi pubblici che vi
si agitano, in attività di rilievo nazionale ed anche internazionale, le quali si svolgono, ovviamente, in
una dimensione che oltrepassa i limiti materiali e territoriali delle competenze puntualmente attribuite
alle singole regioni.
Basta pensare, a titolo esemplificativo, da un lato, alla previsione di interventi regionali di
promozione anche fuori delle materie indicate dall'art. 117 della Costituzione (artt. 49 e 52, ultimo
comma, del d.P.R. n. 616 del 1977) e, dall'altro, alle molteplici ipotesi di programmazione settoriale
coinvolgenti nello stesso tempo organi statali e organi regionali o, ancora, ai numerosi momenti di
coinvolgimento regionale in iniziative e funzioni dello Stato, oppure alle svariate forme di cooperazione
paritaria tra diverse regioni o tra le regioni medesime e gli enti omologhi operanti in ordinamenti
stranieri.
Si tratta, come è evidente, di svariate ipotesi normative che, pur avendo in comune il fine di
permettere alle Regioni di operare, anche legislativamente, al di fuori dei limiti materiali e territoriali
fissati dall'art. 117 Cost., nell'attuazione ad essi data dal d.P.R. n. 616 del 1977, sono già state giudicate
da questa Corte come non contrarie a Costituzione (v., soprattutto, le recenti sentt. nn. 179 del 1987 e
562 del 1988, nonché già sent. n. 359 del 1985).
2.4. - A questo stesso filone si collega la legge regionale oggetto del presente giudizio di
costituzionalità. Nel disporre un contributo di solidarietà a favore di altra regione al fine di cooperare in
un'attività di sostegno a favore di persone sospese dal lavoro nel corso di una vertenza economica di
rilievo politico nazionale, il legislatore toscano ha ritenuto di interpretare il sentimento della propria
popolazione attraverso un atto di liberalità solidaristica fatto a nome dell'intera comunità da esso
rappresentata. Emanata nell'esercizio di tale potere discrezionale, la legge impugnata non contravviene ai
limiti che le sono propri.
Innanzitutto, non si può dire che essa non sia sorretta da un interesse della propria comunità
regionale costituzionalmente qualificato. Se, in altra circostanza (sent. n. 56 del 1964), questa Corte ha
rilevato tale mancanza, al contrario, nel caso in questione, non si può negare l'interesse della collettività
regionale della Toscana a manifestare la propria solidarietà a una diversa collettività regionale, già
impegnata a sostenere con i propri mezzi i suoi concittadini in lotta contro la disoccupazione e
l'emarginazione dal mondo produttivo, vale a dire contro un male e un pericolo che possono colpire la
cittadinanza in qualsiasi parte del territorio nazionale. Non è, dunque, irragionevole che il legislatore
toscano abbia voluto partecipare, con l'erogazione del contributo qui in contestazione, al perseguimento
di un fine ritenuto comune e che, pertanto, giustifica l'atto di solidarietà compiuto in nome di un dovere
che l'art. 2 Cost. definisce come inderogabile.
In secondo luogo, non si può certo dire che l'intervento finanziario previsto, in considerazione della
quantità e della qualità della concreta erogazione, possa esser ritenuto un fattore di alterazione o di
turbativa delle competenze proprie della regione destinataria (v. sent. n. 562 del 1988) o di quelle statali
o, addirittura, possa esser considerato un modo di svolgimento surrettizio di una competenza non
assegnata ovvero un modo di esercizio improprio o scorretto di altre specifiche competenze attribuite alla
regione stessa (come è, invece, accaduto nei casi giudicati con le sentt. nn. 66 del 1961, 56 del 1964, 27
del 1965, 29 del 1968).
Infine, si deve recisamente negare che il contributo previsto dalla legge regionale impugnata possa
essere causa o fattore di disparità o di irragionevoli interferenze nell'esercizio e nel godimento dei diritti
dei cittadini (come, invece, si è riscontrato nelle ipotesi giudicate con le sentt. nn. 39 del 1973 e 79 del
1988).
2.5. - Dalle considerazioni già svolte appare chiaro come non sia appropriato invocare il limite
territoriale in relazione a fattispecie normative come quella regolata dalla legge impugnata e, più in
generale, con riferimento alla rilevata posizione delle regioni come rappresentanti degli interessi generali
della propria collettività. Le disposizioni costituzionali e le pronunzie di questa Corte precedentemente
ricordate mostrano con tutta evidenza che, nei limiti appena detti, l'autonomia regionale può esercitarsi
anche in forme che si proiettano al di là del territorio proprio di ciascun ente. La regione, per la
Costituzione, non è una monade e l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà non può essere
confinato nel ristretto ambito regionale. Sicché, soprattutto in relazione alle espressioni dell'autonomia
regionale collegate alla posizione della regione come ente esponenziale e rappresentativo degli interessi
generali della propria comunità, si deve ammettere che il principio di territorialità, come non ha escluso
anche questa stessa Corte in una lontana sentenza (n. 58 del 1958) e come riconosce parte della dottrina,
possa subìre relativizzazioni o anche deroghe, purché giustificate, ovviamente, nei termini sopra detti.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Toscana
riapprovata il 30 giugno 1981, avente ad oggetto: "Contributo della Regione Toscana al fondo regionale
di solidarietà istituito dalla Regione Piemonte", sollevata dal Presidente del Consiglio dei Ministri, con il
ricorso indicato in epigrafe, in riferimento all'art. 117 Cost., come attuato dall'art. 25 del d.P.R. 24 luglio
1977, n. 616, e per violazione del principio costituzionale di territorialità.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 1988.
Il Presidente: SAJA
Il redattore: BALDASSARRE
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria il 21 luglio 1988.
Il direttore della cancelleria: MINELLI
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 106/2002
Giudizio
GIUDIZIO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE TRA ENTI
Presidente RUPERTO - Redattore MEZZANOTTE
Udienza Pubblica del 12/02/2002 Decisione del 10/04/2002
Deposito del 12/04/2002 Pubblicazione in G. U. 17/04/2002
Norme impugnate:
Massime:
26930
Atti decisi:
T
i
t
o
l
o
Regione liguria - Consiglio regionale - Denominazione integrativa di “parlamento della liguria”,
conferita a se medesimo dall’organo regionale con invito, alla commissione per l’elaborazione dello
statuto, ad adottare la stessa denominazione - Ricorso per conflitto di attribuzione dello stato, per lesione
delle proprie attribuzioni - Uso esclusivo della dizione “parlamento” - Riferibilità all’organo sede della
rappresentanza politica nazionale - Accoglimento del ricorso - Annullamento conseguente della
deliberazione
regionale
impugnata.
T
e
s
t
o
Non spetta al Consiglio regionale della Liguria adottare la delibera n. 62 del 15 dicembre 2000 recante
"Istituzione del Parlamento della Liguria" della quale va, conseguentemente, disposto l'annullamento - in
accoglimento del ricorso per conflitto proposto per lo Stato dal Presidente del Consiglio dei ministri dovendo ritenersi illegittimi sia l'estensione al Consiglio regionale ligure del 'nomen' Parlamento sia
l'invito all'apposita commissione ad inserire nello statuto regionale in corso di elaborazione una
denominazione costituzionalmente non consentita per l'organo consiliare. Infatti tanto il dato testuale,
che può ricavarsi dal Titolo I della Parte seconda e dagli artt. 55 e 121 della Costituzione, quanto anche
argomenti di ordine sistematico - sui quali non influiscono profili di analogia tra Consiglio regionale e
Parlamento né il nuovo modo di essere delle autonomie, disegnato dal legislatore costituzionale nel 1999
e con la modifica del Titolo V nel 2001 -, portano senz'altro ad escludere che la denominazione
Parlamento possa essere impiegata all'interno di ordinamenti regionali: dal momento che essa è riservata
all'organo sede della rappresentanza politica nazionale (art. 67 Cost.), connotando la posizione esclusiva
che
lo
stesso
organo
occupa
nell'organizzazione
costituzionale.
Atti oggetto del giudizio
deliberazione del consiglio regionale della Liguria 15/12/2000 n. 62
Parametri costituzionali
Costituzione art. 1
Costituzione art. 5
Costituzione art. 55
Costituzione art. 67
Costituzione art. 114
Costituzione art. 115
legge costituzionale 18/10/2001 n. 3 art. 9 co. 2
Costituzione art. 121
Pronuncia
N. 106
SENTENZA 10 - 12 APRILE 2002.
Pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» n. 16 del 17 aprile 2002
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Cesare RUPERTO; Giudici: Massimo VARI, Riccardo CHIEPPA,
Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI
MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK,
Francesco AMIRANTE;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione sorto a seguito della delibera del Consiglio regionale della
Liguria n. 62 del 15 dicembre 2000 recante "Istituzione del Parlamento della Liguria", promosso con
ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 5 marzo 2001, depositato in cancelleria il
15 successivo ed iscritto al n. 11 del registro conflitti 2001.
Visto l'atto di costituzione della Regione Liguria;
Udito nell'udienza pubblica del 12 febbraio 2002 il giudice relatore Carlo Mezzanotte;
Uditi l'avvocato dello Stato Ignazio F. Caramazza per il Presidente del Consiglio dei ministri e
l'avvocato Luigi Cocchi per la Regione Liguria.
Ritenuto in fatto
1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto ricorso per conflitto di attribuzione, in
riferimento agli articoli 1, 5, 55, 115 (articolo abrogato dall'art. 9, comma 2, della legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3 "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione") e 121 della
Costituzione, avverso la delibera n. 62 del 15 dicembre 2000 con la quale il Consiglio regionale della
Liguria ha approvato la proposta di istituzione del Parlamento della Liguria. Tale delibera prevede che in
tutti gli atti dell'assemblea regionale, alla dizione costituzionalmente prevista "Consiglio regionale della
Liguria" sia affiancata la dizione "Parlamento della Liguria".
Secondo il ricorrente il cambiamento di denominazione dell'organo rappresentativo regionale, sia
pure solo in via aggiuntiva, lederebbe la sfera di attribuzioni statali. Si osserva in proposito che il nomen
iuris degli organi connota tipicamente le funzioni che a quegli organi sono attribuite, e tale generale
principio assumerebbe particolare pregnanza in riferimento al nome "Parlamento", che, nella storia
costituzionale moderna, identificherebbe l'organo attraverso il quale il popolo esprime la propria
sovranità, partecipando all'esercizio del potere politico. Sebbene dunque sia teoricamente scorretto
attribuire al Parlamento la qualifica di organo del popolo, aggiunge l'Avvocatura, non potrebbe dubitarsi
che nel sistema costituzionale italiano, che esalta la "centralità" delle assemblee parlamentari, le due
Camere siano gli organi costituzionali nei quali la volontà popolare più immediatamente ed
efficacemente si esprime. La posizione eminente che esse occupano nella struttura dei poteri statali
rifletterebbe appunto la sovranità popolare che il Parlamento incarna e rappresenta e precluderebbe
l'impiego di tale denominazione con riferimento a organi della regione, che sono comunque
rappresentativi di poteri di autonomia e non di poteri sovrani.
Lesivo delle attribuzioni statali pare alla difesa erariale anche il secondo comma del provvedimento
impugnato. In esso si delibera di assumere i principi contenuti nelle premesse (principi comprensivi della
denominazione di cui si è detto) "quali linee di indirizzo da trasmettere alla Commissione speciale per lo
Statuto e per la legge elettorale, affinché quest'ultima possa procedere agli adempimenti necessari a
consentire che gli stessi possano essere compiutamente attuati in sede di elaborazione del nuovo Statuto
regionale". Una simile previsione, secondo il ricorrente, pur avendo valenza meramente ottativa,
lederebbe le prerogative statali, intendendo preannunciare l'approvazione di un nuovo statuto regionale
che sarebbe diretto a rivendicare alla regione ambiti di potere sovrano. Su simili premesse il Presidente
del Consiglio dei ministri chiede alla Corte di dichiarare che non spetta al Consiglio regionale adottare la
delibera oggetto del ricorso, e conseguentemente di annullarla.
2. - Si è costituito, per la Regione Liguria, il Presidente della Giunta regionale, chiedendo che il
ricorso statale sia dichiarato inammissibile o infondato.
Quanto ai profili di inammissibilità, si denuncia il difetto di lesività dell'atto impugnato. La
determinazione assunta dal Consiglio regionale, osserva la difesa della regione, avrebbe un elevato
valore simbolico, ma, in termini di puro diritto, si risolverebbe in una semplice addizione lessicale alla
formula impiegata in Costituzione, senza che ciò determini una modifica delle competenze e delle
prerogative dell'organo rappresentativo regionale. Non vi sarebbe, dunque, nell'atto oggetto del conflitto,
alcuna capacità invasiva delle attribuzioni costituzionali dello Stato.
Nel merito, la difesa regionale contesta l'affermazione secondo la quale l'espressione Parlamento "sia
sintomatica e coessenziale della sovranità dello Stato", replicando che la sovranità è una caratteristica
dello Stato complessivamente considerato, mentre la denominazione di Parlamento si attaglierebbe ad
assemblee rappresentative, espressive di potere popolare, con funzione legislativa e di controllo politico
sul Governo. Ad avviso della resistente dovrebbe considerarsi infondata anche la questione relativa al
secondo comma della deliberazione impugnata, che formula indirizzi ai fini della redazione del nuovo
statuto, poiché tale previsione non presenterebbe un contenuto lesivo, essendo priva di valore giuridico
vincolante nei confronti della commissione alla quale è diretta.
3. - Nella pubblica udienza del 12 febbraio 2002 l'Avvocatura dello Stato, oltre a riprendere le
argomentazioni spese nel ricorso, ha soggiunto che le attribuzioni del Consiglio regionale, per quanto
siano state fortemente potenziate dalla revisione del Titolo V, Parte II, della Costituzione (legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), sarebbero comunque espressione di poteri di autonomia e non
potrebbero mai attingere il livello della sovranità. In tal senso, secondo la difesa del Presidente del
Consiglio dei ministri, con la delibera impugnata la Regione Liguria si arrogherebbe la titolarità di una
sovranità che in nessun modo le spetta.
Dal canto suo, la difesa della regione ha sostenuto che l'impiego del nomen Parlamento nella
delibera oggetto del conflitto - che peraltro esplicitamente riconosce la spettanza della sovranità allo
Stato nella sua unitarietà - troverebbe giustificazione proprio nella marcata assimilazione funzionale tra
assemblea legislativa statale e assemblea legislativa regionale alla quale hanno condotto le riforme
costituzionali più recenti, tutte intese al rafforzamento delle istituzioni regionali nella complessiva
organizzazione dello Stato. Particolare significato assumerebbe, in tale prospettiva, l'attribuzione di una
amplissima potestà legislativa alle Regioni, per effetto del superamento del criterio della enumerazione
delle materie di competenza regionale, cui era originariamente improntato l'art. 117 della Costituzione, e
l'accoglimento del principio, concettualmente opposto, della residualità della competenza legislativa
regionale (art. 117, quarto comma, della Costituzione).
Considerato in diritto
1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto ricorso per conflitto di attribuzione, in
riferimento agli articoli 1, 5, 55, 115 (articolo abrogato dall'art. 9, comma 2, della legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3) e 121 della Costituzione avverso la delibera n. 62 del 15 dicembre 2000, con la quale
il Consiglio regionale della Liguria, da un lato ha disposto che in tutti i propri atti la dizione "Consiglio
regionale" sia affiancata da quella di "Parlamento della Liguria"; dall'altro ha indirizzato alla
Commissione statuto la direttiva di tenere conto di tale denominazione in sede di elaborazione del nuovo
statuto regionale.
2. - Il ricorso deve essere accolto.
Già un approccio puramente testuale al tema oggetto del conflitto induce a nutrire forti dubbi sulla
conformità a Costituzione della deliberazione impugnata. Il termine "Parlamento", che apre il Titolo I,
Parte II, della Costituzione, si riferisce, ai sensi dell'art. 55, ai due organi che lo compongono: la Camera
dei deputati e il Senato della Repubblica. L'art. 121 della Costituzione denomina invece Consiglio
regionale l'organo che esercita le potestà legislative attribuite alla regione e le altre funzioni che la
Costituzione e le leggi gli conferiscono.
L'argomento letterale, seppure non privo di valore, non può tuttavia essere considerato decisivo se
non viene saggiato alla luce degli altri canoni della interpretazione costituzionale. Le stesse parti, del
resto, hanno avvertito la necessità di spingersi al di là del dato testuale allorché, con opposti
intendimenti, hanno addotto elementi storico-sistematici per corroborarlo ovvero consentirne il
superamento. L'Avvocatura dello Stato insiste sulla distinzione-contrapposizione tra sovranità popolare,
della quale il solo Parlamento sarebbe espressione, e autonomia; la difesa della regione, richiamandosi
alla posizione di perfetta equiordinazione che, dopo le recenti riforme costituzionali, si sarebbe ormai
realizzata tra Parlamento e Consigli regionali, ritiene che anche questi ultimi, da annoverare a pieno
titolo tra le assemblee rappresentative, possano, per analogia, fregiarsi del nome Parlamento.
È su tali antagonistiche prospettazioni che questa Corte deve portare il proprio esame.
3. - La difesa erariale, dunque, nel tentativo di rinvenire, al di là del dato testuale, una più profonda
ragione costituzionale del carattere esclusivo della denominazione "Parlamento" attribuita alle assemblee
legislative nazionali, pone l'accento sul fatto che siano queste la sede esclusiva, o anche soltanto
preminente, in cui prende forma la sovranità del popolo.
Si deve in proposito osservare che il legame Parlamento-sovranità popolare costituisce
inconfutabilmente un portato dei principi democratico-rappresentativi, ma non descrive i termini di una
relazione di identità, sicché la tesi per la quale, secondo la nostra Costituzione, nel Parlamento si
risolverebbe, in sostanza, la sovranità popolare, senza che le autonomie territoriali concorrano a
plasmarne l'essenza, non può essere condivisa nella sua assolutezza.
Sebbene il nuovo orizzonte dell'Europa e il processo di integrazione sovranazionale nel quale l'Italia
è impegnata abbiano agito in profondità sul principio di sovranità, nuovamente orientandolo ed
immettendovi virtualità interpretative non tutte interamente predicibili, un apparato concettuale
largamente consolidato nel nostro diritto costituzionale consente di procedere, proprio sui temi connessi
alla sovranità, da alcuni punti fermi. L'articolo 1 della Costituzione, nello stabilire, con formulazione
netta e definitiva, che la sovranità "appartiene" al popolo, impedisce di ritenere che vi siano luoghi o sedi
dell'organizzazione costituzionale nella quale essa si possa insediare esaurendovisi. Le forme e i modi
nei quali la sovranità del popolo può svolgersi, infatti, non si risolvono nella rappresentanza, ma
permeano l'intera intelaiatura costituzionale: si rifrangono in una molteplicità di situazioni e di istituti ed
assumono una configurazione talmente ampia da ricomprendere certamente il riconoscimento e la
garanzia delle autonomie territoriali. Per quanto riguarda queste ultime, risale alla Costituente la visione
per la quale esse sono a loro volta partecipi dei percorsi di articolazione e diversificazione del potere
politico strettamente legati, sul piano storico non meno che su quello ideale, all'affermarsi del principio
democratico e della sovranità popolare.
Il nuovo Titolo V - con l'attribuzione alle regioni della potestà di determinare la propria forma di
governo, l'elevazione al rango costituzionale del diritto degli enti territoriali minori di darsi un proprio
statuto, la clausola di residualità a favore delle regioni, che ne ha potenziato la funzione di produzione
legislativa, il rafforzamento della autonomia finanziaria regionale, l'abolizione dei controlli statali - ha
disegnato di certo un nuovo modo d'essere del sistema delle autonomie. Tuttavia i significativi elementi
di discontinuità nelle relazioni tra Stato e regioni che sono stati in tal modo introdotti non hanno
intaccato le idee sulla democrazia, sulla sovranità popolare e sul principio autonomistico che erano
presenti e attive sin dall'inizio dell'esperienza repubblicana. Semmai potrebbe dirsi che il nucleo centrale
attorno al quale esse ruotavano abbia trovato oggi una positiva eco nella formulazione del nuovo art. 114
della Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati al fianco dello Stato come
elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la comune
derivazione dal principio democratico e dalla sovranità popolare.
In conclusione, se non lo si vuole racchiudere entro uno schema troppo angusto e ormai storicamente
inattendibile, non è il principio di sovranità popolare a poter fondare un'attribuzione costituzionale all'uso
esclusivo della denominazione "Parlamento".
4. - D'altro canto, non può essere accolta neppure la prospettiva ricostruttiva in cui si pone la
Regione Liguria per superare l'ostacolo recato dalla lettera della Costituzione. La difesa regionale
assume che la sostanziale parificazione di funzioni, nei rispettivi ambiti di competenza, tra Consiglio
regionale e Parlamento renderebbe legittima l'estensione anche al primo della denominazione propria del
secondo. Questa ricostruzione potrebbe avere una qualche plausibilità se la denominazione degli organi
direttivi della regione fosse collocata in uno spazio di indifferenza giuridica; solo allora sarebbe infatti
possibile muovere alla ricerca di una nozione "sostanziale" di Parlamento, e, confortati dalla indagine
storica, annettere una qualificazione siffatta alle assemblee legislative titolari di una funzione
rappresentativa delle popolazioni governate, dunque anche ai Consigli regionali.
È tuttavia di ostacolo alla utilizzazione dell'argomento analogico la circostanza che la Costituzione
ha inteso pregiudicare questo spazio giuridico. Essa nel Titolo I, Parte II, attribuisce alle sole Camere il
nome Parlamento, e definisce Consiglio regionale, nell'articolo 121, il titolare della funzione legislativa
regionale. Gli organi direttivi della regione non sono dunque entità nuove nate negli ordinamenti
regionali in virtù delle modifiche introdotte nel Titolo V della Costituzione e prive di denominazioni
proprie. Ed è vano richiamare profili di analogia tra Consiglio regionale e Parlamento, che erano evidenti
al Costituente del 1948 - il quale con l'art. 121 della Costituzione (e con le corrispondenti norme degli
statuti speciali) aveva nondimeno espresso chiaramente la propria scelta diversificatrice - così come si
deve presumere lo siano stati al legislatore costituzionale del 1999 e del 2001, che pure, proprio nel
momento in cui si accingeva ad un rilevante potenziamento del ruolo delle autonomie, non ha ritenuto di
mutare in "Parlamento" la denominazione dell'organo legislativo delle regioni.
Conviene piuttosto individuare gli elementi che giustifichino la diversa denominazione
costituzionale, ed è fin troppo agevole, in questa prospettiva, rilevare che il termine Parlamento rifiuta di
essere impiegato all'interno di ordinamenti regionali. Ciò non per il fatto che l'organo al quale esso si
riferisce ha carattere rappresentativo ed è titolare di competenze legislative, ma in quanto solo il
Parlamento è sede della rappresentanza politica nazionale (art. 67 Cost.), la quale imprime alle sue
funzioni una caratterizzazione tipica ed infungibile. In tal senso il nomen Parlamento non ha un valore
puramente lessicale, ma possiede anche una valenza qualificativa, connotando, con l'organo, la posizione
esclusiva che esso occupa nell'organizzazione costituzionale. Ed è proprio la peculiare forza connotativa
della parola ad impedire ogni sua declinazione intesa a circoscrivere in ambiti territorialmente più
ristretti quella funzione di rappresentanza nazionale che solo il Parlamento può esprimere e che è
ineluttabilmente evocata dall'impiego del relativo nomen.
5. - Le considerazioni fin qui svolte consentono di apprezzare nella pienezza del suo significato il
valore deontico degli articoli 55 e 121 della Costituzione, che si traduce in un vero e proprio divieto per i
Consigli regionali di appropriarsi del nome Parlamento. Ne consegue che la dizione lessicale integrativa
introdotta dalla Regione Liguria, intesa ad estendere anche al Consiglio regionale ligure il nomen
Parlamento, deve ritenersi illegittima, sicché il ricorso per conflitto deve essere accolto e la delibera
impugnata annullata anche in riferimento alla sua seconda parte, con la quale il Consiglio regionale,
esorbitando dalle proprie attribuzioni e ledendo quelle statali, invita la apposita commissione ad inserire
nello statuto regionale in corso di elaborazione una denominazione costituzionalmente non consentita per
l'organo consiliare.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara che non spetta al Consiglio regionale della Liguria adottare la delibera n. 62 del 15
dicembre 2000 recante "Istituzione del Parlamento della Liguria" e conseguentemente la annulla.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 aprile 2002.
Il Presidente: Ruperto
Il redattore: Mezzanotte
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 12 aprile 2002.
Il direttore della cancelleria: Di Paola
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 365/2007
Giudizio
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente BILE - Redattore DE SIERVO
Udienza Pubblica del 25/09/2007 Decisione del 24/10/2007
Deposito del 07/11/2007 Pubblicazione in G. U. 14/11/2007
Norme impugnate:
Artt. 1, 2, 3 della legge della Regione Sardegna 23/05/2006, n. 7.
Massime:
31760 31761 31762 31763 31764 31765 31766 31767
Atti decisi:
ric. 92/2006
T
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o
l
o
Regioni a statuto speciale - Norme della Regione Sardegna - Statuto regionale - Istituzione della
«Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo» - Uso del termine «sovranità»
nella rubrica della legge e in altre disposizioni della stessa - Ricorso del Governo - Evocazione da parte
della difesa erariale di parametri costituzionali e statutari non indicati nella deliberazione del Consiglio
dei ministri di impugnazione della legge regionale oltreché inconferenti - Inammissibilità delle questioni.
T
e
s
t
o
In relazione alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 2, commi 2, lettera a ), e
3), nonché della stessa rubrica della legge della Regione autonoma della Sardegna 23 maggio 2006, n. 7
(Istituzione, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del
popolo sardo), sono inammissibili le censure prospettate nel ricorso dell'Avvocatura generale dello Stato
in ordine alla lamentata violazione degli articoli 3, 16, 101, 117, comma primo e comma secondo, lettere
a ), d ), h ), e l ), 120, 132, 133 e 138 della Costituzione e degli articoli 3, 4, 50 e 54 dello statuto speciale
della Regione Sardegna, in quanto, mentre la delibera governativa di impugnazione della legge regionale
conteneva la puntuale indicazione del motivo dell'impugnativa e la individuazione di adeguati parametri
costituzionali e statutari ritenuti violati, la indicazione della grande pluralità di ulteriori parametri a cui si
riferisce la memoria dell'Avvocatura è nella sostanza in conferente. - Sul rapporto tra la discrezionalità
della difesa tecnica e i parametri indicati nella deliberazione governativa di impugnazione della legge
regionale,
v.
le,
citate,
sentenze
n.
533/2002
e
98/2007.
Atti oggetto del giudizio
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 1 co. 1
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 2 co. 2 co. lettera a)
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 2 co. 3
Parametri costituzionali
Costituzione art. 3
Costituzione art. 16
Costituzione art. 101
Costituzione art. 117 co. 1
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettere a), d), h) e l)
Costituzione art. 120
Costituzione art. 132
Costituzione art. 133
Costituzione art. 138
statuto regione Sardegna art. 3
statuto regione Sardegna art. 4
statuto regione Sardegna art. 50
statuto regione Sardegna art. 54
T
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Regioni a statuto speciale - Norme della Regione Sardegna - Statuto regionale - Istituzione della
«Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo» - Uso del termine «sovranità»
nella rubrica della legge e in altre disposizioni della stessa - Ricorso del Governo - Parametri
costituzionali e statutari indicati nella deliberazione del Consiglio dei ministri di impugnazione della
legge regionale, ma non richiamati nel ricorso - Non utilizzabilità ai fini del giudizio.
T
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In relazione alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 2, commi 2, lettera a ), e
3), nonché della stessa rubrica della legge della Regione autonoma della Sardegna 23 maggio 2006, n. 7
(Istituzione, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del
popolo sardo), non può tenersi conto dei parametri di cui all'art. 139 Cost. e agli artt. 2 e 35 dello statuto
speciale, in quanto, appena affermati nella relazione allegata alla delibera di impugnazione, non sono
n e p p u r e
r i c h i a m a t i .
Atti oggetto del giudizio
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 1 co. 1
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 2 co. 2 co. lettera a)
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 2 co. 3
Parametri costituzionali
Costituzione art. 139
statuto regione Sardegna art. 2
statuto regione Sardegna art. 35
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Regioni a statuto speciale - Norme della Regione Sardegna - Statuto regionale - Istituzione della
«Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo» - Uso del termine «sovranità»
nella rubrica della legge e in altre disposizioni della stessa - Ricorso del Governo - Idoneità delle
disposizioni censurate a ledere i parametri evocati - Eccezione di inammissibilità delle questioni basata
su
assunto
contrario
Reiezione.
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In relazione alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 2, commi 2, lettera a ), e
3), nonché della stessa rubrica della legge della Regione autonoma della Sardegna 23 maggio 2006, n. 7
(Istituzione, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del
popolo sardo), va disattesa l'eccezione di inammissibilità basata sulla ritenuta non lesività delle
disposizioni censurate. Queste ultime, infatti, concretamente delimitano l'area della proposta che può
essere elaborata dalla apposita Consulta per poi successivamente trasformarsi nel disegno di legge
regionale di revisione dello statuto speciale, sicché sarebbe riduttivo considerare che da una simile
proposta non scaturisca alcun imperativo cogente o dovere giuridico inderogabile a carico del Consiglio
regionale o degli organi di revisione costituzionale. - Sul carattere cogente delle disposizioni di leggi
regionali finalizzate a promuovere un referendum consultivo in riferimento ad un procedimento di
revisione costituzionale, v. la, citata, sentenza n. 496/2000. - Sulle norme programmatiche degli statuti
regionali,
v.
le,
citate,
sentenze
nn.
372,
378
e
379/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 1 co. 1
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 2 co. 2 co. lettera a)
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 2 co. 3
Parametri costituzionali
Costituzione art. 1 co. 2
Costituzione art. 5
Costituzione art. 114 co. 2
statuto regione Sardegna art. 1
T
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Regioni a statuto speciale - Norme della Regione Sardegna - Statuto regionale - Istituzione della
«Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo» - Impiego del termine
«sovranità» nella rubrica della legge e in altre disposizioni della stessa - Ricorso del Governo Delimitazione dell'oggetto delle questioni al solo utilizzo della espressione «sovranità».
T
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Le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 2, commi 2, lettera a ), e 3), nonché
della stessa rubrica della legge della Regione autonoma della Sardegna 23 maggio 2006, n. 7 (Istituzione,
attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo),
devono ritenersi limitate alle parti in cui viene utilizzata l'espressione «sovranità», e non estese
all'impiego della espressione «popolo sardo», che di per sé non forma oggetto di specifica impugnazione,
e
peraltro
è
presente
nello
statuto
speciale
della
Regione
Sardegna.
Atti oggetto del giudizio
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 1 co. 1
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 2 co. 2 co. lettera a)
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 2 co. 3
Parametri costituzionali
Costituzione art. 1 co. 2
Costituzione art. 5
Costituzione art. 114 co. 2
statuto regione Sardegna art. 1
T
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Regioni a statuto speciale - Norme della Regione Sardegna - Statuto regionale - Istituzione della
«Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo» - Impiego del termine
«sovranità» nella rubrica della legge regionale - Indebita utilizzazione di detto termine, proprio di
ordinamenti statuali di tipo federale, per individuare la natura di un ordinamento qualificato dalla
Costituzione come ordinamento autonomo - Impropria pressione sul Parlamento in sede di adozione
della
relativa
legge
costituzionale
Illegittimità
costituzionale
parziale.
T
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o
E' costituzionalmente illegittima la rubrica della legge della Regione Sardegna 23 maggio 2006, n. 7
(Istituzione, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del
popolo sardo), limitatamente alle parole «e sovranità». Contrasta, infatti, con gli artt. 1, secondo comma,
5 e 114 della Costituzione e con l'art. 1 dello statuto speciale della Regione Sardegna che la rubrica della
legge regionale n. 7 del 2006 assuma come possibile contenuto del nuovo statuto speciale istituti tipici di
ordinamenti statuali di tipo federale in radice incompatibili con il grado di autonomia regionale
attualmente assicurato nel nostro ordinamento costituzionale alle Regioni, in quanto un contenuto
legislativo del genere produrrebbe una impropria pressione sulla libertà valutativa dello stesso
Parlamento in sede di adozione della relativa legge costituzionale. - Sulla impossibilità di individuare
nella legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 la fonte di una omogeneità di posizione tra Stato, Regioni
ed
enti
territoriali,
v.
la,
citata,
sentenza
n.
274/2003.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 1 co. 2
Costituzione art. 5
Costituzione art. 114 co. 2
statuto regione Sardegna art. 1
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Regioni a statuto speciale - Norme della Regione Sardegna - Statuto regionale - Istituzione della
«Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo» - Impiego del termine
«sovranità» con riferimento al nuovo statuto regionale - Ricorso del Governo - Indebita utilizzazione di
detto termine, proprio di ordinamenti statuali di tipo federale, per individuare la natura di un ordinamento
qualificato dalla Costituzione come ordinamento autonomo - Impropria pressione sul Parlamento in sede
di adozione della relativa legge costituzionale - Illegittimità costituzionale parziale.
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E' costituzionalmente illegittimo l'art. 1, comma 1, della legge della Regione Sardegna 23 maggio 2006,
n. 7 (Istituzione, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del
popolo sardo), limitatamente alle parole «e sovranità». La disposizione censurata, la quale si riferisce alla
elaborazione di un «nuovo statuto di autonomia e di sovranità del popolo sardo», contrasta, infatti, con
gli artt. 1, secondo comma, 5 e 114 della Costituzione e con l'art. 1 dello statuto speciale della Regione
Sardegna in quanto assume come possibile contenuto del nuovo statuto speciale istituti tipici di
ordinamenti statuali di tipo federale in radice incompatibili con il grado di autonomia regionale
attualmente assicurato nel nostro ordinamento costituzionale alle Regioni, così producendo una
impropria pressione sulla libertà valutativa dello stesso Parlamento in sede di adozione della relativa
legge costituzionale. - Sulla impossibilità di individuare nella legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3
la fonte di una omogeneità di posizione tra Stato, Regioni ed enti territoriali, v. la, citata, sentenza n.
2 7 4 / 2 0 0 3 .
Atti oggetto del giudizio
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 1 co. 1
Parametri costituzionali
Costituzione art. 1 co. 2
Costituzione art. 5
Costituzione art. 114 co. 2
statuto regione Sardegna art. 1
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Regioni a statuto speciale - Norme della Regione Sardegna - Statuto regionale - Istituzione della
«Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo» - Prevista enunciazione nel
progetto di statuto delle «ragioni fondanti dell'autonomia e sovranità» regionale - Ricorso del Governo Indebita utilizzazione del termine «sovranità», proprio di ordinamenti statuali di tipo federale, per
individuare la natura di un ordinamento qualificato dalla Costituzione come ordinamento autonomo Impropria pressione sul Parlamento in sede di adozione della relativa legge costituzionale - Illegittimità
costituzionale
parziale.
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E' costituzionalmente illegittimo l'art. 2, comma 2, della legge della Regione Sardegna 23 maggio 2006,
n. 7 (Istituzione, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del
popolo sardo), limitatamente alle parole «e sovranità». La disposizione censurata, la quale prevede che
l'articolato dello statuto debba considerare anche le «ragioni fondanti della autonomia e sovranità»,
contrasta, infatti, con gli artt. 1, secondo comma, 5 e 114 della Costituzione e con l'art. 1 dello statuto
speciale della Regione Sardegna in quanto assume come possibile contenuto del nuovo statuto speciale
istituti tipici di ordinamenti statuali di tipo federale in radice incompatibili con il grado di autonomia
regionale attualmente assicurato nel nostro ordinamento costituzionale alle Regioni, così producendo una
impropria pressione sulla libertà valutativa dello stesso Parlamento in sede di adozione della relativa
legge costituzionale. - Sulla impossibilità di individuare nella legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3
la fonte di una omogeneità di posizione tra Stato, Regioni ed enti territoriali, v. la, citata, sentenza n.
2 7 4 / 2 0 0 3 .
Atti oggetto del giudizio
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 2 co. 2 co. lettera a)
Parametri costituzionali
Costituzione art. 1 co. 2
Costituzione art. 5
Costituzione art. 114 co. 2
statuto regione Sardegna art. 1
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Regioni a statuto speciale - Norme della Regione Sardegna - Statuto regionale - Istituzione della
«Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo» - Prevista possibilità di
indicazione nel progetto di statuto di argomenti ritenuti rilevanti per «definire autonomia e elementi di
sovranità regionale» - Ricorso del Governo - Indebita utilizzazione del termine «sovranità», proprio di
ordinamenti statuali di tipo federale, per individuare la natura di un ordinamento qualificato dalla
Costituzione come ordinamento autonomo - Impropria pressione sul Parlamento in sede di adozione
della
relativa
legge
costituzionale
Illegittimità
costituzionale
parziale.
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E' costituzionalmente illegittimo l'art. 2, comma 3, della legge della Regione Sardegna 23 maggio 2006,
n. 7 (Istituzione, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del
popolo sardo), limitatamente alle parole «e sovranità». La disposizione censurata, la quale prevede che
nel progetto di statuto possa essere indicato «ogni altro argomento ritenuto rilevante al fine di definire
autonomia ed elementi di sovranità regionale [...]», contrasta, infatti, con gli artt. 1, secondo comma, 5 e
114 della Costituzione e con l'art. 1 dello statuto speciale della Regione Sardegna in quanto assume come
possibile contenuto del nuovo statuto speciale istituti tipici di ordinamenti statuali di tipo federale in
radice incompatibili con il grado di autonomia regionale attualmente assicurato nel nostro ordinamento
costituzionale alle Regioni, così producendo una impropria pressione sulla libertà valutativa dello stesso
Parlamento in sede di adozione della relativa legge costituzionale. - Sulla impossibilità di individuare
nella legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 la fonte di una omogeneità di posizione tra Stato, Regioni
ed
enti
territoriali,
v.
la,
citata,
sentenza
n.
274/2003.
Atti oggetto del giudizio
legge della Regione autonoma Sardegna 23/05/2006 n. 7 art. 2 co. 3
Parametri costituzionali
Costituzione art. 1 co. 2
Costituzione art. 5
Costituzione art. 114 co. 2
statuto regione Sardegna art. 1
Pronuncia
SENTENZA N. 365 ANNO 2007
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Franco BILE; Giudici: Giovanni Maria FLICK, Francesco
AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA,
Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria
NAPOLITANO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1, comma 1, e 2, commi 2, lettera a), e 3,
nonché della rubrica della legge della Regione autonoma della Sardegna 23 maggio 2006, n. 7
(Istituzione, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del
popolo sardo), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato e depositato in
cancelleria il 7 agosto 2006 ed iscritto al n. 92 del registro ricorsi 2006.
Visto l'atto di costituzione della Regione autonoma della Sardegna;
udito nell'udienza pubblica del 25 settembre 2007 il Giudice relatore Ugo De Siervo;
uditi l'avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli
avvocati Paolo Carrozza e Graziano Campus per la Regione autonoma della Sardegna.
Ritenuto in fatto
1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 31 luglio 2006, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 (recte: artt. 1, comma 1, e 2, commi 2, lettera a),
e 3), nonché della stessa rubrica della legge della Regione autonoma della Sardegna 23 maggio 2006, n.
7 (Istituzione, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del
popolo sardo) pubblicata nel B.U.R. n. 18 del 1° giugno 2006, in relazione agli artt. 1, 3, 4, 50 e 54 dello
statuto speciale ed agli artt. 1, 3, 5, 16, 101, 114, 116, 117, comma primo e comma secondo, lettere a), d
), h) e l), 120, 132, 133 e 138 della Costituzione.
1.1. – La legge regionale parzialmente impugnata prevede e disciplina questo nuovo organo il quale,
attraverso una specifica procedura che contempla anche alcune forme di partecipazione, è chiamato ad
elaborare un progetto organico di nuovo statuto regionale speciale da trasmettere al Consiglio regionale,
in modo che questi possa poi deliberare un apposito disegno di legge costituzionale da sottoporre infine
al Parlamento nazionale.
Le censurate disposizioni, riferendosi ad un «nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo
sardo» (rubrica della legge e art. 1, comma 1), stabiliscono che l'articolato del progetto debba rispettare i
«principi e caratteri della identità regionale; ragioni fondanti dell'autonomia e sovranità; conseguenti
obblighi di Stato e Regione in relazione a tali caratteri, individuando idonee forme per promuovere i
diritti dei cittadini sardi in relazione a condizioni connesse alla specificità dell'isola» (art. 2, comma 2,
lettera a), e che lo stesso testo possa indicare «ogni altro argomento ritenuto rilevante al fine di definire
autonomia e elementi di sovranità regionale» (art. 2, comma 3).
Per la parte ricorrente l'utilizzazione, seppur in modo non univoco, del termine “sovranità”, parrebbe,
in primo luogo, alterare la logica dello statuto speciale di autonomia. Le impugnate disposizioni
sembrerebbero, inoltre, contrastare con l'art. 54 dello statuto e con l'art. 138 Cost. e non risulterebbero
compatibili con i fondamentali principi costituzionali, in quanto, considerando e valorizzando elementi
etnici, culturali, ambientali, sarebbero dirette a «definire situazioni soggettive privilegiate per una
categoria di soggetti dell'ordinamento nazionale» e a «rivendicare poteri dell'ente Regione a livello di
indipendenza e comunque di svincolo da condizionamenti ordinamentali nell'ambito dell'assetto della
Repubblica risultante dall'attuale Carta costituzionale».
1.2. – A sostegno della censura il ricorrente osserva che ai sensi dell'art. 116 Cost. e del vigente art.
54 dello statuto speciale, la definizione dello statuto speciale è sul piano giuridico interamente attribuita
al Parlamento nazionale, come confermato dallo stesso esito negativo del referendum costituzionale
relativo alla revisione, tra l'altro, del citato art. 116, il cui disegno di modifica prevedeva appunto
l'adozione dello statuto speciale «previa intesa» con la Regione interessata. Sui progetti di iniziativa
governativa e parlamentare di modificazione dello statuto speciale il Consiglio regionale è chiamato ad
esprimere solo un «parere»; in caso di parere contrario in ordine ad un progetto approvato in prima
deliberazione da una delle Camere, il Presidente della regione può indire un referendum meramente
«consultivo».
Più in generale si afferma che la Costituzione (a cominciare dall'art. 114) fa riferimento alle regioni
«sempre e solo in termini di autonomia, mai in termini di sovranità», essendo quest'ultima riferita
esclusivamente al “popolo” inteso come intera comunità nazionale. Al tempo stesso, questa Corte
avrebbe confermato tale lettura del dettato costituzionale affermando la «netta distinzione tra livello di
sovranità statale e livello di autonomia regionale» (si citano le sentenze n. 245 del 1995, n. 66 del 1964 e
n. 49 del 1963). Le più recenti sentenze n. 29 del 2003 e n. 106 del 2002, se escludono che nel
Parlamento possa individuarsi l'unica sede di esercizio della sovranità, avrebbero anche inteso affermare
«che proprio dalla sovranità popolare esercitata attraverso la riforma costituzionale di cui alla legge
costituzionale n. 3 del 2001, secondo le regole quindi di uno Stato di diritto, discendono l'estensione ed il
potenziamento delle autonomie territoriali, che costituiscono affermazione del principio democratico». A
sua volta, la sentenza n. 274 del 2003 rimarca la profonda diversità del livello dei poteri di cui
dispongono gli enti indicati nell'art. 114 Cost. e, in particolare, l'insussistenza di una equiordinazione tra
Stato e Regioni.
1.3. – Il ricorrente afferma che ad esiti analoghi si giungerebbe tramite altre previsioni costituzionali.
Il potere di revisione costituzionale, anche in relazione all'adozione degli statuti speciali, spetta
esclusivamente allo Stato (art. 138 Cost.). Poiché ogni esplicazione di sovranità non può che avvenire
nelle forme previste della Costituzione (art. 1), è solo il Parlamento nazionale che ne può prevedere delle
nuove o modificare quelle esistenti.
L'art. 5 Cost., al quale si correlano gli artt. 116 e 114 Cost., proclama il principio dell'unicità ed
indivisibilità della Repubblica e tale principio è ribadito nell'art. 1 dello statuto sardo. Nell'assetto
costituzionale, inoltre, l'evocazione di un'istanza unitaria è manifestata dal necessario rispetto, da parte di
ogni potestà legislativa, della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali (artt. 3 e 4 dello statuto ed ora art. 117, comma primo, Cost.). Inoltre lo
Stato ha mantenuto il monopolio esclusivo della titolarità ed esercizio dell'essenziale funzione
giurisdizionale, che nessuno può escludere ed alla quale nessuno può sottrarsi (al riguardo sono
richiamati l'art. 2 delle norme di attuazione dello statuto di cui al d.P.R. n. 348 del 1979, nonché l'art.
117, comma 2, lettere d), h) e l) Cost.).
Emblematica della sovranità esclusiva dello Stato è, poi, la previsione dell'art. 120 Cost., che, in
riferimento all'esigenza di tutelare l'unità giuridica ed economica e/o di fronteggiare emergenze o
inadempienze, attribuisce al Governo poteri sostitutivi rispetto ad organi regionali.
A sua volta, l'art. 101 Cost., in base al quale la giustizia è amministrata in nome del popolo cui
appartiene in via esclusiva la sovranità, costituisce conferma che questa vada riferita all'intera, «ed a tali
fini non scindibile», comunità nazionale.
Sul versante dei diritti, il ricorrente sottolinea come i soggetti dell'ordinamento statale siano tutti i
cittadini, il cui insieme costituisce il “popolo” di cui all'art. 1 Cost., mentre i soggetti dell'ordinamento
regionale sono i residenti, il cui insieme costituisce la “popolazione” di cui agli art. 132 e 133 Cost. Il
principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. esclude «che possano attribuirsi tutele e posizioni
differenziate in ragione delle diverse etnie, suscettibili anche di determinare (indirettamente)
discriminazioni in base alla nazionalità», vietate peraltro dall'art. 12 del Trattato CE, «ancorché
dissimulate in quanto formalmente riferite a criteri diversi».
Lo stesso territorio regionale non può configurarsi come luogo della sovranità regionale, entro il
quale sia esercitabile uno ius excludendi alios, giusta la disposizione dell'art. 16 Cost.
Ai sensi, infine, dell'art. 50 dello statuto, il Consiglio regionale può essere sciolto quando compia atti
contrari alla Costituzione o allo statuto o, malgrado la segnalazione del Governo, non proceda alla
sostituzione della Giunta regionale o del Presidente che abbiano compiuto analoghi atti o violazioni o
comunque per ragioni di sicurezza nazionale.
2. – Con atto depositato il 6 settembre 2006 si è costituita in giudizio la Regione Sardegna che, in via
preliminare, ha eccepito l'inammissibilità delle censure svolte nella memoria dell'Avvocatura generale
dello Stato in relazione ai parametri costituzionali (artt. 3, 16, 101, primo comma, 116, 117, commi
primo e secondo, lettere a), d), h), e l), 120, 132, 133 e 138) e statutari (artt. 3, 4, 50 e 54), non indicati
nella corrispondente delibera del Consiglio dei ministri. Inoltre quest'ultima reca parametri (gli artt. 139
Cost. e 2 e 35 dello statuto) che non sono indicati nel ricorso.
2.1. – Nel merito, partendo dalla distinzione tra “sovranità dello Stato” e “sovranità popolare”, la
resistente ritiene che ci si debba riferire solo alla seconda, cui espressamente si riferisce l'art. 1, comma
secondo, della Costituzione.
Questa sovranità, «strettamente legata al principio democratico», non ha carattere assoluto, in quanto
destinata ad esprimersi entro i limiti posti dalla Costituzione. In particolare, la sovranità popolare si
inserisce in un sistema rappresentativo che si manifesta attraverso le tipiche forme di democrazia diretta,
e anche nell'esercizio dei diritti di partecipazione basati sul principio pluralistico. Lo sviluppo di
quest'ultimo, a sua volta, moltiplicando i «luoghi della politica», ha eroso la supremazia dello Stato, che,
non essendo più l'unica istituzione politica, deve competere e, nel contempo, collaborare con altre
istituzioni altrettanto provviste di legittimazione democratica.
Per la difesa regionale, la Costituzione, a cominciare dall'art. 1, non esclude la sovranità «anche […]
del “popolo sardo”». Le censurate disposizioni, contemplando la “sovranità regionale”, in realtà si
riferirebbero «a quel grado di sovranità di cui partecipa la Regione insieme allo Stato ed agli altri enti
territoriali (…), quale derivato della sovranità del popolo sardo». Del resto, è lo stesso Statuto, all'art. 28,
a contemplare il “popolo sardo”, e non una mera popolazione (termine, questo, utilizzato dal successivo
art. 45 in relazione agli enti locali). E a tale “popolo sardo” sono riconosciute diverse modalità di
estrinsecazione della sovranità democratica.
Se, dunque, al termine “sovranità” si assegna il senso di “espressione del circuito democratico”, non
sussiste, per la difesa regionale, alcuna violazione del dettato costituzionale, in quanto le disposizioni in
oggetto si limitano ad assicurare alla frazione di popolo costituita dal “popolo sardo” di esprimere
democraticamente la propria posizione sul progetto in parola.
Quanto alla giurisprudenza costituzionale, la Regione ricorda che, anteriormente alla revisione
costituzionale del 2001, la sovranità regionale era stata esclusa per negare l'equiparabilità tra Parlamento
nazionale e assemblee legislative regionali (sentenze n. 245 del 1995; n. 6 del 1970; n. 66 del 1964).
Dopo la riforma, la Corte, nella sentenza n. 106 del 2002, ha statuito che le forme e i modi di
manifestazione della sovranità popolare «si rifrangono in una molteplicità di situazioni e di istituti ed
assumono una configurazione talmente ampia da ricomprendere certamente il riconoscimento e la
garanzia delle autonomie territoriali». Gli elementi di discontinuità, così introdotti, trovano, per la Corte,
conferma «nella formulazione del nuovo art. 114 della Costituzione, nel quale gli enti territoriali
autonomi sono collocati al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne,
in una formulazione sintetica, la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranità
popolare». Nella successiva sentenza n. 29 del 2003, la stessa Corte ha, poi, statuito che le assemblee
elettive nazionali e regionali sono «espressione entrambe della sovranità nazionale». Una conclusione,
questa, che a detta della resistente non parrebbe contraddetta dalla sentenza n. 274 del 2003, dal
momento che la negata «totale equiparazione fra gli enti» di cui all'art. 114 Cost. riguarderebbe, in realtà,
specifiche attribuzioni, senza implicazioni perciò di carattere generale.
La difesa regionale conclude sostenendo che la sovranità del “popolo sardo”, così come la sovranità
regionale, «sono espressioni che non collidono affatto con l'ordinamento costituzionale e di sicuro non
evocano una pretesa di potere indipendente».
2.2. – Così interpretate, le disposizioni impugnate «non intendono né sovvertire o negare i limiti
entro i quali si deve necessariamente muovere l'autonomia statutaria, e tanto meno intendono sovvertire
il procedimento di approvazione dello statuto speciale di autonomia»; né ciò sarebbe possibile, e «quindi
non v'è alcuna questione di costituzionalità». Anzi, si accenna anche alla possibile interpretazione delle
disposizioni censurate come ad affermazioni meramente politiche.
2.3. – In ogni caso, non pretendendosi assolutamente di modificare le procedure di revisione dello
statuto regionale di competenza del Parlamento, «le disposizioni censurate appaiono sostanzialmente
“innocue” e comunque tranquillamente interpretabili come conformi ai principi del diritto
costituzionale».
3. – L'Avvocatura generale dello Stato in prossimità dell'udienza pubblica ha presentato una
memoria aggiuntiva nella quale ribadisce la proprie posizioni, controbattendo alle opinioni della
resistente.
In particolare, la difesa erariale contesta l'identificazione da parte della ricorrente della sovranità di
cui alle disposizioni impugnate con la nozione di sovranità popolare e reputa erroneo asserire che «ogni
spazio politico in cui si concretizza la democrazia è necessariamente uno spazio di sovranità». Inoltre
l'Avvocatura dello Stato aggiunge che «se le parole hanno un loro senso, non sembra possibile attribuire
al termine sovranità usato nelle disposizioni censurate la valenza semantica che pretenderebbe ora la
Regione; al contrario, l'uso reiterato dell'endiadi «autonomia e sovranità» dimostrerebbe «la volontà di
definire un progetto statutario che superi il livello dell'autonomia nell'ambito dell'ordinamento
repubblicano».
Da ultimo, richiamando la sentenza n. 533 del 2002, l'Avvocatura afferma l'infondatezza
dell'eccezione concernente l'evocazione di parametri costituzionali non richiamati nella delibera
governativa.
4. – Anche la Regione Sardegna in prossimità dell'udienza ha depositato una memoria, con la quale
ha ribadito e sviluppato ulteriormente le eccezioni di inammissibilità ed ha confermato i motivi di
infondatezza già prospettati nell'atto di costituzione.
4.1. – Vengono avanzati cinque diversi motivi di inammissibilità: innanzitutto si eccepisce
l'inammissibilità delle questioni relative alla asserita violazione degli artt. 3, 16, 101, 116, 117, commi
primo e secondo, lettere a), d), h) e l), 132, 133 e 138 Cost., nonché degli artt. 3, 4, 50 e 54 dello statuto,
non risultando tali parametri indicati nella relativa delibera di autorizzazione del Consiglio dei ministri;
in secondo luogo, si contesta l'invocazione come parametri nel giudizio dell'art. 117, commi primo e
secondo, lettere a), d), h) e l) Cost., dal momento che si tratta di disposizioni costituzionali riferite alle
Regioni ad autonomia ordinaria; inoltre «si eccepisce l'inammissibilità del ricorso in ragione della sua
estrema genericità», dal momento che, malgrado la pluralità dei parametri invocati, le interpretazioni
delle disposizioni citate potrebbero essere diverse da quella sostenuta nella memoria, che sarebbe
ancorata ad una arcaica concezione di “sovranità”; ancora, si contesta la utilizzabilità come parametro
degli artt. 116 e 138 Cost., nonché dell'art. 54 dello statuto, dal momento che le disposizioni censurate
della legge regionale non ipotizzano la negazione del potere statale «di revisione costituzionale e di
approvazione di leggi costituzionali»; infine «si eccepisce l'inammissibilità del ricorso per non
immediata lesività delle disposizioni censurate», dal momento che, a prescindere dalla considerazione
che il progetto della Consulta potrebbe non contenere alcuna proposta contrastante con la Costituzione,
comunque le determinazioni decisive in materia sarebbero riservate al Parlamento nazionale in sede di
esame della proposta regionale. In conclusione, si afferma che «le disposizioni summenzionate, per il
loro carattere puramente enfatico, evocativo, sembrano inoltre assimilabili ai principi generali o alle
finalità principali presenti anche in alcuni Statuti di Regioni ordinarie, sulla cui efficacia questa Corte ha
avuto modo di intervenire».
4.2. – Nel merito, la Regione Sardegna ribadisce in particolare la mancata considerazione da parte
del ricorrente dell'intervenuta erosione dell'accezione classica di sovranità tanto sul versante
internazionale, quanto sul piano interno. In particolare, soprattutto a seguito della riforma costituzionale
del 2001, gli enti territoriali, dotati al pari dello Stato di legittimazione democratica, esercitano forme
sempre più intense di autonomia e, specie a seguito della modifica dell'art. 114 Cost., sono «partecipi
della sovranità popolare». Ne consegue che le disposizioni impugnate, lungi dal sortire i paventati effetti
sovversivi, risultano suscettibili di interpretazione in senso conforme alla Costituzione, «nel senso che
può parlarsi di “sovranità” del popolo sardo, e di conseguenza della Regione che di esso è espressione, in
quanto la stessa Costituzione distribuisce e conforma le modalità di esercizio della sovranità popolare
anche tra gli enti territoriali».
Le disposizioni in questione, là dove si riferiscono al “popolo sardo”, per la difesa regionale non
alludono ad una «divisibilità del popolo italiano», ma sottintendono «quella “frazione” di
sovranità-autonomia che la Costituzione riconosce al popolo di ogni Regione e perciò ai suoi organi, in
cui si manifesta la sovranità di tale (frazione) di popolo». D'altro canto, il ricorso pare ignorare il
riconoscimento dei valori etnici e culturali del popolo sardo, posto in essere dal legislatore statale,
nonché le disposizioni adottate in altre Regioni e volte a salvaguardare ed a promuovere l'identità storica
e culturale delle rispettive comunità.
Considerato in diritto
1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli
artt. 1, 2 e 3 (recte: artt. 1, comma 1, e 2, comma 2, lettera a), e comma 3), nonché della stessa rubrica
della legge della Regione autonoma della Sardegna 23 maggio 2006, n. 7 (Istituzione, attribuzioni e
disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo), in relazione agli
artt. 1, 3, 4, 50 e 54 dello statuto speciale ed agli artt. 1, 3, 5, 16, 101, 114, 116, 117, comma primo e
comma secondo, lettere a), d), h) e l), 120 132, 133 e 138 della Costituzione.
Queste disposizioni sono inserite nella disciplina di un apposito organo istituito per l'elaborazione di
un progetto organico di nuovo statuto per la Regione Sardegna, da trasmettere al Consiglio regionale in
modo che questi possa poi deliberare un disegno di legge costituzionale da sottoporre al Parlamento
nazionale per la sua adozione. Le disposizioni censurate si riferiscono ad un «nuovo statuto di autonomia
e sovranità del popolo sardo» (rubrica della legge e art. 1, comma 1), ed impongono al predetto progetto
di enunciare i «principi e caratteri della identità regionale; ragioni fondanti dell'autonomia e sovranità;
conseguenti obblighi di Stato e Regione in relazione a tali caratteri, individuando idonee forme per
promuovere i diritti dei cittadini sardi in relazione a condizioni connesse con la specificità dell'isola»
(art. 2, comma 2, lettera a). Lo stesso progetto è, infine, legittimato ad indicare «ogni altro argomento
ritenuto rilevante al fine di definire autonomia e elementi di sovranità regionale» (art. 2, comma 3).
Per il ricorrente l'utilizzazione del termine “sovranità” disattenderebbe, in primo luogo, la logica
dello statuto speciale di autonomia e, ancor prima, la stessa Costituzione, che (a cominciare dall'art. 114
Cost.) fa riferimento alle Regioni «sempre e solo in termini di autonomia, mai in termini di sovranità»,
essendo quest'ultima riferita esclusivamente al “popolo” inteso come intera comunità nazionale. Inoltre,
le disposizioni impugnate contrasterebbero con l'art. 54 dello statuto e con l'art. 138 Cost. e non
risulterebbero compatibili con i fondamentali principi costituzionali, in quanto considerando e
valorizzando elementi etnici, culturali, ambientali, sembrerebbero dirette a «definire situazioni soggettive
privilegiate per una categoria di soggetti dell'ordinamento nazionale» e a «rivendicare poteri dell'ente
Regione a livello di indipendenza e comunque di svincolo da condizionamenti ordinamentali nell'ambito
dell'assetto della Repubblica risultante dall'attuale Carta costituzionale».
Su questa base si sostiene la lesione dell'art. 116 Cost. e del vigente art. 54 dello statuto speciale;
dell'art. 5 Cost., al quale si correlano gli artt. 116 e 114 Cost. e l'art. 1 dello statuto sardo, nonché le
disposizioni che assicurano il necessario rispetto da parte di ogni potestà legislativa della Costituzione
nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (artt. 3 e 4 dello
statuto ed ora art. 117, comma primo, Cost.). Vengono inoltre invocate le molte disposizioni
costituzionali che rifletterebbero la sovranità esclusiva dello Stato (gli artt. 101, 117, comma 2, lettere a),
d), h), e l), 120 Cost.). La difesa erariale rileva altresì come, ai sensi dell'art. 50 dello statuto, il Consiglio
regionale possa essere sciolto quando compia atti contrari alla Costituzione o allo statuto.
Sul versante dei diritti, il ricorrente sottolinea come i soggetti dell'ordinamento statale siano tutti i
cittadini, il cui insieme costituisce il “popolo” di cui all'art. 1 Cost., mentre i soggetti dell'ordinamento
regionale sono i residenti, il cui insieme costituisce la “popolazione” di cui agli art. 132 e 133 Cost. Il
principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. esclude «che possano attribuirsi tutele e posizioni
differenziate in ragione delle diverse etnie. Lo stesso territorio regionale non può configurarsi come
luogo della sovranità regionale, entro il quale sia esercitabile uno ius excludendi alios, giusta la
disposizione dell'art. 16 Cost.
2. – In via preliminare vanno dichiarate inammissibili le censure prospettate nel ricorso
dell'Avvocatura generale dello Stato in ordine alla lamentata violazione degli articoli 3, 16, 101, 117,
comma primo e comma secondo, lettere a), d), h), e l), 120, 132, 133 e 138 della Costituzione e degli
articoli 3, 4, 50 e 54 dello statuto speciale della Regione Sardegna.
Questa Corte ha già avuto occasione di affermare che la delibera governativa di impugnazione della
legge e l'allegata relazione ministeriale a cui si faccia rinvio devono contenere l'indicazione delle
disposizioni impugnate e la ragione dell'impugnazione medesima, seppur anche solo in termini generali,
mentre eventualmente spetta alla memoria di costituzione dell'Avvocatura generale dello Stato la più
puntuale indicazione dei parametri del giudizio. La discrezionalità della difesa tecnica ben può quindi
integrare una solo parziale individuazione dei motivi di censura (si vedano le sentenze n. 98 del 2007 e n.
533 del 2002). Nel presente caso, peraltro, la delibera governativa contiene la puntuale indicazione del
motivo dell'impugnativa («parlare di sovranità del popolo sardo o di sovranità regionale») e vengono
anche indicati adeguati parametri costituzionali e statutari che si intendono violati, mentre la indicazione
della grande pluralità di ulteriori parametri a cui si riferisce la memoria dell'Avvocatura è nella sostanza
inconferente: ciò perché appare finalizzata ad indicare quali contraddizioni si produrrebbero nel tessuto
costituzionale e statutario nell'ipotesi che la legge regionale censurata riuscisse davvero a modificare la
procedura di deliberazione dello statuto speciale della Sardegna o ad attribuire all'ente rappresentativo
del “popolo sardo” veri e propri poteri sovrani (e ciò anche volendosi prescindere dalla indicazione fra i
parametri del giudizio dell'art. 117 Cost. in riferimento ad una Regione ad autonomia speciale al di fuori
della area di utilizzazione dell'art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001).
Lo stesso riferimento agli artt. 132 e 133 Cost. non rappresenta altro che la indicazione di un
possibile argomento contrario alla utilizzabilità del termine “popolo” piuttosto che “popolazione” per la
individuazione di una frazione dei cittadini italiani.
Analogamente è da dirsi anche per il riferimento all'art. 120 Cost., utilizzato come ulteriore
parametro di giudizio, ma che non è neppure citato nel periodo finale della memoria nel quale si
enumerano i parametri del giudizio.
3. – Quanto ai parametri di cui all'art. 139 Cost. e agli artt. 2 e 35 dello statuto speciale, dei quali la
Regione eccepisce l'inammissibilità, questi non possono essere presi in considerazione in quanto, appena
affermati nella relazione allegata alla delibera di impugnazione, non sono neppure richiamati.
4. – I residui parametri di giudizio addotti dal ricorrente (artt. 1, comma secondo, 5 e 114, comma
secondo, Cost.; art. 1 dello statuto speciale) appaiono peraltro sufficienti per entrare nel merito del
giudizio di costituzionalità, che – diversamente da quanto afferma la Regione resistente – non è
inammissibile a causa della «non immediata lesività delle disposizioni censurate» o per il fatto che le
disposizioni impugnate avrebbero solo «carattere puramente enfatico, evocativo» e perciò potrebbero
avere valenza meramente politica e non giuridica.
In occasione del giudizio su una legge regionale che intendeva far svolgere un referendum consultivo
a livello regionale in riferimento ad un procedimento di revisione costituzionale del Titolo V della parte
seconda della Costituzione, questa Corte ha riconosciuto che non esiste alcun dubbio sulla piena
legittimità di iniziative legislative delle Regioni anche in tema di leggi di revisione costituzionale (nel
caso di specie la previsione della possibilità di una iniziativa del Consiglio regionale è d'altronde
espressa nel primo comma dell'art. 54 dello statuto regionale vigente) e non vi è dubbio che sia
opportuno un ampio e libero dibattito nell'opinione pubblica relativamente alla eventuale modificazione
delle «norme più importanti per la vita della comunità nazionale». Al tempo stesso, peraltro, esiste nel
nostro ordinamento costituzionale una «intensa» «istanza protettiva delle fonti superiori» finalizzata a
garantire la piena ed effettiva libertà della rappresentanza politico-parlamentare nell'esercizio dei
supremi poteri normativi, che non può quindi essere condizionata da atti e procedure formali non previsti
dall'ordinamento costituzionale, seppur giuridicamente non vincolanti (sentenza n. 496 del 2000).
Nella citata sentenza questa Corte statuì che sarebbe stato riduttivo considerare che da un referendum
consultivo «non scaturirebbe alcun imperativo cogente o dovere giuridico inderogabile a carico del
Consiglio regionale o degli organi di revisione costituzionale». Analoghe considerazioni possono essere
svolte con riguardo alle disposizioni impugnate nel presente giudizio, censurate in quanto espressione di
una concezione dei rapporti fra Stato e Regione che si afferma essere del tutto estranea al regionalismo
previsto nel nostro sistema costituzionale.
Né le impugnate disposizioni legislative, che delimitano l'area normativa ed i possibili contenuti
della proposta statutaria da presentarsi al Consiglio regionale, possono essere paragonate alle cosiddette
norme programmatiche degli statuti ordinari estranee alle materie che devono o possono essere
disciplinate da queste ultime fonti, disposizioni da questa Corte considerate «di natura culturale o anche
politica, ma certo non normativa» (sentenze n. 379, n. 378 e n. 372 del 2004). Mentre a queste ultime
disposizioni degli statuti regionali ordinari, infatti, non è stata «riconosciuta alcuna efficacia giuridica» e
quindi illegittima sarebbe una legge regionale che pretendesse di dar loro attuazione, le disposizioni
legislative impugnate nel presente giudizio concretamente delimitano l'area della proposta che può essere
elaborata dalla apposita Consulta per poi successivamente trasformarsi nel disegno di legge regionale di
revisione dello statuto speciale.
5. – Entrando nel merito della questione, occorre in via preliminare delimitare con precisione
l'oggetto dell'impugnativa, dal momento che le disposizioni impugnate abbracciano una pluralità di
contenuti rispetto a molti dei quali non sono avanzate doglianze. Ciò che, invece, viene censurato è
«parlare di sovranità del popolo sardo o di sovranità regionale» nella possibile delimitazione della
materia entro cui formulare da parte della Consulta la proposta di nuovo statuto regionale.
Lo stesso riferimento alla locuzione “popolo sardo” non è di per sé oggetto di una autonoma censura,
che comunque avrebbe dovuto quanto meno superare la obiezione che questa terminologia viene
utilizzata dall'art. 28 dello statuto regionale vigente, relativo all'iniziativa legislativa popolare a livello
regionale (ciò mentre la presenza nella nuova versione dell'art. 12 dello statuto siciliano,
successivamente alla modifica introdotta dall'art. 1 della legge cost. 31 gennaio 2001, n. 2 recante
«Disposizioni concernenti l'elezione diretta dei presidenti delle regioni a statuto speciale e delle province
autonome di Trento e di Bolzano», sia del termine “popolo” che del termine “popolazione” conferma la
normale utilizzazione di questa seconda espressione per indicare i soggetti appartenenti ad uno specifico
ente territoriale od ivi residenti).
6. – Appare evidentemente necessario chiarire il significato del termine “sovranità” utilizzato nelle
disposizioni impugnate, stante la sua natura polisemantica: esso, infatti, assume significati
profondamente diversi a seconda che esprima sinteticamente le caratteristiche proprie di un ordinamento
statale indipendente rispetto agli altri soggetti dell'ordinamento internazionale, o che distingua la
originaria natura di alcuni ordinamenti coinvolti nei processi di federalizzazione o nella formazione dei
cosiddetti “Stati composti”, o che indichi la posizione di vertice di un organo costituzionale all'interno di
un ordinamento statale.
La legge regionale n. 7 del 2006 nell'art. 1 e nella rubrica si riferisce alla elaborazione di un «nuovo
statuto di autonomia e di sovranità del popolo sardo». Trattasi cioè di nuovo speciale statuto che, in
quanto fonte di rango costituzionale abilitata dal nostro ordinamento a definire lo speciale assetto
istituzionale della Regione ed i suoi rapporti con lo Stato, diverrebbe una fonte attributiva di istituti tali
da connotare, per natura, estensione e quantità, l'assetto regionale in termini accentuatamente federalistici
piuttosto che di autonomia regionale.
Al tempo stesso, il comma 2 dell'art. 2 della legge n. 7 del 2006 prevede che l'articolato dello statuto
debba considerare anche le «ragioni fondanti della autonomia e sovranità» ed il comma 3 dell'art. 2
prevede che nel progetto possa essere indicato “ogni altro argomento ritenuto rilevante al fine di definire
autonomia ed elementi di sovranità regionale [...]”. Anche in queste disposizioni, attraverso la
utilizzazione del termine “sovranità”, ci si riferisce alla pretesa attribuzione alla Regione di un
ordinamento profondamente differenziato da quello attuale e, invece, caratterizzato da istituti adeguati ad
accentuati modelli di tipo federalistico, normalmente frutto di processi storici nei quali le entità
territoriali componenti lo Stato federale mantengono forme ed istituti che risentono della loro
preesistente condizione di sovranità.
Non condivisibile appare quindi il reiterato tentativo della difesa regionale di ricondurre
l'utilizzazione del termine sovranità al concetto di sovranità popolare di cui al secondo comma dell'art. 1
Cost., nonché di identificare la sovranità popolare con gli istituti di democrazia diretta e con il sistema
rappresentativo che si esprime anche nella partecipazione popolare nei diversi enti regionali e locali.
Anzitutto la sovranità popolare – che per il secondo comma dell'art. 1 della Costituzione deve
comunque esprimersi «nelle forme e nei limiti della Costituzione» – non può essere confusa con le
volontà espresse nei numerosi «luoghi della politica» né si può ridurre la sovranità popolare alla mera
“espressione del circuito democratico”. Peraltro, ancora preliminare è la constatazione che la legge in
parola utilizza il termine “sovranità” per connotare la natura stessa dell'ordinamento regionale nel
rapporto con l'ordinamento dello Stato, nella diversa accezione del necessario riconoscimento alla
Regione interessata di un ordinamento adeguato ad una situazione anche di sovranità (implicitamente
asserita come esistente o comunque da rivendicare).
Né rileva minimamente su questo piano – come invece accennato dalla difesa regionale – la
progressiva erosione della sovranità nazionale sul piano internazionale, specialmente in conseguenza
della graduale affermazione del processo di integrazione europea, peraltro nell'ambito di quanto
espressamente previsto dall'art. 11 della Costituzione. Processo istituzionale cui non può certo
paragonarsi l'affermarsi del regionalismo nel nostro Paese, neppure a seguito della riforma costituzionale
del 2001: infatti, la sovranità interna dello Stato conserva intatta la propria struttura essenziale, non
scalfita dal pur significativo potenziamento di molteplici funzioni che la Costituzione attribuisce alle
Regioni ed agli enti territoriali. Del resto, quanto alle Regioni a statuto speciale, l'art. 116 Cost. non è
stato modificato nella parte in cui riconosce alle stesse «forme e condizioni particolari di autonomia
secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale».
7. – Gli artt. 5 e 114 della Costituzione e l'art. 1 dello statuto speciale della Regione Sardegna
utilizzano tutti (e certo non casualmente) il termine “autonomia” o il relativo aggettivo per definire
sinteticamente lo spazio lasciato dall'ordinamento repubblicano alle scelte proprie delle diverse Regioni.
D'altra parte, è ben noto che il dibattito costituente, che pure introdusse per la prima volta l'autonomia
regionale nel nostro ordinamento dopo lunghi e vivaci confronti, fu assolutamente fermo nell'escludere
concezioni che potessero anche solo apparire latamente riconducibili a modelli di tipo federalistico o
addirittura di tipo confederale. Questa scelta riguardò la stessa speciale autonomia delle Regioni a regime
differenziato, malgrado i particolari contesti sociali, economici e anche internazionali allora esistenti
almeno in alcuni territori regionali. Del tutto coerente con questo quadro generale fu la stessa speciale
configurazione dell'autonomia della Regione Sardegna, oggetto di vivaci dispute in ambito regionale, ma
infine frutto di determinazioni tutte interne alla Assemblea costituente.
Né tra le pur rilevanti modifiche introdotte dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3
(Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) può essere individuata una innovazione
tale da equiparare pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali che pure tutti compongono
l'ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello
Stato, delle Regioni e degli enti territoriali (sull'art. 114 Cost. si veda la sentenza n. 274 del 2003).
Pretendere ora di utilizzare in una medesima espressione legislativa, quale principale direttiva dei
lavori di redazione di un nuovo statuto speciale, sia il concetto di autonomia sia quello di sovranità
equivale a giustapporre due concezioni tra loro radicalmente differenziate sul piano storico e logico
(tanto che potrebbe parlarsi di un vero e proprio ossimoro piuttosto che di una endiadi), di cui la seconda
certamente estranea alla configurazione di fondo del regionalismo quale delineato dalla Costituzione e
dagli Statuti speciali.
8. – La censura è pertanto fondata.
Pur nell'ovvio riconoscimento che il Parlamento in sede di adozione del nuovo statuto regionale e,
prima ancora, lo stesso Consiglio regionale della Sardegna in sede di esame del disegno di legge
costituzionale non sarebbero giuridicamente vincolati a far propri i contenuti della proposta della
Consulta regionale relativi al «nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo», è contrastante
con gli artt. 1, secondo comma, 5 e 114 della Costituzione e con l'art. 1 dello statuto speciale che le
censurate disposizioni e la stessa rubrica della legge regionale n. 7 del 2006 assumano come possibile
contenuto del nuovo statuto speciale istituti tipici di ordinamenti statuali di tipo federale in radice
incompatibili con il grado di autonomia regionale attualmente assicurato nel nostro ordinamento
costituzionale. Un contenuto legislativo del genere produrrebbe (si veda il precedente punto 4) una
impropria pressione sulla libertà valutativa dello stesso Parlamento in sede di adozione della relativa
legge costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale della rubrica della legge della Regione Sardegna 23 maggio
2006, n. 7 (Istituzione, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e
sovranità del popolo sardo), limitatamente alle parole «e sovranità»;
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della legge regionale n. 7 del 2006,
limitatamente alle parole «e di sovranità»;
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2, lettera a), della legge regionale n. 7 del
2006, limitatamente alle parole «e sovranità», nonché del comma 3, limitatamente alle parole «e elementi
di sovranità»;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 2, comma 2,
lettera a), e comma 3, nonché della stessa rubrica della legge regionale n. 7 del 2006, sollevate dal
Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento agli artt. 3, 16, 101, 117, comma primo e secondo,
lettere a), d), h) e l), 120, 132, 133, e 138, della Costituzione e degli artt. 3, 4, 50 e 54 dello statuto
speciale della Regione Sardegna, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 ottobre
2007.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 novembre
2007.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 372/2004
Giudizio
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente ONIDA - Redattore CAPOTOSTI
Udienza Pubblica del 16/11/2004 Decisione del 29/11/2004
Deposito del 02/12/2004 Pubblicazione in G. U. 09/12/2004
Norme impugnate:
Massime:
28884 28885 28886 28887 28888 28889 28890
Atti decisi:
T
i
t
o
l
o
Regione toscana - Statuto - Proposizioni con contenuto di “principi generali” e “finalità principali”,
particolarmente in tema di diritto di voto agli immigrati, convivenza fuori del vincolo matrimoniale,
equilibrio ecologico, ambiente, patrimonio culturale, biodiversità, rispetto degli animali, patrimonio
storico artistico e paesaggistico, sviluppo economico, competitività delle imprese, libertà di iniziativa
economica, cooperazione - Ricorso del governo - Funzione di natura culturale o politica, ma non
normativa - Carenza di idoneità lesiva - Inammissibilità delle questioni.
T
e
s
t
o
Sono manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento agli
artt. 48, 117, secondo comma, lettere f) e p), 121, secondo comma, e 138 della Costituzione, dell’art. 3,
comma 6, dello statuto della Regione Toscana, approvato, in prima deliberazione il 6 maggio 2004 e, in
seconda deliberazione, il 19 luglio 2004, nella parte in cui estende il diritto di voto agli immigrati; in
riferimento agli artt.2, 3, 5, 29, 117, secondo comma, lettere i) e l), 123, primo comma, della
Costituzione, dell’art. 4, comma 1, lettera h) del predetto statuto, nella parte in cui stabilisce che la
Regione persegue “il riconoscimento delle altre forme di convivenza”; in riferimento all’art. 117,
secondo comma, lettera s) della Costituzione, dell’art. 4, comma 1, lettere l), del predetto statuto, nella
parte in cui stabilisce che la Regione persegue, tra le finalità prioritarie, “il rispetto dell’equilibrio
ecologico, la tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale, la conservazione della biodiversità, la
promozione della cultura del rispetto degli animali; in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera
s) e 118 della Costituzione, dell’art. 4, comma 1, lettera m) del predetto statuto, nella parte in cui
persegue “la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico; in riferimento
all’art. 117, secondo comma, lettere e) e l) della Costituzione, dell’art. 4, comma 1, lettere n), o) e p) del
predetto statuto, nella parte in cui stabilisce quali finalità prioritarie “la promozione dello sviluppo
economico e di un contesto favorevole alla competitività delle imprese, basato sull’innovazione, la
ricerca e la formazione, nel rispetto dei principi di coesione sociale e di sostenibilità dell’ambiente”
(lettera n), “la valorizzazione della libertà di iniziativa economica pubblica e privata, del ruolo e della
responsabilità sociale delle imprese” (lettera o); “la promozione della cooperazione come strumento di
democrazia economica e di sviluppo sociale, favorendone il potenziamento con i mezzi più idonei”
(lettera p). Il ruolo di rappresentanza generale degli interessi delle rispettive collettività, riconosciuto alle
Regioni dalla giurisprudenza costituzionale, è rilevante e giustifica l’esistenza, accanto ai contenuti
necessari degli statuti regionali, di altri possibili contenuti, sia che risultino ricognitivi delle funzioni e
dei compiti delle Regioni, sia che indichino aree di prioritario intervento politico o legislativo, che si
esprimono attraverso proclamazioni di finalità da perseguire. Tuttavia a tali enunciazioni, anche se
inserite in un atto-fonte, come nella specie, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica,
collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche
presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione dello statuto ed esplicano una funzione
di natura culturale o anche politica, ma non normativa. - Sentenze citate n. 40/1972, n. 829/1988, n.
2/2004,
n.
196/2003.
Atti oggetto del giudizio
Statuto Regione Toscana art. 3 co. 6
Statuto Regione Toscana art. 4 co. 1 co. lettera h)
Statuto Regione Toscana art. 4 co. 1 co. lettera l)
Statuto Regione Toscana art. 4 co. 1 co. lettera m)
Statuto Regione Toscana art. 4 co. 1 co. lettera n)
Statuto Regione Toscana art. 4 co. 1 co. lettera o)
Statuto Regione Toscana art. 4 co. 1 co. lettera p)
Parametri costituzionali
Costituzione art. 2
Costituzione art. 3
Costituzione art. 5
Costituzione art. 29
Costituzione art. 48
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera e)
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera f)
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera i)
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera l)
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera p)
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera s)
Costituzione art. 118 co. 3
Costituzione art. 121 co. 2
Costituzione art. 123 co. 1
Costituzione art. 138
T
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t
o
l
o
Regione toscana - Statuto - Programma di governo - Approvazione entro 10 giorni dalla sua illustrazione
- Ricorso del governo - Asserita irragionevole variazione rispetto alla forma di governo prefigurata nella
costituzione
Non
fondatezza
della
questione.
T
e
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t
o
Lo schema procedimentale per la formazione della Giunta regionale consente che l’approvazione
consiliare del programma di governo appaia coerente rispetto al sistema elettorale “normale”, accolto
dall’art. 122, quinto comma, della Costituzione, posto che la eventuale mancata approvazione consiliare
può avere solo rilievo politico, senza possibilità di determinare alcun effetto giuridicamente rilevante
sulla permanenza in carica del Presidente, della giunta, ovvero sulla composizione di questa ultima. Non
è, pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione agli artt. 3 e 122,
quinto comma, della Costituzione, dell’art. 32, comma 2, dello Statuto della Regione Toscana, nella
parte in cui stabilisce che “il programma di governo è approvato entro 10 giorni dalla sua illustrazione”.
Atti oggetto del giudizio
Statuto Regione Toscana art. 32 co. 2
Parametri costituzionali
Costituzione art. 3
Costituzione art. 122 co. 5
T
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o
l
o
Regione toscana - Statuto - Diritto di accesso ai documenti amministrativi regionali - Richiesta senza
obbligo di motivazione - Atti amministrativi “meramente esecutivi” - Esclusione dell’obbligo di
motivazione - Ricorso del governo - Assunta lesione dei principi di buon andamento
dell’amministrazione, di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, di eguaglianza - Non
fondatezza
delle
questioni.
T
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s
t
o
La disposizione che stabilisce il diritto di accesso, senza obbligo di motivazione, ai documenti
amministrativi si conforma al principio costituzionale di imparzialità e di trasparenza dell’azione
amministrativa ed è altresì del tutto coerente con l’evoluzione del diritto comunitario. Essa dev’essere,
tuttavia, interpretata nel senso che la ‘emananda’ legge di attuazione dovrà prefigurare un procedimento
che preveda, oltre ad ipotesi di esclusione dell’ostensibilità di documenti amministrativi per ragioni di
tutela di situazioni costituzionalmente garantite, anche criteri e modi in base ai quali l’interesse personale
e concreto del richiedente si contemperi con l’interesse pubblico del buon andamento
dell’Amministrazione, nonché con l’esigenza di non vanificare in concreto la tutela giurisdizionale delle
posizioni dei soggetti interessati. Inoltre, per gli atti amministrativi che non abbiano natura
provvedimentale, ai fini della motivazione, è sufficiente il semplice richiamo ai presupposti di fatto ed
alle disposizioni di legge da applicare. Non sono, pertanto, fondate le questioni di legittimità
costituzionale, sollevate in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113 della Costituzione, dell’art. 54, commi 1
e 3, dello Statuto della Regione Toscana, nelle parti in cui, rispettivamente, prevedono il diritto di
accesso ai documenti amministrativi regionali senza l’obbligo di motivazione ed escludono l’obbligo di
motivazione
degli
atti
amministrativi
“meramente
esecutivi”.
Atti oggetto del giudizio
Statuto Regione Toscana art. 54 co. 1
Statuto Regione Toscana art. 54 co. 3
Parametri costituzionali
Costituzione art. 3
Costituzione art. 24
Costituzione art. 97
Costituzione art. 113
T
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o
Regione toscana - Statuto - Funzioni amministrative conferite agli enti locali - Disciplina con legge
regionale per garantire uniformità in funzione di specifiche esigenze unitarie - Ricorso del governo Asserita lesione della riserva di potestà regolamentare attribuita agli enti locali, della autonomia
organizzativa e amministrativa degli stessi, del principio di sussidiarietà, del principio di leale
collaborazione
Non
fondatezza
della
questione.
T
e
s
t
o
Può essere attribuito alla disciplina legislativa regionale, in applicazione del principio di sussidiarietà,
l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni conferite agli enti locali, purché sussistano “specifiche
esigenze unitarie”, che possano giustificare tale riserva assoluta di legge regionale. Così interpretata la
norma denunciata, non è fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli
artt. 114, 117, sesto comma, e 118 della Costituzione, dell’art. 63, comma 2, dello Statuto della Regione
Toscana, che conferisce alla legge regionale la facoltà di disciplinare l’organizzazione e lo svolgimento
delle funzioni degli enti locali nei “casi in cui risultino specifiche esigenze unitarie”. - Sentenze citate nn.
43,
69,
112
e
172/2004.
Atti oggetto del giudizio
Statuto Regione Toscana art. 63 co. 2
Parametri costituzionali
Costituzione art. 114
Costituzione art. 117 co. 6
Costituzione art. 118
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o
Regione toscana - Statuto - Tributi degli enti locali - Disciplina con legge, limitatamente ai profili coperti
da riserva di legge, salva la potestà degli enti di istituirli - Ricorso del governo - Asserita lesione
dell’autonomia tributaria degli enti locali, con pregiudizio delle scelte del legislatore nazionale - Non
fondatezza
della
questione.
T
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o
La norma censurata, che prevede una disciplina normativa dei tributi propri degli enti locali risultante dal
concorso di fonti primarie regionali e secondarie locali, deve essere interpretata nel senso che, in base
all’art. 119, secondo comma, della Costituzione, la legge regionale ivi prevista deve comunque attenersi
ai principi fondamentali di coordinamento del sistema tributario appositamente dettati dalla legislazione
statale “quadro” o, in caso di inerzia del legislatore statale, a quelli comunque desumibili
dall’ordinamento. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in
riferimento all’art. 119 della Costituzione, dell’art. 64, comma 2, dello Statuto della Regione Toscana,
nella parte in cui prevede che “la legge disciplina, limitatamente ai profili coperti da riserva di legge, i
tributi propri degli enti locali, salva la potestà degli enti di istituirli”. - Sentenza citata n. 37/2004.
Atti oggetto del giudizio
Statuto Regione Toscana art. 64 co. 2
Parametri costituzionali
Costituzione art. 119
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o
Regione toscana - Statuto - Formazione e attuazione degli atti comunitari nelle materie di competenza
regionale - Partecipazione degli organi di governo e del consiglio regionale - Ricorso del governo Asserita lesione della competenza statale nella materia - Non fondatezza della questione.
T
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o
Nel quadro delle norme di procedura che la legge statale determina in via generale ai fini della
partecipazione delle Regioni alla formazione ed attuazione degli atti comunitari, la disposizione
statutaria impugnata prevede che la legge regionale stabilisca, a sua volta, uno specifico procedimento
interno diretto a fissare le modalità attraverso le quali si forma la relativa decisione regionale,
nell’ambito dei criteri organizzativi stabiliti, in sede attuativa, dall’art. 5 della legge 5 giugno 2003, n.
131. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all’art.
117, quinto comma, della Costituzione, dell’art. 70, comma 1, dello statuto della Regione Toscana, nella
parte in cui prevede che gli organi di governo ed il Consiglio regionale partecipano, nei modi previsti
dalla legge, alla formazione ed attuazione degli atti comunitari nelle materie.
Atti oggetto del giudizio
Statuto Regione Toscana art. 70 co. 1
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117 co. 5
T
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o
Regione toscana - Statuto - 'Referendum' abrogativo di legge o regolamento regionale - 'Quorum' della
maggioranza dei votanti alle ultime elezioni regionali - Ricorso del governo - Asserita lesione del
principio di ragionevolezza, irrazionalità, violazione del criterio determinativo del 'quorum' previsto
dalla costituzione per il 'referendum' abrogativo di legge statale - Non fondatezza della questione.
T
e
s
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o
Rientrando la materia referendaria tra i contenuti obbligatori dello statuto, ai sensi dell’art. 123 della
Costituzione, deve ritenersi che alle Regioni sia consentito di articolare variamente la propria disciplina
relativa alla tipologia dei referendum previsti in Costituzione, in ragione del fatto che la Regione può
liberamente scegliere forme, modi e criteri della partecipazione popolare ai processi di controllo
democratico sugli atti regionali. Né appare irragionevole stabilire un ‘quorum’ strutturale flessibile, che
si adegua ai vari flussi elettorali. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale,
sollevata in riferimento agli artt. 3 e 75 della Costituzione, dell’art. 75, comma 4, dello statuto della
Regione Toscana, nella parte in cui, ai fini dell’abrogazione referendaria di una legge o di un
regolamento regionale, è richiesto che partecipi alla votazione la maggioranza dei votanti alle ultime
e l e z i o n i
r e g i o n a l i .
Atti oggetto del giudizio
Statuto Regione Toscana art. 75 co. 4
Parametri costituzionali
Costituzione art. 3
Costituzione art. 75
Pronuncia
SENTENZA N.372 ANNO 2004
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Valerio ONIDA; Giudici: Carlo MEZZANOTTE, Guido NEPPI
MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK,
Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio
FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 3, comma 6; 4, comma 1, lettere h), l), m), n),
o), p); 32, comma 2; 54, commi 1 e 3; 63, comma 2; 64, comma 2; 70, comma 1; 75, comma 4, dello
statuto della Regione Toscana, approvato in prima deliberazione il 6 maggio 2004 e, in seconda
deliberazione, il 19 luglio 2004, pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 27 del 26 luglio
2004, promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 9 agosto 2004,
depositato in Cancelleria il 12 successivo ed iscritto al n. 83 del registro ricorsi 2004.
Visto l'atto di costituzione della Regione Toscana;
udito nell'udienza pubblica del 16 novembre 2004 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti;
uditi l'avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avv.
Stefano Grassi per la Regione Toscana.
Ritenuto in fatto
1. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 9 agosto 2004, depositato il
successivo 12 agosto 2004, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 3, comma 6;
4, comma 1, lettere h), l), m), n), o), p); 32, comma 2; 54, commi 1 e 3; 63, comma 2; 64, comma 2; 70,
comma 1; 75, comma 4, dello statuto della Regione Toscana, approvato in prima deliberazione il 6
maggio 2004 e, in seconda deliberazione, il 19 luglio 2004, pubblicato nel Bollettino Ufficiale della
Regione n. 27 del 26 luglio 2004, in riferimento agli articoli 2, 3, 5, 24, 29, 48, 97, 113, 114, 117,
secondo comma, lettere e), f), i), l), p), s), terzo, quinto e sesto comma, 118, 121, 122, 123, 138 della
Costituzione.
1.1. — L'art. 3, comma 6, dello statuto impugnato stabilisce che «la Regione promuove, nel rispetto
dei principi costituzionali, l'estensione del diritto di voto agli immigrati».
Questa norma, secondo il ricorrente, si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale che
riserva ai cittadini l'elettorato attivo (art. 48 della Costituzione) e non sarebbe finalisticamente rispettosa
delle attribuzioni costituzionali dello Stato, in quanto il potere di revisione costituzionale è riservato al
Parlamento nazionale (art. 138 della Costituzione). Inoltre, violerebbe l'art. 117, secondo comma, lettere
f) e p), della Costituzione, in virtù del quale spetta allo Stato la competenza legislativa esclusiva nella
materia elettorale concernente gli organi statali e degli enti locali, nonché l'art. 121, secondo comma,
della Costituzione, poiché limiterebbe il potere di iniziativa legislativa del Consiglio regionale.
1.2. — L'art. 4, comma 1, lettera h), dello statuto in esame dispone che la Regione persegue, tra le
finalità prioritarie, «il riconoscimento delle altre forme di convivenza» con previsione che, ad avviso
della difesa erariale, potrebbe costituire la base statutaria di future norme regionali recanti una disciplina
dei rapporti tra conviventi lesiva della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di
“cittadinanza, stato civile e anagrafi” e di “ordinamento civile” (art. 117, secondo comma, lettere i) e l),
Cost.)
La norma violerebbe, inoltre, l'art. 123 della Costituzione, ed il limite della «armonia con la
Costituzione», qualora con essa si «intenda affermare qualcosa di diverso dal semplice rilievo sociale e
dalla conseguente giuridica dignità» della convivenza tra uomo e donna fuori del vincolo matrimoniale,
ovvero si «intenda affermare siffatti valori con riguardo ad unioni libere e relazioni tra soggetti del
medesimo sesso», in contrasto con i principi costituzionali, in relazione a situazioni divergenti dal
modello del rapporto coniugale, estranee al contenuto delle garanzie fissate dall'art. 29 della
Costituzione, non riconducibili alla sfera di protezione dell'art. 2 della Costituzione.
La norma si porrebbe in contrasto anche con l'art. 123 della Costituzione, in quanto avrebbe un
contenuto estraneo ed eccedente rispetto a quello configurabile quale “contenuto necessario” dello
statuto, non esprimerebbe un interesse proprio della comunità regionale e neppure avrebbe contenuto
meramente programmatorio, violando altresì il principio fondamentale di unità (art. 5 della Costituzione)
e realizzando una ingiustificata disparità di trattamento, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione.
1.3. — L'art. 4, comma 1, lettere l) e m), dello statuto in esame stabilisce che la Regione persegue,
tra le finalità prioritarie, «il rispetto dell'equilibrio ecologico, la tutela dell'ambiente e del patrimonio
culturale, la conservazione della biodiversità, la promozione della cultura del rispetto degli animali»
(lettera l), nonché «la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico» (lettera
m).
Secondo il ricorrente, la norma violerebbe l'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione,
che riserva allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di tutela dell'ambiente,
dell'ecosistema e dei beni culturali, in quanto prevede la tutela dell'ambiente e la tutela dei beni culturali.
La lettera m) recherebbe vulnus anche all'art. 118, comma terzo, della Costituzione, che riserva alla
legge statale la disciplina di forme di intesa e di coordinamento nella materia della tutela dei beni
culturali.
1.4. — L'art. 4, comma 1, lettere n), o) e p), dello statuto della Regione Toscana stabilisce quali
finalità prioritarie: «la promozione dello sviluppo economico e di un contesto favorevole alla
competitività delle imprese, basato sull'innovazione, la ricerca e la formazione, nel rispetto dei principi
di coesione sociale e di sostenibilità dell'ambiente» (lettera n); «la valorizzazione della libertà di
iniziativa economica pubblica e privata, del ruolo e della responsabilità sociale delle imprese» (lettera o);
«la promozione della cooperazione come strumento di democrazia economica e di sviluppo sociale,
favorendone il potenziamento con i mezzi più idonei» (lettera p).
Ad avviso dell'Avvocatura generale dello Stato, queste norme avrebbero lo scopo di offrire una base
statutaria a future leggi regionali in contrasto con la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella
materia della «tutela della concorrenza» (art.117, secondo comma, lettera e), della Costituzione) e lesive,
in riferimento al settore della cooperazione, «inteso come disciplina delle diverse forme e tipologie» di
quest'ultima, della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile»
(art.117, secondo comma, lettera l), della Costituzione).
1.5. — L'art. 32, comma 2, dello statuto in esame, disponendo che «il programma di governo è
approvato entro dieci giorni dalla sua illustrazione», secondo la difesa erariale, non sarebbe coerente con
l'elezione diretta del Presidente della Giunta regionale, poiché l'approvazione consiliare del programma
di governo -predisposto ed attuato dal Presidente ai sensi dell'art. 34 dello statuto- instaurerebbe,
irragionevolmente e contraddittoriamente, tra Presidente e Consiglio regionale, un rapporto diverso
rispetto a quello conseguente all'elezione a suffragio universale e diretto del vertice dell'esecutivo
prevista dal comma quinto dell'art. 122 della Costituzione.
1.6. — Il ricorrente censura l'art. 54, commi 1 e 3, dello statuto della Regione Toscana nelle parti in
cui dispone che «tutti hanno diritto di accedere senza obbligo di motivazione ai documenti
amministrativi» (comma 1) ed esclude l'obbligo della motivazione per gli atti amministrativi «meramente
esecutivi», in quanto queste norme si porrebbero in contrasto: con i principi costituzionali di efficienza e
trasparenza (art. 97 della Costituzione), permettendo un controllo non filtrato dell'attività
dell'amministrazione, non giustificato dall'esigenza di protezione di interessi giuridicamente rilevanti;
con il principio di effettività della tutela contro gli atti dell'amministrazione, poiché ostacolerebbero la
tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi da parte dei controinteressati, in violazione
degli artt. 24 e 113 della Costituzione; con l'art. 3 della Costituzione, poiché dalla differenza di disciplina
nelle diverse regioni deriverebbe una tutela non omogenea delle situazioni giuridiche soggettive.
1.7. — L'art. 63, comma 2, dello statuto in oggetto stabilisce che «la legge, nei casi in cui risultino
specifiche esigenze unitarie, può disciplinare l'organizzazione e lo svolgimento delle funzioni conferite
per assicurare requisiti essenziali di uniformità».
Secondo la difesa erariale, la norma vulnera sia l'art. 117, sesto comma, della Costituzione, che
riserva alla potestà regolamentare degli enti locali la disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento
delle funzioni amministrative ad essi attribuite, sia l'art. 118 della Costituzione, in quanto eventuali
esigenze di esercizio unitario delle funzioni, in virtù del principio di sussidiarietà, giustificherebbero
esclusivamente il mantenimento di determinate funzioni legislative al livello di governo regionale, non
già l'attribuzione delle predette all'ente locale e la contestuale espropriazione di quest'ultimo dei poteri
allo stesso spettanti per regolamentarne l'organizzazione ed il funzionamento. Inoltre, la disposizione
violerebbe l'art. 114 della Costituzione ed il principio di leale collaborazione nell'esercizio di compiti
amministrativi che interessano più enti fra quelli considerati, in modo equiordinato, nella norma
costituzionale.
1.8. — L'art. 64, comma 2, dello statuto della Regione Toscana, disponendo che «la legge disciplina,
limitatamente ai profili coperti da riserva di legge, i tributi propri degli enti locali, salva la potestà degli
enti di istituirli», ad avviso del ricorrente, sottenderebbe margini di autonomia regionale più ampi di
quelli stabiliti dall'art. 119 della Costituzione, i cui limiti non sono stati richiamati, prefigurando,
«direttamente ed immediatamente», relativamente alla disciplina dei tributi degli enti locali, «un
determinato rapporto tra fonti normative (legge regionale, per la parte coperta da riserva di legge, e
normativa locale, per quanto concerne l'istituzione e gli altri aspetti non coperti da riserva di legge) che è
invece solo uno di quelli possibili, costituzionalmente rimessi alle valutazioni ed alle scelte del
legislatore nazionale nel momento in cui darà attuazione all'art. 119 Cost.».
1.9. — L'art. 70, comma 1, dello statuto in esame stabilisce che «gli organi di governo e il consiglio
partecipano, nei modi previsti dalla legge, alle decisioni dirette alla formazione e attuazione degli atti
comunitari nelle materie di competenza regionale».
La difesa erariale sostiene che la norma violerebbe l'art. 117, quinto comma, della Costituzione, in
virtù del quale la partecipazione delle Regioni alla formazione ed attuazione degli atti comunitari deve
avvenire secondo le norme stabilite dalla legge statale.
1.10. — L'art. 75, comma 1, dello statuto della Regione Toscana disciplina il referendum abrogativo,
disponendo, al comma 4, che «la proposta di abrogazione soggetta a referendum è approvata se partecipa
alla votazione la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni regionali e se ottiene la maggioranza dei
voti validamente espressi».
La norma, in questa parte, secondo il ricorrente, violerebbe il principio di ragionevolezza, in quanto
la disciplina del principale strumento di democrazia diretta e la valutazione del suo esito non
risulterebbero connessi alla consistenza effettiva del corpo elettorale, in base ad un corretto principio di
democrazia partecipativa correlato a quello del suffragio universale, bensì ad un dato casuale e
contingente, privo di significatività. Inoltre, non ragionevolmente la disposizione non terrebbe conto
della differente natura della consultazione referendaria rispetto alle elezioni regionali e del diverso
interesse che le due consultazioni popolari rivestono per il cittadino sia in relazione al loro diverso
oggetto (scelta dei rappresentanti negli organi legislativi ovvero diretta decisione politica su problemi e
discipline specifiche), sia in relazione alle diverse modalità di espressione e di computo del voto nell'una
e nell'altra consultazione.
Queste considerazioni, ad avviso della difesa erariale, sarebbero confortate dalla constatazione che la
linea di tendenza più recente dimostra che vi è un progressivo aumento dell'astensionismo elettorale, il
quale «potrebbe portare, sulla base della censurata regola, all'inaccettabile ed antidemocratica
conseguenza dell'abrogazione di un atto normativo in base al voto di un'esigua minoranza del corpo
elettorale».
Infine, la norma si porrebbe in contrasto con un principio costituzionale fondamentale, qualificante
la forma stessa dello Stato democratico, che imporrebbe di correlare la validità della consultazione
referendaria alla partecipazione ad essa della maggioranza degli aventi diritto di cui all'art. 75 della
Costituzione.
2 — La Regione Toscana, in persona del Presidente pro-tempore della Giunta regionale, si è
costituita nel giudizio, chiedendo che la Corte dichiari il ricorso inammissibile e comunque infondato.
2.1. — La resistente, in linea generale, premette che la piena armonia delle disposizioni censurate
con le norme costituzionali sarebbe comprovata sia dal richiamo, implicito o esplicito, che esse
contengono ai principi costituzionali, indicati quali criteri per individuare la loro portata, sia dalle norme
di principio pure contenute nello statuto, non considerate dal Governo e che invece costituirebbero il
parametro ermeneutico da utilizzare per la loro corretta interpretazione. Siffatte norme dimostrerebbero,
quindi, che lo statuto è conforme alla Costituzione ed ai principi fondamentali dell'ordinamento
costituzionale, «nel quale si riconoscono le vocazioni e le tradizioni della comunità regionale, con il
proprio tessuto civico e sociale, con la capacità di accoglienza e la vitalità solidale che accompagna lo
sviluppo delle attività intellettuali e scientifiche». Particolare importanza per la corretta interpretazione
delle norme censurate avrebbe, inoltre, la risoluzione approvata dal Consiglio regionale nella stessa
seduta in cui, per la seconda volta, è stato approvato lo statuto, in quanto essa ha chiarito la piena
coerenza di dette norme con i principi ed i valori della Costituzione ed ha offerto una risposta ufficiale
alle obiezioni informalmente sollevate dal Governo (risoluzione n. 51 del 19 luglio 2004).
2.2. — Relativamente alle prime quattro questioni sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri,
aventi ad oggetto norme che stabiliscono principi programmatici e finalità prioritarie, la Regione sostiene
che le stesse non implicherebbero una rivendicazione di competenze.
Peraltro già gli statuti delle regioni di diritto comune adottati all'inizio degli anni settanta
contenevano norme recanti la fissazione di obiettivi e principi in base ai quali le istituzioni e gli organi
regionali concorrevano alla realizzazione dei diritti costituzionali, positivamente scrutinate dalla Corte,
in quanto giudicate espressive della «presenza politica» della Regione in rapporto allo Stato ed anche alle
altre Regioni, riguardo a tutte le questioni di interesse della comunità regionale, anche in settori estranei
alle materie di propria competenza ed al di là del proprio territorio (sentenze n. 829 e n. 921 del 1988;
sentenza n. 171 del 1999).
Inoltre, sostiene la resistente, la Corte ha anche già riconosciuta la legittimità costituzionale di norme
analoghe a quelle in esame, recate da uno statuto regionale approvato ai sensi del nuovo art. 123 della
Costituzione (sentenza n. 2 del 2004). A suo avviso, le norme oggetto delle prime quattro questioni di
legittimità costituzionale sono appunto qualificabili come meramente «programmatiche», sicché le
censure in esame sarebbero infondate e comunque inammissibili nella parte in cui prospettano la lesione
di competenze legislative dello Stato che le norme impugnate, per la loro natura e per i loro contenuti,
non potrebbero vulnerare.
2.3. — La Regione contesta la fondatezza delle censure concernenti l'art. 3, comma 6, dello statuto,
sostenendo che la norma non violerebbe la riserva ai cittadini dell'elettorato attivo, poiché prevede
soltanto la promozione dell'estensione del diritto di voto agli immigrati «nel rispetto dei principi
costituzionali», quindi in relazione a deliberazioni o ad elezioni non necessariamente riferibili alle
elezioni degli organismi rappresentativi. D'altronde, lo stesso legislatore statale ha riconosciuto il diritto
dello straniero, regolarmente soggiornante in Italia da almeno sei anni e titolare di permesso di soggiorno
rinnovabile, di «partecipare alla vita pubblica locale, esercitando anche l'elettorato quando previsto
dall'ordinamento ed in armonia con le previsioni del capitolo C della Convenzione sulla partecipazione
degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992» (art.9, comma 4,
lettera d), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, recante “Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”). La Carta di
Strasburgo, ratificata e recepita con la legge statale 8 marzo 1994, n. 203 (Ratifica ed esecuzione della
convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5
febbraio 1992, limitatamente ai capitoli A) e B), prevede infatti l'impegno degli Stati aderenti a
«concedere il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni locali ad ogni residente straniero, a condizione
che questi soddisfi alle stesse condizioni di quelle prescritte per i cittadini ed inoltre che abbia risieduto
legalmente ed abitualmente nello Stato in questione nei cinque anni precedenti le elezioni» (art. 6,
capitolo C, Carta di Strasburgo).
Secondo la resistente, la norma in questione non implicherebbe peraltro alcuna rivendicazione di
competenza in detta materia, e neppure vincolerebbe in alcun modo l'autonomia del Consiglio regionale
nel proporre disegni di legge al Parlamento.
2.4. — Le censure concernenti l'art. 4, comma 1, lettera h), dello statuto, ad avviso del Presidente
della Giunta regionale, sarebbero inammissibili, in quanto frutto di una interpretazione in contrasto con
la sua lettera e con la sua ratio e peraltro smentita dalla risoluzione consiliare del 19 luglio 2004. La
contestata genericità della formulazione della disposizione sarebbe, infatti, giustificata dall'esigenza di
rispettare i principi costituzionali, evitando qualsiasi equiparazione alla famiglia fondata sul matrimonio
di convivenze prive della copertura costituzionale attribuita alla famiglia legittima, sicché la norma
permetterebbe esclusivamente la tutela di quelle forme stabili di convivenza per le quali le leggi statali
(ad esempio gli artt. 4 e 5 del d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, recante Approvazione del nuovo
regolamento anagrafico della popolazione residente, ovvero l'art. 2 del decreto legislativo 3 maggio
2000, n. 130, recante “Disposizioni correttive ed integrative del d. lgs. 31 marzo 1998, n. 109 in materia
di criteri unificati di valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni
sociali agevolate”) e regionali prevedono il riconoscimento della fruizione dei diritti sociali, sempre che
le norme sull'ordinamento costituzionale e quelle sull'ordinamento civile lo consentano.
Inoltre, secondo la Regione Toscana, il riconoscimento di altre forme di convivenza si collegherebbe
con il riconoscimento della persona umana e della sua capacità di effettiva partecipazione
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese (artt. 2 e 3 della Costituzione).
2.5. — Ad avviso della resistente, l'art. 4, comma 1, lettere l) e m), dello statuto, individuando quali
finalità prioritarie da perseguire quelle della «tutela dell'ambiente e del patrimonio naturale», nonché
della «tutela e valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico», non farebbe altro che
indicare un compito prioritario della Regione, nell'ambito delle competenze legislative ed amministrative
attribuite alla Regione, senza rivendicare competenze legislative e regolamentari dello Stato. Le finalità
fissate dalla lettera l) riguarderebbero materie trasversali rispetto a numerose competenze regionali e
comunque –relativamente alla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, di competenza del legislatore
statale– presupporrebbero la collaborazione e la cooperazione di tutti i livelli di governo per il
raggiungimento di risultati che definiscono lo spirito ed i valori fondamentali del nostro ordinamento.
Per analoghe considerazioni, secondo la Regione Toscana, sarebbero infondate le censure
concernenti la lettera m), poiché la tutela del patrimonio storico ed artistico, spettante alla competenza
legislativa esclusiva dello Stato, deve essere « attuata anche e soprattutto con la piena collaborazione
delle Regioni».
2.6. — Le finalità indicate nell'art. 4, comma 1, lettere n), o) e p), dello statuto non porrebbero in
discussione la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia della tutela della concorrenza,
ma, ad avviso del Presidente della Giunta regionale, riguarderebbero settori di competenza regionale
quali la promozione delle attività economiche locali legate alle materie di competenza regionale
concorrente e residuale di cui all'art. 117, commi terzo e quarto, della Costituzione.
