Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. GLI AVVOCATI NON SONO TUTTI UGUALI, C’È CHI USA PLURIS. CHI USA PLURIS SI DISTINGUE PERCHÉ OFFRE AI PROPRI CLIENTI LE RISPOSTE MIGLIORI, LAVORANDO CON SICUREZZA E VELOCITÀ. UTET Giuridica© è un marchio registrato e concesso in licenza da De Agostini Editore S.p.A. a Wolters Kluwer Italia S.r.l. Pluris è il sistema di informazione e aggiornamento giuridico online più innovativo e completo. Quotidianamente al tuo fianco per: FAI LA SCELTA GIUSTA, SCEGLI PLURIS. 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Danno e responsabilità Sommario OPINIONI Responsabilità del medico COLPA E LINEE GUIDA di Massimo Franzoni 801 LA RESPONSABILITÀ DELLA STRUTTURA SANITARIA di Marilena Gorgoni 807 LA RESPONSABILITÀ MEDICA: DAL PRIMATO DELLA GIURISPRUDENZA ALLA DISCIPLINA LEGISLATIVA di Giulio Ponzanelli 816 CAUSALITÀ E RESPONSABILITÀ MEDICA: CINQUE VARIAZIONI DEL TEMA di Roberto Pucella 821 GIURISPRUDENZA Legittimità Danni punitivi LA DELIBABILITÀ DELLE SENTENZE STRANIERE COMMINATORIE DI DANNI PUNITIVI FINALMENTE AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE Cassazione Civile, Sez. I, ord. 16 maggio 2016, n. 9978 Nota di Pier Giuseppe Monateri Nota di Giulio Ponzanelli 827 831 836 Danni da eventi DANNI DA PIOGGIA INTENSA: RESPONSABILITÀ E CASO FORTUITO atmosferici Cassazione Civile, Sez. III, 24 marzo 2016, n. 5877 Nota di Vera Vozza 839 841 Inadempimento LA RESPONSABILITÀ DELLE BANCHE TRA PRINCIPI GENERALI E NORME SPECIALI contrattuale Cassazione Civile, Sez. I, 19 gennaio 2016, n. 806 Cassazione Civile, Sez. III, 18 dicembre 2015, n. 25442 Nota di Martina Gerbi 844 846 849 Equa riparazione L’ENTE E IL PROCESSO ‘‘LUMACA’’: IL DANNO MORALE SOGGETTIVO ALLA VELOCITÀ DELLA LUCE Cassazione Civile, Sez. VI-2, 12 gennaio 2016, n. 322 Nota di Silvia Monti 855 857 Merito Società Cessione di crediti LA VALUTAZIONE DEL DANNO IN VIA EQUITATIVA, IL CRITERIO DELLA DIFFERENZA DEI NETTI PATRIMONIALI E LA RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI Tribunale di Ferrara 18 marzo 2016 Tribunale di Pistoia 19 gennaio 2016 Tribunale di Milano 7 ottobre 2015 Nota di Giovanni Facci 864 868 870 872 L’ABUSO DELLA CESSIONE DEL CREDITO RISARCITORIO Giudice di Pace di Milano, Sez. VII, 13 gennaio 2016, n. 227 Tribunale di Milano, Sez. X, 14 maggio 2015, n. 6099 Nota di Stefano Argine e Giampaolo Miotto 884 885 887 Osservatorio di legittimità a cura di Antonella Batà e Angelo Spirito 898 Osservatorio di merito a cura di Paolo Carbone 902 Osservatorio di giustizia penale a cura di Carlo Piergallini Danno e responsabilità 8-9/2016 909 799 Numero Demo Danno e responsabilità - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sommario Osservatorio sulla giustizia amministrativa 913 a cura di Gina Gioia INDICI 917 INDICE AUTORI, CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI, ANALITICO COMITATO PER LA VALUTAZIONE Mario Barcellona, Giovanni Comandè, Marco De Cristofaro, Maria Vita de Giorgi, Antonio Iannarelli,Giorgio Lener, Francesco Macario, Maria Rosaria Marella, Giovanni Marini, Marisaria Maugeri, Daniela Memmo, Andrea Nicolussi, Fabio Padovini, Massimo Paradiso, Giovanni Pascuzzi, Barbara Pozzo, Antonino Procida Mirabelli di Lauro, Alessandro Somma, Onofrio Troiano, Andrea Violante. EDITRICE Wolters Kluwer Italia S.r.l. Strada 1, Palazzo F6 20090 Milanofiori Assago (MI) INDIRIZZO INTERNET http://www.edicolaprofessionale.com/dannresp DIRETTORE RESPONSABILE Giulietta Lemmi REDAZIONE Francesco Cantisani, Ines Attorresi, Michela Ambrosini, Stefania Banfi REALIZZAZIONE GRAFICA Wolters Kluwer Italia S.r.l. 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ITALIA Abbonamento annuale: E 215,00 ESTERO Abbonamento annuale: E 430,00 MAGISTRATI e UDITORI GIUDIZIARI - sconto del 30% sull’acquisto dell’abbonamento annuale alla rivista, applicabile rivolgendosi alle Agenzie Ipsoa di zona (www.ipsoa.it/agenzie) o inviando l’ordine via posta a Wolters Kluwer Italia S.r.l., Strada 1 Pal. F6, 20090 Assago (MI) o via fax al n. 02-82476403 o rivolgendosi al Servizio Informazioni Commerciali al n. 02-82476794. Nell’ordine di acquisto i magistrati dovranno allegare fotocopia del proprio tesserino identificativo attestante l’appartenenza alla magistratura e dichiarare di essere iscritti all’Associazione Nazionale Magistrati. MODALITÀ DI PAGAMENTO Versare l’importo sul C/C/P n. 583203 intestato a WKI S.r.l. Gestione incassi - Strada 1, Palazzo F6, Milanofiori Egregio abbonato, ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, La informiamo che i Suoi dati personali sono registrati su database elettronici di proprietà di Wolters Kluwer Italia S.r.l., con sede legale in Assago Milanofiori Strada 1-Palazzo F6, 20090 Assago (MI), titolare del trattamento e sono trattati da quest’ultima tramite propri incaricati. Wolters Kluwer Italia S.r.l. utilizzerà i dati che La riguardano per finalità amministrative e contabili. I Suoi recapiti postali e il Suo indirizzo di posta elettronica saranno utilizzabili, ai sensi dell’art. 130, comma 4, del D.Lgs. n. 196/2003, anche a fini di vendita diretta di prodotti o servizi analoghi a quelli oggetto della presente vendita. Lei potrà in ogni momento esercitare i diritti di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 196/2003, fra cui il diritto di accedere ai Suoi dati e ottenerne l’aggiornamento o la cancellazione per violazione di legge, di opporsi al trattamento dei Suoi dati ai fini di invio di materiale pubblicitario, vendita diretta e comunicazioni commerciali e di richiedere l’elenco aggiornato dei responsabili del trattamento, mediante comunicazione scritta da inviarsi a: Wolters Kluwer Italia S.r.l. - PRIVACY - Centro Direzionale Milanofiori Strada 1Palazzo F6, 20090 Assago (MI), o inviando un Fax al numero: 02.82476.403. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Responsabilità del medico Soft Law e colpa medica Colpa e linee guida di Massimo Franzoni (*) Lo studio vuole dimostrare che una parte importante delle attività umane è disciplinato da una di regole concertate, ad esempio quelle contenute nei codici deontologici, oppure da regole la cui legittimazione non poggia sull’esercizio della sovranità popolare tradizionalmente intesa. Le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica sono un esempio di un “diritto tecnocratico” che incomincia ad affiancarsi al diritto positivo tradizionale. La cogenza di queste regole è diversa rispetto alle norme giuridiche in senso stretto. L’impiego di queste nuove regole rende più “trasparente e tracciabile” la perizia, la diligenza e la prudenza adoperate dal professionista nell’adempimento dell’incarico. Il c.d. decreto Balduzzi è significativamente intervenuto nel regolare la responsabilità del medico (1), con l’art. 3, comma 1: “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”. L’accento è posto sulle linee guida e sulle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica; il giurista tradizionale non è abituato né a questo linguaggio, né tantomeno alla comprensione di queste regole tra le fonti del diritto. Ma il fenomeno non riguarda esclusivamente. L’attività dei professionisti è sempre più interessata da una cospicua normativa di settore non riconducibile al diritto positivo propriamente inteso. Inco- mincio questa riflessione segnalando la “nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”: la L. 31 dicembre 2012, n. 247, in 67 articoli menziona la parola “deontologia” ben 21 volte. L’entrata in scena di questo tipo di regolamentazione ha origini relativamente lontane; si può iniziare dall’art. 12, D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, che, in materia di privacy, replicando la precedente norma del 1996, ha attribuito al Garante il compito di promuove la sottoscrizione di codici di deontologia e di buona condotta per determinati settori, nell’ambito delle categorie interessate, nell’osservanza del principio di rappresentatività e tenendo conto dei criteri direttivi delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa sul trattamento di dati personali. L’aspetto rilevante di questa nuova disciplina, che, di fatto, ha esteso la sua portata anche a settori diversi da quello del trattamento dei dati personali, è che questi “codici sono pubblicati nella G.U. della Repubblica italiana a cura del Garante e, con decreto del Ministro della giustizia, sono riportati nell’allegato A) del presente codice” (art. 12, comma 2, cit.) (2). “Il rispetto delle disposizioni conte- (*) Queste pagine riproducono, con l’ausilio di note essenziali, l’intervento tenuto a Roma il 27 novembre 2015, in occasione dell’incontro di studio organizzato per celebrare i primi venti anni di vita di Danno e responsabilità sul tema “ La responsabilità sanitaria: necessità di una riforma?”. (1) Si tratta del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, pubblicato nella G.U. 13 settembre 2012, n. 214, convertito dalla L. 8 novembre 2012, n. 189, recante: “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”. (2) Senza pretese di completezza ricordo: Allegato A. 1. Codice di deontologia - Trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica; Allegato A. 2. Codici di deontologia - Trattamento dei dati personali per scopi storici; Allegato A. 3. Codice di deontologia - Trattamento dei dati personali a scopi statistici in ambito Sistema statistico nazionale; Allegato A. 4. Codice di deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati personali per scopi statistici e scientifici; Allegato A. 5. Codice di deontologia e di buona condotta per i sistemi informativi gestiti da soggetti privati in tema di crediti al consumo, affidabilità e puntualità nei pagamenti; Allegato A. 6. Codice di deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati personali effettuati per svolgere investi- La soft law come regola del rapporto professionale Danno e responsabilità 8-9/2016 801 Opinioni Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Responsabilità del medico nute nei codici di cui al comma 1° costituisce condizione essenziale per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali effettuato da soggetti privati e pubblici”, così dispone l’art. 12, comma 3, cit. Tecnicamente le regole di deontologia appartengono al genere della normativa secondaria, diversa anche dagli usi, che mal si coniuga con l’idea del diritto positivo. Normalmente quei precetti non sono il risultato dell’eteronomia, ma, seppure in senso ampio, sono conseguenza dell’autonomia di coloro che saranno destinatari di quelle stesse norme. Proprio per questo esse sono cogenti per la categoria che le ha volute e tale cogenza può essere declinata pure nel giudizio che vede come parti il titolare del dato personale che lamenti una lesione e il titolare o il responsabile del trattamento di quel dato. Nel corso del tempo, sulla falsariga di queste regole, definite codice deontologico, sono state pubblicate diverse decine di altri codici con caratteri e finalità analoghi: tra i più significativi, ricordo il Codice di deontologia medica, approvato il 18 maggio 2014, dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (3); il Codice deontologico degli psicologi italiani, approvato dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi (4); il Codice deontologico dell’infermiere, approvato dal Comitato centrale della Federazione con deliberazione n. 1/09 del 10 gennaio 2009 e dal Consiglio nazionale dei Collegi Ipasvi riunito a Roma nella seduta del 17 gennaio 2009 e revisionato nel 2012 (5); il Codice deontologico degli ingegneri, approvato dal Consiglio Nazionale Ingegneri nella seduta del 9 aprile 2014 (6); il Codice deontologico degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, approvato dal Consiglio nazionale del relativo ordine, entrato in vigore il 1° gennaio 2014 (7); il Codice deontologico dei Geologi, approvato dal Consiglio nazionale del relativo ordine con delibera n. 65 del 24 marzo 2010 (8). Ancora, e senza pretese di completezza, ricordo il Codice deontologico dei dottori commercialisti, approvato dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili in data 9 aprile 2008, aggiornato al 1° settembre 2010 (9); il Codice deontologico dei notai, approvato con delibera del Consiglio nazionale del notariato n. 2/56 del 5 aprile 2008; e il Codice deontologico forense, in vigore dal 15 dicembre 2014, modificato dalla delibera del Consiglio Nazionale Forense del 31 gennaio 2014 che lo adegua alle previsioni del nuovo ordinamento forense (10). Alcune categorie professionali si sono riunite in ambito europeo come il Consiglio degli Ordini Forensi Europei, associazione internazionale senza scopo di lucro, ed hanno elaborato la Carta dei principi fondamentali dell’avvocato europeo e il Codice deontologico degli avvocati europei (11). Altri professionisti, come gli amministratori o i sindaci di società, sono sottoposti a regole emanate da Consob, da Banca d’Italia S.p.a, da IVASS (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni), che con D.L. 6 luglio 2012, n. 95, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 135, ha sostituito l’Isvap (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni Private e di Interesse Collettivo), istituita con L. 12 agosto 1982, n. 576. La prima autorità di controllo emana regolamenti, comunicazioni e raccomandazioni, con le quali può vincolare l’attività degli amministratori, come ad esempio il modo in cui redigere un prospetto informativo (12). A queste regole devono assoggettarsi anche gli amministratori di società gazioni difensive. (3) Cfr. http://www.omco.pd.it/normativa-ordinistica/codicedeontologico.html. (4) Cfr. http://www.psy.it/lo_psicologo/codice_deontologico.html; questo entra in vigore il trentesimo giorno successivo alla proclamazione dei risultati del referendum di approvazione, ai sensi dell’art. 28, comma 6, lett. c), L. 18 febbraio 1989, n. 56. (5) Cfr. http://www.ipasvi.it/norme-e-codici/deontologia/ilcodice-deontologico.htm. (6) Cfr. http:// www.tuttoingegnere.it/portalecni/resources/cms/documents/codice_deontologico_e_circolare_cni_n._375_del_14_maggio_2014.pdf. (7) Cfr. http://www.architettibrescia.net/le-nuove-normedeontologiche-in-vigore-dal-1%C2%B0-gennaio-2014/. (8) Cfr. http://geologilazio.it/public/file/2010/05/codice_deontologico_2010.pdf; in seguito al contraddittorio instaurato con l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust), nel nuovo testo risultano modificati gli artt. 17, 18, 19 e 26 di cui al Codice deontologico già approvato dal Consiglio nazionale dei geologi con deliberazione n. 143 del 19 dicembre 2006. (9) Cfr. http://www.commercialisti.it/portal/documenti/dettaglio.aspx?id=8a82fbfa-7a55-4c6b-8dd9-7a9123c852e1. (10) Cfr. http://www.consiglionazionaleforense.it/site/home/area-avvocati/codice-deontologico-forense.html; anche questo Codice è pubblicato sulla G.U. del 16 ottobre 2014, n. 241. (11) Cfr. http://www.ccbe.eu/fileadmin/user_upload/ntcdocument/5761codicedeontologi6_1352191308.pdf. (12) Cfr. Regolamento Consob 14 maggio 1999, n. 11971, di attuazione del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 concernente la disciplina degli emittenti, nel testo integrato e aggiornato al 20 marzo 2015, http://www.consob.it/documenti/Regolamentazione/normativa/regemit.htm; oppure come il “Manuale operativo per l’utilizzo della procedura telematica di raccolta delle informazioni”, versione 5.0, in http://www.consob.it/documents/10194/0/Manuale+Tecnico_SAIVIC/aec59520-d84e-489c92fd-6591df7f96a1. 