L'obiettivo della promozione della cooperazione come strumento di democrazia economica e di
sviluppo sociale sarebbe, inoltre, coerente con i principi relativi ai rapporti economici fissati dall'art. 45
della Costituzione, e non violerebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di
ordinamento civile, in quanto le leggi regionali possono perseguire le finalità indicate dalla norma
statutaria nell'osservanza della disciplina civilistica e di quella comunque regolante le società cooperative
contenuta nelle leggi dello Stato.
2.7. — L'impugnazione dell'art. 32, comma 2, dello statuto, secondo la Regione Toscana, sarebbe
infondata, poiché l'assenza di conseguenze giuridiche nel caso di mancata approvazione del programma
di governo da parte del Consiglio regionale sarebbe coerente con la forma di governo scelta dallo statuto,
caratterizzata dall'elezione diretta del Presidente della Giunta regionale.
L'approvazione del programma di governo da parte del Consiglio regionale non inciderebbe, infatti,
sulla posizione e sul ruolo del Presidente, il quale potrebbe comunque nominare i membri della Giunta
anche in mancanza dell'approvazione nel termine di dieci giorni del programma, mentre la Giunta
regionale potrebbe essere obbligata alle dimissioni solo nel caso di approvazione della mozione di
sfiducia prevista dall'art. 33, comma 3.
2.8. — Ad avviso della resistente, l'impugnazione dell'art. 54, commi 1 e 3, dello statuto sarebbe
inammissibile in quanto con essa sono state censurate due distinte disposizioni, senza individuare con
chiarezza le questioni a ciascuna riferibili. Nel merito, le censure sarebbero comunque infondate, in
quanto il diritto di accesso ai documenti amministrativi senza motivazione costituirebbe un principio
rispettoso delle norme costituzionali che impongono l'imparzialità e la trasparenza della pubblica
amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione), per alcuni casi già anche stabilito dal legislatore statale
(art. 3 del decreto legislativo 24 febbraio 1997, n. 39, recante “Attuazione della direttiva 20/313/CEE,
concernente la libertà di accesso alle informazioni in materia di ambiente”), e sarebbe altresì coerente
con i principi del diritto comunitario, nel cui ambito il diritto di accesso ai documenti è riconosciuto a
tutti senza l'obbligo di dimostrare un interesse giuridicamente rilevante da tutelare.
Peraltro, la norma censurata prevedendo il diritto di accesso senza obbligo di motivazione, «nel
rispetto degli interessi costituzionalmente tutelati e nei modi previsti dalla legge», permetterebbe alla
legge regionale di disciplinare il diritto di accesso in maniera da assicurare l'osservanza dei principi che
si assumono violati ed il rispetto dei diritti e degli interessi legittimi di eventuali controinteressati, senza
ledere la tutela giurisdizionale di questi ultimi. Infine, la norma riguarderebbe i principi fondamentali di
organizzazione e funzionamento della Regione e, perciò, avrebbe ad oggetto una materia riservata allo
statuto ai sensi dell'art. 123, primo comma, della Costituzione.
2.9. — Secondo la Regione Toscana, le censure concernenti l'art. 63, comma 2, dello statuto
sarebbero infondate, in quanto l'art. 117, sesto comma, della Costituzione, non recherebbe una riserva
assoluta di potestà regolamentare in favore degli enti locali, dal momento che siffatta potestà deve essere
esercitata nell'ambito delle leggi statali e regionali che ne assicurano i requisiti minimi di uniformità,
conformemente a quanto previsto dalle norme costituzionali, come stabilito dall'art. 4, comma 4, della
legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla
legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3), nel rispetto dell'esigenza di una razionale applicazione del criterio
flessibile della sussidiarietà enunciato dall'art. 118, primo comma, della Costituzione (sentenza n. 43 del
2004; sentenze n.69 e n. 73 del 2004).
2.10. — L'art. 64, comma 2, dello statuto, ad avviso del Presidente della Giunta regionale, non
prefigurerebbe una disciplina dei tributi degli enti locali su due livelli che, di per sé, sia tale da escludere
l'adozione di altre possibili impostazioni da parte della legislazione di coordinamento che il Parlamento
dovrà approvare, ai sensi dell'art. 119, secondo comma, della Costituzione. La norma, con riferimento
all'ipotesi di disciplina “a due livelli”, ammessa espressamente dalla Corte (sentenza n. 37 del 2004),
prevederebbe esclusivamente il rispetto del principio di salvaguardia dell'autonomia degli enti locali,
stabilendo che la legge regionale dovrà fare salva la potestà degli stessi enti locali di istituire i tributi ed
intervenire soltanto nell'ambito delle materie oggetto di riserva di legge, con conseguente infondatezza
dell'impugnazione della succitata norma.
2.11. — Secondo la Regione Toscana, l'art. 70, comma 1, dello statuto si limiterebbe a stabilire un
principio di riserva di legge regionale in relazione alle procedure interne concernenti la disciplina della
modalità di formazione della volontà degli organi regionali in ordine alla partecipazione alla formazione
degli atti comunitari, nel rispetto delle norme di procedura dettate dallo Stato in conformità con l'art. 117,
quinto comma, della Costituzione, ed in coerenza con l'art. 5 della legge n. 131 del 2003. Pertanto, la
norma impugnata non violerebbe né la lettera né lo spirito dei parametri costituzionali indicati dal
ricorrente.
2.12. — Ad avviso della resistente, sarebbero infondate anche le censure concernenti l'art. 75 dello
statuto, poiché l'individuazione di un quorum di partecipazione al referendum abrogativo riferito alle
votazioni delle ultime elezioni regionali non sarebbe né irragionevole, né incoerente. Il referendum
abrogativo costituisce, infatti, una forma di controllo del corpo elettorale sull'attività dei consiglieri
regionali e, quindi, non sarebbe illogico stabilire il quorum di partecipazione facendo riferimento al
corpo elettorale che ha eletto il Consiglio regionale, i cui atti sono oggetto dei quesiti referendari.
Peraltro, per la partecipazione al referendum regionale neppure potrebbe ritenersi necessario un quorum
più elevato, tenuto conto che le norme costituzionali, in riferimento a consultazioni su leggi di particolare
importanza, quali le leggi di revisione costituzionale e gli stessi statuti regionali, escludono la necessità
di un quorum minimo di partecipanti alla votazione (artt. 138, secondo comma, e 123, comma terzo,
della Costituzione).
La Regione Toscana conclude, infine, sostenendo che dall'art. 75 della Costituzione, non è ricavabile
un principio costituzionale fondamentale, vincolante per lo statuto regionale, in ordine al quorum di
partecipazione al referendum abrogativo ivi indicato, e ciò sia in quanto le ipotesi di referendum
sarebbero diverse e non equiparabili, sia in quanto l'art. 123, primo comma, della Costituzione, porrebbe
una espressa riserva di disciplina del referendum in favore della fonte statutaria, mentre l'art. 117,
comma quarto, della Costituzione, attribuirebbe alla Regione la competenza residuale in materia di
referendum regionali.
3. — L'Avvocatura generale dello Stato, in prossimità dell'udienza pubblica, ha depositato memoria
nella quale deduce l'ammissibilità dell'impugnazione, ex art. 123 della Costituzione, avente ad oggetto
norme programmatiche, qualora queste prefigurino scopi incompatibili con lo spirito e con i principi
ricavabili dalla Costituzione, ovvero che richiedano l'esercizio di poteri che costituzionalmente non
possono spettare alla Regione. Inoltre, il ricorrente ribadisce le censure concernenti le norme impugnate,
insistendo nelle argomentazioni svolte per sostenerne l'illegittimità in riferimento ai parametri indicati
nel ricorso.
4. — La Regione Toscana, nella memoria difensiva depositata in prossimità dell'udienza pubblica,
ribadisce l'ammissibilità di norme statutarie di contenuto programmatico, recanti indicazioni di obiettivi
dell'azione regionale, esamina nuovamente le censure concernenti le disposizioni impugnate,
deducendone l'infondatezza sulla scorta delle argomentazioni sviluppate nell'atto di costituzione.
5. — All'udienza pubblica le parti hanno insistito per l'accoglimento delle conclusioni rassegnate
nelle difese scritte.
Considerato in diritto
1. — Il Governo ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 3, comma 6; 4,
comma 1, lettere h), l), m), n), o), p); 32, comma 2; 54, commi 1 e 3; 63, comma 2; 64, comma 2; 70,
comma 1; 75, comma 4, dello statuto della Regione Toscana, approvato in prima deliberazione il 6
maggio 2004 e, in seconda deliberazione, il 19 luglio 2004, in riferimento agli articoli 2, 3, 5, 24, 29, 48,
97, 113, 114, 117, secondo comma, lettere e), f), i), l), p), s), terzo, quinto e sesto comma, 118, 121, 122,
123, 138 della Costituzione.
L'art. 3, comma 6, stabilisce che «la Regione promuove, nel rispetto dei principi costituzionali,
l'estensione del diritto di voto agli immigrati» e, ad avviso del ricorrente, violerebbe: l'art. 48 della
Costituzione, che riserva ai cittadini l'elettorato attivo; l'art. 138 della Costituzione, in quanto il potere di
revisione costituzionale è riservato al Parlamento nazionale; l'art. 117, secondo comma, lettere f) e p),
della Costituzione, spettando allo Stato la competenza legislativa esclusiva nella materia elettorale
concernente gli organi statali e gli enti locali, nonché l'art. 121, secondo comma, della Costituzione,
poiché limiterebbe il potere di iniziativa legislativa del Consiglio regionale.
Secondo la difesa erariale, l'art. 4, comma 1, lettera h), disponendo che la Regione persegue, tra le
finalità prioritarie, «il riconoscimento delle altre forme di convivenza», potrebbe costituire la base
statutaria di future norme regionali recanti una disciplina dei rapporti fra conviventi lesiva della
competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «cittadinanza, stato civile e anagrafi» e di
«ordinamento civile» (art. 117, secondo comma, lettere i) e l), della Costituzione). La norma si porrebbe,
inoltre, in contrasto con l'art. 123, primo comma, della Costituzione, sia perché avrebbe un contenuto
estraneo ed eccedente rispetto a quello configurabile come contenuto necessario dello statuto, sia perché
potrebbe esprimere «qualcosa di diverso dal semplice rilievo sociale e dalla conseguente giuridica
dignità», nei limiti previsti da leggi dello Stato, della convivenza tra uomo e donna fuori del vincolo
matrimoniale, in riferimento a situazioni divergenti dal modello del rapporto coniugale, estranee al
contenuto delle garanzie fissate dall'art. 29 Costituzione, e non riconducibili alla sfera di protezione
dell'art. 2 della Costituzione. La disposizione violerebbe, infine, il principio fondamentale di unità ed il
principio di eguaglianza (artt. 3 e 5 della Costituzione), dato che permetterebbe alla comunità regionale
di riconoscersi in valori diversi e contrastanti rispetto a quelli di altre comunità regionali.
L'art. 4, comma 1, lettere l) e m), nello stabilire che la Regione persegue, tra le finalità prioritarie, «il
rispetto dell'equilibrio ecologico, la tutela dell'ambiente e del patrimonio culturale, la conservazione della
biodiversità, la promozione della cultura del rispetto degli animali» (lettera l), nonché «la tutela e la
valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico» (lettera m), violerebbe l'art. 117, secondo
comma, lettera s), della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza legislativa esclusiva nelle
succitate materie. La lettera m) recherebbe, inoltre, vulnus anche all'art. 118, comma terzo, della
Costituzione, essendo riservata alla legge statale la disciplina di forme di intesa e di coordinamento nella
materia della tutela dei beni culturali.
L'art. 4, comma 1, lettere n), o) e p), prevede quali finalità prioritarie della Regione Toscana: «la
promozione dello sviluppo economico e di un contesto favorevole alla competitività delle imprese,
basato sull'innovazione, la ricerca e la formazione, nel rispetto dei principi di coesione sociale e di
sostenibilità dell'ambiente» (lettera n); «la valorizzazione della libertà di iniziativa economica pubblica e
privata, del ruolo e della responsabilità sociale delle imprese» (lettera o); «la promozione della
cooperazione come strumento di democrazia economica e di sviluppo sociale, favorendone il
potenziamento con i mezzi più idonei» (lettera p). Queste norme, secondo il ricorrente, potrebbero
costituire la base statutaria di future leggi regionali in contrasto con la competenza legislativa esclusiva
dello Stato nella materia della «tutela della concorrenza» (art.117, secondo comma, lettera e), della
Costituzione) e lesive, in riferimento al settore della cooperazione, della competenza legislativa esclusiva
dello Stato in materia di «ordinamento civile» (art.117, secondo comma, lettera l), della Costituzione).
L'art. 32, comma 2, dispone che «il programma di governo è approvato entro dieci giorni dalla sua
illustrazione» e, perciò, ad avviso del Governo, in contrasto con gli artt. 122, quinto comma, e 3 della
Costituzione, instaurerebbe «irragionevolmente e contraddittoriamente» tra Presidente e Consiglio
regionale un rapporto diverso rispetto a quello conseguente all'elezione a suffragio universale e diretto.
L'art. 54, commi 1 e 3, è impugnato nelle parti in cui disciplina il diritto di accesso senza obbligo di
motivazione ai documenti amministrativi (comma 1) ed esclude l'obbligo della motivazione per gli atti
amministrativi «meramente esecutivi», in riferimento ai principi costituzionali di efficienza e trasparenza
(art. 97 della Costituzione), nonché al principio di effettività della tutela contro gli atti
dell'amministrazione (artt. 24 e 113 della Costituzione) ed al principio di eguaglianza tra cittadini
residenti in diverse regioni (art. 3 della Costituzione).
Il ricorrente censura l'art. 63, comma 2, nelle parti in cui, prevedendo che, qualora ricorrano
specifiche esigenze unitarie, l'organizzazione delle funzioni amministrative conferite agli enti locali
possa essere disciplinata con legge regionale, per assicurare requisiti essenziali di uniformità, violerebbe
la riserva di potestà regolamentare attribuita agli enti locali (art. 117, sesto comma, della Costituzione),
espropriandoli del potere di regolamentare l'organizzazione e lo svolgimento delle funzioni ad essi
attribuite, in violazione degli artt. 118 e 114 della Costituzione.
L'art. 64, comma 2, disponendo che «la legge disciplina, limitatamente ai profili coperti da riserva di
legge, i tributi propri degli enti locali, salva la potestà degli enti di istituirli» si porrebbe in contrasto con
l'art. 119 della Costituzione, stabilendo un rapporto tra fonti normative «che è invece solo uno di quelli
possibili, costituzionalmente rimessi alle valutazioni ed alle scelte del legislatore nazionale nel momento
in cui darà attuazione all'art.119 Cost.».
L'art. 70, comma 1, dispone che «gli organi di governo e il consiglio partecipano, nei modi previsti
dalla legge, alle decisioni dirette alla formazione e attuazione degli atti comunitari nelle materie di
competenza regionale» e perciò, secondo la difesa erariale, violerebbe l'art. 117, quinto comma, della
Costituzione, che riserva alla legge statale la disciplina della partecipazione delle Regioni alla
formazione ed attuazione degli atti comunitari.
L'art. 75, nel disciplinare il referendum abrogativo, siccome stabilisce, al comma 4, che «la proposta
di abrogazione soggetta a referendum è approvata se partecipa alla votazione la maggioranza dei votanti
alle ultime elezioni regionali e se ottiene la maggioranza dei voti validamente espressi», ad avviso del
ricorrente, lederebbe il principio di ragionevolezza, in quanto prevederebbe un quorum calcolato sulla
scorta di un criterio casuale e contingente, irrazionale ed in contrasto anche con l'art. 75 della
Costituzione.
2. — Le censure formulate dal ricorrente nei confronti dello statuto della Regione Toscana si
possono suddividere in due gruppi: quelle aventi ad oggetto proposizioni che rientrano tra i “Principi
generali” e le “Finalità principali” e quelle che invece riguardano norme specifiche dello statuto.
Ai fini delle questioni di legittimità costituzionale inerenti al primo gruppo di censure, appare
necessario innanzi tutto precisare la natura e la portata di queste proposizioni. Al riguardo va ricordato
che negli statuti regionali entrati in vigore nel 1971 -ivi compreso quello della Toscana- si rinvengono
assai spesso indicazioni di obiettivi prioritari dell'attività regionale ed anche in quel tempo si posero
problemi di costituzionalità di tali indicazioni, sotto il profilo della competenza della fonte statutaria ad
incidere su materie anche eccedenti la sfera di attribuzione regionale. Al riguardo, dopo avere
riconosciuto la possibilità di distinguere tra un contenuto “necessario” ed un contenuto “eventuale” dello
statuto (cfr. sentenza n. 40 del 1972), si è ritenuto che la formulazione di proposizioni statutarie del tipo
predetto avesse principalmente la funzione di legittimare la Regione come ente esponenziale della
collettività regionale e del complesso dei relativi interessi ed aspettative. Tali interessi possono essere
adeguatamente perseguiti non soltanto attraverso l'esercizio della competenza legislativa ed
amministrativa, ma anche avvalendosi dei vari poteri, conferiti alla Regione stessa dalla Costituzione e
da leggi statali, di iniziativa, di partecipazione, di consultazione, di proposta, e così via, esercitabili, in
via formale ed informale, al fine di ottenere il migliore soddisfacimento delle esigenze della collettività
stessa. In questo senso si è espressa questa Corte, affermando che l'adempimento di una serie di compiti
fondamentali «legittima, dunque, una presenza politica della regione, in rapporto allo Stato o anche ad
altre regioni, riguardo a tutte le questioni di interesse della comunità regionale, anche se queste sorgono
in settori estranei alle singole materie indicate nell'art. 117 Cost. e si proiettano al di là dei confini
territoriali della regione medesima» (sentenza n. 829 del 1988).
Il ruolo delle Regioni di rappresentanza generale degli interessi delle rispettive collettività,
riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale e dalla prevalente dottrina -e, per quanto riguarda la
Regione Toscana, dall'art. 1 dello statuto in esame- è dunque rilevante, anche nel momento presente, ai
fini «dell'esistenza, accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali, di altri possibili contenuti, sia
che risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti della Regione, sia che indichino aree di prioritario
intervento politico o legislativo» (sentenza n. 2 del 2004); contenuti che talora si esprimono attraverso
proclamazioni di finalità da perseguire. Ma la citata sentenza ha rilevato come sia opinabile la “misura
dell'efficacia giuridica” di tali proclamazioni; tale dubbio va sciolto considerando che alle enunciazioni
in esame, anche se materialmente inserite in un atto-fonte, non può essere riconosciuta alcuna efficacia
giuridica, collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse
sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell'approvazione dello statuto, come,
del resto, sostanzialmente riconosce la risoluzione n. 51 del Consiglio regionale della Toscana, deliberata
contestualmente all'approvazione definitiva dello statuto.
D'altra parte, tali proclamazioni di obiettivi e di impegni non possono certo essere assimilate alle c.d.
norme programmatiche della Costituzione, alle quali, per il loro valore di principio, sono stati
generalmente riconosciuti non solo un valore programmatico nei confronti della futura disciplina
legislativa, ma soprattutto una funzione di integrazione e di interpretazione delle norme vigenti. Qui però
non siamo in presenza di Carte costituzionali, ma solo di fonti regionali “a competenza riservata e
specializzata”, cioè di statuti di autonomia, i quali, anche se costituzionalmente garantiti, debbono
comunque “essere in armonia con i precetti ed i principi tutti ricavabili dalla Costituzione” (sentenza n.
196 del 2003).
Se dunque si accolgono le premesse già formulate sul carattere non prescrittivo e non vincolante
delle enunciazioni statutarie di questo tipo, ne deriva che esse esplicano una funzione, per così dire, di
natura culturale o anche politica, ma certo non normativa. Nel caso in esame, enunciazioni siffatte si
rinvengono nei diversi commi –tra cui in particolare quelli censurati- degli artt. 3 e 4 che non
comportano né alcuna violazione, né alcuna rivendicazione di competenze costituzionalmente attribuite
allo Stato e neppure fondano esercizio di poteri regionali. È quindi inammissibile il ricorso governativo
avverso le impugnate proposizioni dei predetti articoli, per la loro carenza di idoneità lesiva.
Pertanto vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale delle seguenti
disposizioni dello statuto della Regione Toscana: art. 3, comma 6, secondo il quale «la Regione
promuove, nel rispetto dei principi costituzionali, l'estensione del diritto di voto agli immigrati»; art. 4
comma 1, lettera h), il quale dispone che la Regione persegue, tra le finalità prioritarie, «il
riconoscimento delle altre forme di convivenza»; art. 4 comma 1, lettere l) e m), che, rispettivamente,
stabiliscono quali finalità prioritarie della Regione «il rispetto dell'equilibrio ecologico, la tutela
dell'ambiente e del patrimonio culturale, la conservazione della biodiversità, la promozione della cultura
del rispetto degli animali», nonché «la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico artistico e
paesaggistico»; art. 4 comma 1, lettere n), o) e p), che stabiliscono, quali finalità prioritarie della
Regione, «la promozione dello sviluppo economico e di un contesto favorevole alla competitività delle
imprese, basato sull'innovazione, la ricerca e la formazione, nel rispetto dei principi di coesione sociale e
di sostenibilità dell'ambiente», «la valorizzazione della libertà di iniziativa economica pubblica e privata,
del ruolo e della responsabilità sociale delle imprese», «la promozione della cooperazione come
strumento di democrazia economica e di sviluppo sociale, favorendone il potenziamento con i mezzi più
idonei».
3. — Tutto ciò premesso, in punto di merito occorre esaminare per prima la censura relativa all'art.
32, comma 2 dello statuto, nella parte in cui stabilisce che “il programma di governo è approvato entro
10 giorni dalla sua illustrazione”, in quanto, secondo il ricorrente, la predetta approvazione instaurerebbe
irragionevolmente, in violazione degli artt. 3 e 122, quinto comma, della Costituzione, tra Presidente e
Consiglio regionale un rapporto diverso rispetto a quello che dovrebbe conseguire all'elezione a suffragio
universale e diretto.
La questione non è fondata.
La formazione della Giunta regionale toscana si svolge secondo il seguente schema procedimentale:
1) il presidente della giunta entra direttamente in carica all'atto della proclamazione; 2) l'illustrazione del
programma e la designazione dei componenti della giunta avvengono nella prima seduta del consiglio; 3)
l'approvazione del programma avviene entro 10 giorni dalla sua illustrazione, ma il presidente nomina
“comunque”, decorso lo stesso termine, i componenti la giunta.
In questo quadro, la previsione dell'approvazione consiliare del programma di governo non appare
affatto incoerente rispetto allo schema elettorale “normale” accolto dall'art. 122, quinto comma, della
Costituzione, giacché la eventuale mancata approvazione consiliare può avere solo rilievo politico, ma
non determina alcun effetto giuridicamente rilevante sulla permanenza in carica del Presidente, della
giunta, ovvero sulla composizione di questa ultima. Non si può peraltro escludere che a questa situazione
possano seguire, ai sensi dell'art. 33 dello statuto, la approvazione di una mozione di sfiducia o anche le
dimissioni spontanee del presidente, ma in entrambe le ipotesi si verifica lo scioglimento anticipato del
consiglio, nel pieno rispetto del vincolo costituzionale del simul stabunt simul cadent (cfr. sentenze n.
304 del 2002 e n. 2 del 2004), il quale, oltre ad essere un profilo caratterizzante questo assetto di
governo, è indice della maggiore forza politica del Presidente, conseguente alla sua elezione a suffragio
universale e diretto. Sotto questo profilo quindi la norma denunciata non introduce alcuna significativa
variazione rispetto alla forma di governo “normale” prefigurata in Costituzione.
4. — Una seconda censura ha ad oggetto l'art. 54, commi 1 e 3, dello statuto nelle parti in cui
rispettivamente prevedono il diritto di accesso ai documenti amministrativi regionali senza obbligo di
motivazione ed escludono l'obbligo di motivazione degli atti amministrativi “meramente esecutivi”.
Secondo il ricorrente, infatti, tali norme violerebbero i principi di buon andamento dell'Amministrazione,
di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, oltre che di eguaglianza.
Le questioni non sono fondate.
La disposizione che stabilisce il diritto di accesso, senza obbligo di motivazione, ai documenti
amministrativi si conforma al principio costituzionale di imparzialità e di trasparenza dell'azione
amministrativa ed è altresì del tutto coerente con l'evoluzione del diritto comunitario. Inoltre va
considerato che la norma in esame, in quanto attinente ai principi fondamentali di organizzazione e di
funzionamento della Regione, rientra strettamente tra gli oggetti di disciplina statutaria e che anche nella
legislazione statale, ad esempio in materia di tutela ambientale, sono previste ipotesi di accesso ai
documenti amministrativi senza obbligo di motivazione.
In ogni caso va sottolineato che il comma 1 della disposizione in esame, contenendo un esplicito
riferimento al rispetto degli interessi costituzionalmente tutelati ed a modi di disciplina previsti dalla
legge, deve essere interpretato nel senso che la emananda legge di attuazione dovrà farsi carico di
prefigurare un procedimento che, nell'assicurare la trasparenza e l'imparzialità dell'azione
amministrativa, preveda, oltre ad ipotesi di esclusione dell'ostensibilità di documenti amministrativi per
ragioni di tutela di situazioni costituzionalmente garantite, anche criteri e modi in base ai quali l'interesse
personale e concreto del richiedente si contempera con l'interesse pubblico al buon andamento
dell'Amministrazione, nonché con l'esigenza di non vanificare in concreto la tutela giurisdizionale delle
posizioni di eventuali soggetti terzi interessati.
Parimenti infondata è la questione di costituzionalità del terzo comma dello stesso articolo, giacché
negli atti amministrativi che non abbiano natura provvedimentale in quanto “meramente esecutivi”, ai
fini della motivazione è ritenuto sufficiente dalla prevalente giurisprudenza il semplice richiamo, nelle
premesse dell'atto, ai presupposti di fatto ed alle disposizioni di legge da applicare, la cui enunciazione
rende pienamente comprensibili le ragioni dell'atto stesso.
5. — Un'altra censura riguarda l'art. 63, comma 2, dello statuto, nella parte in cui prevede che
l'organizzazione delle funzioni amministrative conferite agli enti locali, nei casi in cui risultino
specifiche esigenze unitarie, possa essere disciplinata con legge regionale per assicurare requisiti
essenziali di uniformità. La predetta norma, secondo il ricorrente, lederebbe la riserva di potestà
regolamentare attribuita dall'art. 117, sesto comma, della Costituzione agli enti locali, “espropriandoli”,
in violazione anche degli artt. 118 e 114 della Costituzione e del principio di leale collaborazione, del
potere di regolamentare organizzazione e svolgimento delle funzioni loro conferite dalla legge regionale.
La questione non è fondata.
L'art. 63, comma 2, in esame, che conferisce alla legge regionale la facoltà di disciplinare
organizzazione e svolgimento delle funzioni degli enti locali nei “casi in cui risultino specifiche esigenze
unitarie”, fa evidente riferimento alle varie ipotesi di applicazione del principio di sussidiarietà previste
dalla Costituzione. Si tratta cioè di una deroga rispetto al criterio generale accolto dal comma 1 dello
stesso articolo, il quale riserva alla potestà regolamentare degli enti locali la disciplina
dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni conferite. Ma tale deroga si inserisce nell'ambito
della previsione del sesto comma dell'art. 117, come attuato dall'art. 4, comma 4, della legge n. 131 del
2003, secondo cui la potestà regolamentare dell'ente locale in materia di organizzazione e svolgimento
delle funzioni si esplica nell'ambito delle leggi statali e regionali, che ne assicurano i requisiti minimi di
uniformità.
La previsione statutaria di un regime di riserva assoluta di legge regionale anziché relativa è infatti
ammissibile purché sia limitata, per non comprimere eccessivamente l'autonomia degli enti locali, ai soli
casi di sussistenza di “specifiche esigenze unitarie”, che possano giustificare, nel rispetto dei principi
indicati dall'art. 118, primo comma, della Costituzione, la disciplina legislativa regionale
dell'organizzazione e svolgimento delle funzioni “conferite”. Negando tale facoltà si perverrebbe, infatti,
all'assurda conclusione che, al fine di evitare la compromissione di precisi interessi unitari che postulano
il compimento di determinate attività in modo sostanzialmente uniforme, il legislatore regionale non
avrebbe altra scelta che allocare le funzioni in questione ad un livello di governo più comprensivo,
assicurandone così l'esercizio unitario. Il che sarebbe chiaramente sproporzionato rispetto al fine da
raggiungere e contrastante con lo stesso principio di sussidiarietà (cfr. sentenze nn. 43, 69, 112 e 172 del
2004).
Dovendosi in tal modo interpretare la norma denunciata, la questione è infondata.
6. — Un'ulteriore censura concerne l'art. 64, comma 2, dello statuto, nella parte in cui prevede che
“la legge disciplina, limitatamente ai profili coperti da riserva di legge, i tributi propri degli enti locali,
salva la potestà degli enti di istituirli”. Secondo il ricorrente la norma violerebbe l'art. 119 della
Costituzione, in quanto prevederebbe in materia un rapporto tra fonti normative “che è invece solo uno di
quelli possibili, costituzionalmente rimessi alle valutazioni ed alle scelte del legislatore nazionale nel
momento in cui darà attuazione all'art. 119 della Costituzione”.
La questione non è fondata.
La norma statutaria in esame riguarda il complesso tema dell'autonomia tributaria degli enti locali
nel quadro della nuova disciplina prevista dall'art. 119 della Costituzione, in relazione alla quale pare
opportuno riferirsi alla sentenza di questa Corte n. 37 del 2004. Secondo questa decisione, in
considerazione della riserva di legge prevista dall'art. 23 della Costituzione, che comporta la necessità di
disciplinare a livello legislativo almeno gli aspetti fondamentali dell'imposizione, ed in considerazione
anche del fatto che gli enti locali sub-regionali non sono titolari di potestà legislativa, deve essere
definito, da un lato, l'ambito di esplicazione della potestà regolamentare di questi enti e, dall'altro lato, il
rapporto tra legislazione statale e legislazione regionale per quanto attiene alla disciplina di grado
primario dei tributi locali. Al riguardo, sempre secondo la citata sentenza, si possono «in astratto
concepire situazioni di disciplina normativa sia a tre livelli (legislativa statale, legislativa regionale e
regolamentare locale), sia a due soli livelli (statale e locale, ovvero regionale e locale)».
Il modello seguito dalla disposizione citata è evidentemente quello a “due livelli”, cioè una disciplina
normativa dei tributi propri degli enti locali risultante dal concorso di fonti primarie regionali e
secondarie locali. Un ragionevole criterio di riparto tra questi due tipi di fonti deve attribuire alla fonte
regionale la definizione dell'ambito di autonomia entro cui la fonte secondaria dell'ente sub-regionale
può esercitare liberamente il proprio potere di autodeterminazione del tributo. In ogni caso, la norma
censurata deve essere interpretata nel senso che, in base all'art. 119, secondo comma, della Costituzione,
la legge regionale ivi prevista deve comunque attenersi ai principi fondamentali di coordinamento del
sistema tributario appositamente dettati dalla legislazione statale “quadro” o, in caso di inerzia del
legislatore statale, a quelli comunque desumibili dall'ordinamento. Proprio in questo senso, del resto, si é
espressa questa Corte nella citata sentenza n. 37 del 2004, sostenendo che il legislatore statale «dovrà
non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche (…) definire gli spazi
ed i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti
locali».
Così interpretata la disposizione denunciata non risulta sussistente il prospettato vizio di legittimità
costituzionale.
7. — Un'altra censura ha ad oggetto l'art. 70, comma 1, dello statuto, nella parte in cui prevede che
gli organi di governo ed il Consiglio regionale partecipano, nei modi previsti dalla legge, alla formazione
ed attuazione degli atti comunitari nelle materie di competenza regionale. Secondo il ricorrente la
disposizione violerebbe l'art. 117, quinto comma, della Costituzione, che attribuisce alla legge statale le
forme di partecipazione regionale alla formazione ed attuazione degli atti comunitari.
La questione non è fondata.
Nel quadro delle norme di procedura che la legge statale, di cui all'art. 117, quinto comma, della
Costituzione, determina in via generale ai fini della partecipazione delle Regioni alla formazione ed
attuazione degli atti comunitari, la disposizione statutaria impugnata prevede la possibilità che la legge
regionale stabilisca, a sua volta, uno specifico procedimento interno diretto a fissare le modalità
attraverso le quali si forma la relativa decisione regionale, nell'ambito dei criteri organizzativi stabiliti, in
sede attuativa, dall'art. 5 della citata legge n. 131 del 2003. In proposito può essere in qualche modo
indicativa la regolamentazione in materia già prevista dalla Regione Toscana con la legge 16 maggio
1994, n. 37 (Disposizioni sulla partecipazione della Regione Toscana al processo normativo comunitario
e sulle procedure relative all'attuazione degli obblighi comunitari), la quale stabilisce al riguardo le
diverse competenze del Consiglio e della Giunta regionale.
Sotto i profili prospettati, pertanto, la disposizione statutaria in esame non appare in contrasto con
l'art. 117, quinto comma, della Costituzione.
8. — L'ultima questione di legittimità costituzionale sollevata dal Governo riguarda l'art. 75, comma
4, dello statuto, nella parte in cui, ai fini dell'abrogazione referendaria di una legge o di un regolamento
regionale, è richiesto che partecipi alla votazione la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni
regionali. Tale norma sarebbe costituzionalmente illegittima in quanto contrasterebbe con il principio di
ragionevolezza, facendo riferimento ad un criterio casuale e contingente, oltre che irrazionale, nonché
con l'art. 75 della Costituzione.
La questione non è fondata.
In primo luogo va rilevato che non si può considerare principio vincolante per lo statuto la
determinazione del quorum strutturale prevista dall'art. 75 della Costituzione. La materia referendaria
rientra espressamente, ai sensi dell'art. 123 della Costituzione, tra i contenuti obbligatori dello statuto,
cosicché si deve ritenere che alle Regioni è consentito di articolare variamente la propria disciplina
relativa alla tipologia dei referendum previsti in Costituzione, anche innovando ad essi sotto diversi
profili, proprio perché ogni Regione può liberamente prescegliere forme, modi e criteri della
partecipazione popolare ai processi di controllo democratico sugli atti regionali.
Va infine osservato che non appare irragionevole, in un quadro di rilevante astensionismo elettorale,
stabilire un quorum strutturale non rigido, ma flessibile, che si adegui ai vari flussi elettorali, avendo
come parametro la partecipazione del corpo elettorale alle ultime votazioni del Consiglio regionale, i cui
atti appunto costituiscono oggetto della consultazione referendaria.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 3, comma 6, dello statuto
della Regione Toscana, approvato in prima deliberazione il 6 maggio 2004 e, in seconda deliberazione, il
19 luglio 2004, in riferimento agli articoli 48, 117, secondo comma, lettere f) e p), 121, secondo comma,
e 138 della Costituzione; dell'articolo 4, comma 1, lettera h), del predetto statuto, in riferimento agli
articoli 2, 3, 5, 29, 117, secondo comma, lettere i) e l), 123, primo comma, della Costituzione;
dell'articolo 4, comma 1, lettera l), del predetto statuto, in riferimento all'articolo 117, secondo comma,
lettera s), della Costituzione; dell'articolo 4, comma 1, lettera m), del predetto statuto, in riferimento agli
articoli 117, secondo comma, lettera s), e 118, terzo comma, della Costituzione; dell'articolo 4, comma 1,
lettere n), o) e p), del predetto statuto, in riferimento all'art 117, secondo comma, lettere e) e l), della
Costituzione, sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 32, comma 2, del predetto
statuto, in riferimento agli articoli 3 e 122, quinto comma, della Costituzione; dell'articolo 54, commi 1 e
3, del predetto statuto, in riferimento agli articoli 3, 24, 97 e 113 della Costituzione; dell'articolo 63,
comma 2, del predetto statuto, in riferimento agli articoli 114, 117, sesto comma, e 118 della
Costituzione; dell'articolo 64, comma 2, del predetto statuto, in riferimento all'articolo 119 della
Costituzione; dell'articolo 70, comma 1, del predetto statuto, in riferimento all'articolo 117, quinto
comma, della Costituzione; dell'articolo 75, comma 4, del predetto statuto, in riferimento agli articoli 3 e
75 della Costituzione, sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 novembre
2004.
F.to:
Valerio ONIDA, Presidente
Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 2 dicembre 2004.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 378/2004
Giudizio
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente ONIDA - Redattore DE SIERVO
Udienza Pubblica del 16/11/2004 Decisione del 29/11/2004
Deposito del 06/12/2004 Pubblicazione in G. U. 15/12/2004
Norme impugnate:
Massime:
28896 28897 28898 28899 28900 28901 28902 28903
Atti decisi:
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Regione umbria - Statuto - Ricorso proposto da un consigliere regionale di minoranza - Denunciata
violazione della procedura di approvazione determinata nella costituzione, richiedente l’adozione di due
delibere successive tra loro identiche, e censura nel merito della previsione di protezione delle
convivenze di fatto, nonché della disciplina sulla incompatibilità e sullo 'status' dei consiglieri regionali Carenza di legittimazione del ricorrente a sollevare questione di legittimità costituzionale Inammissibilità
del
ricorso.
T
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E’ inammissibile il ricorso proposto, da un Consigliere regionale, avverso la delibera statutaria della
Regione Umbria approvata dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile 2004 ed in seconda
deliberazione il 29 luglio 2004. Nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale,
infatti, i soggetti legittimati all’impugnativa sono determinati da fonti costituzionali, che individuano nel
Governo e nelle Giunte regionali gli organi che possono ricorrere in via principale alla Corte
c o s t i t u z i o n a l e .
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Umbria
statuto Regione Umbria art. 9
statuto Regione Umbria art. 66
Parametri costituzionali
Costituzione art. 3
Costituzione art. 29
Costituzione art. 30
Costituzione art. 31
Costituzione art. 67
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera l)
Costituzione art. 121
Costituzione art. 122
Costituzione art. 123
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Regione umbria - Statuto - Giudizio promosso dal governo - Intervento proposto da un consigliere
regionale di minoranza - Carenza di legittimazione del soggetto interveniente - Inammissibilità.
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E’ inammissibile l’intervento spiegato nel giudizio promosso in via principale da un Consigliere
regionale, in quanto in tali giudizi sono legittimati ad essere parti solo i soggetti titolari delle attribuzioni
legislative in contestazione, vale a dire, la Regione e lo Stato, quest’ultimo indicato dalla Costituzione
quale
unico
possibile
ricorrente.
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Regione umbria - Statuto - Proposizioni in materia di tutela della convivenza fuori del vincolo
matrimoniale - Ricorso del governo - Denunciata violazione dell’esclusivo potere statale nella materia
dell’ «ordinamento civile», disciplina eccedente dalla potestà statutaria regionale, violazione dei valori
costituzionali fondanti, ingiustificata disparità di trattamento dei singoli, lesione del principio di
unitarietà della repubblica - Enunciazioni prive di efficacia giuridica - Inammissibilità della questione.
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Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della delibera statutaria
il della regione Umbria approvata dal Consiglio regionale in prima deliberazione 2 aprile 2004 ed in
seconda deliberazione il 29 luglio 2004, nella parte in cui dispone che la Regione tutela “forme di
convivenza” ulteriori rispetto a quelle costituita dalla famiglia, per violazione degli artt. 2, 5, 29, 117,
secondo comma, lettera l), e 123 della Costituzione. Il ruolo di rappresentanza generale degli interessi
delle rispettive collettività, riconosciuto alle Regioni dalla giurisprudenza costituzionale, è rilevante e
giustifica l’esistenza, accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali, di altri possibili contenuti, sia
che risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti delle Regioni, sia che indichino aree di prioritario
intervento politico o legislativo, che si esprimono attraverso proclamazioni di finalità da perseguire. A
tali enunciazioni, tuttavia, anche se inserite in un atto-fonte, come nella specie, non può essere
riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse sul piano dei convincimenti espressivi delle
diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione dello statuto
ed esplicano una funzione di natura culturale o anche politica, ma non normativa. - Sentenze citate nn.
40/1972;
829/1988;
196/2003;
2/2004.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Umbria art. 9 co. 2
Parametri costituzionali
Costituzione art. 2
Costituzione art. 5
Costituzione art. 29
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera l)
Costituzione art. 123
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Regione umbria - Statuto - Regolamenti di delegificazione - Prevista adozione da parte della giunta
regionale previa autorizzazione con legge regionale - Ricorso del governo - Denunciato eccesso dalle
potestà attribuite al consiglio regionale, lesione del principio di separazione dei poteri tra organo
legislativo ed organo esecutivo della regione, incongruità della fonte regolamentare rispetto alle materie
legislative
di
tipo
concorrente
Non
fondatezza
della
questione.
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La norma impugnata si limita a riprodurre il modello dei regolamenti delegati, disciplinato, a livello
statale, dall’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, che imputa l’effetto abrogativo alla
legge che autorizza l’adozione del regolamento; mentre il regolamento determina soltanto il termine
iniziale dell’abrogazione stessa. Né l’adozione di tali regolamenti può alterare, nelle materie di
competenza concorrente, il rapporto fra normativa statale di principio e legislazione regionale, poiché la
stessa norma impugnata dispone che la legge di autorizzazione all’adozione del regolamento debba
contenere “le norme generali regolatrici della materia” nonché la clausola abrogativa delle disposizioni
vigenti; sicché, in relazione a tale legge potrà essere verificato il rispetto di riserve di legge regionale
esistenti nei differenziati settori. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale,
sollevata in riferimento agli artt. 117 e 121, dell’art. 39, comma 2, della delibera statutaria della Regione
Umbria approvata dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile 2004 ed in seconda
deliberazione il 29 luglio 2004, che prevede la possibilità per la Giunta regionale, previa autorizzazione
con
legge
regionale,
di
adottare
regolamenti
di
delegazione.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Umbria art. 39 co. 2
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 121
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o
Regione umbria - Statuto - Testo unico di disposizioni legislative - Prevista presentazione da parte della
giunta regionale al consiglio regionale di un progetto, previa legge regionale di autorizzazione - Ricorso
del governo - Denunciata lesione delle potestà degli organi regionali come configurate nella costituzione,
escludente deleghe e rinunce del potere legislativo, violazione del principio di separazione dei poteri tra
organo legislativo ed organo esecutivo - Non fondatezza della questione.
T
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t
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Ben può uno statuto regionale prevedere uno speciale procedimento legislativo diretto soltanto ad
operare sulla legislazione regionale vigente, a meri fini “di riordino e di semplificazione”. La norma
contestata prevede, infatti, che il Consiglio regionale conferisce alla Giunta un semplice incarico di
presentare all’Organo legislativo regionale, entro termini perentori, un progetto di testo unico delle
disposizioni di legge già esistenti in “uno o più settori omogenei”, che dovrà essere comunque approvato
dallo stesso Consiglio; mentre ogni modifica sostanziale della legislazione da riunificate spetta alla legge
regionale, con la conseguenza che la Giunta, nella sua opera di predisposizione del testo unico, non potrà
andare oltre al mero riordino ed alla semplificazione di quanto deliberato in sede legislativa dal
Consiglio regionale. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in
riferimento all’art. 121 della Costituzione, dell’art. 40 della delibera statutaria della Regione Umbria
approvata dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile 2004 ed in seconda deliberazione il
29 luglio 2004, che prevede la possibilità per la Giunta regionale di presentare al Consiglio progetti di
testo
unico
di
disposizioni
di
legge.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Umbria art. 40
Parametri costituzionali
Costituzione art. 121
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Regione umbria - Statuto - Incompatibilità della carica di componente della giunta con quella di
consigliere regionale - Ricorso del governo - Lesione della riserva di legge regionale, nei limiti dei
principi sanciti dalla legge statale, in materia di sistema di elezione, e di ineleggibilità e incompatibilità Illegittimità
costituzionale.
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E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 66, commi 1 e 2 della delibera statutaria della Regione Umbria
approvata dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile 2004 ed in seconda deliberazione il
29 luglio 2004, sollevata in riferimento all’art. 122, primo comma, della Costituzione, nelle parti in cui
prevede che la carica di componente della Giunta sia incompatibile con quella di consigliere regionale
(primo comma) e stabilisce che al consigliere regionale nominato membro della Giunta subentra il primo
dei candidati non eletti nella stessa lista e che il subentrante dura in carica per tutto il periodo in cui il
consigliere mantiene la carica di assessore. La disciplina dei soggetti cui si riferisce l’art. 122 della
Costituzione, infatti, non rientra nelle determinazioni lasciate all’autonomia statutaria ancorché le scelte
circa la incompatibilità fra incarico di componente la Giunta regionale e di componente del Consiglio
regionale possano essere originate da opzioni statutarie in tema di forma di governo della Regione. Sentenza
citata
n.
2/2004.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Umbria art. 66 co. 1
statuto Regione Umbria art. 66 co. 2
Parametri costituzionali
Costituzione art. 122 co. 1
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Regione umbria - Statuto - Incompatibilità della carica di componente della giunta con quella di
consigliere regionale - Ricorso del governo - Dichiarazione di illegittimità costituzionale - Estensione Illegittimità costituzionale in via consequenziale ('ex' art. 27, legge 11 marzo 1953, n. 87).
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La dichiarazione di illegittimità costituzionale deve essere estesa, ai sensi dell’art. 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87 – che è norma che esprime un principio di diritto processuale che è valido per tutte le
questioni di legittimità costituzionale previste dal Capo II della predetta legge n. 87 del 1953 -, anche al
terzo comma dell’art. 66 della delibera statutaria della Regione Umbria approvata dal Consiglio
regionale in prima deliberazione il 2 aprile 2004 ed in seconda deliberazione il 29 luglio 2004, che
prevede un ulteriore svolgimento di quanto disciplinato dal secondo comma.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Umbria art. 66 co. 3
Parametri costituzionali
Costituzione art. 122
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Regione umbria - Statuto - Prevista attribuzione alla commissione di garanzia della funzione di
esprimere pareri sulla conformità allo statuto delle leggi e dei regolamenti regionali - Ricorso del
governo - Denunciato conferimento del potere di sindacato successivo su leggi e regolamenti ad un
organo amministrativo, con violazione della forma di governo regionale e delle norme in tema di
garanzie
previste
nella
costituzione
Non
fondatezza
della
questione.
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La norma impugnata configura la disciplina della Commissione di garanzia statutaria nelle linee generali,
attribuendo ad essa un esplicito potere consultivo e prevedendo un’apposita legge regionale, che regolerà
analiticamente i poteri di tale organo nelle diverse fasi nelle quali sarà chiamato ad operare. Non è,
pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 121 e 134
della Costituzione, dell’art. 82 della delibera statutaria della Regione Umbria approvata dal Consiglio
regionale in prima deliberazione il 2 aprile 2004 ed in seconda deliberazione il 29 luglio 2004, nella parte
in cui attribuisce alla Commissione di garanzia la funzione di esprimere pareri sulla conformità allo
statuto
delle
leggi
e
dei
regolamenti
regionali.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Umbria art. 82
Parametri costituzionali
Costituzione art. 121
Costituzione art. 134
Pronuncia
SENTENZA N.378 ANNO 2004
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Valerio ONIDA; Giudici: Carlo MEZZANOTTE, Guido NEPPI
MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK,
Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio
FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 9, comma 2; 39, comma 2; 40; 66, comma 1 e 2
e 82 della deliberazione statutaria della Regione Umbria e dell'intera deliberazione statutaria approvata in
prima deliberazione il 2 aprile 2004 ed in seconda deliberazione il 29 luglio 2004, e pubblicata nel
B.U.R. n. 33 dell'11 agosto 2004, promossi con ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri e di
Carlo Ripa di Meana, consigliere regionale di minoranza della Regione Umbria, notificati il 9 e l'11
settembre 2004, depositati in cancelleria il 15 e il 20 successivi ed iscritti ai nn. 88 e 90 del registro
ricorsi 2004.
Visti gli atti di costituzione della Regione Umbria nonché l'atto di intervento, relativamente al ricorso
n. 88 del 2004, di Carlo Ripa di Meana consigliere regionale di minoranza della Regione Umbria;
udito nell'udienza pubblica del 16 novembre 2004 il Giudice relatore Ugo De Siervo;
uditi l'avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli
avvocati Giandomenico Falcon per la Regione Umbria e Urbano Barelli per il consigliere regionale
Carlo Ripa di Meana.
Ritenuto in fatto
1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, con ricorso notificato il 9 settembre 2004, depositato in data 15 settembre 2004 e iscritto al n. 88
nel registro ricorsi del 2004, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, ai sensi dell'art. 123,
secondo comma della Costituzione nei confronti della delibera statutaria della Regione Umbria
approvata dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile del 2004 ed in seconda deliberazione
il 29 luglio 2004. In particolare, di detta delibera statutaria vengono censurati: l'art. 9, comma 2; l'art. 39,
comma 2; l'art. 40; l'art. 66 commi 1 e 2; l'art. 82.
Premette la difesa erariale che la potestà statutaria delle Regioni, configurata dalle riforme
costituzionali del 1999 e del 2001 come una speciale fonte normativa regionale collocata in una
posizione privilegiata nella gerarchia delle fonti, è stata al tempo stesso però delimitata rigorosamente, al
fine di assicurare il rispetto del principio di legalità costituzionale. La Regione Umbria avrebbe
“ecceduto dalla propria potestà statutaria in violazione della normativa costituzionale”.
2. – In primo luogo l'Avvocatura censura l'art. 9, comma 2, della delibera statutaria il quale, nel
disporre che la Regione tutela “forme di convivenza” ulteriori rispetto a quella costituita dalla famiglia,
detterebbe una disciplina ambigua e di indiscriminata estensione. Essa nella misura in cui consente
l'adozione di “eventuali future previsioni normative regionali” concernenti i rapporti patrimoniali e
personali tra conviventi, nonché il loro status, violerebbe l'art. 117, secondo comma, lettera l), della
Costituzione.
Ove poi la norma intendesse esprimere qualcosa di diverso rispetto al rilievo sociale e alla dignità
giuridica, nei limiti previsti dalla legge dello Stato, della convivenza familiare, ovvero intendesse
“affermare siffatti valori” anche per le unioni libere e le relazioni tra soggetti dello stesso sesso, violando
i principî sanciti dagli artt. 29 e 2 della Costituzione, essa contrasterebbe con l'art. 123 della
Costituzione. Come affermato anche dalla giurisprudenza costituzionale, lo statuto regionale, infatti, non
solo dovrebbe essere conforme alle singole previsioni della Costituzione, ma non dovrebbe neppure
eluderne lo spirito. Il generico e indiscriminato riferimento alle forme di convivenza, specie se letto in
relazione all'art. 5 dello statuto, che afferma che la Regione concorre a rimuovere le discriminazioni
fondate sull'orientamento sessuale, comporterebbe “una incongrua e inammissibile dilatazione dell'area
delimitata dai valori fondanti dell'art. 2 Cost.”.
A monte, la norma impugnata contrasterebbe con l'art. 123 della Costituzione anche perché sarebbe
estranea ai contenuti necessari ed eccederebbe i limiti in cui altri contenuti sarebbero ammissibili, in
quanto non esprimerebbe alcun interesse proprio della comunità regionale, e comunque non potrebbe
affermare valori e principî diversi da quelli già espressi nella prima parte della Costituzione,
contrastando altrimenti con l'art. 5 della Costituzione e il principio di unitarietà della Repubblica ivi
affermato, creando altresì un'ingiustificata disparità di trattamento dei singoli.
3. – La difesa erariale censura poi l'art. 39, comma 2, e l'art. 40 della delibera statutaria, per
violazione degli art. 121, secondo comma, e 117, terzo comma, della Costituzione.
Le suddette norme – che prevedono rispettivamente la possibilità per la Giunta regionale, previa
autorizzazione con legge regionale, di adottare regolamenti di delegificazione e di presentare al
Consiglio progetti di testo unico di disposizioni di legge – contrasterebbero con il principio della
separazione dei poteri tra organo legislativo ed organo esecutivo. In mancanza di norme costituzionali
derogatorie, non sarebbero infatti ammissibili regolamenti di delegificazione, né deleghe legislative, e
neppure sarebbe possibile un'estensione analogica delle deroghe previste per la legislazione statale.
Nel ricorso si osserva anche che la possibilità riconosciuta dalla Corte con la sentenza n. 2 del 2004
di conferire al Consiglio regionale la potestà regolamentare, non autorizzerebbe pure la previsione
inversa del conferimento alla Giunta della potestà legislativa.
Inoltre, la fonte regolamentare sarebbe “incongruente” con le materie di competenza concorrente, dal
momento che inciderebbe sui principî stabiliti dalle leggi statali, ex art. 117, terzo comma, della
Costituzione.
L'art. 40 della delibera statutaria violerebbe il principio della separazione tra organo legislativo e
organo esecutivo anche in considerazione della circostanza che consentirebbe alla Giunta di disciplinare
materie di competenza legislativa senza che tale vizio possa ritenersi sanato dalla previsione della
approvazione finale del testo unico da parte del Consiglio, trattandosi di approvazione meramente
formale, senza potere di modifica del testo.
4. – Ancora, l'Avvocatura censura l'art. 66, commi 1 e 2, della delibera statutaria nella parte in cui
stabiliscono l'incompatibilità della carica di componente della Giunta con quella di consigliere regionale.
La norma, secondo il ricorrente, contrasterebbe con l'art. 122, primo comma, della Costituzione, che – ed
al riguardo viene invocata la sentenza n. 2 del 2004 di questa Corte – riserverebbe alla legge regionale,
nei limiti dei principî sanciti dalla legge statale, la individuazione dei casi di incompatibilità.
5. – Infine, la difesa erariale impugna l'art. 82, il quale attribuisce alla Commissione di garanzia la
funzione di esprimere pareri sulla conformità allo statuto delle leggi e dei regolamenti regionali.
Ove la norma, il cui tenore letterale – si osserva nel ricorso – non sarebbe chiaro, dovesse intendersi
nel senso che tale parere segua il compimento dell'attività normativa, conferirebbe ad un organo
amministrativo un inammissibile potere di sindacare le leggi e i regolamenti già adottati dai competenti
organi regionali, in violazione degli artt. 121 e 134 della Costituzione.
6. – Si è costituita in giudizio la Regione Umbria, la quale ha chiesto che il ricorso proposto dal
Presidente del Consiglio dei ministri sia dichiarato inammissibile e infondato, riservandosi di illustrare in
una successiva memoria le argomentazioni a sostegno delle proprie difese.
7. – Il consigliere regionale della Regione Umbria, Carlo Ripa di Meana, ha spiegato atto di
intervento nel giudizio chiedendo che, ove “preliminarmente si accerti l'esistenza giuridica dello statuto”,
ne sia dichiarata l'illegittimità costituzionale.
In ordine alla legittimazione ad intervenire, si afferma che essa sarebbe implicita nel sistema
costituzionale, dovendosi considerare il consigliere regionale dissenziente un soggetto
costituzionalmente qualificato a tal fine, in quanto dotato di una diversa ed autonoma posizione derivante
dall'eccezionale carattere preventivo della impugnazione dello statuto rispetto alla sua promulgazione, e
dal fatto che, dovendo la decisione della Corte essere recepita dal Consiglio regionale, essa
condizionerebbe la promulgazione stessa dello statuto. Fintanto che lo statuto non sia promulgato, la
fattispecie non potrebbe dirsi “perfetta” e lo statuto non sarebbe imputabile alla Regione, ma solo alla
maggioranza consiliare. Proprio questo elemento evidenzierebbe la differente posizione del consigliere
regionale di minoranza e giustificherebbe la sua legittimazione ad intervenire nel giudizio avanti alla
Corte costituzionale.
Inoltre, poiché per il principio maggioritario la volontà della maggioranza è imputata all'intero
collegio, il componente dissenziente avrebbe un interesse particolare al rispetto delle norme
procedimentali che conducono a tale imputazione e che nel caso della approvazione dello statuto
consisterebbero in primo luogo nella necessaria conformità delle due deliberazioni. La legittimazione del
consigliere interveniente, nel caso di specie, deriverebbe anche dalla circostanza secondo la quale con
tale intervento si intende far valere proprio una presunta violazione di questa regola.
Tale violazione, peraltro, sarebbe comunque rilevabile d'ufficio dalla stessa Corte, in quanto
impedirebbe il perfezionamento della fattispecie procedimentale di cui all'art. 123 della Costituzione e
dunque l'imputazione dello statuto al Consiglio regionale e alla Regione.
Infine, il mancato riconoscimento della legittimazione del consigliere di minoranza significherebbe
rimettere soltanto al Governo e al Presidente della Giunta regionale, ed alle loro valutazioni di
opportunità politica, la tutela “dell'interesse al rispetto della legalità costituzionale”. Inoltre, l'esclusione
dal contraddittorio del consigliere dissenziente, “titolato all'intervento proprio dal principio
rappresentativo” costituirebbe un'inammissibile lesione della doverosa armonia con la Costituzione di cui
all'art. 123 della Costituzione.
8. – Nel merito il consigliere interveniente sostiene che nell'adozione dello statuto della Regione
Umbria sarebbe stato violato il procedimento di cui all'art. 123, secondo comma, della Costituzione, dal
momento che la seconda deliberazione con la quale è stato approvato lo statuto in data 29 luglio 2004,
non sarebbe eguale a quella precedente del 2 aprile 2004.
La diversità riguarderebbe l'art. 9 della delibera statutaria di cui sarebbe stata sostituita la rubrica (da
“Comunità familiare” a “Famiglia. Forme di convivenza”), modificato il testo ed inoltre scomposto
l'originario unico comma in due commi. Il risultato di tali modificazioni – introdotte come “correzioni
formali” – avrebbe avuto effetti sostanziali, comportando la separazione della tutela delle forme di
convivenza, previste nel secondo comma della norma, dal riconoscimento dei diritti della famiglia,
oggetto del primo comma, e la “attribuzione di carattere aggiuntivo alla tutela della convivenza”,
espressa mediante l'avverbio “altresì”, introdotto nel comma 2. In tal modo, come risulterebbe dal
dibattito svoltosi in Consiglio regionale, si sarebbe voluto venire incontro alle proteste di quanti
affermavano esservi una equiparazione della convivenza alla famiglia legittima in violazione dell'art. 29
Cost. Inoltre, attraverso la soppressione del riferimento alla “varietà” delle forme di convivenza prevista
nel testo approvato in prima deliberazione, si sarebbe tenuto conto delle “proteste di quanti ravvisavano
nella previsione una tutela anche delle convivenze omosessuali”. Poiché dunque le correzioni avrebbero
modificato la sostanza della previsione originaria, con la seconda deliberazione vi sarebbe stato “un
diverso volere legislativo” e non si sarebbe realizzato l'atto complesso previsto dall'art.123 della
Costituzione, con conseguente e diretta violazione della norma costituzionale, di talché mancherebbe
l'oggetto del processo, e la Corte non potrebbe giudicare della legittimità di un atto che non esiste.
Peraltro, osserva ancora l'interveniente, ove tale nodo non venisse sciolto adesso, esso si
ripresenterebbe al momento della promulgazione dello statuto, non potendo questa avvenire in mancanza
del riscontro di regolarità del procedimento e dell'esistenza della legge che, nel caso in esame, non
sussisterebbe.
9. – In via subordinata, l'interveniente afferma di condividere i rilievi di costituzionalità sollevati nel
ricorso del Governo, dei quali si ribadisce ampiamente la fondatezza.
10. – In prossimità dell'udienza pubblica, la Regione Umbria ha depositato una memoria nella quale
contesta le censure formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso la delibera statutaria
impugnata.
Infondati sarebbero innanzitutto i rilievi mossi nei confronti dell'art. 9, comma 2, concernente la
tutela di forme di convivenza. Tale norma avrebbe infatti natura meramente programmatica e
legittimamente potrebbe essere inserita nello statuto, accanto ai contenuti necessari dello stesso, in
quanto essa non fonderebbe alcun potere ulteriore della Regione, rispetto a quelli ad essa conferiti dalla
Costituzione.
La previsione dell'art. 9, comma 2, costituirebbe infatti esercizio dell'autonomia politica,
pacificamente riconosciuta alle Regioni, le quali ben potrebbero seguire indirizzi diversi da quelli dello
Stato, pur nel rispetto dei limiti costituzionali imposti ai poteri regionali, senza perciò violare l'art. 5
Cost. Anche la Corte costituzionale avrebbe riconosciuto alle Regioni il ruolo di enti esponenziali delle
comunità a ciascuna di esse facenti capo: tale ruolo legittimerebbe la possibilità di partecipare a tutte le
questioni di interesse della comunità regionale, anche se queste sorgono in settori estranei alle materie
attribuite dall'art. 117 alla competenza regionale e si proiettino oltre i confini territoriali della Regione (al
riguardo la difesa regionale richiama la sentenza di questa Corte n. 829 del 1988).
La censura in questione sarebbe pertanto inammissibile, poiché l'art. 9, comma 2, della delibera
statutaria, così interpretata, non avrebbe un effettivo contenuto normativo e quindi non avrebbe alcuna
idoneità lesiva.
Errata sarebbe poi l'affermazione secondo cui essa non esprimerebbe alcun interesse proprio della
comunità regionale, dal momento che la norma tutelerebbe forme di convivenza di persone che vivono
nella Regione.
Quanto ai motivi di impugnazione concernenti la violazione dell'art. 29 Cost., la Regione osserva che
il particolare valore riconosciuto da tale norma alla famiglia fondata sul matrimonio, non implicherebbe
necessariamente che forme di convivenza diverse non possano comunque essere tutelate. D'altra parte, il
diverso valore riconosciuto a tali forme di convivenza risulterebbe evidente dalla diversa formulazione
dei due commi dell'art. 9.
La norma statutaria, dunque, porrebbe un obiettivo legittimo che potrebbe essere attuato in modo
conforme all'ordinamento e con riferimento a forme di convivenza diverse da quelle tra persone dello
stesso sesso, su cui invece si incentrano le censure del ricorso statale. Semmai un problema di legittimità
potrebbe porsi con riguardo a leggi regionali che in concreto dovessero intervenire a tutela di tale tipo di
convivenza.
11. – Anche la censura concernente l'art. 39 dello statuto sarebbe infondata.
Non sarebbe pertinente lamentare la violazione del principio di separazione dei poteri in quanto
l'abrogazione delle norme legislative sarebbe comunque disposta non dal regolamento di delegificazione,
ma dalla legge. Inoltre l'ammissibilità dei regolamenti di delegificazione a livello regionale sarebbe
ormai pacificamente ammessa dalla dottrina. Sotto altro profilo, poi, disposizione analoga a quella
censurata sarebbe contenuta nell'art 43 dello statuto della Regione Calabria, disposizione quest'ultima
non impugnata dal Governo.
12 – Analogamente sarebbe da respingere la censura avverso l'art. 40 della delibera statutaria, dal
momento che esso non prevederebbe alcuna delega legislativa e che l'approvazione finale da parte del
Consiglio con le sole dichiarazioni di voto non contrasterebbe con l'art. 121 della Costituzione che, a
differenza dell'art. 72 della Costituzione, non prevede l'esame in commissione e l'approvazione articolo
per articolo. D'altra parte, la previsione di una procedura spedita di approvazione del testo unico ben si
giustificherebbe per il carattere non innovativo dell'atto legislativo in questione. Infine la difesa regionale
evidenzia ancora come analoga norma contenuta nello statuto della Regione Calabria (art. 44) non sia
stata impugnata dal Governo.
13. – La Regione Umbria sostiene che anche la censura mossa avverso l'art. 66 sarebbe infondata,
dal momento che la incompatibilità della carica di componente della Giunta con quella di componente
del Consiglio non atterrebbe alla materia elettorale, bensì alla disciplina della forma di governo
regionale. Ad avviso della difesa regionale, non tutte le cause di incompatibilità avrebbero la medesima
ratio: mentre le incompatibilità “esterne”, quale, ad esempio, quella tra appartenenza al Consiglio o alla
Giunta regionale e appartenenza al Parlamento, avrebbero la funzione di garantire l'effettività e
l'imparzialità dello svolgimento della funzione, le incompatibilità “interne”, quale appunto quella
prevista dalla norma censurata, atterrebbero al modo di conformare i rapporti tra gli organi fondamentali
della Regione.
14. – “Radicalmente infondata” sarebbe infine la censura mossa nei confronti dell'art. 82 della
delibera statutaria che disciplina la Commissione di garanzia. Il potere conferito a tale organo sarebbe
meramente consultivo e facoltativo; inoltre l'unica conseguenza di un suo parere negativo sarebbe solo il
dovere per l'organo competente di riesaminare l'atto per la sua riapprovazione, peraltro senza
maggioranze qualificate (d'altra parte, la previsione della necessità di una riapprovazione della legge o
del regolamento rientra sicuramente nella competenza statutaria). La Commissione di garanzia, dunque,
assicurerebbe solo un controllo interno per meglio garantire la legittimità delle fonti regionali. Sarebbe
comunque sempre rispettata la competenza legislativa del Consiglio e il potere di sindacato della Corte
costituzionale.
15. – Con ricorso notificato in data 11 settembre 2004, depositato il 20 settembre 2004, e iscritto al
n. 90 del registro ricorsi del 2004, il consigliere regionale Carlo Ripa di Meana ha chiesto che sia
dichiarata l'illegittimità costituzionale, ovvero la nullità o l'inesistenza della delibera statutaria della
Regione Umbria.
Sostiene preliminarmente il ricorrente che tale delibera statutaria sarebbe stata approvata in
violazione del procedimento previsto dall'art. 123 Cost., in quanto mancherebbe la doppia delibera
conforme e che ciò sarebbe avvenuto con la contrarietà espressa dello stesso ricorrente.
Il consigliere afferma di aver denunciato tale vizio alla Presidenza del Consiglio dei ministri, la
quale, asseritamente per ragioni politiche, non avrebbe incluso tra i motivi del ricorso presentato avverso
la delibera statutaria della Regione Umbria anche il vizio procedimentale suddetto.
16. – In ordine alla legittimazione di un consigliere regionale di minoranza a ricorrere alla Corte
costituzionale, il ricorrente osserva che essa sarebbe implicita nel sistema costituzionale per una pluralità
di ragioni.
Al riguardo – oltre ad alcune argomentazioni già riportate a proposito del menzionato atto di
intervento nel giudizio instaurato dal ricorso del Governo – si evidenzia come l'ammissibilità del ricorso
deriverebbe anche dalla circostanza che nella forma di governo regionale mancherebbe un potere neutro
quale quello del Presidente della Repubblica, che possa rinviare al Parlamento le leggi sospette di
incostituzionalità. Proprio l'attribuzione al massimo esponente della maggioranza politica, cioè al
Presidente della Giunta, del potere di promulgazione delle leggi, renderebbe necessario riconoscere il
potere di ricorrere alla Corte ai soggetti portatori dell'interesse concreto al rispetto delle norme
costituzionali.
In senso inverso, del resto, non potrebbe essere invocata la previsione del referendum confermativo,
data la sua natura di strumento politico e non di riesame giuridico.
In definitiva, se non si riconoscesse al consigliere il potere di ricorrere avverso lo statuto, in via
surrogatoria, suppletiva e successiva, l'interesse al rispetto della legalità costituzionale non sarebbe
pienamente tutelato, ma rimesso ad una valutazione di mera opportunità politica del Governo.
Infine, il ricorrente chiede che la Corte, “ove occorra”, dichiari d'ufficio, ex art. 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 31 della stessa legge, come modificato dalla
legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3), nella parte in cui non riconosce la legittimazione a ricorrere
del consigliere regionale che non ha votato per l'approvazione dello statuto.
17. – Quanto alle specifiche censure, il ricorrente lamenta innanzitutto la violazione dell'art.123 della
Costituzione e del procedimento ivi previsto, dal momento che la seconda deliberazione con cui è stato
approvato lo statuto in data 29 luglio 2004, non sarebbe conforme a quella precedente del 2 aprile 2004,
secondo motivazioni identiche a quelle esposte nell'atto di intervento relativo al ricorso del Governo e
sintetizzate al precedente punto 7.
18. – Il ricorrente censura inoltre l'art. 66 della delibera statutaria nella parte in cui dispone che la
carica di componente della Giunta è incompatibile con quella di consigliere regionale e che al consigliere
nominato membro della Giunta subentra il primo dei candidati non eletti nella stessa lista, nonché nella
parte in cui prevede che il subentrante dura in carica per il periodo in cui il consigliere mantiene la carica
di assessore.
Innanzitutto la norma violerebbe l'art. 122, primo comma, della Costituzione in quanto introdurrebbe
la figura del consigliere regionale supplente o subentrante non prevista dalla norma costituzionale, la
quale affida alla legge statale il compito di stabilire i principî fondamentali circa le incompatibilità dei
consiglieri regionali. Risulterebbero violati, inoltre, l'art. 67 della Costituzione, in quanto la previsione in
esame contraddirebbe il divieto di mandato imperativo, nonché l'art. 3 Cost., dal momento che il
consigliere “reggente” avrebbe uno status differenziato, con minori garanzie, rispetto al titolare. Egli,
infatti, non godendo della inamovibilità, potrebbe essere sempre sostituito ove il supplito tornasse alla
sua originaria funzione di consigliere. In tal modo, però, la revoca del consigliere supplente sarebbe
operata non dal corpo elettorale e alla fine del mandato – come imporrebbe il principio sancito dall'art.
67 Cost. – ma dall'esecutivo regionale cioè dall'organo sottoposto al controllo politico del Consiglio, così
che “il controllato potrebbe rimuovere a piacimento (…) il controllore”. Per di più, il mandato del
consigliere supplente sarebbe interrotto, così “spezzando lo stesso rapporto di rappresentanza politica”.
19. – Da ultimo, il ricorrente censura l'art. 9 della delibera statutaria per violazione dell'articolo 29
della Costituzione, il quale non ammetterebbe “forme di tutela della famiglia se non è basata sul
matrimonio, religioso o civile”, nonché degli artt. 30 e 31 della Costituzione. La previsione della tutela
delle forme di convivenza non si limiterebbe a riconoscere una libertà, ma impegnerebbe la Regione ad
agire attivamente a protezione della convivenza di fatto “con l'effetto di una parificazione alla famiglia di
diritto”.
La norma inoltre “usurperebbe” le competenze statali, trattandosi di questione inerente alla materia
dell'ordinamento civile, di esclusiva spettanza legislativa dello Stato, secondo quanto previsto dall'art.
117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.
20. – Si è costituita in giudizio la Regione Umbria, la quale ha chiesto che il ricorso proposto dal
consigliere Ripa di Meana sia dichiarato inammissibile e infondato, riservandosi di illustrare in una
successiva memoria le argomentazioni a sostegno delle proprie difese.
21. – Il ricorrente Carlo Ripa di Meana in prossimità dell'udienza ha depositato una memoria nella
quale ha eccepito il difetto di legittimazione processuale del Presidente della Regione Umbria a
costituirsi nel giudizio. La sua costituzione sarebbe avvenuta infatti sine titulo, in quanto non sarebbe
stata preceduta da una delibera del Consiglio regionale, unico soggetto legittimato, a parere del
ricorrente, a decidere se resistere o meno al ricorso.
Le ragioni di tale esclusiva legittimazione sarebbero individuabili nel fatto che il giudizio
costituzionale ex articolo 123 della Costituzione, pur avendo le forme del giudizio in via principale, si
discosterebbe da questo, in quanto avrebbe una valenza infraprocedimentale e preventiva: in tale fase la
delibera statutaria sarebbe imputabile solo al Consiglio regionale e pertanto la valutazione circa la
costituzione in giudizio del Presidente della Giunta non potrebbe sostituire quella del Consiglio.
22. – Anche la Regione Umbria ha depositato una memoria, nella quale sostiene in primo luogo la
totale inammissibilità del ricorso proposto dal consigliere Ripa di Meana per difetto assoluto di
legittimazione. L'art. 137 della Costituzione, infatti, porrebbe una riserva di legge costituzionale per la
individuazione dei soggetti legittimati ad instaurare un giudizio di legittimità costituzionale, con la
conseguenza che sarebbe esclusa ogni possibilità di impugnazione da parte di soggetti non espressamente
contemplati. Lo Stato sarebbe l'unico legittimato a ricorrere in via diretta contro lo statuto e le leggi
regionali, come risulterebbe confermato anche dalla giurisprudenza costituzionale che ha affermato la
tassatività delle norme costituzionale in materia ed ha anche escluso nei giudizi in via principale
l'intervento di soggetti terzi. D'altra parte, se lo statuto, come afferma il ricorrente, fosse nullo, qualunque
giudice potrebbe disapplicarlo, senza bisogno di ricorrere alla Corte.
23. – Quanto alla difformità tra le due delibere lamentata dal ricorrente, essa sarebbe inesistente,
trattandosi di diversità meramente formali. Mentre nessuna rilevanza assumerebbe l'intenzione dei
redattori, le modifiche della rubrica dell'art. 9 avrebbe valore meramente esplicativo del contenuto della
disposizione; la scomposizione della norma in due commi non avrebbe implicazioni sostanziali;
l'aggiunta della parola “altresì” sarebbe semplice conseguenza della scomposizione e la soppressione
delle parole “le varie”, riferito a “forme di convivenza”, non avrebbe valore sostanziale poiché
l'espressione usata sarebbe comunque generica e non escluderebbe alcun tipo di convivenza. In
subordine, osserva la difesa regionale, la difformità riguarderebbe comunque solo l'art. 9 e non l'intero
statuto.
24 – Infondata sarebbe anche la censura secondo la quale l'art. 66 della delibera statutaria avrebbe
introdotto una ipotesi di incompatibilità non prevista ai sensi dell'art. 122 della Costituzione. Infatti la
legge 2 luglio 2004, n. 165 (Disposizioni di attuazione dell'art. 122, primo comma, della Costituzione),
prevede espressamente la eventuale sussistenza di una causa di incompatibilità tra assessore e consigliere
regionale. La difesa regionale inoltre ribadisce la diversità di tale ipotesi di incompatibilità rispetto alle
altre, e sostiene che quella censurata atterrebbe alla disciplina della “forma di governo” pienamente
rientrante nella competenza statutaria.
Quanto alla lamentata violazione dell'art. 67 della Costituzione, si nega che l'impugnato art. 66,
comma 2, configuri una sorta di potere di revoca del consigliere subentrante a quello nominato assessore.
Il consigliere subentrante sarebbe consigliere regionale a tutti gli effetti e senza limitazioni, seppure con
la possibilità che il suo mandato venga a cessare in conseguenza del rientro dell'assessore: peraltro la
cessazione dalla carica di componente della Giunta non potrebbe trasformarsi in una sorta di strumentale
revoca da parte del Presidente della Giunta, al solo fine di estromettere il consigliere subentrato e
divenuto sgradito, poiché verrebbe fatta valere la responsabilità politica del Presidente.
25. – Quanto, infine, alle censure mosse avverso l'art. 9 della delibera statutaria, la difesa regionale,
dopo aver rilevato che lo stesso consigliere avrebbe presentato in commissione un emendamento volto ad
inserire nella norma l'espressione “e promuove il riconoscimento delle diverse forme di convivenza”,
osserva che la critica mossa dal ricorrente sarebbe ancor più radicale di quella del Governo. Si
contesterebbe, infatti, la legittimità della tutela di qualsiasi forma di convivenza non fondata sul
matrimonio, e dunque anche di quelle more uxorio, che oramai rilevano per l'ordinamento statale. Il
ricorso inoltre si fonderebbe sull'equivoco di ritenere che la norma equipari la famiglia fondata sul
matrimonio alle altre forme di convivenza, mentre così non sarebbe.
Infine, la difesa regionale ripropone le medesime argomentazioni svolte con riguardo a tale norma
nella memoria depositata nel giudizio promosso dallo Stato (sintetizzate al precedente punto 10).
Considerato in diritto
1. – Il Governo ha sollevato questione di legittimità costituzionale, ai sensi dell'articolo 123, secondo
comma, della Costituzione, degli artt. 9, comma 2; 39, comma 2; 40; 66, commi 1 e 2; 82 dello statuto
della Regione Umbria, approvato dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile del 2004 ed in
seconda deliberazione il 29 luglio 2004, in riferimento agli artt. 2; 5; 29; 117, secondo comma, lettera l);
117, terzo comma; 121; 122, primo comma; 123; 134, della Costituzione nonché al principio della
separazione dei poteri.
L'art. 9, comma 2, viene impugnato nella parte in cui, avendo il primo comma dell'art. 9 riconosciuto
i diritti della famiglia e previsto l'adozione di ogni misura idonea a favorire l'adempimento dei compiti
che la Costituzione le affida, dispone che la Regione tutela forme di convivenza, in quanto consentirebbe
l'adozione di “eventuali future previsioni normative regionali” concernenti i rapporti patrimoniali e
personali tra i conviventi. Ciò in violazione dell'esclusivo potere statale riconosciuto dall'articolo 117,
secondo comma, lettera l) della Costituzione, nella materia dell' “ordinamento civile”.
Al tempo stesso, ove la norma intendesse affermare la rilevanza giuridica delle forme di convivenza
estranee alla famiglia al di là di quanto disciplinato dalla legislazione statale, violerebbe gli articoli 29, 2
e 5 della Costituzione, nonché lo stesso articolo 123 della Costituzione, in quanto questa disciplina
eccederebbe i contenuti ammissibili degli statuti regionali.
L'art. 39, comma 2, il quale prevede che la Giunta regionale possa, previa autorizzazione da parte di
apposita legge regionale, adottare regolamenti di delegificazione, violerebbe l'articolo 121, secondo
comma, della Costituzione ed il principio di separazione dei poteri tra organo legislativo ed organo
esecutivo della regione, che non consentirebbero l'adozione di regolamenti di delegificazione; sarebbe
violato, inoltre, l'art. 117 della Costituzione, in quanto la fonte regolamentare sarebbe incongruente
rispetto alle materie legislative di tipo concorrente, nelle quali i principî fondamentali fissati dal
legislatore statale dovrebbero essere attuati in via legislativa.
L'art. 40, invece, prevedendo che la Giunta regionale, previa legge regionale di autorizzazione,
presenti al Consiglio regionale progetti di testo unico di disposizioni legislative, soggetti solo alla
approvazione finale del Consiglio, violerebbe l'art. 121 Cost., nonché il principio di separazione dei
poteri tra organo legislativo ed organo esecutivo della regione, che non consentirebbero deleghe
legislative, né rinunce sostanziali all'esercizio del potere legislativo da parte del Consiglio regionale.
L'art. 66, commi 1 e 2, è censurato nella parte in cui stabilisce l'incompatibilità della carica di
componente della Giunta con quella di consigliere regionale, per violazione dell'articolo 122, primo
comma, della Costituzione, che riserva alla legge regionale l'individuazione dei casi di incompatibilità,
nei limiti dei principî sanciti dalla legge statale.
L'art. 82, il quale attribuisce alla Commissione di garanzia la funzione di esprimere pareri sulla
conformità allo statuto delle leggi e dei regolamenti regionali, violerebbe gli articoli 121 e 134 della
Costituzione, in quanto, ove la disposizione impugnata dovesse intendersi nel senso che tale parere segua
il compimento dell'attività normativa, conferirebbe ad un organo amministrativo il potere di sindacare le
leggi ed i regolamenti adottati dai competenti organi regionali.
2. – Il consigliere regionale Carlo Ripa di Meana ha sollevato questione di legittimità costituzionale
della delibera statutaria nella sua interezza, in quanto sarebbe stata violata la procedura determinata
dall'articolo 123 della Costituzione per l'approvazione dello statuto. Lo stesso consigliere ha impugnato
singolarmente gli articoli 9 e 66 della delibera statutaria, in riferimento agli artt. 3; 29; 30; 31; 67; 117,
secondo comma, lettera l); 121; 122; 123 della Costituzione.
La richiesta di dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'intera delibera statutaria o quanto meno del
suo art. 9 è motivata in ragione delle modifiche che sarebbero state apportate a questo articolo prima
della votazione finale, giustificate dagli organi del Consiglio regionale sulla base di esigenze di
coordinamento formale, e che avrebbero invece introdotto innovazioni sostanziali, che avrebbero pesato
sullo stesso voto finale; da ciò la violazione dell'articolo 123 della Costituzione che, ai fini
dell'approvazione dello statuto regionale, richiede l'adozione di due delibere successive tra loro
identiche.
Nel merito l'art. 9 violerebbe gli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione, in quanto impegnerebbe la
Regione ad agire attivamente a protezione delle convivenze di fatto, in contrasto con la norma
costituzionale che non ammette forme di tutela della famiglia se non è basata sul matrimonio, religioso o
civile. Inoltre questa disposizione violerebbe l'art. 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione, in
quanto “usurperebbe” le competenze statali in materia di ordinamento civile.
L'art. 66, primo comma, è censurato nella parte in cui prevede che la carica di componente della
Giunta sia incompatibile con quella di consigliere regionale, in quanto violerebbe l'art. 122, primo
comma della Costituzione, il quale affida alla legge statale il compito di stabilire i principî fondamentali
in materia di incompatibilità dei consiglieri regionali.
L'art. 66, secondo comma, disponendo che al consigliere regionale nominato membro della Giunta
subentra il primo dei candidati non eletti nella stessa lista e che il subentrante dura in carica per tutto il
periodo in cui il consigliere mantiene la carica di assessore, violerebbe l'articolo 67 della Costituzione ed
il principio del divieto di mandato imperativo, in quanto il consigliere supplente sarebbe soggetto a
revoca ad opera del supplito e dunque dell'organo esecutivo regionale, e durante il corso della legislatura.
Questa norma, prevedendo minori garanzie per il consigliere supplente rispetto a quello ordinario,
violerebbe anche l'art. 3; sarebbero pure violati gli artt. 121, 122 e 123 della Costituzione in quanto la
disposizione impugnata determinerebbe l'esistenza di categorie diverse di consiglieri regionali; inoltre si
introdurrebbe un meccanismo attraverso il quale potrebbero entrare nel Consiglio diversi candidati non
eletti dal corpo elettorale.
3. – In via preliminare va dichiarato inammissibile il ricorso avverso la delibera statutaria presentato
dal consigliere regionale Carlo Ripa di Meana.
L'impugnativa in via principale per motivi di costituzionalità delle leggi e degli statuti regionali è
determinato da fonti costituzionali, secondo quanto reso palese dagli articoli 123 e 127 della
Costituzione, nonché dall'articolo 2 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di
legittimità costituzionale e sulle garanzie di indipendenza della Corte costituzionale), che individuano
soltanto nel Governo e nelle Giunte regionali gli organi che possono ricorrere in via principale alla Corte
costituzionale; ciò è confermato dal primo comma dell'articolo 137 della Costituzione, secondo il quale
“una legge costituzionale stabilisce le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di
legittimità costituzionale (…)”. Né le caratteristiche del nuovo procedimento di approvazione dello
statuto regionale – quale risulta in seguito alle modifiche introdotte dalla legge costituzionale n. 1 del
1999 – possono fondare alcun potere dei consiglieri regionali di impugnativa della delibera statutaria.
Ulteriore argomento in tal senso è individuabile nella circostanza secondo la quale nel periodo di
applicazione dell'articolo 127 nella formulazione precedentemente vigente, con cui l'attuale articolo 123
della Costituzione condivide la caratteristica di un giudizio in via principale su un testo legislativo non
ancora promulgato, era pacificamente esclusa la possibilità di partecipare al giudizio per soggetti diversi
dalle parti esplicitamente individuate dalle disposizioni di rango costituzionale e dal titolare della potestà
legislativa il cui esercizio fosse oggetto di contestazione
In base a tali argomentazioni non potrebbe che essere dichiarata manifestamente infondata (ove il
ricorso fosse – come non è – ammissibile) la questione di legittimità costituzionale posta dal consigliere
ricorrente in relazione all'articolo 31 della legge 11 marzo 1953, n. 87, quale modificato dall'articolo 9
della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica
alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), nella parte in cui non riconosce la legittimazione a
ricorrere del consigliere regionale che non abbia votato per l'approvazione dello statuto regionale, dal
momento che questa norma non fa che esplicitare quanto già chiaramente previsto nel secondo comma
dell'articolo 123 della Costituzione.
4. – Va altresì dichiarato inammissibile l'intervento del consigliere regionale Carlo Ripa di Meana
nel giudizio in via principale relativo alla delibera statutaria della Regione Umbria promosso dal
Governo.
Infatti, analogamente a quanto affermato per il giudizio sulle leggi in via principale – e cioè che
devono ritenersi legittimati ad esser parti solo i soggetti titolari delle attribuzioni legislative in
contestazione – anche nel giudizio sulla speciale legge regionale disciplinata dall'articolo 123 della
Costituzione, gli unici soggetti che possono essere parti sono la Regione, in quanto titolare della potestà
normativa in contestazione, e lo Stato, indicato dalla Costituzione come unico possibile ricorrente.
Restano fermi, naturalmente, per i soggetti privi di tali potestà i mezzi di tutela delle loro posizioni
soggettive dinanzi ad altre istanze giurisdizionali ed anche dinanzi a questa Corte nell'ambito del
giudizio in via incidentale (cfr. ex plurimis sentenze n. 166 del 2004, n. 338, n. 315, n. 307 e n. 49 del
2003, nonché l'ordinanza allegata alla sentenza n. 196 del 2004).
5. – Venendo alle censure di illegittimità costituzionale sollevate nel ricorso governativo, in via
preliminare occorre dichiarare la inammissibilità delle censure relative all'art. 9, comma 2.
Va ricordato che negli statuti regionali entrati in vigore nel 1971 – ivi compreso quello della Regione
Umbria – si rinvengono assai spesso indicazioni di obiettivi prioritari dell'attività regionale ed anche in
quel tempo si posero problemi di costituzionalità di tali indicazioni, sotto il profilo della competenza
della fonte statutaria ad incidere su materie anche eccedenti la sfera di attribuzione regionale. Al
riguardo, dopo aver riconosciuto la possibilità di distinguere tra un contenuto “necessario” ed un
contenuto “eventuale” dello statuto (cfr. sentenza n. 40 del 1972), si è ritenuto che la formulazione di
proposizioni statutarie del tipo predetto avesse principalmente la funzione di legittimare la Regione come
ente esponenziale della collettività regionale e del complesso dei relativi interessi ed aspettative. Tali
interessi possono essere adeguatamente perseguiti non soltanto attraverso l'esercizio della competenza
legislativa ed amministrativa, ma anche avvalendosi dei vari poteri, conferiti alla Regione stessa dalla
Costituzione e da leggi statali, di iniziativa, di partecipazione, di consultazione, di proposta, e così via,
esercitabili, in via formale ed informale, al fine di ottenere il migliore soddisfacimento delle esigenze
della collettività stessa. In questo senso si è espressa questa Corte, affermando che l'adempimento di una
serie di compiti fondamentali «legittima, dunque, una presenza politica della regione, in rapporto allo
Stato o anche ad altre regioni, riguardo a tutte le questioni di interesse della comunità regionale, anche se
queste sorgono in settori estranei alle singole materie indicate nell'articolo 117 Cost. e si proiettano al di
là dei confini territoriali della regione medesima» (sentenza n. 829 del 1988).
Il ruolo delle Regioni di rappresentanza generale degli interessi delle rispettive collettività,
riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale e dalla prevalente dottrina, è dunque rilevante, anche nel
momento presente, ai fini «dell'esistenza, accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali, di altri
possibili contenuti, sia che risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti della Regione, sia che
indichino aree di prioritario intervento politico o legislativo» (sentenza n. 2 del 2004); contenuti che
talora si esprimono attraverso proclamazioni di finalità da perseguire. Ma la sentenza ha rilevato come
sia opinabile la “misura dell'efficacia giuridica” di tali proclamazioni; tale dubbio va sciolto
considerando che alle enunciazioni in esame, anche se materialmente inserite in un atto-fonte, non può
essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse precipuamente sul piano dei
convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento
dell'approvazione dello statuto.
D'altra parte, tali proclamazioni di obiettivi e di impegni non possono certo essere assimilate alle c.d.
norme programmatiche della Costituzione, alle quali, per il loro valore di principio, sono stati
generalmente riconosciuti non solo un valore programmatico nei confronti delle futura disciplina
legislativa, ma sopratutto una funzione di integrazione e di interpretazione delle norme vigenti. Qui però
non siamo in presenza di Carte costituzionali, ma solo di fonti regionali “a competenza riservata e
specializzata”, cioè di statuti di autonomia, i quali, anche se costituzionalmente garantiti, debbono
comunque «essere in armonia con i precetti ed i principi tutti ricavabili dalla Costituzione» (sentenza n.
196 del 2003).
Dalle premesse appena formulate sul carattere non prescrittivo e non vincolante delle enunciazioni
statutarie di questo tipo, deriva che esse esplicano una funzione, per così dire, di natura culturale o anche
politica, ma certo non normativa. Nel caso in esame, una enunciazione siffatta si rinviene proprio nell'art.
9, comma 2, della delibera statutaria impugnata, là dove si afferma che la Regione “tutela altresì forme di
convivenza”; tale disposizione non comporta né alcuna violazione, né alcuna rivendicazione di
competenze costituzionalmente attribuite allo Stato, né fonda esercizio di poteri regionali. Va così
dichiarata inammissibile, per inidoneità lesiva della disposizione impugnata, la censura avverso la
denunciata proposizione della deliberazione statutaria.
6. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all'art. 39, comma 2, sono infondate.
Le argomentazioni del ricorso, infatti, muovono da una errata lettura della disposizione, che non
prevede affatto il “conferimento alla Giunta di una potestà legislativa”, come afferma l'Avvocatura, con
la conseguente alterazione dei rapporti fra potere esecutivo e legislativo a livello regionale. La norma in
oggetto, invece, si limita a riprodurre il modello vigente a livello statale dei cosiddetti regolamenti
delegati, che è disciplinato dal comma 2 dell'art. 17 della legge 23 agosto 1988, n.400 (Disciplina
dell'attività di governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri). In questo modello di
delegificazione, come ben noto largamente utilizzato a livello nazionale e ormai anche in varie Regioni
pur in assenza di disposizioni statutarie in tal senso, è alla legge che autorizza l'adozione del regolamento
che deve essere imputato l'effetto abrogativo, mentre il regolamento determina semplicemente il termine
iniziale di questa abrogazione.
La stessa preoccupazione che l'adozione di regolamenti del genere possa alterare nelle materie di
competenza concorrente il rapporto fra normativa statale di principio e legislazione regionale, dal
momento che potrebbe invece risultare necessario che la normazione regionale sia adottata in tutto o in
parte mediante legge, può essere fugata dal fatto che lo stesso art. 39, comma 2, che è stato impugnato,
dispone che la legge di autorizzazione all'adozione del regolamento deve comunque contenere “le norme
generali regolatrici della materia”, nonché la clausola abrogativa delle disposizioni vigenti. Sarà dunque
in relazione a tale legge che potrà essere verificato il rispetto di riserve di legge regionale esistenti nei
differenziati settori, con anche la possibilità, in caso di elusione di questo vincolo, di promuovere la
relativa questione di legittimità costituzionale.
7. – Le censure di illegittimità costituzionale dell'art. 40 non sono fondate.
Anche in questo caso, infatti appare errata l'interpretazione della disposizione in oggetto come
attributiva di “deleghe legislative” da parte del Consiglio alla Giunta regionale, poiché invece l'articolo
in contestazione prevede soltanto che il Consiglio conferisca alla Giunta un semplice incarico di
presentare allo stesso organo legislativo regionale, entro termini perentori, un “progetto di testo unico
delle disposizioni di legge” già esistenti in “uno o più settori omogenei”, progetto che poi il Consiglio
dovrà approvare con apposita votazione, seppure dopo un dibattito molto semplificato.
Ben può uno statuto regionale prevedere uno speciale procedimento legislativo diretto soltanto ad
operare sulla legislazione regionale vigente, a meri fini “di riordino e di semplificazione”. La stessa
previsione di cui al terzo comma dell'art. 40, relativa al fatto che eventuali proposte di revisione
sostanziale delle leggi oggetto del procedimento per la formazione del testo unico, che siano presentate
nel periodo previsto per l'espletamento dell'incarico dato alla Giunta, debbano necessariamente tradursi
in apposita modifica della legge di autorizzazione alla redazione del testo unico, sta a confermare che
ogni modifica sostanziale della legislazione da riunificare spetta alla legge regionale e che quindi la
Giunta nella sua opera di predisposizione del testo unico non può andare oltre al mero riordino e alla
semplificazione di quanto deliberato in sede legislativa dal Consiglio regionale.
8. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all'art. 66, commi 1 e 2, sono fondate.
L'art. 122 Cost. riserva espressamente alla legge regionale, “nei limiti dei principî fondamentali
stabiliti con legge della Repubblica”, la determinazione delle norme relative al “sistema di elezione” e ai
“casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale
nonché dei consiglieri regionali”, senza che si possa distinguere (come invece ipotizza la difesa
regionale) fra ipotesi di incompatibilità “esterne” ed “interne” all'organizzazione istituzionale della
Regione.
È vero che le scelte in tema di incompatibilità fra incarico di componente della Giunta regionale e di
consigliere regionale possono essere originate da opzioni statutarie in tema di forma di governo della
Regione, ma – come questa Corte ha già affermato in relazione ad altra delibera statutaria regionale nella
sentenza n. 2 del 2004 – occorre rilevare che il riconoscimento nell'articolo 123 della Costituzione del
potere statutario in tema di forma di governo regionale è accompagnato dalla previsione dell'articolo 122
della Costituzione, e che quindi la disciplina dei particolari oggetti cui si riferisce l'articolo 122 sfugge
alle determinazioni lasciate all'autonomia statutaria.
Né la formulazione del primo comma dell'art. 66 può essere interpretata come espressiva di un mero
principio direttivo per il legislatore regionale, nell'ambito della sua discrezionalità legislativa in materia.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale del primo comma dell'art. 66 si estende logicamente
anche al secondo comma della medesima disposizione, che ne disciplina le conseguenze sul piano della
composizione del Consiglio regionale.
Inoltre, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la dichiarazione di illegittimità
costituzionale deve essere estesa anche al terzo comma dell'art. 66 della delibera statutaria, che prevede
un ulteriore svolgimento di quanto disciplinato nel secondo comma, ben potendo la dichiarazione di
illegittimità costituzionale consequenziale applicarsi non soltanto ai giudizi in via principale (cfr.
sentenze n. 4 del 2004, n. 20 del 2000, n. 441 del 1994 e n. 34 del 1961), ma anche al particolare giudizio
di cui all'art. 123 Cost. (cfr. sentenza n. 2 del 2004).
9. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all'art. 82 non sono fondate.
La disciplina della Commissione di garanzia statutaria negli artt. 81 ed 82 della delibera statutaria
configura solo nelle linee generali questo organo e le sue funzioni, essendo prevista nell'art. 81 una
apposita legge regionale, da approvare a maggioranza assoluta, per definirne – tra l'altro – “le condizioni,
le forme ed i termini per lo svolgimento delle sue funzioni”: sarà evidentemente questa legge a
disciplinare analiticamente i poteri di questo organo nelle diverse fasi nelle quali potrà essere chiamato
ad esprimere pareri giuridici.
In ogni caso, la disposizione impugnata fa espresso riferimento ad un potere consultivo della
Commissione, da esplicarsi attraverso semplici pareri, che, se negativi sul piano della conformità
statutaria, determinano come conseguenza il solo obbligo di riesame, senza che siano previste
maggioranze qualificate ed anche senza vincolo in ordine ad alcuna modifica delle disposizioni
normative interessate.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile il ricorso, iscritto al n. 90 del registro ricorsi del 2004, presentato dal
consigliere regionale della Regione Umbria Carlo Ripa di Meana nei confronti della delibera statutaria
della Regione Umbria approvata dal Consiglio regionale in prima deliberazione il 2 aprile del 2004 ed in
seconda deliberazione il 29 luglio 2004;
2) dichiara inammissibile l'intervento spiegato dal consigliere regionale della Regione Umbria Carlo
Ripa di Meana, nel giudizio iscritto al n. 88 del registro ricorsi del 2004, relativo alla predetta delibera
statutaria della Regione Umbria;
3) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 66, commi 1 e 2, della predetta delibera statutaria
della Regione Umbria;
4) dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art.
66, comma 3, della predetta delibera statutaria della Regione Umbria;
5) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 2, della predetta
delibera statutaria della Regione Umbria, per violazione degli artt. 2, 5, 29, 117, secondo comma, lettera
l), e 123 Cost., proposte con il ricorso n. 88 del 2004;
6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 39, comma 2, della predetta
delibera statutaria della Regione Umbria, per violazione degli artt. 121 e 117 Cost., proposte con il
ricorso n. 88 del 2004;
7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 40 della predetta delibera
statutaria della Regione Umbria, per violazione dell'art. 121 Cost. e del principio di separazione dei
poteri, proposta con il ricorso n. 88 del 2004;
8) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 82 della predetta delibera
statutaria della Regione Umbria, per violazione degli artt. 121 e 134 Cost., proposte con il ricorso n. 88
del 2004.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 novembre
2004.
F.to:
Valerio ONIDA, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2004.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 379/2004
Giudizio
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente ONIDA - Redattore DE SIERVO
Udienza Pubblica del 16/11/2004 Decisione del 29/11/2004
Deposito del 06/12/2004 Pubblicazione in G. U. 15/12/2004
Norme impugnate:
Massime:
28904 28905 28906 28907 28908 28909 28910 28911 28912 28913 28914
Atti decisi:
T
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l
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Regione emilia-romagna - Statuto - Proposizioni in materia di diritto di voto degli immigrati residenti Ricorso del governo - Denunciata violazione dei principi in tema di cittadinanza e del relativo 'status',
dell’esclusivo potere statale nella materia delle leggi elettorali e della legislazione elettorale di comuni,
province e città metropolitane, disciplina eccedente dalla potestà statutaria regionale con riguardo alla
definizione del corpo elettorale e alla non vincolabilità del potere di iniziativa politica della regione Enunciazioni
prive
di
efficacia
giuridica
Inammissibilità
della
questione.
T
e
s
t
o
Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento agli artt. 1, 48, 117,
secondo comma, lettere f) e p), 122, primo comma, e 121, secondo comma, della Costituzione, dell’art.
2, comma 1, lettera f), della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima
deliberazione il giorno 1° luglio 2004 ed in seconda deliberazione il giorno 14 settembre 2004, nella
parte in cui prevede che la Regione assicuri “nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente
riconosciute, il diritto di voto degli immigrati residenti”. Il ruolo di rappresentanza generale degli
interessi delle rispettive collettività, riconosciuto alle Regioni dalla giurisprudenza costituzionale, è
rilevante e giustifica l’esistenza, accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali, di altri possibili
contenuti, sia che risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti delle Regioni, sia che indichino aree di
prioritario intervento politico o legislativo, che si esprimono attraverso proclamazioni di finalità da
perseguire. A tali enunciazioni, tuttavia, anche se inserite in un atto-fonte, come nella specie, non può
essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse sul piano dei convincimenti espressivi
delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione dello
statuto ed esplicano una funzione di natura culturale o anche politica, ma non normativa. - Sentenze
citate
nn.
40/1972;
829/1988;
196/2003;
2/2004.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Emilia Romagna art. 2 co. 1 co. lettera f)
Parametri costituzionali
Costituzione art. 1
Costituzione art. 48
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera f)
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera p)
Costituzione art. 122 co. 1
Costituzione art. 121 co. 2
T
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o
Regione emilia-romagna - Statuto - Esecuzione, nelle materie di competenza regionale, degli accordi
internazionali stipulati dallo stato - Asserita carenza della condizione della previa ratifica ed entrata in
vigore dell’accordo e del necessario adeguamento alle norme procedurali stabilite dalla legge statale Ricorso del governo - Denunciata violazione della competenza esclusiva dello stato in materia di politica
estera
e
rapporti
internazionali
Non
fondatezza
della
questione.
T
e
s
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o
La disposizione impugnata, interpretata in modo conforme al sistema costituzionale, non può che riferirsi
agli accordi internazionali “ratificati”, non potendo legittimare un’esecuzione da parte regionale prima
della ratifica che fosse necessaria ai sensi dell’art. 80 della Costituzione, essendo, in tal caso, l’accordo
internazionale privo di efficacia nell’ordinamento italiano. Se poi la norma si riferisse anche agli accordi
internazionali stipulati in forma semplificata e che intervengono in materia regionale, restano comunque
fermi i poteri statali di cui all’art. 120, secondo comma, della Costituzione. La norma stessa, peraltro,
pone il “rispetto delle norme di procedura previste dalla legge”, che non può che essere interpretato come
riferito alle “norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato” di cui all’art. 117, quinto comma, della
Costituzione. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento
all’art. 117, secondo comma, lettera a) e quinto comma, della Costituzione, dell’art. 13, comma 1, lettera
a) della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione il giorno 1°
luglio 2004 ed in seconda deliberazione il giorno 14 settembre 2004, nella parte in cui prevede che la
Regione, nell’ambito delle materia di propria competenza, provvede direttamente all’esecuzione degli
accordi internazionali stipulati dallo Stato, nel “rispetto delle norme di procedura previste dalla legge”.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Emilia Romagna art. 13 co. 1 co. lettera a)
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera a)
Costituzione art. 117 co. 5
T
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t
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Regione emilia-romagna - Statuto - Proposizioni in materia di diritto di partecipazione degli immigrati
residenti ai 'referendum' e alle altre forme di consultazione popolare - Ricorso del governo - Denunciata
violazione dei principi in tema di cittadinanza e del relativo status, dell’esclusivo potere statale nella
materia delle leggi elettorali e della legislazione elettorale di comuni, province e città metropolitane,
disciplina eccedente dalla potestà statutaria regionale con riguardo alla definizione del corpo elettorale e
alla non vincolabilità del potere di iniziativa politica della regione - Non fondatezza della questione.
T
e
s
t
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La norma impugnata, incidendo in un ambito di sicura competenza regionale (diritti di partecipazione),
con l’ulteriore precisazione che la Regione potrà esercitare “nell’ambito delle facoltà che le sono
costituzionalmente riconosciute”, esclude qualsiasi pretesa regionale di intervenire nella materia delle
elezioni statali, regionali e locali, riconoscendo il diritto di voto a soggetti estranei a quelli definiti dalla
legislazione statale; mentre resta nell’ambito delle possibili determinazioni regionali la scelta di
coinvolgere in altre forme di consultazione soggetti che comunque partecipano della vita associativa, a
prescindere anche dalla titolarità del diritto di voto o di cittadinanza. Non sono, pertanto, fondate le
questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento agli artt. 1, 48, 117, secondo comma,
lettere f) e p), 122, primo comma, e 121, secondo comma della Costituzione, dell’art. 15, comma 1 della
delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione il giorno 1° luglio
2004 ed in seconda deliberazione il giorno 14 settembre 2004, che stabilisce che la Regione,
“nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, riconosce e garantisce a tutti
coloro che risiedono in un comune del territorio regionale i diritti di partecipazione contemplati nel
presente Titolo, ivi compreso il diritto di voto nei ‘referendum’ e nelle altre forme di consultazione
p o p o l a r e ” .
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Emilia Romagna art. 15 co. 1
Parametri costituzionali
Costituzione art. 1
Costituzione art. 48
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera f)
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera p)
Costituzione art. 122 co. 1
Costituzione art. 121 co. 2
T
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t
o
l
o
Regione emilia-romagna - Statuto - Procedimento per la formazione di atti normativi o amministrativi di
carattere generale - Istruttoria in forma di contraddittorio pubblico con obbligo di motivazione sulle
relative risultanze - Ricorso del governo - Denunciata lesione del principio di buon andamento della
pubblica
amministrazione
Non
fondatezza
della
questione.
T
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t
o
La scelta operata dalla fonte statutaria circa la possibilità che “nei procedimenti riguardanti la
formazione di atti normativi o amministrativi di carattere generale”, l’adozione del provvedimento finale
sia preceduta da una istruttoria pubblica non è finalizzata ad espropriare dei loro poteri gli organi
legislativi o a ritardare l’attività della pubblica amministrazione, bensì è diretta a migliorare ed a rendere
più trasparenti le procedure di raccordo degli organi rappresentativi con i soggetti più interessati dalle
diverse politiche pubbliche. Non sono, pertanto, fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art.
17 della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione il giorno 1°
luglio 2004 ed in seconda deliberazione il giorno 14 settembre 2004, che prevede la possibilità di una
istruttoria in forma di contraddittorio pubblico, indetta dalla Assemblea legislativa, alla quale possono
prendere parte anche “associazioni, comitati e gruppi di cittadini portatori di un interesse a carattere non
individuale”, per la formazione di atti normativi o amministrativi di carattere generale, i quali dovranno
poi essere motivati con riferimento alle risultanze istruttorie, sollevate in riferimento all’art. 97 della
Costituzione
ed
ai
“principi
in
tema
di
attività
normativa”.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Emilia Romagna art. 17
Parametri costituzionali
Costituzione art. 97
T
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Regione emilia-romagna - Statuto - Procedimento legislativo - Diritto di partecipazione riconosciuto a
tutte le associazioni richiedenti - Ricorso del governo - Denunciata lesione del principio di autonomia del
consiglio regionale, del principio di coerenza rispetto ad altre norme dello stesso statuto, alterazione del
sistema di democrazia rappresentativa e del ruolo dei partiti - Non fondatezza della questione.
T
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L’intento di garantire ad organismi associativi rappresentativi di significative frazioni del corpo sociale
la possibilità di essere consultati da parte degli organi consiliari non è di ostacolo alla funzionalità delle
istituzioni regionali né viene negato il riconoscimento dell’autonomia degli organi rappresentativi e del
ruolo dei partiti politici. Non sono, pertanto, fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate in
riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3, 49 e 121 della Costituzione, dell’art. 19 della delibera
statutaria della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione il giorno 1° luglio 2004 ed in
seconda deliberazione il giorno 14 settembre 2004, che prevede un “diritto di partecipazione” al
procedimento legislativo in capo a “tutte le associazioni” che ne facciano richiesta.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Emilia Romagna art. 19
Parametri costituzionali
Costituzione art. 1 co. 2
Costituzione art. 3
Costituzione art. 49
Costituzione art. 121
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Regione emilia-romagna - Statuto - Affidamento temporaneo di funzioni amministrative agli enti locali Disciplina delle modalità - Ricorso del governo - Denunciata lesione dell’autonomia degli enti locali,
qualificati come titolari delle funzioni medesime - Non fondatezza della questione.
T
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La possibilità di conferire agli enti locali funzioni amministrative nelle materie di competenza legislativa
delle Regioni tramite apposite leggi regionali presuppone sia una previa valutazione da parte del
legislatore regionale delle concrete situazioni relative ai diversi settori, alla luce dei principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza in riferimento alle caratteristiche proprie del sistema di
amministrazione locale, sia la ricerca del miglior possibile modello di organizzazione del settore, con
conseguente possibilità di modificare la legislazione sulla base dei risultati conseguiti ovvero la
sperimentazione di diversi modelli possibili. Non sono, pertanto, fondate le questioni di legittimità
costituzionale, sollevate in riferimento agli artt. 114 e 118 della Costituzione, dell’art. 24, comma 4, della
delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione il giorno 1° luglio
2004 ed in seconda deliberazione il giorno 14 settembre 2004, il quale prevede che “la Regione,
nell’ambito delle proprie competenze, disciplina le modalità di conferimento agli enti locali di quanto
previsto dall’art. 118 della Costituzione, definendo finalità e durata dell’affidamento”.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Emilia Romagna art. 24 co. 4
Parametri costituzionali
Costituzione art. 114
Costituzione art. 118
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Regione emilia-romagna - Statuto - Città metropolitana dell’area di bologna - Definizione delle funzioni
con legge regionale - Ricorso del governo - Asserita lesione della potestà legislativa statale nella materia
delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane - Non fondatezza della questione.
T
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La disposizione impugnata subordina espressamente l’esercizio dei poteri regionali ivi previsti al rispetto
della “disciplina stabilita dalla legge dello Stato”, escludendo, quindi, la volontà della Regione di
contraddire la competenza statale esclusiva in tema di determinazione “delle funzioni fondamentali di
Comuni, Province e Città metropolitane”. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità
costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione,
dell’art. 26, comma 3, della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima
deliberazione il giorno 1° luglio 2004 ed in seconda deliberazione il giorno 14 settembre 2004, il quale
dispone che l’Assemblea legislativa individua “in conformità con la disciplina stabilita dalla legge dello
Stato”,
le
funzioni
della
Città
metropolitana
dell’area
di
Bologna.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Emilia Romagna art. 26 co. 3
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera p)
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Regione emilia-romagna - Statuto - Programma di governo - Predisposizione da parte del presidente
della regione e approvazione da parte dell’assemblea - Ricorso del governo - Asserita lesione del canone
di
armonia
con
la
costituzione
Non
fondatezza
della
questione.