802 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Responsabilità del medico sottoposte al controllo di altre autorità, come le banche, controllate dalla Banca d’Italia S.p.a., o le assicurazioni controllate da IVASS. Ulteriori regole sono emanate da Borsa italiana s.p.a. che, occupandosi dell’organizzazione, della gestione e del funzionamento della Borsa di Milano, detta norme cui non sono estranei gli amministratori delle società quotate nei mercati regolamentati. Gli amministratori e i sindaci di società quotate sono, inoltre, sottoposti al Codice di autodisciplina delle società quotate (13), che funziona su base volontaria, e che detta regole di comportamento per amministratori e per sindaci e, più in generale, per il sistema di controllo interno. L’accettazione dell’incarico comporta automaticamente l’assoggettamento anche a queste regole da parte degli organismi gestori o di controllo, sempre che la società della quale sono organi abbia aderito a quel codice. Il predetto codice è approvato dal Comitato corporate governance, istituito nel 1994, composto dai membri del consiglio direttivo Assogestioni (14), oltre che dai delegati di banche e di imprese di assicurazione attive nella gestione individuale e collettiva del risparmio che ne facciano richiesta. Il Comitato corporate governance ha la funzione di promuovere la diffusione della cultura della governance tra gli operatori del mercato, attraverso il monitoraggio dei comportamenti delle società quotate, l’elaborazione di codici di autodisciplina e la partecipazione al dibattito politico e accademico. Nello svolgimento del controllo e della vigilanza di società di capitali è opportuno che i sindaci seguano i “Principi di comportamento del collegio sindacale” del 1995 (15), condivise dalla Consob nelle raccomandazioni del 20 febbraio 1997. Di seguito a queste, il Consiglio nazionale dell’ordine dei commercialisti ha emanato “Norme di comportamento del collegio sindacale nelle società quotate” e anche quelle delle società non quotate (16). L’efficacia di queste disposizioni può essere ricondotta a quella delle linee guida in ambito medico; rispetto a queste, tuttavia, azzarderei a dire che è molto più ristretto il margine di criticità che i sindaci devono adottare. In ambito medico è molto verosimile che il caso di specie ponga una serie di variabili tali da richiedere preliminarmente al medico una valutazione in merito all’opportunità di adeguarsi o di discostarsi dalla norma di linea guida. Astrattamente questo ragionamento può essere riprodotto anche per le Norme di comportamento del collegio sindacale, anche se in questo ambito è poco probabile che ci si debba discostare da certe regole, quantomeno in modo corrispondente al settore medico. (13) Cfr. http://www.borsaitaliana.it/comitato-corporate-governance/codice/2014clean.pdf. (14) L’associazione italiana dei gestori del risparmio, rappresentante la maggior parte delle società di gestione del risparmio italiane e straniere operanti nel nostro Paese. (15) In http://www.finanzaefisco.it/Articoli/1999/Principi%20contabili/PCB03-96.pdf. (16) Per le società aperte, quelle quotate: http://media.di- rectio.it/portale/altridoc/20150415-norme_collegio_sindacale_societ%c3%a0_quotate-cndcec.pdf; per le società chiuse, quelle non quotate: http://www.odcectivoli.it/documents/consultaz_norme_di_comportamento_per_so-ciet_.pdf. (17) Cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 8 luglio 2014, n. 2168, in CED, rv. 261764 (m); Cass. Pen., Sez. IV, 9 ottobre 2014, n. 47289, in CED, rv. 260739 (m), in motivazione la corte ha precisato che la disciplina di cui all’art. 3, L. 8 novembre 2012, n. 189, Danno e responsabilità 8-9/2016 La colpa grave nel decreto Balduzzi e la soft law Il c.d. decreto Balduzzi è significativamente intervenuto nel regolare la responsabilità del medico. L’innovazione legislativa è caratterizzata dalla non sistematicità, basti considerare: - che il sistema penale non conosce la colpa lieve; - che “l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.” non ha un chiaro significato, giacché l’ormai consolidata prassi riconduce al contatto sociale la responsabilità del medico per inadempimento al dovere di comportarsi con la diligenza da “valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”. È già stato osservato che una soluzione potrebbe essere quella di considerare il riferimento all’art. 2043 c.c. come una metonimia, ossia come un mero richiamo della colpa, che, comunque, qui dovrebbe essere inteso come colpa professionale, per le ragioni indicate nel testo (art. 1176, comma 2, c.c.); - che non si può prevedere in quale modo possa incidere sulla determinazione del risarcimento l’osservanza della condotta di cui al primo periodo, ossia l’adeguamento a “linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”. Diverso è il meccanismo predisposto dal comma successivo con il quale si prevede l’ingresso dell’assicurazione in questo settore. Tuttavia è positivo il riferimento alla c.d. normativa secondaria (la soft law) contenuta nelle linee guida e nelle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Si tratta di disposizioni che possono integrare il precetto della norma primaria, quindi il dovere di diligenza, di perizia e di prudenza (17), e che godono di un’elevata autorevolezza 803 Opinioni Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Responsabilità del medico per via della fonte da cui provengono. Certo, per quanto riguarda le linee guida, occorre di queste valutare prevalentemente il fine per le quali sono state predisposte e accertarne l’aggiornamento costante. Così, ad esempio, qualora queste linee guida fossero indirizzate soltanto a creare prassi finalizzate al risparmio di spesa o a seguire determinate procedure amministrative, il loro impiego sarebbe scarso. Al contrario, qualora il loro scopo sia quello di concorrere a creare protocolli o comunque prassi da seguire nella diagnosi, terapia o nelle dimissioni del paziente, nella regolare tenuta della cartella clinica; nel creare una prassi da impiegare con il paziente ai fini della corretta informazione prima e durante la terapia, sicuramente si tratta di una normativa utile della quale il giudice ordinario ben può tener conto, nel giudizio di responsabilità (18). Sulle linee guida i giudici penali si sono più volte soffermati. In primo luogo hanno deciso che “le linee guida rappresentano un valido ausilio scientifico per il medico che con queste si deve confrontare, ma non fanno venir meno l’autonomia del professionista nelle scelte terapeutiche perché l’arte medica, non basandosi su protocolli a base matematica, è suscettibile di accogliere diverse pratiche o soluzioni efficaci, nel cui alveo scegliere in relazione alle varianti del caso specifico che solo il medico può apprezzare in concreto” (19). Senonché hanno altresì ritenuto che “le linee guida assolvono solo allo scopo di orientare l’attività del medico, il quale però deve considerare sempre le esigenze del paziente, anche considerato che talvolta le linee guida hanno matrice economico-gestionale e si pongono in contrasto con le necessità del malato. L’osservanza o inosservanza delle linee guida non determina (né esclude) automaticamente la colpa nel sanitario” (20). Per poi concludere che “dal punto di vista del giudizio sulla colpa del medico, il giudice resta libero di apprezzare se l’osservanza o il discostamento dalle linee guida avrebbero evitato il fatto che si imputa al medico e cioè se le circostanze del caso concreto imponessero o meno l’adeguamento alle linee guida a disposizione del medico, oppure una condotta diversa da quella descritta in dette linee guida” (21). A questo riguardo si consideri che è stato giudicato in colpa grave il medico che “si attiene a linee guida accreditate anche quando la specificità del quadro clinico del paziente imponga un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato dalle menzionate linee guida” (22). Le linee guida sono regole emanate dal ministero della sanità con circolari o decreti (23); da organismi dotati di un certo grado di autorevolezza scientifica, come le Società di Medicina (24), talvolta sono contenute in delibere di consigli regionali (25); talaltra in circolari, ordini interni di organi in posizione apicale delle Aziende sanitarie. Il loro accreditamento dipende dal modo in cui sono state raccolte, ad esempio sono accreditate quelle raccolte dal Sistema nazionale per le linee guida (SNLG), attivato con D.M. 30 giugno 2004 (26), che aderisce al Guidelines International Network (GI-N) (27). Le linee guida sono un paradosso, se si attribuisce loro la precettività propria del diritto positivo. A fatica, infatti, si riesce a spiegare il diverso grado di vincolatività nei diversi settori specialistici. Si pensi al geriatra: questi avrà difficoltà ad applicare raccomandazioni standardizzate per la cura dei suoi pazienti, usualmente affetti da plurime patologie, soggetti a polifarmacoterapia. All’opposto, l’ostetri- pur trovando terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia, può tuttavia venire in rilievo anche quando il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza; contra Cass. Pen., Sez. III, 4 dicembre 2013, n. 5460, in Riv. pen., 2014, 489. (18) Così Cass. Pen., Sez. IV, 5 novembre 2013, n. 18430, in CED, rv. 261293 (m); Cass. Pen., Sez. IV, 15 ottobre 2013, n. 46753, in Giur. it., 2014, 156, con nota di Risicato. (19) Cass. Pen., Sez. IV, 19 settembre 2012, n. 35922, in http://www.personaedanno.it/index.php?option=com_content&view=article&id=40134&catid=103&Itemid=350&mese=09&anno=2012; Cass. Pen., Sez. IV, 8 febbraio 2001, Bizzarri, in Riv. pen., 2002, 353. (20) Cass. Pen., Sez. IV, 19 settembre 2012, n. 35922, cit., nota prec. (21) Cass. Pen., Sez. IV, 19 settembre 2012, n. 35922, cit., penult. nota. (22) Cass. Pen., Sez. IV, 8 luglio 2014, n. 2168, in CED, rv. 261764 (m); evidenziano un indubbio paradosso, G. Federspil, - C. Scandellari, Le linee guida nella pratica clinica: significato e limiti, in Professione Sanità Pubblica e Medicina Pratica, 1996, 4, 1 ss.: “se le regole che costituiscono le linee guida sono generiche ed elastiche, allora possono essere rispettate, ma non sono utili e non sono molto diverse dai capitoli di un trattato. Se invece le regole sono specifiche e rigide, allora devono spesso essere violate per il bene del paziente”. (23) Ad es. “Aggiornamento delle Linee guida per la metodologia di certificazione degli adempimenti dei piani regionali sui tempi d’attesa, di cui al punto 9 dell’Intesa StatoRegioni sul PNGLA 2010-2012”: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1548_allegato.pdf; d.m. 21 luglio 2004, per la procreazione medicalmente assistita. (24) Ad es. “Linee guida donazione di gameti” nella stesura aggiornata al 3 settembre 2014 che è stata sottoscritta, oltre che da SIFES, AOGOI, CECOS, SIDR, SIERR e SIOS, anche dalle società scientifiche AGUI, SIA, SIAMS, e SIFR: http://sifes.it/linee-guida-donazione-di-gameti/. (25) Cfr. http://www.snlg-iss.it/lgr#. (26) Rinvio al sito http://www.snlg-iss.it/, per la completa descrizione del sistema articolato su più livelli, nazionale e regionale, per tipi di malattia. (27) Rinvio al sito http://www.g-i-n.net/. 804 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Responsabilità del medico co, per la conduzione del parto, si trova ad assistere una popolazione di pazienti nella sua maggioranza sufficientemente omogenea, cui possono essere ordinariamente applicate procedure uniformi (28). Questa normativa secondaria, quindi, non può essere considerata come la legge del diritto positivo. Il medico deve dimostrare di conoscere le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, deve dimostrare di averle criticamente esaminate all’atto della scelta diagnostica o terapeutica, ancorché quella regola non abbia trovato applicazione; è in colpa grave chi non l’abbia considerata o l’abbia seguita acriticamente. Queste linee guida, in altri termini, indicano il modo per rendere trasparente il contegno tenuto dal medico, consentendo di spiegare la perizia impiegata nella fase di esecuzione della prestazione sanitaria e non a posteriori. Ciò non compromette la libertà di scienza del medico, ma comporta una più oculata prova in punto di diligenza, che dovrebbe risolversi sul piano della procedimentalizzazione dell’attività medica e che dovrebbe palesarsi in modo significativo nella cartella medica (29). Le linee guida, altrimenti intese anche come regola dell’arte medica, sono sempre entrate nel processo civile o penale, attraverso il lavoro del consulente tecnico d’ufficio; sebbene egli fosse libero di farvi o di non farvi richiamo, nonostante la mancanza di una precisa prova sulla loro esistenza fornita dalla parte. Ora il giudice è chiamato a darvi applicazione poiché, con qualche approssimazione, si può dire iura novit curia. In concreto, il richiamo effettuato dalla legge ad una norma diversa da quella del sistema delle fonti del diritto attrae quest’ultima e la colloca ad un grado che non potrebbe avere. Per effetto dell’art. 3 del decreto Balduzzi, la linea guida formalmente entra nel sistema delle fonti del diritto, sostanzialmente conserva una cogenza e un’efficacia diversa da quella di qualsiasi altra norma di diritto positivo. Le linee guida e le regole dell’arte Le linee guida non hanno il carattere della norma regolamentare, che specifica quella ordinaria, ma non può derogarvi. Semmai si deve ritenere che queste stigmatizzano un certo comportamento da tenere in una data situazione, a condizione che (28) Cfr. anche Domenici e Guidi, Linee guida e colpa medica: spunti di riflessione, in questa Rivista, 2014, 353. (29) È questo il senso di massime come quella della Cass. Pen., Sez. IV, 18 giugno 2013, n. 39165, in Riv. it. med. leg., 2014, 221: “In tema di responsabilità medica, l’inosservanza Danno e responsabilità 8-9/2016 non sussistano ulteriori variabili che, esterne alla fattispecie, siano tali da mettere a repentaglio l’efficacia della regola. È proprio questa la ragione per la quale, a certe condizioni, il medico è obbligato a derogare a quelle stesse linee guida che, altrimenti, limiterebbero la sua responsabilità penale e comporterebbero una riduzione del risarcimento del danno. Del resto, il diritto positivo nel porre un precetto prefigura un certo comportamento in vista di un risultato che valuta socialmente utile o comunque conveniente. Di conseguenza, la violazione di quel precetto è condizione necessaria e sufficiente per far seguire la sanzione, poiché l’antigiuridicità della condotta è di per sé contraria al progetto di società che il diritto positivo disegna. Viceversa la norma di una linea guida stigmatizza una situazione in astratto, alla quale collega un certo comportamento da seguire, sulla base di una regola dell’esperienza o della migliore scienza. Senonché è normale che la situazione con la quale il medico deve misurarsi in concreto non sia corrispondente a quella del modello, che il caso concreto sia la risultante di più patologie, per ciascuna delle quali è predisposta una linea guida o una buona pratica. In situazioni come queste, dunque, non sarebbe possibile seguire acriticamente alcuna regola dell’arte o di una linea guida. Proprio questo aspetto è caratteristico di queste regole. Pertanto la vera funzione delle linee guida è quella di garantire la trasparenza nelle decisioni prese in sede di esecuzione della prestazione professionale (durante il processo come suol dirsi), così da assicurare il grado di perizia richiesto e la diligenza da “valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata” (art. 1176, comma 2, c.c.). Tutto ciò deve palesarsi nella scelta del medico che ha seguito o si è discostato dalla regola posta nella linea guida; ciò che è antigiuridico, quindi fonte di responsabilità, è di aver ignorato completamente la linea guida, sostanzialmente di averne ignorato l’esistenza. Si potrebbe sostenere che le linee guida, poiché sono espressive delle regole dell’arte, sono sempre esistite, sicché nulla ha innovato la previsione nella legge Balduzzi. A conferma di ciò si potrebbe pure ricordare che il riferimento ad una regola astratta di buona condotta è sempre esistita, come regola dell’arte, e che nel processo è sempre entrata attradelle linee guida comunemente accettate dalla letteratura scientifica non è in se stessa causa automatica di assoluzione o condanna, in ragione della potenziale opinabilità anche delle c.d. best practices”. 805 Opinioni Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Responsabilità del medico verso l’attività del consulente tecnico. Mi sembra più convincente concludere che la legge Balduzzi abbia modificato sul piano delle fonti, sicché certe regole che prima dovevano essere apprezzate nella verifica della colpa in senso soggettivo, ora siano diventate diritto positivo, a tutti gli effetti. Ciò comporta che l’errata qualificazione di una norma ivi contenuta o la sua inosservanza da parte del giudice del merito, legittima il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., come se si trattasse di una comune norma di diritto positivo. Per il resto sono propenso a credere che, nel giudizio di responsabilità, l’impiego delle linee guida non pregiudichi l’attività del medico, e non limiti neppure la sua libertà di scientifica nella diagnosi o nella terapia. Propenderei a credere che, laddove sussistano e siano credibili linee guida, queste siano 806 il presupposto per l’assolvimento dell’onere della prova sul punto dell’adempimento esatto dell’obbligazione, tanto nell’ipotesi in cui siano state seguite pedissequamente, quanto nell’ipotesi in cui siano state derogate. Del resto se c’è una linea guida o una buona pratica accreditata dalla comunità scientifica significa che una best practice è stata riconosciuta, sicché è opportuno che sia il professionista a dover spiegare perché non l’ha osservata, accollandosi così il rischio di non rispondere a quel canone di perizia e di diligenza che l’esecuzione della sua prestazione richiede. Qui si tratta di prova della perizia, della diligenza e della prudenza richieste da parte del professionista e non già applicazione di un evanescente principio di vicinanza della prova. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Responsabilità del medico Responsabilità nosocomiale La responsabilità della struttura sanitaria di Marilena Gorgoni (*) La responsabilità della struttura, riconosciuta per la prima volta dalla giurisprudenza negli anni novanta, è divenuta un capitolo a sé della responsabilità sanitaria. Nel saggio si mettono in evidenza le incertezze relative alla sua qualificazione, al ruolo della colpa, alla distribuzione dell’onere della prova e al grado di autonomia rispetto alla responsabilità sanitaria per così dire in senso stretto. Il capitolo della responsabilità nosocomiale costituisce, in un certo senso, il punto di approdo della evoluzione della responsabilità in ambito sanitario (segnata a livello giurisprudenziale principalmente dalla sentenza della Cass., SS.UU, n. 577/2008 (1), su cui cfr. amplius infra) (2). Tale responsabilità si inserisce in una cornice di regole che col tempo è divenuta particolarmente complessa e ricca di contraddizioni, ispirata da un’esigenza equitativa di valorizzazione della centralità della persona (3): da un lato, ad esempio, acquista nuova dimensione la colpa (4), dall’altro, si invoca (fallito il tentativo di armonizzazione europeo per causa del mancato recepimento della direttiva sulla responsabilità del produttore di servizi (5)) la responsabilità oggettiva, suggerendo di applicare la responsabilità del produttore (6) o quella di cui all’art. 2050 c.c. (7). La pretesa che il danno, anche quello destinato a restare anonimo, venga allocato altrove attraverso il criterio della deep pocket fa aumentare i casi in cui la struttura viene chiamata in causa anche in ipotesi nelle quali la responsabilità sia imputabile esclusivamente al sanitario (8). Nel corso del tempo, peraltro, è cresciuto il ricorso a meccanismi assicurativi, anche obbligatori (9), aventi lo scopo di contribuire a co- (*) Queste pagine riproducono, con l’ausilio di note essenziali, l’intervento tenuto a Roma il 27 novembre 2015, in occasione dell’incontro di studio organizzato per celebrare i primi venti anni di vita di Danno e responsabilità sul tema “ La responsabilità sanitaria: necessità di una riforma?”. (1) Cass., SS.UU., 11 gennaio 2008, n. 577, in Foro it., 2008, 2, I, 455; in Giur. it., 2008, III, 2197, con nota di M.G. Cursi, Responsabilità della struttura sanitaria e riparto dell’onere probatorio; in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 612, con nota di R. De Matteis, La responsabilità della struttura sanitaria per danno da emotrasfusione; in questa Rivista, 2008, 788 e 871, rispettivamente, con note di G. Vinciguerra, Nuovi (ma provvisori?) assetti della responsabilità medica e di A. Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la distinzione fra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico; ibidem, 2009, 703, con nota di M. Paradiso, La responsabilità medica tra conferme giurisprudenziali e nuove aperture; in Giur. it., 2008, II, 1653, con nota di A. Ciatti, Crepuscolo della distinzione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato; in Giust. civ., 2009, 11, I, 2532; in Resp. civ. prev., 2008, 4, 849, con nota di M. Gorgoni, Dalla matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale e professionale al superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzo/di risultato. (2) Un capitolo ulteriore ed a sé deve essere considerato quello della responsabilità della ASL per l’illecito riferibile al medico di base, su cui cfr. Cass. 27 marzo 2015, n. 6243, in questa Rivista, 2015, 794, con nota di D. Zorzit, La Cassazione, il fatto del medico di base e la responsabilità “contrattuale” della Asl: nuove geometrie (e qualche perplessità); in Nuove leggi civ., 2015, 10934 con nota di R. Pucella, La responsabilità dell’A.S.L. per l’illecito riferibile al medico di base; in Giorn. dir. amm., 2015, 673, con nota di A. Morini, La responsabilità delle Asl per errore del medico. (3) M. Gorgoni, Il consolidamento di una generica esigenza equitativa alla base dell’affermazione della responsabilità sanitaria, in Resp. civ. prev., 2001, 1171. (4) R. Blaiotta, La responsabilità medica: nuove prospettive per la colpa, in www.dirittopenalecontemporaneo.it. (5) A. Somma, Diritto comunitario v. diritto europeo: il caso della responsabilità medica, in Pol. diritto, 2000, 562-563. (6) Corte di giustizia Ce 10 maggio 2001, in Resp. civ. prev., 2001, 3065, con nota di S. Bastianon. (7) G. Iudica, Danno alla persona per inefficienza della struttura sanitaria, in Resp. civ. prev., 2001, 3 ss. (8) Le sentenze che condannano esclusivamente il sanitario sono ben poche: cfr. Cass. 20 aprile 2004, n. 7494, App. Roma 23 gennaio 2006, in www.dejure.it. (9) Cfr. art. 10 del testo contenente “Disposizioni in materia La responsabilità della struttura: un capitolo della responsabilità sanitaria Danno e responsabilità 8-9/2016 807 Opinioni Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Responsabilità del medico stituire una garanzia finanziaria a tutela (indiretta) dei possibili danneggiati (10). Meritano di essere segnalati anche l’evaporazione, quasi la rarefazione del nesso causale, già declinato all’insegna del più probabile che non (11); il rinnovato rigore in tema di distribuzione dell’onere della prova (12), orientatasi, invece, negli ultimi anni in direzione della facilitazione per il paziente; la spinta verso l’incentivazione della qualità e della quantità dei servizi che deve, però, fare i conti con la medicina della parsimonia (13); con essa deve misurarsi anche la deriva soggettivistica, cioè un personalismo esasperato che riempie di nuovi contenuti il diritto di autodeterminazione sanitaria; l’aumento del rischio che paradossalmente accompagna i progressi della medicina e della tecnica (14); infine il risk management (15) e la tendenza, mai scemata, ad esigere la combinazione di schemi privatistici e pubblicistici (16). Completano il quadro la medicina dell’obbedienza giudiziale (17) e quella delle linee guida e dei protocolli accreditati dalla comunità scientifica (18). Su tutti questi profili a sovrastare è però la medicalizzazione della vita, la medicina dei desideri - per il cui soddisfacimento non basta più la professionalità del singolo, essendo necessaria l’integrazione di più professionisti e/o di più competenze (19) - che sfocia nella tendenza a fare della responsabilità risarcitoria una sorta di panacea di tutti i mali, di convertitore universale del male in bene (20), un varco surrettizio, cioè, attraverso cui consentire l’ingresso al diritto alla felicità (21), costruito sull’i- di responsabilità professionale del personale sanitario”, licenziato dalla Camera il 28 febbraio 2016, trasmesso al Senato il 29 febbraio 2016 ed assegnato alla XII Commissione permanente (Igiene e Sanità) in sede referente con il n. 2224/2016 (in http://www.senato.it/service/pdf/pdfserver/df/318877.pdf). (10) A. Gariglio, Responsabilità professionale sanitaria e ruolo delle assicurazioni, in S. Aleo - R. De Matteis - G. Vecchio, Le responsabilità in ambito sanitario, Padova, 2014, 541 ss.; M. Gagliardi, Salute e assicurazione: il diritto delle assicurazioni in campo sanitario, in Riv. it. med. leg., 2015, 1321 ss. (11) M. Capecchi, Il nesso di causa nella responsabilità civile, in S. Aleo - R. De Matteis - G. Vecchio, Le responsabilità, cit., 245 ss. (12) Almeno in specifici ambiti: è il caso della recente decisione a sezioni unite in tema di danni derivanti da omessa o inesatta diagnosi in gravidanza: Cass., SS.UU., 22 dicembre 2015, n. 2 5767, in Resp. civ. prev., 2016, con nota di M. Gorgoni, Una sobria decisione “di sistema” sul danno da nascita indesiderata. (13) R. Nania, Il diritto alla salute tra attuazione e sostenibilità, in M. Sesta (a cura di), L’erogazione della prestazione medica tra diritto alla salute, principio di autodeterminazione e gestione ottimale delle risorse umane, Rimini, 2014, 33; C. Golino, I vincoli al bilancio tra dimensione europea e ordinamento nazionale: le possibili ricadute sul welfare, ibidem, 641 ss. Per un approfondimento, si rinvia a E. Cavasino, La flessibilità del diritto alla salute, Napoli, 2012; D. Morana, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, Torino, 2014; R. Balduzzi, Livelli essenziali e risorse disponibili: la sanità come paradigma, in F. Roversi Monaco - C. Bottari (a cura di), La tutela della salute tra garanzie degli utenti ed esigenze di bilancio, Rimini, 2012, 79 ss.; D. Bonomo, Programmazione della spesa sanitaria e libertà di cura: un delicato dilemma, in Foro amm., 2001, 1847. (14) Rischi, danni e responsabilità aumentano con lo sviluppo tecnologico: F. Introna, Un paradosso: con il progresso della medicina crescono i processi contro i medici, in Riv. it. med. leg., 2001, 5; N. Irti, Il diritto nell’età della tecnica, Napoli, 2007, 41. (15) G. Turchetti, B.Labella, La gestione del rischio, in G. Comandè - G. Turchetti (a cura di), La responsabilità sanitaria, Padova, 2004. (16) M. Zana, Responsabilità sanitaria e tutela del paziente, Milano, 1993. (17) A. Fiori, La medicina delle evidenze e delle scelte sta declinando verso la medicina dell’obbedienza giurisprudenziale?, in Riv. it. med. leg., 2007, 925; F. Buzzi - G.Tassi, La “ supremazia ” dei giudici, la sudditanza della scienza medica e la cedevolezza della governance amministrativa e politica in materia di trattamenti sanitari, ibidem, 2014, 415 ss. (18) All’art. 5 del ddl n. 2224/2016, cit., si dispone che gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative e riabilitative, si attengano, salve le specificità del caso concreto, alle buone pratiche clinico-assistenziali e alle raccomandazioni previste dalle linee guida elaborate dalle società scientifiche iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute. Non solo: aver adeguato il proprio comportamento alle buone pratiche clinico-assistenziali e alle raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge esclude la colpa grave ove essa sia penalmente rilevante (art. 6). Sul ruolo delle Linee Guida in materia sanitaria cfr. ex plurimis E. d’Aloja - M. Ciuffi - F. De Giorgio - R. De Montis - F. Paribello, Il valore medico-legale e giuridico delle linee guida, dei protocolli e delle procedure in tema di responsabilità del professionista della salute: “alleati o nemici (friends or foes)”?, in S. Aleo - R. De Matteis - G. Vecchio, Le responsabilità, cit., 982 ss.; G.Guerra, La rilevanza giuridica delle linee guida nella pratica medica: spunti di diritto americano, in Nuove leggi civ., 2014, 377 ss. (19) G. Vecchio, Diritto alla salute e ‘concezioni della complessità della prestazione’. ‘Istituzioni di mediazione’. Risoluzione delle asimmetrie nel rapporto di cura e ricerca del regime di responsabilità, in S. Aleo - R. De Matteis - G. Vecchio (a cura di), Le responsabilità, cit., 61 ss. (20) Sulla manipolazione dello strumento risarcitorio che, appunto, finirebbe con l’essere percepito come convertitore universale di male in bene cfr. V. Scalisi, Ingiustizia del danno e responsabilità civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 788 e da una prospettiva diversa J. Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Milano, 1999, 28 ss. che avverte il rischio insito nella tendenza a ricorrere alla responsabilità, erroneamente convinti di poter rendere la nostra vita più sicura. (21) Dimostrano preoccupazione per la giuridificazione dei desideri e per le degenerazioni che ne conseguono: E. Navarretta, Ingiustizia del danno e nuovi interessi, in Diritto civile diretto da Lipari e Rescigno, IV. Attuazione e tutela dei diritti. III. La responsabilità e il danno, Milano, 2009, spec. 166; G. Ferrando, Nascita indesiderata, situazioni protette e danno risarcibile, in A. D’Angelo (a cura di), Un bambino non voluto è un danno risarcibile?, Milano, 1999, 209; F.D. Busnelli, Il danno biologico. Dal “diritto vivente” al “diritto vigente”, Torino, 2002, 224; F.D. Busnelli, La parabola della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1988, 663; F. Gazzoni, Osservazioni non solo giuridiche sulla tutela del concepito e sulla fecondazione artificiale, in Dir. fam. pers., 2005, 168 ss.; S. Amato, Caratteri del biodiritto, in Riv. fi- 808 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Responsabilità del medico dea di potere avere, esternalizzando la sofferenza, la delusione e l’insuccesso, un illimitato controllo sulla vita e sulla morte (22). Se questa, per grandi linee, è la cornice generale di riferimento, nello specifico non sorprende che abbia assunto particolare rilievo, su impulso soprattutto della giurisprudenza di merito, la possibilità di considerare quello della struttura sanitaria un capitolo a sé nell’ambito della responsabilità medica: non proprio una novità se si pensa che a sua volta della responsabilità medico/sanitaria si era già parlato in termini di microcosmo (23) e di macrocosmo della responsabilità (24), di campo in cui albergano regole transtipiche (25) e di metamorfosi dell’inadempimento in illecito aquiliano (26). La specificità della responsabilità nosocomiale sta nel fatto che con essa si è al crocevia della dimensione strettamente terapeutica con il momento propriamente organizzativo. Ciò ha sollevato, in effetti, interrogativi ulteriori e peculiari. In primo luogo, ci si è chiesti se, posto che la completa professionalità dell’atto medico può realizzarsi solo con certe garanzie strutturali, il sanitario che si trovi ad operare in una situazione di “consapevole” carenza della compagine ospedaliera possa, al verificarsi di un danno interamente e certamente ascrivibile ad omissioni organizzativo-strutturali, andare esente da responsabilità. La questione non si pone, o comunque non può essere affrontata negli stessi termini, quando il professionista abbia contribuito al verificarsi del danno, lo abbia aggravato o non ne abbia evitato il propagarsi. Rileva, invece, là dove il sanitario non abbia neutralizzato il danno o non ne abbia impedito l’insorgenza in vari modi (27): alcuni puntualmente stigmatizzati dai giudici: a) rendendo edotto il paziente dell’indisponibilità presso il nosocomio delle apparecchiature idonee alla corretta esecuzione dell’intervento, sì da permettergli di esercitare - salvo nei casi di intervento urgente - il diritto di scegliere con quale struttura concludere il contratto di spedalità - (si tratta di un’estensione del contenuto dell’obbligo di informazione in ambito sanitario, su cfr. Cass. 27 ottobre 2015, n. 21782 (28); Cass. 27 agosto 2014, n. 18304 (29)); b) trasferendolo presso altro nosocomio “più idoneo”, ove il trasporto sia possibile senza nocumento per il paziente e il trattamento non sia indifferibile (30); c) astenendosi “dall’operare ove le strumentazioni, apparecchiature od attrezzature che siano in tutta e lampante evidenza inadeguate alla cura dei pazienti e, dunque, potenzialmente pericolose per la loro salute” (Corte Conti, Sez. giur. Puglia, 15 gennaio 2001, n. 8); c) adottando soluzioni terapeutiche diverse rispetto a quelle astrattamente suggerite dalle linee guida e dalle buone prassi: disattendendole, dunque, sia pure con tutti i dubbi che derivano riguardo alla colpevolezza dal tenore letterale dell’art. 3 della legge Balduzzi in tema di colpa per (in)osservanza (31). losofia diritto, 2013, 31 ss. (22) Cfr. D. Carusi, Introduzione, in D. Carusi (a cura di), Davanti allo specchio. La persona, il diritto, la fine della vita, Torino, 2013, 13; G. Salito, Autodeterminazione e cure mediche. Il testamento biologico, Torino, 2012, 1-3 e passim. (23) R. De Matteis, Responsabilità e servizi sanitari. Modelli e funzioni, in Manuale di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia diretto da Galgano, Padova, 2003, XVVI, 293 e già Id., La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995, 1. (24) M. Rossetti, Errore, complicanza e fatalità: gli incerti confini della responsabilità civile in ostetricia e ginecologia, in questa Rivista, 2001, 13, che ha definito la responsabilità medica un macrocosmo, all’interno del quale convivono tanti sottosistemi quante sono le specializzazioni dell’arte medica. (25) U. Izzo, Il tramonto di un “sottosistema” della r.c.: la responsabilità medica nel quadro della recente evoluzione giurisprudenziale, in