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Posto che la determinazione della forma di governo regionale da parte degli statuti non si esaurisce nella
individuazione del sistema di designazione del Presidente della Regione, l’autonomia statutaria ben può
disciplinare procedure e forme del rapporto fra i diversi organi regionali al fine di creare una precisa
procedura per obbligare i fondamentali organi regionali ad un confronto iniziale e successivamente
ricorrente sui contenuti del programma di governo; confronto produttivo di effetti sui comportamenti del
Presidente e del Consiglio, i quali, a loro volta, valuteranno la possibilità di prescindere dagli esiti di tale
dialettica o far eventualmente ricorso allo strumento della mozione di sfiducia. Non è, pertanto, fondata
la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all’art. 123 della Costituzione, dell’art.
28, comma 2, della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione
il giorno 1° luglio 2004 ed in seconda deliberazione il giorno 14 settembre 2004, il quale prevede che
“l’Assemblea (…) discute e approva il programma di governo predisposto dal Presidente della Regione
(
…
)
”
.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Emilia Romagna art. 28 co. 2
Parametri costituzionali
Costituzione art. 123
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Regione emilia-romagna - Statuto - Incompatibilità della carica di assessore con quella di consigliere
regionale - Ricorso del governo - Eccesso dalla potestà statutaria con violazione della previsione
costituzionale
Illegittimità
costituzionale.
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E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 45, comma 2, terzo periodo, della delibera statutaria della Regione
Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione il giorno 1° luglio 2004 ed in seconda deliberazione
il giorno 14 settembre 2004, nella parte in cui stabilisce l’incompatibilità della carica di assessore con
quella di consigliere regionale, sollevata in riferimento all’art. 122 della Costituzione. La Corte ha già
avuto modo di chiarire che la disciplina dei particolari soggetti cui si riferisce espressamente l’art. 122
della Costituzione sfugge alle determinazioni lasciate all’autonomia statutaria, benché la stessa norma
costituzionale riservi alla legge regionale, nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della
Repubblica, la determinazione delle norme relative al “sistema di elezione” e ai “casi di ineleggibilità e
di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri
regionali”. Né la formulazione della disposizione censurata può essere interpretata come espressiva di un
mero principio direttivo per il legislatore regionale, nell’ambito della sua discrezionalità legislativa in
materia.
Sentenza
citata
n.
2/2004.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Emilia Romagna art. 45 co. 2 co. terzo periodo
Parametri costituzionali
Costituzione art. 122
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Regione emilia-romagna - Statuto - Disciplina per l’esecuzione dei regolamenti comunitari - Ricorso del
governo - Asserita omissione del riferimento alle norme di procedura stabilite dalle leggi statali Denunciata lesione della potestà statale nella materia dei rapporti internazionali - Non fondatezza della
q u e s t i o n e .
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La norma censurata, nel disciplinare, in generale, i rapporti fra le leggi ed i regolamenti regionali, non
pone il problema dei limiti sostanziali e procedimentali dei poteri normativi spettanti alla Regione nelle
varie materie, di cui ne dà presupposta la titolarità. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità
costituzionale, sollevata in riferimento all’art. 117, quinto comma, della Costituzione, dell’art. 49,
comma 2 della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione il
giorno 1° luglio 2004 ed in seconda deliberazione il giorno 14 settembre 2004, il quale prevede che la
Giunta disciplini l’esecuzione dei regolamenti comunitari “nei limiti stabiliti dalla legge regionale”.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Emilia Romagna art. 49 co. 2
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117 co. 5
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Regione emilia-romagna - Statuto - Personale regionale - Disciplina del rapporto di lavoro - Ricorso del
governo - Asserita lesione della competenza esclusiva statale nella materia “ordinamento civile” - Non
fondatezza
della
questione.
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La norma censurata assume il significato di disposizione meramente ricognitiva del rapporto fra
legislazione e contrattazione, alla luce dei principi costituzionali, nella disciplina del rapporto di lavoro
del personale regionale. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in
riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, dell’art. 62, comma 3, della
delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione il giorno 1° luglio
2004 ed in seconda deliberazione il giorno 14 settembre 2004, il quale prevede una disciplina regionale
del rapporto di lavoro del personale regionale, in conformità ai principi costituzionali e secondo quanto
stabilito
dalla
legge
e
dalla
contrattazione
collettiva.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Emilia Romagna art. 62 co. 3
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera l)
Pronuncia
SENTENZA N.379 ANNO 2004
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Valerio ONIDA; Giudici: Carlo MEZZANOTTE, Guido NEPPI
MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK,
Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio
FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2, comma 1, lettera f); 13, comma 1, lettera a);
15, comma 1; 17; 19; 24, comma 4; 26, comma 3; 28, comma 2; 45 comma 2; 49, comma 2; 62, comma
3, dello statuto della Regione Emilia-Romagna, approvato in prima deliberazione il 1° luglio 2004 ed in
seconda deliberazione il 14 settembre 2004, e pubblicato nel B.U.R. n. 130 del 16 settembre 2004,
promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 15 ottobre 2004, depositato
in cancelleria il 21 successivo ed iscritto al n. 99 del registro ricorsi 2004.
Visto l'atto di costituzione della Regione Emilia-Romagna;
udito nell'udienza pubblica del 16 novembre 2004 il Giudice relatore Ugo De Siervo;
uditi l'avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli
avvocati Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Regione Emilia-Romagna.
Ritenuto in fatto
1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, con ricorso notificato il 15 ottobre 2004, depositato il 21 ottobre 2004 e iscritto al n. 99 nel
registro ricorsi del 2004, ha impugnato gli articoli 2, comma 1, lettera f); 15, comma 1; 13, comma 1,
lettera a); 17; 19; 24, comma 4; 26, comma 3; 28, comma 2; 45, comma 2; 49, comma 2; 62, comma 3,
della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione il giorno 1°
luglio 2004, ed in seconda deliberazione il giorno 14 settembre 2004, per violazione degli articoli 1; 3;
48; 49; 97; 114; 123; 117, secondo comma, lettere a), f), l), p); 117, terzo comma; 117, quinto comma,
anche in relazione all'art. 6, comma 1, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento
dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3); 118, primo e secondo
comma; 121, secondo comma; 122, primo comma; 123; 126; 138 della Costituzione.
2. – Il Governo impugna, innanzi tutto, l'art. 2, comma 1, lettera f), e l'art. 15, comma 1, della
delibera statutaria. La prima di queste disposizioni prevede che la Regione assicuri, “nell'ambito delle
facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, il diritto di voto degli immigrati residenti”. La
seconda, invece, prevede che la Regione, “nell'ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente
riconosciute, riconosce e garantisce a tutti coloro che risiedono in un comune del territorio regionale i
diritti di partecipazione contemplati nel presente Titolo, ivi compreso il diritto di voto nei referendum e
nelle altre forme di consultazione popolare”.
Secondo il ricorrente tali disposizioni contrasterebbero, innanzi tutto, con l'art. 48 della Costituzione,
ai sensi del quale lo status di elettore andrebbe riconosciuto solo ed esclusivamente ai cittadini. A questo
riguardo l'Avvocatura dello Stato aggiunge che solo la legge statale potrebbe validamente riconoscere il
diritto di voto. In secondo luogo, ad essere violato risulterebbe anche l'art. 1 Cost., dal momento che tale
norma, individuando nel popolo il soggetto detentore della sovranità, farebbe implicito riferimento al
concetto di cittadinanza, requisito necessario per esercitare quei diritti nei quali si sostanzia l'esercizio
della sovranità. Ancora, le disposizioni impugnate violerebbero anche l'art. 117, secondo comma, lettere
f) e p), della Costituzione, che attribuiscono allo Stato la competenza esclusiva in relazione alle materie
degli organi dello Stato e delle relative leggi elettorali, nonché in materia di legislazione elettorale di
Comuni, Province e Città metropolitane.
A risultare violato, inoltre, sarebbe anche l'art. 122, primo comma della Costituzione, ove si ritenesse
che nel “sistema di elezione” degli organi rappresentativi regionali sia ricompresa anche le definizione
del relativo corpo elettorale. Infine, nel ricorso si afferma che la disposizione della delibera statutaria
impugnata contrasterebbe con l'art. 121, secondo comma della Costituzione, in quanto vincolerebbe il
Consiglio regionale a fare proposte di legge alle Camere nelle materie diverse da quelle affidate alla
competenza delle Regioni, mentre l'esercizio di detto potere non potrebbe essere in alcun modo vincolato
dallo statuto.
3. – Viene impugnato anche l'art. 13, comma 1, lettera a), della delibera statutaria, che prevede che la
Regione, nell'ambito delle materie di propria competenza, provveda direttamente all'esecuzione degli
accordi internazionali stipulati dallo Stato, nel “rispetto delle norme di procedura previste dalla legge”.
Ciò determinerebbe la violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione, che riserva
allo Stato la competenza esclusiva in materia di politica estera e rapporti internazionali dello Stato stesso,
in quanto la disposizione censurata, per l'esercizio della prevista facoltà, non porrebbe “la condizione che
gli accordi siano stati previamente ratificati e siano entrati internazionalmente in vigore”. Inoltre, la
generica previsione che la Regione debba uniformarsi alle “norme di procedura previste dalla legge” la
renderebbe contrastante con l'art. 117, quinto comma, Cost., in quanto avrebbe dovuto essere precisato
che questa legge dovesse essere statale.
4. – Sono anche censurati gli artt. 17 e 19 della delibera statutaria.
La prima di queste disposizioni prevede la possibilità di una istruttoria in forma di contraddittorio
pubblico, indetta dalla Assemblea legislativa, alla quale possono prendere parte anche “associazioni,
comitati e gruppi di cittadini portatori di un interesse a carattere non individuale”, per la formazione di
atti normativi o amministrativi di carattere generale, i quali dovranno inoltre essere motivati con
riferimento alle risultanze istruttorie.
Tale previsione, ad avviso del ricorrente, contrasterebbe innanzi tutto con l'art. 97 Cost., poiché
comporterebbe aggravi procedurali non coerenti con il principio di buon andamento della pubblica
amministrazione. In secondo luogo, l'obbligo di motivazione violerebbe “i principî in tema di attività
normativa e principalmente quello dell'irrilevanza della motivazione della norma”.
La seconda delle due disposizioni considerate prevede un “diritto di partecipazione” al procedimento
legislativo per “tutte le associazioni” che ne facciano richiesta. Ciò determinerebbe, secondo
l'Avvocatura generale, la violazione dell'art. 121 della Costituzione e contrasterebbe anche con altre
disposizioni della medesima delibera statutaria, secondo le quali il Consiglio regionale è organo della
“rappresentanza democratica” regionale nel quale si sviluppa “il libero confronto democratico tra
maggioranza e opposizioni”, poiché la norma in oggetto produrrebbe una “alterazione” del “sistema di
democrazia rappresentativa” e del ruolo dei partiti politici che operano legittimamente nelle assemblee
legislative.
5. – Viene impugnato anche l'art. 24, comma 4, della delibera statutaria, il quale prevede che “la
Regione, nell'ambito delle proprie competenze, disciplina le modalità di conferimento agli enti locali di
quanto previsto dall'art. 118 della Costituzione, definendo finalità e durata dell'affidamento”: tale
disposizione, anzitutto, contrasterebbe con l'art. 114 della Costituzione, in quanto menomerebbe
l'autonomia degli enti locali. Inoltre, violerebbe l'art. 118 della Costituzione, in quanto quest'ultimo
impedirebbe di “affidare temporaneamente” le funzioni amministrative, in particolar modo ad enti –
quali i comuni, le province e le città metropolitane – che di esse sono qualificati come “titolari”.
6. – Nel ricorso viene inoltre contestata la legittimità costituzionale dell'art. 26, comma 3, della
delibera statutaria, il quale dispone che l'Assemblea legislativa individui, “in conformità con la disciplina
stabilita dalla legge dello Stato”, le funzioni della Città metropolitana dell'area di Bologna: ciò, secondo
l'Avvocatura dello Stato, contrasterebbe con quanto previsto dall'art. 117, secondo comma, lettera p),
della Costituzione, “che riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la materia delle funzioni
fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”.
7. – Anche l'art. 28, comma 2, della delibera statutaria – il quale prevede che “l'Assemblea (…)
discute e approva il programma di governo predisposto dal Presidente della Regione (…)” – è oggetto di
impugnazione. La legittimità costituzionale di tale disposizione è contestata in quanto quest'ultima, pur
non contenendo alcuna indicazione circa le conseguenze della mancata approvazione del programma,
menomerebbe “di per sé la legittimazione ed il ruolo del Presidente”. Ciò non risulterebbe «coerente con
l'elezione diretta del Presidente (…), in quanto la prevista approvazione consiliare del programma di
governo instauri irragionevolmente e contraddittoriamente tra Presidente e Consiglio regionale un
rapporto diverso rispetto a quello che consegue all'elezione a suffragio universale e diretto del vertice
dell'esecutivo (…), in relazione alla quale non sussiste il tradizionale rapporto fiduciario con il consiglio
rappresentativo dell'intero corpo elettorale».
Da ciò l'affermata violazione del canone della “armonia con la Costituzione”.
8. – Sarebbe costituzionalmente illegittimo, inoltre, l'art. 45, comma 2, della delibera statutaria, il
quale prevede l'incompatibilità della carica di assessore con quella di consigliere regionale. Tale
disposizione violerebbe l'art. 122, primo comma, della Costituzione, che dispone che i casi di
incompatibilità dei componenti della Giunta nonché dei consiglieri regionali devono essere disciplinati
dalla legge regionale nei limiti dei principî fondamentali stabiliti con legge della Repubblica.
9. – Viene impugnato anche l'art. 49, comma 2, della delibera statutaria, il quale prevede che la
Giunta disciplini l'esecuzione dei regolamenti comunitari “nei limiti stabiliti dalla legge regionale”. Tale
norma, «omettendo di riferirsi al necessario rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello
Stato, la quale deve disciplinare anche le modalità di esercizio del potere sostitutivo», violerebbe l'art.
117, quinto comma, della Costituzione.
10. – Da ultimo, secondo il ricorrente, sarebbe costituzionalmente illegittimo anche l'art. 63, comma
3, della delibera statutaria, il quale prevede una disciplina regionale del rapporto di lavoro del personale
regionale, in conformità ai principî costituzionali e secondo quanto stabilito dalla legge e dalla
contrattazione collettiva. Ciò violerebbe l'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in
quanto porrebbe «una disciplina sostanziale del rapporto di lavoro e dei suoi aspetti fondamentali: temi,
questi, da ritenersi affidati alla competenza esclusiva statale in quanto rientranti nella materia
'ordinamento civile'».
11. – La Regione Emilia-Romagna, costituitasi in giudizio con atto depositato il 25 ottobre 2004, nel
quale si limita a richiedere che la Corte costituzionale respinga il ricorso in quanto inammissibile e
comunque infondato, in prossimità dell'udienza, ha depositato una memoria in cui, ribadendo che tutte le
censure mosse avverso la propria delibera statutaria sarebbero prive di fondamento, svolge le proprie
argomentazioni al riguardo.
Le questioni concernenti gli articoli 2 e 15 – che, secondo il ricorso del Governo prevederebbero il
riconoscimento del diritto di voto agli stranieri – sarebbero infondate, in quanto non terrebbero conto
della limitazione generale posta dalle stesse norme impugnate attraverso l'espressione “nell'ambito delle
facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute”.
Quanto in particolare all'art. 15 della deliberazione statutaria, la difesa regionale osserva che sarebbe
già possibile e legittima una sua parziale attuazione legislativa, poiché la Regione avrebbe già la facoltà
di disciplinare il referendum consultivo su provvedimenti regionali, e con riguardo a questi sarebbero
ipotizzabili modalità di voto tali da distinguere il voto dei cittadini elettori da “quello delle altre classi di
popolazione consultate”. Sarebbe inoltre pacifico che lo statuto regionale non conferirebbe né
consentirebbe il conferimento agli immigrati della qualifica di “elettore”, ma solo di “prendere parte a
procedure per le quali, appunto, tale qualifica generale non sia costituzionalmente necessaria”.
Infondate sarebbero le censure concernenti la violazione dell'art. 117, secondo comma, lettere f) e p),
della Costituzione, dal momento che le norme statutarie impugnate non si applicherebbero ad alcun
organo statale, né si riferirebbero alle procedure elettorali di Comuni, province e città metropolitane.
Inesistente sarebbe inoltre l'asserito contrasto con l'art. 122, primo comma, della Costituzione, poiché
tale censura potrebbe riferirsi solo all'art. 2 dello statuto, che però avrebbe carattere di norma
programmatica in quanto fisserebbe semplicemente un obiettivo e non autorizzerebbe affatto una
attuazione illegittima.
12. – Con riferimento alle censure relative all'art. 13, comma 1, lettera a), della delibera statutaria, la
difesa regionale osserva come la disposizione, nel fare riferimento agli accordi “stipulati”, abbia inteso
riferirsi a quelli “conclusi ed efficaci”. Tale significato sarebbe confermato dal richiamo, contenuto nello
stesso articolo, alle norme di procedura previste dalla legge, nel cui rispetto dovrebbe avvenire
l'esecuzione degli accordi. Questa legge sarebbe sicuramente quella statale, e non già quella regionale,
come sostenuto nel ricorso del Governo, dal momento che ove la delibera statutaria avesse voluto
riferirsi alla legge regionale lo avrebbe detto espressamente.
13. – Quanto alle censure aventi ad oggetto gli artt. 17 e 19 della delibera statutaria, la Regione
sostiene che l'istruttoria pubblica per la formazione degli atti normativi o amministrativi di carattere
generale, nonché l'obbligo di motivazione costituirebbero non già violazioni, ma modalità di attuazione
dell'art. 97 Cost., per di più già sperimentati a livello regionale. Istituti del genere sarebbero ben noti sia
alla tradizione di altri Paesi che al sistema italiano, ove è contemplato l'istituto dell'inchiesta pubblica; né
sarebbe da trascurare quanto già previsto da alcune leggi regionali.
Anche la previsione del dovere di motivazione, come dovere di tener conto degli esiti dell'istruttoria
pubblica, non sarebbe affatto irragionevole; ciò sarebbe confermato anche da analoga previsione
generalizzata nei trattati europei.
Infondata sarebbe, ancora, l'asserita violazione di alcune disposizioni della legge 7 agosto 1990, n.
241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi). L'art. 3 di tale legge, infatti, non vieterebbe la motivazione per gli atti normativi e
amministrativi generali, ma si limiterebbe a non renderla obbligatoria. L'art. 13, d'altra parte, non
proibirebbe forme di partecipazione o di programmazione in relazione agli atti normativi e
amministrativi generali. E ciò a prescindere dal fatto che comunque tale legge non sarebbe idonea a
fungere da parametro di legittimità costituzionale dello statuto regionale.
Analoghe considerazioni varrebbero con riferimento alle censure relative all'art. 19 della delibera
statutaria, il quale porrebbe regole obiettive per assicurare “un confronto con i portatori dei diversi
interessi sociali”.
14. – La censura rivolta contro l'art. 24, comma 4, della delibera statutaria, nella parte in cui prevede
il conferimento di funzioni agli enti locali, predeterminandone la durata, si baserebbe su un
fraintendimento: infatti non si disporrebbe che la Regione debba conferire le funzioni con durata limitata,
ma semplicemente si manterrebbe “alla legge regionale la possibilità di farlo, quando l'oggetto e le
circostanze lo richiedano”, conformemente ai principî affermati dall'art. 118 della Costituzione.
15. – Quanto all'art. 26, comma 3, della delibera statutaria, impugnato in relazione all'art 117,
secondo comma, lettera p), Cost., sarebbe “palese” l'inesistenza di alcuna invasione delle competenze
statali, dal momento che la norma statutaria prevederebbe espressamente che tanto la delimitazione
dell'area metropolitana di Bologna, quanto la individuazione delle funzioni della Città metropolitana
debbano avvenire in conformità con la disciplina stabilita dalla legge dello Stato. Dunque, “la Regione
individuerà le funzioni degli enti locali per quanto di sua competenza”.
16. – Le censure rivolte nei confronti dell'art. 28, comma 2, della delibera impugnata, che dispone
che l'Assemblea discute e approva il programma di governo predisposto dal Presidente della Regione,
atterrebbero al merito delle scelte statutarie in relazione alla forma di governo e non indicherebbero
quale specifica norma costituzionale sarebbe stata violata.
In ogni caso l'art. 28 individuerebbe il punto di equilibrio, nel rispetto dell'art. 126 della
Costituzione, tra due organi, il Presidente della Giunta e il Consiglio, entrambi di investitura popolare.
L'omessa previsione delle conseguenze istituzionali della mancata approvazione del programma di
governo, sarebbe giustificata dal fatto che esse sarebbero del tutto assenti. La difesa regionale osserva,
inoltre, che disposizioni analoghe sarebbero contenute nel testo unico degli enti locali, nonché in alcuni
statuti comunali.
17. – Con riferimento ai motivi di impugnazione dell'art. 45, comma 2, che stabilisce
l'incompatibilità della carica di assessore con quella di consigliere regionale, la Regione ne afferma
l'infondatezza, dal momento che la disposizione non atterrebbe alla materia elettorale, ma alla
definizione della forma di governo regionale, specificamente affidata alle determinazioni statutarie.
Diversa sarebbe la ratio delle incompatibilità “esterne” – quale, ad esempio, quella tra appartenenza al
Consiglio o alla Giunta regionale e appartenenza al Parlamento – che avrebbero la funzione di garantire
l'effettività e l'imparzialità dello svolgimento della funzione, e quella delle incompatibilità “interne” –
quale appunto quella prevista dalla norma censurata – le quali atterrebbero al modo di conformare i
rapporti tra gli organi fondamentali della Regione. La scelta su tale conformazione sarebbe riservata alla
Regione e lo statuto costituirebbe la fonte più adatta a compierla.
18. – L'impugnazione dell'art. 49, comma 2, secondo la Regione Emilia-Romagna, sarebbe il frutto
di una errata interpretazione: la disposizione, infatti, non riguarderebbe i rapporti tra fonti regionali e le
leggi statali, bensì i rapporti tra legge e regolamento regionale, al fine di dare attuazione ai regolamenti
comunitari, consentendo alla legge regionale di affidare alla potestà regolamentare la disciplina attuativa
eventualmente necessaria.
19. – Infine, infondati sarebbero anche i motivi di impugnazione riferiti all'art. 62, comma 3, dal
momento che tale disposizione non abiliterebbe la legge regionale ad interferire sul “rapporto di lavoro
nei suoi aspetti di rapporto di diritto civile”. Lo statuto lascerebbe infatti impregiudicato il problema dei
limiti entro cui la legge regionale possa intervenire a disciplinare il rapporto di lavoro.
20. – Anche l'Avvocatura dello Stato, in prossimità dell'udienza ha presentato un'ampia memoria,
nella quale si limita a ribadire analiticamente i rilievi di costituzionalità sollevati nel ricorso introduttivo.
Considerato in diritto
1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, ha impugnato gli articoli 2, comma 1, lettera f); 15, comma 1; 13, comma 1, lettera a); 17; 19; 24,
comma 4; 26, comma 3; 28, comma 2; 45, comma 2; 49, comma 2; 62, comma 3, della delibera statutaria
della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione il giorno 1° luglio 2004, ed in seconda
deliberazione il giorno 14 settembre 2004, per violazione degli articoli 1; 3; 48; 49; 97; 114; 123; 117,
secondo comma, lettere a), f), l), p); 117, terzo comma; 117, quinto comma, anche in relazione all'art. 6,
comma 1, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della
Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3); 118, primo e secondo comma; 121, secondo
comma; 122, primo comma; 123; 126; 138 della Costituzione.
In particolare l'art. 2, comma 1, lettera f), e l'art. 15, comma 1, della delibera statutaria, nella parte in
cui prevedono, rispettivamente, che la Regione assicuri, “nell'ambito delle facoltà che le sono
costituzionalmente riconosciute, il diritto di voto degli immigrati residenti”, e che la Regione,
“nell'ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, riconosce e garantisce a tutti
coloro che risiedono in un comune del territorio regionale i diritti di partecipazione contemplati nel
presente Titolo, ivi compreso il diritto di voto nei referendum e nelle altre forme di consultazione
popolare”, violerebbero: a) l'art. 48 della Costituzione, in quanto lo status di elettore andrebbe
riconosciuto solo ed esclusivamente ai cittadini; b) l'art. 1 della Costituzione, dal momento che tale
norma farebbe implicito riferimento al concetto di cittadinanza, requisito necessario per esercitare quei
diritti nei quali si sostanzia l'esercizio della sovranità; c) l'art. 117, secondo comma, lettere f) e p), della
Costituzione, in quanto contrasterebbero con l'attribuzione al legislatore statale della competenza
esclusiva in relazione agli organi dello Stato e alle relative leggi elettorali, nonché in materia di
legislazione elettorale di Comuni, Province e Città metropolitane; d) l'art. 122, primo comma, della
Costituzione, ove si ritenesse che nel “sistema di elezione” degli organi rappresentativi regionali sia
ricompresa anche la definizione del relativo corpo elettorale; e) l'art. 121, secondo comma, della
Costituzione, in quanto vincolerebbe il Consiglio regionale nella sua possibilità di fare proposte di legge
alle Camere, mentre l'esercizio di detto potere non potrebbe essere in alcun modo vincolato dallo statuto.
L'art. 13, comma 1, lettera a), della delibera statutaria, che prevede che la Regione, nell'ambito delle
materie di propria competenza, provvede direttamente all'esecuzione degli accordi internazionali stipulati
dallo Stato, nel “rispetto delle norme di procedura previste dalla legge”, violerebbe l'art. 117, secondo
comma, lettera a), della Costituzione, in quanto “per l'esercizio della prevista facoltà non pone la
condizione che gli accordi siano stati previamente ratificati e siano entrati internazionalmente in vigore”;
contrasterebbe inoltre con l'art. 117, quinto comma, della Costituzione, in quanto non specificherebbe
che la legge contenente le norme procedurali alle quali la Regione deve uniformarsi deve essere una
legge statale.
L'art. 17 della delibera statutaria, che prevede la possibilità di una istruttoria in forma di
contraddittorio pubblico, indetta dalla Assemblea legislativa, alla quale possono prendere parte anche
“associazioni, comitati e gruppi di cittadini portatori di un interesse a carattere non individuale”, per la
formazione di atti normativi o amministrativi di carattere generale, i quali dovranno poi essere motivati
con riferimento alle risultanze istruttorie, violerebbe l'art. 97 della Costituzione, nella misura in cui
comporterebbe aggravi procedurali non coerenti con il principio di buon andamento della pubblica
amministrazione.
L'art. 19 della delibera statutaria, che prevede un “diritto di partecipazione” al procedimento
legislativo in capo a “tutte le associazioni” che ne facciano richiesta, violerebbe: l'art. 121 della
Costituzione, e il principio di autonomia del Consiglio regionale ivi sancito; il “principio di coerenza” di
cui all'art. 3 della Costituzione, in quanto non sarebbe conforme al sistema di democrazia rappresentativa
realizzato dalle altre disposizioni della medesima delibera statutaria; l'art. 1, secondo comma e l'art. 49
Cost., “il quale ultimo presuppone che i fattori di politica generale (…) costituiti dai partiti siano sottesi
nel funzionamento delle assemblee legislative”.
L'art. 24, comma 4, della delibera statutaria, il quale prevede che “la Regione, nell'ambito delle
proprie competenze, disciplina le modalità di conferimento agli enti locali di quanto previsto dall'art. 118
della Costituzione, definendo finalità e durata dell'affidamento”, violerebbe l'art. 114 della Costituzione,
in quanto menomerebbe l'autonomia degli enti locali e l'art. 118 della Costituzione. Quest'ultima
disposizione impedirebbe infatti di “affidare temporaneamente” dette funzioni, in particolar modo ad
enti, quali i Comuni, le Province e le Città metropolitane, che di esse sono qualificati come “titolari”.
L'art. 26, comma 3, della delibera statutaria, il quale dispone che l'Assemblea legislativa individua,
“in conformità con la disciplina stabilita dalla legge dello Stato”, le funzioni della Città metropolitana
dell'area di Bologna, violerebbe l'art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, “che riserva
alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la materia delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e
Città metropolitane”.
L'art. 28, comma 2, della delibera statutaria, il quale prevede che “l'Assemblea (…) discute e
approva il programma di governo predisposto dal Presidente della Regione (…)”, violerebbe il canone di
“armonia con la Costituzione”, in quanto la prevista approvazione consiliare del programma di governo
instaurerebbe “irragionevolmente e contraddittoriamente tra Presidente e Consiglio regionale un rapporto
diverso rispetto a quello che consegue all'elezione a suffragio universale e diretto del vertice
dell'esecutivo (…), in relazione alla quale non sussiste il tradizionale rapporto fiduciario con il consiglio
rappresentativo dell'intero corpo elettorale”.
L'art. 45, comma 2, della delibera statutaria, nella parte in cui stabilisce l'incompatibilità della carica
di assessore con quella di consigliere regionale, violerebbe l'art. 122, primo comma, della Costituzione,
in quanto tale norma dispone che i casi di incompatibilità dei componenti della Giunta nonché dei
consiglieri regionali devono essere disciplinati dalla legge regionale nei limiti dei principî fondamentali
stabiliti con legge della Repubblica.
L'art. 49, comma 2, della delibera statutaria, il quale prevede che la Giunta disciplini l'esecuzione dei
regolamenti comunitari “nei limiti stabiliti dalla legge regionale”, violerebbe l'art. 117, quinto comma,
della Costituzione, poiché ometterebbe “di riferirsi al necessario rispetto delle norme di procedura
stabilite da legge dello Stato”.
L'art. 62, comma 3, della delibera statutaria, che prevede una disciplina regionale del rapporto di
lavoro del personale regionale, in conformità ai principi costituzionali e secondo quanto stabilito dalla
legge e dalla contrattazione collettiva, violerebbe l'art. 117, secondo comma, lettera l), della
Costituzione, in quanto porrebbe «una disciplina sostanziale del rapporto di lavoro e dei suoi aspetti
fondamentali: temi, questi, da ritenersi affidati alla competenza esclusiva statale in quanto rientranti nella
materia “ordinamento civile».
2. – Occorre dichiarare la inammissibilità delle censure relative all'art. 2, comma 1, lettera f), della
delibera statutaria impugnata, nella parte in cui la Regione si pone l'obiettivo di assicurare “nell'ambito
delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, il diritto di voto degli immigrati residenti”.
Va ricordato che negli statuti regionali entrati in vigore nel 1971 – ivi compreso quello della Regione
Emilia-Romagna – si rinvengono assai spesso indicazioni di obiettivi prioritari dell'attività regionale ed
anche in quel tempo si posero problemi di costituzionalità di tali indicazioni, sotto il profilo della
competenza della fonte statutaria ad incidere su materie anche eccedenti la sfera di attribuzione
regionale. Al riguardo, dopo aver riconosciuto la possibilità di distinguere tra un contenuto “necessario”
ed un contenuto “eventuale” dello statuto (cfr. sentenza n. 40 del 1972), si è ritenuto che la formulazione
di proposizioni statutarie del tipo predetto avesse principalmente la funzione di legittimare la Regione
come ente esponenziale della collettività regionale e del complesso dei relativi interessi ed aspettative.
Tali interessi possono essere adeguatamente perseguiti non soltanto attraverso l'esercizio della
competenza legislativa ed amministrativa, ma anche avvalendosi dei vari poteri, conferiti alla Regione
stessa dalla Costituzione e da leggi statali, di iniziativa, di partecipazione, di consultazione, di proposta, e
così via, esercitabili, in via formale ed informale, al fine di ottenere il migliore soddisfacimento delle
esigenze della collettività stessa. In questo senso si è espressa questa Corte, affermando che
l'adempimento di una serie di compiti fondamentali “legittima, dunque, una presenza politica della
regione, in rapporto allo Stato o anche ad altre regioni, riguardo a tutte le questioni di interesse della
comunità regionale, anche se queste sorgono in settori estranei alle singole materie indicate nell'articolo
117 Cost. e si proiettano al di là dei confini territoriali della regione medesima” (sentenza n. 829 del
1988).
Il ruolo delle Regioni di rappresentanza generale degli interessi delle rispettive collettività,
riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale e dalla prevalente dottrina, è dunque rilevante nel
momento presente, ai fini «dell'esistenza, accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali, di altri
possibili contenuti, sia che risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti della Regione, sia che
indichino aree di prioritario intervento politico o legislativo» (sentenza n. 2 del 2004); contenuti che
talora si esprimono attraverso proclamazioni di finalità da perseguire.
Ma la citata sentenza ha rilevato come sia opinabile la “misura dell'efficacia giuridica” di tali
proclamazioni; tale dubbio va sciolto considerando che alle enunciazioni in esame, anche se
materialmente inserite in un atto-fonte, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica,
collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche
presenti nella comunità regionale al momento dell'approvazione dello statuto.
D'altra parte, tali proclamazioni di obiettivi e di impegni non possono certo essere assimilate alle c.d.
norme programmatiche della Costituzione, alle quali, per il loro valore di principio, sono stati
generalmente riconosciuti non solo un valore programmatico nei confronti della futura disciplina
legislativa, ma sopratutto una funzione di integrazione e di interpretazione delle norme vigenti. Qui però
non siamo in presenza di Carte costituzionali, ma solo di fonti regionali “a competenza riservata e
specializzata”, cioè di statuti di autonomia, i quali, anche se costituzionalmente garantiti, debbono
comunque «essere in armonia con i precetti ed i principî tutti ricavabili dalla Costituzione» (sentenza n.
196 del 2003).
Dalle premesse appena formulate sul carattere non prescrittivo e non vincolante delle enunciazioni
statutarie di questo tipo deriva che esse esplicano una funzione, per così dire, di natura culturale o anche
politica, ma certo non normativa. Nel caso in esame, una enunciazione siffatta si rinviene proprio nell'art.
2, comma 1, lettera f), della delibera statutaria impugnata, nella parte in cui la Regione si pone l'obiettivo
di assicurare “nell'ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, il diritto di voto degli
immigrati residenti”; tale disposizione non comporta né alcuna violazione, né alcuna rivendicazione di
competenze costituzionalmente attribuite allo Stato, né fonda esercizio di poteri regionali. Va così
dichiarata inammissibile, per inidoneità lesiva della disposizione impugnata, la censura avverso la
denunciata proposizione della deliberazione statutaria.
3. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all'art. 13, comma 1, lettera a), non sono
fondate.
La disposizione impugnata, pur molto sintetica, appare agevolmente interpretabile in modo conforme
al sistema costituzionale: il riferimento all'attuazione degli accordi internazionali “stipulati” dallo Stato e
non anche “ratificati” non potrebbe certo legittimare un'esecuzione da parte regionale prima della ratifica
che fosse necessaria ai sensi dell'articolo 80 della Costituzione, anche perché in tal caso l'accordo
internazionale è certamente privo di efficacia per l'ordinamento italiano.
D'altra parte, una formula come quella utilizzata appunto nell'art. 13, comma 1, lettera a), della
delibera statutaria può riferirsi anche all' attuazione di accordi internazionali stipulati in forma
semplificata e che intervengano in materia regionale, restando ovviamente fermi i poteri statali di cui
all'articolo 120, secondo comma, della Costituzione.
Al tempo stesso, l'affermato “rispetto delle norme di procedura previste dalla legge”, non può che
essere interpretato, sia in base al tenore letterale, sia in base ad una lettura conforme al dettato
costituzionale, che come riferito alle “norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato” di cui all'art.
117, quinto comma, della Costituzione; e ciò prima ancora della considerazione delle argomentazioni
formali portate dalla difesa regionale, secondo la quale la menzione di una legge nel testo statutario
impugnato si riferirebbe alla legge dello Stato.
4. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all'art. 15, comma 1, non sono fondate.
A differenza dell'art. 2, comma 1, lettera f), di cui al precedente punto 2, l'art. 15, comma 1, si
configura come una norma relativa ad un ambito di sicura competenza regionale (“diritti di
partecipazione”), che la Regione potrà esercitare “nell'ambito delle facoltà che le sono
costituzionalmente riconosciute”.
Quest'ultima espressione della disposizione impugnata manifesta con chiarezza l'insussistenza di una
attuale pretesa della Regione di intervenire nella materia delle elezioni statali, regionali e locali,
riconoscendo il diritto di voto a soggetti estranei a quelli definiti dalla legislazione statale, od inserendo
soggetti di questo tipo in procedure che incidono sulla composizione delle assemblee rappresentative o
sui loro atti. Al tempo stesso, invece, resta nell'area delle possibili determinazioni delle Regioni la scelta
di coinvolgere in altre forme di consultazione o di partecipazione soggetti che comunque prendano parte
consapevolmente e con almeno relativa stabilità alla vita associata, anche a prescindere dalla titolarità del
diritto di voto o anche dalla cittadinanza italiana.
Appare significativo, ad esempio, che nella medesima deliberazione statutaria sia individuabile
un'esplicita disposizione in tal senso nell'art. 21, comma 1, lettera a) (non impugnato dal Governo),
poiché si attribuisce il diritto di proposta relativo a referendum consultivi anzitutto a “ottantamila
residenti nei Comuni della nostra Regione”. E ciò analogamente a quanto già previsto a livello degli enti
locali per ciò che riguarda le “circoscrizioni di decentramento comunale” (cfr. art. 17 del decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali).
Questa materia dovrà comunque trovare regolamentazione in leggi regionali, soggette anche al
sindacato di questa Corte.
5. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all'art. 17 sono infondate.
La previsione che “nei procedimenti riguardanti la formazione di atti normativi o amministrativi di
carattere generale, l'adozione del provvedimento finale può essere preceduta da istruttoria pubblica”
rappresenta l'inserimento anche a livello statutario di istituti già sperimentati e funzionanti, anche in
alcune delle maggiori democrazie contemporanee. Infondati sono quindi i rilievi sollevati nel ricorso
governativo, che muovono da una pretesa violazione dei canoni di buona amministrazione per gli atti di
natura amministrativa, o della riserva del potere legislativo al Consiglio regionale per gli atti legislativi:
questi istituti, infatti, non sono certo finalizzati ad espropriare dei loro poteri gli organi legislativi o ad
ostacolare o a ritardare l'attività degli organi della pubblica amministrazione, ma mirano a migliorare ed
a rendere più trasparenti le procedure di raccordo degli organi rappresentativi con i soggetti più
interessati dalle diverse politiche pubbliche. D'altra parte, a riprova della preminenza dell'interesse
pubblico all'efficace funzionamento delle istituzioni legislative ed amministrative, il quarto comma dello
stesso art. 17 impugnato affida alla legge regionale la regolamentazione delle “modalità di attuazione
dell'istruttoria pubblica, stabilendo i termini per la conclusione delle singole fasi e dell'intero
procedimento”.
Né, tanto meno, è condivisibile l'opinione che il giusto riconoscimento per il ruolo fondamentale
delle forze politiche che animano gli organi rappresentativi possa essere contraddetto dal riconoscimento
di alcune limitate e trasparenti procedure di consultazione da parte degli organi regionali dei soggetti
sociali od economici su alcuni oggetti di cui siano particolarmente esperti.
Quanto ai rilievi relativi al fatto che in tal caso “il provvedimento finale è motivato con riferimento
alle risultanze istruttorie”, anche volendosi in questa sede prescindere dalla contestabile configurabilità
della legge sul procedimento amministrativo come parametro di costituzionalità, basta considerare che
l'art. 3, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), non impone, ma certo non vieta, la
motivazione degli atti normativi; ed in ogni caso – come ben noto – la motivazione degli atti
amministrativi generali, nonché di quelli legislativi è la regola nell'ordinamento comunitario: sembra
pertanto evidente che la fonte statutaria di una Regione possa operare proprie scelte in questa direzione.
6. – Non sono fondate le censure di illegittimità costituzionale relative all'art. 19, concernenti le
modalità di consultazione da parte degli organi consiliari dei soggetti associativi “le cui finalità siano
improntate a scopi di interesse generale” e che chiedano di partecipare ad alcune fasi preliminari del
procedimento legislativo e della “definizione degli indirizzi politico-programmatici più generali”; al
contrario, la normativa prevede semplicemente alcune procedure per cercare di garantire (in termini più
sostanziali che nel passato) ad organismi associativi rappresentativi di significative frazioni del corpo
sociale la possibilità di essere consultati da parte degli organi consiliari. La normativa non appare
neppure tale da ostacolare la funzionalità delle istituzioni regionali e la stessa previsione di una futura
disciplina per la formazione di un albo e di un “protocollo di consultazione” potrà permettere comunque
di graduare le innovazioni compatibilmente con la piena efficienza delle istituzioni regionali.
Inoltre, il riconoscimento dell'autonomia degli organi rappresentativi e del ruolo dei partiti politici
non viene affatto negato da un disciplina trasparente dei rapporti fra le istituzioni rappresentative e
frazioni della cosiddetta società civile, secondo quanto, d'altronde, già ampiamente sperimentato da
alcuni decenni sulla base degli statuti regionali vigenti.
7. – Le censure di illegittimità costituzionale relative all'art. 24, comma 4, non sono fondate.
Il conferimento agli enti locali di funzioni amministrative nelle materie di competenza legislativa
delle Regioni tramite apposite leggi regionali presuppone, con tutta evidenza, non solo una previa
valutazione da parte del legislatore regionale delle concrete situazioni relative ai diversi settori alla luce
dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza in riferimento alle caratteristiche proprie del
sistema di amministrazione locale esistente nel territorio regionale, ma anche la perdurante ricerca del
migliore possibile modello di organizzazione del settore. Tutto ciò quindi presuppone anche la possibilità
di modificare questa legislazione sulla base dei risultati conseguiti (ciò che comunque è implicito nella
stessa attribuzione alla legge regionale del potere di conferire queste funzioni), se non pure l'eventuale
sperimentazione di diversi modelli possibili.
Le censure di costituzionalità sollevate dal ricorso muovono, invece, da una lettura non condivisibile
degli articoli. 114 e 118 della Costituzione, dal momento che sembrano ipotizzare l'esistenza di rigidi
vincoli per il legislatore regionale nell'attuazione dell'art. 118 della Costituzione ed una sostanziale
equiparazione fra funzioni degli enti locali “proprie” e “conferite”, invece ben distinte dal secondo
comma dell'art. 118 della Costituzione.
8. – La censura di illegittimità costituzionale relativa all'art. 26, comma 3, non è fondata.
Il testo di questa disposizione subordina espressamente l'esercizio dei poteri regionali
(“delimitazione dell'area metropolitana di Bologna”, “costituzione della città metropolitana”,
“individuazione delle sue funzioni”) al rispetto della “disciplina stabilita dalla legge dello Stato” e non si
può quindi dedurne la volontà della Regione di contraddire la competenza statale esclusiva in tema di
determinazione “delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”. D'altra parte il
secondo comma dell'articolo 118 della Costituzione, nell'affidare il potere di “conferimento” delle
funzioni amministrative anche alla legge regionale, si riferisce espressamente pure alle Città
metropolitane.
9. – La censura di illegittimità costituzionale relativa all'art. 28, comma 2, non è fondata.
L'Avvocatura dello Stato sostiene che la previsione che il Consiglio regionale debba discutere ed
approvare il programma di governo predisposto dal Presidente della Regione ed annualmente verificarne
l'attuazione si porrebbe in contrasto «con l'elezione diretta del Presidente (di cui sembra ridurre i poteri
di indirizzo), in quanto la prevista approvazione consiliare del programma di governo instauri
irragionevolmente e contraddittoriamente tra Presidente e Consiglio regionale un rapporto diverso
rispetto a quello che consegue all'elezione a suffragio universale e diretto del vertice dell'esecutivo». Di
conseguenza una disposizione del genere “non può ritenersi in armonia con la Costituzione”.
Al contrario, va considerato che la determinazione della forma di governo regionale da parte degli
statuti non si esaurisce nella individuazione del sistema di designazione del Presidente della Regione, ai
sensi dell'art. 122, quinto comma, della Costituzione. Nel caso che venga scelto, come fa la delibera
statutaria in oggetto, il sistema della elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della
Regione, ciò ha quale sicura conseguenza l'impossibilità di prevedere una iniziale mozione di fiducia da
parte del Consiglio, nonché la ulteriore conseguenza delle dimissioni della Giunta e dello scioglimento
del Consiglio (art. 126, terzo comma, della Costituzione) nel caso di successiva approvazione della
mozione di sfiducia nei confronti del Presidente.
Entro questi limiti, peraltro, si esplica l'autonomia statutaria, che ben può disciplinare procedure e
forme del rapporto fra i diversi organi regionali, più o meno riducendo l'area altrimenti lasciata alla
prassi o alle relazioni meramente politiche: ciò in particolare rileva nei rapporti fra Consiglio regionale,
titolare esclusivo del potere legislativo (ivi compresa la legislazione di bilancio), nonché di alcuni
rilevanti poteri di tipo amministrativo, e i poteri di indirizzo politico del Presidente della Regione che si
esprimono, tra l'altro, anche nella predisposizione del fondamentale “programma di governo” della
regione.
Appare evidente che proprio la mancata disciplina nella delibera statutaria di conseguenze di tipo
giuridico (certamente inammissibili, ove pretendessero di produrre qualcosa di analogo ad un rapporto
fiduciario), derivanti dalla mancata approvazione da parte del Consiglio del programma di governo del
Presidente, sta a dimostrare che si è voluto semplicemente creare una precisa procedura per obbligare i
fondamentali organi regionali ad un confronto iniziale e successivamente ricorrente, sui contenuti del
programma di governo; confronto evidentemente ritenuto ineludibile e produttivo di molteplici effetti sui
comportamenti del Presidente e del Consiglio: starà alla valutazione del Presidente prescindere
eventualmente dagli esiti di tale dialettica, così come starà al Consiglio far eventualmente ricorso al
drastico strumento della mozione di sfiducia, con tutte le conseguenze giuridiche previste dall'art. 126,
terzo comma, della Costituzione.
10. – La censura di illegittimità costituzionale relativa all'art. 45, comma 2, è fondata limitatamente
al terzo periodo del comma.
L'articolo 122 della Costituzione riserva espressamente alla legge regionale, “nei limiti dei principî
fondamentali stabiliti con legge della Repubblica”, la determinazione delle norme relative al “sistema di
elezione” e ai “casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della
Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali”, senza che si possa distinguere (come invece ipotizza
la difesa regionale) fra ipotesi di incompatibilità “esterne” ed “interne” all'organizzazione istituzionale
della Regione.
È vero che le scelte in tema di incompatibilità fra incarico di componente della Giunta regionale e di
consigliere regionale possono essere originate da opzioni statutarie in tema di forma di governo della
Regione, ma – come questa Corte ha già affermato in relazione ad altra delibera statutaria nella sentenza
n.2 del 2004 – occorre rilevare che il riconoscimento nell'articolo 123 della Costituzione del potere
statutario in tema di forma di governo regionale è accompagnato dalla previsione dell'articolo 122 della
Costituzione, e che quindi la disciplina dei particolari oggetti a cui si riferisce espressamente l'art. 122
sfugge alle determinazioni lasciate all'autonomia statutaria.
Né la formulazione del terzo periodo del secondo comma dell'art. 45, del resto, può essere
interpretata come espressiva di un mero principio direttivo per il legislatore regionale, nell'ambito della
sua discrezionalità legislativa in materia.
11. – La censura di illegittimità costituzionale relativa all'art. 49, comma 2, non è fondata.
Il Governo censura l'ultimo periodo del secondo comma dell'art. 49 della delibera statutaria, che
prevede la possibilità che la Giunta regionale disciplini con regolamento, “nei limiti stabiliti dalla legge
regionale”, l'esecuzione di regolamenti comunitari, la cui applicazione evidentemente esiga l'adozione di
apposite normative: la censura muove dalla constatazione che questa disposizione statutaria non richieda
il “necessario rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato, la quale deve
disciplinare anche le modalità di esercizio del potere sostitutivo”, ciò che costituirebbe violazione
dell'art. 117, quinto comma della Costituzione.
L'art. 49 della delibera statutaria disciplina in generale i rapporti fra le leggi ed i regolamenti
regionali, dando per presupposta la titolarità da parte della Regione dei poteri normativi nelle varie
materie e pertanto non pone anche in questa sede il problema dei limiti sostanziali e procedimentali di
questi ultimi; d'altra parte, mentre il riconoscimento del potere delle Regioni di dettare discipline per
l'applicazione dei regolamenti comunitari risale all'art. 6, comma 1, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (
Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382), nulla di difforme è stato
previsto dalla legislazione statale di attuazione del nuovo Titolo V, né appare necessario ribadire
l'esistenza dei poteri sostitutivi ora previsti dal secondo comma dell'articolo 120 della Costituzione e
dall'art. 8 della legge n. 131 del 2003.
12. – La censura di illegittimità costituzionale relativa all'art. 62, comma 3, non è fondata.
Il rilievo di costituzionalità muove da una lettura del riferimento alla “legge” nel terzo comma
dell'art. 62 della delibera statutaria, come “legge regionale”: da tale interpretazione il ricorrente desume
che “la norma prevede una disciplina regionale del lavoro del personale regionale” e che quindi viola
l'articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione. Se, invece, si considera che in altri commi
dello stesso articolo là dove si è inteso fare riferimento al potere normativo della Regione, si è scritto
“legge regionale”, il terzo comma assume il significato di una disposizione meramente ricognitiva del
rapporto fra legislazione e contrattazione, alla luce dei principî costituzionali, nella disciplina del
rapporto di lavoro del personale regionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 45, comma 2, terzo periodo, della delibera statutaria
della Regione Emilia-Romagna, approvata in prima deliberazione il giorno 1° luglio 2004, ed in seconda
deliberazione il giorno 14 settembre 2004;
2) dichiara l'inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera f
), della predetta delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposte con il ricorso indicato in
epigrafe, per violazione degli artt. 1, 48, 117, secondo comma, lettere f) e p), 122, primo comma, e 121,
secondo comma, della Costituzione;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 1, lettera a),
della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposte con il ricorso indicato in epigrafe, per
violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera a), e dell'art. 117, quinto comma, della Costituzione;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, della delibera
statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposte con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione
degli artt. 1, 48, 117, secondo comma, lettere f) e p), 122, primo comma, e 121, secondo comma, della
Costituzione;
5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 17 della delibera statutaria
della Regione Emilia-Romagna, proposte con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione dell'articolo
97 della Costituzione e dei “principî in tema di attività normativa”;
6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 19 della delibera statutaria
della Regione Emilia-Romagna, proposte con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione degli articoli
1, secondo comma, 3, 49 e 121 della Costituzione;
7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 24, comma 4, della delibera
statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposte con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione
degli articoli 114 e 118 della Costituzione;
8) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 26, comma 3, della delibera
statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposta con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione
dell'art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione;
9) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 28, comma 2, della delibera
statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposta con il ricorso indicato in epigrafe, per violazione del
canone di “armonia con la Costituzione” di cui all'articolo 123 della Costituzione;
10) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 49, comma 2, della
delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposta con il ricorso indicato in epigrafe, per
violazione dell'art. 117, quinto comma, della Costituzione;
11) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 62, comma 3, della
delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, proposta con il ricorso indicato in epigrafe, per
violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 novembre
2004.
F.to:
Valerio ONIDA, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2004.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 304/2002
Giudizio
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente RUPERTO - Redattore MEZZANOTTE
Udienza Pubblica del 26/02/2002 Decisione del 20/06/2002
Deposito del 03/07/2002 Pubblicazione in G. U. 10/07/2002
Norme impugnate:
Massime:
27202 27203 27204 27205
Atti decisi:
T
i
t
o
l
o
Regioni di diritto comune - Statuto regionale - Procedimento di formazione e posizione nel sistema delle
f o n t i
r e g i o n a l i .
T
e
s
t
o
La legge costituzionale n. 1 del 1999 ha introdotto un procedimento aggravato di formazione dello
statuto regionale imponendo al Consiglio regionale due successive deliberazioni a maggioranza assoluta,
adottate ad intervallo non minore di due mesi; ha escluso il controllo preventivo del Governo, lasciando
però che ad esso restasse assoggettata la generalità delle leggi regionali ed ha previsto in sua vece uno
speciale controllo di legittimità da parte della Corte costituzionale; ha infine prefigurato una eventuale
consultazione referendaria, secondo un modello che richiama quello previsto per le leggi di revisione
costituzionale. Tale disciplina, da un lato, appaga le istanze autonomistiche con l'attribuzione allo statuto
di un valore giuridico che lo colloca al vertice delle fonti regionali e con la scomparsa dell'approvazione
parlamentare; dall'altro, salvaguarda il principio di legalità costituzionale attraverso una protezione
adeguata alla speciale collocazione dello statuto nella gerarchia delle fonti regionali: la previsione di un
controllo di legittimità costituzionale in via preventiva delle deliberazioni statutarie è intesa infatti ad
impedire che eventuali vizi di legittimità dello statuto si riversino a cascata sull'attività legislativa e
amministrativa della Regione, per le parti in cui queste siano destinate a trovare nello statuto medesimo il
proprio
fondamento
esclusivo
o
concorrente.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 123
legge costituzionale 22/11/1999 n. 1
T
i
t
o
l
o
Regioni di diritto comune - Statuto regionale - Controllo di legittimità costituzionale - Termine per
promuovere
la
questione
dinanzi
alla
corte
costituzionale
Decorrenza.
T
e
s
t
o
Ai fini della ammissibilità della questione di legittimità costituzionale di una deliberazione legislativa
statutaria adottata in seconda votazione, il termine per promuovere il controllo dinanzi alla Corte decorre
dalla pubblicazione notiziale della delibera statutaria e non da quella, successiva alla promulgazione, che
è
condizione
per
l'entrata
in
vigore.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 123
Costituzione art. 127
legge costituzionale 22/11/1999 n. 1
T
i
t
o
l
o
Regioni di diritto comune - Autonomia statutaria - Esercizio frazionato e revisioni parziali dello statuto
ancora
vigente
Ammissibilità.
T
e
s
t
o
In assenza di statuizioni costituzionali esplicite che siano dirette a limitarne la portata, il conferimento
alle Regioni della potestà normativa regionale di grado più elevato, quella statutaria, non può non
incorporare il potere di determinarne le modalità ed i tempi di esercizio: sicché le Regioni possono
disporre del vecchio statuto approvato con legge statale, ancora vigente, decidendo di conservarlo in
tutto o in parte e per un periodo transitorio più o meno lungo, ovvero modificarlo o sostituirlo
integralmente
o
in
qualche
sua
parte.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 123
legge costituzionale 22/11/1999 n. 1
T
i
t
o
l
o
Regione marche - Deliberazione statutaria - Disciplina concernente l’esecutivo regionale - Esercizio
delle funzioni presidenziali, da parte del vice presidente, in caso di morte e di impedimento permanente
del presidente della giunta regionale - Palese contrasto della deliberazione statutaria con la disciplina
costituzionale
transitoria
Illegittimità
costituzionale.
T
e
s
t
o
E' costituzionalmente illegittima, per contrasto con gli artt. 122, ultimo comma, e 126, terzo comma,
della Costituzione, nonché con l'art. 5, comma 2, lettera b), della legge costituzionale 22 novembre 1999,
n. 1, la deliberazione legislativa statutaria adottata, in seconda votazione, il 24 luglio 2001 dal Consiglio
regionale della Regione Marche, la quale dispone che, fino alla approvazione del nuovo statuto
regionale, nel caso di morte o impedimento permanente del Presidente della Giunta regionale, il
vicepresidente, nominato ai sensi dell'art. 5, comma 2, lettera a), della legge costituzionale n. 1 del 1999,
subentra al Presidente nell'esercizio delle relative funzioni. Infatti le Regioni, fino a quando non avranno
compiuto, nell'esercizio dell'autonomia statutaria loro riconosciuta, la scelta in ordine alla propria forma
di governo (con la possibilità di optare eventualmente per un sistema di elezione del Presidente della
Giunta regionale diverso dal suffragio diretto), sono tenute all'osservanza del vincolo costituzionale
posto dalle norme evocate come parametro, secondo cui "l'approvazione della mozione di sfiducia nei
confronti del Presidente della Giunta eletto a suffragio universale e diretto, nonché la rimozione,
l'impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie dello stesso comportano le dimissioni
della
Giunta
e
lo
scioglimento
del
Consiglio".
Atti oggetto del giudizio
delibera legislativa statutaria regione Marche 24/07/2001
Parametri costituzionali
Costituzione art. 122 ultimo comma
Costituzione art. 123
Costituzione art. 126 co. 3
legge costituzionale 22/11/1999 n. 1 art. 5 co. 2 co. lettera b)
Pronuncia
N. 304
SENTENZA 20 GIUGNO-3 LUGLIO 2002.
Pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» n. 27 del 10 luglio 2002
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Cesare RUPERTO; Giudici: Massimo VARI, Riccardo CHIEPPA,
Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI
MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK,
Francesco AMIRANTE;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale della deliberazione legislativa statutaria adottata, in seconda
votazione, il 24 luglio 2001 dal Consiglio regionale della Regione Marche e recante "Disciplina
transitoria in attuazione dell'articolo 3 della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1", promosso con
ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 7 settembre 2001, depositato in cancelleria il
15 successivo ed iscritto al n. 38 del registro ricorsi 2001.
Visto l'atto di costituzione della Regione Marche;
Udito nell'udienza pubblica del 26 febbraio 2002 il giudice relatore Carlo Mezzanotte;
Uditi l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato
Stefano Grassi per la Regione Marche.
Ritenuto in fatto
1. - Il Governo della Repubblica ha proposto questione di legittimità costituzionale della
deliberazione legislativa statutaria adottata, in seconda votazione, il 24 luglio 2001 dal Consiglio
regionale della Regione Marche e recante "Disciplina transitoria in attuazione dell'articolo 3 della legge
costituzionale 22 novembre 1999, n. 1", denunciandone il contrasto con gli artt. 122, ultimo comma, e
126, terzo comma, della Costituzione, nonché con l'art. 5, comma 2, lettera b), della legge costituzionale
22 novembre 1999, n. 1, recante "Disposizioni concernenti l'elezione diretta del Presidente della Giunta
regionale e l'autonomia statutaria delle Regioni".
In via preliminare l'Avvocatura rammenta che la deliberazione legislativa impugnata non è stata
ancora promulgata, in ossequio al dettato dell'art. 123, comma 3, della Costituzione e che dal tenore delle
disposizioni costituzionali non è dato comprendere se essa possa essere promulgata in pendenza di
giudizio costituzionale, quando siano decorsi i tre mesi previsti per la richiesta di referendum
confermativo e qualora questo non sia stato richiesto, né è possibile dedurre se, in pendenza del giudizio
costituzionale, possa essere fissata la data della consultazione referendaria.
L'art. 1 dell'atto impugnato dispone che, fino alla approvazione del nuovo statuto regionale, nel caso
di morte o impedimento permanente del Presidente della Giunta regionale, il vicepresidente, nominato ai
sensi dell'art. 5, comma 2, lettera a), della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, subentra al
presidente nell'esercizio delle relative funzioni.
L'Avvocatura dello Stato contesta innanzitutto il meccanismo di approvazione delle modifiche
statutarie al quale si è dato corso. Si osserva in proposito che l'art. 123 della Costituzione attribuisce al
legislatore regionale la potestà di approvare e modificare lo statuto, e da ciò dovrebbe desumersi che sia
consentito solo approvare uno statuto organico, salva successiva sua modifica, mentre resterebbe
preclusa la possibilità di emendare lo statuto vigente, così da dare vita ad un testo statutario "misto". Ciò
corrisponderebbe all'esigenza di rendere manifesto il disegno istituzionale complessivo, sia al corpo
elettorale eventualmente interpellato mediante consultazione referendaria, sia allo stesso Governo della
Repubblica legittimato a ricorrere dinanzi a questa Corte.
La difesa erariale sostiene inoltre che la deliberazione impugnata sarebbe in contrasto con l'art. 122,
ultimo comma, con l'art. 126, terzo comma, Cost. e con l'art. 5, comma 2, lettera b), della legge
costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, disposizioni, queste, che collegano alla morte, all'impedimento
permanente e alle dimissioni volontarie del Consiglio regionale l'effetto automatico dello scioglimento
del Consiglio regionale, con la conseguente necessità di procedere a nuove elezioni. Secondo
l'Avvocatura sarebbe sottratta alla potestà statutaria delle Regioni ogni possibilità di incidere
sull'automatismo di tale regola, come intende fare invece la deliberazione impugnata. Il carattere
transitorio della disposizione, soggiunge la difesa del Presidente del Consiglio, non sarebbe tale da far
venire meno i denunciati vizi di costituzionalità.
2. - Si è costituito in giudizio, per la Regione Marche, il Presidente della Giunta regionale.
La difesa della Regione contesta in primo luogo l'argomento secondo il quale l'art. 123
ammetterebbe solo la approvazione di un testo statutario organico, replicando che sul piano logico come
su quello normativo non sarebbe possibile escludere che la Regione approvi modifiche statutarie parziali,
perché ciò equivarrebbe a negare ad essa la stessa autonomia statutaria, che così come potrebbe essere
esplicata in pieno con l'approvazione di un intero statuto, allo stesso modo potrebbe essere esercitata
anche per approvare norme che lo emendino solo in parte. Il pericolo, paventato dall'Avvocatura, di
interventi plurimi e frammentari che tolgano ogni organicità al testo statutario risulterebbe d'altro canto
scongiurato sia per la particolarità della fattispecie disciplinata dalla deliberazione impugnata, sia per il
carattere provvisorio di detta delibera.
Dopo aver premesso che la regola per la quale in caso di mozione di sfiducia, dimissioni volontarie,
impedimento permanente o morte del Presidente della Giunta si procede alla indizione di nuove elezioni
costituisce espressione del sistema di governo regionale, come delineato dall'art. 122, ultimo comma,
della Costituzione, la difesa regionale osserva però che lo stesso art. 122 mantiene la scelta del
meccanismo di elezione del Presidente della Giunta regionale in capo alla Regione, quando afferma che
esso è eletto a suffragio universale e diretto "salvo che lo statuto regionale disponga diversamente". Da
tale disposizione potrebbe desumersi che ogni Regione sia autorizzata ad adottare un sistema di governo
che preveda il subentro del vicepresidente in caso di morte o impedimento permanente del Presidente
della Giunta. Né la disposizione così posta potrebbe essere in alcun modo equiparata all'ipotesi di
dimissioni volontarie del presidente o di mozione motivata di sfiducia, perché in entrambi questi casi
viene a spezzarsi il rapporto fiduciario che deve sussistere tra Consiglio regionale e Presidente della
Giunta, mentre nell'ipotesi di subentro del vicepresidente la relazione fiduciaria non ne verrebbe
intaccata.
Ulteriore conferma della legittimità della disposizione statutaria impugnata dovrebbe trarsi dal
rilievo che l'art. 123 attribuisce alla Regione la potestà di determinare, con lo statuto, la propria forma di
governo. Il richiamo alla necessità di armonizzare la potestà statutaria con la Costituzione, in effetti, non
postulerebbe una assoluta aderenza al modello tratteggiato dalle norme costituzionali, ma implicherebbe
la possibilità di una autonoma capacità di interpretazione dei principi costituzionali da parte della
Regione. Anche sotto questo profilo dovrebbe dunque riconoscersi che la deliberazione impugnata
costituisce una integrazione del tutto logica e coerente, oltre che temporalmente delimitata, delle
previsioni costituzionali in materia di forma di governo regionale.
3. - In prossimità della data fissata per la pubblica udienza la Regione Marche ha presentato ulteriori
memorie, nelle quali, dopo aver dato atto che la legge statutaria oggetto del giudizio non è stata ancora
promulgata, sostiene che il nuovo articolo 123 della Costituzione non impone che l'esercizio della
potestà statutaria si realizzi uno actu, ma consente interventi modificativi sugli statuti previgenti
approvati con legge statale. Sarebbe dunque da considerare legittimo ogni intervento di integrazione
dello statuto che presenti i caratteri di un atto di esercizio della potestà statutaria conferita dal nuovo art.
123 della Costituzione. La "novità" dello statuto, continua la difesa regionale, da un punto di vista logico
non richiederebbe necessariamente l'approvazione di un testo organico che sostituisca integralmente il
vecchio e non potrebbe essere negata di fronte al concreto esercizio, sia pure parziale, della nuova
potestà statutaria riconosciuta alle Regioni. Se si riflette sulla natura del nuovo statuto regionale e sul suo
rapporto con quello vigente, secondo la difesa delle Marche, non potrebbe dubitarsi della legittimità della
delibera impugnata. In effetti, secondo la Regione, il nuovo statuto, così come il vecchio, è una "fonte
sub-costituzionale a competenza materiale riservata", che si colloca in posizione sovraordinata rispetto
alle altre fonti primarie e quindi condiziona la validità delle leggi regionali, analogamente a quanto
avveniva nel regime precedente la riforma del Titolo V, parte II, della Costituzione. Nonostante il
diverso procedimento di formazione e l'ampliamento del relativo ambito materiale, quindi, lo statuto
avrebbe conservato integra la propria natura, la propria collocazione nel sistema delle fonti normative,
nonché la propria funzione istituzionale. In questi termini, una novella parziale effettuata
successivamente alla entrata in vigore della legge costituzionale n. 1 del 1999 dovrebbe considerarsi
legittima quanto quella effettuata prima, unico elemento di diversità tra le due fattispecie essendo la
fonte abilitata a porre in essere la revisione statutaria.
Quanto alla ipotizzata violazione, da parte della delibera impugnata, dell'art. 126, ultimo comma,
della Costituzione, la Regione rileva che la regola aut simul stabunt aut simul cadent in esso posta
sarebbe diretta a disciplinare il rapporto tra presidente e Consiglio solo nel contesto di una forma di
governo autonomamente definita dallo statuto e di una legge elettorale che preveda l'elezione diretta del
Presidente della Giunta, ed afferma che nessuna di queste condizioni ricorrerebbe nel caso di specie. La
Regione Marche, infatti, non ha ancora adottato uno statuto organico che definisca la propria forma di
governo, né una legge elettorale regionale, a causa dell'inerzia del legislatore statale, cui compete, ai
sensi dell'art. 122, primo comma, della Costituzione la definizione dei principi della legislazione
elettorale regionale. Non ricorrerebbero dunque i presupposti per l'applicazione, alla disciplina transitoria
impugnata, dell'art. 126, ultimo comma, della Costituzione. In ogni caso, anche a ritenere che esso possa
trovare applicazione, la difesa della Regione contesta che l'elezione del Presidente della Giunta
regionale, come disciplinata dalla legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei
consigli delle Regioni a statuto ordinario) e dall'art. 5, primo comma, della legge costituzionale n. 1 del
1999, possa essere considerata tecnicamente "a suffragio universale e diretto". Affinché una elezione
presenti tali caratteristiche, occorrerebbe "che il candidato risulti eletto non soltanto da tutti i soggetti
titolari della capacità elettorale attiva, ma anche che la scelta avvenga direttamente ed immediatamente,
senza dunque che questa sia filtrata o mediata da altri meccanismi o organi o procedure". Ciò
postulerebbe che la manifestazione del voto si esprima sulla base di una scheda che propone all'elettore
solo la scelta di un capo dell'Esecutivo, cosa che attualmente non accade. L'art. 5 poc'anzi citato, del
resto, non parla mai né di elezione diretta, né di suffragio universale e diretto, ma introduce la
indicazione popolare del presidente della Giunta all'interno di un sistema elettorale che prevede che il
presidente risulti eletto in quanto capolista della lista regionale dei candidati al Consiglio che ha ottenuto
il maggior numero di voti. La stessa legge elettorale, continua la Regione, reca previsioni incompatibili
con il sistema della elezione diretta del presidente. Segnatamente, l'art. 2 della legge n. 43 del 1995, nel
disporre che - qualora l'elettore esprima il suo voto soltanto per una lista provinciale, il voto si intende
validamente espresso anche a favore della lista regionale collegata - dimostrerebbe come al capolista
possano essere attribuiti anche voti non espressamente indirizzati a lui, tradendo così la logica della
elezione a suffragio universale e diretto. Su queste premesse la difesa della Regione Marche conclude
che, in mancanza di un sistema di elezione diretta, la regola simul stabunt simul cadent non possa trovare
applicazione. Proprio l'inapplicabilità dell'art. 126, ultimo comma, nella vigenza dell'attuale sistema
elettorale, avrebbe indotto il legislatore costituzionale ad introdurre una apposita disposizione transitoria
diretta a vincolare anche l'elezione attuale del presidente al regime della caduta contestuale con il
Consiglio. Sarebbe questa disposizione transitoria, non già l'art. 126, ultimo comma, ad applicarsi fino
alla data di entrata in vigore dei nuovi statuti regionali e delle nuove leggi regionali, posto che giova
ricordare - la deliberazione impugnata opera all'interno di un sistema nel quale è ancora vigente la legge
elettorale n. 43 del 1995. La deliberazione impugnata, secondo la Regione, si collocherebbe tuttavia nel
campo di applicazione non del primo, ma del secondo comma, lettera b), dell'art. 5 della legge
costituzionale n. 1 del 1999. Tale disposizione - che a differenza di quella del comma 1, definisce un
regime transitorio "fino all'entrata in vigore dei nuovi statuti", indipendentemente dalla intervenuta
adozione della legge elettorale regionale - sarebbe diretta a disciplinare le situazioni nelle quali continua
ad applicarsi un sistema elettorale definito dalla legge statale vigente e non è stato ancora approvato un
nuovo statuto organico. Sarebbe dunque la stessa disposizione costituzionale testé menzionata ad
autorizzare il legislatore regionale, nell'esercizio della sua nuova potestà statutaria, a porre deroghe alla
regola simul stabunt simul cadent.
Anche ad ammettere che l'art. 126, ultimo comma, della Costituzione si debba applicare alla
deliberazione legislativa impugnata, l'introduzione di deroghe alla contestuale permanenza in carica di
presidente e Consiglio rientrerebbe, secondo la difesa della Regione, nella competenza che il nuovo art.
123 riconosce allo statuto in materia di forma di governo. Il limite della "armonia" con la Costituzione, al
quale è soggetta la potestà statutaria, dovrebbe infatti essere riferito alle scelte di fondo che ispirano la
Carta, non già al rispetto formale di singole, puntuali disposizioni costituzionali. In tale prospettiva, la
disciplina impugnata non potrebbe definirsi "orientata contro la Costituzione", in quanto sarebbe diretta
semplicemente ad integrare il precedente statuto senza pregiudicare le scelte da effettuare con il nuovo.
In un quadro di autonomia nel quale lo stesso legislatore costituzionale consente allo statuto di introdurre
deroghe alla elezione diretta del Presidente, continua la Regione, dovrebbe a fortiori considerarsi
legittima una modifica come quella oggetto di impugnativa, che non pone in questione il rapporto
fiduciario tra Giunta e Consiglio regionale, e quindi non compromette la finalità stabilizzatrice alla quale
tende la regola simul stabunt simul cadent. Il subentrare del vicepresidente nelle ipotesi di morte o
impedimento permanente del presidente, infatti, non inciderebbe in alcun modo sul rapporto di fiducia,
ma anzi consentirebbe a tale rapporto di proseguire, nonostante le vicende naturali che coinvolgano la
persona fisica del Presidente della Giunta.
Considerato in diritto
1. - Viene all'esame di questa Corte la questione di legittimità costituzionale della deliberazione
legislativa statutaria adottata, in seconda votazione, il 24 luglio 2001 dal Consiglio regionale della
Regione Marche e recante "Disciplina transitoria in attuazione dell'articolo 3 della legge costituzionale
22 novembre 1999, n. 1", il quale dispone che, fino alla approvazione del nuovo statuto regionale, nel
caso di morte o impedimento permanente del Presidente della Giunta regionale, il vicepresidente,
nominato ai sensi dell'art. 5, comma 2, lettera a), della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1
(Disposizioni concernenti l'elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l'autonomia statutaria
delle Regioni), subentra al Presidente nell'esercizio delle relative funzioni. Il Governo della Repubblica
ne denuncia il contrasto con gli artt. 122, ultimo comma, e 126, terzo comma, della Costituzione, nonché
con l'art. 5, comma 2, lettera b), della legge costituzionale n. 1 del 1999.
Poiché si tratta del primo ricorso proposto ai sensi dell'art. 123 della Costituzione, nel testo risultante
dalla revisione operata con la legge costituzionale n. 1 del 1999, occorre preliminarmente chiarire, ai fini
della ammissibilità della questione, che il termine per promuovere il controllo di legittimità
costituzionale dinanzi a questa Corte decorre dalla pubblicazione notiziale della delibera statutaria e non
da quella, successiva alla promulgazione, che è condizione per l'entrata in vigore.
Ancor prima di scendere nell'esegesi delle singole proposizioni costituzionali, va detto che una
soluzione diversa da quella appena indicata non potrebbe certo fondarsi su una esigenza di simmetria con
il giudizio di legittimità sulle leggi regionali, che ormai, a seguito della revisione dell'art. 127 Cost., così
come risultante dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda
della Costituzione), è successivo alla entrata in vigore della legge. Ragioni di coerenza sistematica
inducono a negare che il valore della legge regionale - inteso nel senso convenzionale di trattamento
giuridico - sia in tutto assimilabile a quello degli statuti regionali, la peculiarità dei quali si fa evidente se
si considerano le diverse innovazioni che li hanno coinvolti. Il legislatore del 1999 ha introdotto un
procedimento aggravato di formazione dell'atto, imponendo al Consiglio regionale due successive
deliberazioni a maggioranza assoluta, adottate ad intervallo non minore di due mesi; ha escluso il
controllo preventivo del Governo, lasciando però che ad esso restasse assoggettata la generalità delle
leggi regionali ed ha previsto in sua vece uno speciale controllo di legittimità da parte della Corte
costituzionale; ha infine prefigurato una eventuale consultazione referendaria, sicché può dirsi che il
procedimento di formazione richiami il modello che l'art. 138 della Costituzione delinea per le leggi di
revisione costituzionale.
Complessivamente considerata, la disciplina posta dall'art. 123 è chiara nelle sue linee portanti e
realizza un assetto normativo unitario e compatto, in cui ciascuna previsione è assistita da una propria
ragione costituzionale, e tutte si legano tra loro in un vincolo di coerenza sistematica, che disvela il
ponderato equilibrio delle scelte del legislatore costituzionale. Da un lato, le istanze autonomistiche sono
state pienamente appagate con l'attribuzione allo statuto di un valore giuridico che lo colloca al vertice
delle fonti regionali e con la scomparsa dell'approvazione parlamentare; dall'altro, il principio di legalità
costituzionale ha ricevuto una protezione adeguata alla speciale collocazione dello statuto nella gerarchia
delle fonti regionali: la previsione di un controllo di legittimità costituzionale in via preventiva delle
deliberazioni statutarie è intesa infatti ad impedire che eventuali vizi di legittimità dello statuto si
riversino a cascata sull'attività legislativa e amministrativa della Regione, per le parti in cui queste siano
destinate a trovare nello statuto medesimo il proprio fondamento esclusivo o concorrente.
Ebbene, se si considera la essenziale posizione che, nell'art. 123 Cost., assume l'impugnazione
governativa dinanzi alla Corte costituzionale e si tiene conto delle istanze alle quali tale posizione
corrisponde, la tesi sostenuta dalla difesa regionale, secondo cui la modifica dell'art. 127 Cost. avrebbe
comportato l'assimilazione del regime giuridico degli statuti a quello delle "ordinarie" leggi regionali,
non può essere accolta. Pieno riconoscimento di autonomia statutaria e controllo preventivo di legittimità
costituzionale rappresentavano, nel sistema della legge costituzionale n. 1 del 1999, un binomio
inscindibile, che la successiva modificazione del trattamento delle leggi regionali non ha minimamente
scalfito e che conserva la sua autonoma ragion d'essere anche dopo l'ampia revisione del Titolo V della
parte II e la connessa modificazione del regime di impugnazione delle leggi regionali.
2. - Il quadro sistematico poc'anzi tratteggiato non è contraddetto dall'esegesi delle disposizioni
costituzionali coinvolte.
L'art. 123, secondo comma, della Costituzione dopo aver disciplinato il procedimento di formazione
dello statuto regionale ed aver statuito che per tale peculiare legge non è richiesta l'apposizione del visto
da parte del Commissario del Governo, dispone che "il Governo della Repubblica può promuovere la
questione di legittimità costituzionale sugli statuti regionali dinanzi alla Corte costituzionale entro trenta
giorni dalla loro pubblicazione". Il successivo comma prevede che lo statuto "è sottoposto a referendum
popolare qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione ne faccia richiesta un cinquantesimo degli
elettori della Regione o un quinto dei componenti il Consiglio regionale" e stabilisce che "lo statuto
sottoposto a referendum non è promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti validi".
La parola pubblicazione, utilizzata nel terzo comma, indica un evento che è anteriore alla
promulgazione dello statuto (e quindi anche alla pubblicazione cosiddetta necessaria che ne determina
l'entrata in vigore) e che funge da momento iniziale per il decorso del termine per richiedere referendum.
È a questo punto assai arduo immaginare, in assenza di una esplicita indicazione in tal senso da parte del
legislatore costituzionale, che quella stessa parola "pubblicazione", che compare nel comma precedente e
che ha, anch'essa, la funzione di scandire l'iniziale decorso di un termine (quello entro il quale il Governo
della Repubblica può promuovere la questione di legittimità costituzionale sugli statuti regionali), abbia
un significato totalmente disomogeneo e stia ad indicare non una pubblicazione a fini notiziali, ma la
pubblicazione successiva alla promulgazione, la cui funzione, di per sé, non è quella di provocare
l'apertura di termini, ma l'entrata in vigore degli atti normativi.
L'interpretazione testuale induce dunque a ritenere che il termine pubblicazione di cui ai commi
secondo e terzo indichi forme di pubblicità notiziale; conclusione non dissimile suggerisce l'architettura
logica dell'art. 123 della Costituzione. Le diverse disposizioni delle quali la disciplina degli statuti
regionali si compone sono poste in una successione che corrisponde pienamente all'articolazione del
controllo in due fasi procedimentali distinte ed autonome: il giudizio di legittimità e il referendum. Ad
accogliere la tesi che il giudizio della Corte debba avvenire su deliberazioni statutarie già entrate in
vigore, la sequenza procedimentale, che nell'art. 123 ha un andamento logicamente coerente, ne
risulterebbe rovesciata: sarebbe infatti disciplinato prima, nel secondo comma, un controllo di legittimità
temporalmente successivo, e quindi, nel terzo, una consultazione popolare avente ad oggetto quello
stesso atto la cui validità potrebbe essere, in tutto o in parte, negata dalla Corte costituzionale. Proprio
quest'ultima considerazione, insieme agli argomenti testuali e sistematici dei quali si è detto, rende
ragione della simmetria tra la collocazione topografica delle disposizioni e la successione temporale delle
attività in esse previste.
In conclusione, il ricorso proposto dal Governo prima che la deliberazione statutaria sia entrata in
vigore, ma nei trenta giorni dalla pubblicazione notiziale della deliberazione stessa sul bollettino ufficiale
della Regione, è da ritenere ammissibile.
3. - Una prima censura investe la deliberazione del Consiglio regionale della Regione Marche per
aver essa disposto una modifica solo parziale dello statuto. La potestà di "approvare e modificare lo
statuto", ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, autorizzerebbe solo l'approvazione di uno statuto
organico e la sua successiva modifica, ma non comprenderebbe la possibilità di emendare lo statuto
ancora vigente, approvato con legge statale. La molteplicità di atti normativi autodefinentisi statuti ragiona la difesa erariale - in assenza di uno statuto interamente prodotto dalla Regione potrebbe far
sorgere difficoltà interpretative insormontabili e rendere oscuro il disegno istituzionale complessivo sia
al Governo, legittimato a ricorrere innanzi alla Corte costituzionale, sia al corpo elettorale nell'eventuale
fase referendaria.
Nessuno di tali rilievi può essere accolto, a partire dalla idea alla quale la censura è ispirata, che
guarda ai vecchi e tuttora vigenti statuti come pura espressione di potestà statale e non ravvisa in essi,
nella sostanza, una manifestazione di autonomia regionale, nonostante la loro imputazione formale e
nonostante i limiti assai più pregnanti entro i quali li costringeva l'originaria formulazione dell'articolo
123 della Costituzione. Deliberati dal Consiglio regionale, quegli statuti erano bensì approvati con legge
statale, ma non potevano da questa essere emendati né successivamente modificati unilateralmente. Si
può certo dire che le norme in essi contenute non erano interamente disponibili dalle Regioni, ma oggi,
dopo l'innovazione introdotta dalla legge costituzionale n. 1 del 1999, lo sono divenute: solo la legge
regionale, con il peculiare procedimento previsto dal nuovo articolo 123 della Costituzione, può
modificarle o sostituirle. Se esse sono destinate a sopravvivere in tutto o in parte e per un periodo
transitorio più o meno lungo, ciò accade per una scelta ascrivibile alla Regione. E se ne può dedurre che
il vecchio contenuto degli statuti risultante dalle leggi statali di approvazione e quello nuovo che
prenderà vita nelle future deliberazioni statutarie sono unificati dal potere, che solo alle Regioni è
attribuito, di disporne: ciò che li rende, nel loro insieme e senza possibilità alcuna di distinguerli in
ragione della diversa provenienza, espressione di autonomia.
Quanto poi all'argomento speso dalla difesa statale, per il quale la frammentarietà di plurimi
interventi di revisione statutaria creerebbe disorientamento nell'elettorato e nel Governo perché
renderebbe incerto e precario il disegno riformatore complessivo, si tratta di un rilievo inidoneo a
fondare un onere costituzionale di revisione totale degli statuti regionali vigenti e che mostra la sua
inconsistenza se appena si considera che anche in riferimento al procedimento di revisione costituzionale
è fisiologico, e comunque comprovato dalla prassi applicativa dell'art. 138 della Costituzione, che
l'elettorato possa essere chiamato a pronunciarsi su proposte di revisione parziale.
Del resto una limitazione tanto grave della potestà normativa regionale di grado più elevato, che
resterebbe paralizzata finché non prendesse forma nella approvazione di un testo integralmente
sostitutivo di quello vigente, non potrebbe certo essere affermata argomentando da presunti
inconvenienti pratici derivanti dall'esercizio frazionato dell'autonomia statutaria. In assenza di statuizioni
costituzionali esplicite che siano dirette a limitarne la portata, il conferimento alle Regioni di tale
autonomia non può non incorporare il potere di determinarne le modalità ed i tempi di esercizio.
4. - Con una seconda censura, il Governo lamenta che la deliberazione statutaria impugnata, nel
prevedere che in via transitoria, e segnatamente fino alla approvazione del nuovo statuto regionale, il
vicepresidente della Giunta regionale subentra al Presidente nell'esercizio delle relative funzioni, nel caso
di morte o impedimento permanente di quest'ultimo, sarebbe in contrasto con gli artt. 122, ultimo
comma, e 126, terzo comma, Cost., nonché con l'art. 5, comma 2, lettera b), della legge costituzionale 22
novembre 1999, n. 1.
La questione è fondata.
L'art. 126, terzo comma, della Costituzione dispone: "L'approvazione della mozione di sfiducia nei
confronti del Presidente della Giunta eletto a suffragio universale e diretto, nonché la rimozione,
l'impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie dello stesso comportano le dimissioni
della Giunta e lo scioglimento del Consiglio".
Analoga è la formulazione dell'art. 5, comma 2, lettera b), della legge costituzionale n. 1 del 1999,
dettato in relazione al periodo transitorio ("fino alla entrata in vigore dei nuovi statuti").
Il significato delle due disposizioni è evidente: con esse si tende a garantire, mediante il vincolo del
simul stabunt, simul cadent la stabilità dell'esecutivo regionale. Identiche nella ratio le due previsioni
normative si differenziano per la loro sfera temporale di operatività. L'art. 5, comma 2, lettera b),
contiene la disciplina transitoria, destinata a permanere fino a quando, nell'esercizio dell'autonomia
statutaria loro riconosciuta dall'art. 123, primo comma, le Regioni compiranno la scelta in ordine alla
propria forma di governo. Solo in quel caso sarà loro consentito esercitare la facoltà prevista dall'ultimo
comma dell'art. 126 e optare per un sistema di elezione del Presidente della Giunta regionale diverso dal
suffragio diretto, ciò che le scioglierà dall'osservanza del vincolo costituzionale di cui si parla.
Non vale l'obiezione della difesa regionale secondo cui il sistema elettorale che l'art. 5, comma 1,
della legge costituzionale n. 1 del 1999 impone alle Regioni fino alla adozione dei nuovi statuti e delle
nuove leggi elettorali non darebbe luogo ad una vera e propria elezione del Presidente della Giunta a
suffragio diretto. Quale che sia la risposta tecnicamente corretta a tale quesito, il fatto stesso che anche
per il periodo transitorio si sia inteso rendere operante il principio del simul stabunt, simul cadent
dimostra che, nella valutazione del legislatore costituzionale, l'elezione del Presidente della Giunta è
assimilabile, quanto a legittimazione popolare acquisita dall'eletto, ad una vera e propria elezione a
suffragio diretto.
Neppure rileva in questa sede il prospettato problema se, per compiere autonome scelte circa il
proprio sistema elettorale, le Regioni debbano attendere la determinazione dei principi fondamentali da
parte della legge statale, ai sensi dall'art. 122, primo comma, Cost., o se, di fronte all'inerzia del
legislatore nazionale, possano desumere tali principi dalle leggi statali attualmente vigenti.
5. - Alla luce delle considerazioni fin qui svolte è agevole verificare se la deliberazione statutaria
impugnata debba essere scrutinata sul parametro dell'art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 1999 o se,
come sostiene la difesa regionale, il regime da tale disposizione previsto sia venuto a cessare proprio a
causa dell'esercizio, seppure parziale, della potestà statutaria. È sufficiente a tal fine rilevare che la
Regione Marche, con la sua parziale innovazione statutaria, non ha operato quella diversa scelta in
ordine alla forma di governo regionale che sola avrebbe potuto esonerarla dall'osservanza della regola
stabilizzatrice che la Costituzione e la disciplina transitoria impongono nel caso di elezione diretta del
vertice dell'esecutivo. Con lo stabilire che, nel caso di morte o impedimento permanente del Presidente
della Giunta, non si proceda a scioglimento del Consiglio ed a nuove elezioni, ma gli subentri un
vicepresidente, la disposizione censurata comporta una puntuale violazione della disposizione di rango
costituzionale contenuta nel più volte menzionato art. 5, comma 2, lettera b).
La circostanza che la deliberazione impugnata sia stata adottata nella forma statutaria non vale a
superare il vizio di legittimità dal quale essa è affetta. L'articolo 123 della Costituzione assoggetta
attualmente la potestà statutaria regionale al solo limite dell'"armonia con la Costituzione" con
formulazione meno stringente di quella precedente, che richiedeva anche l'armonia con le "leggi della
Repubblica". Da ciò la difesa regionale ha tratto argomento per sostenere che il limite di legittimità degli
statuti dovrebbe essere riferito ai valori di fondo che ispirano la Costituzione. L'armonia, si ragiona,
esigerebbe solo che lo statuto non sia "orientato contro la Costituzione" e non ne pregiudichi i principi
generali, ma non escluderebbe la possibilità di derogare a sue singole norme.
Neppure questo ordine di considerazioni può essere accolto. Il riferimento all'"armonia", lungi dal
depotenziarla, rinsalda l'esigenza di puntuale rispetto di ogni disposizione della Costituzione, poiché
mira non solo ad evitare il contrasto con le singole previsioni di questa, dal quale non può certo generarsi
armonia, ma anche a scongiurare il pericolo che lo statuto, pur rispettoso della lettera della Costituzione,
ne eluda lo spirito. Tutto in conclusione può dirsi della deliberazione statutaria in questione, adottata in
aperto contrasto con la disciplina costituzionale transitoria dell'art. 5, comma 2, lettera b), tranne che essa
sia "in armonia" con la Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l'illegittimità costituzionale della deliberazione legislativa statutaria adottata, in seconda
votazione, il 24 luglio 2001 dal Consiglio regionale della Regione Marche e recante "Disciplina
transitoria in attuazione dell'articolo 3 della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1".
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno
2002.
Il Presidente: Ruperto
Il redattore: Mezzanotte
Il cancelliere:Di Paola
Depositata in cancelleria il 3 luglio 2002.
Il direttore della cancelleria:Di Paola
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 12/2006
Giudizio
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente BILE - Redattore SILVESTRI
Udienza Pubblica del 13/12/2005 Decisione del 11/01/2006
Deposito del 20/01/2006 Pubblicazione in G. U. 25/01/2006
Norme impugnate:
Artt. 2, c. 3°, 45, c. 3°, 46, c. 2°, 47, c. 2° e 79, c. 2°, in relazione al c. 1°, lett. c), e 86, c. 3°, in relazione
ai c. 1°, 2° e 4°, della deliberazione legislativa statutaria della Regione Abruzzo approvata il 20/7/2004 e
il 21/09/2004.
Massime:
30081 30082 30083 30084 30085 30086 30087 30088
Atti decisi:
ric. 106/2004
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SENT. 12/06 A. RICORSO DEL GOVERNO AVVERSO LO STATUTO - REGIONE ABRUZZO COSTITUZIONE IN GIUDIZIO DELLA REGIONE - ATTO PRIVO DELLA PROCURA 'AD LITEM'
I N A M M I S S I B I L I T À .
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Nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale è inammissibile la costituzione della parte per
la quale sia stato depositato un atto privo della procura ad litem (questa, nella specie, risultava infatti
conferita dalla Regione in relazione ad un altro ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri
avverso
una
diversa
legge
regionale).
Altri parametri e norme interposte
legge 11/03/1953 n. 87 art. 25
legge 11/03/1953 n. 87 art. 31
legge 11/03/1953 n. 87 art. 34
norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (16/3/1956 e s.m.) art. 23 co. 1
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SENT. 12/06 B. STATUTO - REGIONE ABRUZZO - PARTECIPAZIONE DELLA REGIONE
ALL'ATTUAZIONE E ALL'ESECUZIONE DEGLI ACCORDI INTERNAZIONALI DELLO STATO RICORSO DEL GOVERNO - ESPRESSO RIFERIMENTO AL RISPETTO DELLA PROCEDURA
STABILITA DALLO STATO - DENUNCIATA OMISSIONE IN CONTRASTO CON LA
PREVISIONE COSTITUZIONALE - NON FONDATEZZA DELLA QUESTIONE.
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È infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 117, quinto comma, Cost.,
dell'art. 2, comma 3, dello statuto della Regione Abruzzo, approvato in prima deliberazione il 20 luglio
2004 ed in seconda deliberazione il 21 settembre 2004, nella parte in cui dispone che la Regione
«partecipa [...] all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali dello Stato». Poiché, infatti, lo
statuto di una Regione è valida fonte primaria e fondamentale dell'ordinamento regionale, a condizione
che esso sia «in armonia con la Costituzione» (art. 123, primo comma, Cost.), rappresentando pertanto il
sistema costituzionale complessivo, articolantesi nei principî contenuti nelle singole norme della Carta
fondamentale e delle leggi ordinarie di diretta attuazione, il contesto all'interno del quale deve procedersi
alla lettura ed all'interpretazione delle norme statutarie, che in quel sistema vivono ed operano,
l'attribuzione alle Regioni, con la riforma del Titolo V, nelle materie di loro competenza, della funzione
attuativa ed esecutiva degli accordi internazionali e degli atti della Unione europea viene esplicitamente
subordinata al rispetto delle norme di procedura stabilite da leggi dello Stato (art. 117, quinto comma,
Cost.), a dettare le quali è intervenuta la legge 5 giugno 2003, n. 131 (artt. 5 e 6). Dovendosi quindi
muovere tutte le attività delle Regioni volte all'attuazione ed all'esecuzione di accordi internazionali
all'interno di un siffatto quadro normativo, costituente ad un tempo il parametro di valutazione della
legittimità costituzionale degli atti legislativi dello Stato e delle Regioni in materia ed il criterio
interpretativo degli stessi, il riferimento testuale della norma statutaria impugnata alla dizione usata
dall'art. 117, quinto comma, Cost. ne conferma l'inserimento nel quadro stesso, senza che sia rinvenibile
alcuna espressione che possa far pensare ad una illegittima volontà derogatoria della Regione. Infondatezza di analoga questione di legittimità costituzionale, in ipotesi di norma statutaria richiamante
la competenza regionale in materia di attuazione ed esecuzione di accordi internazionali, la quale appaia
"agevolmente interpretabile in modo conforme al sistema costituzionale": sentenza n. 379/2004.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Abruzzo 21/09/2004 art. 2 co. 3
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117 co. 5
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SENT. 12/06 C. STATUTO - REGIONE ABRUZZO - ASSESSORI SFIDUCIATI DAL CONSIGLIO OBBLIGO DEL PRESIDENTE DI PROVVEDERE ALLA SOSTITUZIONE - RICORSO DEL
GOVERNO - CONTRASTO CON LA PREVISIONE COSTITUZIONALE CHE ATTRIBUISCE AL
PRESIDENTE L'INIZIATIVA DELLA NOMINA E REVOCA DEI COMPONENTI LA GIUNTA ILLEGITTIMITÀ
COSTITUZIONALE.
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È costituzionalmente illegittimo l'art. 45, comma 3, dello statuto della Regione Abruzzo, secondo il quale
«Il Presidente della Giunta nel caso in cui il Consiglio sfiduci uno o più assessori provvede alla loro
sostituzione». Il quinto comma dell'art. 122 Cost., infatti, attribuisce alle Regioni la facoltà di prevedere
nei propri statuti modi di elezione del Presidente diversi dal suffragio universale e diretto, fissando, poi,
una conseguenza necessaria dell'opzione in favore dell'elezione a suffragio universale e diretto, nel senso
che il Presidente «eletto» nomina e revoca di sua iniziativa gli assessori. Una volta scelta la forma di
governo, caratterizzata dall'elezione a suffragio universale e diretto del Presidente, nei confronti del
Consiglio esiste solo la responsabilità politica del Presidente stesso, nella cui figura istituzionale
confluiscono la responsabilità collegiale della Giunta e la responsabilità individuale dei singoli assessori,
sicché la sfiducia individuale agli assessori si pone in contrasto con la norma costituzionale, nella quale
si riflettono i principî ispiratori dell'equilibrio costituzionale tra i supremi organi regionali derivante
dall'investitura popolare del Presidente. La presenza nel secondo inciso dell'art. 122, quinto comma,
Cost., della parola «eletto» indica un potere consequenziale e indefettibile proprio del Presidente
individuato mediante voto popolare: il corpo elettorale investe contemporaneamente il Presidente del
potere esecutivo ed il Consiglio del potere legislativo e di controllo nei confronti del Presidente e della
Giunta, sul presupposto dell'armonia dell'indirizzo politico presuntivamente garantita dalla simultanea
elezione di entrambi nella medesima tornata elettorale e dai medesimi elettori. Il principio funzionale
noto con l'espressione aut simul stabunt aut simul cadent esclude che possano essere introdotti circuiti
fiduciari collaterali ed accessori rispetto alla presuntiva unità di indirizzo politico derivante dalla
contemporanea investitura popolare di Presidente e Consiglio. L'equilibrio tra poteri configurato nel
modello disegnato dalla Costituzione verrebbe alterato se si privasse il Presidente della possibilità di
scegliere e revocare discrezionalmente gli assessori della propria Giunta, del cui operato deve rispondere
al Consiglio ed al corpo elettorale. - L'ammissibilità della mozione di sfiducia individuale al singolo
ministro va inquadrata nella forma di governo parlamentare, che caratterizza la relazione tra Parlamento
e Governo, consistente in un'articolazione di rapporti che fa perno sulla responsabilità collegiale del
Governo e sulla responsabilità individuale dei ministri, entrambe esplicitamente contemplate nell'art. 95,
secondo comma, Cost.: sentenza n. 7/1996. - La diversa forma di governo prevista dalla Costituzione per
le Regioni designata con le parole «Presidente eletto a suffragio universale e diretto» è «caratterizzata
dall'attribuzione ad esso di forti e tipici poteri per la gestione unitaria dell'indirizzo politico e
amministrativo della Regione (nomina e revoca dei componenti della Giunta, potere di dimettersi
facendo automaticamente sciogliere sia la Giunta che il Consiglio regionale)»: sentenza n. 2/2004.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Abruzzo 21/09/2004 art. 45 co. 3
Parametri costituzionali
Costituzione art. 122 co. 5
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SENT. 12/06 D. STATUTO - REGIONE ABRUZZO - PROGRAMMA DI GOVERNO DEL
PRESIDENTE - APPROVAZIONE DA PARTE DEL CONSIGLIO - EFFICACIA DI SFIDUCIA
DELL'EVENTUALE MANCATA APPROVAZIONE - RICORSO DEL GOVERNO - CONTRASTO
CON LA FORMA DI GOVERNO REGIONALE PREVISTA DALLA COSTITUZIONE ILLEGITTIMITÀ
COSTITUZIONALE.
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È costituzionalmente illegittimo l'art. 46, comma 2, dello statuto della Regione Abruzzo, il quale,
riferendosi all'obbligo del Presidente della Giunta di presentare il programma nella prima seduta del
Consiglio regionale successiva alle elezioni, dispone che «Il programma è approvato dal Consiglio
regionale. Il voto contrario produce gli stessi effetti dell'approvazione della mozione di sfiducia». La
previsione in uno statuto regionale del potere del Consiglio di discutere e approvare il programma di
governo predisposto dal Presidente non è infatti in contrasto con la Costituzione, a condizione che dalla
sua mancata approvazione non derivino conseguenze di tipo giuridico «certamente inammissibili ove
pretendessero di produrre qualcosa di simile ad un rapporto fiduciario», non consentendo lo stesso tenore
letterale del secondo e terzo comma dell'art. 126 Cost. l'equiparazione tra mancata approvazione iniziale
del programma di governo e mozione di sfiducia, per la presentazione e l'approvazione della quale sono
previste precise modalità procedurali, che verrebbero eluse se un altro atto, non assistito dalle medesime
garanzie, potesse produrre gli stessi effetti. Non esiste tra Presidente della Giunta e Consiglio regionale
una relazione fiduciaria assimilabile a quella tipica delle forme di governo parlamentari, ma un rapporto
di consonanza politica, istituito direttamente dagli elettori, la cui cessazione può essere ufficialmente
dichiarata sia dal Presidente che dal Consiglio con atti tipici e tassativamente indicati dalla Costituzione,
di tal che qualora il Consiglio, subito dopo le elezioni, volesse costringere il Presidente alle dimissioni,
con conseguente proprio scioglimento, risulterebbe indispensabile la procedura solenne della mozione di
sfiducia, essendo necessario rendere trasparenti e comprensibili per i cittadini i motivi di una decisione di
tale gravità. Il Presidente eletto a suffragio universale e diretto ha già presentato il suo programma agli
elettori e ne ha ricevuto il consenso, sicché la presentazione di un programma al Consiglio può avere
solo il significato di precisare e integrare l'indirizzo politico originariamente elaborato e ritenuto dalla
maggioranza degli elettori convergente con il proprio; tali precisazioni e integrazioni saranno apprezzate
di volta in volta dal Consiglio, che, nell'ipotesi di divergenza estrema, potrà adottare la decisione di
provocare una nuova consultazione elettorale. Né, d'altronde, sarebbe ammissibile che alla maggioranza
assoluta richiesta dall'art. 126, secondo comma, Cost. si potesse sostituire una maggioranza semplice,
quale quella resa possibile dall'impugnato art. 46, comma 2, dello statuto della Regione Abruzzo. - La
previsione in uno statuto regionale del potere del Consiglio di discutere e approvare il programma di
governo predisposto dal Presidente non è in contrasto con la Costituzione, a condizione che dalla
mancata approvazione del programma stesso non derivino conseguenze di tipo giuridico «certamente
inammissibili ove pretendessero di produrre qualcosa di simile ad un rapporto fiduciario»: sentenza n.
3 7 9 / 2 0 0 4 .
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Abruzzo 21/09/2004 art. 46 co. 2
Parametri costituzionali
Costituzione art. 126 co. 2
Costituzione art. 126 co. 3
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SENT. 12/06 E. STATUTO - REGIONE ABRUZZO - APPROVAZIONE DELLA MOZIONE DI
SFIDUCIA NEI CONFRONTI DEL PRESIDENTE DELLA GIUNTA - DECADENZA DELLA
GIUNTA STESSA E SCIOGLIMENTO DEL CONSIGLIO - RICORSO DEL GOVERNO CONTRASTO CON LA PREVISIONE COSTITUZIONALE CHE PREVEDE L'OBBLIGO DI
DIMISSIONI
DELLA
GIUNTA
ILLEGITTIMITÀ
COSTITUZIONALE.
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È costituzionalmente illegittimo l'art. 47, comma 2, dello statuto della Regione Abruzzo, il quale dispone
che l'approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta comporta la
decadenza della Giunta stessa e lo scioglimento del Consiglio. L'art. 126 Cost. disciplina, infatti, in modo
differenziato distinte ipotesi di cessazione del Presidente dal suo ufficio: mentre al primo comma parla di
«rimozione» dello stesso per atti contrari alla Costituzione, gravi violazioni di legge o ragioni di
sicurezza nazionale, nel terzo comma usa la diversa espressione «dimissioni». Nel primo caso esiste,
dunque, la necessità di un immediato allontanamento dalla carica di chi si sia reso responsabile di gravi
illeciti o risulti pericoloso per la sicurezza nazionale, mentre nel secondo caso si detta una disciplina
adatta alla natura prettamente politica della cessazione, che non richiede quell'immediatezza e
perentorietà di allontanamento dalla carica necessari nella prima ipotesi, sicché la previsione di
decadenza, per sua natura immediata e perentoria, varrebbe ad equiparare due ipotesi considerate e
disciplinate diversamente, in coerenza con la loro differenza qualitativa e con gli interessi pubblici da
tutelare. La maggiore elasticità dell'obbligo di dimissioni rispetto alla decadenza automatica serve a
rendere ammissibile l'emanazione di atti urgenti e indifferibili: nel bilanciamento dei valori la norma
costituzionale ha dato decisamente la prevalenza, rispetto a possibili urgenti necessità
dell'amministrazione, all'esigenza di allontanare immediatamente dalla carica chi si trovi nelle condizioni
previste per la «rimozione», mentre ha lasciato un margine di flessibilità nell'ipotesi che l'allontanamento
non derivi da comportamenti antigiuridici o pericolosi per la sicurezza nazionale, ma da un atto politico
del Consiglio. Introdurre la decadenza della Giunta come effetto dell'approvazione di una mozione di
sfiducia finirebbe per equiparare il disvalore giuridico alla necessità politica, trattati e considerati dall'art.
126,
primo
e
terzo
comma,
Cost.
in
modo
ben
distinto.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Abruzzo 21/09/2004 art. 47 co. 2
Parametri costituzionali
Costituzione art. 126 co. 3
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SENT. 12/06 F. STATUTO - REGIONE ABRUZZO - PARERI DEL COLLEGIO REGIONALE PER
LE GARANZIE STATUTARIE - DELIBERAZIONE IN SENSO CONTRARIO DEL CONSIGLIO OBBLIGO DI MOTIVAZIONE - RICORSO DEL GOVERNO - DENUNCIATA LIMITAZIONE
DELLA POTESTÀ LEGISLATIVA DEL CONSIGLIO, LESIONE DEL PRINCIPIO
DELL'IRRILEVANZA DELLA MOTIVAZIONE DEGLI ATTI LEGISLATIVI, LESIONE DEL
POTERE DI PROMULGAZIONE DEL PRESIDENTE DELLA GIUNTA, ARBITRARIA
CREAZIONE DI NUOVO SINDACATO DI LEGITTIMITÀ DI UNA LEGGE - NON FONDATEZZA
D E L L A
Q U E S T I O N E .
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È infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 121, secondo e quarto
comma, e 134 Cost., dell'art. 79, comma 2, in relazione al comma 1, lettera c) , dello statuto della
Regione Abruzzo, in quanto impone al Consiglio un obbligo di motivazione, se questo voglia deliberare
in senso contrario ai pareri del Collegio regionale per le garanzie statutarie. Posto che l'introduzione di
un organo di garanzia nell'ordinamento statutario regionale non è, come tale, in contrasto con la
Costituzione, restando da valutare, nei singoli specifici profili, la compatibilità delle norme attributive
allo stesso di competenze determinate, con la norma impugnata nessuna limitazione viene a soffrire la
potestà legislativa del Consiglio regionale, che rimane intatta sia nelle materie sia nell'estensione della
sua capacità regolativa. L'introduzione di un particolare, eventuale passaggio procedurale, consistente nel
parere del Collegio regionale per le garanzie statutarie, rientra nella disciplina del procedimento
legislativo regionale, ricompresa nei «principî fondamentali di organizzazione e funzionamento»
attribuiti dall'art. 123, primo comma, Cost. alla potestà statutaria delle Regioni, mentre la motivazione
richiesta perché il Consiglio regionale possa deliberare in senso contrario ai pareri e alle valutazioni del
Collegio di garanzia non inerisce agli atti legislativi, ma alla decisione di non tener conto del parere
negativo, costituente atto consiliare distinto dalla deliberazione legislativa e non facente corpo con essa;
la norma statutaria impugnata, infine, si riferisce esplicitamente alle «deliberazioni legislative» e non alle
leggi, dovendosi perciò escludere una illegittima limitazione del potere presidenziale di promulgazione
nonché l'introduzione di una nuova forma di controllo di legittimità costituzionale delle leggi. L'introduzione di un organo di garanzia nell'ordinamento statutario regionale non è, come tale, in
contrasto con la Costituzione, restando da valutare, nei singoli specifici profili, la compatibilità delle
norme attributive allo stesso di competenze determinate: sentenza n. 378/2004.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Abruzzo 21/09/2004 art. 79 co. 2
statuto Regione Abruzzo 21/09/2004 art. 79 co. 1 co. lett. c)
Parametri costituzionali
Costituzione art. 121 co. 2
Costituzione art. 121 co. 4
Costituzione art. 134
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SENT. 12/06 G. STATUTO - REGIONE ABRUZZO - IMPUGNAZIONE DELLA DELIBERAZIONE
STATUTARIA DAVANTI ALLA CORTE COSTITUZIONALE - SOSPENSIONE DELLA
PUBBLICAZIONE NEL BOLLETTINO UFFICIALE DELLA REGIONE E SUCCESSIVO RIESAME
LIMITATAMENTE ALLE DISPOSIZIONI DICHIARATE ILLEGITTIME - RICORSO DEL
GOVERNO - CONTRASTO CON IL PROCEDIMENTO E I TERMINI PREVISTI DALLA
COSTITUZIONE, ESORBITANZA DAI LIMITI POSTI ALL'AUTONOMIA STATUTARIA -
ILLEGITTIMITÀ
COSTITUZIONALE.
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È costituzionalmente illegittimo l'art. 86, comma 3, in relazione ai commi 1, 2 e 4, dello statuto della
Regione Abruzzo nel quale, con riferimento alla pubblicazione e all'entrata in vigore dello statuto stesso,
è stabilito che l'impugnazione dinanzi alla Corte costituzionale sospende la pubblicazione nel Bollettino
Ufficiale della Regione e che, dopo la sentenza della stessa Corte, esso è riesaminato dal Consiglio
regionale limitatamente alle disposizioni dichiarate illegittime per le deliberazioni consequenziali. La
disposizione impugnata, infatti, mal si presta ad essere ricondotta nell'alveo dell'art. 123, secondo e terzo
comma, Cost., dal quale si deduce che si deve far luogo inizialmente ad una sola pubblicazione notiziale,
idonea a far decorrere sia il termine per l'eventuale impugnazione governativa, sia quello per la richiesta
di referendum popolare: l'incoerenza della norma e le sue possibili interpretazioni in contrasto con la
Costituzione derivano pertanto dall'essere, la stessa, parte di una più vasta disciplina della pubblicazione
della deliberazione statutaria, fondata sulla sua duplicazione, non prevista dall'art. 123 Cost., il quale
pone una regola da applicare in via generale, perciò sottratta all'autonomia statutaria.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Abruzzo 21/09/2004 art. 86 co. 3
statuto Regione Abruzzo 21/09/2004 art. 86 co. 1
statuto Regione Abruzzo 21/09/2004 art. 86 co. 2
statuto Regione Abruzzo 21/09/2004 art. 86 co. 4
Parametri costituzionali
Costituzione art. 123 co. 2
Costituzione art. 123 co. 3
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SENT. 12/06 H. STATUTO - REGIONE ABRUZZO - IMPUGNAZIONE DELLA DELIBERAZIONE
STATUTARIA DAVANTI ALLA CORTE COSTITUZIONALE - SOSPENSIONE DELLA
PUBBLICAZIONE NEL BOLLETTINO UFFICIALE DELLA REGIONE E SUCCESSIVO RIESAME
LIMITATAMENTE ALLE DISPOSIZIONI DICHIARATE ILLEGITTIME - DICHIARAZIONE DI
INCOSTITUZIONALITÀ - NECESSITÀ DI ESTENDERE LA DECLARATORIA ALLE ALTRE
NORME INSCINDIBILMENTE COLLEGATE - ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA
C O N S E Q U E N Z I A L E .
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Sono costituzionalmente illegittimi in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953
n. 87, i commi 1, 2 e 4 dell'art. 86 dello statuto della Regione Abruzzo, in quanto il comma 3 dello stesso
articolo 86 fa parte integrante, in modo inscindibile, della disciplina complessiva da esso dettata.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Abruzzo 21/09/2004 art. 86 co. 1
statuto Regione Abruzzo 21/09/2004 art. 86 co. 2
statuto Regione Abruzzo 21/09/2004 art. 86 co. 4
Altri parametri e norme interposte
legge 11/03/1953 n. 87 art. 27
Pronuncia
SENTENZA N. 12 ANNO 2006
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Franco BILE; Giudici: Giovanni Maria FLICK, Francesco
AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio
FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI,
Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 3; 45, comma 3; 46, comma 2; 47,
comma 2; 79, comma 2 in relazione al comma 1, lettera c); 86, comma 3 in relazione ai commi 1, 2 e 4,
dello statuto della Regione Abruzzo, approvato in prima deliberazione il 20 luglio 2004 ed in seconda
deliberazione il 21 settembre 2004, promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri,
notificato il 4 novembre 2004, depositato in cancelleria il successivo 10 novembre 2004 ed iscritto al n.
106 del registro ricorsi 2004.
Visto l'atto di costituzione della Regione Abruzzo;
udito nell'udienza pubblica del 13 dicembre 2005 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;
uditi l'avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato
Sandro Pasquali per la Regione Abruzzo.
Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso notificato il 4 novembre 2004 e depositato il successivo 10 novembre 2004, il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, ha promosso
questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 3; 45, comma 3; 46, comma 2; 47, comma 2;
79, comma 2 in relazione al comma 1, lettera c); 86, comma 3 in relazione ai commi 1, 2 e 4, dello
statuto della Regione Abruzzo, approvato in prima deliberazione il 20 luglio 2004 ed in seconda
deliberazione il 21 settembre 2004, pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 101 dell'8 ottobre
2004, in riferimento agli artt. 1, 3, 117, quinto comma, 121, 122, 123, 126 e 134 della Costituzione.
1.1. – L'art. 2, comma 3, dello statuto impugnato stabilisce, tra l'altro, che la Regione «partecipa […]
all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali dello Stato». Ad avviso del ricorrente tale
norma si porrebbe in contrasto con l'art. 117, quinto comma, Cost., in quanto ometterebbe di riferirsi al
necessario rispetto delle «norme di procedura stabilite da legge dello Stato», la quale deve disciplinare
anche le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.
1.2. – L'art. 45, comma 3, dello statuto in esame dispone che «Il Presidente della Giunta nel caso in
cui il Consiglio sfiduci uno o più assessori provvede alla loro sostituzione». Secondo la difesa erariale
tale norma, vincolando il Presidente della Giunta ad adeguarsi alla volontà espressa dal Consiglio,
risulterebbe incoerente con la scelta istituzionale della elezione a suffragio universale e diretto del vertice
dell'esecutivo di cui all'art. 43, comma 2, dello statuto (norma, quest'ultima, ritenuta dal ricorrente
conforme alla previsione dell'art. 122, quinto comma, Cost.) e con le «conseguenti implicazioni
costituzionali inerenti all'attribuzione ad esso di forti e tipici poteri per la gestione unitaria dell'indirizzo
politico e amministrativo della Regione», che da tale elezione discenderebbero. In particolare, osserva
l'Avvocatura dello Stato, l'art. 122, quinto comma, Cost., là dove assegna al Presidente della Giunta
eletto a suffragio universale e diretto il potere di nomina e revoca dei componenti della Giunta,
risulterebbe «ferito e limitato» dalla norma statutaria de qua.
1.3. – L'art. 46 dello statuto della Regione Abruzzo, dopo aver stabilito al comma 1 che il Presidente
della Giunta, nella prima seduta del Consiglio regionale, si presenta per l'esposizione del programma,
dispone al comma 2 che «Il programma è approvato dal Consiglio regionale. Il voto contrario produce gli
stessi effetti dell'approvazione della mozione di sfiducia».
L'Avvocatura dello Stato censura solo il comma 2 dell'art. 46 ed in particolare l'ultimo inciso, in
quanto stabilirebbe una causa di scioglimento del Consiglio regionale non prevista dall'art. 126 Cost.
Questa norma costituzionale, osserva il ricorrente, conterrebbe «una tassativa previsione dei casi in cui
possono realizzarsi i presupposti di operatività del meccanismo del simul stabunt simul cadent legato al
sistema di elezione a suffragio universale e diretto».
Inoltre, l'art. 46, comma 2, non sarebbe «coerente con la scelta istituzionale dell'elezione a suffragio
universale e diretto del Presidente della Giunta di cui all'art. 43, comma 2, dello statuto (conforme alla
previsione del quinto comma dell'art. 122 Cost.)», in quanto, stabilendo come «passaggio necessario ed
indispensabile» la preventiva approvazione del programma, instaurerebbe «irragionevolmente e
contraddittoriamente» tra Presidente e Consiglio regionale un rapporto diverso rispetto a quello che
dovrebbe discendere dall'anzidetto sistema di elezione. In particolare, la difesa erariale si sofferma sulle
differenze tra la mancata approvazione del programma di governo e «un giudizio eventuale e successivo
su comportamenti, quale può essere l'approvazione di una mozione di sfiducia». La mancata
approvazione del programma, infatti, escluderebbe sin dall'inizio la possibilità per il Presidente e per la
Giunta di «operare per l'attuazione del programma» e vanificherebbe «la legittimazione democratica» di
cui il Presidente gode in virtù dell'elezione a suffragio universale e diretto.
Sempre ad avviso del ricorrente, la previsione di un'approvazione consiliare del programma
condurrebbe a degli esiti contrastanti con quelli derivanti dalla previsione della maggioranza assoluta per
l'approvazione della mozione di sfiducia. Infatti, mentre quest'ultima sarebbe finalizzata ad un
«rafforzamento della stabilità dell'esecutivo», l'approvazione consiliare del programma rappresenterebbe
un «indebolimento della posizione del Presidente della Giunta, incompatibile con la sua investitura
popolare».
L'Avvocatura dello Stato aggiunge che sarebbe «evidente l'assurdo di richiedere, dopo l'investitura
da parte del popolo, l'investitura da parte dei rappresentanti del popolo»; una siffatta previsione si
risolverebbe, tra l'altro, in una «limitazione ed anzi in una vanificazione della sovranità popolare».
Per queste ragioni, il ricorrente ritiene che l'art. 46, comma 2, dello statuto si ponga in contrasto,
oltre che con gli artt. 122 e 126 Cost., anche con l'art. 1 Cost. e con i fondamentali canoni di coerenza e
ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.
1.4. – L'art. 47, comma 2, dello statuto de quo stabilisce che «l'approvazione della mozione di
sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta comporta la decadenza della Giunta e lo scioglimento
del Consiglio». Questa norma, ad avviso del ricorrente, sarebbe in contrasto con l'art. 126, terzo comma,
Cost., là dove dispone che l'approvazione della mozione di sfiducia comporta le dimissioni della Giunta
e non la sua decadenza automatica.
L'Avvocatura dello Stato osserva che la norma statutaria in esame comporterebbe una limitazione dei
poteri dell'esecutivo regionale. Nel caso di dimissioni, infatti, alla Giunta competerebbe una «valutazione
sui tempi delle medesime e quindi dello scioglimento del Consiglio regionale» che, invece, verrebbe
meno qualora fosse prevista la decadenza. Allo stesso modo, nel caso di decadenza, verrebbe meno la
possibilità da parte dell'esecutivo regionale di porre in essere nel frattempo atti ritenuti necessari ed
indifferibili, «che non potrebbero in ogni caso sottrarsi alla verifica di legittimità costituzionale».
1.5. – Lo statuto della Regione Abruzzo istituisce, all'art. 78, il Collegio regionale per le garanzie
statutarie, organo di consulenza della Regione, composto da cinque esperti. L'art. 79, il quale individua le
funzioni del Collegio, stabilisce che esso «esprime pareri e rende valutazioni», tra l'altro, «sui rilievi di
compatibilità con lo statuto delle deliberazioni legislative sollevati da un quarto dei consiglieri» (art. 79,
comma 1, lettera c).
L'art. 79, comma 2, impugnato dal Presidente del Consiglio dei ministri, dispone che «Il Consiglio
regionale può deliberare in senso contrario ai pareri e alle valutazioni del Collegio con motivata
decisione».
Ad avviso della difesa erariale la disposizione in parola sarebbe censurabile già solo per il fatto di
avere un «significato tutt'altro che chiaro»; essa, inoltre, si presterebbe ad interpretazioni diverse tutte
costituzionalmente illegittime. In particolare, osserva l'Avvocatura, non sarebbe chiaro se la
«deliberazione legislativa» di cui all'art. 79, comma 1, lettera c), sia ancora da adottare e quindi il parere
del Collegio intervenga su un progetto di legge o sia stata già adottata e dunque il parere abbia ad oggetto
una legge già approvata.
Inoltre, il ricorrente si chiede se la «motivata decisione» con la quale il Consiglio può deliberare in
senso contrario al parere o alla valutazione del Collegio (art. 79, comma 2) consista in una «motivata
delibera di approvazione della legge» o in una «motivata delibera di riapprovazione della legge» ovvero
ancora in una «determinazione amministrativa del Consiglio regionale che preceda o accompagni la
delibera legislativa di approvazione o di riapprovazione della legge o che addirittura segua ad una legge
già definitivamente approvata come condizione della sua promulgazione».
Secondo l'Avvocatura dello Stato è, invece, certo che sulla base delle disposizioni anzidette il
Collegio regionale per le garanzie statutarie, «organo burocratico amministrativo estraneo al Consiglio
regionale e privo di legittimazione democratica», «composto da “esperti” non meglio statutariamente
qualificati», potrebbe essere «coinvolto» nel procedimento legislativo. In questo modo, a detta del
ricorrente, si avrebbe un palese aggravamento dell'iter legislativo, «con illegittima interferenza sui poteri
legislativi del Consiglio regionale e/o sui poteri di promulgazione del Presidente della Giunta».
Ed ancora, rileva la difesa erariale, l'imposizione dell'obbligo di motivare in senso contrario rispetto
al parere del Collegio di garanzia limiterebbe l'esercizio della potestà legislativa da parte del Consiglio,
in contrasto con l'art. 121, secondo comma, Cost., e violerebbe il «principio dell'irrilevanza della
motivazione della norma frutto dell'attività legislativa, di natura politica e libera nei fini, non
assoggettabile ad obbligo di motivazione», oltre a costituire, eventualmente, un «condizionamento dei
poteri del Presidente della Giunta in violazione dell'art. 121, quarto comma, Cost.».
Ad avviso del ricorrente, inoltre, non sarebbe chiaro se la motivazione del Consiglio regionale, di cui
all'art. 79, comma 2, dello statuto, debba essere di natura tecnico-giuridica, come, secondo la difesa
erariale, sembrerebbe implicare il riferimento al «senso contrario» rispetto alla valutazione del Collegio
di garanzia e come avviene per i provvedimenti amministrativi assunti in difformità dell'avviso espresso
dall'organo consultivo, ovvero possa essere «una decisione di contenuto squisitamente politico».
La conseguenza della necessità di una motivata decisione sarebbe, in entrambi i casi, secondo
l'Avvocatura dello Stato, «“un'amministrativizzazione” della legge regionale (e del procedimento
legislativo)».
Osserva, ancora, la difesa statale, che non sarebbe chiaro se dall'eventuale elusione dell'obbligo di
motivazione derivi un vizio dell'atto legislativo, per violazione della previsione statutaria, «deducibile in
via principale e/o incidentale in sede costituzionale».
Infine, secondo il ricorrente, se il parere del Collegio di garanzia dovesse avere ad oggetto una legge
già definitivamente approvata, «in contraddizione con la natura di organo di consulenza di questo»,
sarebbe violato l'art. 134 Cost.; verrebbe, infatti, attribuito ad un organo amministrativo un sindacato di
legittimità su una legge, «produttivo di specifici effetti giuridici».
1.6. – Infine, oggetto di censure da parte dell'Avvocatura dello Stato è l'art. 86, comma 3, dello
statuto, in relazione ai commi 1, 2 e 4 della stessa disposizione.
Al riguardo, l'art. 86, comma 1, stabilisce che, dopo la seconda deliberazione a maggioranza
assoluta, lo statuto è pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione per la decorrenza del termine di
trenta giorni ai fini dell'eventuale impugnazione da parte del Governo della Repubblica dinanzi alla
Corte costituzionale.
Il comma 2 del medesimo articolo aggiunge che, nel caso in cui il Governo non promuova il ricorso
dinanzi alla Corte entro il termine indicato, lo statuto è pubblicato «nuovamente» nel Bollettino Ufficiale
della Regione per la decorrenza del termine di tre mesi utile per la presentazione della richiesta di
referendum popolare confermativo.
Il comma 3, oggetto del presente giudizio, dispone che «l'impugnazione dinanzi alla Corte
costituzionale sospende la pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione; dopo la sentenza della
Corte costituzionale lo statuto è riesaminato dal Consiglio regionale limitatamente alle disposizioni
dichiarate illegittime per le deliberazioni consequenziali. Lo statuto subito dopo è pubblicato nel
Bollettino Ufficiale della Regione».
Il comma 4 precisa che lo statuto è promulgato e pubblicato trascorso il termine di tre mesi, qualora
non sia stato richiesto referendum, o se è approvato dalla maggioranza dei voti validi, nel caso in cui il
referendum sia stato richiesto.
Occorre aggiungere che il comma 5 dell'art. 86 prevede l'entrata in vigore dello statuto il giorno
successivo alla pubblicazione e, da ultimo, il comma 6 stabilisce che le disposizioni sopra menzionate si
applicano anche alle modifiche dello statuto.
L'Avvocatura dello Stato sottolinea, in via preliminare, «l'infelice formulazione della norma (che non
fa cenno, tra l'altro, alla necessità della doppia deliberazione per l'eventuale sostituzione di disposizioni
dichiarate illegittime)»; da siffatta «infelice formulazione» deriverebbe la possibilità di dare diverse
letture alla disposizione in parola, tutte costituzionalmente illegittime.
Il ricorrente passa, pertanto, ad illustrare le possibili letture.
Secondo una prima interpretazione, sembrerebbe che «il termine di trenta giorni per l'impugnativa,
decorrente dalla prima pubblicazione notiziale, rimanga sospeso per effetto dell'impugnazione
medesima» e che riprenda a decorrere a seguito della successiva pubblicazione notiziale, prevista «subito
dopo» il riesame e le deliberazioni consiliari consequenziali alle intervenute dichiarazioni di illegittimità,
«al fine di un'eventuale impugnativa relativa a dette delibere consequenziali, per quanto ancora residui
degli iniziali trenta giorni».
In questo modo, osserva la difesa erariale, si avrebbe una illegittima compressione (o addirittura una
totale vanificazione, qualora il ricorso sia proposto nell'ultimo dei trenta giorni utili) del termine previsto
dall'art. 123, secondo comma, Cost.
Una seconda lettura dell'art. 86, comma 3, invece, porterebbe ad escludere la possibilità di un
controllo di legittimità costituzionale sulle nuove disposizioni statutarie; ad avviso dell'Avvocatura dello
Stato, infatti, volendo seguire questa seconda opzione interpretativa si dovrebbe concludere che la
pubblicazione notiziale successiva alle deliberazioni consequenziali ad una precedente declaratoria di
illegittimità della Corte costituzionale sia finalizzata esclusivamente a far decorrere il termine della
richiesta referendaria.
Anche questa seconda lettura, che sembrerebbe avallata dall'art. 86, comma 4, dello statuto, si
porrebbe in contrasto con l'art. 123 Cost.
Secondo una terza lettura, la pubblicazione notiziale successiva alle delibere consequenziali di cui
all'art. 86, comma 3, farebbe decorrere sia il termine per l'ulteriore controllo di legittimità costituzionale
sia il termine per la richiesta di referendum.
Stando a questa interpretazione, però, a detta del ricorrente la norma impugnata, oltre a porsi in
contrasto con il «collegamento topografico» esistente tra l'ultima parte del comma 3 e la prima parte del
comma 4, darebbe vita ad un'«incoerenza di sistema interna allo stesso art. 86», con conseguente
violazione dell'art. 3 Cost. Infatti, la lettura in parola contraddirebbe la regola di cui ai commi 1 e 2
dell'art. 86, che riconduce a differenti pubblicazioni notiziali la decorrenza dei termini per il controllo di
legittimità costituzionale e per la richiesta di referendum.
Infine, la difesa erariale dà menzione di una quarta lettura che, però, la stessa Avvocatura dello Stato
ritiene non praticabile. Secondo questa ulteriore interpretazione la pubblicazione notiziale di cui
all'ultima parte del comma 3 dell'art. 86 sarebbe funzionale solo al decorso del termine di trenta giorni
per il controllo di legittimità costituzionale, mentre il termine di tre mesi per la richiesta di referendum di
cui alla prima parte del comma 4 decorrerebbe da un'ulteriore pubblicazione notiziale.
Ad avviso del ricorrente questa ricostruzione sarebbe ostacolata dalla lettera della legge e
determinerebbe un «abnorme ed irragionevole allungamento dei termini del procedimento, in violazione
degli artt. 3 e 123 Cost.».
La difesa statale conclude rilevando che, «comunque», non appare in armonia con la Costituzione la
dissociazione degli effetti della pubblicazione notiziale dello statuto rispetto alla sua unitaria funzione di
provocare l'apertura dei termini previsti dal secondo e dal terzo comma dell'art. 123 Cost. Questa
dissociazione, osserva l'Avvocatura dello Stato, limiterebbe gli effetti legali dell'atto costituzionalmente
considerato e costituirebbe il «fulcro» della disciplina statutaria che prevede una reiterazione della
pubblicazione notiziale di identico contenuto dello statuto.
2. – Per la Regione Abruzzo è stato depositato un atto di costituzione a margine del quale è conferita
procura relativa ad un ricorso promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso la legge
regionale 5 agosto 2004, n. 22 (Nuove disposizioni in materia di politiche di sostegno all'economia ittica)
e non invece avverso lo statuto regionale.
3. – In prossimità dell'udienza la Regione Abruzzo ha depositato fuori termine un'ulteriore memoria.
Considerato in diritto
1. – Con ricorso notificato il 4 novembre 2004 e depositato il successivo 10 novembre 2004, il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, ha promosso
questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 3; 45, comma 3; 46, comma 2; 47, comma 2;
79, comma 2 in relazione al comma 1, lettera c); 86, comma 3 in relazione ai commi 1, 2 e 4, dello
statuto della Regione Abruzzo, approvato in prima deliberazione il 20 luglio 2004 ed in seconda
deliberazione il 21 settembre 2004, pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 101 dell'8 ottobre
2004, in riferimento agli artt. 1, 3, 117, quinto comma, 121, 122, 123, 126 e 134 della Costituzione.
2. – In via preliminare va dichiarata inammissibile – ai sensi degli artt. 25, 31 e 34 della legge 11
marzo 1953, n. 87 e dell'art. 23, comma 1, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale – la costituzione in giudizio della Regione Abruzzo, per la quale è stato depositato un atto
privo della procura ad litem: la stessa risulta infatti conferita in relazione ad un ricorso promosso dal
Presidente del Consiglio dei ministri avverso la legge regionale 5 agosto 2004, n. 22 (Nuove disposizioni
in materia di politiche di sostegno all'economia ittica) e non invece avverso lo statuto regionale.
3. – Passando alle singole censure di illegittimità costituzionale avanzate dal Presidente del
Consiglio dei ministri, viene per prima in rilievo quella riguardante l'art. 2, comma 3, dello statuto
impugnato, là dove dispone, tra l'altro, che la Regione «partecipa […] all'attuazione e all'esecuzione
degli accordi internazionali dello Stato». Secondo la difesa erariale tale norma si porrebbe in contrasto
con l'art. 117, quinto comma, Cost., in quanto ometterebbe il riferimento al necessario «rispetto delle
norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere
sostitutivo in caso di inadempienza».
La questione non è fondata.
Lo statuto di una Regione è valida fonte primaria e fondamentale dell'ordinamento regionale, a
condizione che esso sia «in armonia con la Costituzione» (art. 123, primo comma, Cost.). Il sistema
costituzionale complessivo, che si articola nei principî contenuti nelle singole norme della Carta
fondamentale e delle leggi ordinarie di diretta attuazione, rappresenta pertanto il contesto, all'interno del
quale si deve procedere alla lettura ed all'interpretazione delle norme statutarie, che in quel sistema
vivono ed operano.
Dopo la riforma del titolo V della parte II della Costituzione, l'attribuzione alle Regioni, nelle
materie di loro competenza, della funzione attuativa ed esecutiva degli accordi internazionali e degli atti
della Unione europea viene esplicitamente subordinata al rispetto delle norme di procedura stabilite da
leggi dello Stato (art. 117, quinto comma, Cost.). In materia è intervenuta anche la legge 5 giugno 2003,
n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3), la quale, negli artt. 5 e 6, contiene le regole procedurali per l'attuazione della suddetta
norma costituzionale.
Tutte le attività delle Regioni volte all'attuazione ed all'esecuzione di accordi internazionali devono
muoversi all'interno del quadro normativo contrassegnato dall'art. 117, quinto comma, Cost. e dalle
norme interposte di cui alla citata legge n. 131 del 2003. Tale quadro normativo costituisce ad un tempo
il parametro di valutazione della legittimità costituzionale degli atti legislativi dello Stato e delle Regioni
in materia ed il criterio interpretativo degli stessi. Il riferimento testuale dell'impugnata norma statutaria
alla dizione usata dall'art. 117, quinto comma, Cost. («attuazione ed esecuzione degli accordi
internazionali») vale a confermare il suo inserimento nel quadro normativo di cui sopra, senza che sia
rinvenibile alcuna espressione che possa far pensare ad una illegittima volontà derogatoria della Regione
Abruzzo.
Questa Corte ha già chiarito che non è fondata una questione di legittimità costituzionale se la norma
statutaria che richiama la competenza regionale in materia di attuazione ed esecuzione di accordi
internazionali «appare agevolmente interpretabile in modo conforme al sistema costituzionale» (sentenza
n. 379 del 2004). Tale agevole interpretazione in senso coerente al sistema costituzionale è possibile
anche nel caso de quo, con la conseguenza che la norma statutaria impugnata deve essere dichiarata
esente dalla censura di illegittimità costituzionale formulata dal ricorrente.
4. – La seconda censura di illegittimità avanzata dal Presidente del Consiglio dei ministri riguarda
l'art. 45, comma 3, del citato statuto, il quale dispone che «Il Presidente della Giunta nel caso in cui il
Consiglio sfiduci uno o più assessori provvede alla loro sostituzione». Secondo la difesa erariale, tale
norma, vincolando il Presidente della Giunta ad adeguarsi alla volontà espressa dal Consiglio,
risulterebbe incoerente con la scelta istituzionale della elezione a suffragio universale e diretto del vertice
dell'esecutivo, sancita dall'art. 43, comma 2, del medesimo statuto. Poiché l'art. 122, quinto comma,
Cost. attribuisce al Presidente della Giunta eletto a suffragio universale e diretto il potere di nomina e
revoca dei componenti della Giunta stessa, la norma statutaria impugnata limiterebbe in modo illegittimo
tale potere.
La questione è fondata.
Il quinto comma dell'art. 122 Cost. ha una struttura, lessicale e logica, semplice. Con il primo inciso
viene attribuita alle Regioni la facoltà di prevedere nei propri statuti modi di elezione del Presidente
diversi dal suffragio universale e diretto. Con il secondo inciso viene fissata una conseguenza necessaria
dell'opzione in favore dell'elezione a suffragio universale e diretto, nel senso che il Presidente «eletto»
nomina e revoca di sua iniziativa gli assessori. Non sembrano possibili altre interpretazioni di tale
disposizione costituzionale, giacché la parola «eletto» non potrebbe riferirsi a qualsiasi tipo di elezione,
con la conseguenza eccessiva che anche in caso di opzione per una forma di governo diversa da parte del
singolo statuto regionale il Presidente conservasse il potere di nominare e revocare, in piena autonomia, i
componenti della Giunta. Peraltro non si capirebbe l'inserimento dell'aggettivo «eletto», giacché sarebbe
stato sufficiente, in caso di previsione generalizzata e generalizzabile, riferirsi, puramente e
semplicemente, al Presidente della Giunta.
La presenza del citato aggettivo indica un potere consequenziale e indefettibile proprio del
Presidente individuato mediante voto popolare. Il corpo elettorale investe contemporaneamente il
Presidente del potere esecutivo ed il Consiglio del potere legislativo e di controllo nei confronti del
Presidente e della Giunta, sul presupposto dell'armonia dell'indirizzo politico presuntivamente garantita
dalla simultanea elezione di entrambi nella medesima tornata elettorale e dai medesimi elettori.
Il principio funzionale largamente noto con l'espressione aut simul stabunt aut simul cadent esclude
che possano essere introdotti circuiti fiduciari collaterali ed accessori rispetto alla presuntiva unità di
indirizzo politico derivante dalla contemporanea investitura popolare di Presidente e Consiglio.
L'approvazione di una mozione di sfiducia da parte del secondo o le dimissioni del primo fanno venir
meno la presunzione di consonanza politica derivante dalla consultazione elettorale e rendono
necessario, in modo coerente, un nuovo appello al popolo, al quale si chiede di restaurare il presupposto
fondamentale della omogeneità di indirizzo politico che deve caratterizzare i programmi e le attività sia
del Presidente che del Consiglio.
Nel quadro prima delineato non trova posto la rottura di un ipotetico rapporto fiduciario tra
Consiglio e singoli assessori, che si risolverebbe esclusivamente in una pura e semplice riduzione dei
poteri spettanti al Presidente, investito della carica dal corpo elettorale proprio per il suo essere ed agire
quale unico soggetto esponenziale del potere esecutivo nell'ambito della Regione, munito di poteri che lo
rendono interamente responsabile, sul piano politico, dell'operato di tutti i componenti della Giunta.
L'equilibrio tra poteri configurato nel modello disegnato dalla Costituzione verrebbe alterato se si
privasse il Presidente della possibilità di scegliere e revocare discrezionalmente gli assessori della
propria Giunta, del cui operato deve rispondere al Consiglio ed al corpo elettorale.
Questa Corte ha chiarito che l'ammissibilità della mozione di sfiducia individuale al singolo ministro
va inquadrata nella forma di governo parlamentare, che caratterizza la relazione tra Parlamento e
Governo, consistente in un'articolazione di rapporti che fa perno sulla responsabilità collegiale del
Governo e sulla responsabilità individuale dei ministri, entrambe esplicitamente contemplate nell'art. 95,
secondo comma, Cost. (sentenza n. 7 del 1996). Da questo presupposto discende che la diversa forma di
governo prevista dalla Costituzione per le Regioni e sinteticamente designata con le parole «Presidente
eletto a suffragio universale e diretto» appare «caratterizzata dall'attribuzione ad esso di forti e tipici
poteri per la gestione unitaria dell'indirizzo politico e amministrativo della Regione (nomina e revoca dei
componenti della Giunta, potere di dimettersi facendo automaticamente sciogliere sia la Giunta che il
Consiglio regionale)» (sentenza n. 2 del 2004).
Una volta scelta la forma di governo, caratterizzata dall'elezione a suffragio universale e diretto del
Presidente, nei confronti del Consiglio esiste solo la responsabilità politica del Presidente stesso, nella
cui figura istituzionale confluiscono la responsabilità collegiale della Giunta e la responsabilità
individuale dei singoli assessori. La sfiducia individuale agli assessori si pone, di conseguenza, in
contrasto con l'art. 122, quinto comma, Cost., in cui si riflettono i principî ispiratori dell'equilibrio
costituzionale tra i supremi organi regionali derivante dall'investitura popolare del Presidente.
5. – È stato pure impugnato dal Presidente del Consiglio dei ministri l'art. 46, comma 2, del citato
statuto della Regione Abruzzo, il quale – riferendosi all'obbligo del Presidente della Giunta di presentare
il programma nella prima seduta del Consiglio regionale successiva alle elezioni – dispone che «Il
programma è approvato dal Consiglio regionale. Il voto contrario produce gli stessi effetti
dell'approvazione della mozione di sfiducia».
Secondo l'Avvocatura dello Stato, anche questa norma sarebbe incoerente rispetto alla scelta,
effettuata dallo stesso statuto, dell'elezione popolare del Presidente della Giunta, introducendo peraltro
una causa di scioglimento del Consiglio non prevista dalla Costituzione.
La questione è fondata.
Questa Corte ha già chiarito che la previsione in uno statuto regionale del potere del Consiglio di
discutere e approvare il programma di governo predisposto dal Presidente non è in contrasto con la
Costituzione, a condizione che dalla mancata approvazione del programma stesso non derivino
conseguenze di tipo giuridico «certamente inammissibili ove pretendessero di produrre qualcosa di
simile ad un rapporto fiduciario» (sentenza n. 379 del 2004). Valgono in proposito i rilievi sviluppati al
punto 4 delle presenti considerazioni in diritto, integrate dall'osservazione che lo stesso tenore letterale
del secondo e terzo comma dell'art. 126 Cost. non consente l'equiparazione tra mozione di sfiducia e
mancata approvazione iniziale del programma di governo. Per la presentazione e l'approvazione di una
mozione di sfiducia sono previste infatti alcune precise modalità procedurali – motivazione,
sottoscrizione di almeno un quinto dei componenti del Consiglio, intervallo di tre giorni prima della
messa in discussione, maggioranza assoluta – che verrebbero eluse se un altro atto, non assistito dalle
medesime garanzie, potesse produrre gli stessi effetti.
L'articolazione concreta dei rapporti politici tra Presidente della Giunta e Consiglio prende le mosse,
come s'è detto, dalla simultanea investitura politica di entrambi da parte del corpo elettorale. Ogni atto di
indirizzo dell'uno o dell'altro si pone come svolgimento, precisazione e arricchimento del mandato a
rappresentare e governare conferito dagli elettori della Regione ai titolari dei poteri legislativo ed
esecutivo. È intrinseca a questo modello una iniziale presunzione di consonanza politica, che può essere
superata solo da un atto tipico quale la mozione di sfiducia.
Estendere gli effetti di questa ad un atto di approvazione del programma politico del Presidente della
Giunta equivarrebbe ad un conferimento di fiducia iniziale senz'altro coerente in una forma di governo
che non prevede l'elezione a suffragio universale e diretto del vertice dell'esecutivo, ma contraddittorio
con un sistema di rapporti tra poteri fondato sul conferimento da parte del popolo di un mandato a
governare ad entrambi gli organi supremi della Regione, ciascuno nei suoi distinti ruoli. Il Presidente
eletto a suffragio universale e diretto ha già presentato il suo programma agli elettori e ne ha ricevuto il
consenso. La presentazione di un programma al Consiglio può avere solo il significato di precisare e
integrare l'indirizzo politico originariamente elaborato e ritenuto dalla maggioranza degli elettori
convergente con il proprio. Tali precisazioni e integrazioni saranno apprezzate di volta in volta dal
Consiglio, che, nell'ipotesi di divergenza estrema, potrà adottare la decisione di provocare una nuova
consultazione elettorale.
Da quanto detto sopra si trae la conseguenza che non esiste tra Presidente della Giunta e Consiglio
regionale una relazione fiduciaria assimilabile a quella tipica delle forme di governo parlamentari, ma un
rapporto di consonanza politica, istituito direttamente dagli elettori, la cui cessazione può essere
ufficialmente dichiarata sia dal Presidente che dal Consiglio con atti tipici e tassativamente indicati dalla
Costituzione. Anche nell'ipotesi che il Consiglio, subito dopo le elezioni, volesse costringere il
Presidente alle dimissioni, con conseguente proprio scioglimento, risulterebbe indispensabile la
procedura solenne della mozione di sfiducia, giacché sarebbe necessario rendere trasparenti e
comprensibili per i cittadini i motivi di una decisione di tale gravità. Né sarebbe ammissibile che alla
maggioranza assoluta richiesta dall'art. 126, secondo comma, Cost. si potesse sostituire una maggioranza
semplice, quale quella resa possibile dall'impugnato art. 46, comma 2, dello statuto della Regione
Abruzzo.
6. – L'art. 47, comma 2, del citato statuto della Regione Abruzzo dispone che l'approvazione della
mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta comporta la decadenza della Giunta stessa e
lo scioglimento del Consiglio. Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna tale disposizione per
contrasto con l'art. 126, terzo comma, della Costituzione, che prevede invece l'obbligo di dimissioni della
Giunta, e non la decadenza, come effetto dell'approvazione di una mozione di sfiducia.
La questione è fondata.
L'art. 126 Cost. disciplina in modo differenziato distinte ipotesi di cessazione del Presidente dal suo
ufficio. Mentre al primo comma parla di «rimozione» dello stesso per atti contrari alla Costituzione,
gravi violazioni di legge o ragioni di sicurezza nazionale, nel terzo comma usa la diversa espressione
«dimissioni». Nel primo caso esiste la necessità di un immediato allontanamento dalla carica di chi si sia
reso responsabile di gravi illeciti o risulti pericoloso per la sicurezza nazionale. Nel secondo caso si detta
invece una disciplina adatta alla natura prettamente politica della cessazione, che non richiede
quell'immediatezza e perentorietà di allontanamento dalla carica necessari nella prima ipotesi. La
previsione di decadenza – per sua natura, immediata e perentoria – varrebbe ad equiparare due ipotesi
che la norma costituzionale considera e disciplina diversamente, in coerenza con la loro differenza
qualitativa e con gli interessi pubblici da tutelare.
La maggiore elasticità dell'obbligo di dimissioni rispetto alla decadenza automatica serve peraltro a
rendere sicuramente ammissibile l'emanazione di atti urgenti e indifferibili. Nel bilanciamento dei valori,
la norma costituzionale ha dato decisamente la prevalenza, rispetto a possibili urgenti necessità
dell'amministrazione, all'esigenza di allontanare immediatamente dalla carica chi si trovi nelle condizioni
previste per la «rimozione», mentre ha lasciato un margine di flessibilità – ovviamente entro ristretti
limiti temporali – nell'ipotesi che l'allontanamento non derivi da comportamenti antigiuridici o pericolosi
per la sicurezza nazionale, ma da un atto politico del Consiglio. Introdurre la decadenza della Giunta
come effetto dell'approvazione di una mozione di sfiducia finirebbe per equiparare il disvalore giuridico
alla necessità politica, trattati e considerati dall'art. 126, primo e terzo comma, Cost. in modo ben
distinto.
7. – Il ricorso del Presidente del Consiglio contiene anche l'impugnazione dell'art. 79, comma 2, del
citato statuto della Regione Abruzzo, in quanto impone al Consiglio un obbligo di motivazione, se questo
voglia deliberare in senso contrario ai pareri del Collegio regionale per le garanzie statutarie. Secondo la
difesa erariale, si limiterebbe l'esercizio della potestà legislativa del Consiglio regionale, in contrasto con
l'art. 121, secondo comma, Cost. e si violerebbe il principio dell'irrilevanza della motivazione degli atti
legislativi, frutto di un'attività politica libera nei fini e quindi non assoggettabile ad alcun dovere di
motivare. Ove poi il parere del suddetto Collegio intervenisse su una legge definitivamente approvata, si
limiterebbe in modo indebito il potere del Presidente della Giunta di promulgare le leggi, sancito dall'art.
121, quarto comma, Cost. e si introdurrebbe, in contrasto con l'art. 134 Cost., un nuovo sindacato di
legittimità di una legge, produttivo di effetti giuridici.
La questione non è fondata.
Questa Corte ha già stabilito che l'introduzione di un organo di garanzia nell'ordinamento statutario
regionale non è, come tale, in contrasto con la Costituzione, mentre resta da valutare, nei singoli specifici
profili, la compatibilità delle norme attributive allo stesso di competenze determinate (sentenza n. 378
del 2004).
Se si passa ad esaminare la censura particolare rivolta dal ricorrente alla norma impugnata, si devono
svolgere le seguenti considerazioni. Innanzitutto, nessuna limitazione viene a soffrire la potestà
legislativa del Consiglio regionale, che rimane intatta sia nelle materie sia nell'estensione della sua
capacità regolativa. L'introduzione di un particolare, eventuale passaggio procedurale, consistente nel
parere del Collegio regionale per le garanzie statutarie, rientra nella disciplina del procedimento
legislativo regionale, ricompresa indubbiamente nei «principî fondamentali di organizzazione e
funzionamento» attribuiti dall'art. 123, primo comma, Cost. alla potestà statutaria delle Regioni. Inoltre,
la motivazione richiesta perché il Consiglio regionale possa deliberare in senso contrario ai pareri e alle
valutazioni del Collegio di garanzia non inerisce agli atti legislativi, ma alla decisione di non tener conto
del parere negativo, che costituisce atto consiliare distinto dalla deliberazione legislativa e non fa corpo
con essa. Infine, la norma statutaria impugnata si riferisce esplicitamente alle «deliberazioni legislative»
e non alle leggi. Tale constatazione fa venir meno ogni perplessità circa una possibile, illegittima
limitazione del potere presidenziale di promulgazione e sulla asserita introduzione di una nuova forma di
controllo di legittimità costituzionale delle leggi.
8. – Il ricorrente censura, da ultimo, l'art. 86, comma 3, del citato statuto della Regione Abruzzo, nel
quale, con riferimento alla pubblicazione e all'entrata in vigore dello statuto stesso, è stabilito che
l'impugnazione dinanzi alla Corte costituzionale sospende la pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della
Regione e che, dopo la sentenza della stessa Corte, esso è riesaminato dal Consiglio regionale
limitatamente alle disposizioni dichiarate illegittime per le deliberazioni consequenziali. Secondo la
difesa erariale, si possono dare più letture di tale disposizione, tutte in contrasto con la Costituzione, o
perché si verificherebbe l'illegittima compressione del termine per promuovere il controllo preventivo di
legittimità costituzionale previsto dall'art. 123, secondo comma, Cost., o perché si arriverebbe addirittura
ad escludere il controllo di legittimità costituzionale sulle nuove norme statutarie successive alla
pronuncia della Corte costituzionale, o perché essa conterrebbe un'intrinseca contraddizione – tale da
porre la norma in contrasto con l'art. 3 Cost. – tra il comma 4, che prevede un'unica pubblicazione
notiziale, idonea far decorrere entrambi i termini ed i commi 1 e 2, che introducono invece una
dissociazione tra la pubblicazione per la decorrenza del termine di trenta giorni per l'eventuale
impugnazione del Governo della Repubblica (comma 1) e la pubblicazione per la decorrenza del termine
di tre mesi per la presentazione della richiesta di referendum popolare confermativo (comma 2).
La questione è fondata.
La disposizione impugnata mal si presta ad essere ricondotta nell'alveo dell'art. 123, secondo e terzo
comma, Cost., dal quale si deduce che si deve far luogo inizialmente ad una sola pubblicazione notiziale,
idonea a far decorrere sia il termine per l'eventuale impugnazione governativa, sia quello per la richiesta
di referendum popolare. L'incoerenza della norma impugnata e le sue possibili interpretazioni in
contrasto con la Costituzione derivano pertanto dall'essere, la stessa, parte di una più vasta disciplina
della pubblicazione della deliberazione statutaria, fondata sulla sua duplicazione, non prevista dall'art.
123 Cost. Quest'ultima norma costituzionale si pone infatti come regola da applicare in via generale ed è
sottratta pertanto all'autonomia statutaria. Ogni valutazione sugli eventuali inconvenienti nascenti da essa
non può trovare risposta in inammissibili sue «rettifiche» da parte della fonte statutaria, ma in
accorgimenti validamente utilizzabili – e di fatto utilizzati da molte Regioni – per evitare la
sovrapposizione di procedimenti nell'ipotesi di impugnazione dello statuto da parte del Governo.
Poiché il comma 3 dell'art. 86 dello statuto in questione fa parte integrante, in modo inscindibile,
della disciplina complessiva dettata da tale articolo, la declaratoria di illegittimità costituzionale della
norma impugnata rende necessaria la dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale, ai sensi
dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dell'intero articolo 86 del medesimo statuto.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la costituzione in giudizio della Regione Abruzzo;
2) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 45, comma 3, dello statuto della Regione Abruzzo,
approvato in prima deliberazione il 20 luglio 2004 ed in seconda deliberazione il 21 settembre 2004,
pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 101 dell'8 ottobre 2004;
3) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 46, comma 2, del citato statuto;
4) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 47, comma 2, del citato statuto;
5) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 86, comma 3 in relazione ai commi 1, 2 e 4, del
citato statuto;
6) dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953 n. 87, l'illegittimità costituzionale in via
consequenziale dei commi 1, 2 e 4 dell'art. 86 del citato statuto;
7) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 3, del citato
statuto, in riferimento all'art. 117, quinto comma, della Costituzione;
8) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 79, comma 2 in relazione al
comma 1, lettera c), in riferimento agli artt. 121, secondo e quarto comma, e 134 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 gennaio
2006.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2006.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 2/2004
Giudizio
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente CHIEPPA - Redattore DE SIERVO
Udienza Pubblica del 25/11/2003 Decisione del 18/12/2003
Deposito del 13/01/2004 Pubblicazione in G. U. 21/01/2004
Norme impugnate:
Massime:
28199 28200 28201 28202 28203 28204 28205 28206 28207
Atti decisi:
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Regioni ad autonomia ordinaria - Riforma del titolo v della costituzione - Potestà statutaria - Nuova
configurazione
Contenuto
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limiti.
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Questa Corte ha già avuto modo di affermare che i limiti alla rilevante autonomia normativa che le
Regioni hanno acquisito dopo la riforma dell’art. 123 della Costituzione e la eliminazione
dell’approvazione dello statuto regionale da parte del Parlamento, possono derivare solo da norme
chiaramente deducibili dalla Costituzione, nel senso che “in mancanza di una disciplina costituzionale
chiaramente riconoscibile” essa non può essere compressa. Tuttavia, in relazione al rapporto fra la
potestà statutaria regionale ed i suoi limiti, la Corte ha avuto, altresì, modo di chiarire che gli statuti
regionali devono rispettare non solo le disposizioni costituzionali, ma devono anche rispettarne lo spirito.
Sentenze
citate
313/2003;
196/2003;
304/2002.
Parametri costituzionali
legge costituzionale 22/11/1999 n. 1
Costituzione art. 123
legge costituzionale 18/10/2001 n. 3
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Oggetto del giudizio - Statuto della regione calabria - Ricorso governativo - Indicazione generica nel suo
complesso della disposizione statutaria censurata - Individuazione delle partizioni (commi) cui va riferito
l o
s c r u t i n i o .
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o
Nelle ipotesi in cui le censure prospettate dal ricorrente siano genericamente rivolte alla disposizione nel
suo complesso, l’oggetto del giudizio può essere individuato in relazione alle motivazioni addotte nel
ricorso stesso. Nel caso di specie, esse vanno individuate nei commi 1, 2, 3, 4, 5 e 7 (con esclusione dei
commi
6
ed
8)
dell’art.
33
dello
Statuto
Regione
Calabria.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Calabria art. 33 co. 1
statuto Regione Calabria art. 33 co. 2
statuto Regione Calabria art. 33 co. 3
statuto Regione Calabria art. 33 co. 4
statuto Regione Calabria art. 33 co. 5
statuto Regione Calabria art. 33 co. 7
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Regione calabria - Statuto - Organi di governo regionali - Disciplina - Elezione diretta del presidente e
del vicepresidente della giunta regionale - Ricorso governativo - Riduzione dei poteri presidenziali Sussistente contrasto con il principio dell’elezione a suffragio universale e diretto del presidente e con
quello che riserva alla legge regionale il sistema di elezione degli organi di governo della regione Illegittimità
costituzionale.
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E’ costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 122, quinto comma, e 126, terzo comma,
della Costituzione, l’art. 33, commi 1, 2, 3, 4, 5 e 7, dello statuto della Regione Calabria, approvato in
prima deliberazione il 13 maggio 2003 e, in seconda deliberazione, il 31 luglio 2003, il quale, dispone,
sostanzialmente, la elezione diretta del Presidente e del Vice Presidente, nonché, al primo comma,
prescrive analiticamente che i candidati alle cariche citate siano indicati sulla scheda elettorale e siano
votati contestualmente agli altri componenti il Consiglio regionale. Infatti, pur riconoscendo
all’autonomia statutaria regionale la possibilità di optare per uno dei possibili modelli diversi di forme di
governo regionali (con la possibilità di configurare eventualmente un sistema di elezione del Presidente
della Giunta regionale diverso dal suffragio diretto), tuttavia, tale possibilità incontra un limite nella
volontà del legislatore di revisione costituzionale fondato sulla ipotesi di elezione diretta del solo
Presidente
della
Giunta.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Calabria art. 33 co. 1
statuto Regione Calabria art. 33 co. 2
statuto Regione Calabria art. 33 co. 3
statuto Regione Calabria art. 33 co. 4
statuto Regione Calabria art. 33 co. 5
statuto Regione Calabria art. 33 co. 7
Parametri costituzionali
Costituzione art. 122 co. 5
Costituzione art. 126 co. 3
legge costituzionale 22/11/1999 n. 1 art. 5
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Regione calabria - Statuto - Organi di governo regionale - Elezione - Procedimento - Illegittimità
costituzionale in via consequenziale (ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87).
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Sono costituzionalmente illegittimi, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n.87, gli artt. 15, 16,
comma 2, lettere a) e b), nonché all’art. 38, comma 1, lettera c) della medesima delibera legislativa, che
disciplinano alcune fasi ulteriori dei procedimenti di cui all’art. 33 o fanno esplicito riferimento agli
istituti ivi previsti. - Sentenze citate nn. 20/2000; 441/1994 e 34/1961.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Calabria art. 15
statuto Regione Calabria art. 16 co. 2 co. lettera a)
statuto Regione Calabria art. 16 co. 2 co. lettera b)
Riferimenti normativi
statuto Regione Calabria art. 38 co. 1 co. lettera c)
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Regioni ad autonomia ordinaria - Organi di governo - Consiglio regionale - Scioglimento automatico in
relazione ad eventi che colpiscano il presidente della giunta, in assenza di una sfiducia consiliare Questione di legittimità costituzionale di norma costituzionale - Richiesta subordinata della regione
calabria per la proposizione della questione da parte della corte costituzionale, quale giudice 'a quo' Assunto contrasto con il principio del parlamentarismo - Manifesta infondatezza della questione.
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Manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 126, terzo comma, della
Costituzione, in riferimento agli artt. 3, 97, 123, 92 e 94 della Costituzione e, in particolare, al principio
del parlamentarismo che ne sarebbe deducibile, secondo cui un’assemblea elettiva non potrebbe essere
sciolta per eventi accidentali in permanenza del rapporto fiduciario, che la Regione Calabria ha chiesto,
in via subordinata, a questa Corte di sollevare dinnanzi a sé. Infatti, la forma di governo di tipo
parlamentare non solo non sembra costituire un principio organizzativo immodificabile del sistema
costituzionale statale, ma lo stesso Titolo V prevede esplicitamente la possibilità di diverse forme di
governo
a
livello
regionale.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 126 co. 3
Costituzione art. 3
Costituzione art. 97
Costituzione art. 123
Costituzione art. 92
Costituzione art. 94
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Regione calabria - Statuto - Disciplina della funzione regolamentare - Adozione di regolamenti attuativi
e integrativi in materia di legislazione esclusiva dello stato, delegati alle regioni - Attribuzione al
consiglio regionale - Ricorso governativo - Assunto contrasto con la norma che attribuisce la funzione
alla
giunta
regionale
Non
fondatezza
della
questione.
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Anche se la disposizione che attribuiva l’esercizio della funzione regolamentare al Consiglio regionale è
venuta meno in virtù dell’art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1999, tuttavia, non è irragionevole la
previsione contenuta nell’art. 43 dello statuto calabrese, che, peraltro, disciplina diversi tipi di
regolamenti regionali, attribuendone l’adozione per lo più alla Giunta, nella parte in cui attribuisce al
Consiglio regionale l’adozione degli speciali regolamenti “di attuazione e di integrazione in materia di
legislazione esclusiva” dello Stato che da questo siano stati delegati alle Regioni, in considerazione della
probabile maggiore rilevanza di questa ipotetica normazione secondaria regionale. Non è, pertanto,
fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 34, comma 1, lettera i) e 43, comma 2, dello
statuto della Regione Calabria, sollevata con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, in
riferimento all’art. 121 della Costituzione. - V. sentenze citate nn. 313 e 324/2003.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Calabria art. 34 co. 1 co. lettera i)
statuto Regione Calabria art. 43 co. 2
Parametri costituzionali
Costituzione art. 121
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Regione calabria - Statuto - Disciplina della elezione degli organi di governo - Ricorso governativo Sussistente contrasto con la riserva di competenza in materia alla legge regionale sulla base dei principî
fondamentali
stabiliti
dalla
legislazione
statale
Illegittimità
costituzionale.
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E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 38, comma 1, lettere a) ed e) dello statuto della Regione Calabria,
che disciplina aspetti della materia elettorale. Lo statuto regionale, infatti, non può disciplinare la materia
elettorale, posto che la potestà legislativa elettorale è stata attribuita dalla Costituzione ad organi ed a
procedure diversi da quelli preposti alla adozione dello statuto regionale, con la conseguenza che la fonte
statutaria svolge un ruolo necessariamente ridotto, seppur significativo, come, ad esempio la stessa Corte
ha riconosciuto che spetta allo statuto regionale “la disciplina della eventuale ‘prorogatio’ degli organi
elettivi regionali dopo la loro scadenza o scioglimento o dimissioni”. - V. sentenza citata n. 196/2003.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Calabria art. 38 co. 1 co. lettera a)
statuto Regione Calabria art. 38 co. 1 co. lettera e)
Parametri costituzionali
Costituzione art. 122 co. 1
Costituzione art. 123 co. 1
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Regione calabria - Ordinamento della dirigenza - Disciplina del regime contrattuale dei dirigenti
regionali - Attribuzione alla fonte statutaria - Ricorso governativo - Assunta invasione delle competenze
riservate allo stato nella materia «ordinamento civile» - Non fondatezza della questione.
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La Regione può disciplinare, per la parte di sua competenza, con provvedimenti normativi il regime
procedimentale della contrattazione con i propri dirigenti, atteso che l’intervenuta privatizzazione e
contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici vincola anche le Regioni, le quali sono
dotate di poteri legislativi propri in tema di organizzazione e di ordinamento del personale. Non è,
pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 5, dello statuto della
Regione Calabria, sollevata, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera i) della Costituzione, dal
Presidente del Consiglio dei ministri. - V. sentenze citate n. 314 e 274/2003.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Calabria art. 50 co. 5
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera l)
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Regione calabria - Statuto - Disciplina della potestà normativa tributaria della regione - Ricorso
governativo - Assunta statuizione su materie sottratte alla fonte statutaria - Non fondatezza della
q u e s t i o n e .
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Gli statuti regionali possono contenere, accanto ai contenuti necessari, altri possibili contenuti, sia di tipo
ricognitivo delle funzioni e dei compiti della Regione, sia di tipo indicativo di aree di prioritario
intervento politico o legislativo, come, peraltro, è stato riconosciuto sia dalla dottrina che dalla Corte
stessa. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 51 dello statuto della
Regione Calabria, sollevata, in riferimento all’art. 123 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio
dei ministri. - V. sentenze citate nn. 921 e 829/1988, n. 171/1999.
Atti oggetto del giudizio
statuto Regione Calabria art. 51
Parametri costituzionali
Costituzione art. 123
Costituzione art. 119
Costituzione art. 120
Pronuncia
N. 2
SENTENZA 18 DICEMBRE 2003 - 13 GENNAIO 2004
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Riccardo CHIEPPA; Giudici: Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio
ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo
DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 33; 34, comma 1, lettera i); 38 comma 1,
lettere a) ed e); 43, comma 2; 50 comma 5 e 51 della deliberazione legislativa statutaria della Regione
Calabria approvata in seconda deliberazione, ai sensi dell'art. 123 Cost., il 31 luglio 2003, promosso con
ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 5 settembre 2003, depositato in cancelleria
il 12 successivo ed iscritto al n. 68 del registro ricorsi 2003.
Visto l'atto di costituzione della Regione Calabria;
udito nella udienza pubblica del 25 novembre 2003 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti;
uditi l'Avvocato dello Stato Ignazio F. Caramazza per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli
avvocati Vincenzo Cerulli Irelli e Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Calabria.
Ritenuto in fatto
1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 5 settembre 2003, depositato il
successivo 12 settembre e iscritto al n. 68 del 2003 del registro ricorsi, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale degli artt. 33; 34, comma 1, lettera i); 38, comma 1, lettere a) ed e); 43, comma
2; 50, comma 5 e 51 dello statuto della Regione Calabria, approvato in prima deliberazione il 13 maggio
2003 e, in seconda deliberazione, il 31 luglio 2003, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera l
), 121, 122, 123, primo comma, e 126 della Costituzione, nonché al principio di separazione dei poteri.
2. - In riferimento all'art. 33 dello statuto, la difesa erariale sostiene che l'art. 122, ultimo comma, e
l'art. 126, terzo comma, della Costituzione, stabilirebbero un vincolo di interdipendenza tra la Giunta con
il suo Presidente - ove eletto a suffragio universale e diretto - ed il Consiglio, espresso dal principio simul
stabunt simul cadent, posto a garanzia della stabilità dell'esecutivo regionale.
L'art. 126, terzo comma, della Costituzione dovrebbe infatti essere letto in correlazione con l'art. 122,
quinto comma, della Costituzione, ai sensi del quale il Presidente della Giunta regionale, salvo che lo
statuto regionale disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto.
Dal combinato disposto di dette norme si ricaverebbe, quindi, che lo statuto regionale può discostarsi
dal principio simul stabunt simul cadent, esclusivamente nel caso in cui sia stato previsto un sistema di
elezione del Presidente della Giunta regionale diverso da quello a suffragio universale diretto (sentenza
n. 304 del 2002).
Secondo il ricorrente, l'art. 33 dello statuto calabrese avrebbe violato le succitate norme. In base alle
disposizioni di tale articolo oggetto delle censure dello Stato, i candidati alle cariche sia di Presidente che
di Vice Presidente della Giunta regionale sono indicati sulla scheda elettorale, sono votati
contestualmente agli altri componenti del Consiglio regionale e sono poi nominati dal Consiglio
regionale nella sua seduta di insediamento; in questa stessa occasione è approvata la mozione sul
programma di governo da essi presentata in Consiglio (commi 1 e 2); viene stabilito, inoltre, che la
mancata nomina del Presidente e del Vice Presidente indicati dal corpo elettorale comporta lo
scioglimento del Consiglio regionale (comma 3); infine, la norma statutaria, al comma 4, stabilisce che,
nei casi di dimissioni volontarie, incompatibilità sopravvenuta, rimozione, impedimento permanente o
morte del Presidente della Giunta, a questi subentra il Vice Presidente, il quale - una volta confermato
dal Consiglio - tornerà a disporre del potere di provocare eventualmente lo scioglimento del Consiglio
nelle ipotesi in cui non potesse più ricoprire la carica o si dimettesse.
Ad avviso della difesa erariale, l'art. 33, disciplinando una forma di elezione sostanzialmente diretta
a suffragio universale - tanto che stabilisce lo scioglimento del Consiglio regionale nel caso di mancata
nomina del Presidente e del Vice Presidente indicati dall'elettorato - contrasterebbe con la Costituzione
in quanto non prevede, in riferimento ai casi di cessazione dal mandato del Presidente della Giunta
previsti dall'art. 126, terzo comma, della Costituzione, le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del
Consiglio regionale, disponendo invece che al Presidente subentri il Vice Presidente. Questa procedura,
quindi, violerebbe sia l'art. 126, sia l'art. 122 della Costituzione, poiché inciderebbe sulla "materia
elettorale", coperta da riserva di legge regionale.
3. - L'Avvocatura generale dello Stato sostiene inoltre che il combinato disposto degli artt. 34,
comma 1, lettera i) e 43, comma 2, dello statuto attribuirebbero illegittimamente al Consiglio regionale
l'esercizio di una potestà regolamentare, nella forma dei regolamenti di attuazione e di integrazione in
materia di legislazione esclusiva il cui potere regolamentare sia stato delegato dallo Stato alle Regioni, in
presenza dell'art. 121 della Costituzione che, invece, non prevede la potestà regolamentare del Consiglio,
così come a livello nazionale non si attribuisce detta potestà al Parlamento.
L'illegittimità delle norme sarebbe confortata dalla considerazione che, anteriormente alla riforma
del Titolo V della Costituzione, il Governo, in diverse occasioni, ha esercitato il potere di rinvio in
riferimento a leggi regionali attributive della potestà regolamentare ai Consigli regionali.
4. - Relativamente all'art. 38, primo comma, lettere a) ed e), dello statuto, il ricorrente osserva che
questa norma, disciplinando aspetti della materia elettorale, si porrebbe in contrasto con l'art. 122, primo
comma, della Costituzione, il quale dispone che il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e
incompatibilità del Presidente e dei membri della Giunta, nonché dei consiglieri regionali devono essere
disciplinati con legge regionale, nel quadro dei principi fondamentali stabiliti con legge della
Repubblica. In particolare, si sottolinea nel ricorso, che la lettera a) del primo comma dell'art. 38 prevede
un sistema di elezione su base proporzionale con voto di preferenza e premio elettorale di maggioranza.
L'introduzione nello statuto di norme in materia elettorale violerebbe la riserva di legge regionale e
limiterebbe i poteri del Consiglio regionale, realizzando al tempo stesso un "rafforzamento" della fonte
statutaria e determinando in tal modo anche una lesione del principio di democrazia diretta. La norma
impugnata, infatti, sottrarrebbe al referendum popolare le norme elettorali, dato che, ai sensi dell'art. 11
dello statuto in esame, il referendum non è ammesso per l'abrogazione delle norme statutarie.
Inoltre, le lettere a) ed e) dell'art. 38 si porrebbero in contrasto con l'art. 123, primo comma, della
Costituzione, in quanto estenderebbero la disciplina dello statuto a materia non prevista dalla norma
costituzionale.
5. - In relazione all'art. 50 dello statuto, il ricorrente osserva che la norma disciplina l'organizzazione
amministrativa regionale ed in particolare la figura dei dirigenti regionali, relativamente ai quali il quinto
comma dell'art. 50 dispone: "Nell'esercizio della potestà statutaria, legislativa e regolamentare, la
Regione provvede a disciplinare il regime contrattuale dei dirigenti, l'attribuzione e la revoca degli
incarichi, l'accertamento delle responsabilità e la comminazione delle sanzioni, nonché ad istituire il
ruolo dei dirigenti della Regione e il ruolo dei dirigenti del Consiglio regionale".
Il riferimento ad una disciplina regionale del regime contrattuale dei dirigenti regionali violerebbe
l'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, che riserva alla competenza esclusiva dello Stato
la materia "ordinamento civile", in quanto a questa sarebbero riconducibili sia gli aspetti fondamentali
del rapporto di lavoro privato che del rapporto di lavoro pubblico, oltre che la disciplina del diritto
sindacale. Ed infatti, nel documento approvato dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle
Province autonome il 21 marzo 2002 è stato espressamente affermato: "Poiché il rapporto di lavoro
pubblico è stato fatto rientrare nella disciplina privatistica, possiamo quindi concludere che, parimenti ai
lavoratori privati, anche per quelli alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il legislatore
regionale trova un limite invalicabile nella contrattazione nazionale, che può a sua volta ricevere una
regolamentazione di sostegno da parte del legislatore regionale".
6. - Il ricorrente sostiene, infine, che l'art. 51 dello statuto violerebbe l'art. 123, primo comma, della
Costituzione, in quanto ha ad oggetto l'esercizio della potestà normativa tributaria della Regione e quindi
regola una materia che non rientra tra quelle che, secondo la norma costituzionale, possono costituire
oggetto di disciplina da parte dello statuto.
7. - Nel giudizio si è costituita la Regione Calabria, in persona del Presidente pro tempore della
Giunta regionale, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e comunque infondato.
Relativamente alle censure aventi ad oggetto l'art. 33, la resistente osserva che esse sarebbero
infondate, in quanto, sotto un profilo strettamente formale, elezione "a suffragio universale" vorrebbe
dire che il Capo dell'esecutivo - nella specie, il Presidente della Giunta regionale - "deve essere eletto da
tutti i soggetti facenti parte dell'ordinamento". L'elezione "a suffragio diretto" si avrebbe infatti quando
tutti i titolari dell'elettorato attivo scelgono direttamente ed immediatamente il Capo dell'esecutivo in
un'unica fase, senza che la loro scelta sia filtrata o mediata o comunque interferita da altri meccanismi o
organi o procedure, con la conseguente immediata preposizione dell'eletto nella carica a cui è destinato.
Nella norma impugnata, invece, non vi sarebbero siffatti caratteri, in quanto mancherebbe l'universalità
del voto, nonché l'immediatezza tra il voto degli elettori e la sussunzione dell'eletto alla carica di
Presidente, dato che il potere di conferire la carica di Presidente al candidato spetta al Consiglio
regionale e non direttamente al corpo elettorale.
Infatti, nonostante che l'art. 33 disponga che i candidati alla carica di Presidente e di Vice Presidente
debbano essere indicati sulla scheda elettorale e votati contestualmente agli altri componenti del
Consiglio regionale, dal comma 2 risulta che, anche dopo tale investitura - che dovrà essere
concretamente modulata dalla legge elettorale regionale - essi rimangono meri candidati, poiché è solo il
voto del Consiglio regionale a conferire loro la carica in questione. Ed è appunto per questo che l'art. 33,
comma 8, stabilisce che l'insediamento avviene solamente dopo l'avvenuta elezione consiliare, non dopo
la proclamazione degli eletti, dato che nel modello prescelto il voto degli elettori non realizza la
preposizione degli eletti nella carica.
Questa ricostruzione sarebbe confortata anche dalla sentenza n. 304 del 2002, che - nel respingere la
tesi della difesa della Regione, secondo la quale l'art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 1999 non
avrebbe realizzato una vera e propria elezione a suffragio universale e diretto - ha ritenuto inutile
approfondire nel merito la natura dell'elezione disciplinata dalla norma transitoria della legge cost. n. 1
del 1999, in considerazione dell'assimilabilità "nella valutazione del legislatore costituzionale" di questa
elezione "ad una vera e propria elezione a suffragio diretto": assunto, quest'ultimo, dimostrato, secondo
la citata sentenza n. 304 del 2002, dalla riproduzione nel comma 2 dell'articolo 5 del principio simul
stabunt, simul cadent.
Peraltro, secondo la resistente, nel sistema transitorio, anche in mancanza di previsione espressa,
avrebbe dovuto ritenersi operante il meccanismo della "reciproca dissoluzione", in virtù dell'art. 126,
ultimo comma, della Costituzione. Infatti, l'elezione del Presidente della Giunta regionale disciplinata
dall'art. 5, comma 1, della legge cost. n. 1 del 1999, configurerebbe chiaramente un'elezione "a suffragio
universale e diretto", in quanto la norma dispone che "è proclamato Presidente della Giunta regionale il
candidato (capolista della lista regionale) che ha conseguito il maggior numero di voti validi in ambito
regionale", senza necessità di alcun tipo di mediazione.
Diversamente accadrebbe, invece, nel sistema definito dallo statuto della Regione Calabria, nel quale
la scelta del corpo elettorale risulterebbe "filtrata" dall'intervento consiliare, quindi inidonea a
determinare il conferimento della carica in mancanza dell'elezione da parte del Consiglio regionale.
Sotto il profilo sostanziale, la scelta operata con lo statuto in esame non costituirebbe affatto "una
forma di elezione sostanzialmente diretta", in quanto neppure è stata prevista un'elezione di tipo indiretto
conformata sul modello nordamericano.
Secondo la resistente, ulteriori ragioni conforterebbero la propria tesi.
In primo luogo, diversamente dal modello statunitense, il Consiglio regionale potrebbe scegliere di
non nominare quali Presidente e Vice Presidente i candidati indicati dal corpo elettorale, pur così
determinando il proprio autoscioglimento.
In secondo luogo, i membri del Consiglio regionale non sarebbero assimilabili ai "grandi elettori", in
quanto farebbero parte di un "collegio perfetto" che deve votare sia per i candidati al vertice della Giunta,
sia sul programma da questi presentato, previo dibattito, nelle forme previste dal regolamento interno
(articolo 33, comma 2). Questo meccanismo assicurerebbe al Consiglio la facoltà di nominare soggetti
tali da rappresentare gli interlocutori naturali nella cogestione della attività di indirizzo politico. Dunque,
il programma della coalizione che vince le elezioni ed esprime i candidati alla Presidenza e alla
Vicepresidenza (il programma della campagna elettorale) non si trasformerebbe automaticamente in
programma di governo e quindi in indirizzo politico, in quanto, perché ciò avvenisse, sarebbe necessario
un voto del Consiglio sul programma.
Ad avviso della Regione, il sistema prescelto si impernierebbe su due fondamentali meccanismi:
l'immissione nell'ufficio di Presidente (e di Vice Presidente) solo dopo il voto del Consiglio e solo in
ragione di esso; l'approvazione consiliare del programma di governo, in forza dei quali si instaura tra
Presidente della Giunta e Consiglio regionale un rapporto politico diverso rispetto a quello che consegue
dall'elezione a suffragio universale e diretto.
Né sarebbe possibile equiparare qualsiasi legittimazione popolare del vertice dell'esecutivo, ovvero
qualsiasi meccanismo di stabilizzazione del medesimo, all'elezione a suffragio universale e diretto.
La conclusione, secondo la resistente, è che nello statuto in esame l'indicazione popolare non sarebbe
vincolante, e la Regione Calabria, nell'esercizio della propria autonomia statutaria, avrebbe preferito
un'elezione del Presidente della Giunta diversa da quella a suffragio universale e diretto, derogando
legittimamente all'articolo 126, terzo comma, della Costituzione; inoltre, nell'ambito della autonomia in
tema di "forma di governo" ex art. 123, primo comma, della Costituzione, la Regione avrebbe
legittimamente previsto che il Vice Presidente subentri al Presidente della Giunta - con l'imprescindibile
consenso del Consiglio - qualora questi muoia, sia affetto da impedimento permanente, sia rimosso, si
trovi in una situazione di incompatibilità sopravvenuta, o rassegni le dimissioni in assenza di una
esplicita rottura del rapporto fiduciario, allo scopo di evitare che eventi accidentali concernenti la vita del
Presidente impediscano alla maggioranza scelta dagli elettori di realizzare il programma di governo.
Il Presidente resterebbe "il vero dominus della Giunta e arbitro della legislatura", avendo anche
"ampia possibilità di far ricorso al voto di fiducia", mentre il Vice Presidente entrerebbe in gioco solo per
far realizzare integralmente il programma.
Secondo la resistente, l'art. 33 dello statuto non violerebbe neppure la riserva di legge regionale in
materia elettorale di cui all'art. 122 della Costituzione. Invero, indipendentemente dal fatto che
l'Avvocatura dello Stato non avrebbe indicato quali disposizioni dell'articolo 33 inciderebbero sulla
materia, il fondamento dell'intera disciplina da esso recata sarebbe rinvenibile nell'art. 123, primo
comma, della Costituzione, nella parte in cui include nel contenuto necessario dello statuto "la forma di
governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento". D'altronde è la stessa
Costituzione che, all'art. 122, quinto comma, stabilisce che "il Presidente della Giunta, salvo che lo
statuto disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto".
Ad avviso della Regione, in particolare, il comma 7 della disposizione impugnata, nel prevedere
quale causa di ineleggibilità l'aver ricoperto per due mandati consecutivi (superiori a trenta mesi) la
carica di Presidente della Giunta, disciplinerebbe una peculiare causa di ineleggibilità strettamente legata
alla "forma di governo" e direttamente incidente sull'uso di strumenti come quello della questione di
fiducia, di cui all'articolo 37, comma 3, dello statuto, potendo svolgere un'importante ruolo deterrente
rispetto al ricorso allo stesso.
Inoltre, l'incensurabilità del comma 8 - concernente la prorogatio della Giunta e del suo Presidente sarebbe confortata dalla sentenza di questa Corte n. 196 del 2003: lo statuto in esame, all'art. 19,
stabilisce la prorogatio della Giunta e del suo Presidente, e questa norma sarebbe stata richiamata dalla
Corte nella succitata sentenza, a dimostrazione della naturale riconducibilità di una tale materia
nell'alveo delle disposizioni statutarie.
8. - La Regione Calabria, in linea subordinata, per il caso in cui si ritenesse che la norma impugnata
abbia introdotto una elezione del Presidente della Giunta a suffragio universale e diretto, ha chiesto che
questa Corte sollevi dinnanzi a sé la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 126, terzo
comma, della Costituzione, in riferimento agli articoli 3, 97, 123, 92 e 94, della Costituzione.
Ad avviso della Regione, l'art. 126, terzo comma, della Costituzione, prevedendo lo scioglimento
automatico del Consiglio anche in relazione ad eventi che colpiscono accidentalmente la vita personale
del Presidente della Giunta, quali la morte, l'impedimento permanente, o le dimissioni volontarie non
dovute ad una previa mozione di sfiducia, realizzerebbe una scelta irragionevole, in contrasto con il
principio del parlamentarismo, recepito negli artt. 92 e 94, della Costituzione, in quanto, pur in assenza
di rotture del rapporto fiduciario, impedirebbe alla maggioranza consiliare, che è espressione della
maggioranza del corpo elettorale, di portare ad attuazione il programma di governo votato dagli elettori.
Infatti, se la ratio del meccanismo simul stabunt, simul cadent è quella di garantire una maggiore
stabilità degli esecutivi regionali, sarebbe irragionevole che per eventi accidentali, i quali non pongono in
discussione il rapporto di fiducia, si debba necessariamente procedere a nuove elezioni.
Pertanto, secondo la resistente, ragionevolmente lo statuto calabrese avrebbe previsto una figura
quale quella del Vice Presidente che, in virtù dell'indicazione popolare, con la volontà del Consiglio, può
subentrare al Presidente, allo scopo di permettere di realizzare il programma di governo sulla scorta del
quale i cittadini hanno scelto la maggioranza consiliare.
In ordine all'ammissibilità della questione di costituzionalità avente ad oggetto una norma
costituzionale, la Regione richiama la sentenza di questa Corte n. 1146 del 1988.
9. - Secondo la Regione Calabria, anche le censure concernenti l'art. 34, comma 1, lettera i), e l'art.
43, comma 2, dovrebbero essere ritenute infondate.
L'art. 43, nel distribuire la potestà regolamentare tra gli organi della Regione, attribuisce alla Giunta
una generale competenza regolamentare - nella forma dei regolamenti esecutivi, dei regolamenti di
attuazione e di integrazione delle leggi regionali, dei regolamenti "delegati" nelle materie di competenza
esclusiva regionale e dei regolamenti di organizzazione dell'Amministrazione regionale - riservando al
Consiglio la facoltà di esercitarla solo limitatamente ai "regolamenti di attuazione e di integrazione in
materia di legislazione esclusiva delegata dallo Stato" (comma 2).
Il principio della separazione dei poteri che, secondo il ricorrente, sarebbe violato dalla norma
impugnata, non potrebbe viceversa ritenersi vulnerato dalla attribuzione al Consiglio della potestà
regolamentare delegata dallo Stato ai sensi dell'art. 117, sesto comma, della Costituzione, sia in
considerazione dell'attribuzione alla Giunta del nucleo tradizionale della potestà regolamentare (quella
esecutiva ed integrativo-attuativa delle leggi regionali), sia alla luce della ratio dell'attribuzione al
Consiglio di detta potestà, da identificarsi nell'esigenza di realizzare una soluzione che garantisca le
situazioni giuridiche soggettive dei cittadini, in quanto le materie di competenza legislativa esclusiva
dello Stato tendenzialmente incidono sulle medesime più di quanto sulle stesse non incidano le leggi
regionali.
Inoltre, sotto il profilo storico, la previsione si ricollegherebbe al testo originario dell'art. 121,
secondo comma, della Costituzione, il quale attribuiva ai Consigli regionali la potestà regolamentare,
diversamente da quanto stabilito per il Parlamento, con previsione che, alla luce dei lavori
dell'Assemblea costituente, avrebbe dovuto essere interpretata come attributiva al Consiglio regionale
della potestà regolamentare esclusivamente in riferimento all'attuazione delle leggi statali (tesi peraltro
disattesa nella legislazione e nella prassi).
Pertanto, ad avviso della Regione Calabria, la scelta realizzata con lo statuto sarebbe in "armonia con
lo spirito del Costituente", apparendo opportuno che la delicata potestà in esame sia gestita dall'organo
rappresentativo del corpo elettorale, che fungerebbe "da longa manus del legislatore nazionale".
In contrario, secondo la resistente, non rileverebbe la circostanza che, dopo l'entrata in vigore della
legge cost. n. 1 del 1999, la Presidenza del Consiglio dei ministri-Dipartimento affari regionali, con
parere reso il 15 marzo 2000, abbia ritenuto riservato alla Giunta regionale il potere regolamentare,
nonché ricordare che il Governo ha disposto il rinvio delle delibere legislative regionali, che
continuavano ad attribuire detto potere ai Consigli regionali. Infatti, la posizione assunta dal Governo
non riguardava il tipo di regolamenti qui in esame, "trattandosi di una tipologia all'epoca sconosciuta", in
quanto non era ancora entrata in vigore la legge cost. n. 3 del 2001 che ha previsto, al sesto comma
dell'art. 117 della Costituzione, la facoltà dello Stato di delegare alle Regioni la potestà regolamentare
nelle materie di legislazione esclusiva statale.
Da altro punto di vista, gli argomenti dell'Avvocatura sarebbero da rigettare in considerazione della
tesi - sostenuta anche da parte della dottrina - secondo la quale la legge cost. n. 1 del 1999, modificando
il testo del secondo comma dell'articolo 121, della Costituzione, avrebbe attribuito agli statuti regionali la
facoltà di scegliere l'organo o gli organi cui attribuire la potestà regolamentare. In tal senso deporrebbero
il "significativo silenzio sul punto della disposizione costituzionale" (art. 121, secondo comma, della
Costituzione), la considerazione che spetta comunque al Consiglio regionale la fissazione dei confini tra
la disciplina legislativa e la disciplina regolamentare, nonché un significativo obiter dictum contenuto
nell'ordinanza di questa Corte n. 87 del 2001.
10. - La resistente contesta poi le censure riferite all'art. 38, comma 1, lettera a) ed e), anzitutto
ricordando che questa Corte, con la sentenza n. 196 del 2003, ha precisato che "la disciplina statutaria,
cui è demandata la definizione della forma di governo regionale, condiziona inevitabilmente, in parte, il
sistema elettorale per l'elezione del Consiglio".
Il principio sarebbe confortato dalla considerazione dottrinale secondo la quale il sistema elettorale
sarebbe una delle principali variabili della forma di governo, sicché apparirebbe "del tutto fisiologica" dunque pienamente ammissibile - non solo "un'interferenza", ma addirittura "una vera e propria
interposizione statutaria tra la normativa di principio statale (espressamente stabilita o desumibile) e la
normativa di dettaglio regionale" in materia elettorale.
In particolare, il modello di forma di governo scelto dalla Regione Calabria avrebbe quali corollari
alcune scelte di fondo in tema di sistema elettorale; tra queste, il premio di maggioranza, necessario a
garantire la stabilità di governo, nel rispetto del principio di rappresentanza delle minoranze, tutelato
dalla previsione della elezione su base proporzionale, risultando inoltre garantita statutariamente la piena
libertà di voto dell'elettore, grazie al voto di preferenza.
D'altronde, queste opzioni non inciderebbero sul libero esplicarsi della legge regionale e sui poteri
del Consiglio, dato che residuerebbero alla legge regionale ambiti di scelta di non poco conto.
In ogni caso, secondo la resistente, l'art. 38, lettera e), non violerebbe il principio della "riserva di
legge regionale", né limiterebbe i poteri del Consiglio o contrasterebbe con i principi della legge statale,
in quanto si limiterebbe a riprodurre il contenuto dell'art. 122, primo comma, della Costituzione.
Ancora, l'art. 38, comma 1, lettere a) ed e), non potrebbe essere ritenuto lesivo del "principio di
democrazia diretta", in quanto spetterebbe allo statuto disciplinare l'iniziativa popolare referendaria,
come prescritto dall'art. 123, primo comma, della Costituzione, non rilevando in senso inverso che le
relative norme siano sottratte al referendum abrogativo; ciò in quanto esse resterebbero comunque
suscettibili di essere sottoposte a referendum consultivo. Inoltre, nella medesima direzione deporrebbe la
circostanza secondo la quale sarebbe comunque garantita la facoltà dei cittadini di esprimersi sul
contenuto dello statuto per mezzo del referendum confermativo ex art. 123, terzo comma, della
Costituzione.
11. - In riferimento alla censura concernente l'art. 50, la Regione Calabria - pur ammettendo che
"sicuramente la disciplina sostanziale del rapporto di lavoro, quella contenuta nelle leggi civili, può
essere attratta alla competenza legislativa dello Stato nell'ambito della materia 'ordinamento civile'" osserva peraltro che a tale materia non potrebbero essere ricondotte le procedure e le modalità della
contrattazione collettiva, da ritenersi riservate all'autonomia degli enti. In ogni caso - nota la resistente già oggi parte della contrattazione collettiva si svolgerebbe in sede regionale ed in ambito locale.
La norma statutaria si limiterebbe a richiamare questa realtà: e cioè che la Regione disciplina con
propri provvedimenti normativi il regime contrattuale dei dirigenti, ovviamente per la parte di propria
competenza.
In relazione al documento della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome
del 21 marzo 2002, citato dall'Avvocatura, la Regione evidenzia che lo stesso preciserebbe che all'interno
della disciplina del rapporto di lavoro pubblico sono compresi profili ancora oggi disciplinati in regime
pubblicistico e, quindi, di competenza esclusiva delle Regioni (inerendo all'ordinamento ed
all'organizzazione amministrativa delle Regioni).
12. - Quanto alle censure concernenti l'art. 51 dello statuto, ad avviso della resistente esso recherebbe
una disciplina tale da costituire "essenzialmente una ripetizione del dettato costituzionale", in quanto i
primi quattro commi dell'articolo 51 riprodurrebbero quasi fedelmente le disposizioni dell'art. 119, della
Costituzione, limitandosi, per alcune di esse, "a svolgerne i contenuti". Ciò varrebbe per il comma 2
dell'art. 51, il quale stabilisce che la Regione deve esercitare con la legge la propria competenza in
materia di applicazione di entrate e tributi propri, specificando i contenuti di questa competenza; per il
comma 3, lettera b), che prevede il coinvolgimento della Regione nel procedimento di definizione, da
parte dello Stato, dell'entità e delle modalità di distribuzione del fondo perequativo; per il comma 5, che
riproduce l'art. 120, primo comma, della Costituzione.
L'art. 51, comma 6, attribuisce, infine, alla Regione il potere di stabilire, con legge, forme di
controllo della regolare gestione finanziaria e dell'efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa,
previsione questa rispettosa delle norme costituzionali. Ciò in conseguenza della soppressione dei
controlli eteronomi realizzata dalla legge cost. n. 3 del 2001, che peraltro non impedisce l'introduzione
all'interno di ciascun ente di forme di controllo endogeno dell'efficienza e dell'efficacia dell'azione
amministrativa.
Dunque, ad avviso della resistente, la norma impugnata sarebbe conforme alla Costituzione ed alla
legge statale di attuazione della legge cost. n. 3 del 2001. In realtà, le censure svolte nel ricorso
riguarderebbero non già il contenuto della norma, bensì la mera esistenza di una disciplina statutaria in
materia e si fonderebbero, con affermazione indimostrata, sul fatto che le linee generali della
organizzazione finanziaria e tributaria della Regione non sarebbero riconducibili al concetto di "principi
di organizzazione e di funzionamento".
L'art. 51 comunque non sarebbe illegittimo, in quanto gli statuti regionali possono arricchirsi di
contenuti nuovi ed eventuali, come testimonierebbero le molte disposizioni - non impugnate - contenute
nel Titolo I dello statuto concernente i principi fondamentali.
13. - In prossimità dell'udienza, l'Avvocatura dello Stato ha depositato una memoria nella quale ha
ribadito i rilievi di costituzionalità svolti nel ricorso, innanzi tutto in riferimento all'art. 33 dello statuto
della Regione, sostenendo in particolare che la tesi della difesa regionale, secondo la quale ci si
troverebbe dinanzi ad una forma di governo diversa da quella della elezione diretta del Presidente
regionale, sarebbe inaccettabile, perché la norma censurata stabilirebbe un caso di "nomina vincolata da
parte del Consiglio". Inoltre la figura del Vice Presidente non sarebbe prevista dall'art. 121 della
Costituzione, mentre, d'altra parte, l'art. 122 della Costituzione prevederebbe solo l'elezione diretta del
Presidente.
Sul piano delle ragioni sottostanti alla riforma costituzionale del 1999, nella memoria si evidenzia
inoltre come una delle scelte fondamentali sia consistita nel "vincolo gravante sulle due coalizioni
contrapposte di designare il leader di governo nel momento del voto", attribuendogli adeguati poteri: tale
scelta sarebbe stata sostanzialmente - ma chiaramente - elusa dalle disposizioni dello statuto calabrese.
Quanto alla tesi subordinata sollevata dalla Regione Calabria, relativa alla pretesa incostituzionalità
del terzo comma dell'art. 126 della Costituzione, l'Avvocatura dello Stato sostiene che la questione
sarebbe in parte inammissibile, perché tale sindacato dovrebbe prendere a parametro "non già
qualsivoglia norma costituzionale, ma solo quelle che esprimono i 'principi supremi dell'ordinamento
costituzionale', che sono contenuti, tradizionalmente, nella parte prima della Costituzione". Il
riferimento, invece, alla pretesa lesione del principio di ragionevolezza porrebbe una questione
manifestamente infondata, dal momento che i poteri presidenziali apparirebbero "mezzo perfettamente
congruente con il fine" perseguito, consistente in una maggiore stabilità politica.
In relazione al rilievo di costituzionalità relativo alle disposizioni dell'art. 38 in materia elettorale,
l'Avvocatura in particolare afferma che la riserva di legge regionale sarebbe violata in quanto la norma
statutaria impugnata non costituirebbe parte della disciplina della forma di governo regionale.
In ordine al rilievo di costituzionalità concernente l'esercizio della potestà regolamentare da parte del
Consiglio regionale, l'Avvocatura dichiara di prendere atto di quanto stabilito dalla sentenza di questa
Corte n. 313 del 2003.
In relazione alla disposizione relativa alla disciplina contrattuale dei dirigenti regionali, di cui all'art.
50, l'Avvocatura conferma i propri rilievi, che sarebbero rafforzati dalla recente sentenza di questa Corte
n. 314 del 2003.
L'Avvocatura conferma, infine, il rilievo di costituzionalità relativo all'art. 51 dello statuto calabrese,
in particolare sottolineando che la potestà normativa delle Regioni in materia tributaria sarebbe estranea
all'art. 123 della Costituzione, il quale delimiterebbe "rigorosamente le materie che formano legittimo
oggetto della potestà di regolazione statutaria".
14. - In prossimità dell'udienza anche la Regione Calabria ha presentato una memoria, nella quale
ribadisce le proprie argomentazioni a difesa delle disposizioni impugnate.
In relazione all'art. 33 dello statuto, la Regione conferma che si è voluta compiere una scelta
istituzionale diversa da quella della elezione a suffragio diretto del Presidente ed anzi asserisce che "lo
statuto calabrese si muove (...) nell'ambito della forma di governo parlamentare con i correttivi che
l'evoluzione recente del sistema politico italiano ha prodotto".
Con riferimento all'art. 38, la memoria difensiva afferma in particolare che i contenuti di questo
articolo non sarebbero altro che la enunciazione di principi resi necessari dalle scelte che lo statuto
compie in tema di forma di governo della Regione.
Relativamente alla questione concernente la potestà regolamentare, la memoria difensiva concorda
sul fatto che la questione sia da ritenere risolta dalla recente giurisprudenza costituzionale.
In relazione al regime contrattuale dei dirigenti, invece, si ribadisce che la materia contrattuale "è
distribuita tra il livello statale e il livello regionale, a seconda delle rispettive competenze".
Da ultimo, per ciò che concerne l'art. 51, si evidenzia nuovamente che in esso sarebbero "elencati
principi del tutto corrispondenti a quelli di cui all'art. 119 della Costituzione".
Considerato in diritto
1. - Il Governo ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 33; 34, comma 1, lettera
i); 38, comma 1, lettere a) ed e); 43, comma 2; 50, comma 5 e 51 dello statuto della Regione Calabria,
approvato in prima deliberazione il 13 maggio 2003 e, in seconda deliberazione, il 31 luglio 2003, in
riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera l); 121, 122, 123, primo comma e 126 della
Costituzione, nonché al principio di separazione dei poteri.
L'art. 33 viene impugnato perché, disciplinando la elezione del Presidente e del Vice Presidente della
Giunta da parte del corpo elettorale e la loro necessaria successiva designazione da parte del Consiglio
regionale nella prima seduta, a meno di un automatico scioglimento del Consiglio stesso, nonché
prevedendo che il Vice Presidente subentri nella carica al Presidente in caso di dimissioni volontarie,
incompatibilità sopravvenuta, rimozione, impedimento permanente o morte, violerebbe gli artt. 122,
ultimo comma, e 126, terzo comma, della Costituzione. Ciò in quanto, malgrado un meccanismo di
elezione sostanzialmente a suffragio universale e diretto, si verrebbe ad eludere il principio simul
stabunt, simul cadent, che è derogabile solo se a livello statutario si operi una scelta istituzionale diversa
dalla elezione a suffragio universale e diretto.
Tale disposizione statutaria violerebbe, inoltre, l'art. 122, primo comma, della Costituzione, perché
inciderebbe inevitabilmente sulla materia elettorale, riservata alla legge regionale, nel rispetto dei
principi fondamentali stabiliti dal legislatore statale.
Gli artt. 34, comma 1, lettera i) e 43, comma 2, nell'attribuire l'esercizio della potestà regolamentare
al Consiglio regionale nel caso dei regolamenti di attuazione o di integrazione in materie di legislazione
esclusiva dello Stato da questo delegati alle Regioni, violerebbero l'art. 121 della Costituzione, che
attribuirebbe l'esercizio del potere regolamentare della Regione alla Giunta regionale; sarebbe violato,
inoltre, il principio della separazione dei poteri.
L'art. 38, comma 1, lettere a) ed e), disciplinando alcuni aspetti della materia elettorale,
contrasterebbe con gli artt. 122, primo comma, e 123, primo comma, della Costituzione, in quanto
violerebbe la riserva di legge regionale nella suddetta materia e, irrigidendo la disciplina della materia in
questione, determinerebbe la sottrazione al corpo elettorale della possibilità di esprimersi mediante
referendum su di essa.
L'art. 50, comma 5, viene impugnato perché, attribuendo alla potestà statutaria, legislativa e
regolamentare della Regione la disciplina del regime contrattuale dei dirigenti regionali, violerebbe l'art.
117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, che attribuisce alla potestà legislativa esclusiva dello
Stato la materia "ordinamento civile" a cui sarebbero riconducibili gli aspetti fondamentali del rapporto
di lavoro privato e quindi anche dell'attuale rapporto di pubblico impiego, oltre che la disciplina del
diritto sindacale.
L'art. 51, infine, viene censurato perché, disciplinando l'esercizio della potestà normativa tributaria
della Regione, violerebbe l'art. 123, primo comma, della Costituzione, che non prevede tale materia tra
quelle che possono costituire oggetto di disciplina da parte dello statuto regionale.
2. - La Regione Calabria si è ritualmente costituita in giudizio, sostenendo l'inammissibilità e
comunque l'infondatezza di tutte le censure prospettate nel ricorso. Inoltre, la resistente ha chiesto in
subordine, nell'ipotesi in cui dovesse essere ritenuta fondata la prima censura proposta dal Governo
ricorrente, che questa Corte sollevi dinnanzi a sé questione di legittimità costituzionale dell'art. 126, terzo
comma, della Costituzione, per violazione degli articoli 3, 97, 123, 92 e 94 della Costituzione e dei
principi supremi che da tali disposizioni si deducono. Ciò perché la previsione dello scioglimento
automatico del Consiglio regionale anche in relazione ad eventi che colpiscano accidentalmente la
persona del Presidente della Giunta, quali la morte, l'impedimento permanente o le dimissioni volontarie
non dovute ad una previa mozione di sfiducia, costituirebbe una scelta irragionevole ed in contrasto con
il principio del parlamentarismo (desumibile dagli artt. 92 e 94 della Costituzione), dato che si
impedirebbe alla maggioranza consiliare di portare ad attuazione il programma di governo, pur in
assenza di rotture del rapporto fiduciario.
3. - La risoluzione delle suesposte questioni di costituzionalità rende opportuno premettere alcune
considerazioni sull'ampiezza e sui limiti del potere statutario delle Regioni ad autonomia ordinaria dopo
l'adozione del nuovo Titolo V della Costituzione, che ha fatto propria, ma anche integrato in un
rinnovato contesto, la riforma costituzionale introdotta dalla legge cost. 22 novembre 1999, n. 1 (
Disposizioni concernenti l'elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l'autonomia statutaria
delle Regioni). Ciò anche in considerazione del fatto che il presente giudizio riguarda la prima organica
deliberazione legislativa regionale di adozione di uno statuto impugnata dallo Stato.
Questa Corte ha già chiarito in precedenti sentenze alcuni profili relativi alla fonte normativa
statutaria, ora speciale legge regionale caratterizzata da una particolare procedura di adozione e di
controllo (cfr. sentenza n. 304 del 2002) e meglio definita nella ampiezza delle materie ad essa riservate,
indicate nel primo e nel terzo comma dell'art. 123 della Costituzione (la determinazione della "forma di
governo" e dei "principi fondamentali di organizzazione e funzionamento", la disciplina dell'"esercizio
del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione", nonché
"la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali", la disciplina del Consiglio delle autonomie
locali).
In questi ambiti la Regione dispone di un autonomo potere normativo per la configurazione di un
ordinamento interno adeguato alle accresciute responsabilità delineate dal nuovo Titolo V della
Costituzione ed alle attese di un'istituzione regionale decisamente migliorata sul piano della funzionalità
e della sua stessa democraticità: dopo la riforma dell'art. 123 della Costituzione e la eliminazione della
approvazione dello statuto regionale da parte del Parlamento, i limiti a questa rilevante autonomia
normativa possono derivare solo da norme chiaramente deducibili dalla Costituzione, come questa Corte
ha già avuto occasione di affermare allorché ha negato che essa sia comprimibile "in mancanza di una
disciplina costituzionale chiaramente riconoscibile" o "tramite non controllabili inferenze e deduzioni da
concetti generali, assunti a priori" (sentenza n. 313 del 2003).
Al tempo stesso, però, per ciò che riguarda il rapporto fra la potestà statutaria ed i suoi limiti, questa
Corte ha chiarito che gli statuti regionali non solo, come tutte le norme giuridiche del nostro
ordinamento, devono rispettare puntualmente "ogni disposizione della Costituzione", ma devono anche
rispettarne lo spirito, in nome della pure costituzionalmente necessaria "armonia con la Costituzione"
(sentenza n. 304 del 2002); ciò che, più recentemente, ha trovato conferma nell'affermazione che gli
statuti "dovranno essere in armonia con i precetti ed i principi tutti ricavabili dalla Costituzione"
(sentenza n. 196 del 2003).
Da tali premesse la necessità di una lettura particolarmente attenta dei rapporti e dei confini fra le
diverse aree normative affidate agli statuti o alle altre fonti legislative statali o regionali, senza presumere
la soluzione del problema interpretativo sulla base della sola lettura di una singola disposizione
costituzionale, tanto più ove essa utilizzi concetti che possono legittimamente giustificare interpretazioni
tra loro non poco difformi a seconda del contesto in cui sono collocati.
4. - Sulla base di quanto detto, vanno anzitutto affrontati i diversi rilievi di costituzionalità sollevati
nei riguardi dell'art. 33 della delibera legislativa di adozione dello statuto calabrese. Le censure
prospettate dal ricorrente sono genericamente rivolte alla disposizione nel suo complesso; tuttavia, in
considerazione delle motivazioni addotte nel ricorso, l'oggetto del giudizio cui è chiamata questa Corte
può essere riferito ai commi 1, 2, 3, 4, 5, e 7 (quindi ne sono esclusi i commi 6 e 8).
Le censure sono fondate.
La legge costituzionale n. 1 del 1999 ha sostituito non solo l'art. 123 della Costituzione, ma ha
mutato radicalmente gli artt. 121, 122 e 126 della Costituzione, in particolare prevedendo la elezione del
Presidente della Regione "a suffragio universale e diretto" come soluzione prescritta "salvo che lo statuto
regionale disponga diversamente", e imponendola (art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999) come soluzione
transitoria "fino alla data di entrata in vigore dei nuovi statuti regionali e delle nuove leggi elettorali ai
sensi del primo comma dell'art. 122 della Costituzione".
L'esame dei lavori preparatori di questa legge costituzionale e la sua titolazione evidenziano con
sicurezza la volontà, largamente espressa in sede parlamentare, di imporre tale scelta nella esplicita
speranza di eliminare in tal modo la instabilità nella gestione politica delle Regioni e quindi di rafforzare
il peso delle istituzioni regionali.
A tal fine la soluzione istituzionale prescelta è stata quella che lo stesso titolo della legge definisce
"elezione diretta del Presidente della Giunta regionale", espressione ricorrente nel quinto comma dell'art.
122 della Costituzione e nel terzo comma dell'art. 126 della Costituzione, e poi sostanzialmente
sviluppata nell'art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 1999 come soluzione provvisoriamente vigente
fino all'adozione dei nuovi statuti regionali e delle conseguenti leggi elettorali regionali.
Al di là delle molteplici e differenziate definizioni e classificazioni dottrinali in astratto possibili,
specie sulla base della comparazione fra i diversi sistemi di selezione dei vertici degli organi di governo
delle varie istituzioni, questa Corte ha già rilevato nella sentenza n. 304 del 2002 con riferimento all'art.
5 della legge costituzionale n. 1 del 1999, che "nella valutazione del legislatore costituzionale l'elezione
del Presidente della Giunta è assimilabile, quanto a legittimazione popolare acquisita dall'eletto, ad una
vera e propria elezione a suffragio diretto". Può inoltre aggiungersi che analogo sistema, anch'esso
definito elezione "a suffragio universale e diretto" dall'art. 46 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n.
267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), è invero da tempo previsto dalla
legislazione relativa all'elezione dei Sindaci e dei Presidenti delle Province (questa normativa - come ben
noto - in realtà risale alla legge 25 marzo 1993, n. 81 recante "Elezione diretta del sindaco, del
presidente della provincia, del consigliere comunale, del consigliere provinciale"), e ha preceduto
largamente la legge costituzionale n. 1 del 1999, rispetto alla quale anzi ha sicuramente costituito un
importante modello di riferimento.
Mentre senza dubhbio non equivale ad un sistema elettorale di tipo diretto ogni meccanismo
elettorale di stabilizzazione delle maggioranze di governo o anche di mera indicazione come capolista
nella scheda elettorale del massimo esponente politico della lista o dello schieramento politico, il sistema
elettorale configurato dall'art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 1999 disciplinano certamente una
forma di "elezione diretta del Presidente della Giunta regionale" (come appunto recita il titolo della legge
costituzionale).
Ciò, in primo luogo, attraverso la previsione di una futura "normale" forma di governo espressa
sinteticamente con le parole "Presidente eletto a suffragio universale e diretto" e caratterizzata
dall'attribuzione ad esso di forti e tipici poteri per la gestione unitaria dell'indirizzo politico e
amministrativo della Regione (nomina e revoca dei componenti della Giunta, potere di dimettersi
facendo automaticamente sciogliere sia la Giunta che il Consiglio regionale); in secondo luogo,
attraverso la analitica disciplina - in via transitoria, in stretto parallelismo e per la prima volta a livello
regionale - di un tipo di elezione diretta del Presidente della Giunta, con la previsione dell'elezione del
candidato che, inserito a capo di una lista elettorale, consegua il maggior numero dei voti a livello
regionale e con il riconoscimento al Presidente eletto degli identici poteri previsti dagli articoli 122,
quinto comma, e 126, terzo comma, della Costituzione.
Tale scelta per una radicale semplificazione del sistema politico a livello regionale e per la
unificazione dello schieramento maggioritario intorno alla figura del Presidente della Giunta, pur
imposta temporaneamente al sistema politico regionale ed anche indicata come "normale" possibilità di
assetto istituzionale, può essere però legittimamente sostituita da altri modelli di organizzazione dei
rapporti fra corpo elettorale, consiglieri regionali e Presidente della Giunta, che in sede di elaborazione
statutaria possano essere considerati più idonei a meglio rappresentare le diverse realtà sociali e
territoriali delle nostre regioni o anche più adatti per alcuni sistemi politici regionali. Peraltro, questa
possibilità di optare per uno dei tanti possibili modelli diversi di forme di governo regionali non fondate
sull'elezione diretta del Presidente della Giunta trova un limite del tutto evidente nella volontà del
legislatore di revisione costituzionale di prevedere ipotesi di elezione diretta nel solo caso del Presidente
della Giunta, al cui ruolo personale di mantenimento dell'unità dell'indirizzo politico e amministrativo si
conferisce ampio credito, tanto da affidargli, come accennato, anche alcuni decisivi poteri politici.
Ciò sembra pienamente condiviso dalla stessa Regione Calabria, che infatti sostiene di aver fatto una
scelta istituzionale diversa da quella della elezione a suffragio diretto del Presidente, fondamentalmente
perché l'immissione nell'ufficio di Presidente (e di Vice Presidente) avverrebbe solo dopo il voto del
Consiglio e solo in ragione di esso, mentre l'approvazione consiliare del programma di governo
instaurerebbe tra Presidente della Giunta e Consiglio regionale un rapporto politico diverso rispetto a
quello che consegue all'elezione a suffragio universale e diretto. Per tali ragioni la difesa della resistente
giunge ad asserire che "lo statuto calabrese si muove (...) nell'ambito della forma di governo
parlamentare con i correttivi che l'evoluzione recente del sistema politico italiano ha prodotto".
Peraltro, non può non notarsi che il sistema configurato nell'art. 33 del testo statutario appare invece
caratterizzato da un meccanismo di elezione diretta del Presidente e del Vice Presidente della Giunta, del
tutto analogo a quello disciplinato per il solo Presidente dall'art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999, salva la
diversità che la preposizione alla carica consegue non alla mera proclamazione dei risultati elettorali, ma
alla "nomina" da parte del Consiglio regionale; questa diversità appare tuttavia essenzialmente formale
se si considera che, ai sensi del secondo comma dell'art. 33, il Consiglio regionale procede "sulla base
dell'investitura popolare espressa dagli elettori, nella sua prima seduta" e che "la mancata nomina del
Presidente e del Vice Presidente indicati dal corpo elettorale comporta lo scioglimento del Consiglio
regionale". Ciò porta a ritenere che il Consiglio regionale sia anche giuridicamente vincolato ad
uniformarsi alla scelta compiuta dal corpo elettorale, a pena del suo stesso scioglimento.
Al tempo stesso, diversamente da quanto normalmente accade quando si conferisce un potere di
nomina, per l'art. 33 nessun altro consigliere eletto può essere nominato Presidente o Vice Presidente: ciò
conferma che ci si trova dinanzi ad un procedimento di elezione diretta del Presidente e del Vice
Presidente, solo mascherato da una sorta di obbligatoria "presa d'atto" da parte del Consiglio regionale.
Non a caso, al Presidente "nominato" restano alcuni degli speciali poteri attribuiti dalla Costituzione
al Presidente eletto (nomina e revoca dei componenti della Giunta, scioglimento del Consiglio regionale
se viene adottata una mozione di sfiducia nei suoi riguardi), mentre gli vengono sottratti i poteri di
produrre lo scioglimento del Consiglio nei casi in cui si verifichi la sua "rimozione, l'impedimento
permanente, la morte o le dimissioni volontarie" (per citare l'elencazione di cui al terzo comma dell'art.
126 della Costituzione).
In particolare, l'eliminazione del potere presidenziale di fare eventualmente venir meno, tramite le
proprie dimissioni, la permanenza in carica dello stesso Consiglio regionale, riduce radicalmente i suoi
poteri di indirizzo, laddove il Vice Presidente, ne può disporre ove subentri nella presidenza. Ad ulteriore
rafforzamento di quest'ultima figura, che appare tutt'altro che marginale nel testo statutario malgrado che
non risulti fra gli organi regionali necessari di cui al primo comma dell'art. 121 della Costituzione, vi è
inoltre da considerare che la "mozione sul programma di governo" (di cui al secondo comma dell'art. 33)
è presentata al Consiglio regionale sia dal Presidente che dal Vice Presidente.
Se si aggiunge che nel sistema dello statuto calabrese deliberato dal Consiglio regionale il Presidente
non può nemmeno porre autonomamente la questione di fiducia (così l'art. 34, comma 1, lettera f), dal
momento che deve previamente conseguire il consenso della Giunta su questa iniziativa, ne emerge una
figura politica dai poteri sostanzialmente ridotti rispetto a quelli attribuiti dalla Costituzione al Presidente
"eletto a suffragio universale e diretto".
Sul punto può quindi concludersi che il sistema configurato dall'art. 33 della delibera legislativa
concernente lo statuto calabrese consiste sostanzialmente nella elezione diretta del Presidente e del Vice
Presidente, in violazione degli articoli 122, quinto comma, della Costituzione a causa dell'elezione diretta
anche del Vice Presidente, e 126, terzo comma, della Costituzione, a causa della riduzione dei poteri del
Presidente della Giunta eletto a suffragio universale e diretto. Al tempo stesso, il primo comma dell'art.
33, prescrivendo analiticamente che "i candidati alle cariche di Presidente e di Vice Presidente della
Giunta regionale sono indicati sulla scheda elettorale e sono votati contestualmente agli altri componenti
del Consiglio regionale", invade in modo palese l'area legislativa riservata dal primo comma dell'art. 122
della Cost. alla "legge della Regione nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della
Repubblica"; potrebbe anche aggiungersi che comunque è inesistente nella legislazione vigente un
principio fondamentale che ammetta una duplice candidatura "a suffragio universale e diretto".
5. - La dichiarazione di illegittimità costituzionale, sotto i profili indicati, dell'art. 33, commi 1, 2, 3,
4, 5 e 7, della delibera legislativa in questione comporta che essa sia estesa, ai sensi dell'art. 27 della
legge 11 marzo 1953, n. 87, all'art. 15, all'art. 16, comma 2, lettere a) e b), nonché all'art. 38, comma 1,
lettera c), della medesima delibera legislativa, che disciplinano alcune fasi ulteriori dei procedimenti di
cui all'art. 33 o fanno esplicito riferimento agli istituti ivi previsti.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, la dichiarazione di illegittimità conseguenziale
può essere applicata anche ai giudizi in via principale (sentenze n. 20 del 2000, n. 441 del 1994 e n. 34
del 1961), in quanto esprime un principio di diritto processuale che è valido per tutte le questioni di
legittimità costituzionale previste dal Capo II della predetta legge n. 87, come si desume anche dalla
dizione letterale del citato art. 27.
6. - Occorre affrontare, a questo punto, la richiesta, avanzata in via subordinata dalla Regione
resistente, che questa Corte sollevi dinnanzi a sé la "questione di legittimità costituzionale dell'art. 126,
comma 3, della Costituzione, per violazione degli articoli 3, 97, 123, 92 e 94 della Costituzione" e, in
particolare, del principio del parlamentarismo che ne sarebbe deducibile, secondo il quale un'assemblea
elettiva non potrebbe essere sciolta per eventi accidentali in permanenza del rapporto fiduciario.
La Regione sostiene la richiesta sulla base della nota giurisprudenza di questa Corte, che ha
riconosciuto la possibilità di sottoporre a giudizio di costituzionalità anche leggi costituzionali che siano
ritenute confliggenti con i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale (sentenza n. 1146 del
1988).
Non occorre in questa sede considerare che la Regione Calabria ha prospettato un dubbio di
costituzionalità relativo ad una disposizione facente parte del testo costituzionale (l'art. 126, terzo
comma), anziché della disposizione contenuta nell'art. 4 della legge costituzionale n. 1 del 1999,
sostitutiva del testo precedente.
Peraltro, la questione che si chiede di sollevare risulta manifestamente infondata, dal momento che
non solo la stessa forma di governo di tipo parlamentare non sembra costituire in quanto tale un principio
organizzativo immodificabile del sistema costituzionale statale, ma lo stesso titolo V della Costituzione
prevede esplicitamente la possibilità di diverse forme di governo a livello regionale, per di più
espressamente caratterizzandone quella in certa misura "normale", salva diversa volontà espressa tramite
apposite disposizioni statutarie difformi, con l'elezione diretta del Presidente della Giunta. Di certo in
sistemi istituzionali nei quali anche il vertice dell'esecutivo sia eletto direttamente dal corpo elettorale
non sussiste il tradizionale rapporto fiduciario con il consiglio rappresentativo dell'intero corpo elettorale,
tanto che in assetti istituzionali del genere appare tutt'altro che irragionevole che l'organo monocratico
eletto disponga anche del potere di dimettersi trascinando con sé l'intero sistema delle istituzioni
rappresentative, evidentemente ove valuti come irraggiungibile l'attuazione del programma di governo
sulla cui base è stato eletto (e sicuramente una impegnativa scelta politica del genere non appare
annoverabile fra gli "eventi accidentali", come invece asserisce la difesa regionale).
7. - Le censure di illegittimità costituzionale relative agli articoli 34, comma 1, lettera i), e 43,
comma 2, sono infondate.
Questa Corte ha già avuto occasione di affermare che la mera abrogazione, ad opera dell'art. 1 della
legge costituzionale n. 1 del 1999, nel testo dell'art. 121 della Costituzione della precedente disposizione
che attribuiva necessariamente l'esercizio della funzione regolamentare al Consiglio regionale - mentre
non sono rinvenibili norme esplicite od anche implicite che limitino sul punto la discrezionalità statutaria
- affida pienamente allo statuto la disciplina di tale funzione, che può essere anche alquanto articolata, a
seconda delle diverse tipologie di fonti regolamentari (sentenze n. 313 e n. 324 del 2003).