questa Rivista, 2005, 130. (26) R. De Matteis, La responsabilità medica, cit., 8. (27) Sul rischio che il fare affidamento sulla condotta correttiva del medico possa alleggerire o escludere la responsabilità della struttura cfr. M. Toscano, Il difetto di organizzazione: una nuova ipotesi di responsabilità? Nota a Tribunale di Monza del 7 giugno 1995, in Resp. civ. prev., 2005, 401. (28) In CED, 2015. (29) In Mass. Giust. civ. (30) Cfr. Cass. 13 luglio 2011, n. 15386, in Giust. civ., 2012, 2, 1, 406, con nota di P.Valore; Cass. 22 ottobre 2014, n. 22338, in Guida dir., 2015, 3, 36; Cass. 8 marzo 2016, n. 4540, in D&G, 2016, 9 marzo, con nota di R. Savoia, Non sussiste colpa medica se i macchinari tecnici dell’epoca non fornivano certezze. Per una ricostruzione più ampia cfr. E. Guerinoni, Attività sanitarie e responsabilità civile, in Corr. giur., 2013, All. 1, 3 ss. (31) Su cui cfr. ex multis M. Gorgoni, Colpa lieve per osservanza delle linee guida e delle pratiche accreditate dalla comunità scientifica e risarcimento del danno, in Resp. civ. prev., 2015, 173 ss., ove si sostiene che un comportamento diligente è quello che induce ad accertare la ricorrenza di soluzioni terapeutiche diverse rispetto a quelle adottate o a condurre un’analisi costi/benefici il cui esito potrebbe suggerire di disattendere le linee guida o indirizzare verso una metodologia diversa eseguibile con le dotazioni strumentali a propria disposizione o persino di astenersi dall’esecuzione dell’intervento ove al di sopra delle propria preparazioneo ineseguibile per carenze di mezzi tecnici. Cfr. però Cass. 3 marzo 1995, n. 2466, in Giur. it., 1996, I, 1, 91 con nota di D. Carusi, Responsabilità del medico, diligenza professionale, inadeguata dotazione della struttura ospedaliera, secondo cui “il comportamento dello specialista ortopedico che adotti pratiche terapeutiche diverse da quelle raccomandate dalla letteratura medica non è conforme al canone della perizia del medico professionista e determina responsabilità per inadempimento indipendentemente dalla circostanza che il sanitario non disponesse, presso la sua struttura ospedaliera, dei mezzi necessari per far ricorso alla migliore tecnica”. Danno e responsabilità 8-9/2016 809 Opinioni Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Responsabilità del medico Natura complessa della prestazione sanitaria Il quadro operazionale nel quale si inserisce la responsabilità nosocomiale è quello determinato dalla c.d. “riforma della riforma” sanitaria (attuata col D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502) che, imponendo l’obbligo di controllo della qualità delle prestazioni, in relazione ai diritti degli utenti, testimonia dell’avvenuto recepimento, a livello normativo, dell’idea che la prestazione sanitaria abbia un contenuto complesso e articolato che va oltre la prestazione terapeutica (32) e che ha evidenti e immediate ricadute sul versante della responsabilità, talché l’ente risponderà in via diretta, per fatto proprio (33), di cattiva organizzazione (34) - cioè del verificarsi di un danno, ascrivibile all’assenza di presidi terapeutici o a carenze organizzative; il nosocomio ha l’obbligo di garantire, infatti, personale medico, paramedico e ausiliario qualificato e in numero sufficiente e con una turnazione che sia in grado di assicurarne la costante presenza; coordinamento tra servizi e reparti; locali idonei ed attrezzati; apparecchiature moderne, appropriate e funzionanti; somministrazione di farmaci, vaccini, sangue ed emoderivati sicuri; assistenza post-ospedadaliera. Significa che, giusta l’autonomia organizzativa, amministrativa, contabile, tecnica e patrimoniale dell’ente ospedaliero, eventuali danni dovrebbero essere imputati direttamente ai suoi organi di governo (35) - e per i fatti colposi e dolosi di coloro di cui si avvale per svolgere le proprie prestazioni (36). È accreditato e diffuso il convincimento che la responsabilità dell’ente si differenzi da quella del singolo professionista quanto al contenuto e, soprattutto, quanto al criterio di imputazione: più esteso (32) Cass. 3 febbraio 2012, n. 1620, in Ragiusan, 2012, 8 febbraio. (33) Cass. 10 settembre 2010, n. 19277, in Ragiusan, 2011, 323. (34) E. Quadri, La responsabilità medica tra obbligazioni di mezzi e di risultato, in questa Rivista, 1999, 1167. (35) R. Cuccia, La responsabilità dell’azienda sanitaria da deficit organizzativo, in S. Aleo - D. De Matteis - G. Vecchio, Le responsabilità, cit., 1121 ss. (36) Cass. 26 giugno 2012, n. 10616, in Guida dir., 2012, 32, 73; Cass. 1° febbraio 2011 n. 2334, in Ragiusan, 2011, 323. (37) Negano che il nosocomio possa essere sottoposto alle regole valevoli per i comuni debitori: F. Cafaggi, Responsabilità del professionista, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVII, 1998, 192; A. Gabrielli, La r.c. del professionista: generalità, in P. Cendon (a cura di), La responsabilità civile, Torino, 1998, 305. (38) Non si deve tacere, peraltro, il rischio, aumentato dall’introduzione normativa degli indicatori di qualità, che una struttura possa dirottare altrove i casi clinici complessi, occupandosi, in tempi brevi e con buoni risultati, solo dei casi clini- 810 il primo, di carattere oggettivo il secondo. La conseguenza è che alla struttura è preclusa la possibilità di liberarsi provando di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, perché: a) su di essa ricade anche l’obbligo di intervenire per correggere l’errore professionale; b) ammesso che possa configurarsi da parte sua l’assunzione di un’obbligazione ultra vires - cioè di una obbligazione che non ha gli strumenti per adempiere (37) - la sua responsabilità sarà da accertare con criteri particolarmente rigorosi, in quanto si ritiene sia suo compito quello di provvedere agli investimenti adeguati, in termini di conoscenze ed apparati tecnologici, e necessari a svolgere l’attività professionale. In verità, non le basterebbe neppure provare di aver adottato gli standard minimi di efficienza imposti ex lege (38), perché non sarebbe al riparo da una valutazione ex fide bona (39). Per completare la descrizione del quadro regolamentare, occorre aggiungere che dall’inizio degli anni novanta, in coincidenza, quindi, con la riforma della riforma sanitaria, la responsabilità nosocomiale è la stessa a prescindere dalla natura pubblica o privata della struttura che eroga il servizio. Attraverso l’istituto dell’accreditamento, infatti, si è introdotta una sorta di concorrenza amministrata tra nosocomi pubblici e privati convenzionati, attuando, anche nel sistema sanitario, l’obiettivo dell’erogazione pluralistica dei servizi, votata astrattamente a consentire la libertà di scelta dell’utente. Pubblico e privato convenzionato, accreditato previo accertamento del possesso di precisi standard di qualificazione, si pongono tendenzialmente sullo stesso piano quanto agli obblighi di prestazione e di raggiungimento di standard di efficienza e di organizzazione (40): obblighi il cui adempimento doci semplici, soddisfacendo l’indicatore di qualità massimo rappresentato da una componente a fattori multipli, costituita dal numero di guarigioni ottimali col minor costo e nel periodo più breve: cfr. R Simone, La responsabilità della struttura sanitaria pubblica e privata, in questa Rivista, 2003, 5 ss. (39) M. Gorgoni, L’incidenza delle disfunzioni della struttura ospedaliera sulla responsabilità “sanitaria”, in Resp. civ. prev., 2000, 952 ss. (40) D. Dalfino, Dal convenzionamento all’accreditamento istituzionale, in Foro it., 1999, I, 2932; G. Barcellona, L’evoluzione dell’assetto organizzativo per l’erogazione delle prestazioni assistenziali sanitarie: dal sistema delle convenzioni a quello dell’accreditamento, in Sanità pubblica, 1998, 113 ss.; E. Sticchi Damiani, La concorrenza nell’erogazione dei servizi e le posizioni delle imprese private, ibidem, 2003, 929 ss.; V. Molaschi, Tutela della concorrenza, vincoli di spesa e rapporti tra Servizio sanitario nazionale e soggetti privati: una riflessione alla luce della riforma del Titolo V della Costituzione. Nota a Tar Milano, 29 ottobre 2003, in Foro amm., 2004, 1271. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Responsabilità del medico Dalla prima decisione, quella del Tribunale di Monza del 7 giugno 1995 (41), i passi fatti in direzione della affermazione della responsabilità della struttura sanitaria sono stati numerosi; non si era ancora arrivati, prima della evocata decisione del 2008, all’individuazione di un percorso condiviso in merito alla natura della responsabilità; alla possibilità che essa si configurasse indipendentemente da quella medica in senso stretto; alla distribuzione dell’onere della prova. A pesare erano due tesi. Da un lato, si credeva che la responsabilità della struttura partecipasse della natura “professionale” della responsabilità medica. Alla responsabilità della struttura sanitaria si applicavano, infatti, analogicamente le regole proprie della responsabilità del professionista (42). Dall’altro, l’orientamento più diffuso era che la struttura sanitaria ed il medico dipendente rispondessero dei danni occorsi al paziente a titolo diverso, rispettivamente contrattuale ed extracontrattuale: tesi, peraltro, tornata in auge dopo la riforma Balduzzi (43) e confermata dal DDl n. 2224/2016 sulla responsabilità professionale medica (cfr. sub nt. 18) (44); segno che dopo tutto l’evocazione dell’art. 2043 c.c. non era una svista, priva di rilevanza, come da molti sostenuto (45). Spesso, peraltro, la condanna risarcitoria prescindeva dall’individuazione del titolo di responsabilità ed anche quando esso appariva individuato, magari introducendo il concorso di responsabilità, si faceva fatica a capire se la responsabilità nosocomiale per i danni cagionati dai propri dipendenti fosse affermata sulla scorta dell’art. 1228 c.c. o dell’art. 2049 c.c. (46), in ossequio al principio, anch’esso in questo ambito largamente condiviso, che per assicurare un più elevato grado di protezione all’avente diritto si potessero invocare il cumulo o il concorso di responsabilità. Discusso era anche il criterio di imputazione della responsabilità, benché re melius perpensa sia davvero difficile pensare che vi siano differenze secondo che si invochi la responsabilità per colpa o quella oggettiva. Nella misura in cui, infatti, ci si apre alla possibilità che la colpa professionale, tipicamente soggettiva, venga riferita ad un’organizzazione (che certo non può essere considerata una sorta di medico collettivo o macroiatra (47)), la violazione degli obblighi non viene fatta dipendere dalla difformità della condotta rispetto a quella di un buon professionista in relazione alla fattispecie concreta (art. 1176, comma 2, c.c.), ma tende a coincidere (41) In Riv. it. med. leg., 1997, 476; in Resp. civ. prev., 1996, 389, non nota di M. Toscano, cit. (42) Cass. 5 gennaio 1979, n. 31, in Mass. Giust. civ., 1979; Trib. Vicenza 27 gennaio 1990, in Foro it. Rep., 1991, voce Responsabilità civile, n. 81; Trib. Verona 4 marzo 1991, in Rep. Foro it., 1992, voce Responsabilità civile. (43) In dottrina cfr. in tal senso G. Visintini, La colpa medica nella responsabilità civile, in Contr. e impr., 2015, 530 che sottolinea la volontà della legge Balduzzi di non porre sullo stesso piano la responsabilità della struttura e quella del singolo professionista. La prima risponde contrattualmente di tutte le disfunzioni; non così deve essere per il personale sanitario di cui deve essere provata una negligenza o una incompetenza professionale e quindi un comportamento illecito e rilevante ai fini dell’art. 2043. (44) Cfr. art. 7 del ddl n. 2224/2016, cit., il quale, dopo aver qualificato come contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e sociosanitaria pubblica e privata (la struttura privata non è quella accreditata, ma quella privata tout court) - la struttura risponde direttamente ai sensi dell’art. 1218 ed indirettamente, per fatto colposo o doloso degli esercenti la professione sanitaria, ai sensi dell’art. 1228 c.c. - chiarisce che l’esercente la professione sanitaria risponde ai sensi dell’art. 2043 c.c., anche se è stato scelto dal paziente ed anche se è dipendente dalla struttura (argomentando a contrario dal comma 1). Tale previsione solo in parte può ritenersi confermativa della scelta contenuta nella riforma sanitaria Balduzzi che stabilisce che gli esercenti la professione sanitaria che si siano attenuti alle linee guida e alle prassi scientifiche accreditate non sono penalmente responsabili per colpa lieve, rispondono però del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c. La formulazione della disposizione ha fatto emergere subito la equivocità del rapporto tra la responsabilità penale e quella risarcitoria; nel senso che è apparso controverso se le ricadute risarcitorie di cui si occupa la legge Balduzzi siano da mettere in relazione, in quanto ne rappresentino un pendant se non sostitutivo almeno bilanciante, con il nuovo arretramento della punibilità penale della colpa medica o se, avendo portata di carattere generale, ne prescindano. In sostanza, se il richiamo dell’art. 2043 c.c. è pertinente solo in caso di irresponsabilità penale per colpa lieve, i casi in cui ricorra una colpa grave o una colpa ordinaria a rigore dovrebbero essere sottratti all’art. 3, comma 1, della legge Balduzzi. Significa che possono essere regolati diversamente. Ed non solo dal diritto penale - la colpa lieve per osservanza esclude la punibilità, ma la colpa per inosservanza, a prescindere dalla sua intensità, non incide sull’an, bensì sul quantum - ma anche dal diritto civile, ove il diversamente rimanda al diritto vivente e quindi al contatto sociale qualificato ed al relativo regime contrattuale. In sintesi, i danni derivanti da colpa lieve cagionati dall’esercente la professione sanitaria che si sia attenuto alle linee guida e alle pratiche avvalorate dalla comunità scientifica sarebbero risarcibili solo alle condizioni di cui all’art. 2043 c.c., i danni cagionati con colpa grave soggiacerebbero agli artt. 1218 ss., agli artt. 2236 e 1176 c.c. Cfr. amplius M. Gorgoni, Colpa lieve, ult. loc. cit. (45) Per un approfondimento cfr. M. Gorgoni, Colpa lieve, ult. loc. cit. (46) Trib. Napoli 13 febbraio 1997, in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, 984, con nota di A. Lepre; Cass. 13 luglio 2011, n. 15394, in Guida dir., 2011, 33-34, 21 ss. (47) F. Galgano, Contratto e responsabilità contrattuale nell’attività sanitaria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1984, 720; A.M. Princigalli, Medici pubblici dipendenti responsabili come liberi professionisti?, in Foro it., 2008, I, 2302. vrebbe portare il servizio di qualità sanitaria alla certificazione secondo la norma ISO 9000. Passi in direzione dell’autonomizzazione della responsabilità nosocomiale Danno e responsabilità 8-9/2016 811 Opinioni Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Responsabilità del medico con la cattiva organizzazione professionale, ossia con una somma di anomalie di condotta tali che il carattere impersonale dell’accertamento del criterio di imputazione elimina i dubbi e facilita la prova. D’altro canto, anche la colpa professionale è vistosamente erosa dalla tendenza a regolare l’attività terapeutica secondo protocolli e linee guida che hanno ridotto gli ambiti di discrezionalità, standardizzato le regole tecniche e trasformato la diligenza, da criterio di valutazione di ciò che è necessario di volta in volta fare per soddisfare l’interesse creditorio, a misurazione oggettiva dello scostamento da regole tecniche precise e vincolanti (48). La prima tesi, quella della colpa riferibile anche alla struttura, era stata, peraltro, fonte di un’ulteriore conseguenza: la mancanza di autonomia della responsabilità della struttura sanitaria rispetto alla responsabilità medica in senso stretto, sicché quest’ultima, rivelatasi il presupposto dell’altra, finiva con l’assorbirla anche sotto il profilo del regime normativo applicabile, soprattutto relativamente alla distribuzione dell’onere della prova. La ricorrenza di un’obbligazione di natura professionale, peraltro, costituiva terreno fertile per ridare forza alla tralaticia distinzione obbligazioni di mezzo/obbligazioni di risultato, impiegata, soprattutto, in tema di ripartizione dell’onus probandi, per spostare sul paziente che assumeva di essere stato danneggiato buona parte del carico probatorio (49). La tendenza a considerare la responsabilità della struttura di tipo contrattuale era insidiata da tentennamenti, incertezze, fughe all’indietro. La qualificazione tipologica del contratto tra paziente e struttura era, difatti, incerta: talvolta, messane in luce l’atipicità, se ne sosteneva la riconducibilità allo schema generale della locatio operis più spesso al contratto di prestazione d’opera intellettuale, rispettivamente secondo che vi si riconoscesse o meno la ricorrenza dell’intuitus personae. L’alternativa - va da sé - non era esente da conseguenze, perché, in primo luogo, l’applicazione degli artt. 2229 ss. importava anche l’impiego dell’art. 2236 c.c. per distinguere gli interventi di facile da quelli di difficile esecuzione, ricorrendo i quali la responsabilità, secondo il convincimento tradizionale, si ritiene possa essere invocata solo in caso di dolo o colpa grave; in secondo luogo, la responsabilità della struttura non poteva essere affermata indipendentemente da quella concorrente del sanitario (50). Non a caso, solo con il consolidamento dell’orientamento che punta l’accento sulla natura complessa della prestazione contrattuale gravante sulla struttura - comprendente la fornitura di alloggio e di vitto, la disponibilità di attrezzature adeguate, la sicurezza degli impianti, l’organizzazione di turni di assistenza adeguati, la custodia del paziente, la vigilanza del reparto - riconducibile al contratto atipico di spedalità, diverrà possibile riconoscere la responsabilità autonoma dell’ente, ex artt. 1218 e 1176 c.c., a prescindere da quella terapeutica in senso stretto. Benché risolto un profilo incerto, altri immediatamente sopravvengano. Primo su tutto quello dell’esatta individuazione di ciò che costituisce prestazione, in vista del soddisfacimento dell’interesse creditorio (51), tenuto conto che la salute non è più declinabile solo in senso medicale, ma sempre più frequentemente in senso identitario (52). (48) M. Gorgoni, Colpa lieve, op. ult. cit. (49) M. Gorgoni, Dalla matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale, op. ult. cit. (50) Cass. 8 maggio 2001, n. 6386, in questa Rivista, 2001, 1045 ss. con commento di R. Breda, La responsabilità della struttura sanitaria tra esigenze di tutela e difficoltà ricostruttive, secondo cui la responsabilità del nosocomio postula sempre le responsabilità del medico esecutore. (51) L’art. 5 del ddl n. 2224/2016 in qualche modo sembra accreditare tale distinzione, giacché sottopone ad un regime diversificato “l’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative e riabilitative”. Si è voluto sottoporre ad un trattamento diverso l’esercizio della professione sanitaria quando la prestazione abbia finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative verosimilmente perché si è preso atto che l’attività sanitaria non ha solo funzione salvifica e che solo quando ce l’ha è opportuno allargare gli spazi di irrilevanza penale della condotta. (52) R. Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 69. 812 La sistemazione concettuale ed operativa della responsabilità nosocomiale operta dalle Sezioni unite nel 2008 Saranno le Sezioni Unite con la decisione (11 gennaio 2008, n. 577) a sottoporre a sistemazione l’intera materia; l’occasione fu la richiesta risarcitoria di un paziente, che lamentava di aver contratto l’epatite C a seguito di una trasfusione di sangue infetto eseguita presso una clinica privata: richiesta che in primo ed in secondo grado era stata respinta, sempre per la identica ragione, per il difetto di prova dell’esistenza di un nesso di derivazione causale tra l’epatite C e la emotrasfusione. In particolare, i giudicanti lamentavano il fatto che l’attore non avesse dimostrato di non essere affetto dalla patologia prima del ricovero nella clinica ove fu eseguita l’emotrasfusione e negavano che il parere contrario, espresso, ex art. 4 della L. n. 210/1992, Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Responsabilità del medico dalla Commissione medico-ospedaliera, avesse valore probatorio. Il collegio di legittimità, aderendo all’opzione contrattualistica della responsabilità sanitaria, ne fece derivare, in tema di onere della prova, la coerente applicazione della regola per cui il paziente deve solo allegare l’inadempimento, causa del danno, e non provare, come invece preteso dai giudici di merito, di non essere affetto dall’epatite C prima dell’intervento. Al più, si precisò, l’allegazione dovrà riguardare non un generico inadempimento, bensì un inadempimento qualificato, cioè avente, sulla base di un giudizio prognostico astratto, apporto causale efficiente al verificarsi proprio del danno lamentato. Occorre, perciò, “calibrare l’esatta definizione del concetto di inadempimento”, giacché gli aspetti legati ai caratteri strutturali dell’ente in quanto tali non presuppongono, ma neppure escludono, la responsabilità del professionista, del cui operato l’ente stesso sia chiamato a rispondere ex art. 1228 c.c., laddove lo si consideri inadempiente per fatto dei suoi ausiliari (in questo senso cfr. art. 6 del DDL sulla responsabilità professionale sanitaria) (53), ovvero ex art. 2049 c.c., ove venga condannato in quanto committente (54). C’è un altro dato che merita di essere segnalato, il nosocomio risponderà sì per inadempimento, ma la fonte dell’obbligo, almeno per la struttura pubblica e per quella convenzionata accreditata, sarà il contatto sociale. Da quando la Corte di cassazione ha accolto la tesi del contatto sociale (Cass. 22 gennaio 1989, n. 589 (55)), contrattualizzando forzatamente il regime di responsabilità, la strada verso l’attrazione della responsabilità entro i confini regolamentari degli artt. 1218 ss. c.c. è stata tutta in discesa, parallelamente, quanto al tema che ci riguarda, la giurisprudenza ha proceduto in direzione dell’accertamento della responsabilità della struttura sanitaria per deficienze organizzative e di dotazioni tecniche (Trib. Milano 9 gennaio 1997 (56)), per il malfunzionamento delle apparecchiature (Trib. Genova 30 ottobre 1998 (57)), per la inappropriata turnazione del personale (Trib. Varese 16 giugno 2003 (58)), per infezioni contratte durante la degenza nosocomiale (qui le condanne sono più numerose (59), dopo Cass. 18 aprile 1966, n. 972 (60), che ha fatto da apripista (61); soprattutto se vi si ricomprendono i danni derivati dall’uso di emoderivati infetti, per mancata vigilanza (62)). E a mano a mano che cadevano gli ostacoli alla contrattualizzazione, la responsabilità della struttura acquistava autonomia, si emancipava da quella medica, pur condividendo molte delle coordinate operazionali, fino a convergere, dal punto di vista giurisprudenziale, in un’unica regola: la struttura risponde a titolo contrattuale come il medico dipendente, in virtù della ricorrenza di un contatto sociale (63). La tesi del contatto sociale ha persuaso la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, benché non siano mancate ricostruzioni differenti: oltre a quelle che ancora coinvolgono struttura e medico dipendente a titolo diverso (contrattuale ed extracontrattuale), tornata di attualità dopo la riforma Balduzzi, vi sono state decisioni che hanno escluso la possibilità di applicare la tesi del contatto sociale al medico fuori del caso che egli svolga attività libero-professionale intramuraria, differenziando i titoli di responsabilità (App. Venezia 16 giugno 2005 (64)), altre che hanno invocato lo schema dell’obbliga- (53) Trib. Napoli 14 gennaio 2016, Trib. Lucca 18 dicembre 2015, Trib. Bari 1° ottobre 2015, Trib. Bari 27 maggio 2015, in www.dejure.it. (54) Cass. 28 luglio 2015, n. 15860, in Mass. Giust. civ. 2015; Cass. 1° settembre 1999, n. 9198, in Mass. Giust. civ., 1999; Trib. Napoli 15 febbraio 1995, in Foro nap., 1996, 76; Trib. Milano 20 ottobre 1997, in Resp. civ. prev., 1998, 1144. (55) In questa Rivista, 1999, 294 e 777, con note, rispettivamente, di V. Carbone, La responsabilità del medico ospedaliero come responsabilità da contatto e di R. De Matteis, La responsabilità medica tra scientia iuris e regole di formazione giurisprudenziale; in Contratti, 1999, 441 e 999, con note, rispettivamente, di A. Di Majo, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione e di E. Guerinoni, Obbligazione da “contatto sociale” e responsabilità contrattuale nei confronti del terzo. (56) Trib. Milano 9 gennaio 1997, in Resp. civ. prev., 1997, 1220, con nota di M. Toscano, Un nuovo passo verso il riconoscimento del difetto di organizzazione dell’ente ospedaliero come fonte autonoma di responsabilità. (57) Trib. Genova 30 ottobre 1998, in Resp. civ. prev., 1999, 997, con nota di M. Gorgoni, Disfunzioni tecniche e di organiz- zazione sanitaria e responsabilità professionale medica. (58) In questa Rivista, 2004, 891, con nota di Cr. Amato, Note a margine di un caso di responsabilità (autonoma) della struttura ospedaliera. (59) Cfr. M. Sarra - L. Di Donna - F. Massoni - E. Onofri - S. Ricci, La responsabilità professionale nelle infezioni nosocomiali, in Corr. giur., 2012, 839 ss.; F. Donelli (a cura di), Responsabilità medica nelle infezioni nosocomiali, Rimini, 2014. (60) In Resp. civ. prev., 1966, 60. (61) Cfr. Cass. 1° dicembre 2010, n. 24401, in Ragiusan, 2011, 323. (62) Trib. Bari 21 febbraio 2012 e Cass. 8 maggio 2012, n. 6914, in Riv. it. med. leg., 2013, 1056, con nota di I. Sardella, Quale responsabilità della struttura per i gesti auto lesivi del paziente: giurisprudenza di merito e di legittimità a confronto. (63) Cass. 13 aprile 2007, n. 8826, in Corr. giur., 2007, con annotazione di V. Carbone, Responsabilità contrattuale del medico strutturato. (64) In questa Rivista, 2006, 393, con nota di G. Guerra, Obbligazione da “contatto sociale” nell’attività del chirurgo subordinato: una prima smentita. Danno e responsabilità 8-9/2016 813 Opinioni Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Responsabilità del medico zione soggettivamente complessa con prestazione indivisibile ad attuazione congiunta (Trib. Firenze 10 marzo 2015, Trib. Roma 7 gennaio 2015 (65)). Vi è un’altra possibilità però che è stata trascurata: quella di considerare la legge tra le fonti di obbligazione. Lo ha fatto, indirettamente, la Corte di cassazione quando, chiamata a decidere di un regolamento di competenza, nell’ordinanza n. 8093 del 2 aprile 2009 (66), ha affrontato la questione del se il paziente che si rivolge ad una struttura sanitaria pubblica possa essere considerato consumatore, con tutti i corollari che ne derivano dal punto di vista normativo: il cittadino, afferma la corte, che chiede una prestazione in esenzione da ticket al Servizio Sanitario Nazionale, esercita un diritto soggettivo pubblico riconosciutogli direttamente dalla legge e che la legge stessa prevede debba essere soddisfatto a richiesta dall’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale o direttamente o attraverso la struttura in convenzione, imponendo essa stessa la relativa prestazione. Il rapporto che si instaura con la struttura sanitaria pubblica o convenzionata rappresenta l’attuazione di questo obbligo di prestazione e non suppone la stipula, nemmeno tacita, di un contratto. In altri termini, quando il cittadino-utente si rivolge alla struttura sanitaria pubblica o in convenzione, “la ricezione della sua richiesta e la conseguente attivazione della struttura non danno luogo alla conclusione, nemmeno per fatto concludente, di un contratto, ma realizzano l’attuazione dell’obbligazione della mano pubblica di fornire il servizio. Tale attuazione non avviene mediante la riconduzione del rapporto allo schema del contratto, del quale non solo non vi sono i presupposti giustificativi a livello normativo (...), ma neppure vi sono i presupposti fattuali che potrebbero comunque fare emergere la figura del contratto (...)”. L’assenza del contratto non impedisce, dunque, l’applicazione della responsabilità contrattuale, po- sto che tale responsabilità significa che l’inadempimento discende da un obbligo preesistente o dalla sua cattiva esecuzione. L’espressione “responsabilità contrattuale” viene usata cioè per designare non la responsabilità che presuppone un contratto, ma la responsabilità che nasce dall’inadempimento di un rapporto preesistente a carico del SSN. In altri termini, si fa breccia la possibilità di aderire alla tesi secondo cui la responsabilità della struttura è contrattuale in ragione del fatto che la legge pone a carico del SSN un’obbligazione a favore dell’utente il cui inadempimento è sanzionato ex artt. 1218 ss. c.c. Si tratta di una conclusione in linea con la tendenza a moltiplicare le obbligazioni di fonte legale soprattutto nel campo vasto e variegato della responsabilità della P.A., dove sempre più di frequentemente si invoca la violazione di obblighi, specie di quelli inerenti al procedimento e di quelli desunti dalla buona fede, così da potere ricorrere alla disciplina degli artt. 1218 ss. c.c. L’innesto della responsabilità contrattuale nell’obbligo rappresenta una scelta dogmatica più moderna e feconda, anche perché in grado di offrire una giustificazione e una disciplina a fenomeni di incerta collocazione nell’ottica precedente, quali i danni da violazione di obblighi ex lege e i danni da vanificazione di un affidamento legittimo (67). Una spinta ulteriore in tale direzione è stata impressa dalla più recente ordinanza della Corte di cassazione, la n. 27391 del 24 dicembre 2014 (68). La questione era ancora una volta quella del se il paziente potesse essere considerato consumatore ai fini della competenza territoriale. Tra le argomentazioni addotte a sostegno del dubbio che non lo fosse vi era proprio quella relativa alla qualificazione in termini aquiliani della responsabilità medica, introdotta ed avallata dalla riforma Balduzzi. La Cassazione aderisce alla tesi contrattualistica, facendo proprio quell’atteggiamento riduzionististico della portata innovativa della riforma Balduzzi (la (65) In www.dejure.it. Si tratta di ipotesi nelle quali viene configurato un concorso di responsabilità tra la struttura e il medico e il rapporto tra i condebitori viene qualificato in termini di solidarietà senza specificazione delle rispettive quote di responsabilità. (66) In Foro it., 2009, 10, I, 2683 ss.; in Corr. giur., 2009, 5, 613 ss., con nota di V. Carbone, Servizio sanitario nazionale e consumatore; in Resp. civ. prev., 2009, 1291 ss., con nota di D. Chindemi, Il paziente di una struttura sanitaria pubblica non è “consumatore” e l’azienda non è “professionista”; in Nuova giur. civ. comm., 2009, 1069 ss. con nota di L. Klesta Dosi, Foro del consumatore e relazione di assistenza sanitaria: una soluzione equa nonostante tutto; in Resp. civ., 2009, 918 ss., con nota di D. Nardi, Il foro competente per la lite tra struttura sanitaria e paziente; in questa Rivista, 2010, 56 ss., con nota di A. M. Be- nedetti - F. Bartolini, Utente vs servizio sanitario: il “no” della Cassazione al foro del consumatore; in Giust. civ., 2010, I, 973 ss., con nota di A. Lamorgese, La tutela consumeristica dell’utente del S.S.N. Nello stesso senso cfr. Trib. Lecce, Sez. dist. Tricase, 17 aprile 2008, in Giur. it., 2009, 601 ss., con nota di V. Lubelli, Considerazioni sulla tutela del paziente come consumatore. (67) Così S. Mazzamuto, Le nuove frontiere della responsabilità contrattuale, in Europa dir. priv., 2014, 713 ss. (68) In Resp. civ. prev., 2015, 836, con nota di M. della Corte, Foro del consumatore e responsabilità sanitaria: approcci applicativi, che sottolinea la preoccupazione pressoché esclusiva della Corte di cassazione di liquidare la questione della natura extracontrattuale della responsabilità del medico introdotta dalla miniriforma sanitaria targata Balduzzi. 