Su questo piano l'art. 43 dello statuto calabrese disciplina diversi tipi di regolamenti regionali, per lo
più attribuendone l'adozione alla Giunta, salvo appunto gli speciali regolamenti "di attuazione e di
integrazione in materia di legislazione esclusiva" dello Stato che da questo siano stati delegati alle
Regioni: attribuzione al Consiglio regionale che appare tutt'altro che irragionevole, in considerazione
della probabile maggiore rilevanza di questa ipotetica normazione secondaria regionale di attuazione o
integrazione della legislazione esclusiva statale (e ciò anche al di là della specifica particolare
importanza dell'una o dell'altra materia).
8. - Le censure di illegittimità costituzionale relative all'art. 38, comma 1, lettere a) ed e), sono
fondate.
Il primo comma dell'art. 122 della Costituzione determina, in parte esplicitamente ma in parte
implicitamente, un complesso riparto della materia elettorale fra le diverse fonti normative statali e
regionali.
Anzitutto dispone che la legge della Repubblica stabilisce i principi fondamentali in tema di "sistema
di elezione" e di determinazione dei "casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri
componenti della Giunta regionale, nonché dei consiglieri regionali"; e sui medesimi temi viene al
contempo riconosciuta una competenza del legislatore regionale per tutta la parte residua.
Inoltre, lo stesso primo comma dell'art. 122 prevede che la legge statale "stabilisce anche la durata
degli organi elettivi" ed in questo caso sembra trattarsi di una competenza legislativa piena.
In questo quadro la fonte statutaria è chiamata a svolgere un ruolo necessariamente ridotto, seppur
significativo: questa stessa Corte, ad esempio, ha riconosciuto che spetta allo statuto regionale "la
disciplina della eventuale prorogatio degli organi elettivi regionali dopo la loro scadenza o scioglimento
o dimissioni", in quanto istituto che "riguarda solo l'esercizio dei poteri nell'intervallo fra la scadenza,
naturale o anticipata, di tale mandato, e l'entrata in carica del nuovo organo eletto" (sentenza n. 196 del
2003). Ma poi, più in generale, sono le scelte statutarie in tema di fonti normative (come, ad esempio, la
prescrizione, inserita proprio nel primo comma dell'art. 38, che la legge elettorale regionale debba essere
approvata a maggioranza assoluta) e di forma di governo regionale che possono indirettamente
condizionare la legislazione elettorale regionale.
A questo proposito, peraltro, occorre prendere atto che non si può pretendere, in nome della
competenza statutaria in tema di "forma di governo", di disciplinare la materia elettorale tramite
disposizioni statutarie, dal momento che il primo comma dell'art. 123 ed il primo comma dell'art. 122
sono disposizioni tra loro pariordinate: anche se sul piano concettuale può sostenersi che la
determinazione della forma di governo può (o addirittura dovrebbe) comprendere la legislazione
elettorale, occorre prendere atto che, invece, sul piano della Costituzione vigente, la potestà legislativa
elettorale è stata attribuita ad organi ed a procedure diverse da quelli preposti alla adozione dello statuto
regionale e che quindi lo statuto regionale non può disciplinare direttamente la materia elettorale o
addirittura contraddire la disposizione costituzionale che prevede questa speciale competenza legislativa.
Anzi, il fatto che la legge statale è chiamata a determinare i principi fondamentali nelle materie di
cui al primo comma dell'art. 122 della Costituzione inevitabilmente riduce la stessa possibilità della fonte
statutaria di indirizzare l'esercizio della potestà legislativa regionale in queste stesse materie.
Sono quindi inammissibili norme statutarie che - come nella lettera a) del primo comma dell'art. 38 determinino direttamente, almeno in parte, il sistema di elezione che dovrà invece essere disciplinato
dalla legge o che - come nella lettera e) del primo comma dell'art. 38 - determinino in modo diverso dal
primo comma dell'art. 122 della Costituzione, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, quanto
dovrà essere disciplinato dal legislatore regionale sulla base dei principi fondamentali stabiliti dal
legislatore statale.
9. - La censura di illegittimità costituzionale relativa all'art. 50, comma 5, è infondata.
Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna tale disposizione dello statuto solo "nella parte in
cui attribuisce alla potestà statutaria, legislativa e regolamentare della Regione la disciplina del regime
contrattuale dei dirigenti", poiché in tal modo riconoscerebbe alla Regione stessa competenze riservate
allo Stato ai sensi dell'art. 117, comma secondo, lettera l), della Costituzione (materia "ordinamento
civile"), atteso che gli aspetti fondamentali del rapporto di lavoro privato e quindi del rapporto di lavoro
pubblico, oltre che la disciplina del rapporto sindacale, rientrerebbero nella nozione di "diritto civile".
La Regione Calabria riconosce in modo espresso che sicuramente la disciplina sostanziale del
rapporto di lavoro, quella contenuta nelle leggi civili, può essere attratta alla competenza legislativa dello
Stato nell'ambito della materia "ordinamento civile"; peraltro, la resistente sostiene che andrebbe escluso
che a questa materia siano riconducibili le procedure e le modalità della contrattazione collettiva, da
ritenersi riservate all'autonomia degli enti direttamente interessati. In ogni caso - sempre secondo la
resistente - già oggi parte della contrattazione collettiva si svolge in sede regionale ed in ambito locale.
La norma statutaria si limiterebbe quindi a richiamare questa realtà, e cioè che la Regione disciplina con
provvedimenti normativi il regime procedimentale della contrattazione con i propri dirigenti, ovviamente
per la parte di sua competenza; ma anche se si affermasse la contrattazione a livello nazionale dei
dirigenti regionali, "la norma manterrebbe la sua validità relativamente agli aspetti della disciplina
contrattuale che restano affidati alla competenza regionale".
Una interpretazione del genere della disposizione statutaria deve essere considerata non implausibile
e compatibile con la disciplina costituzionale, nonché con la stessa legislazione statale vigente in materia
di ordinamento della dirigenza pubblica; se, infatti, la intervenuta privatizzazione e contrattualizzazione
del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici vincola anche le Regioni (da ultimo, le sentenze n. 314 e n.
274 del 2003), le quali pur sono dotate, ai sensi del quarto comma dell'art. 117 della Costituzione, di
poteri legislativi propri in tema di organizzazione amministrativa e di ordinamento del personale, deve
rilevarsi che la stessa legislazione statale in materia di ordinamento della dirigenza non esclude una,
seppur ridotta, competenza normativa regionale in materia, dal momento che anzi prevede espressamente
che "le Regioni a statuto ordinario, nell'esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e
regolamentare (...) adeguano ai principi dell'art. 4 e del presente Capo i propri ordinamenti, tenendo
conto delle relative peculiarità (...)" (art. 27, primo comma, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165
(Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
10. - La censura di illegittimità costituzionale relativa all'art. 51 è infondata.
Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna l'art. 51 dello statuto solo perché, "disciplinando la
potestà normativa tributaria della Regione, statuisce su materie che non rientrano tra quelle che l'art. 123
della Costituzione attribuisce agli statuti regionali, e che consistono nella forma di governo e nei principi
fondamentali di organizzazione e funzionamento", e violerebbe l'art. 123, primo comma, della
Costituzione.
Una tesi del genere, nella sua perentorietà, non può essere condivisa, dal momento che la riflessione
dottrinale e la stessa giurisprudenza di questa Corte (cfr. ad esempio, sentenze n. 921 e n. 829 del 1988)
riconoscono da tempo la legittimità dell'esistenza, accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali, di
altri possibili contenuti, sia che risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti della Regione, sia che
indichino aree di prioritario intervento politico o legislativo (tra l'altro, non poche disposizioni del genere
sono presenti nello statuto calabrese e non sono state impugnate); contenuti ulteriori dei quali semmai è
opinabile la misura dell'efficacia giuridica (sentenza n. 171 del 1999).
Peraltro i riferimenti a tale potestà contenuti nell'art. 51 non vanno oltre una parafrasi di quanto
contenuto nei commi secondo, terzo e quinto dell'art. 119, nonché nel comma primo dell'art. 120 della
Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 33, commi 1, 2, 3, 4, 5 e 7, dello statuto della Regione
Calabria, approvato in prima deliberazione il 13 maggio 2003 e, in seconda deliberazione, il 31 luglio
2003;
dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art.
15; dell'art. 16, comma 2, lettere a) e b), e dell'art. 38, comma 1, lettera c), del predetto statuto della
Regione Calabria;
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 38, comma 1, lettere a) ed e), del predetto statuto della
Regione Calabria;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 34, comma 1, lettera i), e 43,
comma 2, del citato statuto della Regione Calabria, sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, in
riferimento all'art. 121 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 50, comma 5, del predetto
statuto della Regione Calabria, sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all'art.
117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 51 del citato statuto della
Regione Calabria, sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all'art. 123 della
Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 126, terzo
comma, della Costituzione, in riferimento agli artt. 3, 97, 123, 92 e 94 della Costituzione e, in
particolare, al principio del parlamentarismo che ne sarebbe deducibile, che la Regione Calabria ha
chiesto a questa Corte di sollevare dinnanzi a sé con la memoria di costituzione in giudizio.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 dicembre
2003.
F.to:
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 gennaio 2004.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 222/2003
Giudizio
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente CHIEPPA - Redattore FLICK
Udienza Pubblica del 06/05/2003 Decisione del 04/06/2003
Deposito del 24/06/2003 Pubblicazione in G. U. 02/07/2003
Norme impugnate:
Massime:
27822 27823
Atti decisi:
T
i
t
o
l
o
Regione marche - Animali esotici - Norme sulla detenzione e sul commercio - Prospettata incidenza sulle
materie di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema riservate alla competenza legislativa esclusiva dello
stato - Carattere aggiuntivo, e non sostitutivo, rispetto alla normativa dello stato, della legge regionale
impugnata
Non
fondatezza
della
questione.
T
e
s
t
o
La legge della Regione Marche 24 luglio 2002, n. 12 – censurata nel suo complesso in quanto
inciderebbe su materie di competenza legislativa statale esclusiva, quali quelle della tutela dell’ambiente
e dell’ecosistema (art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione) e della profilassi
internazionale (art. 117, secondo comma, lettera q), della Costituzione), contenendo peraltro, per la parte
in cui potrebbe essere ricondotta alla competenza regionale concorrente in materia di tutela della salute e
della sicurezza sanitaria, disposizioni non rispettose dei principi fondamentali risultanti dalla legislazione
statale – reca una definizione di “animali esotici” collegata non già alla minaccia della loro estinzione,
ma piuttosto al carattere “non autoctono” della singola specie; essa persegue, almeno in via primaria,
obiettivi di tutela igienico-sanitaria e di sicurezza veterinaria (riconducibili al paradigma della tutela
della salute, di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione), in rapporto a possibili pericoli di
diffusione di malattie e di aggressione alle persone. Anche a riconoscere che detta legge interferisca
comunque nella materia dell’ambiente e dell’ecosistema, deve escludersi che tale interferenza implichi
un 'vulnus' del parametro costituzionale evocato: tanto più ove si consideri il carattere aggiuntivo, e non
sostitutivo, delle prescrizioni della legge regionale denunciata, il cui intervento non attenua, ma semmai
rafforza le cautele predisposte dalla normativa statale, così da non poterne pregiudicare gli obiettivi. La
legge impugnata, del resto, non deroga comunque, in alcun modo, alla disciplina comunitaria e statale in
materia di protezione della fauna attraverso il controllo del commercio: essa non solo non si occupa dei
profili inerenti all’importazione od esportazione degli animali, ma presuppone, anzi, che essi abbiano
fatto ingresso “legittimo” nel territorio nazionale, in rapporto alla disciplina restrittiva in vigore,
limitandosi a regolare aspetti legati alla presenza di questi animali all’interno del territorio regionale.
Non è pertanto fondata la relativa questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli
enunciati parametri. - Sulla tutela dell’ambiente come “materia” o valore “trasversale”, menzionate le
sentenze n. 407 e n. 536/2002, a conferma di giurisprudenza formatasi anteriormente alla riforma del
titolo
V
della
parte
seconda
della
Costituzione.
Atti oggetto del giudizio
legge della Regione Marche 24/07/2002 n. 12
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117 co. 2 co. lettera q) e s)
T
i
t
o
l
o
Regione marche - Animali esotici - Norme sulla detenzione e sul commercio - Prospettato contrasto con i
principî fondamentali della legislazione statale, per l’adempimento di obblighi internazionali e
comunitari in materia di tutela della salute e della sicurezza sanitaria - Mancata individuazione delle
disposizioni
recanti
il
supposto
'vulnus'
Inammissibilità
della
questione.
T
e
s
t
o
Inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Marche 24 luglio
2002, n. 12, sollevata in riferimento all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione ed ai principi
fondamentali posti dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112. Riferendosi genericamente a
quest’ultimo decreto legislativo, il ricorrente non ha, infatti, specificato quali siano, in concreto, le
disposizioni in rapporto alle quali sarebbe riscontrabile il lamentato 'vulnus', impedendo, con ciò, di
identificare l’esatto oggetto della doglianza. Ciò, peraltro, a prescindere dall’impossibilità di qualificare
come “principi fondamentali” quelli racchiusi in norme statali che, prive di contenuto prescrittivo, si
limitino a sancire l’inclusione o l’esclusione di determinati settori nell’ambito di una materia di
competenza
regionale
concorrente.
Atti oggetto del giudizio
legge della Regione Marche 24/07/2002 n. 12
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117 co. 3
Altri parametri e norme interposte
decreto legislativo 31/03/1998 n. 112
Pronuncia
N. 222
SENTENZA 4 - 24 GIUGNO 2003
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Riccardo CHIEPPA; Giudici: Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio
ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo
DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Marche 24 luglio 2002, n. 12
(Norme sulla detenzione e sul commercio di animali esotici), promosso con ricorso del Presidente del
Consiglio dei ministri, notificato il 30 settembre 2002, depositato in Cancelleria l'8 ottobre successivo ed
iscritto al n. 67 del registro ricorsi 2002.
Visto l'atto di costituzione della Regione Marche;
udito nell'udienza pubblica del 6 maggio 2003 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick;
uditi l'avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato
Stefano Grassi per la Regione Marche.
Ritenuto in fatto
1. — Con ricorso regolarmente notificato e depositato, il Presidente del Consiglio dei ministri ha
sollevato questione di legittimità costituzionale in via principale della legge della Regione Marche 24
luglio 2002, n. 12 (Norme sulla detenzione e sul commercio di animali esotici), assumendo la violazione
dell'art. 117, secondo comma, lettere q) e s), della Costituzione, nonché — per la parte in cui la legge
impugnata può ricondursi alla competenza concorrente della Regione in materia di tutela della salute —
dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione (parametro evocato solo implicitamente), in riferimento ai
principi fondamentali posti dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e
compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15
marzo 1997, n. 59).
La legge regionale impugnata detta norme sulla detenzione e sul commercio di animali esotici,
prevedendo, in particolare: la formazione, da parte della Giunta regionale, sulla base delle indicazioni
fornite da una Commissione tecnico-scientifica, di un elenco — aggiornato annualmente e pubblicato nel
Bollettino ufficiale della Regione — che individua le specie o, se necessario, i generi e le famiglie di
animali esotici da assoggettare alla disciplina stabilita dalla legge medesima; l'obbligo dei possessori di
animali esotici di comunicare al sindaco la detenzione, morte o alienazione degli esemplari, nonché le
eventuali nascite; l'assoggettamento del commercio di detti animali ad autorizzazione, rilasciata dal
comune in cui l'attività è svolta; l'obbligo, per chi esercita il commercio, di osservare determinate norme
di carattere igienico-sanitario e di sicurezza degli animali e delle persone; l'attribuzione di compiti di
vigilanza al dipartimento di prevenzione dell'Azienda USL e, per quanto di competenza, al Corpo
forestale dello Stato.
Ad avviso del ricorrente, la materia regolata dalla legge impugnata formerebbe oggetto della
Convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione, firmata a
Washington il 3 marzo 1973, nonché dei regolamenti (CE) n. 338/97 del 9 dicembre 1996 e n. 1808/2001
del 30 agosto 2001, relativi alla protezione di specie della flora e della fauna selvatiche mediante il
controllo del loro commercio; essa troverebbe, altresì, la sua disciplina nazionale nella legge 19
dicembre 1975, n. 874, di ratifica della Convenzione di Washington, e nella legge 7 febbraio 1992, n.
150, di attuazione della stessa Convenzione, la quale ultima, in particolare, attribuisce al Ministero
dell'ambiente ed al Corpo forestale dello Stato determinate competenze in ordine alle attività di controllo
delle specie animali.
Su tale premessa, il ricorrente assume che la legge censurata sarebbe nel suo complesso illegittima,
in quanto esorbitante dai limiti della competenza legislativa della Regione. La disciplina del commercio
e della detenzione di fauna alloctona o esotica rientrerebbe, infatti, sia nell'ambito della materia della
tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, oggetto di competenza statale esclusiva ai sensi dell'art. 117,
secondo comma, lettera s), Cost.; sia nel campo della profilassi internazionale, che la lettera q) dello
stesso art. 117 parimenti riserva alla competenza legislativa statale.
La legge impugnata, inoltre, nella parte in cui può essere considerata espressione della competenza
regionale in materia di tutela della salute e della sicurezza sanitaria, conterrebbe disposizioni non
rispettose dei principi fondamentali «comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore», che
vincolano la potestà legislativa concorrente della regione. La materia inerente alla Convenzione di
Washington ed ai regolamenti comunitari, in tema di protezione della fauna attraverso il controllo del
commercio, verrebbe infatti riservata dal d.lgs. n. 112 del 1998 alla competenza statale, «ulteriormente
affermata» dall'art. IX della stessa Convenzione e dall'art. 13 del regolamento (CE) 338/97, che
individuano come autorità amministrativa di gestione il Ministero dell'ambiente, il quale, con proprio
decreto 8 gennaio 2002, ha istituito il previsto registro degli esemplari di flora e fauna.
Sottolineando come la normativa statale di settore costituisca strumento unitario per l'adempimento
di obblighi internazionali e comunitari, il ricorrente assume, conclusivamente, che le previsioni della
legge regionale impugnata si risolverebbero in un «aggravamento burocratico», ponendo i presupposti
per una conflittualità nella regolamentazione delle medesime fattispecie concrete ed impedendo la
tempestiva verifica delle devianze; ovvero determinerebbero una violazione sostanziale dei predetti
obblighi internazionali e comunitari, per mancata integrazione con il quadro unitario di riferimento.
2. — Nel giudizio si è costituita la Regione Marche, chiedendo che la Corte dichiari il ricorso
infondato.
Quanto all'asserita violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., la resistente osserva
come questa Corte abbia escluso, con la sentenza n. 407 del 2002, che possa identificarsi una materia in
senso tecnico, qualificabile come tutela dell'ambiente, intesa quale sfera di competenza statale
rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente
con altri interessi e competenze. Di conseguenza, nessuna censura potrebbe essere prospettata sotto tale
profilo nei confronti della legge impugnata, la quale interverrebbe nella materia in questione sulla base
della competenza regionale in tema di commercio, caccia, pesca e agricoltura, e quindi «con quel titolo
di legittimazione “trasversale” che deriva dalla qualificazione dell'ambiente come valore».
Riguardo, poi, alla dedotta violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera q), Cost., la legge
regionale non inciderebbe affatto sulla materia della profilassi internazionale, restando ad essa estranea
la disciplina delle importazioni e delle esportazioni, e comunque delle relazioni commerciali tra Stati,
che continuerebbero ad essere regolate, sotto l'aspetto considerato, dalle leggi statali n. 874 del 1975 e n.
150 del 1992.
Quanto, infine, alla presunta violazione dei principi fondamentali in materia di tutela della salute e
della sicurezza sanitaria posti dal d.lgs. n. 112 del 1998, la resistente rileva come, alla luce della
giurisprudenza di questa Corte, i «principi fondamentali», limitativi della competenza regionale
concorrente, debbano riguardare «il modo di esercizio della potestà legislativa regionale e non
comportare l'inclusione o l'esclusione di singoli settori dalla materia o dall'ambito di essa». Non
potrebbe, pertanto, essere elevata a «principio fondamentale», come preteso dalla difesa erariale, una
norma — quale quella che riserva allo Stato la materia inerente alla Convenzione di Washington ed ai
regolamenti comunitari in tema di protezione della fauna attraverso il controllo del commercio — che,
lungi dall'avere una «precisa dimensione prescrittiva», si limita ad effettuare un «ritaglio di
competenze».
3. — Nell'imminenza dell'udienza ha depositato memoria la sola Regione Marche, insistendo nella
richiesta di rigetto del ricorso.
Per quanto attiene alla prima censura, la resistente — dopo aver ribadito come, alla luce della già
richiamata sentenza n. 407 del 2002 di questa Corte, l'ambiente configuri «una sorta di materia
“trasversale”, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali,
spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme
sull'intero territorio nazionale» — assume che la legge impugnata regolerebbe la materia con esclusivo
riferimento all'ambito della competenza regionale, circoscritta dai compiti di rilievo nazionale, di
competenza statale: intento, questo, chiaramente testimoniato dai rinvii e dalle “clausole di salvezza”
della normativa statale rinvenibili negli artt. 2, 6, 7, 8, comma 3, 9 e 13.
La necessaria concorrenza delle due competenze, statale e regionale, nella disciplina relativa agli
animali esotici, sarebbe d'altra parte confermata dalla riforma del Titolo V della parte seconda della
Costituzione, a fronte dell'incidenza di tale disciplina su materie «ontologicamente» di competenza
regionale in base al nuovo testo dell'art. 117 Cost., quali il commercio estero (che il terzo comma del
citato articolo include fra le materie di legislazione concorrente), l'agricoltura, la caccia e la pesca (che,
ai sensi del quarto comma, rientrano fra le materie di competenza residuale ed esclusiva delle Regioni).
La resistente sottolinea, ancora, come la legge impugnata sostituisca, abrogandola, una precedente
legge della Regione Marche sul medesimo oggetto (la legge 10 ottobre 1994, n. 40): legge mai contestata
dallo Stato — al pari di quelle, di analogo contenuto, adottate da altre Regioni — ancorché essa dettasse
un disciplina più restrittiva di quella attualmente censurata, richiedendo, per la detenzione degli animali
esotici, un'autorizzazione preventiva, oggi surrogata da una semplice comunicazione.
Ribadita, quanto alla seconda censura, la totale estraneità della legge impugnata alla materia delle
dogane e della profilassi internazionale, la resistente osserva, infine, con riferimento alla terza censura,
come l'art. 69 del d.lgs. n. 112 del 1998 — evocato dal ricorrente quale norma interposta — non annoveri
la disciplina della detenzione di animali esotici tra i compiti di rilievo nazionale per la tutela
dell'ambiente; mentre, relativamente alla riserva allo Stato, risultante dalla lettera b) del citato art. 69,
dell'indicazione delle specie della fauna e della flora terrestre minacciate di estinzione, dovrebbe
considerarsi ormai «pacifica» — alla luce dell'art. 117, quinto comma, lettera b), Cost. e della
giurisprudenza di questa Corte — la competenza delle regioni ad attuare, nell'ambito locale, sia la
normativa comunitaria che le convenzioni internazionali.
Considerato in diritto
1. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale in
via principale — in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettere q) ed s), e terzo comma, della
Costituzione, nonché ai principi fondamentali ricavabili dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 — della legge
della Regione Marche 24 luglio 2002, n. 12, recante «Norme sulla detenzione e sul commercio di animali
esotici».
La legge impugnata — dopo aver demandato alla Giunta regionale di predisporre, sulla base delle
indicazioni di un'apposita Commissione tecnico-scientifica (regolata dall'art. 2), l'elenco delle specie,
ovvero dei generi e delle famiglie di animali da assoggettare alla disciplina della legge stessa (art. 1) —
prevede, in particolare, l'obbligo dei detentori di dare comunicazione al sindaco della detenzione, morte e
alienazione degli esemplari, nonché delle eventuali nascite (art. 3); l'assoggettamento del commercio di
animali esotici ad autorizzazione, rilasciata dal comune in cui l'attività è svolta (art. 4); l'obbligo
dell'esercente il commercio di osservare una serie di prescrizioni, con finalità igienico-sanitarie e di
sicurezza degli animali e delle persone (art. 5, 6 e 7); lo svolgimento di compiti di vigilanza da parte
dell'Azienda USL, nonché, «per quanto di competenza», da parte del Corpo forestale dello Stato (art. 8).
Il ricorrente muove dalla premessa che la materia disciplinata dalla legge regionale impugnata formi
oggetto della Convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di
estinzione, firmata a Washington il 3 marzo 1973 (c.d. CITES, dalle iniziali della denominazione in
inglese) — Convenzione ratificata con legge 19 dicembre 1975, n. 874 ed attuata con successiva legge 7
febbraio 1992, n. 150 — nonché dei regolamenti (CE) n. 338/97 e n. 1808/2001, concernenti la
protezione di specie della flora e della fauna selvatiche mediante il controllo del loro commercio.
In tale prospettiva, la legge regionale censurata risulterebbe illegittima nel suo complesso, in quanto
inciderebbe su materie di competenza legislativa statale esclusiva, quali quelle della tutela dell'ambiente
e dell'ecosistema (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.) e della profilassi internazionale (art. 117,
secondo comma, lettera q, Cost.).
Inoltre, per la parte in cui potrebbe essere ricondotta alla competenza regionale concorrente in
materia di tutela della salute e della sicurezza sanitaria, la legge stessa conterrebbe disposizioni non
rispettose dei principi fondamentali risultanti dalla legislazione statale, posto che la materia inerente alla
Convenzione di Washington ed ai regolamenti comunitari in tema di protezione della fauna attraverso il
controllo del commercio verrebbe riservata dal d.lgs. n. 112 del 1998 alla competenza statale,
«ulteriormente affermata» dall'art. IX della predetta Convenzione e dall'art. 13 del regolamento (CE)
338/97.
La normativa statale di settore, d'altra parte, in quanto «strumento unitario» per l'adempimento di
obblighi internazionali e comunitari, non potrebbe essere «vulnerata» dalla normativa regionale, la quale
o si risolverebbe in un «aggravamento burocratico», creando le premesse per una regolamentazione
conflittuale della medesima fattispecie; o, peggio, porrebbe i presupposti per una violazione sostanziale
degli anzidetti obblighi.
2. — Le prime due censure — inerenti all'asserita invasione, da parte della Regione, di aree che
apparterrebbero alla legislazione statale esclusiva ai sensi delle lettere s) e q) dell'art. 117, secondo
comma, Cost. — non sono fondate.
Al riguardo, giova rilevare in limine — con riferimento alla premessa fondante tali censure — come
la legge regionale impugnata presenti, in realtà, un campo di applicazione ed una finalità
concettualmente ben distinti da quelli della Convenzione di Washington e dei regolamenti comunitari n.
338/97 e n. 1808/2001, in materia di protezione di specie della flora e della fauna selvatiche mediante il
controllo del loro commercio.
L'obiettivo fondamentale della CITES e dei regolamenti comunitari è, infatti, quello di salvaguardare
determinate specie animali e vegetali minacciate di estinzione, analiticamente elencate in «appendici»
della Convenzione e in «allegati» del regolamento n. 338/97, vietando o limitando drasticamente il
commercio degli esemplari, nonché delle loro parti o prodotti, così da eliminare il motivo principale
della cattura o dell'abbattimento, rappresentato dallo scopo di lucro.
Per contro, la legge regionale censurata — la quale si occupa, peraltro, esclusivamente della fauna e
non anche della flora — reca una definizione generale del concetto di «animali esotici», valevole ai fini
della sua applicazione, che prescinde del tutto da riferimenti al pericolo di estinzione, per connettersi
invece, in via esclusiva, al carattere «non autoctono» della specie. In base all'art. 1, comma 2, della
legge, infatti, per animali esotici debbono intendersi «le specie di mammiferi, uccelli, pesci, rettili, anfibi
ed invertebrati non autoctoni nel territorio nazionale o che non hanno colonizzato il territorio medesimo
in seguito a fenomeni di espansione naturale».
La differenza ora evidenziata è sintomatica della diversa finalità della normativa regionale: la
circostanza, infatti, che la definizione degli «animali esotici» sia collegata non alla minaccia di
estinzione — nella quale precipuamente si radica la prospettiva di tutela dell'ambiente, sotto l'aspetto
della garanzia della sopravvivenza delle specie faunistiche — quanto piuttosto al carattere «non
autoctono» della singola specie, lascia intendere come la legge regionale persegua, almeno in via
primaria, obiettivi di tutela igienico-sanitaria e di sicurezza veterinaria, in rapporto a possibili pericoli di
diffusione di malattie e di aggressione alle persone. Tale conclusione è d'altra parte confermata da una
serie di puntuali indici normativi: e così, la Commissione tecnico-scientifica con funzioni consultive, di
cui all'art. 2 della legge regionale, è istituita presso «la struttura regionale competente in materia di sanità
veterinaria»; la domanda di autorizzazione al commercio di animali esotici deve essere inoltrata al
comune «tramite il servizio veterinario del dipartimento di prevenzione dell'Azienda USL» (art. 4,
comma 2); gli accertamenti prodromici al rilascio dell'autorizzazione e la vigilanza generale sulle specie
di animali esotici — affidati (in via, rispettivamente, esclusiva e prioritaria) allo stesso dipartimento di
prevenzione dell'Azienda USL — risultano finalizzati in modo preminente (anche se non esclusivo,
venendo in rilievo altresì il «benessere degli animali») ad assicurare il rispetto di esigenze di carattere
«igienico-sanitario» e di salvaguardia dell'incolumità delle persone (artt. 5, comma 1, e 8, comma 2).
Si deve inoltre osservare — avuto riguardo all'area di concreta sovrapposizione della sfera
applicativa dei due corpi normativi — come la legge regionale impugnata non deroghi comunque, in
alcun modo, alla disciplina comunitaria e statale in materia di protezione della fauna attraverso il
controllo del commercio, ma ne presupponga, al contrario, la piena operatività. Si tratta, in altre parole,
di una disciplina aggiuntiva, e non già, per alcuna parte, sostitutiva o modificativa.
Tale ulteriore conclusione appare irrefutabile alla luce — oltre che di un complesso di specifiche
disposizioni della legge regionale che evocano, direttamente o indirettamente, l'anzidetta disciplina
comunitaria e statale (cfr. art. 2, comma 3, lettera b; art. 3, comma 2, ultima parte; art. 4, comma 4,
ultima parte; l'art. 9, comma 1) — anche della disposizione generale di cui all'art. 13, comma 6, della
legge stessa, in forza della quale «resta fermo quanto stabilito dalla normativa comunitaria e statale
vigente in materia».
3. — Scendendo quindi, sulla scorta di tali rilievi preliminari, all'esame delle singole censure, deve
osservarsi, quanto alla prima, come questa Corte — a conferma di una giurisprudenza formatasi
anteriormente alla riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione — abbia negato che, anche
alla luce del nuovo testo dell'art. 117 Cost., possa identificarsi la tutela dell'ambiente come una «materia»
in senso tecnico, di competenza statale tale da escludere ogni intervento regionale, giacché, al contrario,
essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze. L'ambiente si presenta, in
altre parole, come un valore «trasversale», spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad
esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale, senza che ne resti esclusa la
competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali
(cfr. sentenze n. 407 e 536 del 2002).
In tale ottica — anche a riconoscere che la legge regionale impugnata interferisca comunque nella
materia della tutela dell'ambiente e dell'ecosistema — deve escludersi che tale interferenza implichi un
vulnus del parametro costituzionale evocato, trovando il suo titolo di legittimazione nelle competenze
regionali in materia igienico-sanitaria e di sicurezza veterinaria (riconducibili al paradigma della tutela
della salute, ex art. 117, terzo comma, Cost.): e ciò tanto più ove si consideri che si tratta di intervento
che non attenua, ma semmai rafforza — stante il rimarcato carattere aggiuntivo, e non sostitutivo, delle
prescrizioni della legge regionale — le cautele predisposte dalla normativa statale, così da non poterne
pregiudicare in alcun modo gli obiettivi.
4. — Quanto, poi, alla seconda censura, appare pienamente condivisibile l'assunto della difesa
regionale, per cui le tematiche della «profilassi internazionale» restano completamente estranee alla
legge impugnata.
Essa, infatti, non solo non si occupa in alcun modo dei profili inerenti all'importazione od
esportazione degli animali, regolando esclusivamente aspetti legati alla presenza di questi ultimi
all'interno del territorio regionale; ma presuppone anzi — come attesta, in particolare, la disposizione di
cui all'art. 3, comma 2, ultima parte, in forza della quale la comunicazione della detenzione dei singoli
esemplari deve essere corredata dalla documentazione atta «a dimostrarne la legittima provenienza,
rilasciata ai sensi della normativa comunitaria e statale vigente» — che gli animali abbiano fatto ingresso
«legittimo» nel territorio nazionale, in rapporto alla disciplina restrittiva dettata dalla normativa
richiamata.
5. — Per contro, è inammissibile la terza censura, relativa all'asserita violazione dei principi
fondamentali posti dalla legislazione statale in materia di tutela della salute e della sicurezza sanitaria:
principi che il ricorrente identifica segnatamente nella riserva allo Stato, «ai sensi» del d.lgs. n. 112 del
1998, della materia inerente alla Convenzione di Washington ed ai regolamenti comunitari in materia di
protezione della fauna attraverso il controllo del commercio.
A prescindere, invero, dalla genericità del riferimento al d.lgs. n. 112 del 1998, non accompagnato
dall'indicazione delle singole disposizioni che porrebbero il principio in assunto violato; ed a
prescindere, altresì, dalla impossibilità, eccepita dalla Regione resistente, di qualificare come «principi
fondamentali» quelli racchiusi in norme statali che — prive di contenuto prescrittivo, atto ad orientare il
modo di esercizio della potestà legislativa regionale — si limitino a sancire l'inclusione o l'esclusione di
determinati settori nell'ambito di una materia di competenza regionale concorrente; è assorbente il rilievo
che il ricorrente — nel limitare la censura alla parte della legge impugnata che «costituisce espressione
della competenza regionale in materia di tutela della salute e della sicurezza sanitaria», e, all'interno di
questa, alle «disposizioni che non risultano rispettose» del «principio fondamentale» dianzi indicato —
non ha specificato quali siano, in concreto, le disposizioni in rapporto alle quali sarebbe riscontrabile il
supposto vulnus. Circostanza, questa, che rende inammissibile la doglianza, per l'impossibilità di
identificarne l'esatto oggetto.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Marche 24
luglio 2002, n. 12 (Norme sulla detenzione e sul commercio di animali esotici), sollevata, in riferimento
all'art. 117, secondo comma, lettere q) ed s), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri
con il ricorso in epigrafe;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Marche
24 luglio 2002, n. 12 (Norme sulla detenzione e sul commercio di animali esotici), sollevata con il
medesimo ricorso in riferimento all'art. 117, terzo comma, della Costituzione ed ai principi fondamentali
posti dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi
dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 giugno 2003.
F.to:
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2003.
Il Cancelliere
F.to: FRUSCELLA
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 407/2002
Giudizio
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente RUPERTO - Redattore CAPOTOSTI
Udienza Pubblica del 21/05/2002 Decisione del 10/07/2002
Deposito del 26/07/2002 Pubblicazione in G. U. 31/07/2002
Norme impugnate:
Massime:
27269 27270
Atti decisi:
T
i
t
o
l
o
Legge della regione lombardia - Efficacia subordinata a un successivo accordo con lo stato - Ricorso
statale in via principale - Eccezione di inammissibilità, per carenza di interesse - Rigetto.
T
e
s
t
o
Deve essere respinta l'eccezione di inammissibilità fondata sul difetto di interesse a ricorrere dello Stato
per mancanza di efficacia della legge regionale impugnata, in quanto l'impugnativa da parte dello Stato
delle leggi regionali non è sottoposta a tale efficacia e, d'altra parte, la pubblicazione di una legge
regionale, in asserita violazione del riparto costituzionale di competenze, è di per se stessa lesiva della
competenza statale, indipendentemente dalla produzione degli effetti concreti e dalla realizzazione delle
conseguenze pratiche. - Cfr. la citata sentenza n. 332/1998, che ha riconosciuto l'attualità della lesione
delle competenze statali in relazione alla sottoscrizione regionale di un accordo con uno Stato estero.
Parametri costituzionali
Costituzione art. 127
T
i
t
o
l
o
Regione lombardia - Stabilimenti industriali - Attività a rischio di incidenti rilevanti - Norme di sicurezza
regionali - Ricorso in via principale del presidente del consiglio dei ministri - Pretesa invasione della
competenza esclusiva dello stato in materia di sicurezza e ambiente - Non fondatezza della questione.
T
e
s
t
o
La disciplina delle attività a rischio di incidenti rilevanti, contenuta nella legge della regione Lombardia
23 novembre 2001, n. 19, è riconducibile alla tutela dell'ambiente, di cui alla lettera s) dell'art. 117,
secondo comma, della Costituzione, la quale si configura come una competenza statale non
rigorosamente circoscritta e delimitata, ma connessa e intrecciata inestricabilmente con altri interessi e
competenze regionali concorrenti, quali, nella specie - come emerge dalla direttiva 96/82/CE e dal d.lgs.
di recepimento n. 334 del 1999, che disciplinano il settore - la tutela della salute, la protezione civile e la
tutela e sicurezza del lavoro. Nell'ambito di dette competenze concorrenti, risultano legittimi gli
interventi posti in essere dalla regione stessa, nel rispetto ovviamente dei principi fondamentali della
legislazione statale in materia ed altresì l'adozione, con riguardo alle imprese a rischio di incidenti
rilevanti, di una disciplina maggiormente rigorosa rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale, poiché
questa è diretta ad assicurare, in conformità al disposto degli artt. 72 del d.lgs. n. 112 del 1998 e 18 del
d.lgs. n. 334 del 1999, un più elevato livello di garanzie per la popolazione ed il territorio interessati.
Non è pertanto fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, 4, comma 2, 5,
commi 1 e 2, della sopracitata legge della Regione Lombardia 23 novembre 2001, n. 19, sollevata in
riferimento all'art. 117 della Costituzione. - V., richiamate nella decisione, la sentenza n. 290/2001, a
proposito della "sicurezza pubblica", quale settore riservato allo Stato; la sentenza n. 282/2002, riguardo
alla configurabilità di alcune delle competenze specificate dall'art. 117, secondo comma, Cost., come
competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie; le sentenze n. 507 e
54/2000, n. 382/1999 e n. 273/1998 con riferimento alla situazione preesistente alla riforma del titolo V
d e l l a
C o s t i t u z i o n e .
Atti oggetto del giudizio
legge della Regione Lombardia 23/11/2001 n. 19 art. 3 co. 1
legge della Regione Lombardia 23/11/2001 n. 19 art. 4 co. 2
legge della Regione Lombardia 23/11/2001 n. 19 art. 5 co. 1
legge della Regione Lombardia 23/11/2001 n. 19 art. 5 co. 2
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117 lettera s)
legge costituzionale 18/10/2001 n. 3
Altri parametri e norme interposte
decreto legislativo 31/03/1998 n. 112 art. 72
decreto legislativo 17/08/1999 n. 334 art. 18
Pronuncia
N. 407
SENTENZA 10 - 26 LUGLIO 2002.
Pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» n. 30 del 31 luglio 2002
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Cesare RUPERTO; Giudici: Riccardo CHIEPPA, Gustavo
ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo
DE SIERVO, Romano VACCARELLA;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, 4, comma 2, 5, commi 1 e 2, della
legge della Regione Lombardia 23 novembre 2001, n. 19 (Norme in materia di attività a rischio di
incidenti rilevanti), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 23
gennaio 2002, depositato in Cancelleria il 31 successivo ed iscritto al n. 6 del registro ricorsi 2002.
Visto l'atto di costituzione della Regione Lombardia;
Udito nell'udienza pubblica del 21 maggio 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti;
Uditi l'avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati
Giuseppe Ferrari e Massimo Luciani per la Regione Lombardia.
Ritenuto in fatto
1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri solleva, con ricorso notificato il 23 gennaio 2002,
depositato il successivo 31 gennaio, questione di legittimità costituzionale in via principale degli artt. 3,
comma 1, 4, comma 2, 5, commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 23 novembre 2001, n. 19
(Norme in materia di attività a rischio di incidenti rilevanti) - pubblicata sul Bollettino ufficiale della
Regione Lombardia del 27 novembre 2001, supplemento ordinario n. 48 - in riferimento all'art. 117,
secondo comma, lettere h) ed s) della Costituzione, nonché agli artt. 8, 9, 15, 18, 21 e 28 del decreto
legislativo 17 agosto 1999, n. 334 (Attuazione della direttiva 96/1982/CE relativa al controllo dei
pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose), ed all'art. 72 del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle
regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della L. 15 marzo 1997, n. 59).
2. - Il ricorrente premette che la disciplina delle attività a rischio di incidenti rilevanti sarebbe
riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettere h) ed s) nel
testo modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in quanto riconducibile alle materie
"sicurezza" e "tutela dell'ambiente".
L'art. 18 del d.lgs. 17 agosto 1999, n. 334, ai sensi dell'art. 72 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, ha
attribuito alle regioni il potere di regolamentare il procedimento di istruttoria tecnica, le autorità titolari
delle competenze conseguenti, il raccordo con il procedimento di valutazione di impatto ambientale, le
modalità di coordinamento dei soggetti che svolgono l'istruttoria tecnica, le procedure per gli interventi
di salvaguardia dell'ambiente e del territorio. Le regioni potrebbero, quindi, disciplinare esclusivamente
gli interventi strumentali, nel rispetto della disciplina stabilita dalla legge statale, che sarebbe invece
violata dalle disposizioni impugnate.
2.1. - Il ricorrente deduce che l'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 334 del 1999 stabilisce che, "affinché
sorga l'obbligo del rapporto preliminare di sicurezza", le sostanze pericolose presenti in determinati
stabilimenti "debbono essere in quantità uguali o superiori a quelle indicate nell'allegato I, parti 1 e 2,
colonna 3 (v. richiamo all'art. 8. 1)".
L'art. 3, comma 1, della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2001 dispone, invece, che il
rapporto preliminare debba essere presentato dal gestore di nuovi stabilimenti, qualora negli stessi siano
presenti sostanze pericolose in quantità uguale o superiore a quella indicata nell'allegato I, parte 1,
colonna 2 e parte 2, colonna 2 del d.lgs. n. 334 del 1999. Dunque, secondo la difesa erariale, "le quantità
indicate nella norma statale sono più elevate di quelle richieste dalla norma regionale che in questo modo
ha ampliato la sfera normativa della legge statale", non limitandosi a disciplinare le materie indicate
nell'art. 18 del d.lgs. n. 334 del 1999, né ad esercitare le funzioni amministrative conferite dall'art. 72 del
d.lgs. n. 112 del 1998.
2.2. - L'art. 28 del d.lgs. n. 334 del 1999 ha disposto che, sino alla emanazione del decreto di cui
all'art. 10, sono applicabili i criteri fissati nel decreto del Ministro dell'ambiente del 13 maggio 1996.
L'art. 4, comma 2, della legge regionale in esame, in via transitoria e fino al termine fissato dalla
legge statale, ad avviso dell'Avvocatura, avrebbe invece illegittimamente stabilito che sono obbligatori
gli elementi previsti dal suo allegato 2, i quali non coincidono con quelli richiesti dalle norme dello
Stato.
2.3. - L'art. 21, comma 3, del d.lgs. n. 334 del 1999 dispone che per le modifiche di impianti e di
depositi, di processi industriali, della natura o dei quantitativi di sostanze pericolose individuate con il
decreto di cui all'articolo 10, ossia per quelle che potrebbero costituire aggravio del preesistente livello di
rischio, deve essere avviata l'istruttoria per la valutazione del rapporto di sicurezza.
L'art. 5, commi 1 e 2, della legge regionale impugnata, in contrasto con la norma statale, dispone
invece che, anche qualora le modifiche "non comportano aggravio di rischio", debba essere redatta una
scheda valutativa tecnica, la quale, ovviamente, presuppone un'attività preparatoria.
Secondo l'Avvocatura, le norme impugnate realizzerebbero effetti innovativi e sarebbero
costituzionalmente illegittime, dato che il livello di sicurezza, salvo che non sussistano situazioni
ambientali differenti - ciò che non accade nel caso in esame -, dovrebbe essere identico sull'intero
territorio nazionale. La fissazione di adempimenti differenziati realizzerebbe "alterazioni sotto il profilo
della concorrenza in danno di quelle imprese che si trovano ad operare in regioni la cui disciplina più
gravosa costringe ad affrontare costi maggiori".
Infine, conclude il ricorrente, la circostanza che l'art. 10 della legge regionale rinvia la sua entrata in
vigore alla data della stipulazione dell'accordo di programma Stato-Regione ex art. 72 del d.lgs. n. 112
del 1998, non inciderebbe sull'interesse all'impugnazione poiché, una volta concluso detto accordo, le
norme censurate diverrebbero immediatamente efficaci.
2.4. - La difesa erariale, nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica, ha insistito per
la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme impugnate, ribadendo le argomentazioni svolte
nel ricorso.
3. - Nel giudizio si è costituita la Regione Lombardia, chiedendo che la Corte dichiari il ricorso
manifestamente inammissibile e, in linea gradata, manifestamente infondato.
Nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica, la resistente deduce che il ricorso
sarebbe inammissibile per difetto di interesse all'impugnazione, poiché l'efficacia delle norme censurate è
condizionata alla stipulazione di un accordo di programma tra Regione e Stato, il quale, rifiutando il
proprio assenso alla stipula di siffatto accordo, può impedire che la legge impugnata produca effetti.
Nel merito, la Regione Lombardia sostiene che, sebbene il controllo sugli impianti e sulle industrie a
rischio di incidenti rilevanti riguardi sia la materia "sicurezza", sia la materia "tutela dell'ambiente", gli
artt. 72 del d.lgs. n. 112 del 1998 e 18 del d.lgs. n. 334 del 1999 dimostrerebbero che questo controllo
interferisce con le materie "governo del territorio", "tutela della salute" e "protezione civile", attribuite
alla competenza legislativa di tipo concorrente della Regione. Inoltre, il d.m. 9 maggio 2001, disponendo
che "le Regioni assicurano il coordinamento delle norme in materia di pianificazione urbanistica,
territoriale e di tutela ambientale con quelle derivanti dal decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 e dal
presente decreto", nonché "il coordinamento tra i criteri e le modalità stabiliti per l'acquisizione e la
valutazione delle informazioni di cui agli articoli 6, 7 e 8 del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 e
quelli relativi alla pianificazione territoriale e urbanistica" (art. 2, commi 1 e 3), conforterebbero che la
prevenzione ed il controllo sui rischi di incidenti rilevanti è riconducibile anche a materie attribuite alla
competenza legislativa regionale di tipo concorrente.
Dunque, secondo la resistente, nell'esercizio della propria competenza in materia di governo del
territorio e di tutela della salute dei cittadini, nel rispetto dei principi fondamentali fissati dalla legge
statale, essa legittimamente avrebbe stabilito una disciplina più rigorosa, estendendo l'obbligo di redigere
il rapporto di sicurezza e la scheda di valutazione dei rischi (artt. 3 e 5 della legge regionale n. 19 del
2001). Inoltre, a suo avviso, per numerose materie elencate nell'art. 117 della Costituzione sarebbe
difficile stabilire i confini tra competenza statale e regionale e, proprio per questo, occorrerebbe
applicare il criterio teleologico e, comunque, riconoscere, come nel caso della protezione ambientale, che
la Regione è titolare di competenza legislativa in riferimento ai profili che interessano anche materie di
sua competenza, potendo in ogni caso emanare quelle norme che garantiscono una maggiore tutela del
bene della salute.
Infine, conclude la resistente, le norme, sotto il profilo della concorrenza, non pregiudicano le
imprese che svolgono attività nella Regione Lombardia e, ragionevolmente, allo scopo di garantire la
tutela del territorio e della salute umana, pongono rimedio ad una "disciplina statale palesemente
lacunosa".
4. - Le parti, all'udienza pubblica, hanno insistito per l'accoglimento delle conclusioni rassegnate
nelle difese scritte.
Considerato in diritto
1. - Il giudizio in via principale promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso in
epigrafe, nei confronti della Regione Lombardia ha ad oggetto gli artt. 3, comma 1, 4, comma 2, 5,
commi 1 e 2, della legge regionale 23 novembre 2001, n. 19 (Norme in materia di attività a rischio di
incidenti rilevanti), in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettere h) ed s) della Costituzione, nonché
agli artt. 8, 9, 15, 18, 21 e 28 del decreto legislativo n. 334 del 1999 ed all'art. 72 del decreto legislativo
n. 112 del 1998.
Premesso che la disciplina delle attività a rischio di incidente rilevante è riservata alla potestà
legislativa esclusiva dello Stato, a norma dell'art. 117, secondo comma, lettere h) ed s), della
Costituzione, il ricorrente sottolinea che questo tipo di riserva, innanzi tutto, esclude, per definizione, che
i livelli di sicurezza per attività egualmente pericolose possano essere diversi da regione a regione ed in
secondo luogo esclude conseguentemente che possano essere previsti adempimenti diversificati per le
varie imprese, con possibile alterazione anche delle regole della concorrenza. Le disposizioni regionali
impugnate sarebbero pertanto, ad avviso del ricorrente, costituzionalmente illegittime, in quanto
invadono la competenza esclusiva dello Stato in materia di "sicurezza" ed "ambiente", avendo altresì un
contenuto che, sotto vari profili, è difforme e contrastante rispetto ad una serie di norme "fondamentali"
della disciplina statale.
2. - In linea preliminare va respinta l'eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse,
sollevata dalla difesa della Regione Lombardia, in base all'argomento che l'art. 10 della legge impugnata
subordina l'efficacia della legge stessa alla "stipulazione dell'accordo di programma tra Stato e regione,
di cui all'art. 72 del d.lgs. n. 112/1998". Va infatti osservato che l'impugnativa da parte dello Stato delle
leggi regionali è sottoposta, ai sensi dell'art. 127 della Costituzione, ad un termine tassativo riferito alla
pubblicazione e non anche all'efficacia della legge stessa e, d'altra parte, la pubblicazione di una legge
regionale, in asserita violazione del riparto costituzionale di competenze, è di per sé stessa lesiva della
competenza statale, indipendentemente dalla produzione degli effetti concreti e dalla realizzazione delle
conseguenze pratiche (cfr. sentenza n. 332 del 1998).
3. - Nel merito, il ricorso è infondato.
La disciplina specifica delle attività a rischio di incidenti rilevanti si è sviluppata soprattutto in
ambito comunitario, a decorrere dalla direttiva 82/501 CEE del 24 giugno 1982 - c.d. "direttiva Seveso la quale introdusse prescrizioni dirette alla prevenzione dei rischi industriali, coinvolgendo specialmente
il responsabile dell'attività a rischio. Il decreto di attuazione - d.P.R. 17 maggio 1988, n. 175 - stabilì
infatti una serie di obblighi a carico dei fabbricanti, prevedendo altresì un complesso procedimento di
controllo, con l'intervento di una pluralità di soggetti pubblici, nel cui ambito le regioni, in particolare,
furono chiamate a svolgere compiti di vigilanza sugli impianti a minore pericolosità, soggetti alla c.d.
"dichiarazione", nonché sul rispetto delle misure di sicurezza.
Il predetto atto comunitario è stato modificato dalla direttiva 96/1982 CE del 9 dicembre 1996, che
ha accentuato il profilo del controllo tecnico-ispettivo, anche prevedendo forme di pianificazione
urbanistica ed ambientale del territorio esterno agli stabilimenti. In attesa dell'attuazione di questa
direttiva, l'art. 72 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, ha innovato il quadro organizzativo precedente,
conferendo alle regioni, sia pure previa adozione di una specifica normativa, anche le competenze
amministrative concernenti gli impianti a maggiore pericolosità, soggetti alla c.d. "notifica", e
mantenendo allo Stato essenzialmente compiti di indirizzo e coordinamento.
Successivamente il decreto di recepimento - d.lgs. 17 agosto 1999, n. 334 - ha ulteriormente
ampliato le precedenti competenze delle regioni attribuendo ad esse anche la disciplina dell'attività
procedimentale connessa all'istruttoria tecnica, nonché l'individuazione delle procedure più idonee per
l'adozione degli interventi di salvaguardia dell'ambiente e del territorio di insediamento degli
stabilimenti.
3.1. - Lo scrutinio di costituzionalità delle disposizioni regionali censurate va pertanto condotto sulla
base del quadro di riparto delle competenze tra Stato e regioni, sul quale ora incide la legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che reca "Modifiche al titolo V della parte seconda della
Costituzione".
A questo scopo, il primo problema da risolvere, ai fini della determinazione della competenza ai
sensi dell'art. 117 della Costituzione, riguarda l'individuazione della "materia" alla quale ricondurre la
legge regionale in esame; materia che, secondo il ricorrente, è da identificare nei disposti delle lettere h)
e s) dell'art. 117, secondo comma, della Costituzione.
In proposito, appare improprio, nella fattispecie in esame, il riferimento alla materia "sicurezza", di
cui alla lettera h) del citato art. 117. Non sembra infatti necessario a questo scopo accertare, in una
prospettiva generale, se nella legislazione e nella giurisprudenza costituzionale la nozione di "sicurezza
pubblica" assuma un significato restrittivo, in quanto usata in endiadi con quella di "ordine pubblico", o
invece assuma una portata estensiva, in quanto distinta dall'ordine pubblico, o collegata con la tutela
della salute, dell'ambiente, del lavoro e così via. È sufficiente infatti constatare che il contesto specifico
della lettera h) del secondo comma dell'art. 117 - che riproduce pressoché integralmente l'art. 1, comma 3
lettera l) della legge n. 59 del 1997 - induce, in ragione della connessione testuale con "ordine pubblico"
e dell'esclusione esplicita della "polizia amministrativa locale", nonché in base ai lavori preparatori, ad
un'interpretazione restrittiva della nozione di "sicurezza pubblica". Questa infatti, secondo un
tradizionale indirizzo di questa Corte, è da configurare, in contrapposizione ai compiti di polizia
amministrativa regionale e locale, come settore riservato allo Stato relativo alle misure inerenti alla
prevenzione dei reati o al mantenimento dell'ordine pubblico (sentenza n. 290 del 2001).
Alla luce di queste considerazioni, le disposizioni legislative in questione non possono rientrare
nell'ambito materiale riservato alla competenza esclusiva dello Stato dalla lettera h) dell'art. 117, secondo
comma, della Costituzione.
33.2. - La disciplina in esame è invece riconducibile al disposto dell'art. 117, secondo comma, lettera
s) della Costituzione, relativo alla tutela dell'ambiente.
A questo riguardo va però precisato che non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma
dell'art. 117 possono, in quanto tali, configurarsi come "materie" in senso stretto, poiché, in alcuni casi,
si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie
(cfr. sentenza n. 282 del 2002). In questo senso l'evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale
portano ad escludere che possa identificarsi una "materia" in senso tecnico, qualificabile come "tutela
dell'ambiente", dal momento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale
rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente
con altri interessi e competenze. In particolare, dalla giurisprudenza della Corte antecedente alla nuova
formulazione del Titolo V della Costituzione è agevole ricavare una configurazione dell'ambiente come
"valore" costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia "trasversale", in
ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo
Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio
nazionale (cfr., da ultimo, sentenze n. 507 e n. 54 del 2000, n. 382 del 1999, n. 273 del 1998).
I lavori preparatori relativi alla lettera s) del nuovo art. 117 della Costituzione inducono, d'altra parte,
a considerare che l'intento del legislatore sia stato quello di riservare comunque allo Stato il potere di
fissare standards di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, senza peraltro escludere in questo
settore la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente
ambientali. In definitiva, si può quindi ritenere che riguardo alla protezione dell'ambiente non si sia
sostanzialmente inteso eliminare la preesistente pluralità di titoli di legittimazione per interventi regionali
diretti a soddisfare contestualmente, nell'ambito delle proprie competenze, ulteriori esigenze rispetto a
quelle di carattere unitario definite dallo Stato.
Anche nella fattispecie in esame, del resto, emerge dalle norme comunitarie e statali, che
disciplinano il settore, una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti e funzionalmente collegati
con quelli inerenti in via primaria alla tutela dell'ambiente. A questo proposito occorre, innanzi tutto,
ricordare che nei "considerando" della citata direttiva 96/1982/CE si afferma, tra l'altro, che la
prevenzione di incidenti rilevanti è necessaria per limitare le loro "conseguenze per l'uomo e per
l'ambiente", al fine di "tutelare la salute umana", anche attraverso l'adozione di particolari politiche in
tema di destinazione e utilizzazione dei suoli. Più specificamente, il citato decreto legislativo di
recepimento n. 334 del 1999, dopo avere, all'art. 1, premesso che il decreto stesso contiene disposizioni
finalizzate a prevenire incidenti rilevanti connessi a determinate sostanze pericolose e a "limitarne le
conseguenze per l'uomo e per l'ambiente", all'art. 3, comma 1, lettera f) definisce "incidente rilevante"
l'evento che "dia luogo ad un pericolo grave, immediato o differito, per la salute umana o per
l'ambiente". E gli stessi concetti vengono sostanzialmente ribaditi anche negli artt. 7, comma 1, e 8,
commi 2 e 10, cosicché si può fondatamente ritenere, in riferimento alle norme citate, che il decreto in
esame attenga, oltre che all'ambiente, anche alla materia "tutela della salute", la quale, ai sensi dell'art.
117 della Costituzione, rientra nella competenza concorrente delle regioni.
Così pure rientra nella competenza concorrente regionale la cura degli interessi relativi alla materia
"governo del territorio", cui fanno riferimento, in particolare, gli artt. 6, commi 1 e 2, 8, comma 3, 12 e
14 dello stesso decreto, i quali prescrivono i vari adempimenti connessi all'edificazione e alla
localizzazione degli stabilimenti, nonché diverse forme di "controllo sull'urbanizzazione". Anche le
competenze relative alla materia della "protezione civile" possono essere individuate in alcune norme del
citato decreto, come, ad esempio, l'art. 11, l'art. 12, l'art. 13, comma 1 lettera c), comma 2 lettere c) e d)
l'art. 20 e l'art. 24, le quali prevedono essenzialmente la disciplina dei vari piani di emergenza nei casi di
pericolo "all'interno o all'esterno dello stabilimento". Infine, alcune norme, come, in particolare, i citati
artt. 5, commi 1 e 2, ed 11 dello stesso decreto, sono riconducibili anche alla materia "tutela e sicurezza
del lavoro", egualmente compresa nella legislazione concorrente.
In definitiva quindi il predetto decreto n. 334 del 1999 riconosce che le regioni sono titolari, in
questo campo disciplinare, di una serie di competenze concorrenti, che riguardano profili
indissolubilmente connessi ed intrecciati con la tutela dell'ambiente.
4. - Così definito il quadro degli interessi sottostanti alla vigente disciplina sulle attività a rischio
rilevante, ne deriva che essa ha un'incidenza su una pluralità di interessi e di oggetti, in parte di
competenza esclusiva dello Stato, ma in parte anche - come si è visto - di competenza concorrente delle
regioni, i quali appunto legittimano una serie di interventi regionali nell'ambito, ovviamente, dei principi
fondamentali della legislazione statale in materia, la cui violazione peraltro prospetta il ricorrente, anche
se in via subordinata.
Alla luce di queste considerazioni è da respingere il motivo principale di ricorso, secondo cui, nel
caso di specie, la materia de qua dovrebbe ritenersi di competenza legislativa statale esclusiva, afferendo
essa sia alla tutela dell'ambiente che alla sicurezza pubblica. Ma è altrettanto da respingere il motivo
prospettato in via subordinata, secondo cui "ove volesse considerarsi tale legge regionale alla stregua di
atto regolamentare di competenza regionale", alcune norme di essa sarebbero illegittime sotto il profilo
del mancato rispetto dei limiti fissati dal citato decreto legislativo n. 334 del 1999.
In proposito è da osservare, indipendentemente dalla inammissibile "degradazione" della legge
regionale a regolamento regionale, che i ricordati artt. 72 del d.lgs. n. 112 del 1998 e 18 del d.lgs. n. 334
del 1999 stabiliscono che le regioni provvedono a disciplinare la materia con specifiche normative ai
fini, in particolare, di "garantire la sicurezza del territorio e della popolazione". In questa ottica vanno
appunto respinte le prospettate censure incentrate sull'asserito superamento dei limiti prestabiliti dal
citato decreto legislativo n. 334 del 1999, dal momento che la Regione Lombardia può ragionevolmente
adottare, nell'ambito delle proprie competenze concorrenti, una disciplina che sia maggiormente
rigorosa, per le imprese a rischio di incidente rilevante, rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale,
proprio in quanto diretta ad assicurare un più elevato livello di garanzie per la popolazione ed il territorio
interessati.
In questo senso, d'altronde, si è già espressa questa Corte, quando in una vicenda analoga, a
proposito dei limiti massimi di esposizione ai campi elettrico e magnetico, ha ritenuto non
incostituzionale una disciplina regionale "specie a considerare che essa se, da un canto, implica limiti più
severi di quelli fissati dallo Stato, non vanifica, dall'altro, in alcun modo gli obiettivi di protezione della
salute da quest'ultimo perseguiti" (sentenza n. 382 del 1999).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, 4, comma 2, 5,
commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 23 novembre 2001, n. 19 (Norme in materia di attività
a rischio di incidenti rilevanti), sollevata, in riferimento all'art. 117 della Costituzione, dal Presidente del
Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.
Il Presidente: Ruperto
Il redattore: Capotosti
Il cancelliere: Fruscella
Depositata in Cancelleria il 26 luglio 2002.
Il cancelliere: Fruscella
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 303/2003
Giudizio
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente CHIEPPA - Redattore MEZZANOTTE
Udienza Pubblica del 25/03/2003 Decisione del 25/09/2003
Deposito del 01/10/2003 Pubblicazione in G. U. 08/10/2003
Norme impugnate:
Massime:
28034 28035 28036 28037 28038 28039 28040 28041 28042 28043 28044 28045 28046 28047 28048
28049 28050 28051 28052 28053 28054 28055 28056 28057 28058 28059 28060 28061 28062 28063
28064 28065 28066 28067 28068 28069 28070 28071 28072
Atti decisi:
T
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o
l
o
Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Procedimento per l’individuazione, la localizzazione e la realizzazione Programma del governo inserito nel documento di programmazione economico-finanziaria - Ricorso
della provincia autonoma di trento - Lamentata lesione della potestà legislativa spettante alla provincia Mancata individuazione delle competenze lese - Inammissibilità delle questioni.
T
e
s
t
o
E' inammissibile il ricorso della Provincia autonoma di Trento, nel quale vengono censurati i commi da 1
a 4 dell'art. 1 della legge 21 dicembre 2001, n. 443. Infatti la Provincia, ponendo a base del proprio
ricorso la violazione di competenze più ampie rispetto a quelle statutarie, che assume derivanti dall'art.
117 Cost., aveva l'onere di individuarle nel raffronto con le competenze statutarie, che, per sua stessa
ammissione, sono fatte salve dalla legge oggetto di impugnazione. - Per la correzione di errore materiale
occorso
nella
epigrafe
di
questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 1
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 3
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 4
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
legge costituzionale 18/10/2001 n. 3 art. 10
T
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o
Questione di legittimità costituzionale in via principale - Ricorso della regione toscana - Intervento 'ad
adiuvandum' dell’associazione italia nostra-onlus, di legambiente-onlus, dell’associazione italiana per
'world
wide
fund
for
nature'
(wwf)-onlus
Inammissibilità.
T
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E' inammissibile, nei giudizi di legittimità costituzionale in via di azione, l'intervento 'ad adiuvandum' di
soggetti diversi dalla parte ricorrente e dal titolare della potestà legislativa il cui esercizio è oggetto di
contestazione. - Orientamento consolidato. V. citate sentenze n. 49/2003, n. 533/2002, n. 510/2002, n.
382/1999. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi
ordinanza
n.
22/2004.
T
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o
Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Procedimento per l’individuazione, la localizzazione e la realizzazione Programma del governo inserito nel documento di programmazione economico-finanziaria - Ricorsi
delle regioni marche, toscana, umbria ed emilia-romagna - Lamentata lesione della potestà legislativa
spettante alle regioni nonché violazione dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza e
dell’autonomia finanziaria regionale per l’esercizio delle funzioni amministrative - Non fondatezza, nei
sensi
di
cui
in
motivazione,
della
questione.
T
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La legge statale che, in virtù dei principi di sussidiarietà e di adeguatezza di cui all'art. 118, primo
comma, Cost., attribuisce allo Stato funzioni amministrative regionali, è anche abilitata, in ossequio ai
canoni fondanti dello Stato di diritto, a organizzare e regolare le funzioni medesime al fine di renderne
l'esercizio permanentemente raffrontabile a un parametro legale, sempre che - beninteso - la deroga al
normale riparto delle competenze legislative contenute nel Titolo V, si fondi su una valutazione
dell'interesse pubblico sottostante, proporzionata e ragionevole e sia oggetto di un accordo stipulato con
la Regione interessata. Non è, pertanto, fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, nel testo sostituito
dall'art. 13, comma 3, della legge 1° agosto 2002, n. 166, sollevata per la assunta lesione delle
competenze stabilite nell'art. 117 Cost., nella parte in cui definisce il procedimento da seguire per
l'individuazione, la localizzazione e la realizzazione delle infrastrutture pubbliche e private e degli
insediamenti produttivi strategici di preminente interesse nazionale da realizzare per la modernizzazione
e lo sviluppo del Paese. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 1
legge 01/08/2002 n. 166 art. 13 co. 3
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Costituzione art. 119
T
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o
l
o
Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Delega al governo per la definizione di un quadro normativo finalizzato
alla celere realizzazione - Ricorsi delle regioni toscana, marche, emilia-romagna, umbria - Lamentata
lesione della potestà legislativa spettante alla regione - Formulazione generica delle censure in relazione
ad una disciplina particolarmente complessa ed insistente su una pluralità di materie - Inammissibilità
d e l l e
q u e s t i o n i .
T
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o
Sono inammissibili le censure formulate nei confronti dell'art. 1, comma 2, della legge 21 dicembre
2001, n. 443, sull'assunto che i principi e criteri direttivi stabiliti per l'emanazione del decreto legislativo
finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti individuati ai sensi del
comma 1, detterebbero una disciplina compiuta e di dettaglio, lesiva delle competenze regionali. Infatti
le censure sono formulate genericamente in presenza di una disciplina particolarmente complessa che
insiste su una pluralità di materie, tra loro intrecciate, ascrivibili non solo alla potestà legislativa
concorrente ma anche a quella esclusiva dello Stato. - Per la correzione di errore materiale occorso nella
epigrafe
di
questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera a)
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera b)
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera c)
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera d)
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera e)
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera f)
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera g)
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera h)
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera i)
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera l)
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera m)
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera n)
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera o)
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Costituzione art. 119
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Delega al governo per la definizione di un quadro normativo finalizzato
alla celere realizzazione - Ricorsi delle regioni umbria ed emilia-romagna - Normativa europea in tema
di evidenza pubblica - Ritenuto obbligo di osservanza nel solo caso in cui l’opera sia realizzata
prevalentemente con fondi pubblici - Lamentato contrasto con l’ordinamento comunitario - Non
fondatezza
della
questione.
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La delega al Governo perchè siano adottate procedure di aggiudicazione anche derogatorie rispetto alla
legge n. 109 del 1992 quando non si tratti di opere realizzate prevalentemente con fondi pubblici, non
autorizza il Governo ad adottare una disciplina per l'aggiudicazione in appalto di opere realizzate con
prevalenti fondi privati in violazione del diritto comunitario. Non fondatezza della questione di
legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, lettera g) della legge 21 dicembre 2001, n. 443, sollevata,
in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui circoscriverebbe l'obbligo
per il soggetto aggiudicatore di rispettare la normativa europea in tema di evidenza pubblica solo nel
caso in cui l'opera sia realizzata prevalentemente con fondi pubblici. - Sull'orientamento secondo cui il
valore costituzionale della certezza e della chiarezza normativa deve fare aggio su ogni altra
considerazione, v. citate sentenze n. 85/1999, n. 94/1995 e n. 384/1994. - Per la correzione di errore
materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi ordinanza n. 22/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera g)
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117 co. 1
Altri parametri e norme interposte
direttiva CEE n. 37
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Delega al governo per la definizione di un quadro normativo finalizzato
alla celere realizzazione - Ricorsi delle regioni umbria ed emilia-romagna - Restrizione della tutela
cautelare al pagamento di una provvisionale per tutti gli interessi patrimoniali - Lamentato contrasto con
l’ordinamento comunitario - Difetto di interesse - Inammissibilità della questione.
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E' inammissibile per difetto di interesse la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2,
lettera n), della legge 21 dicembre 2001, n. 443, sollevata, per contrasto con la normativa comunitaria,
nella parte in cui ridurrebbe la tutela cautelare, per tutti gli "interessi patrimoniali", al "pagamento di una
provvisionale". Infatti la questione evoca un contrasto col diritto comunitario senza dedurre l'esistenza di
una lesione delle attribuzioni regionali, e inoltre investe una disposizione che concerne la tutela
giurisdizionale di terzi e non riguarda quindi materie di competenza legislativa delle Regioni. - Per la
correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi ordinanza n. 22/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera n)
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117 co. 1
Altri parametri e norme interposte
direttiva CEE n. 665
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Delega al governo per la definizione di un quadro normativo finalizzato
alla celere realizzazione - Ricorso della regione toscana - Approvazione dei progetti demandata al cipe,
integrato dai presidenti delle regioni interessate - Lamentata lesione delle attribuzioni delle regioni,
asseritamene relegate ad un ruolo consultivo, nonché violazione delle attribuzioni delle regioni in
materia di porti e valorizzazione dei beni ambientali - Non fondatezza della questione.
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Il ruolo delle Regioni e Province autonome chiamate ad integrare la composizione del CIPE per
l'approvazione dei progetti preliminari e definitivi delle opere individuate nel programma delle
infrastrutture e degli insediamenti produttivi, non è meramente consultivo, giacchè queste, attraverso i
propri rappresentanti, sono a pieno titolo componenti dell'organo e partecipano direttamente alla
formazione della sua volontà deliberativa, e inoltre sulla localizzazione dell'opera è prevista l'intesa con
la Regione o la Provincia autonoma interessata. Non fondatezza della questione di legittimità
costituzionale dell'art. 1, comma 2, lettera c) della legge 21 dicembre 2001, n. 443, come sostituito
dall'art. 13, comma 5, della legge n. 166 del 2002, sollevata, in riferimento agli artt. 117 e 118 Cost., in
quanto non sarebbero garantite le attribuzioni delle Regioni. - Per la correzione di errore materiale
occorso
nella
epigrafe
di
questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera c)
legge 01/08/2002 n. 166 art. 13 co. 5
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Delega al governo per la definizione del quadro normativo per la
realizzazione - Ricorsi delle regioni campania, toscana, marche, basilicata, emilia-romagna, umbria,
lombardia, e delle province autonome di trento e bolzano - Attribuzione al governo del potere di
integrare e modificare il regolamento di cui al d.p.r. n. 554 del 1999 - Inidoneità dei regolamenti
governativi adottati in delegificazione a disciplinare materie di competenza regionale - Illegittimità
c o s t i t u z i o n a l e .
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E' costituzionalmente illegittimo l'art. 1, comma 3, ultimo periodo, della legge 21 dicembre 2001, n. 443,
nella parte in cui autorizza il Governo a integrare e modificare il regolamento di attuazione della legge
quadro sui lavori pubblici n. 109 del 1994, adottato con d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554. Infatti è inibito
ai regolamenti governativi adottati in delegificazione disciplinare materie di competenza regionale,
trattandosi di fonti tra le quali non vi sono rapporti di gerarchia, ma di separazione di competenza. - Sul
principio, già affermato con riguardo al quadro costituzionale anteriore all'entrata in vigore della riforma
del Titolo V della Parte II della Costituzione, v. citate sentenze n. 333/1995, n. 482/1995, n. 22/2003 e n.
302/2003. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 3 co. ultimo periodo
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreti legislativi per la definizione del quadro normativo per la
realizzazione - Ricorso della regione toscana - Procedura alternativa per l’approvazione dei progetti
definitivi, disposta con decreto del presidente del consiglio dei ministri - Lesione delle attribuzioni delle
regioni, cui viene riservato un ruolo meramente consultivo - Illegittimità costituzionale.
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E' costituzionalmente illegittimo l'art. 1, comma 3-bis, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, introdotto
dall'art. 13, comma 6, della legge 1° agosto 2002, n. 166, nella parte in cui consente che l'approvazione
dei progetti definitivi delle opere individuate nel programma governativo avvenga, in alternativa alla
procedura ordinaria, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del CIPE
integrato dai Presidenti delle Regioni o delle Province autonome interessate. Infatti dalla degradazione
della posizione del CIPE da organo di amministrazione attiva (nel procedimento ordinario) ad organo
che svolge funzioni preparatorie, discende che la partecipazione in esso non costituisce più una garanzia
sufficiente per le Regioni. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 3 co. bis
legge 01/08/2002 n. 166 art. 13 co. 6
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Delega al governo per l’emanazione di decreti legislativi recanti
l’approvazione definitiva di specifici progetti di infrastrutture strategiche - Ricorsi delle regioni toscana,
marche, emilia-romagna, umbria - Asserita potestà legislativa residuale delle regioni e mancanza
assoluta
di
competenza
dello
stato
-
Non
fondatezza
della
questione.
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La delega al Governo, contenuta nel comma 4 dell'art. 1, della legge n. 443 del 2001, per l'emanazione di
uno o più decreti legislativi recanti l'approvazione definitiva di specifici progetti di infrastrutture
strategiche, individuati secondo le procedure previste dalla stessa legge, concerne materie di competenza
concorrente o esclusiva dello Stato e non investe potestà residuali, né tra queste ultime possono ritenersi
compresi i lavori pubblici. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1,
comma 4, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, sollevata, in riferimento agli artt. 118 e 119 Cost.,
sull'assunto che si verserebbe in materia di potestà legislativa residuale nella quale lo Stato sarebbe
radicalmente privo di competenza. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 4
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Costituzione art. 119
T
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Delega al governo per l’emanazione di decreti legislativi - Salvezza
delle competenze delle regioni a statuto speciale e delle province autonome previste dagli statuti speciali
e dalle norme di attuazione - Ricorso della regione marche - Asserita mancanza assoluta di competenza
dello
stato
Non
fondatezza
della
questione.
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La censura avverso il comma 5 dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001, a mente del quale, ai fini della
legge medesima, sono fatte salve le competenze delle Regioni a statuto speciale e delle Province
autonome, non ha una sua autonoma consistenza ma deve essere interpretata come argomento teso a
corroborare le censure svolte nel ricorso avverso la delega al Governo di cui al comma 4 dello stesso
articolo, deciso nel senso della non fondatezza. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 1, comma 5, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, sollevata in riferimento agli
artt. 118 e 119 Cost. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 5
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Costituzione art. 119
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Edilizia - Disciplina generale in tema di interventi in alternativa a concessioni e autorizzazioni - Ricorsi
delle regioni toscana, umbria ed emilia-romagna - Assunta violazione della competenza residuale delle
regioni - Esclusione - In subordine, lesione, con una disciplina di dettaglio, della competenza concorrente
nella materia “governo del territorio” - Enunciazioni di principio non qualificabili di dettaglio - Non
fondatezza
della
questione.
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o
La disciplina sul regime degli interventi edilizi, contenuta nei commi da 6 a 12 dell'art. 1 della legge 21
dicembre 2001, n. 443, rientra nella materia del "governo del territorio", oggetto di competenza
concorrente, e non ha nulla che non sia riconducibile ad una enunciazione di principio e che possa essere
qualificato normativa di dettaglio. Infatti, essa persegue il fine, che costituisce un principio
dell'urbanistica, che la legislazione regionale e le funzioni amministrative in materia non risultino
inutilmente gravose per gli amministrati e siano dirette a semplificare le procedure e ad evitare la
duplicazione di valutazioni sostanzialmente già effettuate dalla pubblica amministrazione; reitera il
principio dell'onerosità del titolo abilitativo; fa salva la previgente normativa vincolistica, senza alterare
il preesistente quadro delle relative competenze. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 1, commi da 6 a 12, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, sollevata, in riferimento
all'art. 117 della Costituzione, sull'assunto che lo Stato avrebbe violato la competenza residuale delle
Regioni in materia edilizia o, subordinatamente, la competenza regionale concorrente in materia di
governo del territorio. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 6
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 7
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 8
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 9
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 10
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 11
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 12
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
T
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o
Edilizia - Disciplina generale in tema di interventi in alternativa a concessioni e autorizzazioni - Delega
al governo ad emanare un decreto legislativo per il relativo adeguamento del testo unico in materia
edilizia - Ricorsi delle regioni toscana, umbria ed emilia-romagna - Lamentata lesione delle competenze
regionali, attraverso lo strumento del testo unico assunto quale incompatibile con il riparto costituzionale
delle
competenze
Non
fondatezza
della
questione.
T
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o
Non lede alcuna attribuzione regionale inserire i principi della legislazione statale ai quali le Regioni
devono conformarsi nelle materie di competenza concorrente, in un testo unico. Non fondatezza della
questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 14, della legge 21 dicembre 2001, n. 443 contenente la delega al Governo ad emanare un decreto legislativo volto ad introdurre nel testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, le modifiche strettamente necessarie per
adeguarlo alle disposizioni dei commi da 6 a 13 dello stesso articolo censurato - sollevata in riferimento
all'art. 117 della Costituzione, sull'assunto della incompatibilità tra testo unico e riparto costituzionale
delle competenze. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 14
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
T
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o
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o
Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Programma del governo da inserire nel documento di programmazione
economico-finanziaria - Contenuti - Ricorso della regione toscana - Lamentata lesione della potestà
legislativa spettante alle regioni con violazione dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed
adeguatezza, lesione dell’autonomia finanziaria regionale per l’esercizio delle funzioni amministrative Non
fondatezza
della
questione.
T
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o
Per le stesse argomentazioni che hanno condotto a ritenere infondate le censure avverso il comma 1
dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001, va respinto il motivo di ricorso, congiuntamente prospettato e
privo di autonomia, concernente il comma 1-bis, che detta le indicazioni che deve contenere il
programma delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di preminente interesse
nazionale da inserire nel documento di programmazione economico-finanziaria. Non fondatezza della
questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1-bis, della legge 21 dicembre 2001, n. 443,
introdotto dall'art. 13, comma 4, della legge 1° agosto 2002, n. 166, sollevata in riferimento agli artt. 117,
118 e 119 Cost. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 1 co. bis
legge 01/08/2002 n. 166 art. 13 co. 4
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118 co. 1
Costituzione art. 119
T
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l
o
Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Programma del governo da inserire nel documento di programmazione
economico-finanziaria - Risorse e stanziamenti di bilancio - Ricorso della regione toscana - Assunta
lesione delle competenze regionali e lesione dell’autonomia finanziaria - Non fondatezza, nei sensi di cui
in
motivazione,
della
questione.
T
e
s
t
o
Non lede le competenze delle Regioni né la loro autonomia finanziaria la disposizione che individua ed
autorizza i limiti di impegno di spesa quindicennali per la progettazione e realizzazione delle opere
strategiche e di preminente interesse nazionale individuate in apposito programma approvato dal CIPE,
con assunzione di oneri finanziari da parte dello Stato, ad integrazione dei finanziamenti pubblici,
comunitari e privati allo scopo disponibili. La disposizione, infatti, deve essere interpretata nel senso che
i finanziamenti in questione potranno essere utilizzati per la realizzazione di quelle sole opere che siano
state individuate mediante intesa tra Stato e Regioni o Province autonome interessate e che lo Stato
assume in base ai principi di sussidiarietà ed adeguatezza. Non fondatezza, nei sensi di cui in
motivazione, della questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, commi 1 e 11, della legge 1° agosto
2002, n. 166, sollevata in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 Cost. - Per la correzione di errore materiale
occorso
nella
epigrafe
di
questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
legge 01/08/2002 n. 166 art. 13 co. 1
legge 01/08/2002 n. 166 art. 13 co. 11
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Costituzione art. 119
T
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o
Questione di legittimità costituzionale in via principale - Ricorso della provincia autonoma di trento
depositato oltre il termine perentorio - Non applicabilità della disciplina dell’errore scusabile - Richiesta,
in subordine, di autorimessione della questione - Esclusione - Inammissibilità delle questioni.
T
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o
E' inammissibile il ricorso della Provincia autonoma di Trento - concernente le questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 1, 2, 3, 4, 13 e 15 del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190 - depositato
oltre il previsto termine perentorio. Infatti nei giudizi in via di azione deve essere senz'altro esclusa la
possibilità di considerare scusabile, e dunque tempestivo, il deposito effettuato oltre il termine, così come
è da escludersi che la Corte possa ritenere non manifestamente infondata una questione di legittimità
proprio su quelle norme legislative che, regolando il processo costituzionale, sono intese a conferire ad
esso il massimo di certezza e ad assicurare alle parti il corretto svolgimento del giudizio. - Per la
correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi ordinanza n. 22/2004.)
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 1
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 2
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 3
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 4
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 13
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 15
Parametri costituzionali
Costituzione art. 76
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Costituzione art. 120
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 5
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 6
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 9
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 11
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 14
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 16
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 17
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 18
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 19
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 21
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 22
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 24
statuto regione Trentino Alto Adige art. 9 co. 1 co. numero 8
statuto regione Trentino Alto Adige art. 9 co. 1 co. numero 9
statuto regione Trentino Alto Adige art. 9 co. 1 co. numero 10
statuto regione Trentino Alto Adige art. 16
Altri parametri e norme interposte
decreto del Presidente della Repubblica 22/03/1974 n. 381 art. 19
decreto del Presidente della Repubblica 22/03/1974 n. 381 art. 20
decreto del Presidente della Repubblica 22/03/1974 n. 381 art. 21
decreto legislativo 16/03/1992 n. 266 art. 4
T
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Ricorso della provincia autonoma di bolzano - Condizioni dell’adeguamento della legislazione
provinciale ai principî statali - Lamentata applicazione immediata della disciplina nel territorio della
provincia - Esclusione - Non fondatezza, nei sensi di cui in motivazione, della questione.
T
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L'obbligo - paventato dalla Provincia di Bolzano - di applicazione immediata nel proprio territorio della
disciplina contenuta nella disposizione censurata, è escluso proprio dalla stessa disposizione, la quale,
per un verso, fa salve le competenze delle Province autonome e delle Regioni a statuto speciale e, per
altro verso, subordina l'applicazione della disciplina a una previa intesa, alla quale la stessa Provincia
autonoma, proprio perchè titolare di competenze statutarie che le sono fatte salve, può sottrarsi; mentre
per le competenze ulteriori rispetto a quelle statutarie vale la salvaguardia assicurata dal modulo
collaborativo dell'intesa. Non fondatezza, nei sensi di cui in motivazione, della questione di legittimità
costituzionale dell'art. 1, comma 1, del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata in
riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, all'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001,
n. 3, e all'art. 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266. - Per la correzione di errore materiale
occorso
nella
epigrafe
di
questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 1 co. 1
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
legge costituzionale 18/10/2001 n. 3 art. 10
Altri parametri e norme interposte
decreto legislativo 16/03/1992 n. 266 art. 2
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Ricorsi delle regioni marche e toscana - Applicazione del decreto legislativo, contenente disciplina di
dettaglio, fino all’entrata in vigore di diversa normativa regionale - Lamentata lesione della competenza
regionale concorrente - Ragionevolezza della disciplina - Non fondatezza della questione.
T
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La disciplina statale di dettaglio a carattere suppletivo che determina - per il principio di cedevolezza una temporanea compressione (fino all'entrata in vigore di una diversa norma regionale) della
competenza legislativa regionale concorrente, deve ritenersi non irragionevole, finalizzata com'è ad
assicurare l'immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha attratto - per sussidiarietà e
adeguatezza - per soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al rischio della
ineffettività. Non fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 5, del decreto
legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata, in riferimento all'art. 117 della Costituzione, in quanto si
prevede che le Regioni, le province, i comuni, le città metropolitane applicano, per le proprie attività
contrattuali ed organizzative relative alla realizzazione delle infrastrutture e diverse dall'approvazione dei
progetti (comma 2) e dalla aggiudicazione delle infrastrutture (comma 3), le norme del decreto
legislativo medesimo «fino alla entrata in vigore di una diversa norma regionale, (...) per tutte le materie
di legislazione concorrente». - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 1 co. 5
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
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o
Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Ricorso della regione toscana - Assunta inclusione nella disciplina delle opere di interesse regionale Lamentato
eccesso
di
delega
Non
fondatezza
della
questione.
T
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La disciplina censurata non ha ad oggetto opere di interesse esclusivamente regionale - essa infatti fa
riferimento a infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici e di preminante
interesse nazionale nelle quali concorre l'interesse della Regione - sicché non si ravvisa alcuna illegittima
compressione delle attribuzioni regionali, sull'assunto che il legislatore delegato abbia posto in essere - in
violazione della delega - un regime derogatorio per le opere di interesse regionale. Non fondatezza della
questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 7, lettera e), del decreto legislativo 20 agosto
2002, n. 190, sollevata in riferimento all'art. 76 Cost. - Per la correzione di errore materiale occorso nella
epigrafe
di
questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 1 co. 7 co. lettera e)
Parametri costituzionali
Costituzione art. 76
T
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti - Opere
aventi carattere interregionale o internazionale - Ricorsi delle regioni marche e toscana e della provincia
autonoma di bolzano - Assunta esclusione della concorrenza dell’interesse regionale con il preminente
interesse nazionale - Premessa erronea - Non fondatezza della questione.
T
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E' erroneo l'assunto secondo cui per le opere di interesse interregionale o internazionale è esclusa la
concorrenza dell'interesse regionale con il preminente interesse nazionale; al contrario è assicurato il
coinvolgimento delle Regioni e Province interessate, poichè l'intesa generale di cui allo stesso decreto
legislativo n. 190 del 2002 ha ad oggetto, fra l'altro, la qualificazione delle opere e dunque la stessa
classificazione della infrastruttura come opera di interesse interregionale deve ottenere l'assenso
regionale. Non fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 7, lettera e), del
decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata in riferimento agli artt. 117, commi terzo, quarto e
sesto, e 118 Cost. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 1 co. 7 co. lettera e)
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117 co. 3
Costituzione art. 117 co. 4
Costituzione art. 117 co. 6
Costituzione art. 118
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 5
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 6
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 9
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 11
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 14
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 16
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 17
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 18
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 19
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 21
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 22
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 24
statuto regione Trentino Alto Adige art. 9 co. 1 co. numero 8
statuto regione Trentino Alto Adige art. 9 co. 1 co. numero 9
statuto regione Trentino Alto Adige art. 9 co. 1 co. numero 10
statuto regione Trentino Alto Adige art. 16
Altri parametri e norme interposte
decreto del Presidente della Repubblica 22/03/1974 n. 381 art. 19
decreto del Presidente della Repubblica 22/03/1974 n. 381 art. 20
T
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Compiti tecnici e amministrativi conferiti al ministero delle infrastrutture e dei trasporti - Ricorso della
provincia autonoma di bolzano - Assunta lesione delle attribuzioni amministrative riconosciute dallo
statuto
speciale
Non
fondatezza
della
questione.
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Il parallelismo tra funzioni legislative e amministrative concerne unicamente l'ambito provinciale e con
riferimento alle competenze statutarie; per le opere che trascendono l'ambito di interesse della Provincia,
alle quali si applica il d.lgs. n. 190 del 2002, lo Stato ha, invece, la possibilità di far agire il principio di
sussidiarietà attraendo e regolando funzioni amministrative. Non è, pertanto, fondata la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata,
nella parte in cui conferisce al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti compiti tecnici e
amministrativi ai fini della sollecita progettazione ed approvazione delle infrastrutture e degli
insediamenti produttivi, per assunta violazione delle norme sul riparto delle competenze, contenute
nell'art. 16 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige e nell'art. 4, comma 1, del decreto legislativo
16 marzo 1992, n. 266. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 2 co. 1
Parametri costituzionali
statuto regione Trentino Alto Adige art. 16
Altri parametri e norme interposte
decreto legislativo 16/03/1992 n. 266 art. 4 co. 1
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Procedimenti di approvazione (automatica variazione degli strumenti urbanistici, accertamento della
compatibilità ambientale, sostituzione di ogni altra autorizzazione, approvazione e parere) - Ricorso della
provincia autonoma di bolzano - Assunta lesione delle attribuzioni amministrative riconosciute dallo
statuto
speciale
Non
fondatezza
della
questione.
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o
Il parallelismo tra funzioni legislative e amministrative concerne unicamente l'ambito provinciale e con
riferimento alle competenze statutarie; per le opere che trascendono l'ambito di interesse della Provincia,
alle quali si applica il d.lgs. n. 190 del 2002, lo Stato ha, invece, la possibilità di far agire il principio di
sussidiarietà attraendo e regolando funzioni amministrative. Non sono, pertanto, fondate le questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 7, 2, commi 1, 2, 3, 4, 5 e 7, 3, commi 4, 5, 6 e 9, 13,
comma 5, e 15 del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevate - nella parte in cui prevedono
procedimenti di approvazione che comportano l'automatica variazione degli strumenti urbanistici,
determinano l'accertamento della compatibilità ambientale e sostituiscono ogni altra autorizzazione,
approvazione e parere - con riferimento al parametro dell'art. 4, comma 1, del decreto legislativo 16
marzo 1992, n. 266. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 1 co. 1
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 1 co. 7
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 2 co. 1
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 2 co. 2
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 2 co. 3
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 2 co. 4
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 2 co. 5
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 2 co. 7
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 3 co. 4
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 3 co. 5
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 3 co. 6
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 3 co. 9
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 13 co. 5
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 15
Parametri costituzionali
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 5
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 6
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 9
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 11
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 14
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 16
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 17
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 18
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 19
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 21
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 22
statuto regione Trentino Alto Adige art. 8 co. 1 co. numero 24
statuto regione Trentino Alto Adige art. 9 co. 1 co. numero 8
statuto regione Trentino Alto Adige art. 9 co. 1 co. numero 9
statuto regione Trentino Alto Adige art. 9 co. 1 co. numero 10
statuto regione Trentino Alto Adige art. 16
Altri parametri e norme interposte
decreto legislativo 16/03/1992 n. 266 art. 2
decreto legislativo 16/03/1992 n. 266 art. 4 co. 1
decreto legislativo 16/03/1992 n. 266 art. 4 co. 3
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Riserva al ministero delle infrastrutture e trasporti della promozione dell’attività di progettazione,
direzione ed esecuzione delle infrastrutture e del potere di assegnazione delle risorse integrative Ricorso della provincia autonoma di bolzano - Assunta lesione delle attribuzioni amministrative
riconosciute
dallo
statuto
speciale
Non
fondatezza
della
questione.
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Alle Province autonome non spetta nella materia delle opere alcuna competenza statutaria se non con
riguardo alle opere di interesse provinciale, alle quali il decreto legislativo n. 190 del 2002 non è
applicabile. Non fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi 2, 3, 4 e 5 del
decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata - nella parte in cui riserva al Ministero delle
infrastrutture e trasporti la promozione dell'attività di progettazione, direzione ed esecuzione delle
infrastrutture e il potere di assegnare le risorse integrative necessarie alle attività progettuali - per assunta
violazione delle norme sul riparto delle competenze, contenute nell'art. 16 dello Statuto speciale per il
Trentino-Alto Adige e nell'art. 4 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266. - Per la correzione di
errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi ordinanza n. 22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 2 co. 2
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 2 co. 3
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 2 co. 4
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 2 co. 5
Parametri costituzionali
statuto regione Trentino Alto Adige art. 16
Altri parametri e norme interposte
decreto legislativo 16/03/1992 n. 266 art. 4
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti - Opere
di carattere interregionale o internazionale - Nomina di commissari straordinari incaricati di seguirne
l’andamento, sentiti i presidenti delle regioni - Ricorsi delle regioni toscana e marche - Lamentata
lesione delle attribuzioni regionali e del principio di leale collaborazione, per la mancata adozione della
forma
dell’intesa
Non
fondatezza
della
questione.
T
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o
Non vi è alcuna prescrizione costituzionale dalla quale possa desumersi che il livello di collaborazione
regionale, in relazione a funzioni statali assunte per sussidiarietà, debba consistere in una vera e propria
intesa, anziché, come è previsto per le opere interregionali e internazionali, nella audizione dei Presidenti
delle Regioni e delle Province autonome in sede di nomina del commissario straordinario. Non
fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 5, del decreto legislativo 20
agosto 2002, n. 190, sollevata, nella parte in cui prevede che per la nomina di commissari straordinari
incaricati di seguire l'andamento delle opere aventi carattere interregionale o internazionale debbano
essere sentiti i Presidenti delle Regioni interessate, per assunta violazione degli artt. 117 e 118 Cost. e del
principio di leale collaborazione. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 2 co. 5
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Inerzia dei soggetti aggiudicatari regionali - Attribuzione di poteri sostitutivi a commissari statali
straordinari - Ricorsi delle regioni toscana e marche - Assunta lesione delle attribuzioni regionali e dei
principî costituzionali sui poteri sostitutivi - Non fondatezza della questione.
T
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o
Quando si applichi il principio di sussidiarietà di cui all'art. 118 Cost., quelle stesse esigenze unitarie che
giustificano l'attrazione in capo allo Stato di una funzione amministrativa e al tempo stesso il potere di
organizzarla e regolarla con legge, consentono di conservare allo Stato anche poteri acceleratori da
esercitare nei confronti degli organi della Regione che restino inerti. Non fondatezza della questione di
legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 7, del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata, in
riferimento agli artt. 117, 118 e 120 Cost., nella parte in cui consente al Presidente del Consiglio dei
ministri, su proposta del Ministro delle infrastrutture e trasporti, sentiti, per le infrastrutture di
competenza dei soggetti aggiudicatori regionali, i Presidenti delle Regioni e delle Province autonome, di
abilitare i Commissari straordinari ad adottare, con poteri derogatori della normativa vigente e con le
modalità e i poteri di cui all'art. 13 del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni
nella legge 23 maggio 1997, n. 135, i provvedimenti e gli atti di qualsiasi natura necessari alla sollecita
progettazione, istruttoria, affidamento e realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi,
in sostituzione dei soggetti competenti. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di
questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 2 co. 7
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Costituzione art. 120
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o
Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Procedura di approvazione del progetto preliminare delle infrastrutture, procedure di valutazione di
impatto ambientale (via) e localizzazione - Ricorsi delle regioni toscana e marche - Assunta lesione della
competenza regionale in materia di governo del territorio - Censura formulata in termini generici Inammissibilità
delle
questioni.
T
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o
Sono inammissibili i ricorsi proposti dalle Regioni Toscana e Marche avverso l'art. 3 del decreto
legislativo 20 agosto 2002, n. 190, che disciplina la procedura di approvazione del progetto preliminare
delle infrastrutture, le procedure di valutazione di impatto ambientale (VIA) e localizzazione, per
contrasto con l'art. 117 Cost. Infatti la censura è formulata in termini generici e non specifica quali parti
della disposizione censurata eccederebbero la potestà regolativa che pure non si disconosce allo Stato in
materia. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi ordinanza
n .
2 2 / 2 0 0 4 .
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 3
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Procedura per l’approvazione del progetto preliminare delle infrastrutture - Ricorso della regione toscana
- Lamentata soppressione del ruolo della conferenza dei servizi in violazione della delega - Non
fondatezza
della
questione.
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La delega legislativa contenuta nell'art. 1, comma 2, lettera d) della legge n. 443 del 2001, che autorizza
il Governo a riformare le procedure per la valutazione di impatto ambientale e l'autorizzazione integrata
ambientale, si riferisce all'approvazione del progetto definitivo dell'opera ed ha ricevuto attuazione
dall'art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 190 del 2002, e non dall'art. 3, comma 5, relativo, invece,
all'approvazione del progetto preliminare. Non fondatezza della questione di legittimità costituzionale
dell'art. 3, comma 5, del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata in riferimento all'art. 76
Cost., in relazione all'art. 1, comma 2, lettera d) della legge 21 dicembre 2001, n. 443. - Per la correzione
di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi ordinanza n. 22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 3 co. 5
Parametri costituzionali
Costituzione art. 76
Altri parametri e norme interposte
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 2 co. lettera d)
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti - Opere
di carattere interregionale e internazionale - Procedura per l’approvazione del progetto preliminare delle
infrastrutture - Superamento del dissenso regionale - Ricorsi delle regioni marche e toscana - Lamentata
lesione delle competenze regionali in materie di potestà legislativa concorrente - Non fondatezza, nei
sensi
di
cui
in
motivazione,
della
questione.
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Le procedure di superamento del dissenso regionale di cui all'art. 3, comma 6, lettera a) e lettera b)
rispondono al principio di sussidiarietà e alla istanza unitaria che lo sorregge e sono informate al
principio di leale collaborazione, avendo le Regioni la possibilità di rappresentare il loro punto di vista e
di motivare la loro valutazione negativa sul progetto, ovvero di "bloccare" l'approvazione del progetto
relativo ad opere di interesse regionale concorrente con quello statale, in attesa di una nuova valutazione
in sede di aggiornamento del programma. Non fondatezza nei sensi di cui in motivazione delle questioni
di legittimità costituzionale dell'art. 3, commi 6 e 9, del decreto legislativo 20 agosto 2002, sollevate in
relazione agli artt. 114, commi primo e secondo, 117, commi terzo, quarto e sesto, 118, commi primo e
secondo. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi ordinanza
n .
2 2 / 2 0 0 4 .
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 3 co. 6
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 3 co. 9
Parametri costituzionali
Costituzione art. 114 co. 1
Costituzione art. 114 co. 2
Costituzione art. 117 co. 3
Costituzione art. 117 co. 4
Costituzione art. 117 co. 6
Costituzione art. 118 co. 1
Costituzione art. 118 co. 2
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Approvazione del progetto definitivo - Dissenso della regione - Procedure per la localizzazione,
l’approvazione dei progetti, la via degli insediamenti produttivi e delle infrastrutture private strategiche
per l’approvvigionamento energetico - Ricorsi delle regioni toscana e marche - Lamentata lesione delle
competenze regionali in materia di potestà legislativa concorrente - Non fondatezza, nei sensi di cui in
motivazione,
delle
questioni.
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Le medesime ragioni che hanno consentito di respingere le censure rivolte verso l'art. 3, commi 6 e 9, del
d.lgs. n. 190 del 2002, consentono di rigettare anche le censure avverso l'art. 4, comma 5, e 13, comma 5,
nonché l'art. 13 nella parte che disciplina le procedure per la localizzazione, l'approvazione dei progetti,
la VIA degli insediamenti produttivi e delle infrastrutture private strategiche per l'approvvigionamento
energetico, che alle procedure previste nell'art. 3 predetto fanno espresso rinvio. Non fondatezza, nei
sensi di cui in motivazione, delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 5, 13,
comma 5, e 13 del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevate in riferimento agli artt. 114,
commi primo e secondo, 117, commi terzo, quarto e sesto, 118, commi primo e secondo. - Per la
correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi ordinanza n. 22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 4 co. 5
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 13
Parametri costituzionali
Costituzione art. 114 co. 1
Costituzione art. 114 co. 2
Costituzione art. 117 co. 3
Costituzione art. 117 co. 4
Costituzione art. 117 co. 6
Costituzione art. 118 co. 1
Costituzione art. 118 co. 2
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Normativa in materia di appalti e di concessioni di lavori pubblici - Ricorsi delle regioni toscana e
marche - Lamentata lesione delle attribuzioni regionali - Censure genericamente formulate Inammissibilità
delle
questioni.
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Sono inammissibili le censure di costituzionalità sollevate, per contrasto con l'art. 117 Cost., avverso gli
artt. 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 e 11, che, in relazione alle infrastrutture e agli insediamenti produttivi qualificati
come strategici, contengono un complesso insieme di innovazioni in materia di appalti e di concessioni
di lavori pubblici. Infatti le censure sono formulate in termini generici e non è onere che possa essere
addossato alla Corte discernere o selezionare i profili di competenza statale potenzialmente interferenti
con la disciplina regionale. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 4
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 5
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 6
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 7
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 8
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 9
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 10
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 11
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Procedimento di approvazione del progetto definitivo - Ricorso della regione toscana - Lamentata
violazione della legge delega sull’assunto della necessità del parere obbligatorio della conferenza
unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 281 del 1997 - Non fondatezza della questione.
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L'art. 4, comma 5, del decreto legislativo n. 190 del 2002, nella parte in cui prevede che l'approvazione
del progetto definitivo, adottata con il voto favorevole della maggioranza dei componenti il CIPE,
«sostituisce ogni altra autorizzazione, approvazione e parere comunque denominato e consente la
realizzazione e, per gli insediamenti produttivi strategici, l'esercizio di tutte le opere, prestazioni e attività
previste nel progetto approvato», costituisce attuazione del criterio di cui all'art. 1, comma 2, lettera c)
della legge di delega n. 443 del 2001. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 4, comma 5, del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata in riferimento all'art. 76
Cost., per il contrasto con l'art. 1, comma 3-bis, della legge n. 443 del 2001. - Per la correzione di errore
materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi ordinanza n. 22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 4 co. 5
Parametri costituzionali
Costituzione art. 76
Altri parametri e norme interposte
legge 21/12/2001 n. 443 art. 1 co. 3 co. bis
legge 01/08/2002 n. 166
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti - Lista
delle infrastrutture sulle quali raccogliere proposte da parte di promotori - Ricorso della regione toscana Lamentato eccesso di delega per mancata determinazione delle infrastrutture, nonché lesione delle
attribuzioni
regionali
Non
fondatezza
della
questione.
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L'interpretazione più piana e lineare dell'art. 8 del decreto legislativo n. 190 del 2002 - nella parte in cui
prevede che il Ministero delle infrastrutture e trasporti pubblichi sul proprio sito informatico e, una volta
istituito, sul sito informatico individuato dal Presidente del Consiglio dei ministri, nonché nelle Gazzette
Ufficiali italiana e comunitaria, la lista delle infrastrutture per le quali il soggetto aggiudicatore ritiene di
sollecitare la presentazione di proposte da parte di promotori, e se la proposta è presentata, stabilisce che
il soggetto aggiudicatore, valutata la stessa come di pubblico interesse, promuova la procedura di VIA e
se necessario la procedura di localizzazione urbanistica - è che debba riferirsi alle opere inserite nel
programma di cui all'art. 1, comma 1, della legge di delega n. 443 del 2001 e sulle quali si sia raggiunta
l'intesa. Non è pertanto fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 8 del decreto legislativo
20 agosto 2002, n. 190, sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117 Cost., sul presupposto che esso non
chiarisca a quali opere si riferisce, se a quelle già comprese nel programma di opere strategiche formato
d'intesa con le Regioni ai sensi dell'art. 1, comma 1, della legge delega n. 443 del 2001, o al contrario,
anche ad opere non facenti parte del programma e sulle quali nessuna intesa sia stata raggiunta con le
Regioni interessate. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 8
Parametri costituzionali
Costituzione art. 76
Costituzione art. 117
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Regolamenti governativi autorizzati - Ricorsi delle regioni toscana, marche e della provincia autonoma
di bolzano - Inidoneità dei regolamenti governativi adottati in delegificazione a disciplinare materie di
competenza
regionale
Illegittimità
costituzionale.
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E' costituzionalmente illegittimo l'art. 15, commi 1, 2, 3, 4. del decreto legislativo 20 agosto 2002, n.
190, nella parte in cui disciplina i regolamenti governativi autorizzati emanati in base alla legge n. 109
del 1994. Infatti l'art. 15 è attuativo dell'art. 1, comma 3, della legge n. 443 del 2001, anch'esso dichiarato
incostituzionale in quanto è inibito ai regolamenti governativi adottati in delegificazione disciplinare
materie di competenza regionale, trattandosi di fonti tra le quali non vi sono rapporti di gerarchia, ma di
separazione di competenza. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 15 co. 1
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 15 co. 2
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 15 co. 3
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 15 co. 4
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117 co. 6
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Norme transitorie - Ricorso della regione toscana - Censure rivolte a una pluralità di norme, diverse in
relazione allo stadio di realizzazione dell’opera - Lamentata lesione delle attribuzioni regionali Inammissibilità
della
questione.
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E' inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 del decreto legislativo 20 agosto
2002, n. 190, il quale contiene una pluralità di norme transitorie, diverse a seconda dello stadio di
realizzazione dell'opera al momento di entrata in vigore del decreto legislativo medesimo. Infatti non è
possibile indirizzare nei confronti di norme aventi contenuti differenti una censura unitaria fondata su un
solo motivo, per di più argomentato 'per relationem' con riferimento a motivi alcuni dei quali, a loro
volta, già dichiarati inammissibili per genericità. - Per la correzione di errore materiale occorso nella
epigrafe
di
questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 16
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Disciplina delle procedure di valutazione di impatto ambientale di opere e infrastrutture - Ricorsi delle
regioni marche e toscana - Assunta lesione delle attribuzioni delle regioni, competenti a regolare gli
strumenti attuativi della tutela dell’ambiente - Non fondatezza della questione.
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La sfera di applicazione del decreto legislativo n. 190 del 2002 è limitata alle opere che, con intesa fra lo
Stato e la Regione, vengono qualificate come di preminente interesse nazionale, con il quale concorre un
interesse regionale, sicché non vi è ragione di negare allo Stato il potere di disciplinare la procedura di
valutazione di impatto ambientale di opere e infrastrutture, tanto più che la tutela dell'ambiente e
dell'ecosistenza forma oggetto di una potestà esclusiva, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s),
che è sì interferente con una molteplicità di attribuzioni regionali, ma che non può essere ristretta al
punto di conferire alle Regioni, anziché allo Stato, ogni determinazione al riguardo. Non fondatezza della
questione di legittimità costituzionale degli artt. 17, 18, 19, commi 1 e 3, e 20 del decreto legislativo 20
agosto 2002, sollevata, in riferimento all'art. 117 Cost., nella parte in cui dettano una disciplina della
procedura di valutazione di impatto ambientale di opere e infrastrutture che derogherebbe a quella
regionale, cui dovrebbe riconoscersi la competenza a regolare gli strumenti attuativi della tutela
dell'ambiente. - Sulla potestà esclusiva di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., v. citate
sentenze nn. 536 e 407/2002. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 17
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 18
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 19 co. 1
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 19 co. 3
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 20
Parametri costituzionali
Costituzione art. 117
T
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici di
preminente interesse nazionale - Decreto legislativo attuativo della delega al governo per la definizione
del quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti Valutazione di impatto ambientale - Commissione speciale di istituzione statale - Ricorsi delle regioni
toscana e marche - Lesione delle attribuzioni regionali per la mancata previsione di una partecipazione
regionale
Illegittimità
costituzionale
'in
parte
qua'.
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E' costituzionalmente illegittimo l'art. 19, comma 2, del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, il
quale demanda la valutazione di impatto ambientale a una Commissione speciale istituita con decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'ambiente. Infatti la mancata
previsione di una partecipazione regionale in tale Commissione, determina una lesione degli artt. 9, 32,
117 e 118 Cost. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa sentenza, vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 20/08/2002 n. 190 art. 19 co. 2
Parametri costituzionali
Costituzione art. 9
Costituzione art. 32
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
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Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture di telecomunicazioni strategiche per la modernizzazione e
lo sviluppo del paese - Decreto legislativo per la realizzazione - Censura dell’intero atto - Ricorsi delle
regioni campania, toscana, marche, basilicata, emilia-romagna, umbria, lombardia - Eccesso di delega
per mancata individuazione delle infrastrutture da inserirsi annualmente nel programma approvato dal
cipe, per violazione dei limiti di oggetto e di principî - Vulnerazione delle attribuzioni costituzionali
delle regioni - Illegittimità costituzionale - Assorbimento delle censure sulle singole disposizioni.