814 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Responsabilità del medico quale sembra premiare il medico che si sia attenuto alle linee guida e alle buone prassi garantendogli l’immunità penale per colpa lieve, ma non esonerandolo affatto dall’obbligo risarcitorio; sul titolo della responsabilità la legge Balduzzi sarebbe tamquam non esset (69)), ribadisce la propria posizione riguardo alla possibilità di applicare la disciplina consumeristica, ma nel caso di specie, ammette che il paziente, avendo beneficiato a titolo oneroso di servizi aggiuntivi rispetto a quelli previsti dal SSN sopportandone i relativi costi, sia da considerarsi consumatore (70). (69) Solo nella giurisprudenza di merito cfr.: Trib. Arezzo 14 febbraio 2013, in questa Rivista, 2013, 367 ss., con nota di V. Carbone, La responsabilità del medico dopo la Legge Balduzzi, Trib. Rovereto 29 dicembre 2013, ibidem, 378 ss.; Trib. Bari 18 marzo 2013, ibidem, 841 ss.; Trib. Caltanisetta 1° luglio 2013, in Resp. civ. prev., 2013, 1980 ss., con nota di C. Scognamiglio, La natura della responsabilità del medico inserito un una struttura ospedaliera nel vigore della l. n. 189/2012; Trib. Cremona 19 settembre 2013, n. 593, in Assicurazioni, 2013, 53 ss.; Trib. Brindisi 18 luglio 2014, in Guida dir., 2014, 44, 33 ss.; Trib. Milano 20 febbraio 2015, n. 2336, in Resp. civ. prev., 2015, 163-166. (70) L’art. 7 del ddl n. 2224/2016, cit., qualificando come contrattuale la responsabilità nosocomiale, non esclude tale conclusione, perché non contiene alcun riferimento alla fonte dell’obbligo da cui nasce la prestazione a carico della struttura. In verità non si parla né del contratto atipico di spedalità, né di contatto sociale. Che si interessi unicamente della disciplina applicabile in caso di inadempimento è confermato altresì dall’aver posto sullo stesso piano strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private. Danno e responsabilità 8-9/2016 815 Opinioni Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Responsabilità del medico Natura della responsabilità La responsabilità medica: dal primato della giurisprudenza alla disciplina legislativa di Giulio Ponzanelli (*) L’A, ripercorre dapprima l’evoluzione giurisprudenziale in tema di responsabilità medica e la progressiva adozione di regole sempre più rigorose nei confronti della struttura sanitaria, analizzando poi le principali novità normative (legge Balduzzi e Disegno di legge Gelli-Bianco) volte a introdurre un migliore equilibrio tra diritti del paziente e posizione degli esercenti la professione sanitaria La proposta di Direttiva sulla responsabilità del prestatore di servizi intellettuale Uno sguardo al passato remoto, anche se sono passati poco più di venticinque anni. Dopo l’approvazione della Direttiva, che aveva fissato una responsabilità uniforme a carico del produttore di beni di consumo (Dir. 25 luglio 1985, n. 374, poi implementata in Italia con il d.P.R. 22 maggio 1988, n. 224, e alla fine confluita nelle norme dedicate al tema della Responsabilità del produttore contenute nel Codice del Consumo), il Consiglio di Europa (9 novembre 1990) propose di ampliare la disciplina uniforme in tema di responsabilità civile estendendola anche alla categoria del professionista intellettuale (1). La proposta di Direttiva contemplava una responsabilità a carico del prestatore di servizi intellettuali, che poteva essere superata, se il prestatore di opera fosse riuscito a provare che la sua condotta, anche se fonte di pregiudizio, fosse stata rispettosa delle regole dell’arte, applicabili a quella determinata professione. Una sorta di responsabilità oggettiva, quindi, con una sostanziale inversione dell’o(*) Queste pagine riproducono, con l’ausilio di note essenziali, l’intervento tenuto a Roma il 27 novembre 2015, in occasione dell’incontro di studio organizzato per celebrare i primi venti anni di vita di Danno e responsabilità sul tema “ La responsabilità sanitaria: necessità di una riforma?”. (1) Per un primo esame delle più importanti caratteristiche della proposta di Direttive cfr. F.D. Busnelli - F. Giardina - G. 816 nere della prova, e tale trasferimento era giustificato dal generale principio della vicinanza della prova. In sostanza: nella responsabilità da prodotto è il consumatore a dover dimostrare il difetto del prodotto (2); nella responsabilità professionale è il professionista a dover provare l’assenza di “difetto” nella propria prestazione. Ad una analisi attenta, quindi, si trattava di un regime di responsabilità quasi più severo di quello introdotto a carico del produttore di un bene di consumo. Era un Consiglio di Europa molto attratto dal modello di responsabilità oggettiva, che, a torto o a ragione, a quel tempo era considerato quale criterio di imputazione più idoneo sia a conseguire l’obiettivo della riparazione del danno sia a incidere sul livello di condotta del potenziale danneggiante. La proposta di Direttiva fu subito oggetto di pesanti attacchi da parte di tutte le categorie dei professionisti intellettuali, i quali fecero diffondere una voce decisamente contraria all’introduzione di un regime che fu considerato, quali che fossero le opinioni dissenzienti, troppo severo nei confronti del professionista intellettuale. Ponzanelli, Le responsabilità del prestatore di servizi nella proposta di direttiva comunitaria del 9 novembre 1990, in Quadr., 1992, 426 ss. (2) Cfr. da ultimo Cass. 19 febbraio 2016, n. 3258 che affronta il caso specifico di danni causati dal flacone di candeggina. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Responsabilità del medico In altri termini, la proposta disciplina avrebbe potuto creare una sorta di paralisi nel normale esercizio delle professioni intellettuali. Essa avrebbe inesorabilmente determinato l’insorgere di gravi inconvenienti già palesi nell’esperienza nordamericana di un ventennio precedente (e cioè, più distintamente: un eccessivo risarcimento a favore dei clienti, soprattutto dei pazienti nel settore delle prestazioni mediche; un’eccessiva pressione sulla condotta esigibile da parte degli stessi professionisti, nonché, da ultimo, la fuga dal mercato delle imprese di assicurazione, che, a causa dei costi eccessivi delle perdite (losses) ricollegabili ai sinistri coperti dalla garanzia assicurativa a loro carico, avrebbero conseguentemente incrementato i premi, con le inevitabili conseguenze negative derivanti dalle condizioni di non sostenibilità dei premi stessi). Le “corporazioni” dei tanti professionisti (e non solo, quindi, dei medici), che erano contrarie alle regole di responsabilità di una tale linea normativa, ebbero la meglio: la proposta non oltrepassò mai un tale livello; e fu poi ritirata. Ebbene, in Italia, la situazione attualmente esistente - quasi tutta elaborata a livello giurisprudenziale - è esattamente identica a quella contenuta nella proposta di Direttiva di quasi ventisei anni anni orsono. Sebbene, in seguito al ritiro della proposta di Direttiva, si fosse implicitamente rimasti fedeli al principio jheringhiano “nessuna responsabilità senza colpa”, il regime elaborato dalla giurisprudenza, soprattutto in tema di responsabilità medica (3), si è progressivamente avvicinato a quello caratterizzato da un criterio di responsabilità che nulla a più a che fare con il regime della colpa e che presenta forte similarità con un regime di responsabilità oggettiva seppur relativo, o in ogni caso con un regime di responsabilità aggravato dall’evento. Conferma, questa, se mai ce ne fosse stato bisogno, che le regole della responsabilità civile sono fortemente allergiche alle determinazioni legislative e presentano un’irrinunciabile vocazione giurisprudenziale. Senonché, le regole che sono state elaborate per il diritto particolare delle professioni intellettuali, e che sono poi diventate il diritto generale delle obbligazioni, stanno creando molti problemi non so(3) Tanto che una delle più ricorrenti domande che si sollevano in questa materia è se lo “statuto” giurisprudenziale applicato al professionista medico possa essere esteso anche agli altri professionisti intellettuali: cfr., per alcune condivisibili osservazioni, P. Trimarchi, Responsabilità professionale dell’av- Danno e responsabilità 8-9/2016 lamente alla classe medica ma anche alle imprese di assicurazioni; e non è detto che abbiano contribuito al miglioramento delle condizioni dei pazienti. Come più chiaramente si avverte relativamente al quantum del risarcimento, anche sotto il profilo della responsabilità si conferma che le regole della r.c. non possono non prestare attenzione anche ai costi sociali: ogni aggravamento della responsabilità comporta infatti un maggior onere della garanzia assicurativa e una conseguente maggiore difficoltà per la classe medica di munirsi di una polizza assicurativa (4). La più forte responsabilità provoca, inoltre, un atteggiamento di grande prudenza della classe medica che poi sfocia e si concretizza in quella politica di medicina difensiva (attiva o passiva) che ha raggiunto costi inusitati nel bilancio delle aziende sanitarie e che tutti vorrebbero ridurre e/o contenere, con la proposta, peraltro, di rimedi assai divergenti. Come si è anticipato, lo stesso fenomeno si verifica sotto il profilo del quantum del danno: che tutti vogliono sempre più “giusto”; e che in una responsabilità civile - sempre più “assicurata” - non può che essere “finanziato” dal livello dei premi assicurativi gravanti su tutti i possibili danneggianti. Con la conseguenza che un livello più alto di risarcimento non potrà che determinare un livello più alto di premi. E chi non si avvede di questo processo - o lo reputa non giuridicamente rilevante - fa davvero un esercizio di miopia culturale. Dal 1999 al 2012: le tappe di una escalation in tema di responsabilità medica Come si è premesso, in meno di venti anni il sottosistema di responsabilità civile del professionista intellettuale medico si è mutato in un sistema cripticamente oggettivo, ovvero, in ogni caso, in un sistema di responsabilità con un’inversione dell’onere della prova (qualora in tal modo possa essere definita la responsabilità basata sull’art. 1218). Si è applicato lo schema dell’art. 1218 ritenuto compatibile non solo in presenza di un vero e proprio contratto, ma anche sussistendo un semplice contatto sociale tra medico e paziente (“responsabilità da contatto sociale”) determinato dallo svolgimento dell’attività del medico all’interno delle struttuvocato: attuali prospettive, in Speciale Corr. giur., Suppl. n. 12/2014, 5. (4) Indaga ora questi temi, M. Gazzara, L’assicurazione di responsabilità civile professionale, Napoli, 2016. 817 Opinioni Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Responsabilità del medico re sanitarie. In virtù del generale principio della vicinanza della prova, si è trasferito sulla struttura sanitaria e sul medico l’onere della prova di dimostrare il rispetto delle regole dell’ente e dei relativi protocolli. E aver posto la vicinanza della prova sul professionista e sulla struttura significa, evidentemente, estendere l’area di responsabilità del professionista anche nei casi spesso frequenti di causalità incerta (5). Allo stesso modo, la separazione tra il nesso di causalità civile e penale e l’applicazione in diritto civile del principio del “più possibile che non” ha comportato l’allargarsi della regola generale di responsabilità, rispetto alla situazione pregressa dominata dal principio della causalità adeguata. E lo stesso effetto si è poi prodotto anche in seguito al superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, così come a causa del modo, assai funzionale, con il quale è stata fissata la decorrenza del termine prescrizionale: non più da quando è stato commesso il fatto, ma diversamente da quando si è verificata la percezione del fatto da parte del danneggiato, conoscenza basata più su basi soggettive tuttavia che non oggettive. E si deve considerare, inoltre, l’incremento delle singole voci del danno, soprattutto non patrimoniale. Insomma, l’azione combinata di tutti questi fattori (in particolare: la distribuzione di carichi probatori sbilanciati in favore del paziente danneggiato; l’adozione di criteri assai generosi nell’accertamento del nesso di causa, specialmente con riguardo al settore della responsabilità, la condotta omissiva) ha provocato la nascita di un regime di responsabilità completamente diverso da quello che esisteva alla fine del secolo scorso. Ma la giurisprudenza, che ha provocato questa trasformazione, non è stata capace di controllare e/o di riequilibrarne le conseguenze ulteriori, e, quasi inesorabilmente, ha provocato l’intervento legislativo. Il “sottosistema” della responsabilità medica ha subito, quindi, iniziative dirette del legislatore che sono state principalmente orientate alla tutela del medico, con la previsione di speciali meccanismi di esonero e di limitazione della responsabilità risarcitoria collegata alla commissione di una colpa medica o sanitaria. I primi tentativi di intervento risalgono alla legge c.d. Balduzzi (legge 2012, n. 189), che ha introdotto tre principali misure volte a rallentare l’impetuosa crescita della responsabilità civile nell’ambito sanitario. La prima esclude la responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria nei casi in cui lo stesso abbia seguito e rispettato i protocolli e le linee guida: non si è cioè responsabile penalmente in presenza di una colpa lieve. Si vuole, quindi, proteggere l’esercente la professione sanitaria, a livello penale, anche se la tripartizione del grado di colpa è propria del diritto civile e non tanto del diritto penale. Sono convinto che di responsabilità medica si parla soprattutto in sede civile, ma, se ancora fosse presente un rilevante numero di casi sottoposto all’esame della magistratura penale, l’esercente la professione sanitaria potrebbe godere, in quella sede, di un tale esonero dalla responsabilità. L’esonero in quella sede, non potrà valere per la responsabilità civile, in quanto per essa rimane applicabile l’art. 2043, anche se nella misura del risarcimento del danno si dovrà tener conto della condotta del medico che ha comunque rispettato il protocollo e le linee guida, in una prospettiva di riduzione del carico risarcitorio. Questa seconda novità è stata quella sulla quale si è avuto il più rilevante contributo giurisprudenziale: da una parte, le Corti italiane, come anche la dottrina, hanno accolto letture interpretative confliggenti: favorevoli, da un lato, a modificare il regime di responsabilità gravante sull’esercente la professione sanitaria da contrattuale ad extracontrattuale (basandosi sul riferimento testuale all’art. 2043); professando, dall’altro, la massima fedeltà al modulo della responsabilità contrattuale basata sul contratto sociale perché la lettera della legge non poteva esser giudicata adeguata a un cambiamento così importante in termini di tutela riconosciuta al paziente. Chi ha proposto una lettura coerente non solo con la formulazione letterale dell’art. 3 della legge Balduzzi ma anche con la sua ratio sostanziale, volta ad alleggerire la responsabilità dell’esercente la responsabilità sanitaria, è stato pesantemente censurato come sostenitore di un’interpretazione quasi (5) Su cui vedi la bella monografia di R. Pucella, La causalità “incerta”, Torino, 2007, nonché quella successiva di L. Nocco, Il sincretismo causale e la politica del diritto: spunti dalla responsabilità sanitaria, Torino, 2010. 