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E' costituzionalmente illegittimo, per eccesso di delega, il decreto legislativo 4 settembre 2002, n. 198, il
quale nel realizzare la delega contenuta nell'art. 1, comma 2, della legge n. 443 del 2001, per la
individuazione delle infrastrutture pubbliche e private e degli insediamenti produttivi strategici di
interesse nazionale, non ha introdotto il previsto programma da formularsi su proposta dei Ministri
competenti, sentite le Regioni interessate ovvero su proposta delle Regioni sentiti i Ministri competenti. Sulla possibilità di proporre il vizio di eccesso di delega nel giudizio promosso in via principale, v. citate
sentenze n. 353/2001, n. 503/2000, n. 408/1998, n. 87/1996. - Per la correzione di errore materiale
occorso
nella
epigrafe
di
questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 04/09/2002 n. 198
Parametri costituzionali
Costituzione art. 76
Costituzione art. 3
Costituzione art. 9
Costituzione art. 32
Costituzione art. 41
Costituzione art. 42
Costituzione art. 44
Costituzione art. 70
Costituzione art. 77
Costituzione art. 97
Costituzione art. 114
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Costituzione art. 119
Altri parametri e norme interposte
trattato cee art. 174
T
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o
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o
Lavori pubblici - Grandi opere - Infrastrutture di telecomunicazioni strategiche per la modernizzazione e
lo sviluppo del paese - Decreto legislativo per la realizzazione - Ricorso del comune di vercelli, “per
sollevare questione di legittimità costituzionale e conflitto di attribuzione” - Impossibilità di estendere il
potere di impugnazione di leggi statali, affidato alle regioni, in via interpretativa ai diversi enti territoriali
Inammissibilità
del
ricorso.
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s
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E' inammissibile il ricorso proposto dal Comune di Vercelli avverso il decreto legislativo 4 settembre
2002, n. 198. Infatti, per un lato, l'art. 127 Cost., con formulazione dal tenore inequivoco, ha affidato la
titolarità del potere di impugnazione di leggi statali, in via esclusiva alla Regione, né la revisione del
Titolo V della Parte II della Costituzione consente di estendere tale potere in via interpretativa ai diversi
enti territoriali. Per altro aspetto, l'art. 134 Cost. attribuisce la titolarità del potere di proporre ricorso per
conflitto di attribuzione alle Regioni, e non sussiste alcun elemento letterale o sistematico che consente
di superare tale limitazione soggettiva, mentre resta ferma, anche dopo la revisione costituzionale del
2001, la diversità fra i giudizi in via di azione sulle leggi e i conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni, i
quali ultimi non possono riguardare atti legislativi. - Per la correzione di errore materiale occorso nella
epigrafe
di
questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo 04/09/2002 n. 198
Parametri costituzionali
Costituzione art. 127
Costituzione art. 134
Altri parametri e norme interposte
legge 11/03/1953 n. 87 art. 39 co. 3
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Questione di legittimità costituzionale in via principale - Ricorso delle regioni campania, toscana,
marche, basilicata, emilia-romagna, umbria e lombardia - Intervento 'ad adiuvandum' di h3g s.p.a., t.i.m.
s.p.a.-telecom italia mobile, vodafone omnitel n.v., wind telecomunicazioni s.p.a., comuni di
pontecurone, monte porzio catone, roma, polignano a mare, mantova, associazioni consumatori
(codacons)
Inammissibilità.
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Sono inammissibili gli interventi spiegati dalle società H3G s.p.a., T.I.M. s.p.a. - Telecom Italia Mobile,
Vodafone Omnitel N.V. (già Vodafone Omnitel s.p.a.), Wind Telecomunicazioni s.p.a. e quelli proposti,
peraltro tardivamente, dai Comuni di Pontecurone, Monte Porzio Catone, Roma, Polignano a Mare,
Mantova e del Coordinamento delle associazioni consumatori (CODACONS). Infatti trattasi di soggetti
diversi dalla parte ricorrente e dal titolare della potestà legislativa il cui esercizio è oggetto di
contestazione, i quali soli sono legittimati ad intervenire 'ad adiuvandum' nei giudizi di legittimità
costituzionale in via di azione. - Per la correzione di errore materiale occorso nella epigrafe di questa
sentenza,
vedi
ordinanza
n.
22/2004.
Pronuncia
N. 303
SENTENZA 25 SETTEMBRE - 1° OTTOBRE 2003
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Riccardo CHIEPPA; Giudici: Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio
ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Ugo DE SIERVO, Romano
VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'articolo 1, commi da 1 a 12 e 14, della legge 21 dicembre
2001, n. 443 (Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri
interventi per il rilancio delle attività produttive); dell'art. 13, commi 1, 3, 4, 5, 6 e 11, della legge 1°
agosto 2002, n. 166, (Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti); degli articoli da 1 a 11, 13 e da
15 a 20 del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190 (Attuazione della legge 21 dicembre 2001, n. 443,
per la realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale);
del decreto legislativo 4 settembre 2002, n. 198 (Disposizioni volte ad accelerare la realizzazione delle
infrastrutture di telecomunicazioni strategiche per la modernizzazione e lo sviluppo del Paese, a norma
dell'articolo 1, comma 2, della legge 21 dicembre 2001, n. 443) ed allegati A, B, C e D dello stesso
decreto legislativo n. 198 del 2002; promossi con ricorsi: della Regione Marche, notificati il 22 febbraio,
il 25 ottobre e il 12 novembre 2002, depositati il 28 febbraio, il 31 ottobre e il 18 novembre 2002,
rispettivamente iscritti ai numeri 9, 81 e 86 del registro ricorsi 2002; della Regione Toscana, notificati il
22 febbraio, il 1° e il 24 ottobre, e l'11 novembre 2002, depositati il 1° marzo, il 9 e il 30 ottobre, e il 16
novembre 2002, rispettivamente iscritti ai numeri 11, 68, 79 e 85 del registro ricorsi 2002; della Regione
Umbria, notificati il 22 febbraio e l'11 novembre 2002, depositati il 4 marzo e il 19 novembre 2002,
rispettivamente iscritti ai numeri 13 e 89 del registro ricorsi 2002; della Provincia autonoma di Trento,
notificati il 22 febbraio e il 25 ottobre 2002, depositati il 4 marzo e il 5 novembre 2002, rispettivamente
iscritti ai numeri 14 e 83 del registro ricorsi 2002; della Regione Emilia-Romagna, notificati il 23
febbraio e il 12 novembre 2002, depositati il 5 marzo e il 19 novembre 2002, rispettivamente iscritti ai
numeri 15 e 88 del registro ricorsi 2002; della Provincia autonoma di Bolzano, notificato il 25 ottobre
2002, depositato il 31 successivo ed iscritto al n. 80 del registro ricorsi 2002; della Regione Campania,
notificato il 12 novembre 2002, depositato il 16 successivo ed iscritto al n. 84 del registro ricorsi 2002;
della Regione Basilicata, notificato il 12 novembre 2002, depositato il 19 successivo ed iscritto al n. 87
del registro ricorsi 2002; della Regione Lombardia, notificato il 12 novembre 2002, depositato il 21
successivo ed iscritto al n. 90 del registro ricorsi 2002; e del Comune di Vercelli, notificato il 12
novembre 2002, depositato il 21 successivo ed iscritto al n. 91 del registro ricorsi 2002.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri, nonché gli atti di intervento
dell'Associazione Italia Nostra-Onlus ed altre, della Società Wind Telecomunicazioni s.p.a., della
Vodafone Omnitel s.p.a., della Società H3G s.p.a., della T.I.M. s.p.a. - Telecom Italia Mobile e dei
Comuni di Pontecurone, Monte Porzio Catone, Roma, Polignano a Mare, Mantova e del Coordinamento
delle associazioni consumatori (CODACONS);
udito nell'udienza pubblica del 25 marzo 2003 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte;
uditi gli avvocati Stefano Grassi per la Regione Marche; Vito Vacchi, Lucia Bora e Fabio Lorenzoni
per la Regione Toscana; Giandomenico Falcon e Maurizio Pedetta per la Regione Umbria;
Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Provincia autonoma di Trento; Giandomenico Falcon, Luigi
Manzi e Fabio Dani per la Regione Emilia-Romagna; Roland Riz e Sergio Panunzio per la Provincia
autonoma di Bolzano; Beniamino Caravita di Toritto e Massimo Luciani per la Regione Lombardia;
Vincenzo Cocozza per la Regione Campania; Antonino Cimellaro e Carlo Rienzi per il Comune di
Vercelli; Corrado V. Giuliano per l'Associazione Italia Nostra-Onlus ed altre; Beniamino Caravita di
Toritto e Vittorio D. Gesmundo per la Società Wind Telecomunicazioni s.p.a.; Marco Sica e Mario
Libertini per la Vodafone Omnitel s.p.a.; Nicolò Zanon per la Società H3G s.p.a.; Giuseppe De
Vergottini, Mario Sanino e Carlo Malinconico per la T.I.M. s.p.a. - Telecom Italia Mobile; Antonino
Cimellaro e Carlo Rienzi per il Comune di Pontecurone; Antonino Cimellaro per i Comuni di Monte
Porzio Catone e Mantova; Sebastiano Capotorto per il Comune di Roma; Vito Aurelio Pappalepore per il
Comune di Polignano a Mare; Carlo Rienzi per il CODACONS; e l'avvocato dello Stato Paolo Cosentino
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Con distinti ricorsi, ritualmente notificati e depositati, le Regioni Marche, Toscana, Umbria ed
Emilia-Romagna e la Provincia autonoma di Trento hanno sollevato questione di legittimità
costituzionale - in riferimento agli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione e, limitatamente alla
Provincia autonoma di Trento, all'articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche
al titolo V della parte seconda della Costituzione) - dell'art. 1 della legge 21 dicembre 2001, n. 443
(Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per
il rilancio delle attività produttive), anche detta "legge obiettivo".
In particolare, le Regioni Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna hanno denunciato i commi da 1 a 12
ed il comma 14 del menzionato art. 1, mentre la Regione Marche ha impugnato soltanto i commi da 1 a
5. La Provincia autonoma di Trento ha censurato a sua volta i commi da 1 a 4 dello stesso art. 1,
precisando di non ritenere lese le prerogative ad essa spettanti in forza dello statuto e delle norme di
attuazione, bensì affermando di voler denunciare l'incostituzionalità della legge n. 443 del 2001 "in
quanto essa contraddice l'ulteriore livello di autonomia, spettante alla Provincia ai sensi dell'art. 117 della
Costituzione" e dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, il quale estende alle Regioni ad
autonomia differenziata le previsioni del Titolo V della Parte II della Costituzione "per le parti in cui
prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite".
2. - Quanto alle singole censure, tutte le ricorrenti denunciano il comma 1 dell'art. 1 della legge n.
443 del 2001, il quale attribuisce al Governo il compito di individuare le infrastrutture pubbliche e
private e gli insediamenti produttivi strategici e di preminente interesse nazionale da realizzare per la
modernizzazione del Paese.
Si lamenta anzitutto la violazione dell'art. 117 Cost., adducendosi al riguardo che il predetto compito
non è ascrivibile ad alcuna delle materie di competenza legislativa esclusiva statale.
Le Regioni Umbria ed Emilia-Romagna e la Provincia autonoma di Trento sostengono, inoltre, che,
non essendo più contemplata dall'art. 117 Cost. la materia dei "lavori pubblici di interesse nazionale",
non sarebbe nemmeno possibile far riferimento alla dimensione nazionale dell'interesse così da escludere
la potestà legislativa regionale, atteso che la scelta del legislatore costituzionale è stata proprio quella di
considerare detta dimensione come rilevante in relazione al riparto solo nell'ambito di quanto assegnato
allo Stato a titolo di potestà legislativa esclusiva o concorrente.
Le Regioni Marche e Toscana adducono poi che l'individuazione delle grandi opere potrebbe, in
parte, rientrare in uno degli ambiti materiali individuati dall'art. 117, terzo comma, Cost. (quali porti e
aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale
dell'energia), ma la disposizione censurata, da un lato, prevederebbe una disciplina di dettaglio e non di
principio e dunque lesiva dell'autonomia legislativa regionale; dall'altro escluderebbe le Regioni dal
processo "codecisionale", che dovrebbe essere garantito in base allo strumento dell'intesa tra Stato e
Regioni medesime.
Tale ultimo profilo di censura, sia pure in subordine all'assunto per cui nella specie non sarebbe
comunque possibile far riferimento ad alcuna delle materie elencate nel terzo comma dell'art. 117 Cost.,
è fatto proprio anche dalle Regioni Umbria ed Emilia-Romagna e dalla Provincia autonoma di Trento,
secondo le quali la potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni su tali opere, chiaramente
anche di interesse "nazionale", richiederebbe che su di esse vi sia un coinvolgimento di entrambi i livelli
di governo.
In definitiva, si ritiene che la disposizione del comma 1 violi anche il principio di leale
collaborazione, giacché non prevede che l'individuazione delle c.d. grandi opere sia determinata dalle
Regioni, o quanto meno dal Governo d'intesa con le Regioni interessate.
2.1. - Il comma 1 dell'art. 1 viene altresì specificamente denunciato dalla Regione Marche per
contrasto con gli artt. 118 e 119 Cost. In difetto di una puntuale indicazione dei presupposti che
giustificano, in base a sussidiarietà, un'allocazione a livello centrale delle funzioni relative alla
programmazione, decisione e realizzazione delle singole opere strategiche oggetto della disciplina
censurata, risulterebbe violato il primo comma dell'art. 118 Cost.
La ricorrente rileva inoltre che la disposizione censurata non potrebbe giustificarsi neppure come una
forma di intervento previsto dall'art. 119, quinto comma, Cost., ossia quale attribuzione di risorse
aggiuntive e di interventi speciali in favore delle singole autonomie locali, giacché essa si limita a
prevedere una competenza generale dello Stato sulla determinazione di programmi e interventi da
realizzarsi in futuro e rispetto ai quali dovranno definirsi e ricercarsi le relative risorse. Così, attribuendo
al Governo il compito di reperire tutti i finanziamenti allo scopo disponibili, la disposizione denunciata
verrebbe ad incidere sull'autonomia finanziaria delle Regioni, costituzionalmente garantita "in relazione
al reperimento delle risorse per la realizzazione delle infrastrutture la cui decisione rientra nella
competenza regionale".
3. - Tutte le ricorrenti impugnano poi il comma 2 dell'art. 1 della "legge obiettivo", che detta - dalla
lettera a) alla lettera o) - i principî ed i criteri direttivi in base ai quali il Governo è chiamato ad emanare,
entro 12 mesi dall'entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi "volti a definire un quadro
normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti individuati ai sensi
del comma 1".
In base ad analoghe censure, che evocano il contrasto con l'art. 117 Cost., si deduce anzitutto che la
prevista normativa, in quanto derogatoria della legge quadro sui lavori pubblici (legge 11 febbraio 1994,
n. 109), violerebbe la potestà legislativa esclusiva delle Regioni in materia di appalti e lavori pubblici.
Si sostiene inoltre che, pur nella ipotesi in cui si intenda riconoscere in materia una potestà
legislativa concorrente, sarebbero egualmente violate le competenze regionali perché il denunciato
comma 2 detta principî non già alle Regioni ma al Governo e ciò attraverso una disciplina compiuta e di
dettaglio, non cedevole rispetto ad una eventuale futura legislazione regionale.
In particolare le Regioni Umbria ed Emilia-Romagna, nonché la Provincia autonoma di Trento,
affermano che la disposizione del comma 2 sarebbe ben lungi dal conformarsi al modello costituzionale,
per il quale, anche in relazione alle opere maggiori, la competenza legislativa ripartita deve riflettersi in
una gestione congiunta tra Stato e Regioni in "tutti i momenti in cui l'amministrazione di tali opere si
scompone, secondo le regole dei principî di sussidiarietà e di leale cooperazione".
3.1. - La sola Regione Marche assume altresì l'esistenza della violazione degli artt. 117, quarto
comma, 118 e 119 Cost., nella parte in cui il comma 2 prevede criteri direttivi rivolti all'esercizio di
competenze amministrative e al reperimento e all'organizzazione delle risorse.
3.2. - Le Regioni Umbria ed Emilia-Romagna, nonché la Provincia autonoma di Trento sollevano
inoltre ulteriori specifiche censure avverso le lettere g) ed n), del comma 2, lamentandone il contrasto
con il "diritto europeo".
Quanto alla lettera g), nella parte in cui circoscrive l'obbligo per il soggetto aggiudicatore di
rispettare la normativa europea in tema di evidenza pubblica solo "nel caso in cui l'opera sia realizzata
prevalentemente con fondi pubblici", si tratterebbe di previsione che non trova riscontro nella direttiva
93/37 CEE, neppure nel caso del ricorso all'istituto della concessione di lavori pubblici (art. 3, § l) o
all'affidamento ad unico soggetto contraente generale. Essendo, infatti, pur sempre quello dell'appalto di
lavori un contratto a titolo oneroso tra un imprenditore e un'amministrazione aggiudicatrice, la stessa
partecipazione diretta al finanziamento dell'opera o il reperimento dei mezzi finanziari occorrenti, da
parte del contraente generale [comma 2, lettera f)], non rileverebbe ai fini dell'esenzione dal regime
comunitario.
Secondo la Regione ricorrente l'interesse a siffatta censura si radicherebbe sia nella titolarità di
competenza legislativa concorrente, sia nel fatto che l'emanazione di disposizioni contrastanti con la
normativa europea "renderà non più semplice ma al contrario più difficoltosa la realizzazione delle
opere", cui la Regione stessa ha interesse, per il probabile avvio di contestazioni in sede comunitaria.
Da tale ultimo profilo muove l'ulteriore censura che investe la lettera n), seconda frase, dello stesso
comma 2, nella parte in cui restringe, per tutti gli "interessi patrimoniali", la tutela cautelare al
"pagamento di una provvisionale". Questa disposizione - che preclude la sospensione del provvedimento
impugnato e rende possibile la prosecuzione della gara fino alla stipulazione del contratto, consolidando
gli effetti di eventuali atti illegittimi compiuti nella procedura di gara - si porrebbe in contrasto con la
direttiva 89/665/CEE (c.d. direttiva ricorsi), riducendo "le possibilità di tutela piena per i concorrenti che
lamentino violazioni delle norme comunitarie in materia di appalti" e ciò in quanto anticiperebbe alla
fase cautelare quella limitazione della tutela al risarcimento del danno che l'art. 2, paragrafo 6, della
citata direttiva consente nella fase successiva alla "stipulazione di un contratto in seguito
all'aggiudicazione dell'appalto".
Una scelta, questa, che - oltre a risultare incompatibile con l'art. 113 Cost. - potrebbe determinare
"un forte aggravio dei costi, data la necessità di pagare due volte il profitto d'impresa (una volta a titolo
di compenso, la seconda a titolo di danno)" e tale, in ogni caso, da rendere presumibile una reazione
negativa da parte delle autorità comunitarie e delle imprese interessate, così da "complicare ulteriormente
la vicenda delle opere interessate".
4. - È poi denunciato, da tutte le ricorrenti, il comma 3, che abilita il Governo a modificare o
integrare il regolamento di attuazione della legge quadro sui lavori pubblici n. 109 del 1994, adottato con
d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, ponendosi così in contrasto con l'art. 117, sesto comma, Cost., secondo
il quale lo Stato non avrebbe alcuna potestà regolamentare nella predetta materia.
5. - Tutte le parti ricorrenti impugnano inoltre il comma 4, che delega il Governo, limitatamente agli
anni 2002 e 2003, ad emanare, nel rispetto dei principî e dei criteri direttivi di cui al precedente comma
2, uno o più decreti legislativi recanti l'approvazione definitiva di specifici progetti di infrastrutture
strategiche individuate secondo quanto previsto al comma 1.
Le censure mosse dalle ricorrenti, che si svolgono secondo argomentazioni già sviluppate in
riferimento alla questione concernente il comma 2, evidenziano che le cosiddette "infrastrutture
strategiche" rientrano in parte in materie di potestà legislativa concorrente, in parte in materie di potestà
legislativa regionale residuale, sicché non sarebbe ammissibile, in riferimento a queste ultime,
l'intervento di alcun "decreto legislativo" per la diretta approvazione definitiva dell'opera, mancando
appunto la potestà legislativa statale specifica nella materia.
6. - La sola Regione Marche censura il comma 5, sostenendo che la prevista clausola di salvaguardia
in favore delle autonomie speciali confermerebbe "la violazione, a danno delle Regioni di diritto
comune, delle competenze costituzionalmente garantite dagli artt. 117, 118 e 119 Cost.".
7. - Le Regioni Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna denunciano infine i commi da 6 a 12 ed il
comma 14 dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001, che dettano una disciplina in materia edilizia.
Nel delineare sinteticamente il contenuto delle censurate disposizioni, le ricorrenti evidenziano,
segnatamente, che con il comma 6 si indicano alcuni interventi edilizi per i quali l'interessato può
scegliere la realizzazione "in base a semplice denuncia di inizio di attività" in alternativa a concessione o
autorizzazione edilizia; ad esso si ricollega il comma 12, il quale stabilisce che "le disposizioni di cui al
comma 6 si applicano nelle Regioni a statuto ordinario a decorrere dal novantesimo giorno dalla data di
entrata in vigore della presente legge", e che le stesse Regioni "con legge, possono individuare quali
degli interventi indicati al comma 6 sono assoggettati a concessione edilizia o ad autorizzazione
edilizia".
Le censure, di analogo tenore, prospettano la violazione dell'art. 117 Cost., sostenendosi, in linea
principale, che l'edilizia rientra nelle materie a potestà legislativa residuale delle Regioni e dunque non
potrebbe essere oggetto di disciplina statale.
In ogni caso, secondo le ricorrenti, ove si intendesse ricondurre la materia dell'edilizia a quella del
governo del territorio e, quindi, a materia di legislazione concorrente, sarebbe egualmente violato l'art.
117 Cost., in quanto le disposizioni denunciate pongono una disciplina analitica e dettagliata, non
limitandosi dunque a dettare i principî fondamentali.
In particolare, poi, avverso il comma 12 la Regione Toscana deduce che la norma, rendendo
applicabile alle Regioni quanto disposto dal comma 6, vanificherebbe le leggi regionali che hanno
disciplinato procedure e titoli abilitativi per l'attività edilizia.
Le Regioni Umbria ed Emilia-Romagna precisano altresì che, seppure il denunciato comma 12
ritarda di novanta giorni l'applicazione del comma 6 e consente alle leggi regionali di individuare quali
degli interventi indicati dal medesimo comma continuino ad essere assoggettati a concessione edilizia o
ad autorizzazione edilizia, tuttavia, da un lato, permarrebbe il carattere operativo e non di principio della
disciplina statale; dall'altro, al legislatore regionale sarebbe lasciata soltanto la scelta "di fissare se per un
certo intervento è necessario o meno il previo provvedimento, mentre i commi 8, 9 e 10, che pure
contengono mere norme procedurali e di dettaglio, appaiono intangibili da parte del legislatore
regionale".
Sempre le Regioni Umbria ed Emilia-Romagna svolgono ulteriori considerazioni
sull'incostituzionalità del comma 14, il quale delega il Governo a modificare il testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui all'art. 7 della legge 8 marzo 1999, n.
50, per adeguarlo alle modifiche disposte dalla legge n. 443.
Ad avviso delle ricorrenti, sarebbe il concetto stesso di testo unico a violare il riparto costituzionale
delle competenze e ciò non soltanto per le materie "residuali regionali", nelle quali non è prevista, in
linea di principio, alcuna interferenza della normativa statale, ma anche per le materie di competenza
concorrente; per queste ultime la diretta disciplina operativa dovrebbe essere essenzialmente regionale,
con il vincolo di conformazione ai principî della legislazione statale. Non sarebbe, pertanto, possibile
emanare un "testo unico" delle disposizioni relative ad una materia concorrente, giacché un simile testo
conterrebbe norme statali per le quali sarebbe naturale la impossibilità di applicazione in ambito
regionale "se non attraverso il vincolo che i principî esercitano sulla legislazione regionale, per
definizione esclusa dal testo unico".
Risulterebbe, poi, paradossale - sostengono ancora le ricorrenti - la concezione di un testo unico
(come nel caso dell'edilizia) delle disposizioni statali legislative e regolamentari, atteso che già nel
precedente assetto costituzionale non poteva aversi, nelle materie di competenza legislativa regionale,
una normativa statale regolamentare.
8. - Con memorie di identico contenuto, si è costituito in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la reiezione
dei ricorsi.
Quanto alla dedotta incostituzionalità dell'art. 1, comma 1, della legge n. 443 del 2001, per cui si
lamenta l'omessa previsione legislativa di una intesa tra Stato e Regioni interessate, la difesa del
Presidente del Consiglio osserva, anzitutto, che la materia dei lavori pubblici non rientra nella potestà
legislativa residuale regionale e ciò in quanto, nel testo riformato dell'art. 117 Cost., nel quale non
compare il riferimento alla materia dei lavori pubblici di interesse regionale, si sarebbe adottato il
"criterio della strumentalità" di detta materia (già presente nel decreto legislativo n. 112 del 1998). In tal
senso, allo Stato sarebbe attribuita la "potestà legislativa di principio" in tema di appalti che sono
riferibili a quelle materie rientranti nella potestà legislativa concorrente (porti e aeroporti; grandi reti di
trasporto e di navigazione; distribuzione nazionale dell'energia; protezione civile).
Peraltro, argomenta ancora l'Avvocatura dello Stato, dovrebbe escludersi, in ogni caso, la necessità
dello strumento dell'intesa in ordine all'attività diretta all'individuazione di un'opera pubblica, giacché
essa non richiede esercizio di potestà legislativa, trattandosi di "esplicazione della funzione
amministrativa, come tale disciplinata dall'art. 118 Cost.". Sicché, venendo in rilievo, nella fattispecie,
l'individuazione e la realizzazione di opere di "preminente interesse nazionale", sarebbe "in re ipsa che,
per assicurarne l'esercizio unitario, siffatte funzioni non possano che spettare allo Stato".
Nondimeno, il fatto che la disposizione censurata preveda, quanto all'attività di individuazione
dell'opera, la compartecipazione delle Regioni, sia in proprio, sia come componenti della Conferenza
unificata, indurrebbe ad escludere che vi sia un vulnus alle competenze costituzionalmente garantite alle
Regioni stesse.
Altrettanto infondate sarebbero, ad avviso della difesa erariale, le censure mosse al comma 2 dell'art.
1, posto che l'avere la disposizione dettato principî e criteri direttivi per la futura attività normativa di
delegazione, sì da consentire - secondo la prospettata doglianza - l'emanazione di una disciplina di
dettaglio e, quindi, invasiva delle competenze regionali, non concreterebbe una lesione delle prerogative
costituzionali delle Regioni, bensì "una mera eventualità" di lesione. Di dette prerogative la legge n. 443
del 2001 avrebbe, comunque, tenuto conto, prevedendo (al comma 3) il parere della Conferenza
unificata.
In riferimento, poi, alla censura che investe il comma 3 dell'art. 1 - a supporto della quale si adduce
la carenza di potestà regolamentare in capo allo Stato - l'Avvocatura ribadisce la natura concorrente della
competenza legislativa nel settore dei lavori pubblici, potendo così lo Stato, "per il principio di
continuità", dettare una disciplina di dettaglio, "seppur con carattere di cedevolezza".
Quanto, inoltre, alle doglianze mosse avverso i commi 6 e seguenti dello stesso art. 1 - le quali fanno
leva sull'asserita violazione dell'art. 117 Cost., per essere la materia dell'edilizia ricompresa nella sfera di
competenza legislativa esclusiva regionale e, in ogni caso, ove ricondotta tale materia al governo del
territorio, per aver le disposizioni denunciate previsto una disciplina di dettaglio - la difesa erariale
ricorda che le norme censurate riguardano le condizioni per il rilascio di concessioni ed autorizzazioni
edilizie e i casi in cui a siffatti provvedimenti può sostituirsi, facoltativamente, la denuncia di inizio
attività; riguardano cioè l'attività di "uso e governo del territorio", in quanto tale rientrante nella
competenza concorrente di cui all'art. 117, terzo comma, Cost.
Ad avviso dell'Avvocatura, dovrebbe comunque escludersi che in tal caso sia stata adottata una
normativa di dettaglio: la previsione, "a livello di principio", della "surrogabilità della concessione
edilizia con la denuncia di inizio attività, in presenza di particolari condizioni obiettive", supererebbe,
infatti, il principio, contenuto in altra legge statale, per il quale era possibile il ricorso alla denuncia di
inizio attività soltanto in relazione ad interventi edilizi minori.
9. - Le ricorrenti hanno ribadito le rispettive ragioni con memoria illustrativa depositata in prossimità
dell'udienza pubblica fissata per il 19 novembre 2002 e poi rinviata al 25 marzo 2003.
9.1. - Nelle memorie si puntualizza, tra l'altro, che la disciplina posta dalla legge impugnata è stata
innovata dall'art. 13 della legge 1° agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in materia di infrastrutture e
trasporti), che, in particolare, ha sostituito il comma 1 dell'art. 1 (concernente le modalità di
individuazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici) ed il successivo comma 2,
lettera c) (sulle procedure di approvazione dei relativi progetti).
Tuttavia, ad avviso delle ricorrenti, le predette norme, così come innovate, conservano i vizi di
incostituzionalità già dedotti nei vari ricorsi proposti avverso la legge n. 443 del 2001.
In particolare, secondo le Regioni Umbria ed Emilia-Romagna e la Provincia autonoma di Trento, le
ricordate modifiche non inciderebbero sull'interesse al ricorso, non essendo venuto meno l'impianto
fondamentale della legge n. 443 del 2001, basato sulla attrazione alla competenza statale non solo della
programmazione, ma anche dell'approvazione dei progetti e, in buona parte, della realizzazione delle
opere - sia pubbliche che private - tramite la semplice soggettiva qualificazione delle stesse come
"strategiche" e di "preminente interesse nazionale". Sicché, la "norma" censurata sarebbe ancora presente
nella disposizione impugnata e quindi la questione di costituzionalità sollevata non avrebbe affatto
"perso d'attualità, riguardando l'art. 1, comma 1, della legge n. 443 del 2001, come modificato dalla
legge n. 166 del 2002".
In ogni caso, sostengono ancora le ricorrenti, l'originaria disposizione è già stata attuata con la
deliberazione 21 dicembre 2001 del Comitato interministeriale per la programmazione economica
(CIPE) [Legge obiettivo: I° Programma delle infrastrutture strategiche (Delibera n. 121/2001)], "sicché
l'interesse al ricorso permane anche in relazione alla formulazione originaria della disposizione".
9.2. - La Regione Toscana, diversamente dalle altre parti ricorrenti, ha inoltre dichiarato di non voler
più insistere nella denuncia dei commi da 6 a 12 e del comma 14, poiché tale normativa è stata oggetto di
successiva modifica da parte dell'art. 13 della legge n. 166 del 2002, nel senso del riconoscimento della
validità delle leggi regionali emanate in materia edilizia e della possibilità per le Regioni di ampliare o
ridurre l'ambito applicativo dei titoli abilitativi previsti dal legislatore nazionale.
10. - Anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria nel giudizio
promosso dalla Provincia autonoma di Trento con la quale insiste per il rigetto del ricorso, evidenziando
in particolare che le modifiche apportate dalla legge n. 166 del 2002 alla legge impugnata sarebbero tali
da determinare la carenza di interesse a ricorrere in relazione a tutte le censure imperniate sul difetto di
una previa intesa Stato-Regioni.
11. - In prossimità dell'udienza pubblica del 25 marzo 2003 hanno depositato ulteriori memorie
illustrative le Regioni Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna nonché la Provincia autonoma di Trento.
11.1. - Nel ribadire le argomentazioni svolte nei precedenti scritti la Regione Toscana ritiene altresì
che le disposizioni denunciate non potrebbero trovare giustificazione neppure in base all'art. 120 Cost.
Mancherebbe infatti la legge che disciplina le procedure atte a garantire l'esercizio del potere sostitutivo
nel rispetto del principio di sussidiarietà e, in ogni caso, tale esercizio non potrebbe mai essere consentito
in base a previsioni astratte di interventi a fronte di motivati dissensi espressi dalle Regioni nelle materie
di propria competenza. Giammai potrebbe poi ritenersi che il dissenso della Regione sul progetto
preliminare e definitivo di un'opera pubblica rappresenti fattispecie legittimante l'attivazione del potere
sostitutivo, e ciò in quanto la Regione non sarebbe inadempiente ma esprimerebbe il proprio dissenso
motivato ed offrirebbe soluzioni alternative così da rendere necessaria, alla luce del principio di leale
collaborazione, una soluzione condivisa che tenga conto delle molteplici competenze regionali incise
dalla localizzazione di un'opera.
Nella memoria si contesta poi che le norme censurate possano giustificarsi in base all'art. 118, primo
comma, Cost., giacché l'individuazione e la realizzazione di un'opera pubblica richiedono comunque
l'esercizio di potestà legislativa e questa deve essere esercitata nel rispetto del riparto delle competenze
stabilite nella Costituzione. Sicché, nelle materie di competenza regionale (concorrente e residuale)
spetterebbe alle Regioni medesime disciplinare, nell'esercizio della propria potestà amministrativa, il
procedimento in questione, attribuendo agli enti locali le relative funzioni nel rispetto dei criteri di
sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione di cui all'art. 118 Cost.
Da ultimo si insiste nella rinuncia all'impugnazione, per sopravvenuto difetto di interesse, dei commi
da 6 a 12 e 14 dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001, atteso che le modiche apportate dalla successiva
legge n. 166 del 2002 permettono alla Regione di esercitare le proprie competenze legislative in materia
edilizia.
11.2. - Le Regioni Umbria, Emilia-Romagna e Provincia autonoma di Trento, con memorie di
identico contenuto, ribadiscono le ragioni già sviluppate in precedenza, contestando le argomentazioni
sostenute dalla difesa erariale.
In particolare, si insiste nel fatto che non sarebbe possibile fare ricorso, al fine di radicare nello Stato
la competenza legislativa a provvedere alla disciplina delle cosiddette grandi opere, al criterio della
strumentalità delle materie coinvolte, né tanto meno ai principî di sussidiarietà ed adeguatezza, che
attengono all'allocazione delle funzioni amministrative.
Si esclude inoltre che, al medesimo scopo, possa invocarsi l'interesse nazionale, giacché, come tale,
esso rappresenterebbe un criterio generico che, nel contesto della riforma del Titolo V, non potrebbe più
operare al fine del riparto delle materie, al quale provvede accuratamente l'art. 117 Cost. in base ad una
specifica elencazione: l'interesse nazionale non costituirebbe dunque titolo autonomo di competenza
statale, né giustificherebbe una disciplina che rimetta alla discrezionalità del Governo la sua definizione.
Da ultimo si riafferma la sussistenza di un interesse ad una pronuncia nel merito sulla censura che
lamenta l'assenza dell'intesa Stato-Regioni e ciò nonostante la modifica introdotta in tal senso dalla legge
n. 166 del 2002 al denunciato comma 1 dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001, giacché la disposizione
originaria aveva già trovato attuazione con la predisposizione del primo programma di infrastrutture
strategiche.
12. - Con ricorso iscritto al reg. ric. n. 68 del 2002, ritualmente notificato e depositato, la Regione
Toscana ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'articolo 13, commi 1, 3, 4, 5, 6 e 11,
della legge 1° agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti), denunciandone il
contrasto con gli artt. 117, 118 e 119 Cost.
La Regione osserva preliminarmente che la disposizione impugnata ha modificato l'art. 1 della legge
21 dicembre 2001, n. 443, concernente le modalità di individuazione delle infrastrutture e degli
insediamenti produttivi strategici, e che proprio quest'ultima disposizione è stata da essa in precedenza
denunciata con ricorso iscritto al n. 11 del reg. ric. dell'anno 2002. Ad avviso della Regione le modifiche
apportate dall'art. 13 al menzionato art. 1 non sarebbero tali da elidere i dubbi di incostituzionalità già
prospettati, tanto più che lo stesso art. 13 risulterebbe illegittimo e lesivo dell'autonomia regionale
costituzionalmente garantita.
12.1. - Secondo la ricorrente le disposizioni censurate avrebbero potuto trovare fondamento nella
materia "lavori pubblici di interesse nazionale", ma la stessa non è prevista tra quelle elencate dal nuovo
art. 117 Cost., che ha eliminato ogni riferimento alla dimensione nazionale dell'interesse, affidando al
contrario alla competenza legislativa concorrente materie (quali: porti e aeroporti civili; grandi reti di
trasporto e di navigazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia) in cui la predetta
dimensione è implicita nel loro stesso contenuto.
Dovrebbe inoltre escludersi, ad avviso della Regione, che le stesse disposizioni possano fondarsi sul
terzo comma dell'art. 117 Cost., giacché le c.d. grandi opere non sono necessariamente collegate a
materie ivi elencate, come nel caso, ad esempio, della realizzazione degli insediamenti produttivi che si
riconnette alla materia dell'industria, di competenza residuale regionale ai sensi del quarto comma
dell'art. 117 Cost. Analogamente è da dirsi per la disciplina dei lavori pubblici e privati, trattandosi di
materia riservata alla legislazione regionale, con l'unico limite del rispetto della Costituzione e dei
vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.
In ogni caso, ove si volesse ammettere una competenza statale relativamente ad opere strategiche
collegate a materie elencate nel terzo comma dell'art. 117 Cost., la stessa non potrebbe che esercitarsi
attraverso l'individuazione dei principî regolatori, mentre la normativa denunciata non si limita a dettare
principî alle Regioni in tema di individuazione e realizzazione delle c.d. grandi opere, ma al contrario
definisce i criteri ai quali il Governo dovrà attenersi nell'esercizio della delega con una disciplina
compiuta, dettagliata e minuziosa, tale da elidere ogni possibilità di intervento normativo da parte delle
Regioni medesime.
Argomenta ancora la ricorrente che una tale illegittima appropriazione da parte dello Stato di potestà
legislative regionali non potrebbe giustificarsi in nome dell'interesse nazionale, che il nuovo Titolo V
non contempla più come limite alla potestà legislativa delle Regioni, così come non prevede un generale
potere di indirizzo e coordinamento. Non sarebbe dunque ammissibile reintrodurre limiti alla potestà
legislativa regionale non espressamente previsti in Costituzione riferendosi alla rilevanza nazionale di
un'opera.
12.2. - Ad avviso della Regione le disposizioni impugnate violerebbero anche l'art. 118 Cost. A tale
riguardo si osserva che, per un verso, l'effettivo rispetto dei criteri di sussidiarietà, differenziazione ed
adeguatezza imporrebbe che ogni scelta legislativa di allocazione delle funzioni debba essere supportata
dall'analisi e dalla verifica dei livelli di governo maggiormente rispondenti a detti criteri e che, dunque,
debbano essere resi conoscibili i motivi della scelta e quindi dell'esercizio in concreto di tale potere
discrezionale: il che non avviene nel caso in esame. Per altro verso, le esigenze di esercizio unitario
richiamate dall'art. 118 Cost. non potrebbero costituire un titolo autonomo legittimante l'intervento del
legislatore statale, come invece accade in base alle denunciate disposizioni. Ciò perché l'art. 118, primo
comma, Cost. è norma che fissa i criteri per l'allocazione delle funzioni, ma non disciplina le fonti
deputate ad allocare le stesse e quindi non rappresenta il presupposto su cui fondare variazioni e
spostamenti rispetto alla titolarità della potestà legislativa, come stabilita dall'art. 117.
12.3. - Il fatto poi che il comma 3 del censurato art. 13 abbia introdotto il principio per cui
l'individuazione delle grandi opere avviene d'intesa con le Regioni interessate e con la Conferenza
unificata, anziché sulla base del loro parere (come originariamente previsto), non costituirebbe, secondo
la ricorrente, una modifica tale da far superare gli evidenziati dubbi di incostituzionalità, in quanto, da un
lato, l'intesa non può rappresentare un meccanismo tramite il quale lo Stato si appropria di potestà
legislative ad esso non riservate e, dall'altro, non è contemplato alcun meccanismo a garanzia che l'intesa
non sia di fatto recessiva rispetto al potere dello Stato di provvedere ugualmente a fronte del motivato
dissenso regionale. In definitiva l'intesa non garantirebbe una reale forma di coordinamento paritario, con
ciò ledendo il principio di leale cooperazione che imporrebbe, nella materia in esame, una effettiva
codeterminazione del contenuto dell'atto di individuazione delle grandi opere.
12.4. - La Regione sostiene altresì che neppure i commi 5 e 6 del denunciato art. 13, che dettano i
criteri ai quali deve attenersi il Governo nell'emanare il decreto legislativo volto a disciplinare le
modalità di approvazione dei progetti preliminari e definitivi delle opere strategiche, garantirebbero il
rispetto delle attribuzioni regionali. Ciò in quanto il ruolo della Regione nell'approvazione dei progetti
(demandata al CIPE o a decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del CIPE
integrato dai Presidenti delle Regioni, sentita la Conferenza unificata, previo parere delle competenti
commissioni parlamentari) sarebbe soltanto quello di esprimere un parere, mentre l'approvazione di detti
progetti assume particolare rilievo poiché determina la localizzazione urbanistica dell'opera, la
compatibilità ambientale della medesima e sostituisce ogni permesso ed autorizzazione comunque
denominati.
Ad avviso della ricorrente le disposizioni denunciate inciderebbero quindi sulla materia, di
legislazione concorrente, del governo del territorio, dettando un regime derogatorio per l'individuazione
delle opere e per l'approvazione dei progetti delle stesse che non lascerebbe spazio alla legislazione
regionale; interferirebbero sulla normativa regionale già vigente che disciplina i procedimenti per
l'approvazione delle opere pubbliche, prevedendo le necessarie verifiche di natura urbanistica,
idrogeologica e di difesa del suolo (laddove essa Regione ha attribuito tali funzioni amministrative ai
Comuni e alle Province); esautorerebbero la Regione delle proprie attribuzioni in merito alla valutazione
di impatto ambientale delle opere. A tal specifico riguardo la Regione Toscana rileva che il comma 3
dell'art. 13 prevede che anche le strutture concernenti la nautica da diporto possono essere inserite nel
programma delle infrastrutture strategiche, ciò comportando che la valutazione di impatto ambientale
sulle stesse debba effettuarsi con la procedura prevista dal successivo comma 5 e dunque dal Ministro
competente, restando così sottratto alle Regioni, con lesione delle relative attribuzioni in materia di porti
e valorizzazione dei beni ambientali.
12.5. - La ricorrente osserva poi che le prospettate censure non potrebbero essere superate dal fatto
che il comma 3 del denunciato art. 13 della legge n. 166 del 2002 prevede che il Governo, nell'emanare il
decreto delegato, dovrebbe agire "nel rispetto delle attribuzioni costituzionali delle Regioni", giacché,
oltre ad essere espressione vaga e generica, si tratta di indicazione che non potrebbe comunque essere
rispettata, considerato che sono già i principî posti dalla delega a vulnerare le attribuzioni delle Regioni.
12.6. - La Regione assume infine che i commi 1 e 11 dell'art. 13, nel prevedere specifici stanziamenti
per la progettazione e la realizzazione delle opere strategiche individuate dal CIPE, contrasterebbero sia
con gli artt. 117 e 118 Cost., in quanto "fanno riferimento al programma predisposto dal CIPE che […] è
elaborato in spregio alle competenze regionali", sia con l'art. 119 Cost., incidendo sull'autonomia
finanziaria delle Regioni che la norma costituzionale garantisce in relazione al reperimento delle risorse
per la realizzazione delle infrastrutture la cui decisione rientra nella competenza regionale.
13. - Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Quanto alla dedotta violazione dell'art. 117 Cost., la difesa erariale osserva che l'omessa previsione
della materia dei lavori pubblici regionali nella legge costituzionale n. 3 del 2001 si giustificherebbe in
ragione del perseguimento del criterio, già presente nel decreto legislativo n. 112 del 1998, della
strumentalità della materia dei lavori pubblici, per cui allo Stato spetta la potestà legislativa di principio
per la disciplina degli appalti relativi alle materie ricomprese nella potestà legislativa concorrente.
Con riferimento poi al profilo di censura che sostiene esservi lesione delle attribuzioni regionali in
considerazione della minuziosità della normativa introdotta, l'Avvocatura rileva che l'attività di
individuazione di un'opera pubblica non richiederebbe l'esercizio di potestà legislative, ma solo di quelle
amministrative, ai sensi dell'art. 118 Cost.
Quanto poi alla denunciata violazione proprio dell'art. 118, primo comma, Cost. si osserva che,
allorquando è necessario assicurare l'esercizio unitario di funzioni amministrative, come è in riferimento
all'individuazione e realizzazione di opere di "preminente interesse nazionale", la fonte normativa di
distribuzione delle funzioni medesime non potrebbe che essere una legge statale. Legge che, nel caso di
specie, correttamente espliciterebbe i presupposti per l'allocazione delle funzioni al massimo livello, che
sono espressamente indicati in "finalità di riequilibrio socio-economico fra le aree del territorio
nazionale", in "fini di garanzia della sicurezza strategica e di contenimento dei costi
dell'approvvigionamento energetico del Paese" e nell'"adeguamento della strategia nazionale a quella
comunitaria delle infrastrutture e della gestione dei servizi pubblici locali di difesa dell'ambiente".
La difesa erariale sostiene inoltre che proprio le doglianze mosse avverso la mancata previsione sia
di una previa intesa per l'individuazione delle opere strategiche, sia dell'integrazione del CIPE con la
presenza dei Presidenti delle Regioni per l'approvazione dei relativi progetti, hanno indotto il legislatore
a modificare in questo senso la legge n. 443 del 2001, tramite l'art. 13 della legge n. 166 del 2002, e ciò
per assicurare "il rispetto delle attribuzioni costituzionali" delle Regioni.
Quanto infine alle censure riguardanti i commi 1 e 11 del menzionato art. 13, l'Avvocatura ritiene
che gli artt. 117 e 118 Cost., in ragione delle argomentazioni già spese, non siano violati nella procedura
di individuazione e approvazione dei progetti da parte del CIPE e che parimenti non possa reputarsi leso
l'art. 119 Cost. giacché, trattandosi di progettazione e realizzazione di opere di preminente interesse
nazionale, è allo Stato che compete autorizzare i limiti di impegno e la destinazione della spesa derivanti
dagli stanziamenti del proprio bilancio.
14. - In prossimità dell'udienza la Regione Toscana ha depositato una memoria con cui, ribadendo le
argomentazioni già svolte, insiste nelle conclusioni già rassegnate.
15. - Nello stesso giudizio hanno depositato, fuori termine, congiunto atto di intervento ad
adiuvandum l'Associazione Italia Nostra-Onlus, Legambiente-Onlus, l'Associazione italiana per il World
Wide Fund For Nature (WWF)-Onlus, per sentire dichiarare l'incostituzionalità dell'art. 13, commi 1, 3,
4, 5, 6 e 11, della legge n. 166 del 2002, denunciato dalla Regione Toscana.
16. - La Regione Toscana, le Province autonome di Bolzano e di Trento, la Regione Marche hanno
proposto questione di legittimità costituzionale in via principale di numerosi articoli del decreto
legislativo 20 agosto 2002, n. 190, recante "Attuazione della legge 21 dicembre 2001, n. 443, per la
realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale",
denunciandone il contrasto con gli artt. 76, 117, 118 e 120 Cost., nonché con gli artt. 8, primo comma,
numeri 5, 6, 9, 11, 14, 16, 17, 18, 19, 21, 22, 24; 9, primo comma, numeri 8, 9, e 10; 16 dello statuto
speciale per il Trentino-Alto Adige, nel testo approvato con d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione
del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige). Più
nello specifico, la Toscana impugna gli artt. 1-11, 13, 15, 16, commi 1, 2, 3, 6, 7; 17-20; la Provincia
autonoma di Bolzano gli artt. 1, commi 1 e 7; 2, commi 1, 2, 3, 4, 5 e 7; 3, commi 4, 5, 6, 9; 13, comma
5; 15; la Regione Marche gli artt. 1-11, 13, 15-20; la Provincia autonoma di Trento gli artt. 1, 2, 3, 4, 13
e 15.
17. - Il ricorso della Provincia autonoma di Trento è stato depositato presso la cancelleria della Corte
costituzionale il 5 novembre 2002, cioè il giorno successivo alla scadenza del termine di dieci giorni
previsto dall'art. 32, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87. Con apposita istanza la Provincia
rende noto che il mancato rispetto del termine non può essere imputato a negligenza, ma alla
impossibilità, conseguente alla mancata disponibilità dell'atto presso l'Ufficio notifiche, per ragioni che
atterrebbero al funzionamento di tale ufficio e che sono state espressamente riconosciute dal medesimo
con certificato allegato al ricorso depositato. Pur non negando il carattere perentorio del termine di cui è
discorso, la Provincia istante ritiene che ciò non dovrebbe impedire l'applicazione di ulteriori principî
giuridici come quello dell'errore scusabile, espressamente riconosciuto nel giudizio amministrativo. Si
chiede pertanto di considerare scusabile, e dunque tempestivo, il deposito effettuato dalla Provincia
autonoma di Trento il 5 novembre 2002. In subordine, peraltro, ove la Corte ritenesse che la mancata
menzione dell'errore scusabile negli artt. 31, terzo comma, e 32, terzo comma, della legge n. 87 del 1953
sia dalla Corte ritenuta preclusiva dell'applicazione di tale istituto, l'istante eccepisce l'illegittimità
costituzionale in parte qua di tali disposizioni, per violazione dell'art. 24, primo comma, Cost. e del
principio di ragionevolezza.
18. - In tutti i ricorsi si osserva preliminarmente come la disciplina statale non potrebbe trovare
fondamento negli specifici titoli abilitativi delle lettere e), m) e s), dell'art. 117 Cost., in quanto la
disciplina oggetto di impugnazione non avrebbe nulla a che vedere con la tutela della concorrenza
[lettera e)], dell'ambiente e dell'ecosistema [lettera s)] né tanto meno con la determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale [lettera m)].
Le ricorrenti pongono inoltre in risalto come le Regioni sarebbero divenute titolari della competenza
legislativa concorrente in molte delle materie che attengono alla realizzazione di opere pubbliche, quali
"porti e aeroporti civili", "grandi reti di trasporto e navigazione", "trasporto e distribuzione nazionale
dell'energia", "governo del territorio". Solo in relazione alle opere pubbliche relative ai predetti settori
materiali lo Stato sarebbe dunque titolare di potestà legislativa, che dovrebbe peraltro essere esercitata
attraverso la predisposizione di una normativa di principio, non anche attraverso discipline di dettaglio
che, come nella specie, comprimano gli spazi di scelta politica delle Regioni. La materia degli
insediamenti produttivi e delle infrastrutture strategiche, per di più, sarebbe interamente affidata alla
potestà legislativa residuale delle Regioni, così da escludere ogni intervento normativo statale.
L'esigenza di tutelare un interesse nazionale non potrebbe giustificare la deroga al riparto delle
competenze costituzionali che il decreto impugnato avrebbe introdotto, in quanto l'interesse nazionale
non potrebbe più costituire il titolo per sottrarre oggetti alle materie di competenza regionale.
Egualmente, si aggiunge nel ricorso della Regione Toscana, non varrebbe invocare l'art. 118, primo
comma, e le esigenze di esercizio unitario ivi richiamate, che non potrebbero costituire un titolo
autonomo legittimante l'intervento del legislatore statale in materie di competenza delle Regioni, giacché
l'art. 118 non conterrebbe un riparto di materie ulteriore e potenzialmente antagonista rispetto a quello
contenuto nell'art. 117 Cost.
Le disposizioni impugnate sarebbero illegittime pure per contrasto con l'art. 76 Cost., giacché la
legge di delegazione espressamente prevedeva che la delega dovesse essere esercitata «nel rispetto delle
attribuzioni costituzionali delle Regioni».
18.1. - Nello specifico, sono oggetto di impugnazione:
a) - l'art. 1, comma 1, che regola la progettazione, l'approvazione e realizzazione delle infrastrutture
strategiche e degli insediamenti produttivi di preminente interesse nazionale, individuati da un apposito
programma approvato dal CIPE (art. 1 legge n. 443 del 2001). Le opere sono differenziate in categorie.
Quelle per le quali l'interesse regionale è concorrente con il preminente interesse nazionale sono
individuate con intese quadro fra Governo e singole Regioni e per esse è previsto che le Regioni
medesime partecipino, con le modalità stabilite nelle intese, alle attività di progettazione, affidamento dei
lavori e monitoraggio, «in accordo alle normative vigenti ed alle eventuali leggi regionali allo scopo
emanate».
La Provincia autonoma di Bolzano ritiene che tale disposizione sarebbe rivolta a salvaguardare
unicamente le competenze ad essa riconosciute dallo statuto speciale e dalle norme di attuazione, senza
alcun riferimento alle nuove e maggiori competenze che le spetterebbero ai sensi degli artt. 117 e 118
Cost. Risulterebbe inoltre violato l'art. 2 del decreto legislativo n. 266 del 1992, il quale impone il
sollecito adeguamento (sei mesi) della legislazione provinciale ai principî della legislazione statale,
tenendo ferma «l'immediata applicabilità nel territorio regionale (…) degli atti legislativi dello Stato
nelle materie nelle quali alla Regione o alla Provincia autonoma è attribuita delega di funzioni statali»;
b) - l'art. 1, comma 5, il quale dispone che le Regioni, le Province, i Comuni, le Città metropolitane
applicano, per le proprie attività contrattuali ed organizzative relative alla realizzazione delle
infrastrutture e diverse dall'approvazione dei progetti (comma 2) e dalla aggiudicazione delle
infrastrutture (comma 3), «le norme del presente decreto legislativo fino alla entrata in vigore di una
diversa norma regionale, (…) per tutte le materie di legislazione concorrente». Le Regioni Toscana e
Marche e la Provincia autonoma di Trento ne denunciano il contrasto con l'art. 117 Cost., poiché in
materie di competenza regionale concorrente sarebbe posta una normativa cedevole di dettaglio, il che,
dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, non sarebbe più consentito;
c) - l'art. 1, comma 7, lettera e), che, nel definire opere per le quali l'interesse regionale concorre con
il preminente interesse nazionale «le infrastrutture (…) non aventi carattere interregionale o
internazionale per le quali sia prevista, nelle intese generali quadro di cui al comma 1, una particolare
partecipazione delle Regioni o Province autonome alle procedure attuative» e opere di carattere
interregionale o internazionale «le opere da realizzare sul territorio di più Regioni o Stato, ovvero
collegate funzionalmente ad una rete interregionale o internazionale», sarebbe incostituzionale in primo
luogo per eccesso di delega, giacché la legge n. 443 del 2001 non avrebbe autorizzato il Governo a porre
un regime derogatorio anche per le opere di interesse regionale (ricorso della Regione Toscana). Inoltre,
si argomenta in tutti i ricorsi, la disposizione in oggetto, nell'escludere la concorrenza dell'interesse
regionale con il preminente interesse nazionale in relazione ad opere aventi carattere interregionale o
internazionale, sarebbe lesiva delle competenze attribuite alle Regioni dagli artt. 117, commi terzo,
quarto e sesto, e 118, primo comma, Cost. Del pari illegittima sarebbe la subordinazione all'intesa statale
dell'individuazione delle opere per le quali esista un concorrente interesse regionale. La medesima
disposizione contrasterebbe inoltre con gli artt. 19, 20 e 21 delle norme di attuazione dello statuto del
Trentino-Alto Adige recate dal d.P.R. 22 marzo 1974, n. 381 (Norme di attuazione dello statuto speciale
per la Regione Trentino-Alto Adige in materia di urbanistica ed opere pubbliche), giacché escluderebbe
la necessità di un'intesa per le infrastrutture e i collegamenti interregionali e internazionali;
d) - l'art. 2, comma 1, il quale stabilisce che il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti
«promuove le attività tecniche ed amministrative occorrenti ai fini della sollecita progettazione ed
approvazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi ed effettua, con la collaborazione delle
Regioni e delle Province autonome interessate con oneri a proprio carico, le attività di supporto
necessarie per la vigilanza, da parte del CIPE, sulla realizzazione delle infrastrutture». Secondo la
prospettazione delle Province autonome di Trento e di Bolzano sarebbero riservati al Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti i compiti tecnici e amministrativi che l'art. 16 dello statuto speciale per il
Trentino-Alto Adige attribuisce alle Province autonome, con violazione anche dell'art. 4, comma 1, del
decreto legislativo n. 266 del 1992, il quale prevede che «nelle materie di competenza propria della
Regione o delle Province autonome la legge non può attribuire agli organi statali funzioni amministrative
(…) diverse da quelle spettanti allo Stato secondo lo statuto speciale e le norme di attuazione»;
e) - l'art. 2, commi 2, 3, 4, 5 e 7, il quale, nel riservare al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti
l'attività di progettazione, direzione ed esecuzione delle infrastrutture ed il potere di assegnare le risorse
integrative necessarie alle attività progettuali, anziché assegnare i fondi direttamente alle Province
autonome di Trento e Bolzano, violerebbe l'art. 16 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige e
l'art. 4, comma 3, del decreto legislativo n. 266 del 1992, secondo cui «fermo restando quanto disposto
dallo statuto speciale e dalle relative norme di attuazione, nelle materie di competenza propria della
Provincia, le amministrazioni statali, comprese quelle autonome, e gli enti dipendenti dallo Stato non
possono disporre spese né concedere, direttamente o indirettamente, finanziamenti o contributi per
attività nell'ambito del territorio regionale o provinciale»;
f) - l'art. 2, comma 5, il quale, nel prevedere che per la nomina di commissari straordinari destinati a
seguire l'andamento delle opere aventi carattere interregionale o internazionale debbano essere sentiti i
Presidenti delle Regioni interessate, si porrebbe in contrasto, ad avviso di tutte le ricorrenti, con gli artt.
117 e 118 Cost. e con il principio di leale collaborazione, in quanto su tale oggetto dovrebbe essere
prevista la forma più intensa di collaborazione dell'intesa. I commi 5 e 7 sarebbero inoltre
incostituzionali anche perché attribuirebbero allo Stato compiti decisionali che in base all'art. 4 del
decreto legislativo n. 266 del 1992 sarebbero di competenza della Provincia autonoma di Bolzano;
g) - l'art. 2, comma 7, che attribuisce al Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del
Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sentiti i Ministri competenti, nonché, per le infrastrutture di
competenza dei soggetti aggiudicatari regionali, i Presidenti delle Regioni, il potere di abilitare i
commissari straordinari ad adottare, con poteri derogatori della normativa vigente e con le modalità di
cui all'art. 13 del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67 (Disposizioni urgenti per favorire l'occupazione), i
provvedimenti e gli atti di qualsiasi natura necessari alla sollecita progettazione, istruttoria, affidamento e
realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi, in sostituzione dei soggetti competenti.
Le Regioni Toscana e Marche e la Provincia autonoma di Trento lamentano la lesione degli artt. 117 e
118 Cost., in quanto la previsione impugnata si applica anche alle opere regionali e potrebbe pertanto
riguardare provvedimenti che spetterebbe alla Regione e alle Province adottare nell'esercizio delle
proprie competenze normative e amministrative. Secondo la Regione Toscana difetterebbero inoltre i
presupposti ai quali l'art. 120 Cost. subordina il legittimo esercizio dei poteri sostitutivi statali. Infine, si
sostiene nel ricorso della Provincia autonoma di Bolzano, risulterebbe violato anche l'art. 4 del decreto
legislativo n. 266 del 1992, giacché allo Stato sarebbero stati attribuiti compiti decisionali spettanti alla
Provincia;
h) - l'art. 3, il quale disciplina la procedura di approvazione del progetto preliminare delle
infrastrutture, le procedure di valutazione d'impatto ambientale (VIA) e localizzazione, secondo tutte le
ricorrenti sarebbe illegittimo nella sua interezza, in quanto disciplinerebbe la procedura di approvazione
del progetto preliminare con regolazione di minuto dettaglio, mentre, in relazione ad oggetti ricadenti
nella competenza regionale in materia di governo del territorio, la legislazione statale avrebbe dovuto
limitarsi alla predisposizione dei principî fondamentali. Il medesimo art. 3, nella parte in cui affida al
CIPE l'approvazione del progetto preliminare delle infrastrutture coinvolgendo le Regioni interessate ai
fini dell'intesa sulla localizzazione dell'opera, ma prevedendo pure che il medesimo progetto non sia
sottoposto a conferenza di servizi, ad avviso della Regione Toscana violerebbe l'art. 76 Cost., poiché
l'art. 1, comma 2, lettera d), della legge di delega n. 443 del 2001 autorizzava solo a modificare la
disciplina della conferenza dei servizi e non a sopprimerla del tutto.
Del pari incostituzionali sarebbero, secondo tutte le ricorrenti, i commi 6 e 9 dell'art. 3, i quali, nel
prevedere che lo Stato possa procedere comunque all'approvazione del progetto preliminare relativo alle
infrastrutture di carattere interregionale e internazionale superando il motivato dissenso delle Regioni,
violerebbero gli artt. 114, commi primo e secondo, 117, commi terzo, quarto e sesto, e 118, commi
primo e secondo, Cost. Le Regioni, si osserva nei ricorsi, sarebbero infatti relegate in posizione di
destinatarie passive di provvedimenti assunti a livello statale in materie che sono riconducibili alla
potestà legislativa concorrente. Per le ragioni appena esposte sarebbero incostituzionali anche gli artt. 4,
comma 5, e 13, comma 5, che alla procedura dell'art. 3, comma 6, fanno espresso rinvio;
i) - l'art. 4, comma 5, nella parte in cui prevede che l'approvazione del progetto definitivo sia adottata
«con il voto favorevole della maggioranza dei componenti del CIPE», sarebbe, ad avviso della Regione
Toscana, costituzionalmente illegittimo per contrasto con l'art. 76 Cost., e specificamente con l'art. 1,
comma 3-bis, della legge di delega, il quale prevede quale momento indefettibile del procedimento di
approvazione del progetto definitivo il parere obbligatorio della Conferenza unificata;
j) - le norme contenute negli artt. 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 e 11, che introducono rilevanti modifiche in
materia di appalti e di concessioni dei lavori pubblici, secondo le Regioni Toscana e Marche sarebbero
illegittime in quanto incidenti su materie ascrivibili alla competenza legislativa residuale delle Regioni,
inerendo alla materia dei lavori pubblici e degli appalti. Non varrebbe neppure, si soggiunge nel ricorso
della Regione Toscana, rilevare che in tale materia siano recepite ed applicate norme di fonte
comunitaria, giacché l'attuazione di norme comunitarie in materia di competenza regionale spetterebbe
comunque alle Regioni;
k) - l'art. 8, nella parte in cui prevede che il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti pubblichi la
lista delle infrastrutture per le quali il soggetto aggiudicatore ritiene di sollecitare la presentazione di
proposte da parte di promotori e, se la proposta è presentata, stabilisce che il soggetto aggiudicatore,
valutata la stessa come di pubblico interesse, promuova la procedura di VIA e se necessario la procedura
di localizzazione urbanistica, secondo la Regione Toscana sarebbe illegittimo, oltre che per i profili
evidenziati alla lettera j), anche per l'ulteriore ragione che non chiarirebbe se le infrastrutture inserite
nella lista per sollecitare le proposte dei promotori siano da individuare tra quelle già ricomprese nel
programma di opere strategiche formato d'intesa con le Regioni, ai sensi dell'art. 1, comma 1, della legge
di delega n. 443 del 2001, o se al contrario si debba consentire la presentazione di proposte dei promotori
anche per opere non facenti parte del programma, e sulle quali nessuna intesa è stata raggiunta con le
Regioni interessate;
l) - l'art. 13, che disciplina le procedure per la localizzazione, l'approvazione dei progetti, la VIA
degli insediamenti produttivi e delle infrastrutture private strategiche per l'approvvigionamento
energetico, richiamando gli artt. 3 e 4, sarebbe incostituzionale, secondo la Regione Marche, per le
medesime ragioni già esposte con riguardo alle disposizioni citate; inoltre esso, secondo la Provincia
autonoma di Trento, violerebbe l'art. 4 del decreto legislativo n. 266 del 1992, in quanto, per effetto della
semplice individuazione, con atto statale di carattere amministrativo, del preminente interesse nazionale
di alcuni insediamenti privati, spoglierebbe la Provincia ricorrente dei poteri amministrativi ad essa
spettanti. Il medesimo art. 13, nel comma 5, sarebbe inoltre lesivo delle competenze costituzionali della
Provincia autonoma di Bolzano per il fatto di prevedere che l'approvazione del CIPE sostituisce le
autorizzazioni, concessioni edilizie e approvazioni in materia di urbanistica e opere pubbliche che
rientrano nelle competenza della Provincia medesima;
m) - l'art. 15, il quale attribuisce al Governo la potestà regolamentare di integrazione di tutti i
regolamenti emanati in base alla legge n. 109 del 1994, e, nel comma 2, autorizza i regolamenti emanati
in esercizio della potestà di cui al comma 1 ad abrogare o derogare, dalla loro entrata in vigore, le norme
di diverso contenuto precedentemente vigenti nella materia, si porrebbe in contrasto, ad avviso della
Regione Toscana, con l'art. 1, comma 3, della legge di delega n. 443 del 2001, che delegava il Governo
ad integrare e modificare solo il regolamento n. 554 del 1999. Tutte le ricorrenti lamentano inoltre che
l'attribuzione al Governo di potestà regolamentare in materia di appalti e di opere pubbliche, materia che
non sarebbe qualificabile come di potestà esclusiva statale, contravverrebbe al rigido riparto di
competenza posto nell'art. 117, sesto comma, Cost. La potestà di dettare norme regolamentari in materie
diverse da quelle di legislazione esclusiva non potrebbe essere riconosciuta neppure alla condizione che i
regolamenti statali siano cedevoli rispetto a quelli regionali, poiché l'articolo impugnato avrebbe
espressamente escluso la propria cedevolezza per la parte della disciplina da esso recata non
riconducibile a materie di competenza esclusiva statale. Il medesimo articolo è impugnato dalla
Provincia autonoma di Bolzano nel comma 4, ove si statuisce l'applicabilità nei confronti delle Regioni e
delle Province autonome della disciplina regolamentare adottata dallo Stato con il d.P.R. 23 dicembre
1999, n. 554, in radicale contrasto con quanto statuito da questa Corte nella sentenza n. 482 del 1995;
n) - l'art. 16, commi 1, 2, 3, 6 e 7, il quale, anticipando la disciplina procedimentale oggetto di
impugnazione ai progetti già in corso, incorrerebbe, secondo la Regione Toscana, nei medesimi vizi già
illustrati in riferimento alle singole fasi del procedimento;
o) - gli artt. 17, 18, 19 e 20, per la parte in cui dettano una disciplina della procedura di VIA di opere
e infrastrutture che deroga alla disciplina regionale e provinciale, sono denunciati dalle Regioni Marche e
Toscana, le quali ritengono lese le proprie competenze a disciplinare gli strumenti attuativi della tutela
dell'ambiente dettati dal legislatore comunitario;
p) - l'art. 19, comma 2, che demanda la valutazione di impatto ambientale a una commissione
speciale costituita dal Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio, sarebbe illegittimo, a giudizio delle Regioni Marche e Toscana, per la mancata
previsione di una partecipazione delle Regioni, che sarebbero in tal modo estromesse dalla funzione di
attuazione del valore costituzionale «ambiente»;
q) - gli artt. 1, commi 1 e 7; 2, commi 1, 2, 3, 4, 5, e 7; 3, commi 4, 5, 6 e 9; 13, comma 5; e 15, nel
prevedere procedimenti di approvazione che comportano l'automatica variazione degli strumenti
urbanistici, determinano l'accertamento della compatibilità ambientale e sostituiscono ogni altra
autorizzazione, approvazione e parere, disattenderebbero, secondo la Provincia autonoma di Bolzano, le
norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige recate dal d.P.R. n. 381 del 1994,
che subordinano l'adozione di alcune delle opere previste dal decreto impugnato alla previa intesa con la
Provincia.
19. - Si è costituito in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che i ricorsi siano dichiarati infondati. La difesa
erariale sostiene innanzitutto che la materia dei lavori pubblici, non richiamata nel nuovo testo dell'art.
117 Cost., non potrebbe essere ascritta alla potestà residuale della Regione, ma che, al contrario, lo Stato
conserverebbe la potestà legislativa di principio per la disciplina degli appalti riferibili alle materie
comprese nella potestà legislativa concorrente. Ciò senza considerare che anche nel nuovo Titolo V
l'interesse nazionale potrebbe legittimare il superamento della ripartizione per materie posta nel
medesimo art. 117.
Inoltre, prosegue l'Avvocatura, la legge n. 166 del 2002, recependo le istanze regionali, avrebbe
previsto che l'individuazione delle opere avvenga d'intesa fra lo Stato e le Regioni, sicché il decreto
impugnato si dovrebbe considerare rispettoso delle attribuzioni regionali. La partecipazione effettiva
delle Regioni alla fase di approvazione, come prevede l'art. 2, comma 1, del decreto impugnato,
priverebbe di fondamento la censura relativa al potere sostitutivo conferito al Governo nell'ipotesi di
dissenso della Regione interessata, tanto più che la fattispecie sarebbe perfettamente conforme allo
schema di esercizio del potere sostitutivo delineato nell'art. 120, secondo comma, Cost., venendo in
questione opere che, per la loro indubitabile rilevanza strategica, sarebbero in grado di incidere sull'unità
economica del Paese.
Quanto alla ammissibilità di una normativa statale di dettaglio, ovviamente cedevole, in materia di
potestà concorrente, la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri osserva che ciò risponderebbe «ad
una esigenza imprescindibile, in applicazione del principio di continuità, quando non vi sia alcuna altra
norma applicabile alla fattispecie». Neppure dovrebbe dirsi leso l'art. 118 Cost., poiché la nuova
formulazione di tale articolo attribuisce le funzioni amministrative sulla base del principio di
sussidiarietà, precisando che tali funzioni devono essere attribuite allo Stato quando occorra assicurarne
l'esercizio unitario, ciò che, secondo l'Avvocatura, accadrebbe nel caso di specie, dovendosi realizzare
opere di "preminente interesse nazionale".
Con riguardo alle censure che investono la previsione della nomina governativa di un commissario
straordinario che vigili sull'andamento delle opere e l'attribuzione ad esso del potere di adottare i
provvedimenti necessari alla tempestiva esecuzione dell'opera, la difesa erariale replica osservando: che
la procedura ha luogo solo per le opere di interesse internazionale o interregionale; che comunque è
previsto che siano sentiti i Presidenti delle Regioni coinvolte; che infine i poteri sostitutivi del
commissario non potranno oltrepassare le competenze dell'ente conferente, non potendo lo Stato
conferire poteri maggiori di quelli di cui esso stesso gode.
In merito alla mancata previsione della partecipazione regionale alla procedura di valutazione di
impatto ambientale dell'opera si rileva che la VIA attiene alla tutela dell'ambiente, materia attribuita alla
competenza esclusiva dello Stato.
20. - In prossimità dell'udienza pubblica del 25 marzo 2003 tutte le parti hanno depositato ulteriori
memorie difensive. La Regione Toscana e la Provincia autonoma di Bolzano contestano l'esistenza di un
criterio di strumentalità della materia dei lavori pubblici, dal quale discenderebbe la conseguenza che lo
Stato sarebbe abilitato a dettare i principî per la disciplina degli appalti riferibili alle materie soggette alla
potestà legislativa concorrente. Di strumentalità, si argomenta nel ricorso toscano, si potrebbe parlare
solo se nell'art. 117 Cost. fosse stata inserita tra le materie riservate allo Stato quella dei "lavori pubblici
di interesse nazionale", ciò che non è avvenuto. Anche ad accedere alla tesi della strumentalità, peraltro,
non verrebbero meno le ragioni di illegittimità costituzionale delle norme denunciate. In tale ottica,
osservano la Regione Toscana e la Provincia autonoma di Bolzano, dovrebbe comunque essere ritenuta
di competenza statale la sola disciplina delle opere pubbliche comprese nelle materie di competenza
legislativa esclusiva statale, ad esempio le opere concernenti la difesa o l'ordine pubblico, non anche tutte
le altre opere che i decreti impugnati invece menzionano e regolamentano con normativa di minuto
dettaglio. Allo Stato, prosegue la Provincia autonoma di Bolzano, spetterebbe solo la determinazione dei
principî fondamentali della disciplina dei lavori che riguardino le infrastrutture sulle quali è riconosciuta
una potestà legislativa concorrente e quindi, proprio applicando il criterio della strumentalità, non si
giustificherebbe la disciplina statale delle procedure per la realizzazione di infrastrutture riconducibili a
materie attribuite alla competenza esclusiva o concorrente della Provincia.
Del pari infondata, secondo tutte le ricorrenti, sarebbe la tesi statale secondo la quale l'interesse
nazionale rappresenterebbe ancora un limite alla potestà legislativa regionale che consentirebbe di
superare la ripartizione posta nell'art. 117 Cost., giacché in tal modo sarebbe inammissibilmente
reintrodotto in Costituzione un limite che non è più espressamente previsto. La tutela degli interessi
unitari potrebbe ormai essere realizzata solo attraverso poteri e istituti espressamente previsti in
Costituzione. Si aggiunge nella memoria della Provincia autonoma di Trento che, se le Regioni non
potessero intervenire là dove sono in gioco interessi nazionali, non si giustificherebbero nemmeno i
poteri sostitutivi disciplinati nell'art. 120, secondo comma, Cost. Inoltre, osserva la Provincia, già dall'art.
13 del decreto-legge n. 67 del 1997, risultava che opere "di rilevante interesse nazionale" potevano non
di meno essere di competenza regionale, mentre il decreto legislativo n. 112 del 1998 avrebbe attribuito
allo Stato la competenza su "grandi reti infrastrutturali dichiarate di interesse nazionale con legge statale"
sul presupposto che non fosse giustificabile una disciplina che, come quella impugnata, rimettesse la
definizione di tale interesse alla discrezionalità del Governo.
Neppure si potrebbe affermare, soggiunge la Regione Toscana, che la normativa impugnata sarebbe
rispettosa dell'autonomia regionale poiché è stato in essa previsto che l'individuazione delle opere sia
effettuata d'intesa fra Stato e Regioni e l'approvazione dei progetti avvenga attraverso l'intesa. Gli
accordi e le intese non possono infatti vincolare il legislatore statale o regionale, visto che l'ordine
costituzionale delle competenze legislative è indisponibile. Il richiamo che la difesa erariale fa all'art.
120 Cost., si prosegue nella memoria della Toscana, non sarebbe pertinente, perché tale disposizione
richiede la definizione, con legge, delle procedure atte a garantire che il potere sostitutivo sia esercitato
nel rispetto del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione, e tale legge non è stata ancora
emanata, con conseguente impossibilità di applicare il medesimo art. 120. Inoltre l'intervento sostitutivo
in discorso sarebbe attivato in assenza di un inadempimento regionale, e per effetto della sola
manifestazione del dissenso da parte della Regione (memoria della Regione Toscana), e non sarebbe
giustificabile con l'esigenza di garantire l'unità economica del Paese (memoria della Provincia autonoma
di Bolzano), sicché l'avere legittimato un intervento sostitutivo in assenza di ogni inadempimento
regionale sarebbe ragione di illegittimità del decreto legislativo per violazione del principio di leale
collaborazione, richiamato dallo stesso art. 120, secondo comma, Cost.
Quanto alla asserita legittimità delle norme di dettaglio "cedevoli", le ricorrenti ricordano la sentenza
n. 282 del 2002 di questa Corte, dalla quale sarebbe chiaramente desumibile che la competenza statale
nelle materie di potestà concorrente è «limitata alla determinazione dei principî fondamentali della
materia», sicché non sarebbero più ammissibili normative suppletive statali.
L'Avvocatura, si osserva nella memoria della Provincia autonoma di Bolzano, invoca la legge n. 166
del 2002, che, a suo dire, avrebbe recepito le istanze regionali in materia, ma il richiamo sarebbe
inconferente, poiché la legge in questione è precedente rispetto al decreto impugnato, così da non poter
spiegare alcuna influenza sulla questione all'esame della Corte. Nella medesima memoria e in quella
della Provincia di Trento si ribadisce che la soluzione procedimentale contemplata nell'art. 3, comma 6,
per superare il dissenso della Provincia sarebbe illegittima, per la mancata previsione di un'intesa, e
respinge sul punto le diverse considerazioni dell'Avvocatura, che invocherebbe in modo errato l'art. 1,
comma 2, del decreto impugnato. Parimenti incostituzionale sarebbe la nomina del commissario
straordinario. Il rilievo che la procedura censurata riguarderebbe soltanto le opere di interesse
internazionale o interregionale, oltre a non trovare fondamento nella lettera della norma impugnata (così
nella memoria della Provincia autonoma di Trento) non varrebbe comunque a farne venire meno
l'illegittimità, posto che per i collegamenti di tale natura gli artt. 19, 20 e 21 del d.P.R. n. 381 del 1974
imporrebbero il raggiungimento di un'intesa, non essendo sufficiente la mera audizione dei Presidenti
delle Regioni interessate (memorie delle Province autonome di Trento e Bolzano).
In riferimento alla denunciata lesione dell'art. 118 Cost., secondo la Provincia autonoma di Bolzano,
non sarebbe possibile invocare la sussistenza di esigenze unitarie relativamente alle funzioni
amministrative, giacché la Costituzione, «lasciando alle Regioni la competenza a dettare la disciplina
della materia, ha ritenuto che non sussistesse un'esigenza di assoluta uniformità tra Regione e Regione
nemmeno quanto a disciplina legislativa». Comunque, alla Provincia di Bolzano, in base all'art. 16 dello
statuto di autonomia, non potrebbero essere sottratte le funzioni amministrative nelle materie che
rientrano nella sua competenza legislativa, non essendo applicabile alla medesima l'art. 118 Cost.,
quando ciò determini un regime di minor garanzia rispetto a quello assicurato dallo statuto. Inoltre, si
legge nella memoria della Provincia autonoma di Trento, l'art. 118 sancirebbe il principio del
parallelismo non quanto alla spettanza delle funzioni amministrative, ma in ordine al potere di allocare le
funzioni, sicché lo Stato non avrebbe avuto il potere di allocare le funzioni amministrative relative a
opere pubbliche, salvo quelle rientranti in materie di potestà legislativa esclusiva statale.
21. - Ha anche depositato ulteriori memorie, per il Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura
generale dello Stato. La difesa erariale muove dalla constatazione che non si possano enfatizzare gli
aspetti innovativi della riforma del Titolo V e al contempo continuare ad utilizzare schemi concettuali
propri del precedente assetto costituzionale, occorrendo al contrario «ampliare l'orizzonte all'esperienza
degli Stati federali». In simile prospettiva sarebbe innegabile la rilevanza costituzionale dell'interesse
nazionale, che legittima, negli Stati Uniti con la formula degli implied powers, in Germania con quella
della Sachzusammenhang (connessione delle materie) e con la Natur der Sache (natura della cosa),
l'intervento della Federazione nelle materie di competenza degli Stati membri. Proprio in considerazione
della natura delle opere da realizzare in base al decreto impugnato, che pur avendo rilevanza regionale,
convergerebbero funzionalmente nel programma di modernizzazione del Paese, sarebbe evidente come
la competenza debba spettare allo Stato. I soggetti privati non sarebbero infatti invogliati a investire
risorse se la localizzazione e progettazione delle opere venisse rimessa a discipline e soggetti diversi e la
stessa procedura per l'individuazione del contraente, che incide sulle condizioni economiche
dell'operazione, dipendesse dalle scelte legislative e amministrative di ogni Regione. Per ragioni
analoghe sarebbero legittimi anche i meccanismi di superamento del dissenso regionale e gli interventi
sostitutivi da parte dei commissari straordinari, i quali sarebbero diretti non solo a garantire l'interesse
pubblico statale alla realizzazione dell'opera, ma anche a diminuire il "rischio amministrativo"
dell'operazione finanziata con capitali privati. Alla luce di tali considerazioni l'Avvocatura sostiene che
le attribuzioni costituzionali delle Regioni riceverebbero adeguata considerazione nella partecipazione
alle sedi deliberative statali.
Tornando al tema della configurabilità del limite dell'interesse nazionale, l'Avvocatura ricorda come
nel dibattito dottrinario siano state numerose le voci che hanno radicato tale limite nell'art. 5 Cost., e, con
specifico riguardo alla materia dei lavori pubblici, osserva come essa presenti aspetti che non possono
prescindere da un'impostazione unitaria. Il regime degli appalti, ad esempio, presupporrebbe la
concorrenza delle imprese, materia che risulta assegnata alla competenza esclusiva dello Stato, e sempre
alla tutela della concorrenza dovrebbe essere ricondotta tutta la disciplina che riguarda i meccanismi di
aggiudicazione e di qualificazione delle imprese con riferimento alla materia delle opere pubbliche, che
pure è di competenza regionale. Proprio in considerazione dei profili delle materie di potestà concorrente
che possono incidere su interessi tutelati a livello unitario, e ricadenti nell'ambito delle materie di
competenza esclusiva statale, sarebbe giustificato il ricorso a una gestione uniforme e ispirata a esigenze
di sicurezza e di efficienza a livello nazionale di opere infrastrutturali essenziali allo sviluppo del Paese.
22. - Le Regioni Campania, Toscana, Marche, Basilicata, Emilia-Romagna, Umbria, Lombardia
hanno proposto questione di legittimità costituzionale in via principale, in riferimento agli artt. 3, 9, 32,
41, 42, 44, 70, 76, 77, 97, 114, 117, 118 e 119 Cost., nonché all'art. 174 del trattato istitutivo della
Comunità europea, dell'intero decreto legislativo 4 settembre 2002, n. 198, recante "Disposizioni volte ad
accelerare la realizzazione delle infrastrutture di telecomunicazioni strategiche per la modernizzazione e
lo sviluppo del Paese, a norma dell'art. 1, comma 2, della legge 21 dicembre 2001, n. 443", e in
particolare degli artt. 1, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 e 12.
Nei ricorsi regionali si osserva in via preliminare che la legge di delega n. 443 del 2001 autorizzava
l'adozione di una normativa specifica per le sole infrastrutture di telecomunicazione puntualmente
individuate anno per anno, mentre nel caso di specie non vi sarebbe stata tale individuazione, ma
esclusivamente una «sintesi del piano degli interventi nel comparto delle comunicazioni». Inoltre, si
osserva nei ricorsi delle Regioni Emilia-Romagna e Umbria, la delega sarebbe stata conferita per la
realizzazione di "grandi opere", mentre tralicci, pali, antenne, impianti radiotrasmittenti, ripetitori, che il
decreto legislativo n. 198 disciplina, costituirebbero solo una molteplicità di piccole opere, del tutto
estranee all'oggetto della delega. Infine, si aggiunge nei ricorsi delle Regioni Emilia-Romagna, Umbria e
Lombardia, lungi dall'uniformarsi ai principî e criteri direttivi della delega, il decreto impugnato, nell'art.
1, porrebbe i principî che informano le disposizioni successive, con ciò confermando la violazione della
delega.
Si invoca la violazione dei limiti della delega, nello specifico:
a) - per l'art. 3, in quanto la delega stabiliva che le infrastrutture strategiche dovessero essere
individuate d'intesa con la Regione, mentre di tale intesa non vi sarebbe traccia (ricorso della Regione
Toscana);
b) - per l'art. 3, comma 1, sull'assunto che non era stato conferito al Governo alcun potere di derogare
alle norme della legge 22 febbraio del 2001, n. 36 (ricorso delle Regioni Marche e Lombardia);
c) - per l'art. 3, comma 2, che dispone la deroga, sotto il profilo urbanistico, "ad ogni altra
disposizione di legge o di regolamento", là dove l'art. 1, comma 2, della legge n. 443 del 2001 prevedeva
solo una deroga «agli articoli 2, da 7 a 16, 19, 20, 21, da 23 a 30, 32, 34, 37- bis, 37-ter e 37-quater della
legge 11 febbraio 1994, n. 109», nonché alle ulteriori disposizioni della medesima legge che non fossero
necessaria ed immediata applicazione delle direttive comunitarie (ricorsi delle Regioni Marche e
Lombardia);
d) - per l'art. 4, comma 1, poiché in tale disposizione mancherebbe ogni riferimento a infrastrutture
che siano state dichiarate "strategiche" ai sensi della legge n. 443 del 2001, così da potere essere riferita
alle infrastrutture radioelettriche tout court (tutti i ricorsi);
e) - per l'art. 11, che avrebbe illegittimamente innovato al d.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 (ricorso della
Regione Marche);
f) - per l'art. 12, commi 1 e 2, il quale, disponendo l'efficacia delle nuova disciplina anche alle
installazioni di infrastrutture già assentite dalle amministrazioni, farebbe assumere al decreto impugnato,
in assenza di una specifica previsione di infrastrutture di telecomunicazioni strategiche nel programma
approvato dal CIPE nel 2001, una efficacia retroattiva (ricorsi delle Regioni Toscana e Marche);
g) - per l'art. 12, comma 4, che avrebbe eliminato le procedure di "valutazione di impatto
ambientale", là dove la delega contemplava solo la loro riforma (ricorso della Regione Marche). Inoltre
la medesima delega stabiliva che le infrastrutture strategiche sarebbero state individuate d'intesa con la
Regione, ma di tale intesa non vi sarebbe traccia nell'art. 3 del decreto legislativo impugnato (ricorso
della Regione Toscana).
In merito alla denunciata lesione dell'art. 117 Cost., nei ricorsi delle Regioni Campania, Toscana,
Marche, Basilicata e Lombardia si sostiene che il decreto legislativo n. 198 disciplinerebbe oggetti
riconducibili alle materie "ordinamento della comunicazione", "governo del territorio" e "tutela della
salute", di potestà concorrente, con disposizioni di minuto dettaglio. Nei ricorsi delle Regioni
Emilia-Romagna e Umbria, dopo aver notato come sia lo stesso legislatore a escludere di agire
nell'esercizio della potestà esclusiva quando asserisce, all'art. 1, di dettare i "principî fondamentali" nella
materia considerata, si afferma che nella materia oggetto del decreto legislativo n. 198 spetterebbe alle
Regioni una potestà legislativa piena, salvi gli aspetti relativi alla tutela dell'ambiente, della salute e
quelli collegati al governo del territorio, ossia alla localizzazione delle opere.
Risulterebbe inoltre indefinito, secondo la ricorrente Regione Marche, lo stesso criterio di
individuazione delle infrastrutture di telecomunicazione che dovrebbero rientrare nell'ambito della
disciplina derogatoria prevista dal legislatore delegante. Il provvedimento del CIPE al quale, ai sensi
dell'art. 1, comma 1, della legge di delega, era affidata l'individuazione delle opere, infatti, avrebbe
semplicemente indicato i flussi di investimento, non anche le opere da realizzare. Da ciò la conclusione
che le infrastrutture di telecomunicazioni si atterrebbero, per una parte, alla materia di potestà
concorrente "ordinamento della comunicazione", per l'altra, a materie come l'urbanistica e l'edilizia,
l'industria e il commercio, che sarebbero ascrivibili alla potestà legislativa residuale delle Regioni e che
non potrebbero essere svuotate del loro contenuto semplicemente invocando il carattere di "interesse
nazionale" delle opere da realizzare.
Nello specifico, i ricorsi regionali censurano le seguenti disposizioni del decreto legislativo n. 198
del 2002:
a) - l'art. 1, che imporrebbe, con normazione di dettaglio, una procedura derogatoria e unificata a
livello nazionale per opere che rientrerebbero anche nella competenza regionale, per la connessione
dell'oggetto della disciplina con materie di competenza regionale sia concorrente, sia residuale (ricorsi
delle Regioni Campania, Marche, Basilicata e Lombardia);
b) - l'art. 3, per la parte in cui afferma che le categorie di infrastrutture di telecomunicazioni
strategiche sono opere di interesse nazionale, realizzabili esclusivamente sulla base delle procedure
definite nel decreto, in deroga alle disposizioni dell'art. 8, comma 1, lettera c), della legge n. 36 del 2001,
che aveva previsto la competenza legislativa regionale nella definizione delle modalità per il rilascio
delle autorizzazioni all'installazione degli impianti; i commi 2 e 3 del medesimo articolo sono inoltre
impugnati in quanto stabiliscono che le infrastrutture di comunicazione possono essere realizzate in ogni
parte del territorio comunale anche in deroga agli strumenti urbanistici e ad ogni altra disposizione di
legge o di regolamento, con la precisazione che la disciplina delle opere di urbanizzazione primaria è
applicabile alle opere civili e in genere ai lavori e alle reti indispensabili per la realizzazione delle
infrastrutture di telecomunicazione. La deroga alle previsioni urbanistiche ed edilizie locali
determinerebbe lesione delle competenze regionali in materia di ordinamento della comunicazione,
governo del territorio, urbanistica ed edilizia e renderebbe vana ogni pianificazione territoriale, anche a
livello comunale (ricorsi delle Regioni Toscana, Marche, Basilicata, Emilia-Romagna, Umbria e
Lombardia); inoltre la medesima disposizione, liberalizzando, sotto il profilo urbanistico, il diritto di
installazione degli impianti di telecomunicazione, sacrificherebbe in modo eccessivo interessi
costituzionali come quello alla tutela del paesaggio e all'ordinato sviluppo urbanistico del territorio,
determinando una violazione del limite della utilità sociale che l'art. 41 Cost. pone alla iniziativa
economica privata (ricorsi delle Regioni Emilia-Romagna e Umbria);
c) - l'art. 4, il quale prevede che l'autorizzazione alla installazione sia rilasciata previo accertamento
della compatibilità del progetto con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità
stabiliti, con riferimento ai campi elettromagnetici, uniformemente a livello nazionale. Così disponendo,
il legislatore statale avrebbe vanificato la legislazione regionale già adottata in materia sulla base dell'art.
3, comma 1, lettera d), della legge n. 36 del 2001 (ricorsi Toscana, Emilia-Romagna e Umbria) e
impedito alle Regioni di porre, a tutela di interessi sanitari e ambientali delle rispettive popolazioni,
misure di garanzia ulteriori rispetto a quelle che il legislatore nazionale abbia fissato su tutto il territorio
nazionale (ricorso della Regione Lombardia);
d) - gli artt. 5 e 6, nel disciplinare i procedimenti di autorizzazione relativi alle infrastrutture di
telecomunicazione per impianti radioelettrici, detterebbero regole di estremo dettaglio in materia di
competenza regionale concorrente; inoltre le disposizioni in oggetto, unitamente all'art. 7, comma 7,
autorizzando l'installazione degli impianti in qualunque posizione, senza imporre distanze minime dalle
abitazioni, recherebbero un eccessivo e ingiustificato pregiudizio alla tutela dell'ambiente e della salute e
violerebbero in particolare il principio di precauzione di cui all'art. 174, comma 2, del trattato istitutivo
della CE, non essendo consentito, in tale materia, affidarsi alla "autodisciplina" dei privati come si è fatto
con la previsione di denunce di inizio attività e meccanismi di silenzio-assenso (ricorsi delle Regioni
Emilia-Romagna, Umbria e Lombardia);
e) - gli artt. 7, 8, 9 e 10, che pongono una disciplina di favore per le opere civili, gli scavi e le
occupazioni di suolo pubblico strumentali alla realizzazione delle infrastrutture di telecomunicazione,
favorirebbero alcuni operatori nel settore delle telecomunicazioni senza che le Regioni, pur titolari della
potestà legislativa in materia di ordinamento della comunicazione, abbiano in alcun modo potuto
interloquire sulla individuazione di tali soggetti e sulla necessità di ammetterli a tale regime speciale e
derogatorio (tutte le ricorrenti);
f) - l'art. 12, il quale, nel dettare le disposizioni finali, attribuisce valore di autorizzazione e di
dichiarazione di inizio attività anche ai titoli già rilasciati per l'installazione delle infrastrutture e alle
istanze già presentate, alla data di entrata in vigore della nuova normativa, per gli impianti con
tecnologia UMTS o con potenza di antenna eguale o inferiore a 20 Watt. La disposizione in oggetto, per
un verso, anticiperebbe l'applicazione della nuova normativa anche a infrastrutture che non sono state
ancora individuate con il programma delle opere strategiche, contraddicendo così l'art. 1 della legge di
delega n. 443 del 2001, per l'altro estenderebbe retroattivamente la disciplina derogatoria già denunciata
come lesiva delle competenze regionali. Pure incostituzionale sarebbe, secondo la Regione Marche,
l'abrogazione dell'art. 2-bis della legge 1° luglio 1997, n. 189, per effetto della quale risulterebbe esclusa
la competenza della Regione a prevedere, nell'esercizio delle proprie attribuzioni legislative,
l'applicazione di procedure di valutazione di impatto ambientale anche in relazione ad oggetti non
specificamente individuati dalle direttive comunitarie.
Ulteriori censure, diverse da quelle che denunciano la violazione del quadro costituzionale delle
competenze legislative, investono:
a) - gli artt. 3, comma 2; 5; 7; 9; 12, commi 3 e 4; nonché gli allegati A, B, C e D. Le norme e gli
allegati in discorso attribuirebbero al Governo un potestà normativa diretta alla modificazione o
integrazione dei regolamenti di esecuzione e attuazione della legislazione finora vigenti in materie di
potestà concorrente, in tal modo violando l'art. 117, sesto comma, Cost., il quale riconosce allo Stato la
potestà regolamentare solo nelle materie di legislazione esclusiva statale (ricorso della Regione Marche);
b) - gli articoli e allegati citati nel punto precedente (ricorso della Regione Marche), nonché gli artt.
da 4 a 9 (ricorso della Regione Toscana), che, nel disciplinare dettagliatamente il procedimento per il
rilascio dei titoli abilitativi per l'installazione delle infrastrutture di telecomunicazioni e per le opere
connesse, si porrebbero in contrasto con l'art. 118 Cost., il quale affiderebbe alle Regioni la competenza
a distribuire le funzioni nelle materie in cui è ad esse riconosciuta potestà legislativa concorrente o
residuale. Nel caso di specie sarebbe lesiva delle attribuzioni regionali l'allocazione a livello centrale
delle funzioni amministrative relative alla specifica localizzazione sul territorio e alla concreta
realizzazione delle infrastrutture di telecomunicazione;
c) - gli artt. 5, commi 3, 4, 5, 6, e 7; 6, comma 1; 7, commi 2, 3, 4, 5, 6, e 7; 8, comma 3; 9, commi 1,
2, e 3; 12, comma 4 (ricorso della Regione Marche), che, disponendo una serie di semplificazioni
procedurali dei processi decisionali per la realizzazione delle infrastrutture di telecomunicazioni
impedirebbero alle Regioni di concorrere all'attuazione del valore costituzionale della tutela ambientale;
d) - in particolare gli artt. 7, comma 5; e 9, comma 3, sono impugnati nel ricorso della Regione
Basilicata per la parte in cui prevedono che nell'ipotesi di contrasto fra le amministrazioni interessate
nella procedura di installazione di infrastrutture di comunicazione la decisione sia rimessa al Presidente
del Consiglio dei ministri, con ciò sacrificando, secondo la prospettazione regionale, le attribuzioni
riconosciute in materia alla Regione e contraddicendo la legge n. 241 del 1990, che affida la decisione
finale al Consiglio dei ministri solo quando l'amministrazione dissenziente o procedente sia
un'amministrazione statale e non anche nelle altre ipotesi, nelle quali la potestà decisionale sarebbe
conferita ai competenti organi esecutivi degli enti territoriali;
e) - l'art. 9, commi 5 e 10, per la parte in cui impone agli enti locali forme di programmazione in
tempi predefiniti dal legislatore statale e limita, per gli operatori, gli oneri connessi alle attività di
installazione, scavo e occupazione di suolo pubblico, violerebbe il principio dell'autonomia finanziaria, il
quale postulerebbe che tutte le funzioni amministrative spettanti alle Regioni e diverse da quelle
ordinarie siano finanziate attraverso la diretta attribuzione di risorse ai loro bilanci, senza vincoli sulle
modalità di spesa, e comunque precluderebbe allo Stato di limitare l'autonomia regionale nella selezione
degli strumenti da impiegare per realizzare le grandi opere di interesse nazionale (ricorsi delle Regioni
Campania, Toscana, Marche, Emilia-Romagna e Umbria);
f) - gli artt. 5, comma 6; 7, comma 4; 9, comma 2, che estendono la regola della maggioranza
all'adozione dell'atto finale in Conferenza dei servizi, con ciò determinando, secondo la ricorrente
Regione Campania, la totale pretermissione della volontà della Regione in materie di propria
competenza;
g) - l'intero decreto legislativo, poiché, nel disporre, nel complesso delle sue disposizioni e
segnatamente nell'art. 13, un trattamento differenziato per le Regioni ordinarie rispetto alle Regioni ad
autonomia speciale, violerebbe il principio di parità di trattamento fra le autonomie regionali e il
principio di ragionevolezza, posto che tale diversità di trattamento sarebbe ormai ingiustificata, alla luce
della revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione e specificamente della clausola di estensione
di cui all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 (ricorsi delle Regioni Emilia-Romagna, Umbria
e Lombardia).
23. - Si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, con il patrocinio dell'Avvocatura generale
dello Stato, e ha chiesto che i ricorsi siano rigettati.
Secondo la difesa erariale non sussisterebbe alcuna violazione dell'art. 76 Cost., giacché la legge di
delega specificamente riguardava le "infrastrutture pubbliche e private e gli insediamenti produttivi
strategici e di preminente interesse nazionale da realizzare per la modernizzazione e lo sviluppo del
Paese", la cui individuazione concreta era rimessa a un programma approvato dal CIPE che, nell'allegato
5, elencherebbe le infrastrutture di telecomunicazioni per la realizzazione dei servizi UMTS, banda larga
e digitale terrestre. La piena conformità alla delega del decreto legislativo impugnato sarebbe
comprovata anche dal fatto che con esso si sarebbero razionalizzate le procedure autorizzatorie per
l'installazione degli impianti di telecomunicazioni, come richiedeva l'art. 1, comma 2, lettera b), della
delega. Il decreto non inciderebbe neppure, prosegue l'Avvocatura, sulla disciplina relativa ai limiti di
esposizione ai campi elettromagnetici contenuta nella legge n. 36 del 2001, ma al contrario imporrebbe il
rispetto dei limiti attualmente fissati nel decreto ministeriale 3 settembre 1997, n. 381.
In ordine alla denunciata lesione della competenza legislativa concorrente delle Regioni, la difesa
statale sostiene che la materia cui inerisce il decreto legislativo sia esclusivamente quella della tutela
dell'ambiente e non già quella del governo del territorio e contesta il rilievo secondo il quale non sarebbe
consentito nel caso in esame stabilire una normativa uniforme a livello nazionale, poiché alcune Regioni
avrebbero già esercitato la loro potestà legislativa in tema di localizzazione degli impianti di
telecomunicazioni, rammentando come le leggi regionali emanate in questa materia siano state tutte
impugnate dal Governo proprio sotto il profilo della violazione della competenza esclusiva statale in
materia di ambiente. L'ulteriore interesse sottostante la disciplina oggetto di impugnazione consisterebbe
nella tutela della concorrenza nel settore delle telecomunicazioni, che sarebbe certo favorita dalla
previsione di procedure autorizzatorie uniformi su tutto il territorio nazionale.
Quanto alla dedotta violazione dell'art. 118 Cost., l'Avvocatura contesta l'assunto dei ricorrenti,
secondo il quale l'esigenza di esercizio unitario delle funzioni amministrative non potrebbe costituire un
titolo autonomo legittimante l'intervento del legislatore statale, osservando come sia ancora controversa,
in dottrina, l'applicabilità alla legislazione concorrente regionale dei principî di sussidiarietà e di
adeguatezza e proseguendo che il limite dell'interesse nazionale, pur non più menzionato in Costituzione,
potrebbe comunque essere considerato contenuto implicito del principio di unità e indivisibilità della
Nazione.
24. - Nei giudizi instaurati con i ricorsi delle Regioni Campania, Toscana e Marche hanno spiegato
intervento le società H3G s.p.a., T.I.M. s.p.a. - Telecom Italia Mobile, Vodafone Omnitel N.V. (già
Vodafone Omnitel s.p.a.), Wind Telecomunicazioni s.p.a.; in quelli introdotti con i ricorsi delle Regioni
Basilicata, Emilia-Romagna, Umbria e Lombardia tutte le società menzionate, tranne H3G s.p.a. Tutti gli
intervenienti hanno chiesto che le questioni sollevate siano dichiarate improponibili, inammissibili e
comunque infondate.
25. - Avverso gli artt. 1, 3, 4, 5, 6, 7, 9 e 12 e gli allegati A, B, C, D del decreto legislativo n. 198 del
2002 ha proposto ricorso, «per sollevare questione di legittimità costituzionale e conflitto di
attribuzione», anche il Comune di Vercelli. Il ricorrente ritiene che la propria legittimazione ad
impugnare discenderebbe dal fatto che la revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione avrebbe
attribuito direttamente ai Comuni potestà amministrative e normative che dovrebbero poter essere difese
nel giudizio di legittimità costituzionale in via di azione e nel giudizio per conflitto di attribuzione.
25.1. - Nel giudizio promosso dal Comune di Vercelli si è costituito il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale preliminarmente ha
eccepito il difetto di legittimazione al ricorso da parte del Comune, chiedendo che il ricorso sia
dichiarato improponibile e inammissibile.
Ha spiegato intervento, con atto pervenuto fuori termine, T.I.M. s.p.a. - Telecom Italia Mobile.
26. - In prossimità dell'udienza pubblica del 25 marzo tutte le parti, nonché gli intervenienti, hanno
depositato ulteriori memorie difensive.
26.1. - In via preliminare le Regioni Toscana, Marche, Basilicata, Emilia-Romagna, Umbria e
Lombardia contestano che la disciplina impugnata riguardi infrastrutture inserite nel programma di
individuazione delle opere strategiche approvato dal CIPE il 21 dicembre 2001. Si afferma in proposito
che, in base all'allegato 5 richiamato dalla difesa erariale, il legislatore avrebbe proceduto solo sulla base
di una «sintesi del piano degli interventi nel comparto delle telecomunicazioni», rinviando a una futura
delibera del CIPE l'individuazione delle opere ritenute strategiche, ciò che peraltro la legge di delega non
avrebbe consentito. La disciplina impugnata troverebbe dunque applicazione nei confronti di opere che
non sarebbero state indicate come strategiche e si sarebbero perciò sottratte alla previa intesa con le
Regioni. Tale conclusione, secondo la Regione Toscana, sarebbe confermata dall'art. 12 del decreto, che
attribuisce efficacia retroattiva alle norme impugnata.
Nelle memorie si contesta anzitutto che il decreto legislativo in esame, come sostenuto
dall'Avvocatura, si attenga alle materie della tutela della concorrenza (memorie delle Regioni Campania,
Toscana, Marche, Emilia-Romagna, Umbria e Lombardia) o a quella della tutela dell'ambiente e della
salute (memorie delle Regioni Campania, Toscana, Marche, Basilicata, Emilia-Romagna, Umbria e
Lombardia), rilevandosi in tale ultimo caso come la relazione al decreto fornisca una indicazione
palesemente contraria. Del resto, si osserva nelle memorie difensive di Toscana, Emilia-Romagna,
Umbria e Lombardia, la giurisprudenza costituzionale più recente sarebbe chiara nell'affermare che in
materia di tutela dell'ambiente spetterebbe allo Stato solo il potere di fissare standard di tutela uniformi
sull'intero territorio nazionale, non anche di escludere l'intervento regionale negli ambiti di propria
competenza, come sarebbe quello dei lavori pubblici, materia non più contemplata negli elenchi dell'art.
117, commi secondo e terzo, Cost. La stessa tutela della concorrenza, si aggiunge nella memoria delle
Marche, non potrebbe giustificare la previsione di un procedimento derogatorio delle procedure
ordinarie, giacché nessuna violazione della par condicio degli imprenditori interessati al settore potrebbe
derivare dal rispetto di tali procedure.
Nella memoria della Regione Toscana si pone in risalto come la disciplina del procedimento di
installazione degli impianti non costituisca di per sé una materia e si sostiene che spetterebbe all'ente
competente legiferare nella materia cui inerisce il procedimento. Nelle materie di potestà concorrente,
come quelle coinvolte dalle disposizioni impugnate, il legislatore statale avrebbe dovuto dettare i principî
cui il legislatore regionale avrebbe dovuto attenersi nella disciplina legislativa di quel procedimento,
conformemente, del resto, a quanto era stato già fatto con la legge n. 36 del 2001.
Del pari da respingere, si sostiene nella memoria dell'Emilia-Romagna, sarebbe la prospettazione
della difesa erariale secondo la quale tutte le attività che coinvolgono interessi sovraregionali, in forza
dei principî di sussidiarietà e di adeguatezza, esigerebbero una disciplina unitaria a livello statale. Si
afferma al riguardo che il decreto legislativo n. 198 del 2002 non coinvolgerebbe interessi
sovraregionali, disciplinando l'installazione di vari singoli impianti di comunicazione e che comunque i
principî di sussidiarietà e adeguatezza riguardano l'allocazione delle funzioni amministrative da parte dei
legislatori competenti, mentre l'allocazione delle funzioni legislative è direttamente posta nell'art. 117
Cost.
Ad avviso della Regione Lombardia, nell'impianto del decreto legislativo impugnato assumerebbe
una particolare rilevanza l'art. 3, comma 2, che sancirebbe l'automatica prevalenza dell'interesse statale
alla installazione delle infrastrutture su tutti gli interessi alla cui tutela sono preposte le autonomie
territoriali, potendo essa derogare anche agli strumenti urbanistici. La difformità di tale automatismo
rispetto all'ordine costituzionale delle competenze sarebbe stata già riconosciuta dalla Corte
costituzionale in altre consimili occasioni (si citano, ad esempio, le sentenze n. 524 del 2002 e n. 206 del
2001), nelle quali la modifica dello strumento urbanistico senza il consenso della Regione sarebbe stata
ritenuta lesiva delle competenze regionali in materia urbanistica.
Riguardo agli interventi degli operatori di telecomunicazione Tim, Wind, Vodafone Omnitel e H3G,
le Regioni Toscana, Marche, Emilia-Romagna e Lombardia ne eccepiscono preliminarmente la
inammissibilità e contestano puntualmente le argomentazioni da questi spese avverso i ricorsi regionali.
26.2. - L 'Avvocatura generale dello Stato insiste per il rigetto del ricorso.
Tutti i ricorsi, secondo la difesa statale, prenderebbero le mosse da una errata impostazione
concettuale: la totale svalutazione della nozione di "rete", che assumerebbe un decisivo rilievo, tanto
sotto il profilo tecnico quanto nei risvolti giuridici, per quanto attiene alle infrastrutture di
telecomunicazione. La natura delle opere in oggetto renderebbe del tutto priva di senso la visione
parcellizzata e atomistica dell'impianto di telecomunicazione che appare sottesa alle censure di
costituzionalità. Dalla struttura fenomenica dell'oggetto della disciplina discenderebbe dunque la assoluta
necessità di fissare, su base nazionale, limiti e criteri omogenei, uniformi e non discriminanti, in assenza
dei quali una "rete" non sarebbe neppure configurabile. Non potrebbero comunque essere compromessi,
«in assenza di obiettive ragionevoli giustificazioni e di essenziali interessi meritevoli di tutela
dall'ordinamento», la completezza e la funzionalità delle reti e l'efficiente espletamento del servizio
universale, che peraltro costituiscono oggetto di obblighi comunitari.
Quanto alla denunciata violazione della competenza legislativa concorrente delle Regioni si osserva
che la materia cui inerisce il decreto legislativo n. 198 deve considerarsi quella della tutela dell'ambiente,
di competenza legislativa esclusiva statale: il principale interesse al quale è preordinata la disciplina
impugnata sarebbe infatti quello del rispetto dei limiti alle emissioni elettromagnetiche. Pur volendo
accedere alla ricostruzione dell'ambiente come materia trasversale, non potrebbe negarsi, ad avviso della
difesa erariale, che il legislatore nazionale possa fissare principî e criteri uniformi, per l'intero territorio,
proprio ad evitare distorsioni e impedimenti che metterebbero a rischio la stessa esistenza della rete
unitaria. Del resto la possibilità per lo Stato di legiferare anche in materie di potestà legislativa
concorrente o addirittura esclusiva, quando vi sia la necessità di garantire livelli minimi e uniformi di
tutela sull'intero territorio nazionale, sarebbe stata riconosciuta dalla Corte costituzionale con la sentenza
n. 536 del 2002. Nella fattispecie all'esame della Corte un limite alla legislazione regionale sarebbe
desumibile dall'art. 120, comma 1, Cost., il quale mira ad escludere che le Regioni possano adottare
«provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le
Regioni»: l'efficacia di funzionamento della rete potrebbe essere compromessa da normative regionali
che frappongano ostacoli alla sua configurazione funzionale e alla circolazione degli apparati di telefonia
mobile. La normativa statale impugnata sarebbe poi preordinata ad attuare il principio costituzionale
della tutela della concorrenza, riservata alla competenza esclusiva statale. Se non fossero definite
procedure certe e uniformi sull'intero territorio nazionale, prosegue la difesa statale, non solo si
violerebbe la disciplina comunitaria, ma si verrebbe a determinare una anomala distorsione del mercato
sia a livello internazionale, sia all'interno.
Sarebbe da respingere anche la censura fondata sull'asserita lesione dell'art. 118 Cost., essendo
possibile sostenere, in applicazione del principio di sussidiarietà, che le potestà regionali debbano
conformarsi agli interessi della comunità regionale, mentre tutte le attività che coinvolgono interessi
sovraregionali esigono una disciplina unitaria a livello statale, anche nelle materie di competenza
concorrente.
L'Avvocatura si diffonde infine sulle conseguenze di carattere economico che deriverebbero
dall'accoglimento dei ricorsi e rammenta come l'esigenza di una armonizzazione nell'adozione di
procedure per l'installazione degli impianti di telecomunicazione sia stata espressa anche nella cosiddetta
direttiva "quadro", 2002/21/CE, in via di recepimento.
26.3. - Nelle memorie depositate dalle società TIM s.p.a. - Telecom Italia Mobile, H3G s.p.a., Wind
Telecomunicazioni s.p.a. e Vodafone Omnitel N.V., si argomenta anzitutto sulla ammissibilità degli
interventi proposti e si sostiene che esse sono titolari di un interesse, rilevante, autonomo e
particolarmente qualificato, anche in virtù della delibera CIPE n. 121 del 21 dicembre 2001, ad ottenere
l'accertamento della legittimità delle norme impugnate, poiché, qualora i ricorsi fossero accolti, vi
sarebbe una diretta e irrimediabile lesione della propria libertà di iniziativa economica. Inoltre, la società
TIM assume che negare la possibilità di intervenire a difesa dei propri interessi concreterebbe una
lesione del diritto di difesa che l'art. 24 Cost. assicura come inviolabile e ciò in quanto, nell'ipotesi di
accoglimento dei ricorsi, la decisione della Corte risulterebbe incontestabile in altre sedi giudiziarie. La
medesima società chiede in ogni caso che sia preso in considerazione il contributo informativo che è in
grado di offrire a causa della sua specifica competenza di esercente un servizio di rilevanza pubblicistica.
Nel merito tutti gli atti di intervento si diffondono nell'argomentare le ragioni della ritenuta
legittimità del decreto legislativo n. 198 del 2002.
27. - Sono intervenuti, con atti pervenuti fuori termine, il Comune di Roma nel giudizio promosso
con il ricorso della Regione Umbria; i Comuni di Monte Porzio Catone, Pontecurone e Mantova nei
giudizi promossi con i ricorsi delle Regioni Campania, Toscana, Marche, Basilicata, Emilia-Romagna,
Umbria, Lombardia e del Comune di Vercelli; il Comune di Polignano a Mare e il Coordinamento delle
associazioni consumatori (CODACONS) nel giudizio promosso con il ricorso della Regione Lombardia.
28. - All'udienza pubblica del 25 marzo 2003, in sede di discussione, le parti ricorrenti, nonché gli
intervenienti, hanno illustrato le rispettive ragioni e ribadito le conclusioni già rassegnate negli atti
depositati.
Considerato in diritto
1. - Le Regioni Marche, Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna e la Provincia autonoma di Trento
(reg. ric. nn. 9, 11, 13-15 del 2002) denunciano la legge 21 dicembre 2001, n. 443 (Delega al Governo in
materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività
produttive), cosiddetta "legge obiettivo", il cui unico articolo è impugnato in più commi e, segnatamente,
nei commi da 1 a 12 e nel comma 14, censurati per asserito contrasto con gli articoli 117, 118 e 119 della
Costituzione.
La Regione Toscana (reg. ric. n. 68 del 2002) impugna, per contrasto con gli artt. 117, 118 e 119
Cost., anche l'art. 13, commi 1, 3, 4, 5, 6 e 11, della legge 1° agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in materia
di infrastrutture e trasporti), che reca alcune modifiche alla legge n. 443 del 2001.
La Regione Toscana, la Provincia autonoma di Bolzano, la Regione Marche e la Provincia autonoma
di Trento (reg. ric. nn. 79-81 e 83 del 2002) denunciano altresì numerosi articoli del decreto legislativo
20 agosto 2002, n. 190 (Attuazione della legge 21 dicembre 2001, n. 443, per la realizzazione delle
infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale), in riferimento agli artt.
76, 117, 118 e 120 Cost., nonché allo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, nel testo approvato con
d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo
statuto speciale per il Trentino-Alto Adige).
Infine, le Regioni Campania, Toscana, Marche, Basilicata, Emilia-Romagna, Umbria e Lombardia
ed il Comune di Vercelli (reg. ric. nn. 84-91 del 2002) impugnano sia l'intero testo del decreto legislativo
4 settembre 2002, n. 198 (Disposizioni volte ad accelerare la realizzazione delle infrastrutture di
telecomunicazioni strategiche per la modernizzazione e lo sviluppo del Paese, a norma dell'art. 1, comma
2, della legge 21 dicembre 2001, n. 443), sia, specificamente, numerosi articoli del medesimo decreto
legislativo, lamentando la violazione degli artt. 3, 9, 32, 41, 42, 44, 70, 76, 77, 97, 114, 117, 118 e 119
Cost., nonché dell'art. 174 del trattato istitutivo della Comunità europea.
1.1. - La stretta connessione per oggetto e per titolo delle norme denunciate, tutte contenute nella
legge di delega n. 443 del 2001 e nei decreti legislativi n. 190 e n. 198 del 2002 che se ne proclamano
attuativi, nonché la sostanziale analogia delle censure prospettate dalle ricorrenti, rendono opportuna la
trattazione congiunta dei ricorsi, che vanno quindi decisi con un'unica sentenza.
2. - Prima di affrontare nel merito le censure proposte dalle ricorrenti è opportuno soffermarsi sul
contenuto della legge n. 443 del 2001. Si tratta di una disciplina che definisce il procedimento da seguire
per l'individuazione, la localizzazione e la realizzazione delle infrastrutture pubbliche e private e degli
insediamenti produttivi strategici di preminente interesse nazionale da realizzare per la modernizzazione
e lo sviluppo del Paese. Il procedimento si articola secondo queste cadenze: il compito di individuare le
suddette opere, da assolversi "nel rispetto delle attribuzioni costituzionali delle Regioni", è conferito al
Governo (comma 1). Nella sua originaria versione la disposizione stabiliva che l'individuazione
avvenisse, sentita la Conferenza unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, a
mezzo di un programma "formulato su proposta dei Ministri competenti, sentite le Regioni interessate,
ovvero su proposta delle Regioni, sentiti i Ministri competenti". Il programma doveva tener conto del
piano generale dei trasporti e doveva essere inserito nel Documento di programmazione
economico-finanziaria (DPEF), con indicazione degli stanziamenti necessari per la realizzazione delle
opere. Nell'individuare le infrastrutture e gli insediamenti strategici il Governo era tenuto a procedere
"secondo finalità di riequilibrio socio-economico fra le aree del territorio nazionale" e ad indicare nel
disegno di legge finanziaria "le risorse necessarie, che integrano i finanziamenti pubblici, comunitari e
privati allo scopo disponibili". L'originario comma 1 prevedeva, infine, che "in sede di prima
applicazione della presente legge il programma è approvato dal Comitato interministeriale per la
programmazione economica (CIPE) entro il 31 dicembre 2001".
Il comma 1 dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001 è stato modificato dall'art. 13, comma 3, della
legge 1° agosto 2002, n. 166, che ha mantenuto in capo al Governo l'individuazione delle infrastrutture e
degli insediamenti strategici e di preminente interesse nazionale, ma ha elevato il livello di
coinvolgimento delle Regioni e delle Province autonome, introducendo espressamente un'intesa: in base
all'art. 1, comma 1, attualmente vigente, l'individuazione delle opere si definisce a mezzo di un
programma che è predisposto dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti "d'intesa con i Ministri
competenti e le Regioni o Province autonome interessate". Tale programma deve essere inserito sempre
nel DPEF ma previo parere del CIPE e "previa intesa della Conferenza unificata", e gli interventi in esso
previsti "sono automaticamente inseriti nelle intese istituzionali di programma e negli accordi di
programma quadro nei comparti idrici ed ambientali […] e sono compresi in un'intesa generale quadro
avente validità pluriennale tra il Governo e ogni singola Regione o Provincia autonoma, al fine del
congiunto coordinamento e realizzazione delle opere". Anche nella sua attuale versione la norma
ribadisce tuttavia che "in sede di prima applicazione della presente legge il programma è approvato dal
CIPE entro il 31 dicembre 2001".
Regolata la fase di individuazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di
preminente interesse nazionale, la legge n. 443 del 2001, al comma 2, conferisce al Governo la delega ad
emanare, entro 12 mesi dall'entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi "volti a definire un
quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti individuati
ai sensi del comma 1", dettando, alle lettere da a) ad o) del medesimo comma 2, i principî e i criteri
direttivi per l'esercizio del potere legislativo delegato. Questi ultimi investono molteplici aspetti di
carattere procedimentale: sono fissati i moduli procedurali per addivenire all'approvazione dei progetti,
preliminari e definitivi, delle opere [lettere b) e c)], dovendo risultare, quelli preliminari, "comprensivi di
quanto necessario per la localizzazione dell'opera d'intesa con la Regione o la Provincia autonoma
competente, che, a tal fine, provvede a sentire preventivamente i Comuni interessati" [lettera b)]; sono
individuati i modelli di finanziamento [tecnica di finanza di progetto: lettera a)], di affidamento
[contraente generale o concessionario: in particolare lettere e) ed f)] e di aggiudicazione [lettere g) e h)],
ed è predisposta la relativa disciplina, anche in deroga alla legge 11 febbraio 1994, n. 109, ma nella
prescritta osservanza della normativa comunitaria.
L'assetto procedimentale così sinteticamente descritto - che trova ulteriore svolgimento in numerose
altre disposizioni della legge n. 443 del 2001, tra le quali quelle sulla disciplina edilizia (commi da 6 a 12
e comma 14), anch'esse impugnate - si completa con il comma 3-bis, introdotto dal comma 6 dell'art. 13
della legge n. 166 del 2002, il quale prevede una procedura di approvazione dei progetti definitivi
"alternativa" a quella stabilita dal precedente comma 2, demandata ad un decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri previa deliberazione del CIPE integrato dai Presidenti delle Regioni e Province
autonome interessate, sentita la Conferenza unificata e previo parere delle competenti commissioni
parlamentari.
2.1. - Questa Corte non è chiamata, nella odierna sede, a giudicare se le singole opere inserite nel
programma meritino di essere considerate strategiche, se sia corretta la loro definizione come interventi
di preminente interesse nazionale o se con tali qualificazioni siano lese competenze legislative delle
Regioni. Simili interrogativi potranno eventualmente porsi nel caso di impugnazione della deliberazione
approvativa del programma, che non ha natura legislativa. In questa sede si tratta solo di accertare se il
complesso iter procedimentale prefigurato dal legislatore statale sia ex se invasivo delle attribuzioni
regionali; si deve cioè appurare se il legislatore nazionale abbia titolo per assumere e regolare l'esercizio
di funzioni amministrative su materie in relazione alle quali esso non vanti una potestà legislativa
esclusiva, ma solo una potestà concorrente.
Il nuovo art. 117 Cost. distribuisce le competenze legislative in base ad uno schema imperniato sulla
enumerazione delle competenze statali; con un rovesciamento completo della previgente tecnica del
riparto sono ora affidate alle Regioni, oltre alle funzioni concorrenti, le funzioni legislative residuali.
In questo quadro, limitare l'attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli
in potestà esclusiva o alla determinazione dei principî nelle materie di potestà concorrente, come
postulano le ricorrenti, significherebbe bensì circondare le competenze legislative delle Regioni di
garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti
costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una
deroga alla normale ripartizione di competenze [basti pensare al riguardo alla legislazione concorrente
dell'ordinamento costituzionale tedesco (konkurrierende Gesetzgebung) o alla clausola di supremazia nel
sistema federale statunitense (Supremacy Clause)]. Anche nel nostro sistema costituzionale sono presenti
congegni volti a rendere più flessibile un disegno che, in ambiti nei quali coesistono, intrecciate,
attribuzioni e funzioni diverse, rischierebbe di vanificare, per l'ampia articolazione delle competenze,
istanze di unificazione presenti nei più svariati contesti di vita, le quali, sul piano dei principî giuridici,
trovano sostegno nella proclamazione di unità e indivisibilità della Repubblica. Un elemento di
flessibilità è indubbiamente contenuto nell'art. 118, primo comma, Cost., il quale si riferisce
esplicitamente alle funzioni amministrative, ma introduce per queste un meccanismo dinamico che
finisce col rendere meno rigida, come si chiarirà subito appresso, la stessa distribuzione delle
competenze legislative, là dove prevede che le funzioni amministrative, generalmente attribuite ai
Comuni, possano essere allocate ad un livello di governo diverso per assicurarne l'esercizio unitario,
sulla base dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. È del resto coerente con la
matrice teorica e con il significato pratico della sussidiarietà che essa agisca come subsidium quando un
livello di governo sia inadeguato alle finalità che si intenda raggiungere; ma se ne è comprovata
un'attitudine ascensionale deve allora concludersi che, quando l'istanza di esercizio unitario trascende
anche l'ambito regionale, la funzione amministrativa può essere esercitata dallo Stato. Ciò non può
restare senza conseguenze sull'esercizio della funzione legislativa, giacché il principio di legalità, il quale
impone che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge, conduce
logicamente ad escludere che le singole Regioni, con discipline differenziate, possano organizzare e
regolare funzioni amministrative attratte a livello nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa
attendere a un compito siffatto.
2.2. - Una volta stabilito che, nelle materie di competenza statale esclusiva o concorrente, in virtù
dell'art. 118, primo comma, la legge può attribuire allo Stato funzioni amministrative e riconosciuto che,
in ossequio ai canoni fondanti dello Stato di diritto, essa è anche abilitata a organizzarle e regolarle, al
fine di renderne l'esercizio permanentemente raffrontabile a un parametro legale, resta da chiarire che i
principî di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale riparto di competenze legislative
contenuto nel Titolo V e possono giustificarne una deroga solo se la valutazione dell'interesse pubblico
sottostante all'assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta
da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità, e sia oggetto di un accordo
stipulato con la Regione interessata. Che dal congiunto disposto degli artt. 117 e 118, primo comma, sia
desumibile anche il principio dell'intesa consegue alla peculiare funzione attribuita alla sussidiarietà, che
si discosta in parte da quella già conosciuta nel nostro diritto di fonte legale. Enunciato nella legge 15
marzo 1997, n. 59 come criterio ispiratore della distribuzione legale delle funzioni amministrative fra lo
Stato e gli altri enti territoriali e quindi già operante nella sua dimensione meramente statica, come
fondamento di un ordine prestabilito di competenze, quel principio, con la sua incorporazione nel testo
della Costituzione, ha visto mutare il proprio significato. Accanto alla primitiva dimensione statica, che
si fa evidente nella tendenziale attribuzione della generalità delle funzioni amministrative ai Comuni, è
resa, infatti, attiva una vocazione dinamica della sussidiarietà, che consente ad essa di operare non più
come ratio ispiratrice e fondamento di un ordine di attribuzioni stabilite e predeterminate, ma come
fattore di flessibilità di quell'ordine in vista del soddisfacimento di esigenze unitarie.
Ecco dunque dove si fonda una concezione procedimentale e consensuale della sussidiarietà e
dell'adeguatezza. Si comprende infatti come tali principî non possano operare quali mere formule verbali
capaci con la loro sola evocazione di modificare a vantaggio della legge nazionale il riparto
costituzionalmente stabilito, perché ciò equivarrebbe a negare la stessa rigidità della Costituzione. E si
comprende anche come essi non possano assumere la funzione che aveva un tempo l'interesse nazionale,
la cui sola allegazione non è ora sufficiente a giustificare l'esercizio da parte dello Stato di una funzione
di cui non sia titolare in base all'art. 117 Cost. Nel nuovo Titolo V l'equazione elementare interesse
nazionale = competenza statale, che nella prassi legislativa previgente sorreggeva l'erosione delle
funzioni amministrative e delle parallele funzioni legislative delle Regioni, è divenuta priva di ogni
valore deontico, giacché l'interesse nazionale non costituisce più un limite, né di legittimità, né di merito,
alla competenza legislativa regionale.
Ciò impone di annettere ai principî di sussidiarietà e adeguatezza una valenza squisitamente
procedimentale, poiché l'esigenza di esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione
amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale
solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività
concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al
principio di lealtà.
2.3. - La disciplina contenuta nella legge n. 443 del 2001, come quella recata dal decreto legislativo
n. 190 del 2002, investe solo materie di potestà statale esclusiva o concorrente ed è quindi estranea alla
materia del contendere la questione se i principî di sussidiarietà e adeguatezza permettano di attrarre allo
Stato anche competenze legislative residuali delle Regioni. Ed è opportuno chiarire fin d'ora, anche per
rendere più agevole il successivo argomentare della presente sentenza, che la mancata inclusione dei
"lavori pubblici" nella elencazione dell'art. 117 Cost., diversamente da quanto sostenuto in numerosi
ricorsi, non implica che essi siano oggetto di potestà legislativa residuale delle Regioni. Al contrario, si
tratta di ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda
dell'oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative
esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti.
3. - Alla stregua dei paradigmi individuati nei paragrafi che precedono, devono essere saggiate le
censure che si appuntano sulla legge n. 443 del 2001, nella sua versione originaria ed in quella
modificata dalla legge n. 166 del 2002.
3.1. - Per primo deve essere esaminato il ricorso della Provincia autonoma di Trento, nel quale
vengono censurati i commi da 1 a 4 dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001 sul parametro dell'art. 117
Cost. Il ricorso è proposto sulla premessa che le competenze provinciali fondate sullo statuto speciale
non siano scalfite; sarebbero invece lese le attribuzioni spettanti alla Provincia ai sensi dell'art. 117 Cost.,
in virtù della clausola di favore contenuta nell'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3,
secondo la quale alle Regioni speciali e alle Province autonome, fino all'adeguamento dei rispettivi
statuti, si applica la disciplina del nuovo titolo V nella parte in cui assicura forme di autonomia più ampie
rispetto a quelle previste dagli statuti stessi. In particolare, il comma 5 del denunciato art. 1, nel fare
salve le competenze delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome, di cui agli statuti speciali
e alle relative norme di attuazione, lascerebbe indenni le attribuzioni di cui al d.P.R. 22 marzo 1974, n.
381, per il quale, per gli interventi concernenti le autostrade (art. 19), la viabilità, le linee ferroviarie e gli
aerodromi (art. 20), lo Stato deve ottenere la previa intesa della Provincia. Del pari la posizione della
Provincia risulterebbe garantita dal decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 e segnatamente dall'art. 4,
che le riserva "la gestione amministrativa di ogni opera che lo statuto non assegni alla competenza
statale".
La Provincia, ponendo a base del proprio ricorso la violazione di competenze più ampie rispetto a
quelle statutarie, che assume derivanti dall'art. 117 Cost., aveva l'onere di individuarle nel raffronto con
le competenze statutarie, che, per sua stessa ammissione, sono fatte salve dalla legge oggetto di
impugnazione. Ai fini di una corretta instaurazione del giudizio di legittimità costituzionale la ricorrente
non poteva quindi limitarsi al mero richiamo all'art. 117 Cost.
Il ricorso è pertanto inammissibile.
3.2. - In via preliminare va dichiarato inammissibile il congiunto intervento ad adiuvandum
dell'Associazione Italia Nostra-Onlus, di Legambiente-Onlus, dell'Associazione italiana per il World
Wide Fund For Nature (WWF)-Onlus, nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Toscana
avverso la legge n. 166 del 2002. Va qui ribadito l'orientamento consolidato di questa Corte secondo il
quale nei giudizi di legittimità costituzionale in via di azione non è ammessa la presenza di soggetti
diversi dalla parte ricorrente e dal titolare della potestà legislativa il cui esercizio è oggetto di
contestazione (cfr., da ultimo, sentenze n. 49 del 2003, n. 533 e n. 510 del 2002, n. 382 del 1999).
4. - Le Regioni Marche, Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna denunciano il comma 1 nella sua
prima formulazione, lamentando anzitutto la violazione dell'art. 117 Cost., perché la relativa disciplina
non sarebbe ascrivibile ad alcuna delle materie di competenza legislativa esclusiva statale; e del resto,
argomentano le ricorrenti, non essendo più contemplata dall'art. 117 Cost. la materia dei "lavori pubblici
di interesse nazionale", non sarebbe possibile far riferimento alla dimensione nazionale dell'interesse al
fine di escludere la potestà legislativa regionale o provinciale.
Le predette ricorrenti sostengono poi che l'individuazione delle grandi opere potrebbe, in parte,
rientrare in uno degli ambiti materiali individuati dall'art. 117, terzo comma, Cost. (quali porti e aeroporti
civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale
dell'energia), ma la disposizione censurata, da un lato, detterebbe una disciplina di dettaglio e non di
principio e quindi sarebbe comunque lesiva dell'autonomia legislativa regionale; dall'altro, escluderebbe
le Regioni dal processo "codecisionale", che dovrebbe essere garantito attraverso lo strumento dell'intesa.
La Regione Marche denuncia inoltre il medesimo comma 1 per contrasto con gli artt. 118 e 119
Cost. sul rilievo che non sarebbero stati rispettati i principî di sussidiarietà, differenziazione ed
adeguatezza e che sarebbe stata lesa l'autonomia finanziaria regionale con l'attribuzione al Governo del
compito di reperire tutti i finanziamenti.
La Regione Toscana, con distinto e successivo ricorso, impugna il comma 1 anche nella
formulazione modificata dall'art. 13, comma 3, della legge n. 166 del 2002, ribadendo che la
disposizione violerebbe l'art. 117 Cost., in quanto non troverebbe fondamento nella competenza
legislativa statale esclusiva o concorrente; e in ogni caso, in quanto detterebbe una disciplina compiuta,
dettagliata e minuziosa che precluderebbe alla Regione ogni possibilità di scelta. La ricorrente deduce
altresì la violazione dell'art. 118, primo comma, Cost., assumendo che, da un lato, non sarebbero stati
rispettati i criteri di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza; dall'altro, le esigenze di esercizio
unitario di cui parla l'art. 118 Cost. non autorizzerebbero una deroga al riparto della potestà legislativa
posto dall'art. 117 Cost. Infine, sempre ad avviso della Regione Toscana, l'introduzione di un'intesa con
le Regioni interessate e con la Conferenza unificata ai fini dell'individuazione delle grandi opere non
consentirebbe di eliminare i prospettati dubbi di incostituzionalità, giacché l'intesa non garantirebbe una
reale forma di coordinamento paritario, in assenza di meccanismi atti ad impedire che essa sia recessiva
dinanzi al preminente potere dello Stato, che potrebbe procedere anche a fronte del motivato dissenso
regionale.
4.1. - Vanno scrutinate nel merito le censure che le Regioni sollevano avverso il comma 1 dell'art. 1
della legge n. 443 del 2001, anche quelle che ne investono l'originaria versione, dovendosi escludere che
le sopravvenute modifiche recate dall'art. 13, comma 3, della legge n. 166 del 2002 abbiano determinato
sul punto una cessazione della materie del contendere. Ciò in quanto proprio in base alla disposizione
originaria è stato approvato il programma delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi da parte del
CIPE (con delibera n. 121 del 21 dicembre 2001) ed è a tale programma che fa riferimento anche il
comma 1 nel testo novellato dall'art. 13 della legge n. 166 del 2002, come può desumersi chiaramente dal
fatto che la norma, riprendendo in parte la disposizione anteriore, stabilisce che "in sede di prima
applicazione della presente legge il programma è approvato dal CIPE entro il 31 dicembre 2001".
Tutte le censure sono infondate e per dar conto di ciò è bene esaminare preliminarmente
l'impugnazione proposta dalla sola Regione Toscana avverso il comma 1, nel testo sostituito dalla legge
1° agosto 2002, n. 166.
Quando si intendano attrarre allo Stato funzioni amministrative in sussidiarietà, di regola il titolo del
legiferare deve essere reso evidente in maniera esplicita perché la sussidiarietà deroga al normale riparto
delle competenze stabilito nell'art. 117 Cost. Tuttavia, nel caso presente, l'assenza di un richiamo
espresso all'art. 118, primo comma, non fa sorgere alcun dubbio circa l'oggettivo significato
costituzionale dell'operazione compiuta dal legislatore: non di lesione di competenza delle Regioni si
tratta, ma di applicazione dei principî di sussidiarietà e adeguatezza, che soli possono consentire quella
attrazione di cui si è detto. Predisporre un programma di infrastrutture pubbliche e private e di
insediamenti produttivi è attività che non mette capo ad attribuzioni legislative esclusive dello Stato, ma
che può coinvolgere anche potestà legislative concorrenti (governo del territorio, porti e aeroporti, grandi
reti di trasporto, distribuzione nazionale dell'energia, etc.). Per giudicare se una legge statale che occupi
questo spazio sia invasiva delle attribuzioni regionali o non costituisca invece applicazione dei principî
di sussidiarietà e adeguatezza diviene elemento valutativo essenziale la previsione di un'intesa fra lo
Stato e le Regioni interessate, alla quale sia subordinata l'operatività della disciplina. Nella specie l'intesa
è prevista e ad essa è da ritenersi che il legislatore abbia voluto subordinare l'efficacia stessa della
regolamentazione delle infrastrutture e degli insediamenti contenuta nel programma di cui all'impugnato
comma 1 dell'art. 1. Nel congegno sottostante all'art. 118, l'attrazione allo Stato di funzioni
amministrative da regolare con legge non è giustificabile solo invocando l'interesse a un esercizio
centralizzato di esse, ma è necessario un procedimento attraverso il quale l'istanza unitaria venga
saggiata nella sua reale consistenza e quindi commisurata all'esigenza di coinvolgere i soggetti titolari
delle attribuzioni attratte, salvaguardandone la posizione costituzionale. Ben può darsi, infatti, che
nell'articolarsi del procedimento, al riscontro concreto delle caratteristiche oggettive dell'opera e
dell'organizzazione di persone e mezzi che essa richiede per essere realizzata, la pretesa statale di attrarre
in sussidiarietà le funzioni amministrative ad essa relative risulti vanificata, perché l'interesse sottostante,
quale che ne sia la dimensione, possa essere interamente soddisfatto dalla Regione, la quale, nel
contraddittorio, ispirato al canone di leale collaborazione, che deve instaurarsi con lo Stato, non solo
alleghi, ma argomenti e dimostri la propria adeguatezza e la propria capacità di svolgere in tutto o in
parte la funzione.
L'esigenza costituzionale che la sussidiarietà non operi come aprioristica modificazione delle
competenze regionali in astratto, ma come metodo per l'allocazione di funzioni a livello più adeguato,
risulta dunque appagata dalla disposizione impugnata nella sua attuale formulazione.
Chiarito che la Costituzione impone, a salvaguardia delle competenze regionali, che una intesa vi sia,
va altresì soggiunto che non è rilevante se essa preceda l'individuazione delle infrastrutture ovvero sia
successiva ad una unilaterale attività del Governo. Se dunque tale attività sia stata già posta in essere,
essa non vincola la Regione fin quando l'intesa non venga raggiunta.
In questo senso sono quindi da respingere anche le censure che le ricorrenti indirizzano contro il
comma 1 dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001, nella versione anteriore alla modifica recata dalla legge
n. 166 del 2002, per il fatto che in essa era previsto che le Regioni fossero solo sentite singolarmente ed
in Conferenza unificata e non veniva invece esplicitamente sancito il principio dell'intesa.
L'interpretazione coerente con il sistema dei rapporti Stato-Regioni affermato nel nuovo Titolo V impone
infatti di negare efficacia vincolante a quel programma su cui le Regioni interessate non abbiano
raggiunto un'intesa per la parte che le riguarda, come nel caso della deliberazione CIPE del 21 dicembre
2001, n. 121.
5. - Tutte le Regioni ricorrenti impugnano il comma 2 dell'art. 1, che detta - dalla lettera a) alla
lettera o) - i principî ed i criteri direttivi in base ai quali il Governo è chiamato ad emanare, entro 12 mesi
dall'entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi "volti a definire un quadro normativo
finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti individuati ai sensi del
comma 1".
Con analoghe censure, che evocano il contrasto con l'art. 117 Cost., e, per la Regione Marche, anche
gli artt. 118 e 119 Cost., si deduce anzitutto che la prevista normativa derogatoria della legge quadro sui
lavori pubblici n. 109 del 1994 violerebbe la potestà legislativa esclusiva delle Regioni in materia di
appalti e lavori pubblici.
Si sostiene inoltre che le competenze regionali sarebbero ugualmente violate anche se si ricadesse
nell'ambito della potestà legislativa concorrente, perché il denunciato comma 2 detterebbe una disciplina
compiuta e di dettaglio, non cedevole rispetto ad una eventuale futura legislazione regionale.
Le censure sono genericamente formulate e quindi inammissibili. Per comprenderlo è sufficiente la
ricognizione del contenuto delle disposizioni denunciate.
Il comma 2 dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001 ha ad oggetto la delega ad emanare uno o più
decreti legislativi volti a definire il quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle
infrastrutture e degli insediamenti produttivi individuati ai sensi del comma 1. Nell'esercizio della delega
il Governo, autorizzato a riformare le procedure per la valutazione di impatto ambientale (VIA) e
l'autorizzazione integrata ambientale, nel rispetto dell'art. 2 della direttiva 85/337/CEE, come modificata
dalla direttiva 97/11/CE, e ad introdurre un regime speciale anche derogatorio di numerose disposizioni
della legge 11 febbraio 1994, n. 109, che non siano necessaria ed immediata applicazione delle direttive
comunitarie, è tenuto a rispettare i principî e criteri direttivi fissati nelle lettere da a) ad o) del medesimo
comma 2.
Come già detto in precedenza, l'indirizzo imposto al legislatore delegato investe una molteplicità di
aspetti a carattere procedimentale e muove dal modello di finanziamento delle opere, con il concorso del
capitale privato, attraverso la disciplina della tecnica di finanza di progetto [lettera a)] per finanziare e
realizzare le infrastrutture e gli insediamenti di cui al comma 1.
La delega autorizza poi il Governo a definire i moduli procedurali sostitutivi di quelli previsti per il
rilascio dei provvedimenti concessori o autorizzatori di ogni specie, avuto riguardo anche alla durata
delle procedure per l'approvazione dei progetti preliminari, "comprensivi di quanto necessario per la
localizzazione dell'opera d'intesa con la Regione o la Provincia autonoma competente, che, a tal fine,
provvede a sentire preventivamente i Comuni interessati, e, ove prevista, della VIA", nonché a
prefigurare le procedure necessarie per la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e per
l'approvazione del progetto definitivo, con previsione di termini perentori per la risoluzione delle
interferenze con servizi pubblici e privati e di responsabilità patrimoniali in caso di mancata tempestiva
risoluzione [lettera b)].
Viene quindi impartita al Governo la direttiva di attribuire al CIPE, integrato dai Presidenti delle
Regioni interessate, il compito di valutare le proposte dei promotori, di approvare il progetto preliminare
e quello definitivo, di vigilare sull'esecuzione dei progetti approvati, adottando i provvedimenti
concessori ed autorizzatori necessari, comprensivi della localizzazione dell'opera e, ove prevista, della
VIA istruita dal competente Ministero. Si prescrive inoltre che vengano affidati al Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti compiti di istruttoria e di formulazione di proposte e quello di assicurare il
supporto necessario per l'attività del CIPE, eventualmente tramite un'apposita struttura tecnica di advisor
e di commissari straordinari [lettera c)].
La delega prosegue autorizzando la modificazione della disciplina in materia di conferenza di servizi
e dettando i criteri ispiratori per il suo funzionamento [lettera d)].
Vengono quindi individuati i modelli di affidamento e di aggiudicazione concernenti la realizzazione
delle opere di cui al comma 1, e prefigurata la cornice della rispettiva disciplina, anche in deroga alla
legge n. 109 del 1994, ma si impone al Governo il rispetto della normativa comunitaria.
Si prevede inoltre che il legislatore delegato affidi la realizzazione delle infrastrutture strategiche ad
un unico soggetto contraente generale o concessionario [lettera e)] e si dettano i criteri che devono
presiedere alla disciplina dell'affidamento a contraente generale, con riferimento all'art. 1 della direttiva
93/37/CEE [lettera f)].
Quanto poi al soggetto aggiudicatore, si stabilisce l'obbligo, nel caso in cui l'opera sia realizzata
prevalentemente con fondi pubblici, di rispettare la normativa europea in tema di evidenza pubblica e di
scelta dei fornitori di beni o servizi, "ma con soggezione ad un regime derogatorio rispetto alla citata
legge n. 109 del 1994 per tutti gli aspetti di essa non aventi necessaria rilevanza comunitaria" [lettera g)].
Al tempo stesso si autorizza, nel rispetto della normativa comunitaria ed al fine di favorire il
contenimento dei tempi e la massima flessibilità degli strumenti giuridici, l'introduzione di specifiche
deroghe alla vigente disciplina in materia di aggiudicazione di lavori pubblici e di realizzazione degli
stessi, indicando i criteri per regolamentare l'attività del contraente generale e la costituzione di società di
progetto [lettera h)].
La delega investe ancora i profili concernenti l'individuazione di misure adeguate per valutare il
regolare assolvimento degli obblighi assunti dal contraente generale [lettera i)], la previsione, nel caso di
concessione di opera pubblica unita a gestione della stessa, di appositi meccanismi di corresponsione del
prezzo al concessionario, nonché di fissazione della durata della concessione medesima [lettera l)], con il
rispetto dei relativi piani finanziari [lettera m)].
La delega detta criteri anche in ordine alle forme di tutela risarcitoria susseguente alla stipula dei
contratti di progettazione, appalto, concessione o affidamento a contraente generale, prescrivendo che
debba essere esclusa la reintegrazione in forma specifica e ristretta la tutela cautelare, per tutti gli
interessi patrimoniali, "al pagamento di una provvisionale" [lettera n)]. Infine si stabilisce che il Governo
debba prevedere, per le procedure di collaudo delle opere, "termini perentori che consentano, ove
richiesto da specifiche esigenze tecniche, il ricorso anche a strutture tecniche esterne di supporto alle
commissioni di collaudo" [lettera o)].
Si è dunque in presenza di una disciplina particolarmente complessa che insiste su una pluralità di
materie, tra loro intrecciate, ascrivibili non solo alla potestà legislativa concorrente ma anche a quella
esclusiva dello Stato (ad esempio la tutela dell'ambiente e dell'ecosistema). In un quadro normativo
siffatto, le censure mosse dalle ricorrenti non raggiungono il livello di specificità che si richiede ai fini di
uno scrutinio di merito (in tal senso v. sentenza n. 384 del 1999), poiché nei motivi di ricorso non vi è
neppure una sintetica esposizione delle ragioni per cui le disposizioni contenute nel comma 2 denunciato,
singolarmente considerate, determinino una lesione delle attribuzioni regionali.
6. - Sono invece sufficientemente circostanziate le questioni che le Regioni Umbria ed
Emilia-Romagna sollevano sulle lettere g) ed n), del comma 2, sostenendone il contrasto con il "diritto
europeo". In particolare la lettera g), nella parte in cui circoscrive l'obbligo per il soggetto aggiudicatore
di rispettare la normativa europea in tema di evidenza pubblica solo "nel caso in cui l'opera sia realizzata
prevalentemente con fondi pubblici", violerebbe la direttiva 93/37/CEE, alla quale non sarebbe conforme
neppure nel caso del ricorso all'istituto della concessione di lavori pubblici (art. 3 § l) o all'affidamento
ad unico soggetto contraente generale.
La questione deve essere scrutinata nel merito, nel senso della non fondatezza, a prescindere dal
problema più generale, che investe ora l'interpretazione dell'art. 117, primo comma, Cost., se ed entro
quali limiti l'ipotesi di contrasto di una norma interna con l'ordinamento comunitario sia idonea a
radicare la competenza del giudice delle leggi.
Nei giudizi di impugnazione deve essere tenuto fermo l'orientamento già espresso da questa Corte
(sentenze n. 85 del 1999, n. 94 del 1995 e n. 384 del 1994), secondo il quale il valore costituzionale della
certezza e della chiarezza normativa deve fare aggio su ogni altra considerazione soprattutto quando una
esplicita clausola legislativa di salvaguardia del diritto comunitario renda, come nella specie,
manifestamente insussistente il denunciato contrasto.
La lettera g) dell'art. 2, infatti, contiene una delega al Governo perché siano adottate procedure di
aggiudicazione anche derogatorie rispetto alla legge n. 109 del 1994 quando non si tratti di opere
realizzate prevalentemente con fondi pubblici, ma non autorizza il Governo a violare il diritto
comunitario: al contrario si prevede che la deroga non debba riguardare gli aspetti aventi necessaria
rilevanza comunitaria. Anche la disciplina dell'aggiudicazione in appalto di opere realizzate con
prevalenti fondi privati dovrà quindi rispettare il diritto comunitario, qualunque ne sia il contenuto.
6.1. - La lettera n), seconda frase, a sua volta, nella parte in cui restringe, per tutti gli "interessi
patrimoniali", la tutela cautelare al "pagamento di una provvisionale", disattenderebbe la direttiva
89/665/CEE (c.d. direttiva ricorsi), giacché ridurrebbe "le possibilità di tutela piena per i concorrenti che
lamentino violazioni delle norme comunitarie in materia di appalti".
Anche in questo caso si può prescindere dal problema appena richiamato dei rapporti tra il diritto
comunitario e il diritto interno e dei limiti entro i quali di questi rapporti possa conoscere la Corte
costituzionale. La questione è infatti inammissibile per difetto di interesse sotto un duplice profilo: in
primo luogo, essa evoca un contrasto col diritto comunitario senza però dedurre l'esistenza di una lesione
delle attribuzioni regionali; inoltre la disposizione denunciata investe la tutela giurisdizionale di terzi e
non riguarda quindi materie di competenza legislativa delle Regioni.
6.2. - La Regione Toscana denuncia infine la lettera c) del medesimo comma 2, come sostituito
dall'art. 13, comma 5, della legge n. 166 del 2002, deducendo il contrasto con gli artt. 117 e 118 Cost.
Essa non garantirebbe il rispetto delle attribuzioni delle Regioni, relegate ad un ruolo meramente
consultivo nell'approvazione dei progetti, demandata al CIPE, integrato dai Presidenti delle Regioni
interessate. Inoltre la ricorrente, premesso che il comma 3 dell'art. 13, nel sostituire il comma 1 dell'art. 1
della legge n. 443, dispone che anche le strutture concernenti la nautica da diporto possono essere
inserite nel programma delle infrastrutture strategiche, rileva che la previsione secondo cui la valutazione
di impatto ambientale sulle stesse debba essere effettuata dal Ministro competente e non dalle Regioni
violerebbe le attribuzioni di queste ultime in materia di porti e valorizzazione dei beni ambientali.
La questione non è fondata.
Contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, la disposizione impugnata, nell'attribuire al CIPE,
integrato dai Presidenti delle Regioni e delle Province autonome interessate, il compito di approvare i
progetti preliminari e definitivi delle opere individuate nel programma di cui al comma 1, non
circoscrive affatto il ruolo delle Regioni (o delle Province autonome) a quello meramente consultivo,
giacché queste, attraverso i propri rappresentanti, sono a pieno titolo componenti dell'organo e
partecipano direttamente alla formazione della sua volontà deliberativa, potendo quindi far valere
efficacemente il proprio punto di vista. Occorre inoltre considerare che l'approvazione dei progetti deve
essere comprensiva anche della localizzazione dell'opera, sulla quale, come già per la relativa
individuazione, ai sensi del comma 1 dell'art. 1, è prevista l'intesa con la Regione o la Provincia
autonoma interessata [lettera b) del medesimo comma 2].
Né infine può dirsi che la disposizione denunciata, come sostenuto dalla ricorrente, affidi al Ministro
competente l'effettuazione della valutazione di impatto ambientale sulle opere inserite nel programma,
considerato che dalla piana lettura della norma risulta che una siffatta valutazione è affidata al CIPE in
composizione allargata ai rappresentanti regionali e provinciali, mentre al Ministro è lasciata unicamente
la relativa fase istruttoria.
7. - È fondata la questione di legittimità costituzionale - sollevata da tutte le ricorrenti - che investe
l'art. 1, comma 3, della legge n. 443, nella parte in cui autorizza il Governo a integrare e modificare il
regolamento di cui al d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, per renderlo conforme a quest'ultima legge e ai
decreti legislativi di cui al comma 2.
Che ai regolamenti governativi adottati in delegificazione fosse inibito disciplinare materie di
competenza regionale era già stato affermato da questa Corte avendo riguardo al quadro costituzionale
anteriore all'entrata in vigore della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione. Nelle sentenze
n. 333 e n. 482 del 1995 e nella più recente sentenza n. 302 del 2003 l'argomento su cui è incentrata la
ratio decidendi è che lo strumento della delegificazione non può operare in presenza di fonti tra le quali
non vi siano rapporti di gerarchia, ma di separazione di competenze. Solo la diretta incompatibilità delle
norme regionali con sopravvenuti principî o norme fondamentali della legge statale può infatti
determinare l'abrogazione delle prime. La ragione giustificativa di tale orientamento si è, se possibile,
rafforzata con la nuova formulazione dell'art. 117, sesto comma, Cost., secondo il quale la potestà
regolamentare è dello Stato, salva delega alle Regioni, nelle materie di legislazione esclusiva, mentre in
ogni altra materia è delle Regioni. In un riparto così rigidamente strutturato, alla fonte secondaria statale
è inibita in radice la possibilità di vincolare l'esercizio della potestà legislativa regionale o di incidere su
disposizioni regionali preesistenti (sentenza n. 22 del 2003); e neppure i principî di sussidiarietà e
adeguatezza possono conferire ai regolamenti statali una capacità che è estranea al loro valore, quella
cioè di modificare gli ordinamenti regionali a livello primario. Quei principî, lo si è già rilevato, non
privano di contenuto precettivo l'art. 117 Cost., pur se, alle condizioni e nei casi sopra evidenziati,
introducono in esso elementi di dinamicità intesi ad attenuare la rigidità nel riparto di funzioni legislative
ivi delineato. Non può quindi essere loro riconosciuta l'attitudine a vanificare la collocazione sistematica
delle fonti conferendo primarietà ad atti che possiedono lo statuto giuridico di fonti secondarie e a
degradare le fonti regionali a fonti subordinate ai regolamenti statali o comunque a questi condizionate.
Se quindi, come già chiarito, alla legge statale è consentita l'organizzazione e la disciplina delle funzioni
amministrative assunte in sussidiarietà, va precisato che la legge stessa non può spogliarsi della funzione
regolativa affidandola a fonti subordinate, neppure predeterminando i principî che orientino l'esercizio
della potestà regolamentare, circoscrivendone la discrezionalità.
8. - È fondata pure la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 3-bis, della legge n.
443 del 2001, introdotto dall'art. 13, comma 6, della legge n. 166 del 2002, proposta dalla Regione
Toscana lamentando la violazione degli artt. 117 e 118 Cost., per il fatto che alle Regioni sarebbe stato
riservato un ruolo meramente consultivo nella fase di approvazione dei progetti definitivi delle opere
individuate nel programma governativo.
La disposizione denunciata consente che tale approvazione, in alternativa alle procedure di cui al
comma 2, avvenga con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Per questa procedura alternativa
è previsto che il decreto del Presidente del Consiglio sia adottato previa deliberazione del CIPE integrato
dai Presidenti delle Regioni o delle Province autonome interessate, sentita la Conferenza unificata e
previo parere delle competenti commissioni parlamentari.
Dalla degradazione della posizione del CIPE da organo di amministrazione attiva (nel procedimento
ordinario) ad organo che svolge funzioni preparatorie (nel procedimento "alternativo") discende che la
partecipazione in esso delle Regioni interessate non costituisce più una garanzia sufficiente, tanto più se
si considera che non è previsto, nel procedimento alternativo, alcun ruolo delle Regioni interessate nella
fase preordinata al superamento del loro eventuale dissenso.
9. - Tutte le Regioni impugnano il comma 4 dell'art. 1, in riferimento all'art. 117 e, limitatamente al
ricorso della Regione Marche, anche agli artt. 118 e 119 Cost.
La disposizione contiene una delega al Governo ad emanare, nel rispetto dei principî e dei criteri
direttivi di cui al comma 2, previo parere favorevole del CIPE, integrato dai Presidenti delle Regioni
interessate, sentite la Conferenza unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 e
le competenti commissioni parlamentari, uno o più decreti legislativi recanti l'approvazione definitiva di
specifici progetti di infrastrutture strategiche individuate secondo quanto previsto al comma 1.
Le impugnazioni delle ricorrenti sono svolte molto succintamente e si limitano ad operare un mero
rinvio agli argomenti sviluppati in relazione a disposizioni di diverso contenuto senza ulteriori
precisazioni, se non quella che si verserebbe in materia di potestà legislativa residuale sulla quale lo
Stato sarebbe radicalmente privo di competenza. Anche il denunciato comma 4 dell'art. 1, come le
precedenti disposizioni, riguarda però materie di competenza concorrente o esclusiva dello Stato e non
investe potestà residuali. Né tra queste ultime, per le ragioni già esposte, possono ritenersi compresi i
lavori pubblici. Le impugnazioni vanno pertanto rigettate.
10. - Il motivo di ricorso proposto dalla Regione Marche contro l'art. 1, comma 5, della legge n. 443
del 2001, a mente del quale, ai fini della presente legge, "sono fatte salve le competenze delle Regioni a
statuto speciale e delle Province autonome", non ha una sua autonoma consistenza ma deve essere
interpretato come argomento teso a corroborare le censure svolte negli altri motivi di ricorso, sulle quali
si è appena deciso.
11. - Le Regioni Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna denunciano i commi da 6 a 12 e il comma 14
dell'art. 1, che disciplinano, nel loro complesso, il regime degli interventi edilizi con disposizioni il cui
contenuto conviene subito illustrare.
Il comma 6 prevede che, per determinati interventi, in alternativa a concessioni ed autorizzazioni
edilizie, l'interessato possa avvalersi della denuncia di inizio attività (DIA). L'alternativa riguarda in
particolare: a) gli interventi edilizi minori, di cui all'art. 4, comma 7, del decreto-legge n. 398 del 1993
(convertito nella legge n. 493 del 1993); b) le ristrutturazioni edilizie, comprensive della demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma; c) gli interventi ora sottoposti a concessione, se sono
specificamente disciplinati da piani attuativi che contengano precise disposizioni plano-volumetriche,
tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal consiglio
comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti; d) i sopralzi, le
addizioni, gli ampliamenti e le nuove edificazioni in diretta esecuzione di idonei strumenti urbanistici
diversi da quelli indicati alla lettera c), ma recanti analoghe previsioni di dettaglio. Rimane ferma la
disciplina previgente quanto all'obbligo di versare il contributo commisurato agli oneri di urbanizzazione
ed al costo di costruzione (comma 7).
Il comma 8 stabilisce che la tutela storico-artistica o paesaggistico-ambientale per la realizzazione
degli interventi di cui al comma 6 sia subordinata al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione
richiesti dalle disposizioni di legge vigenti e in particolare dal testo unico delle disposizioni legislative in
materia di beni culturali e ambientali, di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490.
Il comma 9 e il comma 10 contengono la disciplina relativa al caso in cui le opere da realizzare
riguardino immobili soggetti a un vincolo la cui tutela competa, anche in via di delega,
all'amministrazione comunale (comma 9) ovvero soggetti a un vincolo la cui tutela spetti ad
amministrazioni diverse da quella comunale (comma 10). Nel primo caso è previsto che il termine per la
presentazione della denuncia di inizio attività, di cui all'art. 4, comma 11, del decreto-legge 5 ottobre
1993, n. 398, decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Nel secondo caso si prevede che, ove il
parere favorevole del soggetto preposto alla tutela non sia allegato alla denuncia, il competente ufficio
comunale convoca una conferenza di servizi ai sensi degli artt. 14, 14-bis, 14-ter e 14-quater della legge
7 agosto 1990, n. 241, e il termine di venti giorni per la presentazione della denuncia di inizio dell'attività
decorre dall'esito della conferenza. Tanto nel caso in cui l'atto dell'autorità comunale preposta alla tutela
del vincolo non sia favorevole, quanto nel caso di esito non favorevole della conferenza, la denuncia di
inizio attività è priva di effetti.
Il comma 11, a sua volta, abroga il comma 8 dell'art. 4 del decreto-legge n. 398 del 1993, il quale
prevedeva la possibilità di procedere ad attività edilizie minori sulla base di denuncia inizio attività a
condizione che gli immobili non fossero assoggettati alle disposizioni di cui alla legge n. 1089 del 1939,
alla legge n. 1497 del 1939, alla legge n. 394 del 1991, ovvero a disposizioni immediatamente operative
dei piani aventi la valenza di cui all'art. 1-bis del decreto-legge n. 312 del 1985, convertito nella legge n.
431 del 1985, o dalla legge n. 183 del 1989, o che non fossero comunque assoggettati dagli strumenti
urbanistici a discipline espressamente volte alla tutela delle loro caratteristiche paesaggistiche,
ambientali, storico-archeologiche, storico artistiche, storico architettoniche e storico testimoniali.
In base al comma 12 le disposizioni di cui al comma 6 "si applicano nelle Regioni a statuto ordinario
a decorrere dal novantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge" e "le Regioni a
statuto ordinario, con legge, possono individuare quali degli interventi indicati al comma 6 sono
assoggettati a concessione edilizia o ad autorizzazione edilizia". Con il comma 14 viene delegato il
Governo ad emanare, entro il 30 giugno 2003, un decreto legislativo volto a introdurre nel testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui all'art. 7 della legge n. 50 del
1999, e successive modificazioni, le modifiche strettamente necessarie per adeguarlo alle disposizioni di
cui ai commi da 6 a 13 (quest'ultima disposizione, non denunciata, fa salva la potestà legislativa
esclusiva delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano).
È importante rilevare che il comma 12 è stato modificato dall'art. 13, comma 7, della legge n. 166
del 2002, il quale ha aggiunto alla versione originaria le seguenti disposizioni: "salvo che le leggi
regionali pubblicate prima della data di entrata in vigore della presente legge siano già conformi a quanto
previsto dalle lettere a), b), c) e d) del medesimo comma 6, anche disponendo eventuali categorie
aggiuntive e differenti presupposti urbanistici. Le Regioni a statuto ordinario possono ampliare o ridurre
l'ambito applicativo delle disposizioni di cui al periodo precedente".
Tutte le disposizioni il cui contenuto si è ora esposto hanno portata generale e prescindono dalla
disciplina procedimentale concernente le infrastrutture e gli insediamenti produttivi strategici e di
preminente interesse nazionale, della quale non costituiscono ulteriore svolgimento.
Contro di esse si orientano le censure delle ricorrenti, le quali assumono che lo Stato avrebbe violato
la competenza residuale delle Regioni in materia edilizia e, subordinatamente, avrebbe leso, con una
disciplina di dettaglio, la competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio.
Nelle memorie presentate in prossimità dell'udienza, la Regione Toscana, in considerazione della
sopravvenuta modifica del comma 12, ha espressamente dichiarato di rinunciare ai motivi di ricorso
concernenti i commi da 6 a 12 ed il comma 14. Insistono invece nelle censure le Regioni Umbria ed
Emilia-Romagna, sicché questa Corte deve pronunciarsi su di esse.
11.1. - È innanzitutto da escludersi che la materia regolata dalle disposizioni censurate sia oggi da
ricondurre alle competenze residuali delle Regioni, ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost. La materia
dei titoli abilitativi ad edificare appartiene storicamente all'urbanistica che, in base all'art. 117 Cost., nel
testo previgente, formava oggetto di competenza concorrente. La parola "urbanistica" non compare nel
nuovo testo dell'art. 117, ma ciò non autorizza a ritenere che la relativa materia non sia più ricompresa
nell'elenco del terzo comma: essa fa parte del "governo del territorio". Se si considera che altre materie o
funzioni di competenza concorrente, quali porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di
navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia, sono specificamente
individuati nello stesso terzo comma dell'art. 117 Cost. e non rientrano quindi nel "governo del
territorio", appare del tutto implausibile che dalla competenza statale di principio su questa materia siano
stati estromessi aspetti così rilevanti, quali quelli connessi all'urbanistica, e che il "governo del territorio"
sia stato ridotto a poco più di un guscio vuoto.
11.2. - Chiarito che si versa in materia di competenza concorrente, resta da chiedersi se nelle
disposizioni denunciate vi siano aspetti eccedenti la formulazione di un principio di legislazione. Un
accurato esame della disciplina poc'anzi richiamata conduce a una risposta negativa. Non vi è nulla in
essa che non sia riconducibile ad una enunciazione di principio e che possa essere qualificato normativa
di dettaglio.
Giova premettere che i principî della legislazione statale in materia di titoli abilitativi per gli
interventi edilizi non sono rimasti, nel tempo, immutati, ma hanno subito sensibili evoluzioni.
Dal generale e indifferenziato onere della concessione edilizia (legge n. 10 del 1977) si è passati
all'autorizzazione per gli interventi di manutenzione straordinaria e fra questi al silenzio-assenso quando
non siano coinvolti edifici soggetti a disciplina vincolistica (legge n. 457 del 1978). Il silenzio-assenso è
stato successivamente ampliato ed esteso e fatto oggetto di specifiche previsioni procedurali (legge n. 94
del 1982, che ha convertito il decreto-legge n. 9 del 1982). Alle Regioni è stato poi attribuito (legge n. 47
del 1985) il potere di semplificare le procedure ed accelerare l'esame delle domande di concessione e di
autorizzazione edilizia e di consentire, per le sole opere interne agli edifici, l'asseverazione del rispetto
delle norme di sicurezza e delle norme igienico-sanitarie vigenti, secondo un modello che, in qualche
modo, anticipa l'istituto della denuncia di inizio attività. Ed ancora (decreto-legge n. 398 del 1993,
convertito nella legge n. 493 del 1993) sono state nuovamente regolate le procedure per il rilascio della
concessione edilizia, eliminando il silenzio-assenso e prevedendo in sua vece la nomina di un
commissario regionale ad acta con il compito di adottare il provvedimento nei casi di inerzia del
Comune. Si è giunti quindi alla disciplina sostanziale e procedurale della denuncia di inizio attività
(DIA) per taluni enumerati interventi edilizi, imponendo alle Regioni l'obbligo di adeguare la propria
legislazione ai nuovi principî (legge n. 662 del 1996).
È dunque lungo questa direttrice, in cui lo Stato ha mantenuto la disciplina dei titoli abilitativi come
appartenente alla potestà di dettare i principî della materia, che si muovono le disposizioni impugnate. Le
fattispecie nelle quali, in alternativa alle concessioni o autorizzazioni edilizie, si può procedere alla
realizzazione delle opere con denuncia di inizio attività a scelta dell'interessato integrano il proprium del
nuovo principio dell'urbanistica: si tratta infatti, come agevolmente si evince dal comma 6, di interventi
edilizi di non rilevante entità o, comunque, di attività che si conformano a dettagliate previsioni degli
strumenti urbanistici. In definitiva, le norme impugnate perseguono il fine, che costituisce un principio
dell'urbanistica, che la legislazione regionale e le funzioni amministrative in materia non risultino
inutilmente gravose per gli amministrati e siano dirette a semplificare le procedure e ad evitare la
duplicazione di valutazioni sostanzialmente già effettuate dalla pubblica amministrazione.
Né può dirsi che le modificazioni introdotte nell'ultimo periodo del comma 12 dell'art. 1, e cioè
l'attribuzione alle Regioni del potere di ampliare o ridurre le categorie di opere per le quali è prevista in
principio la dichiarazione di inizio attività, abbiano comportato, nella disciplina contenuta nel comma 6,
un mutamento di natura e l'abbiano trasformata in normativa di dettaglio. Vi è solo una maggiore
flessibilità del principio della legislazione statale quanto alle categorie di opere a cui la denuncia di inizio
attività può applicarsi. Resta come principio la necessaria compresenza nella legislazione di titoli
abilitativi preventivi ed espressi (la concessione o l'autorizzazione, ed oggi, nel nuovo testo unico n. 380
del 2001, il permesso di costruire) e taciti, quale è la DIA, considerata procedura di semplificazione che
non può mancare, libero il legislatore regionale di ampliarne o ridurne l'ambito applicativo.
La materia del contendere in relazione ai commi 6 e 12 non è dunque cessata, come invece vorrebbe
l'Avvocatura generale dello Stato, ma le censure che le Regioni Umbria ed Emilia-Romagna hanno
tenute ferme nei confronti di queste disposizioni non possono essere accolte, giacché, anche dopo le
sopravvenute modificazioni del comma 12, le disposizioni impugnate si limitano a porre principî e non
costituiscono norme di dettaglio.
11.3. - Del pari va respinta la censura relativa al comma 7, il quale, senza avere il contenuto di
norma di dettaglio, si limita a reiterare l'obbligo dell'interessato di versare gli oneri di urbanizzazione
commisurati al costo di costruzione anche quando il titolo abilitativo consista nella denuncia di inizio
attività. L'onerosità del titolo abilitativo riguarda infatti un principio della disciplina un tempo urbanistica
e oggi ricompresa fra le funzioni legislative concorrenti sotto la rubrica "governo del territorio".
11.4. - Non sono fondate le questioni concernenti i commi da 8 a 11 dell'art. 1, per le quali sono
svolti motivi di censura analoghi a quelli appena esaminati.
Seppure, infatti, non si fosse in presenza di una legislazione statale rientrante nell'art. 117, secondo
comma, lettera s), Cost., che attribuisce allo Stato la competenza esclusiva in materia di tutela
dell'ambiente, ecosistema e beni culturali, le disposizioni censurate non eccederebbero l'ambito della
potestà legislativa statale nelle materie di competenza concorrente, e in particolare nella materia
"governo del territorio". In effetti esse, lungi dal porre una disciplina di dettaglio, costituiscono
espressione di un principio della legislazione statale diverso da quello previgente, contenuto nell'art. 4,
comma 8, del decreto-legge n. 398 del 1993 (che viene espressamente abrogato), secondo il quale può
procedersi con denuncia di inizio attività anche alla realizzazione degli interventi edilizi di cui al comma
6 dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001 che riguardino aree o immobili sottoposti a vincolo. Il legislatore,
stabilito tale nuovo principio, ha coordinato l'istituto della denuncia di inizio attività con le vigenti
disposizioni che pongono vincoli, a tal fine ribadendo la indispensabilità che l'amministrazione preposta
alla loro tutela esprima il proprio parere, la cui assenza priva di effetti la denuncia di inizio attività. In
definitiva le disposizioni censurate si limitano a far salva la previgente normativa vincolistica, senza
alterare il preesistente quadro delle relative competenze, anche delegate alle amministrazioni comunali, e
senza attrarre allo Stato ulteriori competenze. Le attribuzioni regionali non sono pertanto lese.
11.5. - Le considerazioni svolte nei precedenti paragrafi inducono a ritenere priva di fondamento la
censura che le ricorrenti muovono al comma 14, contenente la delega al Governo ad emanare un decreto
legislativo volto ad introdurre nel testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia di cui all'art. 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50 le modifiche strettamente necessarie per
adeguarlo alle disposizioni dei commi da 6 a 13. Si sostiene dalle ricorrenti che la disposizione sia
illegittima in quanto sarebbe "il concetto stesso di testo unico che ripugna al riparto costituzionale delle
competenze" e ciò non soltanto per le materie residuali regionali, ma anche per le materie di competenza
concorrente, nelle quali sulle Regioni grava soltanto il vincolo di conformarsi ai principî della
legislazione statale.
Le disposizioni impugnate - lo si è appena visto - non sono tuttavia ascrivibili a competenze residuali
e hanno il contenuto di principî che le Regioni possono svolgere con proprie norme legislative. Inserire
quei principî in un testo unico già vigente è dunque operazione che non lede alcuna attribuzione
regionale.
12. - La Regione Toscana ha impugnato anche i commi 1, 4 e 11 dell'art. 13 della legge n. 166 del
2002.
12.1. - Il comma 4 inserisce, dopo il comma 1 dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001, il "comma 1-bis
", il quale detta le indicazioni che deve contenere il programma delle infrastrutture e degli insediamenti
produttivi strategici e di preminente interesse nazionale da inserire nel documento di programmazione
economico-finanziaria. La ricorrente assume che la disposizione violerebbe gli artt. 117 e 118, primo
comma, Cost. per le stesse identiche ragioni già poste a fondamento della censura svolta avverso il
comma 3 dell'art. 13 della legge n. 166 del 2002, che ha sostituito il comma 1 della citata legge n. 443.
Il motivo di ricorso è da respingersi sulla base delle stesse argomentazioni che hanno condotto a
ritenere infondate le censure avverso il menzionato comma 1 dell'art. 1 nella versione vigente: la
doglianza in esame non assume infatti alcuna autonomia rispetto a quella già scrutinata, con la quale, del
resto, è prospettata congiuntamente.
12.2. - Nei commi 1 e 11 dell'art. 13 della legge n. 166 sono individuati ed autorizzati i limiti di
impegno di spesa quindicennali per la progettazione e realizzazione delle opere strategiche e di
preminente interesse nazionale "individuate in apposito programma approvato" dal CIPE, prevedendo,
tra l'altro, che le risorse autorizzate "integrano i finanziamenti pubblici, comunitari e privati allo scopo
disponibili". Il successivo comma 11 dispone i necessari stanziamenti di bilancio.
In ordine a tali disposizioni la Regione Toscana sostiene che esse, nel prevedere specifici
stanziamenti per la progettazione e la realizzazione delle opere strategiche approvate dal CIPE,
contrasterebbero sia con gli artt. 117 e 118 Cost., in quanto si riferirebbero al programma predisposto dal
CIPE che si assume elaborato "in spregio alle competenze regionali"; sia con l'art. 119 Cost., perché
inciderebbero sull'autonomia finanziaria delle Regioni garantita dalla Costituzione anche in relazione al
reperimento delle risorse per la realizzazione delle infrastrutture di competenza regionale.
La censura va respinta per considerazioni analoghe a quelle già svolte nel punto 4.1. della presente
pronuncia: in assenza dell'intesa con la Regione interessata i programmi sono inefficaci. Ne consegue
che anche questa disposizione deve essere interpretata nel senso che i finanziamenti concernenti le
infrastrutture e gli insediamenti produttivi individuati nel programma approvato dal CIPE potranno
essere utilizzati per la realizzazione di quelle sole opere che siano state individuate mediante intesa tra
Stato e Regioni o Province autonome interessate.
Quanto all'evocato parametro dell'art. 119 Cost., è sufficiente osservare che si tratta di finanziamenti
statali individuati e stanziati in vista della realizzazione di un programma di opere che lo Stato assume,
nei termini già chiariti, in base ai principî di sussidiarietà ed adeguatezza anche in considerazione degli
oneri finanziari che esso comporta e non è pensabile che lo Stato possa esimersi dal reperire le risorse.
Non è pertanto apprezzabile alcuna lesione dell'autonomia finanziaria delle Regioni.
13. - Si tratta ora di esaminare i ricorsi proposti dalle Regioni Toscana e Marche e dalle Province
autonome di Bolzano e di Trento, in riferimento agli artt. 76, 117, 118 e 120 della Costituzione, nonché
agli artt. 8, primo comma, numeri 5, 6, 9, 11, 14, 16, 17, 18, 19, 21, 22 e 24; 9, primo comma, numeri 8,
9, e 10; 16 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, e relative norme di attuazione, avverso
numerosi articoli del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, attuativo della delega contenuta nell'art.
1, comma 2, della legge 21 dicembre 2001, n. 443.
Specificamente la Toscana impugna gli artt. 1-11; 13; 15 e 16, commi 1, 2, 3, 6 e 7; 17-20; la
Provincia autonoma di Bolzano gli artt. 1, commi 1 e 7; 2, commi 1, 2, 3, 4, 5 e 7; 3, commi 4, 5, 6 e 9;
13, comma 5; 15; la Regione Marche gli artt. 1-11; 13 e 15-20; la Provincia autonoma di Trento gli artt.
1, 2, 3, 4, 13 e 15.
14. - Il ricorso della Provincia autonoma di Trento è stato depositato presso la cancelleria della Corte
costituzionale oltre il termine previsto dall'art. 32, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87. La
Provincia, con apposita istanza, pur non disconoscendo il carattere perentorio del termine per il deposito,
ritiene che possa trovare applicazione alla fattispecie la disciplina dell'errore scusabile, che, per il
processo costituzionale, non è espressamente previsto. Si chiede pertanto di considerare scusabile, e
dunque tempestivo, il deposito effettuato dalla Provincia autonoma il 5 novembre 2002. In subordine, la
Provincia sollecita questa Corte a sollevare dinanzi a se stessa la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 31, terzo comma, e 32, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, nella parte in cui precludono
l'applicazione di tale istituto, per violazione dell'art. 24, primo comma, Cost. e del principio di
ragionevolezza.
Entrambe le richieste non possono essere accolte. Nei giudizi in via di azione va senz'altro esclusa
l'applicabilità della disciplina dell'errore scusabile, così come è da escludersi che la Corte possa ritenere
non manifestamente infondata una questione di legittimità proprio su quelle norme legislative che,
regolando il processo costituzionale, sono intese a conferire ad esso il massimo di certezza e ad
assicurare alle parti il corretto svolgimento del giudizio.
Il ricorso della Provincia autonoma di Trento deve essere pertanto dichiarato inammissibile.
15. - L'art. 1, comma 1, che regola la progettazione, l'approvazione e realizzazione delle
infrastrutture strategiche e degli insediamenti produttivi di preminente interesse nazionale, individuati
dall'apposito programma, è impugnato dalla Provincia autonoma di Bolzano. Preliminarmente la
ricorrente lamenta che la disposizione sarebbe rivolta a salvaguardare unicamente le competenze
riconosciutele dallo statuto speciale e dalle norme di attuazione, senza alcun riferimento alle nuove e
maggiori competenze derivanti dagli artt. 117 e 118, applicabili alle Regioni ad autonomia differenziata
in virtù della clausola di estensione contenuta nell'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3,
e comunque che violerebbe l'art. 2 del decreto legislativo n. 266 del 1992. Tale disposizione definisce le
condizioni dell'adeguamento (sei mesi) della legislazione provinciale ai principî della legislazione
statale, tenendo ferma «l'immediata applicabilità nel territorio regionale (…) degli atti legislativi dello
Stato nelle materie nelle quali alla Regione o alla Provincia autonoma è attribuita delega di funzioni
statali».
La pretesa avanzata dalla Provincia di Bolzano è quella di rimanere indenne dall'obbligo di
applicazione immediata nel proprio territorio della disciplina contenuta nella disposizione impugnata.
Un'applicazione immediata, tuttavia, è esclusa dallo stesso art. 1, il quale, per un verso, fa salve le
competenze delle Province autonome e delle Regioni a statuto speciale; per altro verso subordina
l'applicazione della disciplina a una previa intesa, alla quale la stessa Provincia autonoma, proprio perché
titolare di competenze statutarie che le sono fatte salve, può sottrarsi. In questi termini la censura è
infondata.
Anche competenze ulteriori rispetto a quelle statutariamente previste, che possano derivare alla
Provincia di Bolzano dalla clausola contenuta nell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001,
soggiacciono ai medesimi limiti propri delle funzioni corrispondenti delle Regioni ordinarie; e se per
queste è l'intesa, quale limite immanente all'operare del principio di sussidiarietà, ad assicurare la
salvaguardia delle relative attribuzioni, un identico modulo collaborativo deve agire anche nei confronti
della Provincia di Bolzano.
Per le stesse ragioni va respinta la censura svolta dalla Provincia di Bolzano, sempre in riferimento al
parametro dell'art. 2 del decreto legislativo n. 266 del 1992, nei confronti dell'art. 13, comma 5, il quale
stabilisce che l'approvazione del CIPE, adottata a maggioranza dei componenti con l'intesa dei presidenti
delle Regioni, sostituisce, anche a fini urbanistici ed edilizi, ogni altra autorizzazione, approvazione,
parere e nulla osta comunque denominato, costituisce dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e
urgenza delle opere e consente la realizzazione e l'esercizio delle infrastrutture strategiche per
l'approvvigionamento energetico e di tutte le attività previste nel progetto approvato.
16. - Le Regioni Marche e Toscana impugnano l'art. 1, comma 5, secondo il quale le Regioni, le
province, i comuni, le città metropolitane applicano, per le proprie attività contrattuali ed organizzative
relative alla realizzazione delle infrastrutture e diverse dall'approvazione dei progetti (comma 2) e dalla
aggiudicazione delle infrastrutture (comma 3), le norme del presente decreto legislativo «fino alla entrata
in vigore di una diversa norma regionale, (…) per tutte le materie di legislazione concorrente». Si
denuncia la lesione dell'art. 117 della Costituzione poiché in materie di competenza concorrente sarebbe
posta una normativa cedevole di dettaglio.
Non può negarsi che l'inversione della tecnica di riparto delle potestà legislative e l'enumerazione
tassativa delle competenze dello Stato dovrebbe portare ad escludere la possibilità di dettare norme
suppletive statali in materie di legislazione concorrente, e tuttavia una simile lettura dell'art. 117
svaluterebbe la portata precettiva dell'art. 118, comma primo, che consente l'attrazione allo Stato, per
sussidiarietà e adeguatezza, delle funzioni amministrative e delle correlative funzioni legislative, come si
è già avuto modo di precisare. La disciplina statale di dettaglio a carattere suppletivo determina una
temporanea compressione della competenza legislativa regionale che deve ritenersi non irragionevole,
finalizzata com'è ad assicurare l'immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha attratto
per soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al rischio della ineffettività.
Del resto il principio di cedevolezza affermato dall'impugnato art. 1, comma 5, opera a condizione
che tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome interessate sia stata raggiunta l'intesa di cui al comma
1, nella quale si siano concordemente qualificate le opere in cui l'interesse regionale concorre con il
preminente interesse nazionale e si sia stabilito in che termini e secondo quali modalità le Regioni e le
Province autonome partecipano alle attività di progettazione, affidamento dei lavori e monitoraggio. Si
aggiunga che, a ulteriore rafforzamento delle garanzie poste a favore delle Regioni, l'intesa non può
essere in contrasto con le normative vigenti, anche regionali, o con le eventuali leggi regionali emanate
allo scopo.
17. - L'art. 1, comma 7, lettera e), definisce opere per le quali l'interesse regionale concorre con il
preminente interesse nazionale «le infrastrutture (…) non aventi carattere interregionale o internazionale
per le quali sia prevista, nelle intese generali quadro di cui al comma 1, una particolare partecipazione
delle Regioni o Province autonome alle procedure attuative» e opere di carattere interregionale o
internazionale «le opere da realizzare sul territorio di più Regioni o Stati, ovvero collegate
funzionalmente ad una rete interregionale o internazionale». La Regione Toscana lamenta la violazione
dell'art. 76 Cost., giacché la legge n. 443 del 2001 non autorizzerebbe il Governo a porre un regime
derogatorio anche per le opere di interesse regionale.
In realtà l'art. 1 del decreto legislativo n. 190 fa riferimento a infrastrutture pubbliche e private e
insediamenti produttivi strategici e «di preminente interesse nazionale» e non parla mai di opere di
interesse regionale, ma solo di opere nelle quali con il "preminente interesse nazionale", che permane in
posizione di prevalenza, concorre l'interesse della Regione. Opere di interesse esclusivamente regionale,
in altri termini, non sono oggetto della disciplina impugnata.
Non è pertanto ravvisabile nella disposizione denunciata alcun eccesso di delega.
17.1. - La stessa Regione Toscana, la Regione Marche e la Provincia di Bolzano assumono poi che
l'art. 1 comma 7, lettera e), violerebbe gli artt. 117, commi terzo, quarto e sesto, e 118 Cost., poiché la
disposizione escluderebbe la concorrenza dell'interesse regionale con il preminente interesse nazionale in
relazione ad opere aventi carattere interregionale o internazionale, mentre il solo fatto della
localizzazione di una parte dell'opera sul territorio di una Regione implicherebbe il coinvolgimento di un
interesse regionale e la conseguente legittimazione della Regione interessata all'esercizio nel proprio
territorio delle competenze legislative, regolamentari e amministrative ad essa riconosciute dalla
Costituzione.
Anche questa censura deve essere respinta.
Le ricorrenti muovono dalla erronea premessa che per le opere di interesse interregionale sia esclusa
ogni forma di coinvolgimento delle Regioni interessate. Al contrario deve essere chiarito che l'intesa
generale di cui al primo comma dell'art. 1 del decreto legislativo ha ad oggetto, fra l'altro, la
qualificazione delle opere e dunque la stessa classificazione della infrastruttura come opera di interesse
interregionale deve ottenere l'assenso regionale.
Chiarito che il decreto legislativo n. 190 non autorizza una qualificazione unilaterale del livello di
interesse dell'opera e ribadito che anche la classificazione della stessa deve formare oggetto di un'intesa,
non può dirsi scalfita la peculiare garanzia riconosciuta alla Provincia di Bolzano dalle norme di
attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige recate dal d.P.R. n. 381 del 1974, le quali
richiedono appunto un'intesa fra Ministro dei lavori pubblici e Presidenti delle Province autonome di
Trento e Bolzano per «i piani pluriennali di viabilità e i piani triennali per la gestione e l'incremento della
rete stradale» (art. 19); e stabiliscono che «gli interventi di spettanza dello Stato in materia di viabilità,
linee ferroviarie e aerodromi, anche se realizzati a mezzo di aziende autonome, sono effettuati previa
intesa con la Provincia interessata» (art. 20).
18. - L'art. 2, comma 1, stabilisce che il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti «promuove le
attività tecniche ed amministrative occorrenti ai fini della sollecita progettazione ed approvazione delle
infrastrutture e degli insediamenti produttivi ed effettua, con la collaborazione delle Regioni e delle
Province autonome interessate con oneri a proprio carico, le attività di supporto necessarie per la
vigilanza, da parte del CIPE, sulla realizzazione delle infrastrutture».
Secondo la prospettazione della Provincia autonoma di Bolzano questa disposizione violerebbe l'art.
16 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, il quale pone il principio del parallelismo tra
funzioni legislative e amministrative, nonché l'art. 4, comma 1, del decreto legislativo n. 266 del 1992, il
quale dispone che «nelle materie di competenza propria della Regione o delle Province autonome la
legge non può attribuire agli organi statali funzioni amministrative (…) diverse da quelle spettanti allo
Stato secondo lo statuto speciale e le norme di attuazione, salvi gli interventi richiesti ai sensi dell'art. 22
dello statuto».
La ricorrente presuppone che alcune delle materie su cui insistono i compiti tecnici e amministrativi
conferiti al Ministero sarebbero di competenza legislativa (e quindi amministrativa) provinciale, ma
omette di considerare che tra gli oggetti riconducibili alla propria competenza rientrano solo opere o
lavori pubblici di interesse provinciale, ai quali il decreto legislativo n. 190 non è applicabile. Quando
invece l'opera trascende l'ambito di interesse della Provincia, allora si è al di fuori delle garanzie
statutarie e le eventuali ulteriori competenze normative che essa intendesse trarre dall'art. 10 della legge
costituzionale n. 3 del 2001 in relazione alle infrastrutture di cui al decreto legislativo impugnato non
potrebbero sottrarsi ai limiti che si fanno valere nei confronti delle Regioni ordinarie, ossia, nella specie,
alla possibilità, per lo Stato, di far agire il principio di sussidiarietà attraendo e regolando funzioni
amministrative. Il parallelismo invocato dalla ricorrente opera, pertanto, unicamente nell'ambito
provinciale e con riferimento alle competenze statutarie, essendo superato dall'applicabilità del principio
di sussidiarietà per le competenze ulteriori.
18.1. - Per i motivi appena illustrati devono essere respinte anche tutte le censure che la Provincia di
Bolzano prospetta, sempre sul parametro dell'art. 4, comma 1, del decreto legislativo n. 266 del 1992,
con argomentazioni analoghe e che hanno ad oggetto gli artt. 1, commi 1 e 7; 2, commi 1, 2, 3, 4, 5, e 7;
3, commi 4, 5, 6, 9; 13, comma 5; e 15, i quali prevedono procedimenti di approvazione che comportano
l'automatica variazione degli strumenti urbanistici, determinano l'accertamento della compatibilità
ambientale e sostituiscono ogni altra autorizzazione, approvazione e parere.
19. - La Provincia autonoma di Bolzano impugna l'art. 2, commi 2, 3, 4 e 5, i quali, nel riservare al
Ministero delle infrastrutture e trasporti la promozione dell'attività di progettazione, direzione ed
esecuzione delle infrastrutture e il potere di assegnare le risorse integrative necessarie alle attività
progettuali, violerebbero l'art. 16 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige e l'art. 4 del decreto
legislativo n. 266 del 1992. Quest'ultimo, nel terzo comma, prevede che «fermo restando quanto disposto
dallo statuto speciale e dalle relative norme di attuazione, nelle materie di competenza propria della
Provincia, le amministrazioni statali, comprese quelle autonome, e gli enti dipendenti dallo Stato non
possono disporre spese né concedere, direttamente o indirettamente, finanziamenti o contributi per
attività nell'ambito del territorio regionale o provinciale". Tale disposizione, secondo la ricorrente
imporrebbe la diretta assegnazione dei fondi alle Province autonome di Trento e Bolzano e non ai
soggetti aggiudicatori.
Il motivo di ricorso va respinto per ragioni analoghe a quelle poc'anzi esposte, giacché alle Province
autonome non spetta in materia alcuna competenza statutaria, se non con riguardo alle opere di interesse
provinciale. Non si applicano dunque i parametri che la ricorrente invoca.
20. - Le Regioni Toscana e Marche impugnano l'art. 2, comma 5, il quale prevede che per la nomina
di commissari straordinari incaricati di seguire l'andamento delle opere aventi carattere interregionale o
internazionale debbano essere sentiti i Presidenti delle Regioni interessate. Le ricorrenti lamentano la
violazione degli artt. 117 e 118 Cost. e del principio di leale collaborazione, che, a loro giudizio,
imporrebbe il coinvolgimento della Regione nella forma dell'intesa.
La questione non è fondata.
La disposizione impugnata, infatti, prevede una forma di vigilanza sull'esercizio di funzioni che, in
quanto assunte per sussidiarietà, sono qualificabili come statali, e non vi è alcuna prescrizione
costituzionale dalla quale possa desumersi che il livello di collaborazione regionale debba consistere in
una vera e propria intesa, anziché, come è previsto per le opere interregionali e internazionali, nella
audizione dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome in sede di nomina del commissario
straordinario.
21. - Le Regioni Toscana e Marche impugnano l'art. 2, comma 7, nella parte in cui consente al
Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro delle infrastrutture e trasporti, sentiti, per
le infrastrutture di competenza dei soggetti aggiudicatori regionali, i Presidenti delle Regioni e delle
Province autonome, di abilitare i Commissari straordinari ad adottare, con poteri derogatori della
normativa vigente e con le modalità e i poteri di cui all'art. 13 del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67,
convertito, con modificazioni nella legge 23 maggio 1997, n. 135, i provvedimenti e gli atti di qualsiasi
natura necessari alla sollecita progettazione, istruttoria, affidamento e realizzazione delle infrastrutture e
degli insediamenti produttivi, in sostituzione dei soggetti competenti. Se ne denuncia il contrasto con gli
artt. 117, 118 e 120 della Costituzione.
Va innanzitutto premesso che le infrastrutture di competenza dei soggetti aggiudicatori regionali
sono quelle in relazione alle quali, nelle intese previste dal comma 1 dell'art.1 del decreto legislativo n.
190, si è riconosciuto che l'interesse regionale concorre con un interesse statale preminente ed è proprio
questo riconoscimento a giustificare l'esercizio della funzione amministrativa da parte dello Stato. Ad
evitare che le esigenze unitarie sottostanti alla realizzazione di tali opere possano restare insoddisfatte a
causa dell'inerzia del soggetto aggiudicatore regionale, allo Stato sono conferiti poteri sollecitatori che
peraltro devono essere esercitati seguendo un percorso procedimentale che non priva Regioni e Province
autonome delle garanzie connesse alla titolarità di un interesse concorrente con quello statale. È infatti
previsto che i commissari straordinari agiscano con le modalità e i poteri di cui al citato art. 13 del
decreto-legge n. 67 del 1997, e il comma 4 di tale articolo, che deve essere ritenuto applicabile alla
fattispecie, attribuisce al Presidente della Regione (e, in questo caso, per opere ricadenti nell'ambito della
Provincia autonoma, al Presidente della Provincia) il potere di sospendere i provvedimenti adottati dal
commissario straordinario e anche di provvedere diversamente, entro 15 giorni dalla loro comunicazione.
In questi termini, la censura è da respingere.
Non può essere condivisa neppure la prospettazione della Regione Toscana, secondo la quale alle
ipotesi di inerzia regionale dovrebbe ovviarsi ai sensi dell'art. 120 Cost., per la cui applicazione
mancherebbero, nella specie, i presupposti. Occorre qui tenere ben distinte le funzioni amministrative
che lo Stato, per ragioni di sussidiarietà e adeguatezza, può assumere e al tempo stesso organizzare e
regolare con legge, dalle funzioni che spettano alle Regioni e per le quali lo Stato, non ricorrendo i
presupposti per la loro assunzione in sussidiarietà, eserciti poteri in via sostitutiva. Nel primo caso,
quando si applichi il principio di sussidiarietà di cui all'art. 118 Cost., quelle stesse esigenze unitarie che
giustificano l'attrazione della funzione amministrativa per sussidiarietà consentono di conservare in capo
allo Stato poteri acceleratori da esercitare nei confronti degli organi della Regione che restino inerti. In
breve, la già avvenuta assunzione di una funzione amministrativa in via sussidiaria legittima l'intervento
sollecitatorio diretto a vincere l'inerzia regionale. Nella fattispecie di cui all'art. 120 Cost., invece,
l'inerzia della Regione è il presupposto che legittima la sostituzione statale nell'esercizio di una
competenza che è e resta propria dell'ente sostituito.
22. - Le Regioni ricorrenti censurano nella sua interezza l'art. 3, che disciplina la procedura di
approvazione del progetto preliminare delle infrastrutture, le procedure di valutazione di impatto
ambientale (VIA) e localizzazione, denunciandone il contrasto con l'art. 117 Cost., giacché detterebbe
una disciplina di minuto dettaglio in relazione ad oggetti ricadenti nella competenza regionale in materia
di governo del territorio.
La censura è inammissibile, in quanto formulata in termini generici, senza specificare quali parti
della disposizione censurata eccederebbero la potestà regolativa che pure non si disconosce allo Stato in
materia.
23. - L'art. 3, comma 5, il quale affida al CIPE l'approvazione del progetto preliminare delle
infrastrutture coinvolgendo le Regioni interessate ai fini dell'intesa sulla localizzazione dell'opera, ma
prevedendo che il medesimo progetto non sia sottoposto a conferenza di servizi, secondo la Regione
Toscana sarebbe in contrasto con l'art. 76 Cost., poiché non sarebbe conforme all'art. 1, comma 2, lettera
d), della legge n. 443 del 2001, il quale autorizzava solo a modificare la disciplina della conferenza dei
servizi e non a sopprimerla.
La censura non è fondata.
Il Governo, ai sensi dell'art. 1, comma 2, lettera d), era delegato a riformare le procedure per la
valutazione di impatto ambientale e l'autorizzazione integrata ambientale, nell'osservanza di un
principio-criterio direttivo molto circostanziato e così formulato: modificazione della disciplina in
materia di conferenza di servizi con la previsione della facoltà, da parte di tutte le amministrazioni
competenti a rilasciare permessi e autorizzazioni comunque denominati, di proporre, in detta conferenza,
nel termine perentorio di novanta giorni, prescrizioni e varianti migliorative che non modificano la
localizzazione e le caratteristiche essenziali delle opere. Tale criterio, diversamente da quanto assume la
ricorrente, era dettato con riferimento all'approvazione del progetto definitivo, non già di quello
preliminare. Attuativo della lettera d), dunque, non è l'art. 3, comma 5, bensì l'art. 4, comma 3, del
decreto legislativo n. 190, relativo all'approvazione del progetto definitivo, che in effetti prevede la
conferenza di servizi e risulta pertanto, sotto il profilo denunciato, conforme alla delega.
24. - Le Regioni ricorrenti denunciano i commi 6 e 9 dell'art. 3, i quali, nel prevedere che lo Stato
possa procedere comunque all'approvazione del progetto preliminare relativo alle infrastrutture di
carattere interregionale e internazionale superando il motivato dissenso delle Regioni, violerebbero gli
artt. 114, commi primo e secondo; 117, commi terzo, quarto e sesto, e 118, commi primo e secondo,
Cost. Le Regioni, si osserva nei ricorsi, sarebbero relegate in posizione di destinatarie passive di
provvedimenti assunti a livello statale in materie che sono riconducibili alla potestà legislativa
concorrente.
La questione non merita accoglimento.
Le procedure di superamento del dissenso regionale sono diversificate.
In una prima ipotesi [art. 3, comma 6, lettera a)] il dissenso può essere manifestato sul progetto
preliminare di un'opera che, in virtù di un'intesa fra lo Stato e la Regione o Provincia autonoma, è stata
qualificata di carattere interregionale o internazionale. In questo caso il progetto preliminare è sottoposto
al consiglio superiore dei lavori pubblici, alla cui attività istruttoria partecipano i rappresentanti delle
Regioni. A tale fine il consiglio valuta i motivi del dissenso e la eventuale proposta alternativa che, nel
rispetto della funzionalità dell'opera, la Regione o Provincia autonoma dissenziente avessero formulato
all'atto del dissenso. Il parere del consiglio superiore dei lavori pubblici è rimesso al CIPE che, in forza
dell'art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 190, applicabile nella specie, è integrato dai Presidenti
delle Regioni e Province autonome interessate. Se il dissenso regionale perdura anche in sede CIPE, il
progetto è approvato con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei
ministri, sentita la Commissione parlamentare per le questioni regionali. Va in primo luogo rilevato che
non si tratta qui di approvazione del progetto definitivo, ma solo di quello preliminare, e che le opere
coinvolte non sono qualificate di carattere regionale. Risponde quindi allo statuto del principio di
sussidiarietà e all'istanza unitaria che lo sorregge, che possano essere definite procedure di superamento
del dissenso regionale, le quali dovranno comunque - come avviene nella specie - informarsi al principio
di leale collaborazione, onde offrire alle Regioni la possibilità di rappresentare il loro punto di vista e di
motivare la loro valutazione negativa sul progetto. Nessuna censura, in definitiva, può essere rivolta alla
disciplina legislativa, salva la possibilità per la Regione dissenziente di impugnare la determinazione
finale resa con decreto del Presidente della Repubblica ove essa leda il principio di leale collaborazione,
sul quale deve essere modellato l'intero procedimento.
Nella seconda ipotesi [art. 3, comma 6, lettera b)] il dissenso si manifesta sul progetto preliminare
relativo a infrastrutture strategiche classificate nell'intesa fra Stato e Regione come di preminente
interesse nazionale o ad opere nelle quali il preminente interesse statale concorre con quello regionale. Il
procedimento di superamento del dissenso delle Regioni è diversamente articolato: si provvede in questi
casi a mezzo di un collegio tecnico costituito d'intesa fra il Ministero e la Regione interessata a una
nuova valutazione del progetto preliminare. Ove permanga il dissenso, il Ministro delle infrastrutture e
trasporti propone al CIPE, sempre d'intesa con la Regione, la sospensione dell'infrastruttura, in attesa di
una nuova valutazione in sede di aggiornamento del programma oppure «l'avvio della procedura prevista
in caso di dissenso sulle infrastrutture o insediamenti produttivi di carattere interregionale o
internazionale». Il tenore letterale della disposizione porta a concludere che la necessità dell'intesa con la
Regione si riferisca non solo alla proposta di sospensione del procedimento, ma anche alla proposta di
avvio della procedura di cui alla lettera a) dell'articolo in esame. Si consentirebbe insomma alla Regione,
nel caso di opere di interesse regionale concorrente con quello statale, di "bloccare" l'approvazione del
progetto ad esse relativo, in attesa di una nuova valutazione in sede di aggiornamento del programma.
In questi termini, il motivo di ricorso in esame deve essere rigettato.
24.1. - Per le ragioni appena esposte anche le censure relative agli artt. 4, comma 5, e 13, comma 5,
che alla procedura dell'art. 3, comma 6, fanno espresso rinvio, devono essere respinte, così come deve
essere rigettata la censura rivolta dalle Regioni Toscana e Marche nei confronti dell'art. 13, che
disciplina le procedure per la localizzazione, l'approvazione dei progetti, la VIA degli insediamenti
produttivi e delle infrastrutture private strategiche per l'approvvigionamento energetico, richiamando le
procedure previste negli artt. 3 e 4 del decreto.
25. - Devono essere dichiarate inammissibili le censure che le Regioni Toscana e Marche svolgono
nei confronti degli artt. 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 e 11, che, in relazione alle infrastrutture e agli insediamenti
produttivi qualificati come strategici, contengono un complesso insieme di innovazioni in materia di
appalti e di concessioni di lavori pubblici. Se ne denuncia il contrasto con l'art. 117 Cost.
Ancor prima di esaminare nel merito la censura, che procede peraltro dalla erronea premessa che i
lavori pubblici costituiscano una materia di esclusiva competenza regionale, si deve rilevare che essa è
formulata in termini così generici da non consentire un corretto scrutinio di legittimità costituzionale
sulle singole disposizioni. Nella congerie di norme contenute negli articoli impugnati, fatte
simultaneamente e indistintamente oggetto di censura, discernere o selezionare i profili di competenza
statale potenzialmente interferenti con la disciplina regionale non è onere che possa essere addossato alla
Corte, ma attiene al dovere di allegazione del ricorrente. Vero in ipotesi che sussistano profili di
disciplina inerenti a competenze residuali, è infatti indubitabile la potenziale interferenza con esse di
funzioni e compiti statali riconducibili alla potestà legislativa esclusiva o concorrente, quali la tutela
dell'ambiente e dell'ecosistema, la tutela della concorrenza, il governo del territorio.
26. - L'art. 4, comma 5, è impugnato dalla Regione Toscana per la parte in cui prevede che
l'approvazione del progetto definitivo, adottata con il voto favorevole della maggioranza dei componenti
il CIPE, «sostituisce ogni altra autorizzazione, approvazione e parere comunque denominato e consente
la realizzazione e, per gli insediamenti produttivi strategici, l'esercizio di tutte le opere, prestazioni e
attività previste nel progetto approvato». La ricorrente lamenta la violazione dell'art. 76 della
Costituzione, per il contrasto con l'art. 1, comma 3-bis, della legge di delega n. 443 del 2001, come
modificata dalla legge n. 166 del 2002, il quale porrebbe quale momento indefettibile del procedimento
di approvazione del progetto definitivo il parere obbligatorio della Conferenza unificata di cui all'art. 8
del decreto legislativo n. 281 del 1997.
La censura è infondata.
A prescindere dal rilievo che l'art. 1, comma 3-bis, della legge n. 443 del 2001, introdotto dalla legge
n. 166 del 2002, non figura espressamente tra i criteri e principi direttivi per l'esercizio della delega, e
che è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con la presente pronuncia (v. § 8), deve osservarsi
che l'art. 4, comma 5, costituisce attuazione del criterio di cui all'art. 1, comma 2, lettera c), della citata
legge n. 443 del 2001, come modificato dall'art. 13, comma 6, della legge n. 166 del 2002, del quale si è
in precedenza escluso il dedotto profilo di lesione delle competenze regionali (punto 6.2.). Il suindicato
criterio prevedeva infatti che venisse affidata al CIPE, integrato dai Presidenti delle Regioni o Province
autonome interessate, l'approvazione del progetto preliminare e di quello definitivo. E che l'operatività
della disposizione impugnata presupponga che l'approvazione del progetto definitivo sia effettuata dal
CIPE in composizione allargata si ricava dall'art. 1, comma 2, dello stesso decreto legislativo n. 190, il
quale chiarisce che «l'approvazione dei progetti delle infrastrutture» (quindi del progetto preliminare
come di quello definitivo) «avviene d'intesa tra lo Stato e le Regioni nell'ambito del CIPE allargato ai
presidenti delle regioni e delle province autonome interessate».
27. - La Regione Toscana ha impugnato l'art. 8, nella parte in cui prevede che il Ministero delle
infrastrutture e trasporti pubblichi sul proprio sito informatico e, una volta istituito, sul sito informatico
individuato dal Presidente del Consiglio dei ministri ai sensi dell'art. 24 della legge 24 novembre 2000, n.
340, nonché nelle Gazzette Ufficiali italiana e comunitaria, la lista delle infrastrutture per le quali il
soggetto aggiudicatore ritiene di sollecitare la presentazione di proposte da parte di promotori,
precisando, per ciascuna infrastruttura, il termine (non inferiore a 4 mesi) entro il quale i promotori
possono presentare le proposte e, se la proposta è presentata, stabilisce che il soggetto aggiudicatore,
valutata la stessa come di pubblico interesse, promuova la procedura di VIA e se necessario la procedura
di localizzazione urbanistica.
La ricorrente lo censura per eccesso di delega, in quanto esso non chiarirebbe se le infrastrutture
inserite nella lista per sollecitare le proposte dei promotori siano da individuare tra quelle già ricomprese
nel programma di opere strategiche formato d'intesa con le Regioni ai sensi dell'art. 1, comma 1, della
legge di delega n. 443 del 2001 o se al contrario si debba consentire la presentazione di proposte dei
promotori anche per opere non facenti parte del programma, e sulle quali nessuna intesa è stata raggiunta
con le Regioni interessate.
L'interpretazione più piana e lineare della disposizione censurata è che debba trattarsi delle opere
inserite nel programma di cui al comma 1, e sulle quali si sia raggiunta l'intesa. Non è quindi fondata la
censura di violazione dell'art. 76 Cost. e neppure sussiste la violazione dell'art. 117, poiché il principio di
sussidiarietà, come si è visto nel paragrafo 2.1, postula che allo Stato, una volta assunta la funzione
amministrativa, competa anche di regolarla onde renderne l'esercizio raffrontabile a un parametro legale
unitario.
28. - Le Regioni Toscana, Marche e la Provincia autonoma di Bolzano, propongono questione di
legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 117, sesto comma, Cost., anche dell'art. 15 del decreto
legislativo n. 190.
La questione è fondata.
Il comma 1 di tale articolo attribuisce al Governo la potestà di integrare tutti i regolamenti emanati in
base alla legge n. 109 del 1994, «assumendo come norme regolatrici il presente decreto legislativo, la
legge di delega e le normative comunitarie in materia di appalti di lavori» e stabilisce che le norme
regolamentari si applichino alle Regioni solo «limitatamente alle procedure di intesa per l'approvazione
dei progetti e di aggiudicazione delle infrastrutture» e, per quanto non pertinente a queste procedure, si
applichino a titolo suppletivo, «sino alla entrata in vigore di diversa normativa regionale». Il comma 2
del predetto articolo autorizza i regolamenti emanati nell'esercizio della potestà di cui al comma 1 ad
abrogare o derogare, dalla loro entrata in vigore, le norme di diverso contenuto precedentemente vigenti
nella materia; il comma 3 puntualizza gli oggetti del regolamento autorizzato; il comma 4 stabilisce che,
fino alla entrata in vigore dei regolamenti integrativi di cui al comma 1, si applica il d.P.R. n. 554 del
1999 in materia di lavori pubblici adottato dallo Stato ai sensi dell'art. 3 della legge n. 109 del 1994, in
quanto compatibile con le norme della legge di delega e del decreto legislativo n. 190; e prosegue
disponendo che i requisiti di qualificazione sono individuati e regolati dal bando e dagli atti di gara, nel
rispetto delle previsioni del decreto legislativo n. 158 del 1995.
Dalle argomentazioni che sostengono il motivo di ricorso si evince che esso investe i primi quattro
commi dell'art. 15, che riguardano appunto i regolamenti governativi autorizzati; ne è escluso invece il
comma 5, che ha un oggetto diverso ed affatto autonomo, poiché concerne l'attività di monitoraggio tesa
a prevenire e reprimere tentativi di infiltrazione mafiosa. Così accertata la portata delle censure, esse
devono essere accolte, per le ragioni che sono state già esposte nel precedente paragrafo 7, dove si sono
illustrati i motivi della pronuncia di accoglimento della questione riguardante l'art. 1, comma 3, della
legge n. 443 del 2001, di cui l'impugnato art. 15 è attuativo.
29. - Con un'unica, laconica censura la Regione Toscana impugna, con richiamo agli stessi motivi
già svolti, l'art. 16, il quale contiene una pluralità di norme transitorie, diverse a seconda dello stadio di
realizzazione dell'opera al momento di entrata in vigore del decreto legislativo n. 190. La
regolamentazione è infatti differenziata a seconda che sia stato approvato il progetto definitivo o
esecutivo (comma 1); abbia avuto luogo la valutazione di impatto ambientale sulla base di norme vigenti
statali o regionali (comma 2); non si sia svolta alcuna attività e si versi in fase di prima applicazione della
disciplina (comma 3); o ancora si tratti di procedimenti relativi agli insediamenti produttivi e alle
infrastrutture strategiche per l'approvvigionamento energetico in corso (comma 7, che regola anche il
regime degli atti già compiuti). Ciascuna di queste ipotesi è assoggettata a una disciplina particolare e
pertanto non è possibile indirizzare nei loro confronti una censura unitaria fondata su un solo motivo, per
di più argomentato per relationem con riferimento ai "motivi sopra esposti", alcuni dei quali, a loro
volta, vengono dichiarati inammissibili per genericità con la presente pronuncia.
La censura è pertanto inammissibile per la sua genericità.
30. - Le Regioni Marche e Toscana denunciano, in riferimento all'art. 117 Cost., gli artt. 17, 18, 19 e
20 nella parte in cui dettano una disciplina della procedura di valutazione di impatto ambientale di opere
e infrastrutture che derogherebbe a quella regionale, cui dovrebbe riconoscersi la competenza a regolare
gli strumenti attuativi della tutela dell'ambiente.
La censura non merita accoglimento.
Le ricorrenti muovono dalla premessa che la valutazione di impatto ambientale regolata dalle
disposizioni censurate trovi applicazione anche nei confronti delle opere di esclusivo interesse regionale,
ma così non è, poiché la sfera di applicazione del decreto legislativo n. 190 è limitata alle opere che, con
intesa fra lo Stato e la Regione, vengono qualificate come di preminente interesse nazionale, con il quale
concorre un interesse regionale.
Per le infrastrutture ed insediamenti produttivi di preminente interesse nazionale, invece, non vi è
ragione di negare allo Stato l'esercizio della sua competenza, tanto più che la tutela dell'ambiente e
dell'ecosistema forma oggetto di una potestà esclusiva, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s),
che è bensì interferente con una molteplicità di attribuzioni regionali, come questa Corte ha riconosciuto
nelle sentenze n. 536 e n. 407 del 2002, ma che non può essere ristretta al punto di conferire alle Regioni,
anziché allo Stato, ogni determinazione al riguardo.
Quando sia riconosciuto in sede di intesa un concorrente interesse regionale, la Regione può
esprimere il suo punto di vista e compiere una sua previa valutazione di impatto ambientale, ai sensi
dell'art. 17, comma 4, ma il provvedimento di compatibilità ambientale è adottato dal CIPE, il quale,
secondo una retta interpretazione, conforme ai criteri della delega [art. 1, comma 2, lettera c), della legge
n. 443 del 2001, come sostituito dalla legge n. 166 del 2002], deve essere integrato dai Presidenti delle
Regioni e delle Province autonome interessate. L'insieme di queste previsioni appresta garanzie adeguate
a tutelare le interferenti competenze regionali.
31. - Oggetto di censura è pure l'art. 19, comma 2, il quale demanda la valutazione di impatto
ambientale a una Commissione speciale istituita con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su
proposta del Ministro dell'ambiente. Le Regioni Toscana e Marche lamentano una lesione degli artt. 9,
32, 117 e 118 Cost. per la mancata previsione di una partecipazione regionale in tale Commissione.
Premesso che la disposizione deve essere interpretata nel senso che la Commissione speciale opera
con riferimento alle sole opere qualificate in sede di intesa come di interesse nazionale, interregionale o
internazionale, essa è invece illegittima nella parte in cui, per le infrastrutture e gli insediamenti
produttivi strategici per i quali sia stato riconosciuto, in sede di intesa, un concorrente interesse
regionale, non prevede che la Commissione speciale VIA sia integrata da componenti designati dalle
Regioni o Province autonome interessate.
32. - Le Regioni Campania, Toscana, Marche, Basilicata, Emilia-Romagna, Umbria e Lombardia
hanno proposto questione di legittimità costituzionale in via principale, in riferimento agli artt. 3, 9, 32,
41, 42, 44, 70, 76, 77, 97, 114, 117, 118 e 119 Cost., nonché all'art. 174 del trattato istitutivo della
Comunità europea, dell'intero decreto legislativo 4 settembre 2002, n. 198, recante "Disposizioni volte ad
accelerare la realizzazione delle infrastrutture di telecomunicazioni strategiche per la modernizzazione e
lo sviluppo del Paese, a norma dell'art. 1, comma 2, della legge 21 dicembre 2001, n. 443", e in
particolare degli artt. 1, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 e 12.
33. - Avverso il medesimo decreto legislativo ha proposto ricorso, «per sollevare questione di
legittimità costituzionale e conflitto di attribuzione», anche il Comune di Vercelli. Il ricorrente ritiene
che la propria legittimazione ad impugnare discenda dal fatto che la revisione del Titolo V della Parte II
della Costituzione ha attribuito direttamente ai Comuni potestà amministrative e normative che
dovrebbero poter essere difese nel giudizio di legittimità costituzionale in via di azione e nel giudizio per
conflitto di attribuzione.
A prescindere dalla qualificazione dell'atto e dal problema se con esso il Comune abbia sollevato una
questione di legittimità costituzionale o abbia introdotto un conflitto di attribuzione, il ricorso deve
essere dichiarato inammissibile.
L'art. 127 Cost. prevede che «La Regione, quando ritenga che una legge o un atto avente valore di
legge dello Stato o di un'altra Regione leda la sua sfera di competenza, può promuovere la questione di
legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione della
legge o dell'atto avente valore di legge». Con formulazione dal tenore inequivoco, la titolarità del potere
di impugnazione di leggi statali è dunque affidata in via esclusiva alla Regione, né è sufficiente
l'argomento sistematico invocato dal ricorrente per estendere tale potere in via interpretativa ai diversi
enti territoriali.
Analogo discorso deve ripetersi per il potere di proporre ricorso per conflitto di attribuzione. Nessun
elemento letterale o sistematico consente infatti di superare la limitazione soggettiva che si ricava dagli
art. 134 della Costituzione e 39, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e, comunque, sotto il
profilo oggettivo, resta ferma, anche dopo la revisione costituzionale del 2001, la diversità fra i giudizi in
via di azione sulle leggi e i conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni, i quali ultimi non possono
riguardare atti legislativi.
34. - Gli interventi spiegati dalle società H3G s.p.a., T.I.M. s.p.a. - Telecom Italia Mobile, Vodafone
Omnitel N.V. (già Vodafone Omnitel s.p.a.), Wind Telecomunicazioni s.p.a. e quelli proposti, peraltro
tardivamente, dai Comuni di Pontecurone, Monte Porzio Catone, Roma, Polignano a Mare, Mantova e
del Coordinamento delle associazioni consumatori (CODACONS), devono essere dichiarati
inammissibili, per le stesse ragioni esposte nel paragrafo 3.2 della presente sentenza.
35. - L'intero decreto legislativo n. 198 del 2002 è impugnato in tutti i ricorsi per eccesso di delega,
sul rilievo che la legge n. 443 del 2002, nell'art. 1, comma 1, autorizzava l'adozione di una normativa
specifica per le sole infrastrutture puntualmente individuate anno per anno, a mezzo di un programma
approvato dal CIPE, mentre nel caso di specie non vi sarebbe stata tale individuazione, ma
esclusivamente una «sintesi del piano degli interventi nel comparto delle comunicazioni». Inoltre, si
aggiunge nei ricorsi delle Regioni Emilia-Romagna e Umbria, la delega sarebbe stata conferita per la
realizzazione di "grandi opere", mentre tralicci, pali, antenne, impianti radiotrasmittenti, ripetitori, che il
decreto legislativo n. 198 disciplina, costituirebbero solo una molteplicità di piccole opere; infine - si
lamenta nei ricorsi delle Regioni Emilia-Romagna, Umbria e Lombardia - lungi dall'uniformarsi ai
principî e criteri direttivi della delega, il decreto impugnato, nell'art. 1, porrebbe a sé medesimo i principî
che informano le disposizioni successive.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel giudizio promosso in via principale il vizio di eccesso
di delega può essere addotto solo quando la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a
determinare una vulnerazione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni o Province autonome
ricorrenti (sentenze n. 353 del 2001, n. 503 del 2000, n. 408 del 1998, n. 87 del 1996). Nella specie non
può negarsi che la disciplina delle infrastrutture di telecomunicazioni strategiche, che si assume in
contrasto con la legge di delega n. 443 del 2001, comprima le attribuzioni regionali sotto più profili. Il
più evidente tra essi emerge dalla lettura dell'art. 3, comma 2, secondo il quale tali infrastrutture sono
compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica e sono realizzabili in ogni parte del territorio comunale
anche in deroga agli strumenti urbanistici e ad ogni altra disposizione di legge o di regolamento. In
questi casi la Regione è legittimata a far valere le proprie attribuzioni anche allegando il vizio formale di
eccesso di delega del decreto legislativo nel quale tale disciplina è contenuta.
Nella specie l'eccesso di delega è evidente, a nulla rilevando, in questo giudizio, la sopravvenuta
entrata in vigore del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, recante il Codice delle comunicazioni
elettroniche, che riguarda in parte la stessa materia.
L'art. 1, comma 2, della legge n. 443 del 2001, che figura nel titolo del decreto legislativo impugnato
ed è richiamata nel preambolo, ha conferito al Governo il potere di individuare infrastrutture pubbliche e
private e insediamenti produttivi strategici di interesse nazionale a mezzo di un programma formulato su
proposta dei Ministri competenti, sentite le Regioni interessate ovvero su proposta delle Regioni sentiti i
Ministri competenti. I criteri della delega, contenuti nell'art. 2, confermano che i decreti legislativi
dovevano essere intesi a definire un quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle
infrastrutture e degli insediamenti individuati a mezzo di un programma.
Di tale programma non vi è alcuna menzione nel decreto impugnato, il quale al contrario prevede
che i soggetti interessati alla installazione delle infrastrutture sono abilitati ad agire in assenza di un atto
che identifichi previamente, con il concorso regionale, le opere da realizzare e sulla scorta di un mero
piano di investimenti delle diverse società concessionarie. Ogni considerazione sulla rilevanza degli
interessi sottesi alla disciplina impugnata non può avere ingresso in questa sede, posto che tale disciplina
non corrisponde alla delega conferita al Governo e non può essere considerata di questa attuativa.