818 I primi interventi legislativi: la legge Balduzzi del 2012 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Responsabilità del medico abrogante dell’evoluzione giurisprudenziale, che avrebbe inesorabilmente danneggiato il paziente. Le critiche però, oltre che infondate (a una veloce comparazione tra i due regimi di responsabilità, quello contrattuale si fa preferire soprattutto per i vantaggi collegati all’onere della prova, oltre che a quello della prescrizione, ma il tutto si ridimensiona ricordando che nelle controversie di responsabilità medica è sempre imprescindibile la nomina del consulente tecnico d’ufficio che dovrà accertare la sussistenza della colpa del medico) dovranno cessare con l’introduzione della nuova disciplina in tema di responsabilità medica attualmente in fase di approvazione nelle competenti sedi parlamentari. La scelta legislativa sembra univoca: la responsabilità della struttura sanitaria rimarrà contrattuale, mentre quella dell’esercente la responsabilità sanitaria, extracontrattuale. E le due responsabilità potranno concorrere ex art. 2055 c.c. La terza novità della Balduzzi è stata di applicare al risarcimento del danno causato da responsabilità medica i criteri di determinazione previsti nel settore della circolazione auto (gli articoli 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni). Chiaro l’intento di limitare la responsabilità risarcitoria del medico, ma dubbia pare la sua giustificazione: r.c. auto e r.c. medica paiono infatti settori davvero poco omogenei e troppo distanti reciprocamente. Non solo: nella r.c. auto vige un sistema assicurativo obbligatoriamente bilaterale, che invece non è previsto nel sistema di r.c. medica. Soprattutto, però, l ‘intento di apprestare una migliore tutela al paziente si scontra con il fatto che, nonostante siano decorsi oltre dieci anni, la tabella unica nazionale non è stata ancora implementata e per le lesioni di maggiore entità, quelle, cioè, che comportano un maggior carico risarcitorio, si applicano ancora le tabelle milanesi che, a detta dei più, dovrebbero realizzare il principio di integrale riparazione del danno (6). L’“aiuto” della Balduzzi è limitato quindi alle lesioni di lieve entità, dove, normalmente, il medico medio dovrebbe essere in grado di fronteggiare il carico risarcitorio, anche se non fosse provvisto di una propria garanzia assicurativa. L’insufficienza degli interventi attivati dalla legge Balduzzi, la grande foga del mercato della medical malpractice attuata dagli assicuratori (dopo che all’inizio degli anni novanta lo stesso mercato aveva conosciuto la comparsa di tante imprese assicuratrici, soprattutto straniere) e gli enormi costi collegati all’introduzione della medicina difensiva attiva e passiva hanno spinto il legislatore a cercare una riforma più larga, tale da determinare un sempre maggiore livello di protezione e di sicurezza della cura. Le possibili soluzioni da adottare non sono infinite e non è detto che esse possano realizzare gli obiettivi di politica del diritto perseguiti, rappresentati sostanzialmente da una diminuzione della pressione sulla condotta dei medici, dalla maggiore disponibilità di garanzie assicurative per la struttura e dai vantaggi di spesa causati dal dilagare della medicina difensiva. Intanto va detto che il fenomeno della medicina difensiva e della maggiore disponibilità di garanzie assicurative non si può certo risolvere con l’introduzione di una nuova normativa. Il processo legislativo non solo non è facile per la pluralità degli interessi che deve necessariamente essere presa in considerazione e che nel settore della responsabilità medica è più affollata di altri (medici, strutture, Stato, paziente, assicurazioni), ma non può essere dotato di capacità persuasiva risolutiva. Il disegno di legge, a differenza di tutti quelli proposti nelle precedenti legislature, si muove da una regola di responsabilità quasi oggettiva a carico della struttura e dell’esercente la professione medica (poco cambia se contrattuale o extracontrattuale). Si poteva perseguire delineando un quadro svincolato dalla regole di responsabilità civile e tendente a identificarsi con un piano di sicurezza sociale (c.d. “no fault”: il risarcimento integrale viene sostituito da un indennizzo, e il carico economico imposto su tutti i consociati tramite un indifferenziato carico fiscale). Non si è voluto adottare quei modelli, ma sono stati inseriti momenti non propri del regime di responsabilità civile tradizionali. In sintesi: a) si prevede, conferendo la scelta già effettuata con la legge Balduzzi, l’obbligo assicurativo a carico della struttura e dell’esercente la professione sani- (6) Sull’art. 138. non ancora implementato, si segnala l’interpretazione della Cass. 20 aprile 2016, n. 7766, con la quale la III Sezione ritiene che la limitazione prevista nell’art. 138 ri- guardi solo e unicamente il danno relazionale, mentre rimarrebbe libera la determinazione del danno morale, anche nella sua concreta quantificazione. Danno e responsabilità 8-9/2016 La riforma generale della responsabilità medica 819 Opinioni Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Responsabilità del medico taria. Non viene previsto un obbligo bilaterale a carico dell’impresa di assicurazione, come accade nel settore della r.c. auto; b) si prevede, come nel sistema di r.c. auto, l’azione diretta verso la compagnia di assicurazione da parte del danneggiato, così determinando una omogeneità poco persuasiva di regole tra r.c. auto e responsabilità medica; c) si prevede l’istituzione di un fondo di garanzia, evidentemente finanziato dalle strutture sanitarie e dall’esercente la professione sanitaria tramite i contratti assicurativi, destinato a intervenire quando l’impresa di assicurazione sia l.c.a. (chiara è l’influenza delle vicissitudini che hanno riguardato la compagnia assicurativa “Il Faro”) o quando il danno subìto abbia superato il limite del massimale previsto. Non si è cioè attuato completamente un sistema no fault, ma la presenza di un obbligo assicurativo (anche se solo unilaterale), dell’azione diretta del danneggiato e dell’operatività del fondo 820 di garanzia indicano la presenza di elementi di un sistema di sicurezza che in qualche modo rende non omogenea la disciplina legislativa. Più in generale, la capacità della nuova legislazione di migliorare la situazione attuale sarà comunque determinata dal funzionamento del risk management al quale la legge attribuisce giustamente il massimo rilievo (se ne parla diffusamente negli artt. 2 e 3) e alla possibilità di coinvolgere il mercato assicurativo, sempre meno disposto ad assumere rischi collegati al settore della responsabilità professionale medica, tramite la predisposizione di una polizza modello per la copertura dei rischi. In un panorama generale nel quale la responsabilità civile è sempre più assicurata, non poter disporre di una garanzia assicurativa significa riconoscere e ammettere l’impossibilità per il sistema di funzionare e non consente di far vedere la luce di un nuovo modello di responsabilità civile, che, invece, è assolutamente necessario ricreare. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Responsabilità del medico Nesso di causalità Causalità e responsabilità medica: cinque variazioni del tema di Roberto Pucella (*) L'approccio al problema causale nel contesto della responsabilità medica non si dimostra unitario: le nostre Corti percorrono vie non sempre omogenee per accertare la presenza del legame eziologico; regole antiche e nuove e questioni di policy incidono sugli assetti attuali della responsabilità medica. Il nesso e la colpa: l’inadempimento qualificato È il punto di arrivo di una rilettura degli assetti probatori tra creditore e debitore che ha avuto inizio con Cass. n. 13533 del 2001. Quella pronuncia ha ridisegnato il perimetro dello sforzo probatorio del creditore in relazione all’altrui inadempimento restringendolo alla allegazione della colpa, vale a dire ad una funzione circoscritta alla raffigurazione delle modalità di accadimento della mancata o inesatta esecuzione della prestazione. Limitando il campo al contesto che ci riguarda, la colpa medica è allegata contestando al sanitario la “adozione di tecniche non sperimentate in luogo di protocolli ufficiali e collaudati, [o la] mancata conoscenza dell’evoluzione, in una determinata branca, della metodica interventistica nota invece al constans atque diligens homo” o la violazione dei classici criteri della prudenza, perizia e diligenza (1); o, ancora, la lamentata violazione di doveri accessori, come quello di informazione (2). Una volta allegata la colpa costituirà onere del debitore offrire la prova liberatoria, tradizionalmente ricondotta alla dimostrazione che adempimento vi è stato o, diversamente, che il mancato adempi(*) Queste pagine riproducono, con l’ausilio di note essenziali, l’intervento tenuto a Roma il 27 novembre 2015, in occasione dell’incontro di studio organizzato per celebrare i primi venti anni di vita di Danno e responsabilità sul tema “ La responsabilità sanitaria: necessità di una riforma?”. (1) Cass. 19 maggio 2004, n. 9471, in questa Rivista, 2005, 30, con nota di R. De Matteis. (2) Cass. 9 febbraio 2010, n. 2847. (3) Osservava di frequente la S.C. che “... consistendo l’obbligazione professionale in un’obbligazione di mezzi, il paziente Danno e responsabilità 8-9/2016 mento è riferibile a cause estranee alla sua sfera di controllo. In questo quadro di ridefinizione dei rispettivi carichi probatori non appariva di immediata evidenza, dopo la pronuncia del 2001, se il ruolo sostanzialmente descrittivo riservato alla allegazione di inadempimento si estendesse sino a ricomprendere anche il momento del nesso di causa - con ciò esonerando il creditore dalla dimostrazione della derivazione eziologica del danno dalla condotta dell’obbligato - oppure no (3). La giurisprudenza successiva all’intervento delle Sezioni Unite, richiamato l’orientamento giurisprudenziale che pone l’onere di provare il nesso eziologico in capo al danneggiato, ha osservato come “il tema non è quello della distribuzione tra le parti del contratto della prova dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento. Ma è l’altro - diverso dal primo - della prova del nesso di causalità tra la patologia e l’azione o l’omissione imputabile all’ente ospedaliero” ed ha ritenuto che “questo principio non soffre deroga in materia di responsabilità medica, restando a carico del paziente la prova dell’esistenza del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’azione o dell’omissione” (4). dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile” (Cass. 28 maggio 2004, n. 10297). (4) Cass. 11 novembre 2005, n. 22894, in Mass. Giust. civ., 2005. 821 Opinioni Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Responsabilità del medico La soluzione più di recente elaborata dalle pronunce a Sezioni Unite del gennaio 2008 (5) rimodella il carico probatorio gravante sul danneggiato con l’introduzione del criterio del c.d. inadempimento qualificato (Cass. n. 577 del 2008). Osservano le Sezioni Unite che “l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno”. La Corte opera così una sorta di “crasi logica” tra dimostrazione processuale della colpa e della catena causale: l’allegazione di una condotta colposa idonea a generare un danno del tipo di quello realmente verificatosi esaurisce l’onere probatorio del creditore danneggiato; l’attitudine delle circostanze a provocare il danno lamentato esonera il danneggiato dalla necessità di dover dimostrare in altro modo la connessione causale. Ne consegue che la dimostrazione che un (certo) fatto è idoneo a determinare un (certo) effetto tiene luogo della concreta dimostrazione che quel fatto ha prodotto quell’effetto. Il debitore a quel punto si libera provando, alternativamente: che nessun rimprovero può essergli mosso (cfr. ad es., Cass. n. 2185/2014); che la sua condotta è priva di valenza eziologica (cfr. ad es., Cass. n. 27855/2013). L’impatto della regola nella decisione dei casi della vita sottoposti al vaglio dei giudici appare di non poco conto: così il paziente che affermi che l’infezione causativa di danno è nosocomiale - ed alleghi la circostanza (colposa) che gli ambienti ospedalie(5) Cass. 11 gennaio 2008, nn. 576-584. (6) In Cass. n. 577/2008, ad esempio, la Corte ha ritenuto che “avendo l’attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria ... ed il danno assunto (epatite), allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la prova che tale inadempimento non vi era stato, poiché non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l’inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell’azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell’affezione patologica già in atto al momento del ricovero”. 822 ri non erano asettici - è esonerato, avendo rappresentato un inadempimento qualificato, dalla prova dell’effettivo legame causale tra ricovero e patologia (6). Il nesso, il danno e la regolarità causale Un diverso approccio al problema causale, in grado di esaltare ancor più gli obblighi di protezione ed il diritto a una buona cura in una logica di tutela della salute, può essere ricondotto a Cass., n. 8826/2007 (7) (ma anche, di recente, a Cass. n. 19213/2015 (8)). Qui il ragionamento prende le mosse dall’idea di un risultato atteso che il medico deve garantire al paziente (analogamente a quanto richiesto, in distinto contesto, nell’ambito degli interventi di routine sin dalla nota pronuncia n. 6141 del 1978). La questione del nesso viene risolta attraverso l’indagine della corrispondenza del risultato effettivo a quello atteso. La determinazione di quale risultato ci si debba attendere da un certo atto terapeutico viene dalla Corte rimessa alla valutazione delle circostanze del caso, in ragione delle caratteristiche che lo contraddistinguono (stadio della malattia; qualità della struttura ove la prestazione viene erogata; livello delle conoscenze scientifiche del momento, etc.). Ma sono le scorciatoie probatorie - ed in particolare il ricorso allo strumento della presunzione - a destare interesse: se a seguito della prestazione terapeutica le condizioni di salute del paziente subiscono un aggravamento o, più semplicemente, rimangono inalterate o se compare una nuova patologia, allora si presume la difformità del risultato ottenuto rispetto a quello atteso (9), alla luce di un principio di regolarità causale che vuole l’atto medico sostanzialmente ad esito positivo. L’obbligazione medica diviene allora, nei fatti, di risultato, con conseguente superamento della colpa quale principio generale di imputazione della responsabilità. (7) Cass. 13 aprile 2007, n. 8826, in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, 1428. (8) Cass. 29 settembre 2015, n. 19213. (9) Questa determinazione “presuntiva” del risultato “anomalo” - costituente deviazione rispetto al “normale” esito dell’intervento o della cura - deve ravvisarsi, secondo la Corte, non solo quando “alla prestazione medica consegua l’aggravamento dello stato morboso o l’insorgenza di nuova patologia” ma anche “quando l’esito risulti ... caratterizzato da inalterazione rispetto alla situazione che l’intervento medico-chirurgico ha appunto reso necessario”. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Responsabilità del medico Il collegamento tra nesso di causa e colpa si fa più stretto perché il mancato risultato atteso lascia presumere l’inadeguatezza dell’atto terapeutico mentre la derivazione diacronica del risultato anomalo dall’atto medico fonda, ancora una volta in via presuntiva, la connessione causale tra la condotta del sanitario e l’inadeguatezza dell’esito derivatone. Il ricorso all’uno o all’altro percorso ricostruttivo della catena causale fonda distinti carichi probatori: l’allegazione di inadempimento qualificato può essere vinta, in un quadro di obbligazioni di mezzi, dalla dimostrazione della diligenza dell’atto medico, da accertarsi alla luce della teoria normativa della colpa sulla scorta dei canoni della letteratura scientifica; non appare invero sufficiente - secondo i più recenti approdi della Cassazione - il rispetto delle c.d. linee guida (cfr. ad esempio, Cass. n. 24455/2015 (10)). La difformità del risultato atteso può invece essere vinta, in un quadro di obbligazioni di risultato, solo dalla prova del fatto interruttivo, estraneo alla sfera di controllo del medico. Ne consegue che la causa ignota grava sul paziente, se l’obbligazione è di mezzi (Cass. n. 21025/2014); grava invece sul medico, se di risultato (Cass. n. 19213/2015). Il nesso, il danno-conseguenza e le massime di esperienza Il recente intervento delle Sezioni Unite in materia di danno da nascita indesiderata (Cass. 22 dicembre 2015, n. 25767 (11)) ha toccato, oltre alla delicata questione della legittimazione iure proprio del minore, la diversa questione della prova del nesso causale tra errore professionale e mancato esercizio dell’interruzione di gravidanza. In particolare, se la madre lamenta che l’omessa informazione non l’ha messa in condizione di abortire, ricorrendone i presupposti, in tanto può invocare un danno risarcibile in quanto dimostri che quel diritto ella avrebbe esercitato in assenza di colpa medica. In difetto mancherebbe la prova del nesso causale tra illecito professionale e danno invocato. Analogo processo argomentativo è stato applicato con riguardo all’esercizio del diritto all’autodeterminazione terapeutica: il paziente cui il medico ab(10) Cass. 2015, n. 24455. (11) In questa Rivista, 2016, 349, con nota di S. Cacace. (12) Cass. 10 novembre 2010, n. 22837, in questa Rivista, 2011, 382, con nota di R. Simone. (13) Cass. 2 ottobre 2012, n. 16754, in questa Rivista, 2013, Danno e responsabilità 8-9/2016 bia fornito un’informazione imprecisa o incompleta circa i rischi per la salute connessi ad un determinato trattamento, assolve il proprio onere probatorio solo dimostrando, oltre al danno, l’incidenza causale della condotta negligente - sul piano del consenso - nella verificazione dello stesso; e perché ciò accada va dimostrato che la decisione di sottoporsi al trattamento terapeutico da cui ha avuto origine la lesione è stata condizionata dall’informazione (erronea, lacunosa o assente) ricevuta. In entrambe le fattispecie la costruzione del legame eziologico appare influenzata dal ricorso a massime di esperienza o a generalizzazioni del senso comune (la donna che venga informata del rischio - o della concreta presenza - di rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro normalmente abortisce; il paziente cui vengano rappresentati rischi per la salute collegati ad una pratica terapeutica normalmente non si espone). La dimostrazione della volontà di interrompere la gravidanza è stata in passato ritenuta assolta per il semplice fatto che la donna si fosse sottoposta in gravidanza ad indagini mediche finalizzate ad accertare la presenza di eventuali anomalie o malformazioni del feto. Sino a Cass. n. 16754/2012 il fatto che la donna si limitasse ad asserire che avrebbe deciso di interrompere la gravidanza se informata, presupponeva l’implicita sussistenza del grave pericolo per la sua salute e costituiva, se non contestato, elemento di prova sufficiente alla dimostrazione del nesso, alla stregua di una sorta di autocertificazione dotata di valore legale (Cass. n. 22837/2010) (12). I più recenti arresti della Cassazione, una volta escluso qualsiasi automatismo probatorio, richiedono ulteriori elementi che “colorino” la presunzione, quali ad esempio l’espressa manifestazione, al momento della richiesta diagnostica, della volontà della gestante di interrompere la gravidanza in caso di diagnosi infausta (Cass. n. 16754/2012) (13); od ogni altro indizio da cui ricostruire in via presuntiva l’intenzione della donna di abortire (Cass. n. 7269/2013) (14). La recente decisione delle Sezioni Unite in tema di nascita indesiderata valorizza le correlazioni statisticamente ricorrenti ed ogni circostanza contingente emergente dai dati istruttori raccolti: quale, “ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio 492 con nota di A. Mastrorilli; in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 175, con nota di E. Palmerini. (14) Cass. 22 marzo 2013, n. 7269, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 1082, ed ivi, II, 653, con rilievi di R. Pucella. 