L'illegittimità dell'intero atto esime questa Corte dal soffermarsi sulle singole disposizioni oggetto di
ulteriori censure, che restano pertanto assorbite.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara la illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 3, ultimo periodo, della legge 21
dicembre 2001, n. 443 (Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi
strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive);
2) dichiara la illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 3-bis, della medesima legge,
introdotto dall'articolo 13, comma 6, della legge 1° agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in materia di
infrastrutture e trasporti);
3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 1, commi 1, 2, 3 e 4,
della legge 21 dicembre 2001, n. 443, sollevate, in riferimento all'articolo 10 della legge costituzionale
18 ottobre 2001, n. 3, e agli articoli 117 e 118 della Costituzione, dalla Provincia autonoma di Trento,
con il ricorso indicato in epigrafe;
4) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale
dell'articolo 1, comma 1, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, sollevate, in riferimento agli articoli 117,
118 e 119 della Costituzione dalla Regione Marche e, in riferimento all'articolo 117 della Costituzione,
dalle Regioni Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna, con i ricorsi indicati in epigrafe;
5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 1, della legge
21 dicembre 2001, n. 443, come sostituito dall'articolo 13, comma 3, della legge 1° agosto 2002, n. 166,
sollevata, in riferimento agli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione, dalla Regione Toscana, con il
ricorso indicato in epigrafe;
6) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 2, lettere a),
b), c), d), e), f), g), h), i), l), m), n) e o), della legge 21 dicembre 2001, n. 443, sollevate, in riferimento
agli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione, dalla Regione Marche e, in riferimento all'articolo 117
della Costituzione, dalle Regioni Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna, con i ricorsi indicati in epigrafe;
7) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 2, lettera g),
della legge 21 dicembre 2001, n. 443, sollevata, in riferimento all'articolo 117, primo comma, della
Costituzione, dalle Regioni Umbria ed Emilia-Romagna, con i ricorsi indicati in epigrafe;
8) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 2, lettera n
), della legge 21 dicembre 2001, n. 443, sollevata, in riferimento all'articolo 117, primo comma, della
Costituzione, dalle Regioni Umbria ed Emilia-Romagna, con i ricorsi indicati in epigrafe;
9) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 2, lettera c),
della legge 21 dicembre 2001, n. 443, come sostituito dall'articolo 13, comma 5, della legge 1° agosto
2002, n. 166, sollevata, in riferimento agli articoli 117 e 118 della Costituzione, dalla Regione Toscana,
con il ricorso indicato in epigrafe;
10) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 4, della
legge 21 dicembre 2001, n. 443, sollevate, in riferimento agli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione,
dalla Regione Marche e, in riferimento all'articolo 117 della Costituzione, dalle Regioni Toscana,
Umbria ed Emilia-Romagna, con i ricorsi indicati in epigrafe;
11) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 5, della
legge 21 dicembre 2001, n. 443, sollevata, in riferimento agli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione,
dalla Regione Marche, con il ricorso indicato in epigrafe;
12) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 1, commi 6, 7, 8, 9,
10, 11, 12 e 14, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, sollevate, in riferimento all'articolo 117 della
Costituzione, dalle Regioni Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna, con i ricorsi indicati in epigrafe;
13) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 1-bis, della
legge 21 dicembre 2001, n. 443, introdotto dall'articolo 13, comma 4, della legge 1° agosto 2002, n. 166,
sollevata, in riferimento agli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione, dalla Regione Toscana, con il
ricorso indicato in epigrafe;
14) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale
dell'articolo 13, commi 1 e 11, della legge 1° agosto 2002, n. 166, sollevata, in riferimento agli articoli
117, 118 e 119 della Costituzione, dalla Regione Toscana, con il ricorso indicato in epigrafe;
15) dichiara la illegittimità costituzionale dell'articolo 15, commi 1, 2, 3 e 4, del decreto legislativo
20 agosto 2002, n. 190 (Attuazione della legge 21 dicembre 2001, n. 443, per la realizzazione delle
infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale);
16) dichiara la illegittimità costituzionale dell'articolo 19, comma 2, del decreto legislativo 20 agosto
2002, n. 190, nella parte in cui, per le infrastrutture e gli insediamenti produttivi strategici, per i quali sia
stato riconosciuto, in sede di intesa, un concorrente interesse regionale, non prevede che la commissione
speciale per la valutazione di impatto ambientale (VIA) sia integrata da componenti designati dalle
Regioni o Province autonome interessate;
17) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1, 2, 3, 4, 13 e 15
del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevate, in riferimento agli articoli 76, 117, 118 e 120
della Costituzione e agli articoli 8, primo comma, numeri 5, 6, 9 , 11, 14, 16, 17, 18, 19, 21, 22, e 24; 9,
primo comma, numeri 8, 9 e 10; e 16 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, agli articoli 19, 20 e 21 del
d.P.R. 22 marzo 1974, n. 381 e all'articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266, dalla
Provincia autonoma di Trento, con il ricorso indicato in epigrafe;
18) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale
dell'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata, in riferimento agli
articoli 117 e 118 della Costituzione, all'articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, e
all'articolo 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266, dalla Provincia autonoma di Bolzano, con il
ricorso indicato in epigrafe;
19) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale
dell'articolo 13, comma 5, del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata, in riferimento agli
articoli 8, primo comma, numeri 5, 6, 9 , 11, 14, 16, 17, 18, 19, 21, 22, e 24; 9, primo comma, numeri 8,
9 e 10; e 16 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, e all'articolo 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n.
266, dalla Provincia autonoma di Bolzano, con il ricorso indicato in epigrafe;
20) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 5, del
decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata, in riferimento all'articolo 117 della Costituzione,
dalle Regioni Marche e Toscana, con i ricorsi indicati in epigrafe;
21) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 7, lettera e),
del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevate, in riferimento agli articoli 76, 117, commi terzo,
quarto e sesto, e 118 della Costituzione, dalla Regione Toscana, in riferimento agli articoli 117, commi
terzo quarto e sesto, e 118 della Costituzione, dalla Regione Marche, in riferimento agli articoli 8, primo
comma, numeri 5, 6, 9, 11, 14, 16, 17, 18, 19, 21, 22, e 24; 9, primo comma, numeri 8, 9 e 10; e 16 del
d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, e agli articoli 19 e 20 del d.P.R. 22 marzo 1974, n. 381, dalla Provincia
autonoma di Bolzano, con i ricorsi indicati in epigrafe;
22) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2, commi 1, 2, 3, 4, 5
e 7; 3, commi 4, 5, 6, e 9; e 13, commi 5 e 15, del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevate, in
riferimento agli articoli 117 e 118 della Costituzione, all'articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre
2001, n. 3, e agli articoli 8, primo comma, numeri 5, 6, 9, 11, 14, 16, 17, 18, 19, 21, 22, e 24; 9, primo
comma, numeri 8, 9 e 10; e 16 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, e all'articolo 4, comma 1, del decreto
legislativo 16 marzo 1992, n. 266, dalla Provincia autonoma di Bolzano, con il ricorso indicato in
epigrafe;
23) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2, commi 2, 3, 4 e 5,
sollevate, in riferimento agli articoli 8, primo comma, numeri 5, 6, 9, 11, 14, 16, 17, 18, 19, 21, 22, e 24;
9, primo comma, numeri 8, 9 e 10; e 16 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, e all'articolo 4, comma 3, del
decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266, dalla Provincia autonoma di Bolzano, con il ricorso indicato
in epigrafe;
24) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 2, comma 5, del
decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevate, in riferimento agli articoli 117 e 118 della
Costituzione, dalle Regioni Toscana e Marche, con i ricorsi indicati in epigrafe;
25) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 2, comma 7, del
decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevate, in riferimento agli articoli 117, 118 e 120 della
Costituzione, dalla Regione Toscana, e, in riferimento agli articoli 117 e 118 della Costituzione, dalla
Regione Marche, con i ricorsi indicati in epigrafe;
26) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 3 del decreto
legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevate, in riferimento agli articoli 117 della Costituzione, dalle
Regioni Toscana e Marche, con i ricorsi indicati in epigrafe;
27) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 3, comma 5, del
decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata, in riferimento all'articolo 76 della Costituzione, in
relazione all'articolo 1, comma 2, lettera d), della legge 21 dicembre 2001, n. 443, dalla Regione
Toscana, con il ricorso indicato in epigrafe;
28) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale
dell'articolo 3, commi 6 e 9, del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevate, in riferimento agli
articoli 114, commi primo e secondo, 117, commi terzo, quarto e sesto, e 118, commi primo e secondo,
della Costituzione, dalle Regioni Toscana e Marche, con i ricorsi indicati in epigrafe;
29) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale
degli articoli 4, comma 5, e 13 del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevate, in riferimento
agli articoli 114, commi primo e secondo, 117, commi terzo, quarto e sesto, e 118, commi primo e
secondo, della Costituzione, dalle Regioni Toscana e Marche, con i ricorsi indicati in epigrafe;
30) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 e
11 del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevate, in riferimento all'articolo 117 della
Costituzione, dalle Regioni Toscana e Marche, con i ricorsi indicati in epigrafe;
31) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 4, comma 5, del
decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata, in riferimento all'articolo 76 della Costituzione,
dalla Regione Toscana, con il ricorso indicato in epigrafe;
32) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 8 del decreto
legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata, in riferimento agli articoli 76 e 117 della Costituzione, dalla
Regione Toscana, con il ricorso indicato in epigrafe;
33) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 16 del decreto
legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevata, in riferimento agli articoli 117 e 118 della Costituzione,
dalla Regione Toscana, con il ricorso indicato in epigrafe;
34) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 17, 18, 19, commi 1 e
3, e 20 del decreto legislativo 19 agosto 2002, n. 190, sollevate, in riferimento all'articolo 117 della
Costituzione, dalle Regioni Toscana e Marche, con i ricorsi indicati in epigrafe;
35) dichiara la illegittimità costituzionale del decreto legislativo 4 settembre 2002, n. 198
(Disposizioni volte ad accelerare la realizzazione delle infrastrutture di telecomunicazioni strategiche per
la modernizzazione e lo sviluppo del Paese, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 21 dicembre
2001, n. 443);
36) dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Comune di Vercelli "per sollevare questione di
legittimità costituzionale e conflitto di attribuzione" avverso il decreto legislativo 4 settembre 2002, n.
198.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 settembre
2003.
F.to:
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Carlo MEZZANOTTE, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'1 ottobre 2003.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 341/1999
Giudizio
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente GRANATA - Redattore
Camera di Consiglio del 09/06/1999 Decisione del 14/07/1999
Deposito del 22/07/1999 Pubblicazione in G. U. 28/07/1999
Norme impugnate:
Massime:
24861 24862
Atti decisi:
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SENT. 341/99 A. PROCESSO PENALE - DIRITTI DELL'IMPUTATO - AUTODIFESA - ATTIVITA'
IN CUI SI ESPLICA - FASI DEL PROCESSO, DALL'ISTRUTTORIA AL DIBATTIMENTO,
AFFIDATE DALL'ORDINAMENTO AL PRINCIPIO DELL'ORALITA' - ESIGENZA DI
PARTICOLARI
GARANZIE.
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s
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Come la Corte costituzionale ha costantemente affermato, la peculiare natura del processo penale e degli
interessi in esso coinvolti richiede la possibilita' della diretta e personale partecipazione dell'imputato,
onde l'autodifesa - che ha riguardo a quel complesso di attivita' mediante le quali l'imputato e' posto in
grado di influire sullo sviluppo dialettico del processo - costituisce diritto primario dell'imputato,
immanente a tutto l'"iter" processuale, dalla fase istruttoria a quella del giudizio. La garanzia
costituzionale del diritto di difesa comprende dunque - come anche si e' precisato - la effettiva possibilita'
che la partecipazione personale dell'imputato al procedimento avvenga in modo consapevole,
specialmente nelle fasi che l'ordinamento affida al principio dell'oralita': il che comporta la possibilita'
effettiva sia di percepire, comprendendone il significato linguistico, le espressioni orali dell'autorita'
procedente e degli altri protagonisti del procedimento, sia di esprimersi a sua volta in modo da essere
percepito e compreso. - S. nn. 99/1975, 205/1971, 186/1973, 9/1982 e, da ultimo, S. n. 10/1993. red.: S.
P o m o d o r o
Parametri costituzionali
Costituzione art. 24 co. 2
T
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SENT. 341/99 B. PROCESSO PENALE - PARTECIPAZIONE DI PERSONE SORDE, MUTE O
SORDOMUTE AGLI ATTI DEL PROCEDIMENTO - DIRITTO DELL'IMPUTATO, SE AFFETTO
DA UNO DI TALI 'HANDICAP', INDIPENDENTEMENTE DAL FATTO CHE SAPPIA O MENO
LEGGERE O SCRIVERE, DI FARSI ASSISTERE GRATUITAMENTE DA UN INTERPRETE OMESSA PREVISIONE - INCIDENZA SULLA POSSIBILITA', PER L'IMPUTATO, DI
COMPRENDERE LE ACCUSE MOSSEGLI E DI SEGUIRE EFFETTIVAMENTE IL COMPIMENTO
DEGLI ATTI A CUI PARTECIPA - VIOLAZIONE DEL DIRITTO DI DIFESA - ILLEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE 'IN PARTE QUA' - DISCIPLINA CONSEGUENTEMENTE APPLICABILE.
T
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s
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Per violazione dell'art. 24, comma secondo, Cost. - assorbito ogni altro profilo della questione - l'art. 119
cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che l'imputato sordo, muto o sordomuto,
indipendentemente dal fatto che sappia o meno leggere e scrivere, abbia diritto di farsi assistere da un
interprete, deve essere dichiarato illegittimo. Nello stabilire (comma 1) riguardo non solo all'imputato,
ma a qualsiasi persona che sia chiamata o abilitata, nel processo, a rendere dichiarazioni, che "quando un
sordo, un muto o un sordomuto vuole o deve fare dichiarazioni", si usi lo scritto, sia da parte
dell'interessato che non parli, sia per rivolgere "le domande, gli avvertimenti e le ammonizioni"
all'interessato che non senta e col riservare nelle medesime ipotesi (comma 2) la nomina di uno o piu'
interpreti, da parte dell'autorita' procedente, al solo caso in cui la persona non sappia leggere o scrivere,
le disposizioni dell'art. 119 cod. proc. pen. non tengono infatti conto della differenza sostanziale che
intercorre tra il poter percepire ed esprimersi, immediatamente e direttamente, sia pure con la mediazione
di un interprete, e l'essere messi in grado di percepire o di esprimersi solo attraverso lo scritto, ed
appaiono dettate, in realta', nell'ottica di rendere possibile lo svolgimento del processo quando ad esso
partecipi una persona portatrice di siffatti 'handicap', piuttosto che in quella della garanzia dei diritti
dell'imputato. Ed e' dunque palese in esse l'insufficienza a soddisfare le effettive esigenze di tale
garanzia, sia sotto il profilo della omessa considerazione delle necessita' di comprensione e
comunicazione, al di la' della sola ipotesi in cui l'imputato debba o voglia rendere dichiarazioni, e piu' in
generale delle esigenze che derivano dal diritto dell'imputato a partecipare consapevolmente al
procedimento; sia sotto il profilo della esclusione della assistenza di un interprete quando l'imputato
sappia leggere e scrivere. Tale lacuna va dunque colmata attraverso la adottata pronuncia di illegittimita'
costituzionale di tipo "additivo", con la quale si estende agli imputati che si trovano nelle condizioni di
cui all'art. 119 cod. proc. pen., la forma di tutela gia' prevista dall'art. 143 stesso codice per l'imputato
che non conosca la lingua italiana, con l'ulteriore precisazione che l'interprete, secondo la regola, gia'
presente nello stesso art. 119, comma 2, dovra' essere scelto di preferenza fra le persone abituate a
trattare con la persona interessata, mentre, per ogni altro aspetto della disciplina varra', in forza del rinvio
all'art. 119 contenuto nell'art. 143, comma 2, quanto disposto in generale in tema di interprete che assiste
l'imputato.
V.
la
precedente
massima
A.
red.:
S.
Pomodoro
Parametri costituzionali
Costituzione art. 3
Costituzione art. 24
Riferimenti normativi
codice di procedura penale 1988 art. 119
Pronuncia
N. 341
SENTENZA 14-22 LUGLIO 1999
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: dott. Renato GRANATA; Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof.
Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo
MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 119 del codice di procedura penale, promosso con
ordinanza emessa il 23 luglio 1998 dal pretore di Marsala, iscritta al n. 790 del registro ordinanze 1998 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno 1998.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 9 giugno 1999 il giudice relatore Valerio Onida.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso del dibattimento a carico di un imputato sordomuto, che risulta saper leggere e
scrivere, il pretore di Marsala, con ordinanza emessa il 23 luglio 1998, pervenuta a questa Corte l'8
ottobre 1998, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della
Costituzione, dell'art. 119 cod. proc. pen. "nella parte in cui non prevede che l'imputato sordomuto che
sappia leggere e scrivere abbia diritto di farsi assistere, gratuitamente, da un interprete al fine di seguire il
compimento degli atti cui partecipa e di partecipare coscientemente al dibattimento".
Premesso, quanto alla rilevanza, che la partecipazione al dibattimento dell'imputato sordomuto che
sappia leggere e scrivere è regolata dall'art. 119, comma 1, cod. proc. pen., che prevede solo l'uso dello
scritto per la presentazione delle domande, degli avvertimenti e delle ammonizioni e per le relative
risposte, mentre la nomina di interpreti è prevista dal successivo comma 2 solo nel caso in cui il
sordomuto non sappia leggere o scrivere, il remittente ritiene che tale disposizione violi, in primo luogo,
il diritto di difesa garantito dall'art. 24 della Costituzione, impedendo all'imputato sordomuto, che sappia
leggere e scrivere, di comprendere tutto quanto accade nel corso dell'istruzione dibattimentale e di
valutare se e quando rendere le spontanee dichiarazioni di cui all'art. 494 cod. proc. pen., così
impedendogli di partecipare coscientemente al dibattimento.
In secondo luogo, il giudice a quo ritiene che la disposizione in esame violi il principio di
eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, in quanto riserva all'imputato sordomuto che sappia
leggere e scrivere un trattamento deteriore rispetto all'imputato che non conosce la lingua italiana, cui
l'art. 143 cod. proc. pen. riconosce il diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di
comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa; rispetto
all'imputato il cui stato mentale sia tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento,
riguardo al quale l'art. 71 cod. proc. pen. prescrive la sospensione del procedimento medesimo e la
nomina di un curatore speciale; nonché rispetto all'imputato sordomuto che non sappia leggere o
scrivere, per il quale è prevista dal comma 2 dello stesso art. 119 cod. proc. pen. la nomina di uno o più
interpreti.
Tale diversità di trattamento appare al remittente illogica ed irrazionale, considerando che tutte le
ipotesi menzionate concernono casi in cui l'imputato, per ragioni diverse, non è in grado di partecipare
coscientemente al procedimento, e che solo le altre disposizioni indicate prevedono gli opportuni rimedi
ed accorgimenti processuali.
2. - È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, chiedendo che la questione sia
dichiarata non fondata.
Ad avviso dell'Avvocatura erariale, il legislatore avrebbe ritenuto il sordomuto che sappia leggere e
scrivere in grado di partecipare scientemente al procedimento, comunicando per iscritto, onde non
sarebbe violato il diritto di difesa. Né vi sarebbe violazione del principio di eguaglianza, in quanto la
diversità della disciplina dettata per l'imputato sordomuto che sappia leggere e scrivere rispetto alle altre
evocate dal remittente si giustificherebbe per la differenza delle fattispecie messe a confronto.
Considerato in diritto
1. - La questione sollevata investe la disciplina risultante dall'art. 119 del codice di procedura penale
per l'ipotesi in cui l'imputato sia sordomuto e sappia leggere e scrivere. La disposizione prevede che
quando un sordomuto "vuole o deve fare dichiarazioni", gli si presentano per iscritto le domande, gli
avvertimenti e le ammonizioni, ed egli risponde per iscritto (comma 1); mentre solo per il caso in cui il
sordomuto non sappia leggere o scrivere si prevede che l'autorità procedente nomini uno o più interpreti,
scelti di preferenza fra le persone abituate a trattare con lui (comma 2).
Tale disciplina appare al remittente lesiva, da un lato, del diritto di difesa dell'imputato, in quanto gli
impedirebbe di comprendere tutto ciò che avviene nel dibattimento e di valutare se e quando rendere
dichiarazioni spontanee a norma dell'art. 494 dello stesso codice, e dunque di partecipare coscientemente
al dibattimento; dall'altro lato, del principio di eguaglianza, in quanto realizzerebbe una irragionevole
differenza di trattamento rispetto alla ipotesi dell'imputato sordomuto che non sappia leggere e scrivere
(in relazione alla quale si prevede la nomina di interpreti), nonché rispetto a quelle dell'imputato che non
conosca la lingua italiana (per cui l'art. 143 cod. proc. pen. prevede l'assistenza gratuita di un interprete),
e dell'imputato che non sia in grado di partecipare coscientemente al procedimento a causa del suo stato
mentale (nel qual caso l'art. 71 cod. proc. pen. prevede la sospensione del procedimento e la nomina di
un curatore speciale).
2. - La questione è fondata, sotto il profilo della denunciata violazione dell'art. 24, secondo comma,
della Costituzione.
La garanzia costituzionale del diritto di difesa comprende la effettiva possibilità che la
partecipazione personale dell'imputato al procedimento avvenga in modo consapevole, in ispecie per quanto qui rileva - nelle fasi che l'ordinamento affida al principio dell'oralità: il che comporta la
possibilità effettiva sia di percepire, comprendendone il significato linguistico, le espressioni orali
dell'autorità procedente e degli altri protagonisti del procedimento, sia di esprimersi a sua volta
essendone percepito e compreso (cfr. sentenza n. 9 del 1982 e, da ultimo, sentenza n. 10 del 1993).
Senza la garanzia di tale possibilità, infatti, resterebbe irrimediabilmente compromesso, nelle fasi
processuali dominate dall'oralità, il diritto dell'accusato di essere messo personalmente, immediatamente
e compiutamente a conoscenza di quanto avviene nel processo che lo riguarda, e così non solo
dell'accusa mossagli, ma anche degli elementi sui quali essa si basa, delle vicende istruttorie e probatorie
che intervengono via via a corroborarla o a smentirla, delle affermazioni e delle determinazioni espresse
dalle altre parti e dall'autorità procedente; nonché, conseguentemente, il diritto dell'imputato di svolgere
la propria attività difensiva, anche in forma di autodifesa, conformandola, adattandola e sviluppandola in
correlazione continua con le esigenze che egli stesso ravvisi e colga a seconda dell'andamento della
procedura, ovvero comunicando con il proprio difensore.
Questa Corte ha infatti costantemente affermato che "la peculiare natura del processo penale e degli
interessi in esso coinvolti richiede la possibilità della diretta e personale partecipazione dell'imputato",
onde l'autodifesa, che "ha riguardo a quel complesso di attività mediante le quali l'imputato è posto in
grado di influire sullo sviluppo dialettico del processo", costituisce "diritto primario dell'imputato,
immanente a tutto l'iter processuale, dalla fase istruttoria a quella di giudizio" (sentenza n. 99 del 1975; e
cfr. anche sentenze n. 205 del 1971, n. 186 del 1973).
3. - Se normalmente questi diritti dell'accusato sono resi effettivi attraverso la garanzia della
possibilità di presenziare alle udienze (salvo esserne allontanato solo se ne impedisce il regolare
svolgimento: art. 475 cod. proc. pen.) e di rendere "in ogni stato del dibattimento" le dichiarazioni che
egli ritiene opportune, purché si riferiscano all'oggetto dell'imputazione e non intralcino l'istruzione
dibattimentale (art. 494 cod. proc. pen.), avendo per ultimo la parola (art. 523, comma 5, cod. proc. pen.),
nonché attraverso la "facoltà di conferire con il proprio difensore tutte le volte che lo desideri, tranne che
durante l'interrogatorio o prima di rispondere a domande rivoltegli" (sentenza n. 9 del 1982; e cfr. anche
sentenza n. 216 del 1996), forme speciali di tutela sono richieste allorquando l'accusato, a causa di sue
particolari condizioni personali, non sia in grado di comprendere i discorsi altrui o di esprimersi essendo
compreso.
La più comune di tali condizioni è rappresentata dalla non conoscenza della lingua in cui si svolge il
processo, ed è per questo che le norme delle convenzioni internazionali sui diritti prevedono
espressamente fra i diritti dell'accusato quello di "farsi assistere gratuitamente da un interprete se non
comprende o non parla la lingua usata in udienza" (art. 6, n. 3, lett. e della convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali; e analogamente art. 14, comma 3, lett. f),
del patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici del 19 dicembre 1966).
Allo stesso modo il legislatore italiano del codice ha preso in specifica considerazione la situazione
dell'imputato che non conosce la lingua italiana, statuendo che egli "ha diritto di farsi assistere
gratuitamente da un interprete al fine di potere comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire
il compimento degli atti cui partecipa" (art. 143, comma 1, cod. proc. pen.). Disposizione, quest'ultima,
che correttamente configura il ricorso all'interprete non già come un mero strumento tecnico a
disposizione del giudice per consentire o facilitare lo svolgimento del processo in presenza di persone
che non parlino o non comprendano l'italiano, ma come oggetto di un diritto individuale dell'imputato,
diretto a consentirgli quella partecipazione cosciente al procedimento che, come si è detto, è parte
ineliminabile del diritto di difesa; e per questo anche è stata intesa da questa Corte come suscettibile di
essere applicata con la massima espansione, in funzione della sua ratio (sentenza n. 10 del 1993).
Nulla di simile è invece previsto dalla legge per le persone che siano impedite di parlare o di
ascoltare, ovvero sia di parlare che di ascoltare, da un loro handicap fisico (sordità, mutismo,
sordomutismo), per i diritti delle quali tuttavia si pongono le stesse esigenze di tutela. Il legislatore ha
bensì preso in considerazione tale situazione, ma a fini insieme più generici e più limitati: infatti l'art.
119, comma 1, del codice di procedura penale prevede che "quando un sordo, un muto o un sordomuto
vuole o deve fare dichiarazioni", si usi lo scritto da parte dell'interessato che non parli e per rivolgere "le
domande, gli avvertimenti e le ammonizioni" all'interessato che non senta; mentre l'art. 119, comma 2,
prevede che nelle - medesime ipotesi - se il sordo, il muto e il sordomuto non sa leggere o scrivere,
"l'autorità procedente nomina uno o più interpreti, scelti di preferenza fra le persone abituate a trattare
con lui".
Tali previsioni non riguardano solo l'imputato, ma qualsiasi persona che sia chiamata o abilitata, nel
processo, a rendere dichiarazioni; e contemplano però solo il caso in cui tale persona - e dunque anche
l'imputato - voglia o debba rendere dichiarazioni, non occupandosi in alcun modo della possibilità per
l'imputato di seguire tutto ciò che avviene nel processo, indipendentemente dalle domande, dagli
avvertimenti e dalle ammonizioni a lui rivolte. D'altra parte tali norme considerano il ricorso allo scritto
come rimedio sufficiente a sopperire al difetto dell'udito e della parola, onde riservano la nomina di uno
o più interpreti al solo caso in cui la persona non sappia leggere o scrivere: non tenendo conto della
differenza sostanziale che vi è fra il potere percepire ed esprimersi immediatamente e direttamente, sia
pure con la mediazione di un interprete, e l'essere messi in grado solo di percepire e di esprimersi
attraverso lo scritto. Più in generale, si tratta di previsioni normative dettate nell'ottica di rendere
possibile lo svolgimento del processo quando ad esso partecipi una persona portatrice di siffatti handicap
piuttosto che in quella della garanzia dei diritti dell'imputato.
4. - È dunque palese l'insufficienza delle disposizioni di cui all'art. 119 cod. proc. pen. a soddisfare le
esigenze di garanzia effettiva del diritto di difesa dell'imputato sordo o sordomuto (ma anche
dell'imputato muto che sappia leggere e scrivere, al quale è reso possibile di comunicare solo mediante lo
scritto): sia sotto il profilo della omessa considerazione delle esigenze di comprensione e di
comunicazione proprie dell'imputato al di là della sola ipotesi in cui egli debba o voglia rendere
dichiarazioni, e più in generale delle esigenze che derivano dal diritto dell'imputato a partecipare
consapevolmente al procedimento; sia sotto il profilo della esclusione della assistenza di un interprete
quando l'imputato sappia leggere e scrivere.
La lacuna va colmata attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale di tipo "additivo" che
estenda, agli imputati che si trovino nelle condizioni di cui all'art. 119 cod. proc. pen., la forma di tutela
già prevista dall'art. 143 dello stesso codice per l'imputato che non conosce la lingua italiana, con
l'ulteriore precisazione che l'interprete, secondo la regola già presente nell'art. 119, comma 2, dovrà
essere scelto di preferenza fra le persone abituate a trattare con la persona interessata, elemento questo
destinato a facilitare ulteriormente la comunicazione. Per ogni altro aspetto della disciplina varrà, in
forza del rinvio all'art. 119 contenuto nell'art. 143, comma 2, quanto disposto in generale in tema di
interprete che assiste l'imputato: mentre resta ferma, per l'imputato che si trovi nelle predette condizioni,
la facoltà di avvalersi dello scritto, secondo le previsioni dell'art. 119, comma 1, del codice.
Resta assorbito ogni altro profilo della questione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 119 del codice di procedura penale nella parte in cui
non prevede che l'imputato sordo, muto o sordomuto, indipendentemente dal fatto che sappia o meno
leggere e scrivere, ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete, scelto di preferenza fra le
persone abituate a trattare con lui, al fine di potere comprendere l'accusa contro di lui formulata e di
seguire il compimento degli atti cui partecipa.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 luglio 1999.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Onida
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 22 luglio 1999.
Il direttore della cancelleria: Di Paola
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 242/1997
Giudizio
GIUDIZIO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE TRA ENTI
Presidente GRANATA - Redattore
Udienza Pubblica del 06/05/1997 Decisione del 18/07/1997
Deposito del 18/07/1997 Pubblicazione in G. U. 23/07/1997
Norme impugnate:
Massime:
23354 23355 23356 23357 23358
Atti decisi:
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SENT. 242/97 A. DEMANIO E PATRIMONIO DELLO STATO - DEMANIO MARITTIMO INDIVIDUAZIONE, CON IL DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
PREVISTO DALL'ART. 59, SECONDO COMMA, D.P.R. N. 616 DEL 1977, ED EMANATO IL 21
DICEMBRE 1995, DELLE AREE DEMANIALI ESCLUSE, PERCHE' DI PREMINENTE
INTERESSE NAZIONALE, DALLA DELEGA DI FUNZIONI CONFERITA ALLE REGIONI CON
IL PRIMO COMMA DELLO STESSO ARTICOLO - RICORSO DELLA REGIONE LIGURIA,
RIGUARDO ALLE AREE DEL SUO TERRITORIO, PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE CENSURA MOSSA PER ESSERE STATO IL PROVVEDIMENTO IMPUGNATO EMANATO
DOPO LA SCADENZA DEL TERMINE DEL 5 DICEMBRE 1993 PREVISTO DALL'ART. 6 D.L. N.
400 DEL 1995 (CONVERTITO DA LEGGE N. 494 STESSO ANNO) - NON INCIDENZA DELLA
INOSSERVANZA DI DETTO TERMINE SULLA SPETTANZA DEL POTERE GOVERNATIVO, IN
BASE ALLO STESSO ART. 59, SECONDO COMMA, ULTIMA PARTE, D.P.R. N. 616 DEL 1997,
ESERCITABILE, ANCHE CON MODIFICAZIONE DI ELENCHI DI AREE ESCLUSE GIA'
DEFINITI, IN OGNI TEMPO - QUESTIONE DA RITENERSI FORMULATA, PERTANTO, SU NON
CONDIVISIBILE
PRESUPPOSTO
INTERPRETATIVO
NON
FONDATEZZA.
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Non e' fondata, nel giudizio per conflitto di attribuzione promosso dalla Regione Liguria in seguito al
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con i Ministri della difesa, della marina
mercantile e delle finanze, in data 21 dicembre 1995, con il quale e' stato definito l'elenco delle aree
demaniali marittime escluse, perche' di preminente interesse nazionale, dalla delega di funzioni
amministrative alle Regioni di cui all'art. 59, d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, la censura avanzata per essere
stato il provvedimento impugnato emanato quando il termine del 5 dicembre 1993, previsto al riguardo
dall'art. 6, comma 1, del d.l. 5 ottobre 1993, n. 400 (convertito, con modificazioni, dalla legge 4
dicembre 1993, n. 494) era da tempo scaduto. Invero, cosi' come la mancata adozione del decreto in
questione, prima della scadenza del termine del 31 dicembre 1978, gia' previsto dal citato art. 59,
secondo comma, aveva comportato - come rilevato dalla Corte costituzionale - solo la quiescenza, allo
stato, della delega di funzioni, la mancata emanazione dello stesso entro il 5 dicembre 1993, ha prodotto
solo l'effetto, previsto dal citato art. 6, comma 1, d.l. n. 400 del 1993, di rendere, non piu' sospesa, ma
pienamente effettiva, la delega stessa. Ma ne' la prima, ne' la seconda volta, in forza dell'ultima parte
dello stesso secondo comma dell'art. 59 del d.P.R. n. 616, secondo cui "col medesimo procedimento
l'elenco delle aree predette puo' essere modificato", la inosservanza del termine - sotto questo aspetto
certamente non perentorio - ha fatto venir meno il potere del Governo - collegato non gia' a
caratteristiche permanenti delle aree, ma alla loro concreta utilizzazione, in atto o prevista, soggetta a
variare nel tempo - di provvedere in ogni tempo, alla individuazione delle aree escluse, sia nel senso
della loro estensione, sia nel senso della loro riduzione. Per cui e' irrilevante stabilire se la proroga del
termine gia' fissato dall'art. 6 d.l. n. 400 del 1993 per il 5 dicembre 1993, al 31 dicembre 1995, disposta
con la serie di decreti-legge reiterati, a partire dal d.l. n. 586 del 1994, fino al d.l. n. 535 del 1996, e con
la sanatoria operata con la legge n. 647 del 1996, possa dirsi - come ritenuto dalla ricorrente - inefficace
o comunque costituzionalmente illegittima. - Sulla quiescenza della delega di funzioni prevista dall'art.
59, d.P.R. n. 616 del 1977, in conseguenza della mancata emanazione dell'elenco governativo delle aree
escluse entro il 31 dicembre 1978, v. O. n. 579/1988. red.: S. Pomodoro
Parametri costituzionali
Costituzione art. 5
Costituzione art. 97
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Altri parametri e norme interposte
decreto del Presidente della Repubblica 24/07/1977 n. 616 art. 59 co. 2
Riferimenti normativi
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 21/12/1995
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SENT. 242/97 B. REGIONI IN GENERE - PRINCIPIO DI LEALE COOPERAZIONE TRA STATO E
REGIONI - FONDAMENTO COSTITUZIONALE - AMBITI DI APPLICABILITA'.
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Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale il principio di leale cooperazione governa i rapporti
fra lo Stato e le Regioni nelle materie e in relazione alle attivita' in cui le rispettive competenze
concorrano o si intersecano, imponendo un contemperamento dei rispettivi interessi. Tale regola,
espressione del principio costituzionale fondamentale per cui la Repubblica, nella salvaguardia della sua
unita', "riconosce e promuove le autonomie locali", alle cui esigenze "adegua i principi e i metodi della
sua legislazione" (art. 5 Cost.) va al di la' del mero riparto costituzionale delle competenze per materia, e
opera dunque su tutto l'arco delle relazioni istituzionali fra Stato e Regioni, senza che a tal proposito
assuma rilievo diretto la distinzione fra competenze legislative esclusive, ripartite o integrative, o fra
competenze amministrative proprie o delegate. - Cfr., in particolare, S. n. 341/1996. red.: S. Pomodoro
Parametri costituzionali
Costituzione art. 5
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SENT. 242/97 C. DEMANIO E PATRIMONIO DELLO STATO - DEMANIO MARITTIMO INDIVIDUAZIONE, CON IL DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
PREVISTO DALL'ART. 59, SECONDO COMMA, D.P.R. N. 616 DEL 1977, ED EMANATO IL 21
DICEMBRE 1995, DELLE AREE MARITTIME ESCLUSE, PERCHE' DI PREMINENTE
INTERESSE NAZIONALE, DALLA DELEGA DI FUNZIONI CONFERITA ALLE REGIONI CON
IL PRIMO COMMA DELLO STESSO ARTICOLO - RICORSO DELLA REGIONE LIGURIA,
RIGUARDO ALLE AREE DEL SUO TERRITORIO, PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE CENSURA FORMULATA PER ESSERE STATO IL PROVVEDIMENTO IMPUGNATO
ADOTTATO SENZA SENTIRE IL PARERE DELLA RICORRENTE - ECCEZIONE DI
INAMMISSIBILITA' AVANZATA IN BASE ALL'ASSUNTO CHE CON TALE CENSURA SI
SAREBBE DENUNCIATA SOLO LA VIOLAZIONE DI NORMA DI LEGGE ORDINARIA E NON
DI NORME COSTITUZIONALI - REIEZIONE, RISULTANDO IN TALE VIOLAZIONE
NECESSARIAMENTE COINVOLTO IL PRINCIPIO DI LEALE COOPERAZIONE.
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Va respinta, nel giudizio per conflitto di attribuzione promosso dalla Regione Liguria in seguito al
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con i Ministri della difesa, marina
mercantile e finanze, 21 dicembre 1995, con il quale e' stato definito l'elenco delle aree demaniali
marittime escluse, perche' di preminente interesse nazionale, dalla delega di funzioni amministrative alle
Regioni di cui all'art. 59, d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, la eccezione di inammissibilita' avanzata
dall'Avvocatura dello Stato riguardo alla censura relativa alla adozione del provvedimento impugnato da
parte del Governo, senza attendere il parere della Regione ricorrente - come richiesto dal citato art. 59,
secondo comma - in base all'assunto che tale censura, essendo formulata in riferimento solo alla
violazione di norma di legge ordinaria, non potrebbe considerarsi attinente alla violazione delle norme
costituzionali che definiscono le attribuzioni della Regione. La partecipazione delle Regioni, con il
previsto parere obbligatorio, anche se non vincolante, al procedimento destinato a sfociare nella
individuazione, con atto delle autorita' centrali di governo, delle aree demaniali escluse dalla delega,
rappresenta infatti la modalita' concreta con cui si realizza, nel caso, il contemperamento di interessi
facenti capo, rispettivamente, ad attribuzioni statali e ad attribuzioni regionali, e dunque una modalita' di
concorso che deve rispondere al canone costituzionale della leale cooperazione. Cio' non significa che
ogni eventuale scostamento del contenuto dell'atto governativo rispetto ai parametri legali che ne
condizionano il contenuto, possa automaticamente considerarsi come una lesione della sfera
costituzionale di attribuzioni suscettibile di essere fatta valere attraverso il ricorso per conflitto di
attribuzioni: ma integra senz'altro siffatta lesione la deviazione dal modello procedimentale imposto dalla
legge a tutela del principio di cooperazione. - V. la precedente massima B. red.: S. Pomodoro
Parametri costituzionali
Costituzione art. 5
Costituzione art. 97
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Altri parametri e norme interposte
decreto del Presidente della Repubblica 24/07/1977 n. 616 art. 59 co. 2
Riferimenti normativi
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 21/12/1995
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SENT. 242/97 D. DEMANIO E PATRIMONIO DELLO STATO - DEMANIO MARITTIMO IDENTIFICAZIONE, CON DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI,
DELLE AREE DEMANIALI MARITTIME ESCLUSE, PERCHE' DI PREMINENTE INTERESSE
NAZIONALE, DALLA DELEGA DI FUNZIONI AMMINISTRATIVE ALLE REGIONI PREVISTA
DALL'ART. 59, D.P.R. N. 616 DEL 1977 - NECESSITA', PER LA EMANAZIONE DEL DECRETO,
DEL PARERE DELLE REGIONI INTERESSATE - POSSIBILITA' DI RITENERE TALE PARERE
SOSTITUITO O ASSORBITO DA QUELLO, SE ESPRESSO, DELLA CONFERENZA
STATO-REGIONI PREVISTO DALL'ART. 12, LEGGE N. 400 DEL 1988 - ESCLUSIONE - MOTIVI.
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Il parere delle Regioni interessate richiesto dall'art. 59, secondo comma, d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616,
per la emanazione, da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con i Ministri della
difesa, marina mercantile e finanze, del decreto di identificazione delle aree demaniali marittime escluse,
perche' di preminente interesse nazionale, dalla delega di funzioni amministrative conferita alle Regioni
con il primo comma dello stesso articolo, non puo' in alcun modo ritenersi sostituito o assorbito dal
parere, se espresso, della Conferenza Stato-Regioni previsto dall'art. 12, comma quinto, lett. b), legge 23
agosto 1988, n. 400. Atteso che le valutazioni da esprimersi nel parere di cui all'art. 59, secondo comma,
cit. - a differenza di quello della Conferenza Stato-Regioni - non attengono solo ai criteri generali di
esercizio del potere governativo suscettibili di essere considerati unitariamente per tutto il territorio
nazionale, ma anche alle caratteristiche e alle situazioni delle singole aree costiere, in relazione alle quali
solo la Regione rispettivamente interessata e' abilitata a far valere i relativi interessi. - Cfr. S. n.
338/1994.
red.:
S.
Pomodoro
Riferimenti normativi
decreto del Presidente della Repubblica 24/07/1977 n. 616 art. 59 co. 1
decreto del Presidente della Repubblica 24/07/1977 n. 616 art. 59 co. 2
legge 23/08/1988 n. 400 art. 12 co. 5 co. lett. b)
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SENT. 242/97 E. DEMANIO E PATRIMONIO DELLO STATO - DEMANIO MARITTIMO IDENTIFICAZIONE, CON IL DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
PREVISTO DALL'ART. 59, SECONDO COMMA, D.P.R. N. 616 DEL 1977, ED EMANATO IL 21
DICEMBRE 1995, DELLE AREE DEMANIALI ESCLUSE, PERCHE' DI PREMINENTE
INTERESSE NAZIONALE, DALLA DELEGA DI FUNZIONI AMMINISTRATIVE CONFERITA
ALLE REGIONI CON IL PRIMO COMMA DELLO STESSO ARTICOLO - RICORSO DELLA
REGIONE LIGURIA, RIGUARDO ALLE AREE DEL SUO TERRITORIO, PER CONFLITTO DI
ATTRIBUZIONE - EMANAZIONE DEL PROVVEDIMENTO SENZA IL PRESCRITTO PARERE
DELLA REGIONE, E QUINDI CON ESERCIZIO DEL POTERE GOVERNATIVO IN CONTRASTO
CON ESIGENZE POSTE DAL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI LEALE COOPERAZIONE FRA
STATO E REGIONI - NON SPETTANZA ALLO STATO - ANNULLAMENTO, 'IN PARTE QUA',
DELL'ATTO
IMPUGNATO
ASSORBIMENTO
DI
ALTRE
CENSURE.
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Non spetta allo Stato, e per esso al Presidente del Consiglio dei ministri, adottare il decreto (previsto
dall'art. 59, secondo comma, d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616) di individuazione delle aree demaniali
marittime escluse, perche' di preminente interesse nazionale, dalla delega di funzioni amministrative alle
Regioni, di cui allo stesso art. 59, primo comma, senza il prescritto parere alle Regioni interessate, da
acquisire con modalita' conformi al principio di leale cooperazione. Conseguentemente e' annullato il
decreto del Presidente del Consiglio 21 dicembre 1995 (emanato in proposito e impugnato dalla Regione
Liguria) limitatamente alla parte che concerne aree del territorio della ricorrente. L'adozione del
provvedimento 'de quo' da parte del Presidente del Consiglio, senza il parere della Regione interessata parere non certo surrogabile da quello, acquisito 'in extremis', della Conferenza Stato-Regioni - non puo'
infatti ritenersi giustificata per il fatto che l'elenco delle aree che il Governo intendeva escludere dalla
delega venne inviato alcuni mesi prima alla Regione, con l'invito a quest'ultima ad esprimersi entro
sessanta giorni, giacche', pur ammesso che l'assenza, nella legge, di divieti al riguardo, consentisse al
Governo - a parte la relativa brevita', subito contestata dalla Regione Liguria, di quello fissato - di
richiedere alla Regione di esprimersi entro un termine massimo, tenendo ragionevolmente conto del
tempo necessario per un effettivo confronto di posizioni, eventualmente anche con riferimento ai principi
ricavabili dall'art. 16, commi 1 e 4, legge 7 agosto 1990, n. 241, sui procedimenti amministrativi, nessuna
norma di legge autorizzava a considerare, decorsi inutilmente i previsti sessanta giorni - come nel
suddetto invito si avvertiva - senz'altro acquisito il parere favorevole della Regione. Mentre e' certo
inescusabile, di fronte al principio di leale cooperazione, il non essersi tenuto, da parte del Presidente del
Consiglio, in alcun conto - come risulta dalle premesse dell'atto - le posizioni espresse dalla Regione in
una proposta circostanziata di parere - anche se questo non era stato ancora formalizzato dal Consiglio tempestivamente inviata dalla Regione. Peraltro, poiche' la denunciata lesione della sfera di attribuzioni
costituzionali della ricorrente, viene riconosciuta solo per questa sostanziale omissione, nel
procedimento, di modalita' di consultazione e di confronto richieste dal principio di leale cooperazione,
resta fermo che il Governo potra' provvedere comunque, ai sensi dell'art. 59, secondo comma, ultima
parte, d.P.R. n. 616 del 1977, una volta assicurata la debita partecipazione della Regione, alla prevista
individuazione di aree demaniali da sottrarre alla delega. Rimanendo assorbite le altre censure mosse nel
ricorso, sia in ordine al contenuto del provvedimento impugnato, sia in ordine alla sua motivazione, ai
suoi presupposti di fatto e all'istruttoria che lo ha preceduto, senza che la Corte debba pronunciarsi
riguardo alla stessa ammissibilita' di tali censure in sede di conflitto di attribuzione. - V. massime
precedenti.
red.:
S.
Pomodoro
Parametri costituzionali
Costituzione art. 5
Costituzione art. 97
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Altri parametri e norme interposte
decreto del Presidente della Repubblica 24/07/1977 n. 616 art. 59 co. 2
Riferimenti normativi
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 31/12/1995
Pronuncia
N. 242
SENTENZA 18-18 LUGLIO 1997
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: dott. Renato GRANATA; Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof.
Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio
ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof.
Piero Alberto CAPOTOSTI;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio promosso con ricorso della regione Liguria, notificato il 1 marzo 1996, depositato in
cancelleria il 14 successivo, per conflitto di attribuzione sorto a seguito del decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri, di concerto con i Ministri della difesa, dei trasporti e della navigazione e delle
finanze del 21 dicembre 1995, comunicato con nota del Commissario del Governo nella regione Liguria
n. 2452 del 29 dicembre 1995, con il quale è stato definito l'elenco delle aree demaniali marittime escluse
dalla delega di cui all'art. 59 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, per quanto riguarda le aree site nella
regione Liguria, ed iscritto al n. 5 del registro conflitti 1996;
Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 6 maggio 1997 il giudice relatore Valerio Onida;
Uditi l'avvocato Gustavo Romanelli per la regione Liguria e l'avvocato dello Stato Giuseppe O.
Russo per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
1. - L'art. 59, primo comma, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art.
1 della legge 22 luglio 1975, n. 382) dispone che sono delegate alle regioni "le funzioni amministrative
sul litorale marittimo, sulle aree demaniali immediatamente prospicienti, sulle aree del demanio lacuale e
fluviale, quando la utilizzazione prevista abbia finalità turistiche e ricreative", escludendo dalla delega le
funzioni in materia di navigazione marittima, di sicurezza nazionale e di polizia doganale.
Il secondo comma del medesimo art. 59 stabilisce però che la delega in questione "non si applica ai
porti e alle aree di preminente interesse nazionale in relazione agli interessi della sicurezza dello Stato e
alle esigenze della navigazione marittima". L'identificazione delle aree escluse avrebbe dovuto essere
effettuata, entro il 31 dicembre 1978, "con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto
con i ministri per la difesa, per la marina mercantile e per le finanze, sentite le regioni interessate". Con
lo stesso procedimento l'elenco delle aree escluse dalla delega può essere modificato. Non avendo il
Governo provveduto entro il termine stabilito all'emanazione del decreto ivi previsto, è prevalsa la tesi,
affermata anche da questa Corte nell'ordinanza n. 579 del 1988, secondo cui la delega restava inoperante
in attesa della individuazione delle aree escluse. Con l'art. 6, comma 1, del d.-l. 5 ottobre 1993, n. 400
(Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime), convertito,
con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494, venne stabilito che, ove entro un anno dalla data
di entrata in vigore della legge di conversione del decreto medesimo il Governo non avesse provveduto
agli adempimenti necessari per rendere effettiva la delega delle funzioni amministrative alle regioni ai
sensi dell'art. 59 del d.P.R. n. 616 del 1977, dette funzioni sarebbero state "comunque delegate alle
regioni". Nemmeno quest'ultimo termine venne però rispettato. Esso fu invece prorogato al 31 dicembre
1995 con una serie di decreti-legge reiterati, a partire dal d.-l. 21 ottobre 1994, n. 586 (art. 2, comma 2) e
fino al d.-l. 12 aprile 1996, n. 202 (art. 2, comma 2), tutti decaduti per non essere stati convertiti in legge;
poi nuovamente con il d.-l. 17 giugno 1996, n. 322 (art. 12, comma 1) e con il d.-l. 8 agosto 1996, n. 430
(art. 12, comma 1), pure essi non convertiti; e infine con l'art. 16, comma 3, del d.-l. 21 ottobre 1996, n.
535, convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 647.
La legge di conversione di quest'ultimo decreto, all'art. 1, comma 2, ha stabilito altresì che "restano
validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi ed i rapporti giuridici sorti
sulla base", fra l'altro, dei decreti-legge che avevano in precedenza disposto la medesima proroga. Nel
frattempo, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che individua le aree demaniali escluse
dalla delega di funzioni in questione venne emanato il 21 dicembre 1995, nel vigore di uno dei
decreti-legge sopra ricordati, che prorogavano il termine, e precisamente del d.-l. 18 dicembre 1995, n.
535 (art. 2, comma 2), anch'esso decaduto e i cui effetti sono stati oggetto della sanatoria disposta dalla
legge n. 647 del 1996.
2. - Con ricorso notificato il 1 marzo 1996 la regione Liguria ha proposto ricorso per conflitto di
attribuzione in relazione al citato d.P.C.M. 21 dicembre 1995. La ricorrente premette che con nota del 13
luglio 1995 il Commissario del Governo presso la regione medesima aveva trasmesso la proposta
governativa di elenco delle aree da escludere dalla delega, informando che, trascorsi 60 giorni dalla data
di ricezione senza che fossero fatte pervenire osservazioni, il Dipartimento per gli affari regionali della
Presidenza del Consiglio avrebbe ritenuto acquisito il parere favorevole ed avrebbe attivato la procedura
per il concerto interministeriale ai fini dell'emanazione del decreto; che la regione aveva immediatamente
contestato l'iniziativa, sia con riguardo alla perentorietà ed incongruità del termine fissato, sia dal punto
di vista della elusione del sistema delle competenze regionali che sarebbe emersa dalla proposta; che,
attivata l'istruttoria sulle aree di cui si proponeva l'individuazione, il 5 dicembre 1995 la Giunta regionale
aveva inviato al Commissario del Governo la propria proposta di parere, formulata con riguardo alle
singole aree, e sottoposta al Consiglio regionale, che deliberava il parere medesimo il 22 dicembre 1995,
cioè il giorno successivo a quello di emanazione del decreto governativo.
3. - In diritto, la regione ricorrente fonda l'impugnazione su tre ordini di motivi. Con il primo
sostiene che la decadenza del d.-l. 18 dicembre 1995, n. 535, il cui art. 2, comma 2, prorogava al 31
dicembre 1995 il termine, decorso il quale la delega sarebbe divenuta comunque operante - disposizione
nel cui vigore il provvedimento è stato adottato -, avrebbe travolto il provvedimento medesimo, che
sarebbe invasivo delle attribuzioni regionali in quanto emesso al di fuori dei presupposti temporali
previsti dalla legge per l'esercizio del potere governativo, e in quanto sottrarrebbe alla regione, al di fuori
dei presupposti di legge, ambiti di funzioni che dovrebbero ritenersi già ad essa delegati. Ad avviso della
regione, poi, se dovesse attribuirsi all'art. 2 del sopravvenuto decreto-legge n. 65 del 1996, che
nuovamente aveva prorogato al 31 dicembre 1995 il termine in esame, l'effetto di sanare, sotto il profilo
indicato, il provvedimento impugnato, dovrebbe ritenersi rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale di detta norma, per violazione dell'art. 77 della Costituzione e
dell'art. 2, lettera d), della legge 23 agosto 1988, n. 400, in quanto, prorogando con decreto-legge il
termine già scaduto fino ad una data già trascorsa, si sarebbero illegittimamente regolati i rapporti sorti
sulla base del precedente decreto-legge non convertito.
4. - Con il secondo motivo di ricorso la regione lamenta che il provvedimento configurerebbe, nel
suo contenuto, una illegittima invasione delle attribuzioni regionali, in quanto riserverebbe allo Stato,
con riferimento alle aree elencate, funzioni che invece spetterebbero alla regione in base al quadro delle
attribuzioni risultante dalla Costituzione (artt. 117 e 118) e dalle leggi (art. 2 d.P.R. n. 8 del 1972, art. 59
d.P.R. n. 616 del 1977, art. 5 legge n. 84 del 1994), attribuzioni riconducibili sostanzialmente alle
materie dell'urbanistica, del turismo ed industria alberghiera, della viabilità, degli acquedotti e dei lavori
pubblici di interesse regionale. In particolare, sarebbero state illegittimamente incluse nell'elenco aree
attualmente destinate ad attività turistica e ricreativa, aree per le quali non si rileverebbe alcuna
connessione con il "preminente interesse nazionale in relazione agli interessi della sicurezza dello Stato e
alle esigenze della navigazione marittima", di cui all'art. 59, secondo comma, del d.P.R. n. 616 del 1977;
e ancora gli approdi, i porti turistici e le zone portuali a prevalente o esclusiva funzione turistica, nonché
i porti per i quali le relative opere sono state trasferite alla competenza regionale. Il ricorso rinvia
all'elenco allegato al parere regionale per l'indicazione dei casi specifici in cui, ad avviso della ricorrente,
mancherebbero i presupposti per la riserva a favore dello Stato.
5. - Con il terzo motivo di ricorso la regione lamenta che l'iniziativa statale sia stata attuata con
modalità di per sé lesive delle attribuzioni regionali. Anzitutto non sarebbero stati resi noti alla regione i
criteri generali e specifici in base ai quali il Governo ha individuato le aree incluse nell'elenco, e sarebbe
stata omessa ogni motivazione in ordine a tali criteri e alle specifiche ragioni per le quali è stato ritenuto
sussistente il preminente interesse nazionale che giustificherebbe la riserva allo Stato. In secondo luogo,
sarebbe stata insufficiente l'istruttoria eseguita, essendosi talora erroneamente qualificati o inesattamente
delimitati gli ambiti oggetto della riserva, ed essendosi inclusi beni per i quali viene dichiarata ancora in
corso l'istruttoria. Tali vizi comporterebbero violazione del principio di leale cooperazione e degli artt.
97 e 118 della Costituzione, incidendo sulla stabilità e sulla corretta definizione delle attribuzioni
regionali. il parere formulato dalla regione, trasmesso dopo il termine illegittimamente assegnato dal
Governo, e dando atto della sola consultazione della Conferenza Stato-regioni, esclusa ogni altra forma
di partecipazione delle regioni al procedimento. Sarebbero così state violate le modalità procedimentali
imposte dall'art. 59 del d.P.R. n. 616 del 1977: il termine assegnato di sessanta giorni per il parere della
regione sarebbe incongruo e palesemente insufficiente per l'istruttoria su 117 ambiti territoriali diversi. Il
parere della Conferenza Stato-regioni, espresso, lo stesso giorno dell'emanazione del decreto, sull'elenco
relativo a tutte le regioni, non può, secondo la ricorrente, ritenersi equivalente al parere della regione
interessata, richiesto dall'art. 59 citato, né assorbirlo. Sarebbe evidente l'intento del Governo di
prescindere dall'apporto partecipativo delle regioni; sarebbe pertanto violato il principio di leale
cooperazione, e si prospetterebbe la lesione delle attribuzioni costituzionalmente garantite alla regione
per il mancato perfezionamento dei meccanismi di partecipazione regionale alle determinazioni statali,
previste dalla legge, sul riparto delle competenze.
6. - Resiste al ricorso il Presidente del Consiglio dei Ministri, chiedendo che esso sia dichiarato
"irricevibile per tardività, inammissibile e infondato".
In una memoria successivamente depositata, l'Avvocatura erariale, senza più tornare sull'eccezione
di tardività, sostiene che il ricorso è al tempo stesso infondato e inammissibile. Non ricorrerebbe, infatti,
né l'ipotesi di vindicatio potestatis, né quella di illegittimo esercizio di un potere cui consegua la
menomazione della sfera di attribuzioni della ricorrente. La materia del demanio marittimo - osserva la
difesa del Presidente del Consiglio - non è inclusa fra quelle di spettanza delle regioni, onde ogni potere
legislativo e amministrativo in ordine ad essa appartiene allo Stato, anche se riconducibile a materie
come il turismo e l'industria alberghiera. Né dall'esercizio del potere statale potrebbe derivare una
menomazione delle attribuzioni regionali, poiché lo Stato, con il provvedimento impugnato, non ha
preteso di dettare regole che valgano fuori del demanio di sua pertinenza. Eventuali violazioni della
legge ordinaria, che abbia delegato funzioni alle regioni, non implicano compressioni delle attribuzioni
costituzionali di queste, e non potrebbero perciò essere denunciate con conflitto di attribuzioni davanti a
questa Corte. Le denunciate violazioni degli artt. 117 e 118 della Costituzione sarebbero dunque
insussistenti, mentre le censure di violazione delle norme ordinarie sarebbero inammissibili. In
subordine, l'Avvocatura sostiene che tali ultime violazioni comunque non sussistono. Il decreto
impugnato è stato adottato nel vigore del decreto-legge n. 535 del 1995, che prorogava il termine per
l'individuazione delle aree escluse dalla delega al 31 dicembre 1995, e la successiva decadenza di detto
decreto non potrebbe caducare gli effetti perfezionatisi nel periodo della sua vigenza. Né sussisterebbero
difetti procedurali: l'onere di sentire le regioni sarebbe stato pienamente rispettato sia per ogni singola
regione, nella fase di predisposizione degli elenchi, sia portando la questione all'esame della Conferenza
Stato-regioni, apparsa la sede più idonea per il contemperamento degli interessi statali e regionali.
7. - La regione ricorrente ha a sua volta depositato memoria, nella quale, anzitutto, contesta
l'eccezione di tardività del ricorso, genericamente avanzata dall'Avvocatura erariale, osservando come
non risulti che il provvedimento impugnato sia stato portato a conoscenza di alcun organo regionale
prima del 3 gennaio 1996. La regione afferma poi l'ammissibilità del ricorso, in particolare sostenendo
che la delega in questione attiene direttamente alla materia del turismo e dell'industria alberghiera, onde
essa costituisce integrazione necessaria di una competenza propria della regione, ed è stata conferita allo
scopo di consentire l'esercizio di tale competenza, senza che vi siano momenti di concorrenza fra
attribuzioni statali e regionali: onde sarebbe ammissibile il ricorso per conflitto di attribuzioni, secondo i
criteri enunciati nella giurisprudenza di questa Corte. Nel merito, la regione osserva anzitutto che il
provvedimento impugnato è stato adottato al di fuori dei limiti temporali previsti dall'art. 6 del
decreto-legge n. 400 del 1993, e che la proroga di tale termine, successivamente disposta, o è priva di
efficacia, in quanto i vari decreti-legge che l'avevano prevista sono decaduti, o appare viziata dall'abuso
dell'istituto della decretazione d'urgenza, onde, ai fini che interessano, deve ritenersi come inesistente. In
particolare la ricorrente sostiene che, se anche il legislatore, convertendo in legge il decreto n. 535 del
1996, che nuovamente prorogava il termine, ha sanato il vizio derivante dalla ripetuta reiterazione dei
decreti decaduti, non per questo può ritenersi che abbia sanato gli effetti degli atti adottati in base al
decreto-legge decaduto. A sua volta la clausola di sanatoria degli effetti dei decreti decaduti, contenuta
nell'art. 1, comma 2, della legge di conversione dell'ultimo decreto, sarebbe costituzionalmente
illegittima, in quanto la discrezionalità del legislatore nel sanare gli effetti dei decreti-legge non
convertiti, ai sensi dell'art. 77 della Costituzione, incontrerebbe il limite degli altri principi di rilievo
costituzionale, soprattutto quando incide sui rapporti tra lo Stato e le autonomie costituzionalmente
garantite: onde il legislatore non potrebbe fornire a posteriori base legislativa ad un provvedimento
lesivo delle attribuzioni regionali, soprattutto quando questo è oggetto di impugnazione. Sarebbe
pertanto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 16,
comma 3, del decreto-legge n. 535 del 1996, nella parte in cui conferma la proroga al 31 dicembre 1995
del termine per la individuazione delle aree escluse dalla delega, nonché dell'art. 1, comma 2, della legge
23 dicembre 1996, n. 647, nella parte in cui fa salva la validità dell'atto impugnato e la proroga sul cui
presupposto esso è stato adottato, sulla base di un decreto legge decaduto. La regione ribadisce poi le
censure relative al contenuto dell'atto, là dove esso individua aree che non corrisponderebbero ai criteri
indicati nell'art. 59 del d.P.R. n. 616 del 1977: in particolare sarebbero state illegittimamente escluse
dalla delega le aree indicate come basi logistiche di corpi dello Stato in consegna ad amministrazioni
statali, ma in realtà destinate a stabilimenti balneari, ancorché utilizzati da personale statale; le aree
costituenti punti di attracco per piccole imbarcazioni o approdi o scali per piccoli natanti, ovvero porti
turistici o approdi turistici, nonché i porti di IV classe per i quali tale classificazione non è più coerente;
le aree date in concessione a cantieri navali, la cui individuazione non ha alcuna attinenza con gli
interessi nazionali indicati nell'art. 59 del d.P.R. n. 616 del 1977.
Infine la regione ribadisce che le concrete modalità di formazione del provvedimento sono di per sé
lesive dei principi che governano il riparto delle attribuzioni e i rapporti tra Stato e regioni; e conclude
chiedendo che esso sia annullato per la parte relativa all'approvazione degli elenchi riguardanti la regione
Liguria, o quanto meno là dove riserva allo Stato le aree per le quali la regione ha espresso parere
negativo.
Considerato in diritto
1. - L'eccezione di tardività del ricorso, sollevata in un primo tempo dalla difesa del Presidente del
Consiglio, non è stata coltivata, né è stato documentato che l'atto impugnato sia pervenuto alla regione
prima del 3 gennaio 1996, data tenendo conto della quale il ricorso risulta tempestivo. L'eccezione va
dunque disattesa.
2. - Le censure mosse con il ricorso della regione, come si è detto nell'esposizione in fatto, sono di
tre ordini. In primo luogo si sostiene che il provvedimento impugnato sia lesivo delle attribuzioni
regionali in quanto adottato al di fuori dei presupposti temporali previsti dalla legge e quando gli ambiti
di funzioni da esso sottratti alla delega a favore della regione dovevano già ritenersi delegati alla
medesima ex lege, in forza della scadenza del termine fissato dall'art. 6, comma 1, del decreto-legge n.
400 del 1993, convertito dalla legge n. 494 dello stesso anno. In secondo luogo si lamenta che siano state
sottratte alla delega aree che non presentano le caratteristiche a tal fine stabilite dall'art. 59 del d.P.R. n.
616 del 1977. In terzo luogo si sostiene che sarebbero lesive le modalità con le quali è stata attuata
l'iniziativa statale, per la omissione di ogni motivazione in ordine ai criteri seguiti nella individuazione
delle aree, per insufficienza e difetto di istruttoria, e infine per aver omesso di considerare il parere della
regione, imposto dall'art. 59 del d.P.R. n. 616 del 1977.
3. - La censura per prima indicata è infondata. Non è necessario, al fine del giudizio chiesto alla
Corte, rispondere agli interrogativi posti dalla circostanza che il decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri sia stato emanato - quando era da tempo scaduto il termine (fissato dall'art. 6, comma 1, del
decreto-legge n. 400 del 1993) alla cui vana decorrenza la legge collegava l'operatività de jure della
delega a favore delle regioni relativamente a tutte le aree demaniali aventi utilizzazione per finalità
turistiche e ricreative - sotto il vigore di un decreto-legge (il d.-l. 18 dicembre 1995, n. 535), che
prorogava bensì tale termine al 31 dicembre 1995, ma che aveva perso efficacia, a seguito della mancata
conversione, al pari dei successivi decreti-legge reiterati i quali pure, retrospettivamente, disponevano
tale proroga, fino a quando, convertito l'ultimo decreto-legge contenente la proroga (21 ottobre 1996, n.
535), venne disposta la salvezza degli effetti dei decreti non convertiti (art. 1, comma 2, legge n. 647 del
1996). Né occorre valutare la fondatezza della censura di legittimità avanzata dalla regione nei confronti
sia dei decreti-legge che hanno reiterato a posteriori, e cioè dopo il 31 dicembre 1995, la proroga a tale
data del termine originariamente stabilito, sia della clausola di sanatoria degli effetti dei decreti decaduti,
tra cui era il decreto-legge n. 535 del 1995 nel cui vigore il provvedimento governativo venne emanato; e
neppure domandarsi se possa avere qualche effetto in ordine alla qualificazione giuridica e agli effetti da
attribuirsi al provvedimento impugnato la circostanza che la "catena" di decreti-legge che disposero la
proroga del termine al 31 dicembre 1995 non si presenta come del tutto continua, ma venne interrotta per
qualche giorno, ad esempio nel passaggio tra il d.-l. 17 giugno 1996, n. 322, al d.-l. 8 agosto 1996, n.
430, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 22 agosto 1996, n. 196. È decisiva infatti la considerazione
che il fondamento normativo del provvedimento governativo di individuazione delle aree demaniali
escluse dalla delega a favore delle regioni non risiede nelle norme che stabilirono, e poi prorogarono, ex
ante ed ex post il termine, scaduto il quale la delega diveniva comunque operante, ma nell'art. 59 del
d.P.R. n. 616 del 1977; e che, a norma dell'ultima parte del secondo comma di tale art. 59, l'elenco delle
aree escluse dalla delega perché ritenute di preminente interesse nazionale può essere (in ogni tempo)
modificato dal Governo con lo stesso procedimento previsto per la prima identificazione di tali aree.
Onde il potere governativo di individuazione delle aree escluse non è mai stato sottoposto, nel suo
esercizio, ad un termine propriamente perentorio, nel senso che il potere venisse meno per effetto del suo
vano decorso. Mentre originariamente il mancato rispetto da parte del Governo del termine fissato dalla
legge per la individuazione delle aree escluse non era destinato a produrre alcun effetto sulla operatività
della delega, che sarebbe rimasta comunque quiescente fino a quando il Governo non si fosse
pronunciato, successivamente la fissazione del nuovo termine fu accompagnata invece dalla previsione
che il suo vano decorso determinasse l'operatività ex lege della delega, ma non il venir meno del potere
governativo, che avrebbe comunque sempre potuto esercitarsi sottraendo all'ambito di operatività della
delega stessa aree successivamente individuate come di preminente interesse nazionale: ciò è reso palese
dalla espressa previsione della modificabilità in ogni tempo dell'elenco delle aree escluse, sia quindi nel
senso della sua estensione, sia nel senso della sua riduzione.
In altri termini, la particolare disciplina impressa dal legislatore a questa delega - collegata non già a
caratteristiche permanenti delle aree, ma alla loro concreta utilizzazione in atto o prevista, soggetta a
variare nel tempo - fa del potere governativo un potere permanente, esercitabile sia nei riguardi di aree
non ancora passate alla competenza delegata delle regioni, sia nei riguardi di aree per le quali la delega
sia già divenuta operante.
È pertanto irrilevante, ai fini di stabilire se il potere governativo sia stato esercitato nel rispetto o
invece in violazione delle attribuzioni regionali, la circostanza controversa dell'essere il provvedimento
intervenuto in una situazione normativa nella quale debba ritenersi - ora per allora - non ancora operante,
ovvero già divenuta operante la delega alla regione, in relazione alla efficacia da attribuirsi alle varie
disposizioni di proroga del termine al 31 dicembre 1995, nonché alla legittimità o meno di tali
disposizioni, e di quella che ha disposto la salvezza degli effetti dei decreti decaduti: restando estranea
all'ambito del presente giudizio ogni questione sulla operatività della delega, con riferimento alle aree
escluse, nel periodo anteriore all'emanazione del provvedimento governativo impugnato. In ogni caso, il
Governo era, come resta, competente ad individuare le aree "di preminente interesse nazionale in
relazione agli interessi della sicurezza dello Stato e alle esigenze della navigazione marittima",
sottraendole all'ambito della delega a favore delle regioni di cui all'art. 59, primo comma, del d.P.R. n.
616 del 1977.
4. - In ordine logico, la Corte deve ora prendere in esame, per il suo carattere pregiudiziale, la
censura, mossa nell'ultima parte del terzo motivo del ricorso, avverso la procedura seguita dal Governo,
che adottò il provvedimento senza attendere il parere formale della regione Liguria - espresso dal
consiglio regionale solo il giorno successivo a quello di adozione del decreto (e cioè il 22 dicembre
1995) - e senza farsi carico dell'avviso negativo su molte aree espresso nella motivata proposta di parere
della giunta trasmessa al consiglio, e fatta conoscere al Governo. In proposito, non può accogliersi
l'eccezione del Presidente del Consiglio, secondo cui tale censura, al pari delle altre riferite alla
violazione di norme di legge ordinaria, quale è l'art. 59 del d.P.R. n. 616 del 1977, ove si stabilisce la
procedura che il Governo doveva seguire, e in particolare si impone ad esso di provvedere "sentite le
regioni interessate", sarebbe inammissibile, perché non attinente alla pretesa violazione delle norme
costituzionali che definiscono le attribuzioni della regione.
In realtà, con la censura in esame, la ricorrente lamenta la violazione di quel principio di leale
cooperazione che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, deve governare i rapporti fra lo
Stato e le regioni nelle materie e in relazione alle attività in cui le rispettive competenze concorrano o si
intersechino, imponendo un contemperamento dei rispettivi interessi (cfr. sentenza n. 341 del 1996). Tale
regola, espressione del principio costituzionale fondamentale per cui la Repubblica, nella salvaguardia
della sua unità, "riconosce e promuove le autonomie locali", alle cui esigenze "adegua i principi e i
metodi della sua legislazione" (art. 5 Cost.), va al di là del mero riparto costituzionale delle competenze
per materia, e opera dunque su tutto l'arco delle relazioni istituzionali fra Stato e regioni, senza che a tal
proposito assuma rilievo diretto la distinzione fra competenze legislative esclusive, ripartite e integrative,
o fra competenze amministrative proprie e delegate. Nella specie il legislatore delegato del 1977,
chiamato a definire gli ambiti e i limiti del passaggio di funzioni amministrative alle regioni, ha
individuato un ambito - quello delle aree del demanio costiero a destinazione turistica e ricreativa - in cui
concorrono e interferiscono fra loro competenze statali e competenze regionali: lo ha disciplinato in linea
di principio attraverso la previsione di una delega generale alle regioni, limitata dalla riserva allo Stato
delle funzioni in materia di navigazione marittima, sicurezza nazionale e polizia doganale; ha però
previsto l'esclusione della delega con riguardo ad aree determinate, caratterizzate dalla preminenza di
interessi nazionali. L'individuazione di tali aree è dunque un procedimento volto tipicamente alla
delimitazione in concreto e alla composizione di interessi facenti capo rispettivamente ad attribuzioni
statali e ad attribuzioni regionali: coerentemente pertanto il legislatore ha previsto un procedimento
destinato bensì a sfociare in un atto delle autorità centrali di governo, ma nel cui ambito si colloca, a
presidio degli specifici interessi regionali coinvolti, un parere obbligatorio, benché non vincolante, delle
regioni interessate. Tale partecipazione procedimentale rappresenta la modalità concreta con cui si
realizza, nel caso, il contemperamento dei diversi interessi, e dunque una modalità di concorso e di
confronto che deve rispondere al canone costituzionale della leale cooperazione. La partecipazione
regionale al procedimento, di cui la legge stabilisce le modalità, è perciò costituzionalmente indefettibile,
deve essere resa effettivamente e non solo formalmente possibile, e il provvedimento governativo deve
tener conto dei risultati di tale partecipazione. Ciò non significa che ogni eventuale scostamento del
contenuto dell'atto governativo rispetto ai parametri legali che ne condizionano il contenuto possa
automaticamente considerarsi come una lesione della sfera costituzionale di attribuzioni della regione,
suscettibile di essere fatta valere attraverso il ricorso per conflitto di attribuzioni, anziché solo come un
vizio di legittimità dell'atto suscettibile di essere fatto valere con gli ordinari rimedi giurisdizionali: ma
integra senz'altro siffatta lesione la deviazione dal modello procedimentale imposto dalla legge a tutela
del principio di cooperazione.
5. - Nel merito, la censura è fondata.
È ben vero che l'elenco delle aree che il Governo intendeva escludere dalla delega venne inviato
alcuni mesi prima dell'emanazione del decreto alla regione, invitando quest'ultima ad esprimersi entro
sessanta giorni, in mancanza di che si avvertiva la regione che si sarebbe considerato acquisito il suo
parere favorevole. Ma, in primo luogo, nessuna norma prevedeva siffatto termine, e tanto meno
autorizzava a presumere favorevole il parere della regione che non si fosse espressa entro il termine
medesimo. La regione Liguria da un lato non mancò di contestare l'eccessiva brevità del termine, e il
significato che il Governo intendeva attribuire al suo vano decorso; dall'altro lato, trasmise
tempestivamente al Governo la proposta circostanziata di parere, prima che il consiglio l'adottasse
definitivamente (quando ormai però l'atto governativo era stato emanato). Ciononostante
ilprovvedimento è stato adottato senza che - come risulta dalle stesse premesse dell'atto - si sia tenuto
alcun conto delle posizioni espresse dalla regione, ma limitandosi solo ad acquisire in extremis il parere
della Conferenza Stato-regioni. Quest'ultimo parere - a parte le modalità con cui è stato acquisito - non
poteva in alcun modo sostituire o assorbire il "parere delle Regioni interessate" prescritto dall'art. 59 del
d.P.R. n. 616 del 1977 (cfr. sentenza n. 338 del 1994): infatti le valutazioni destinate ad esprimersi nei
pareri non attenevano solo ai criteri generali di esercizio del potere governativo, in ipotesi suscettibili di
essere considerati unitariamente per tutto il territorio nazionale, ma anche alle caratteristiche e alle
situazioni delle singole aree costiere, in relazione alle quali solo la regione rispettivamente interessata era
ed è abilitata a far valere i relativi interessi.
L'assenza, nella legge, della previsione di un termine per l'espressione del parere avrebbe bensì
giustificato, da parte del Governo, la richiesta alla regione di esprimersi entro un termine massimo,
tenendo ragionevolmente conto del tempo necessario per un effettivo confronto di posizioni,
eventualmente anche con riferimento ai principi ricavabili, in tema di adempimenti consultivi all'interno
dei procedimenti, dall'art. 16, commi 1 e 4, della legge 7 agosto 1990, n. 241. Ma in ogni caso non era
consentito al Governo, nella situazione data, adottare il provvedimento in assenza del prescritto parere,
pur ormai preannunciato e portato a conoscenza del medesimo Governo allo stadio di proposta, e
omettendo ogni considerazione ed ogni motivazione in ordine alle risultanze della partecipazione
regionale. La sostanziale omissione, nel procedimento, di modalità di consultazione e di confronto
conformi al principio di leale cooperazione costituisce dunque una lesione della sfera di attribuzioni
costituzionali della regione ricorrente, e comporta l'annullamento dell'atto impugnato, per la parte che
concerne il territorio della stessa regione: fermo restando che il Governo potrà provvedere comunque, ai
sensi dell'art. 59, secondo comma, ultima parte, del d.P.R. n. 616 del 1977, e con il procedimento ivi
previsto, assicurando la debita partecipazione della regione alla individuazione di aree demaniali da
sottrarre alla delega in quanto di preminente interesse nazionale ai sensi del medesimo art. 59, secondo
comma.
6. - Restano assorbite le altre censure mosse nel ricorso, sia in ordine al contenuto del
provvedimento impugnato, sia in ordine alla sua motivazione, ai suoi presupposti di fatto e all'istruttoria
che lo ha preceduto, senza che la Corte debba, in proposito, esprimersi a riguardo della stessa
ammissibilità di tali censure in sede di conflitto di attribuzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara che non spetta allo Stato, e per esso al Presidente del Consiglio dei Ministri, adottare il
decreto di individuazione delle aree demaniali escluse dalla delega di cui all'art. 59, primo comma, del
d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382),
senza il prescritto parere delle Regioni interessate, da acquisire con modalità conformi al principio di
leale cooperazione; e conseguentemente annulla il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 21
dicembre 1995, impugnato con il ricorso di cui in epigrafe, limitatamente alla parte che concerne aree del
territorio della ricorrente regione Liguria.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1997.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Onida
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 18 luglio 1997.
Il direttore della cancelleria: Di Paola
Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma
dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16
marzo 1956).
Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale in caso di divergenza.
Sentenza 31/2006
Giudizio
GIUDIZIO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE TRA ENTI
Presidente MARINI - Redattore SILVESTRI
Udienza Pubblica del 29/11/2005 Decisione del 23/01/2006
Deposito del 01/02/2006 Pubblicazione in G. U. 08/02/2006
Norme impugnate:
Circolare dell'Agenzia del Demanio, Direzione Generale, del 23 settembre 2003, prot. n.
2003/35540/NOR, avente ad oggetto "Decreto-legge 24 giugno 2003, n. 143, conv. in legge 1 agosto
2003, n. 212, recante Disposizioni urgenti in tema di versamento e riscossione di tributi, di fondazioni
bancarie e di gare indette dalla CONSIP S.p.A. nonché di alienazione di aree appartenenti al Patrimonio e
al Demanio dello Stato". Istanza di sospensione
Massime:
30118 30375
Atti decisi:
confl. enti 10/2004
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SENT. 31/06 A. CONFLITTO TRA ENTI - AGENZIA DEL DEMANIO - RIFERIBILITÀ DELLE
FUNZIONI ALL'AGENZIA, QUALE ENTE PUBBLICO ECONOMICO, AL SISTEMA
ORDINAMENTALE - IDONEITÀ DELL'ATTO ADOTTATO DALL'AGENZIA, SOTTO IL
PROFILO SOGGETTIVO ED OGGETTIVO, A FAR SORGERE UN CONFLITTO DI
A T T R I B U Z I O N E .
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Gli atti dell'Agenzia del demanio - definita «ente pubblico economico» dall'art. 61, comma 1, del d.lgs.
30 luglio 1999, n. 300, come modificato dall'art. 1 del d.lgs. 3 luglio 2003 n. 173 - posti in essere
nell'esercizio delle funzioni, tipiche dell'amministrazione pubblica statale, che erano proprie della
Direzione generale del demanio e delle direzioni compartimentali, sono riferibili allo Stato, inteso non
come persona giuridica, bensì come sistema ordinamentale complesso e articolato, costituito da organi,
con o senza personalità giuridica, ed enti distinti dallo Stato in senso stretto, ma con esso posti in
rapporto di strumentalità in vista dell'esercizio, in forme diverse, di tipiche funzioni statali. - Riferibilità
degli atti dell'Agenzia del demanio posti in essere nell'esercizio delle funzioni, tipiche
dell'amministrazione pubblica statale, che erano proprie della Direzione generale del demanio e delle
direzioni compartimentali, allo Stato, inteso non come persona giuridica, bensì come sistema
ordinamentale: sentenza n. 72/2005. - La proprietà e disponibilità dei beni demaniali spettano, sino
all'attuazione dell'ultimo comma dell'art. 119 Cost., allo Stato «e per esso all'Agenzia del demanio»:
sentenza
n.
427/2004.
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SENT. 31/06 B. AGENZIA DEL DEMANIO - ALIENAZIONE DI AREE APPARTENENTI AL
DEMANIO IDRICO DELLO STATO - PROCEDIMENTO - PARTECIPAZIONE DELLA REGIONE
INTERESSATA - MANCATA PREVISIONE - RICORSO DELLA REGIONE LOMBARDIA ILLEGITTIMA MENOMAZIONE DELLA SFERA DI ATTRIBUZIONI DELLA RICORRENTE IN
VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI LEALE COLLABORAZIONE - NON SPETTANZA ALLO
STATO DELLA POTESTÀ IN CONTESTAZIONE IN ASSENZA DI PARTECIPAZIONE DELLA
REGIONE TERRITORIALMENTE INTERESSATA - ANNULLAMENTO DELLA CIRCOLARE
DELL'AGENZIA DEL DEMANIO IMPUGNATA - ASSORBIMENTO DI ALTRI PROFILI DI
ILLEGITTIMITÀ - ASSORBIMENTO DELLA RICHIESTA DI SOSPENSIONE DELL'ATTO.
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Non spetta allo Stato, e per esso all'Agenzia del demanio, escludere la partecipazione delle Regioni al
procedimento diretto all'alienazione di aree situate nel territorio della stessa Regione e appartenenti al
demanio idrico dello Stato, disciplinato dalla circolare dell'Agenzia del demanio, Direzione generale, del
23 settembre 2003, prot. 2003/35540/NOR, avente ad oggetto «Decreto legge 24 giugno 2003 n. 143
convertito con legge 1 agosto 2003 n. 212 recante "Disposizioni urgenti in tema di versamento e
riscossione di tributi, di fondazioni bancarie e di gare indette dalla Consip S.p.A., nonché di alienazione
di aree appartenenti al Patrimonio e al Demanio dello Stato" pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 185
dell'11 agosto 2003 s.o. n. 131/L», e va conseguentemente annullata, per quanto di ragione, la predetta
circolare dell'Agenzia del demanio. La norma dettata dall'art. 5- bis del d.l. n. 143 del 2003 - cui si
richiama la circolare impugnata - è diretta, infatti, ad accelerare la cessione ai soggetti richiedenti di aree
non più utilizzabili per le finalità pubblicistiche originarie, a causa dell'irreversibile mutamento dello
stato dei luoghi derivante dall'esecuzione di opere sconfinate in terreno demaniale; essa non dispone una
generale declassificazione di aree demaniali, essendo, tra l'altro, esclusi dalla dismissione del patrimonio
pubblico beni come quelli appartenenti al demanio marittimo e le aree sottoposte a tutela ai sensi del t.u.
in materia di beni culturali ed ambientali, ma si limita a dettare la disciplina dei rapporti tra
l'amministrazione statale ed i soggetti richiedenti, fermo restando il quadro normativo e istituzionale
preesistente - di cui fanno parte i rapporti tra Stato e Regioni in materia di governo del territorio, con
particolare riferimento al demanio idrico -, non superato né alterato da alcuna delle norme in essa
contenute. Poiché l'art. 86 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, ha attribuito alle Regioni ed agli enti locali
"competenti per territorio" le funzioni amministrative in materia di "gestione dei beni del demanio
idrico", l'esercizio dei poteri dominicali dello Stato nei confronti di quei beni deve necessariamente
ispirarsi al principio di leale collaborazione, ai fini del bilanciamento dell'interesse dello Stato
proprietario con gli interessi delle collettività locali fruitrici dei beni, realizzabile in seno al sistema delle
Conferenze Stato-Regioni e autonomie locali. In tale sede, in materia di demanio idrico, è stato
sottoscritto, nella seduta del 20 giugno 2002, un accordo a tenore del quale, «Risultando in alcuni casi
particolarmente attive le procedure di "sdemanializzazione" (vendita al privato di aree demaniali), il
provvedimento finale di sdemanializzazione potrà essere assunto solo a seguito di parere favorevole delle
Regioni e Province autonome, tenuto anche conto degli indirizzi della Autorità di bacino».
L'interpretazione sistematica dell'art. 86 del d.lgs. n. 112 del 1998, dell'accordo Stato-Regioni del 20
giugno 2002 e dell'art. 5- bis del d.l. n. 143 del 2003 depone nel senso della perdurante attualità del ruolo
della Regione nell'apprezzare la sussistenza di eventuali ragioni ostative alla cessione a terzi dei beni del
demanio idrico. Pertanto, l'impugnata circolare dell'Agenzia del demanio, escludendo in modo radicale la
Regione da ogni interlocuzione nelle procedure di vendita a terzi dei beni del demanio idrico, si discosta
da un siffatto quadro normativo e istituzionale conforme ai principî costituzionali.
Atti oggetto del giudizio
23/09/2003 prot. 2003/35540/NOR
Parametri costituzionali
Costituzione art. 5
Costituzione art. 114
Costituzione art. 117
Costituzione art. 118
Costituzione art. 119
Pronuncia
SENTENZA N. 31 ANNO 2006
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Annibale MARINI; Giudici: Franco BILE, Giovanni Maria FLICK,
Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio
FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI,
Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito della circolare dell'Agenzia del
demanio, Direzione generale, del 23 settembre 2003, prot. 2003/35540/NOR, avente ad oggetto «Decreto
legge 24 giugno 2003 n. 143 convertito con legge 1 agosto 2003 n. 212 recante “Disposizioni urgenti in
tema di versamento e riscossione di tributi, di fondazioni bancarie e di gare indette dalla Consip S.p.A.,
nonché di alienazione di aree appartenenti al Patrimonio e al Demanio dello Stato” pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale n. 185 dell'11 agosto 2003 s.o. n. 131/L», promosso con ricorso della Regione
Lombardia notificato il 3 luglio 2004, depositato in cancelleria il successivo 12 luglio 2004 ed iscritto al
n. 10 del registro conflitti 2004.
Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 29 novembre 2005 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;
uditi l'avvocato Giuseppe Franco Ferrari per la Regione Lombardia e l'avvocato dello Stato Franco
Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso notificato il 3 luglio 2004 e depositato il 12 luglio successivo, la Regione
Lombardia ha promosso conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri,
chiedendo che sia dichiarato che non spetta allo Stato, attraverso l'Agenzia del demanio, disciplinare
l'alienazione di aree situate nel territorio della stessa Regione Lombardia, appartenenti al patrimonio e al
demanio dello Stato, nei termini e secondo le modalità di cui alla circolare dell'Agenzia del demanio,
Direzione generale, del 23 settembre 2003, prot. 2003/35540/NOR, avente ad oggetto «Decreto legge 24
giugno 2003 n. 143 convertito con legge 1 agosto 2003 n. 212 recante “Disposizioni urgenti in tema di
versamento e riscossione di tributi, di fondazioni bancarie e di gare indette dalla Consip S.p.A., nonché
di alienazione di aree appartenenti al Patrimonio e al Demanio dello Stato” pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 185 dell'11 agosto 2003 s.o. n. 131/L». Secondo la ricorrente, che ha sollecitato
l'annullamento – previa sospensione dell'esecuzione – dell'atto impugnato, sarebbero nella specie violati
il principio di leale collaborazione e gli artt. 5, 114, 117, 118 e 119 della Costituzione.
La circolare richiamata concerne l'applicazione dell'art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003, introdotto dalla
relativa legge di conversione. La norma prevede la cessione di aree appartenenti al patrimonio e al
demanio dello Stato (escluso quello marittimo), che non siano sottoposte a tutela come beni culturali e
ambientali, quando risultino interessate dallo sconfinamento di opere eseguite, entro il 31 dicembre 2002,
su fondi attigui di proprietà altrui, in forza di concessioni edilizie o altri titoli legittimanti. Oggetto di
alienazione può essere in particolare, nella ricorrenza delle condizioni indicate, un'area eccedente di tre
metri il limite delle opere sconfinate nel fondo di appartenenza pubblica.
Secondo la ricorrente, la circolare dell'Agenzia del demanio vincola gli uffici periferici ad
alienazioni che non sarebbero consentite dal dettato normativo, e comunque descrive il relativo
procedimento escludendo qualunque coinvolgimento dell'ente regionale, sebbene la gestione del demanio
lacuale e idroviario, al di là del profilo dominicale, spetti in misura preponderante proprio alle Regioni.
Anche sotto questo aspetto, il provvedimento si discosterebbe dalle previsioni di legge: è vero infatti che
l'art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 disciplina il procedimento senza far riferimento ad interventi dell'ente
regionale, ma la norma non precluderebbe, ed anzi presupporrebbe, meccanismi di consultazione e
raccordo.
Nel ricorso si premette, a tale proposito, come l'art. 86 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112
(Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in
attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), stabilisca che alla gestione dei beni del demanio
idrico provvedono le Regioni e gli enti locali competenti per territorio, e che i canoni ricavati dalla
utilizzazione di quei beni sono introitati dalla Regione. In specifica relazione a tale norma (richiamata
nel preambolo), in data 20 giugno 2002, la Conferenza unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28
agosto 1997, n. 281 (Definizione e ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano e unificazione, per i compiti
di interesse comune delle Regioni, delle Province e dei Comuni, con la Conferenza Stato-città e
autonomie locali), ha convenuto quanto segue: «risultando in alcuni casi particolarmente attive le
procedure di “sdemanializzazione” (vendita al privato di aree demaniali), il provvedimento finale di
sdemanializzazione potrà essere assunto solo a seguito di parere favorevole delle Regioni e Province
autonome, tenuto anche conto degli indirizzi delle Autorità di bacino».
Secondo la ricorrente, una lettura dell'art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 che ne facesse discendere una
deroga od un superamento del citato accordo del 2002 comporterebbe una violazione del principio di
leale collaborazione ed una menomazione delle attribuzioni regionali di cui agli artt. 5, 114, 117, 118 e
119 Cost. Una interpretazione costituzionalmente orientata, di contro, consentirebbe di raccordare la
disposizione alle norme applicative del principio di leale collaborazione, dando luogo alle necessarie
forme di interlocuzione dell'ente regionale.
L'impugnata circolare dell'Agenzia del demanio, sollecitando procedure applicative di totale
disconoscimento delle attribuzioni regionali in materia di tutela, vigilanza e gestione del demanio della
navigazione interna, violerebbe tutte le disposizioni richiamate e «potrebbe assumere il significato di una
forma di usurpazione di funzioni regionali».
1.1. – Si assume nel ricorso che lo Stato, mediante l'atto impugnato, avrebbe violato il principio di
leale collaborazione sotto un duplice profilo. Il primo consisterebbe nella disapplicazione dell'accordo
stipulato il 20 giugno 2002 in sede di Conferenza unificata: un accordo tanto più rilevante, nella
prospettazione della ricorrente, in quanto strumentale anche all'assicurazione delle forme di intesa e
coordinamento previste dall'art. 118, terzo comma, Cost. in materia di tutela dei beni culturali.
Un secondo e più generale profilo di violazione del principio di leale collaborazione consisterebbe
nel totale disconoscimento delle attribuzioni spettanti alle Regioni in materia di demanio idrico e lacuale.
Al riguardo è richiamato l'art. 117, terzo comma, Cost. quanto alla potestà legislativa concorrente in
materia di governo del territorio, protezione civile, porti, valorizzazione dei beni culturali e ambientali,
salvo che per la determinazione dei principî fondamentali. A tali competenze si affiancherebbero quelle
in materia di tutela dell'ambiente, di assetto idrogeologico, risorse idriche e difesa del suolo, di lavori
pubblici pertinenti a materie di legislazione concorrente. Le Regioni vantano poi, a norma dell'art. 117,
quarto comma, Cost., competenza esclusiva a proposito di navigazione interna, turismo, agricoltura, oltre
che di lavori pubblici afferenti a dette materie.
La ricorrente assume che l'interlocuzione regionale sarebbe imposta sia dal principio di leale
collaborazione sia dall'art. 118, terzo comma, Cost., anche alla luce delle funzioni amministrative
progressivamente conferite all'ente regionale, con riferimento ai beni demaniali in questione, in materia
di navigazione lacuale, fluviale, lagunare e sui canali navigabili ed idrovie, nonché in materia di porti
lacuali e di porti di navigazione interna (artt. 4 e 5 del d.P.R. 14 gennaio 1972, n. 5, recante
«Trasferimento alle regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di tranvie e
linee automobilistiche di interesse regionale e di navigazione e porti lacuali e dei relativi personali ed
uffici»; artt. 97 e 98 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, recante «Attuazione della delega di cui all'art. 1
della legge 22 luglio 1975, n. 382»; art. 105 del d.lgs. n. 112 del 1998). Vengono nel ricorso evocate,
inoltre, le competenze regionali riguardo al litorale marittimo, alle aree immediatamente prospicienti ed
alle aree del demanio lacuale e fluviale che siano destinate ad uso turistico e ricreativo, nonché in tema di
sicurezza dei natanti addetti alle linee di navigazione interna (rispettivamente, art. 59 e art. 86 del d.P.R.
n. 616 del 1977). Analogo richiamo concerne le opere idrauliche, parte delle dighe, la polizia idraulica, le
concessioni estrattive dai corsi d'acqua e di spiagge, la difesa delle coste (art. 89 del d.lgs. n. 112 del
1998). Si rammenta dalla ricorrente, infine, che l'art. 86 del citato d.lgs. n. 112 del 1998 assegna alle
Regioni e agli enti locali competenti per territorio la gestione del demanio idrico, e che i canoni ricavati
dalla relativa utilizzazione sono introitati dalla Regione.
In coerenza con tale ultima disposizione, la Regione Lombardia ha regolato con l'art. 11 della legge
29 ottobre 1998, n. 22 (Riforma del trasporto pubblico locale in Lombardia), la destinazione dei canoni
di concessione, riferendola in parte ai Comuni a titolo di corrispettivo per le funzioni amministrative
delegate, ed in parte al finanziamento del programma degli interventi regionali sul demanio delle acque
interne. Ciò premesso, nella prospettazione della ricorrente l'abbattimento del gettito ricavabile dai beni
oggetto di cessione, in base all'applicazione dell'art. 5-ter del d.l. n. 143 del 2003, sarebbe suscettibile di
compromettere l'esercizio delle funzioni trasferite e l'autonomia finanziaria della Regione.
Nel ricorso viene infine declinato un ulteriore e particolare aspetto dell'asserita violazione del
parametro di leale collaborazione. Nella circolare impugnata l'Agenzia del demanio ha sostenuto che la
procedura di sdemanializzazione debba essere «comunque» applicata nel caso di opere «che abbiano
causato un irreversibile mutamento dello stato dei luoghi tale da rendere l'area inutilizzabile per finalità
pubbliche». Secondo la ricorrente (che prospetta anche l'illegittimità sostanziale della prescrizione), la
perdurante utilità per il pubblico interesse delle aree impegnate da sconfinamenti non potrebbe essere
valutata che dalla Regione, così come sarebbe del resto stabilito, per la Lombardia, da numerose norme
di legge (ed in particolare dagli artt. 3, 11, 11-bis e 11-quinquies della citata legge regionale n. 22 del
1998). Neppure per tali fattispecie, tuttavia, la circolare impugnata prevede tempi e modi di
consultazione dell'ente regionale.
1.2. – La circolare dell'Agenzia del demanio, secondo la ricorrente, incide sull'autonomia finanziaria
e, conseguentemente, legislativa e amministrativa della Regione, assumendo specifico rilievo, data la
qualità e quantità delle funzioni regionali concernenti il demanio idrico, nella prospettiva dell'art. 119
Cost. (oltre che degli artt. 117 e 118 Cost.). Sarebbe infatti violato il principio di corrispondenza e
contestualità tra funzioni trasferite e attribuzione delle risorse necessarie al relativo assolvimento.
Si illustra nel ricorso come i proventi ricavati dalla gestione del demanio idrico siano posti in
compensazione delle risorse da trasferire dal bilancio dello Stato per l'esercizio delle funzioni di cui al
Titolo III del d.lgs. n. 112 del 1998, in misura che, a decorrere dal 2001, è stata fissata in 300 miliardi di
lire per anno (art. 2 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 ottobre 2000, recante «
Individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative da trasferire alle
Regioni ed agli enti locali per l'esercizio delle funzioni e dei compiti amministrativi in materia di
demanio idrico»). La quota della riduzione concernente le singole Regioni è stata indicata nella tabella A
in allegato al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 13 novembre 2000 (Criteri di ripartizione
e ripartizione tra le Regioni e tra gli enti locali per l'esercizio delle funzioni conferite dal decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112, in materia di demanio idrico).
Un tale sistema di finanziamento, secondo la ricorrente, evidenzia la pertinenza dei canoni ricavati
dalle aree del demanio idrico all'insieme delle corrispondenti funzioni regionali, cosicché la doglianza
concernente la riduzione di gettito connessa alla dismissione non potrebbe essere dequalificata a mera
vindicatio rerum, con conseguente sua inammissibilità.
1.3. – Una ulteriore doglianza, che specificamente attiene alla cessione di aree interessate da vincoli
di carattere culturale e ambientale, è prospettata con riguardo alla pretesa violazione dell'art. 118, terzo
comma, Cost.
L'ultimo periodo dell'art. 5-ter del d.l. n. 143 del 2003 stabilisce che la normativa sull'alienazione
«non si applica, comunque, alle aree sottoposte a tutela ai sensi del testo unico delle disposizioni
legislative in materia di beni culturali e ambientali, di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, e
successive modificazioni». La circolare impugnata recita: «qualora il vincolo gravante sull'area statale
interessi anche l'area del privato e su questa sia stata legittimamente realizzata l'opera, il rilascio del
relativo titolo edilizio, presupponendo l'acquisizione di tutte le autorizzazioni e dei pareri favorevoli
delle autorità preposte alla tutela, estende l'efficacia di queste ultime anche alla porzione di area di
proprietà statale che pertanto potrà essere acquisita dal privato».
Secondo la ricorrente, una tale disposizione aggira il disposto dell'art. 146 del testo unico approvato
con il decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di
beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352), che presume
l'interesse paesaggistico delle sponde dei laghi e delle rive dei fiumi, e viola l'art. 27 del decreto-legge 30
settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento
dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326, per il quale i
beni di rilievo culturale o ambientale sono assoggettati ai relativi vincoli fino a quando non sia stata
effettuata, dalle competenti soprintendenze, la concreta verifica di sussistenza dell'interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico.
1.4. – Un ultimo profilo di violazione del primo comma dell'art. 118 Cost. viene denunciato in
relazione al principio di sussidiarietà. La ricorrente sostiene che la convergenza tra l'interesse dei privati
all'acquisizione e la ristrettezza dei termini legali di conclusione del procedimento, nella carenza di
interlocuzione dei soggetti titolari dei poteri di tutela e vigilanza del demanio idrico e della navigazione,
possa implicare concrete lesioni degli interessi pubblici per effetto di errori o comportamenti fraudolenti.
2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, si è
costituito in giudizio chiedendo il rigetto della istanza di sospensione e la dichiarazione di
inammissibilità o di non fondatezza del ricorso in questione.
Il ricorso sarebbe inammissibile in quanto proposto contro un provvedimento di mera interpretazione
ed applicazione dell'art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003, dal quale deriverebbero i presunti effetti lesivi
delle prerogative regionali, e che però non è stato oggetto di tempestiva impugnazione da parte della
Regione. Altra ragione di inammissibilità consisterebbe nella evocazione di parametri (per altro non
indicati) non pertinenti o comunque non utilizzati nella esposizione dei motivi.
Il ricorso sarebbe poi inammissibile, in particolare, per le doglianze che prospettano un'incidenza
della disciplina della cessione sul gettito derivante dai canoni delle aree interessate. Il resistente, dopo
aver premesso che in genere gli sconfinanti non sono concessionari dei fondi di proprietà pubblica,
sostiene che le somme ricavate dalla gestione delle aree vengono dedotte dai trasferimenti in favore della
Regione, e che dunque non vi sarebbe un interesse ad agire per i canoni non più riscossi a seguito delle
cessioni, posto che alla diminuzione di gettito corrisponderebbe, per il meccanismo della compensazione,
un aumento dei trasferimenti statali.
Nel merito, il ricorso sarebbe infondato, essendo la normativa pertinente a beni di scarso valore. La
stessa Regione, secondo il resistente, limita la materia del contendere ad aree del demanio idrico, che
comunque sono interessate da piccoli sconfinamenti e non possono eccedere di oltre tre metri i relativi
confini. In questi termini, la materia non attiene realmente alla «gestione» del demanio idrico, cui si
riferisce l'accordo siglato tra Stato e Regioni il 20 giugno 2002. Tale accordo, in ogni caso, concerne la
gestione dei beni de quibus, e non riguarderebbe dunque il relativo assetto proprietario.
Non sussisterebbero, infine, le condizioni legittimanti una sospensiva dell'atto impugnato.
3. – Con produzioni effettuate in data 2 novembre 2005 l'Avvocatura dello Stato ha reso noto il
contenuto di ulteriori provvedimenti assunti dall'Agenzia del demanio, Direzione generale, in rapporto
alle prescrizioni dell'art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003.
In una circolare indirizzata ai Direttori centrali ed alle Filiali dell'Agenzia, del 10 marzo 2004, prot.
2004/9777/NOR, accanto ad altre specificazioni, si è affermato che, per opere realizzate su aree gravate
da vincoli culturali o paesaggistici, il rilascio del titolo edilizio, «sia per la parte delle opere ricadenti
nella proprietà privata sia per quelle sconfinate nella proprietà statale», presuppone il rilascio anche di
tutte le autorizzazioni (paesaggistiche) e dei pareri favorevoli delle autorità preposte alla tutela del
vincolo, con conseguente alienabilità dell'area interessata.
Con nota in data 28 maggio 2004, prot. 2004/19961/NOR, l'Agenzia del demanio ha fornito
«chiarimenti» alla Regione Lombardia su parte delle questioni poste ad oggetto dell'odierno ricorso,
ribadendo che l'art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 «non prevede l'acquisizione di pareri di carattere
tecnico da parte di Amministrazioni locali operando la sdemanializzazione ope legis delle aree in
questione», e che ogni considerazione sulla legittimità dell'opera dal cui sconfinamento consegue la
cessione del bene demaniale è rimessa, ab origine, agli organi preposti al rilascio del titolo edilizio
legittimante.
4. – In prossimità dell'udienza, l'Avvocatura dello Stato ha depositato memoria volta ad
ulteriormente contestare l'ammissibilità e la fondatezza del ricorso.
Con l'art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 lo Stato avrebbe compiuto un mero atto di disposizione
patrimoniale su cespiti ad esso appartenenti, posto che la cessione presuppone la conformità alla
normativa urbanistica delle opere sconfinate, come verificata dagli enti locali e da quelli preposti alla
vigilanza sul paesaggio e sui beni culturali. La circolare impugnata, in ogni caso, avrebbe una portata
meramente illustrativa della norma di legge da applicare a cura degli uffici destinatari. La stessa
eventualità che il provvedimento contenga disposizioni eccedenti o contrastanti con la norma citata non
sarebbe sufficiente a rendere ammissibile il ricorso della Regione Lombardia, posto che il giudizio
costituzionale non può costituire alternativa a quello comune in punto di legittimità dell'atto
amministrativo.
Le fonti normative in materia di consultazione e cooperazione, che nella prospettazione della
ricorrente dovrebbero affiancare l'art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003, sarebbero in realtà prive di rilevanza.
Gli artt. 4 e 9, comma 2, lettera c), del d.lgs. n. 281 del 1997, non imporrebbero affatto che ogni
procedimento amministrativo debba presentare passaggi «cooperativi», e l'accordo del 20 giugno 2002
non è richiamato dalla norma cui si riferisce la circolare impugnata.
Osserva l'Avvocatura che, se anche lo Stato avesse errato nel trascurare le intese sottoscritte in
precedenza, non potrebbe rimproverarsi all'Agenzia del demanio di non essersi sostituita al legislatore,
aggiungendo alla disciplina aspetti procedimentali non previsti. D'altra parte, se una legge nuova prevale
su quella anteriore, un tale effetto si manifesterebbe a maggior ragione nel rapporto tra una legge ed un
atto non legislativo, come l'accordo del 20 giugno 2002. L'ipotesi di un coordinamento tra le due fonti
sarebbe oltretutto foriera di singolari effetti nel merito, dato che imporrebbe addirittura un parere
favorevole della Regione quale condizione per la vendita delle aree appartenenti allo Stato.
Infine, a parere del resistente, le conseguenze finanziarie che la Regione attribuisce alla circolare (e
cioè una diminuzione delle somme da portare in compensazione) si collegano ancora una volta alla
legge. Si ammette nella memoria (e sotto questo aspetto espressamente si emenda l'originaria eccezione
di carenza di interesse) che la cessata riscossione dei canoni per le aree sdemanializzate ridonda a carico
dell'ente regionale, posto che, sulla scorta dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri del 12
ottobre 2000 e del 13 novembre 2000, la detrazione operata sui trasferimenti dello Stato riguarda un
importo «stabilizzato», di poco eccedente gli 84 miliardi di lire. La riduzione prevedibile del gettito
sarebbe tuttavia trascurabile, e dunque irrilevante ai fini del ricorso.
5. – In data 14 novembre 2005 l'Avvocatura erariale ha depositato «Nota informativa», secondo la
quale, in Lombardia, sono state presentate 1239 istanze ex art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003, con 798
provvedimenti di diniego (80 dei quali sub iudice), e con somme introitate per complessivi €3.497.630.
6. – Con memoria depositata in prossimità dell'udienza, la ricorrente, nel ribadire le ragioni a
sostegno del proprio assunto, ha osservato che l'appartenenza allo Stato dei beni di cui si tratta non
comporterebbe quella «competenza esclusiva» che di fatto viene rivendicata dalla difesa erariale, tanto
che i canoni di concessione delle aree del demanio marittimo devono essere determinati d'intesa con le
Regioni.
Le forzature della circolare impugnata rispetto alla disciplina effettivamente dettata dal legislatore
varrebbero ad escludere che, nella specie, si tenti di superare la preclusione connessa alla intervenuta
scadenza dei termini per una questione di legittimità in merito all'art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003. Si
contesta inoltre, dalla ricorrente, che la norma citata contempli ipotesi di cessione ope legis dei beni
appartenenti allo Stato: la stessa Agenzia del demanio, nella misura in cui ipotizza la dismissione delle
aree divenute non utilizzabili per finalità pubbliche, prospetterebbe la rilevanza di valutazioni tecniche e
discrezionali, indiscutibilmente spettanti alla Regione.
In ogni caso, la circolare impugnata non avrebbe dovuto ipotizzare una «traslazione» delle
autorizzazioni concernenti vincoli paesaggistici e culturali dall'area del privato sconfinante all'area
demaniale oggetto di parziale occupazione. Più radicalmente ancora, l'Agenzia del demanio non avrebbe
dovuto prevedere la cessione di beni del demanio idrico e della navigazione, posto che l'art. 5- bis più
volte citato esclude, «comunque», le aree sottoposte a tutela secondo il d.lgs. n. 490 del 1999, e che l'art.
146 del relativo testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali
comprende indiscriminatamente tutte le sponde dei laghi e dei fiumi.
Riguardo alla fonte delle procedure di consultazione ignorate dalla circolare impugnata, la ricorrente
osserva che un provvedimento amministrativo non può disapplicare un accordo Stato-Regioni, il quale
comunque, nella specie, non è indebitamente proposto come parametro rilevante per l'interpretazione
adeguatrice (così come preteso dall'Avvocatura erariale), posto che tale parametro è rappresentato,
piuttosto, dal principio di leale collaborazione.
Considerato in diritto
1. – Con ricorso notificato il 3 luglio 2004 e depositato il 12 luglio successivo, la Regione
Lombardia ha promosso conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri,
chiedendo che sia dichiarato che non spetta allo Stato, attraverso l'Agenzia del demanio, disciplinare
l'alienazione di aree, situate nel territorio della stessa Regione, appartenenti al patrimonio e al demanio
dello Stato, nei termini e secondo le modalità di cui alla circolare dell'Agenzia del demanio, Direzione
generale, del 23 settembre 2003, prot. 2003/35540/NOR, avente ad oggetto