823 Opinioni Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Responsabilità del medico per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d’ufficio, pregresse manifestazioni di pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva in caso di grave malformazione del feto”. Nell’ambito dell’autodeterminazione al trattamento sanitario operano principi analoghi: al paziente è fatto carico di provare che ove correttamente informato non avrebbe rilasciato il consenso al trattamento sanitario (15). Tale volontà può essere ricostruita ex post anche a mezzo di presunzioni: così dimostrando l’assenza di una necessità attuale all’intervento terapeutico o valorizzando la massima di esperienza che associa in misura proporzionalmente inversa il rischio di danno connesso al trattamento e la volontà del paziente di accettarne le conseguenze (a maggior rischio minore propensione). Il riparto dei carichi probatori deve tenere di conto, per l’autodeterminazione come pure per l’esercizio dell’aborto, che il thema probandum è costituito da un fatto complesso, come correttamente osserva la Cassazione; e la ricostruzione del nesso causale, implicante un giudizio controfattuale che indaghi, ex post, le determinazioni volitive del danneggiato, fa leva sull’id quod plerumque accidit e sulla sua capacità di integrare gli elementi della gravità e della precisione che l’art. 2729 c.c. pone a fondamento della presunzione semplice. La svolta attuale - pienamente condivisibile - ritiene soddisfatti tali elementi attraverso la “personalizzazione” della regola di esperienza che trasformi la causalità “generale” in causalità “particolare”. Infine qualche parola sul danno. La violazione del diritto ad interrompere la gravidanza, come pure del diritto all’autodeterminazione terapeutica si traduce nell’aggressione a valori fondamentali della persona. Nella prassi giurisprudenziale e negli orientamenti della dottrina gli anelli che compongono la catena causale della fattispecie di responsabilità si identificano nell’atto medico, da un lato, e nelle conse(15) Cfr., da ultimo, App. Milano, 5 marzo 2015, in questa Rivista, 2016, 382, con nota di D. Farace. (16) Su questi temi sia consentito il rinvio a R. Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, spec. 199 ss. e, da ultimo, Id., Lesione del valore-persona e danno-conseguenza: un’architettura da rimodernare, in Riv. crit. dir. priv., 2015, 55 ss. (17) Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619, in questa Rivista, 2008, 43 ss., con nota di R. Pucella. 824 guenze ritenute dannose, dall’altro (wrongful birth, lesione alla salute del paziente non informato). La brevità di questo intervento non consente di affrontare adeguatamente i profili problematici che ne derivano, riconducibili al timore che sia, altrimenti, impropriamente superata la distinzione concettuale tra lesione dell’interesse e danno. Ma così non è, a mio avviso, perché se è vero che il danno va dimostrato, anche a mezzo di presunzioni, e se è vero che la violazione dell’interesse protetto potrebbe essere, in sé, priva di disvalore, ciò che fonda il danno risarcibile non si esaurisce necessariamente in un evento pregiudizievole conseguente al fatto illecito ben potendo sostanziarsi nella lesione che la persona patisce per la degradazione di una valore che la forma (16). Il nesso, la probabilità relativa e le chances Un’altra via per dare prova del rapporto di causaeffetto utilizza il registro della certezza probatoria. Con sent. n. 21619/2007 (17) la Cassazione ha formalmente virato verso la regola del più probabile che non, abbandonando così il parametro dell’elevato grado di credibilità, declinato negli anni attraverso una molteplicità di formule espressive, ma tutte tese a garantire il massimo convincimento del giudice (si pensi a quella richiesta certezza “morale” del giudice che certa giurisprudenza ha posto a fondamento della sussistenza del legame eziologico (18)). Ritenere sussistente un legame causale perché più probabile non equivale a garantire il convincimento del giudice, soprattutto quando la sostanziale equivalenza dell’ipotesi maggioritaria alla sua contraria può lasciare margini di incertezza in ordine al reale accadimento degli eventi. Il principio del più probabile che non risolve, ciononostante, un problema sostanziale - l’incertezza causale - con una regola processuale che quell’incertezza elimina attraverso la scelta dell’ipotesi più plausibile. È possibile che in questo modo si sacrifichi l’accertamento della verità sostanziale e che ciò determi(18) Cass. 28 aprile 1994, n. 4044, in Resp. civ. prev., 1994, 635 con nota di Ruta, in tema di responsabilità professionale dell’avvocato; cfr. anche Cass. 5 giugno 1996, n. 5264, in Mass. Foro. it., 1996, che ha subordinato la responsabilità per danni di un dottore commercialista al conseguimento della certezza morale che una sua diversa condotta professionale, in realtà non tenuta, avrebbe invece giovato all’interesse del cliente. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Responsabilità del medico ni un maggiore accoglimento di domande basate su nessi incerti, in ragione del fatto che la maggiore probabilità risulta processualmente sufficiente. L’adattamento dei principi causali alle esigenze del diritto trova, d’altronde, altre vie di sfogo nell’utilizzo del principio di vicinanza della prova o nell’applicazione della teoria dello scopo della norma violata (19). Interessante appare la ripercussione della regola del più probabile che non sul risarcimento del danno da perdita di chances. Tradizionalmente la difficoltà di prova della connessione eziologica tra atto medico e lesione della salute del paziente giustificava un’indagine causale di secondo livello tra errore professionale e perdita delle possibilità di guarigione (le chances, appunto (20)); vedere risarcite le perdute chances di sopravvivenza a fronte dell’impossibilità di dimostrare che la condotta del sanitario è stata causa della morte del paziente costituiva una soluzione di compromesso idonea a legittimare la richiesta di ristoro del danneggiato in un quadro di accertato errore professionale (di per sé non bastevole) e di tenue forza del legame causale. Ora la regola della probabilità relativa risolve alternativamente in un senso o nell’altro l’incertezza causale, nel senso dell’integrale riconoscimento dell’esistenza del nesso (se, semplificando, vi è probabilità del 51%) o, all’opposto, dell’integrale sua negazione (se l’ipotesi al vaglio risulta meno probabile che non), con ciò facendo scomparire quella terra di incertezza sinora coperta dalle chances. Ma la Cassazione lavora a volte per scomparti stagni e la risarcibilità delle chances perdute rimane ancora terreno di elezione in specifici contesti risarcitori (in tal senso si muove, ad esempio, la Sezione lavoro con riguardo alla perdita delle proba(19) Rimane insuperato, sul tema, il saggio di m. Barcellona, “Scopo della norma violata”, interpretazione teleologica e tecniche di attribuzione della tutela aquiliana, in Riv. dir. civ., 1973, I, 311 ss. (20) Già da Chaplin v. Hichs (1911). (21) Cfr., da ultimo, Cass., Sez. lav., 14 gennaio 2016, n. 495, in: “Il lavoratore che lamenti la violazione, da parte del datore di lavoro dell’obbligo di osservare la ‘par condicio’ fra gli aspiranti alla promozione e chieda il risarcimento dei danni derivanti dalla perdita di ‘chance’ deve fornire gli elementi atti a dimostrare, seppure in modo presuntivo, e sulla base di un calcolo delle probabilità, la possibilità che egli avrebbe avuto di conseguire la promozione, che non può derivare dal calcolo matematico tra numero dei concorrenti e funzioni da assegnare, dovendo essere comparati titoli e requisiti posseduti dai candidati. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di rigetto della domanda risarcitoria per perdita di ‘chance’ di un docente, al quale era stata negata l’assegnazione della ‘funzio- Danno e responsabilità 8-9/2016 bilità di assunzione o di avanzamento di carriera del lavoratore (21)). Il nesso, la multifattorietà e le preexisting conditions Sovente l’evento dannoso è l’esito dell’intreccio di fattori causali il cui interferire l’uno con l’altro rende impossibile la scomposizione dei rispettivi contributi. Quando ciò accade si determina una serie di articolate relazioni di causa-effetto ove la complessità può essere data, a volte, dal verificarsi di un danno che l’atto illecito in sé non è idoneo a provocare (l’errata ingessatura di un arto che conduce il paziente al suicidio); a volte dal verificarsi di lesioni più gravi di quelle che sarebbe lecito attendersi, secondo un principio di regolarità, da quel genere di causa (il modesto incidente stradale che scatena nel danneggiato un grave trauma psichico non ancora esauritosi a distanza di molti anni dal fatto). L’errore medico - in particolare - si presta per sua natura ad inserirsi in un contesto di multifattorietà in cui il processo dal quale origina la patologia può presentare uno schema non solo a pluralità di cause ma, ancor più, in successione nel tempo, secondo un modello a più stadi (22). V’è, dunque, un passaggio da una concezione monocausale e deterministica dell’insorgenza della malattia ad una concezione probabilistica, attenta alla combinazione della molteplicità dei fattori che possono intervenire a determinarla. Nel diritto penale la questione è risolta dall’art. 41 c.p. (il concorso di cause non esclude il rapporto di causalità). Nel diritto civile - che segue logiche distinte - si pongono due rilevanti questioni, cui in questo breve intervento è consentito solamente fare cenno: anzitutto quella del possibile apporzionamento delne obiettivo’ di cui all’art. 28 del C.C.N.L. comparto scuola del 26 maggio 1999, che a detto fine prevede la valutazione comparativa delle esperienze professionali e culturali e la frequenza di corsi di formazione, non avendo il ricorrente allegato elementi, neppure di carattere presuntivo, idonei ad avvalorare l’ipotesi di sua prevalenza sugli altri concorrenti)”; analogamente si vedano Cass., Sez. lav., 1° marzo 2016, n. 4031, in Mass. Giust. civ., 2016; Cass. 9 dicembre 2015, n. 24833, ivi, 2015; Cass. 20 ottobre 2015, n. 20829, ibidem. (22) P. Vineis, Modelli di rischio, Torino, 1990. Dell’Erba - Fineschi, La tutela della salute, Milano, 1993, 44, osservano come sia “... in pratica pressoché impossibile determinare con certezza se una neoplasia polmonare dipende dall’abitudine al fumo, dalla polluzione ambientale, dalle condizioni di lavoro o dalla ereditarietà (o dalle combinazioni di queste), anche se vi è una netta evidenza, statistica, che il fumo di sigaretta può causare il cancro polmonare”. 825 Opinioni Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Responsabilità del medico l’evento di danno tra i vari fattori che hanno concorso a determinarlo (con possibile assorbimento sul piano del giudizio di responsabilità - di una parte del danno a carico dello stesso soggetto danneggiato, ex art. 1227 c.c.). Questo tema è controverso tra dottrina e giurisprudenza in merito al percorso argomentativo da seguire. Per parte della prima è configurabile un frazionamento della responsabilità in ragione del diverso apporto causale: si risponde di ciò che si è causato (23). La giurisprudenza che aveva, per lungo tempo, fatto valere il principio dell’impossibilità di concorso tra causa naturale non imputabile e causa umana imputabile - con addebito all’autore di quest’ultima della integrale responsabilità del fatto (24) - ha poi adottato un modello di causalità proporzionale nella nota pronuncia n. 975 del 2009 (25) pervenendo, da ultimo, ad un assetto che prevede l’integralità della responsabilità in capo all’autore della causa umana, secondo il principio dell’all or nothing, con possibile regolazione del registro del danno risarcibile sul piano della regola di c.d. causalità giuridica (26). La seconda rilevante questione cui sopra si faceva richiamo si risolve, invece, in un tipico problema di policy. (23) Sia consentito il rinvio a R. Pucella, Concorso di cause umane e naturali: la via impervia tentata dalla Cassazione, nota a Ca s s . 2 1 l u g l i o 2 0 1 1 , n . 1 5 9 9 1 , i n N uo va g i ur. c i v. comm., 2012, I, 180; si vedano altresì M. Capecchi, Il nesso di causalità, Padova, 2002, 132 ss.; B. Tassone, La ripartizione di responsabilità nell’illecito civile, Napoli, spec. 210 ss.; Id., Note minime in punto di ripartizione di responsabilità, perdita di chances e protezione della vittima, postilla a Trib. Terni 2 luglio 2010, in questa Rivista, 2011, 419 ss. (24) Si veda, ad esempio, Cass. 16 febbraio 2001, n. 2335, in Mass. Giust. civ. (25) Cass. 16 gennaio 2009, n. 975 è pubblicata in questa 826 L’intreccio di cause imputabili e cause naturali tra le quali spiccano, per frequenza statistica, le condizioni di salute preesistenti del danneggiato determina infatti una delicata questione connessa al contemperamento di equilibrio tra regole di responsabilità e tutela dei soggetti vulnerabili. In altri Ordinamenti questa esigenza è risolta con l’adozione del principio operativo del take your plaintiff as you find him o della responsabilità per rischio prodotto (si pensi ai farmaci difettosi (27)); nel nostro sistema la giurisprudenza preferisce ricorrere alla (controversa) categoria della causalità giuridica. In conclusione Ad un’accentuata attenzione di dottrina e giurisprudenza per i problemi della causalità sembra fare riscontro una progressiva perdita di interesse per il suo accertamento effettivo, sostituito da criteri tesi a sfrondare il “cespuglio spinoso”, come si è detto (28), della causalità con regole alternative. È consentito? A condizione che non si frantumino principi causali non rinunciabili e non si alimenti una giurisprudenza contraddittoria. Rivista, 2010, 376, con nota di Capecchi, e in Corr. giur., 2009, 1653 ss., con nota di M. Bona. (26) Cass. 21 luglio 2011, n. 15991, cit.; da ultimo Cass. 29 febbraio 2016, n. 3893. (27) Pietra miliare sul tema è il saggio, oramai risalente, di D. Rosenberg, The Causal Connection in Mass Exposure Cases: A “Public Law” Vision of the Tort System, 97 Harvard Law Review 851 (1984). (28) R. Wright, Causation, Responsibility Risk, Probability, Naked Statistics, and Proof: Pruning the Bramble Bush by Clarifying the Concepts, [1988] 73 Iowa Law Review. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Danni non risarcitori Danni punitivi La delibabilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi finalmente al vaglio delle Sezioni Unite Cassazione Civile, Sez. I, 16 maggio 2016, ord., (ud. 16 febbraio 2016), n. 9978 - Pres. S. Di Palma - Est. A.P. Lamorgese - AXO SPORT S.P.A. c. NOSA INC. Non deve considerarsi pregiudizialmente contrario a valori essenziali della comunità internazionale (e, quindi, all’ordine pubblico internazionale) l’istituto di origine nordamericana dei danni non risarcitori, aventi carattere punitivo: una statuizione di tal genere potrebbe esserlo, in astratto, solo quando la liquidazione sia giudicata effettivamente abnorme, in conseguenza di una valutazione, in concreto, che tenga conto delle “circostanze del caso di specie e dell’ordinamento giuridico dello Stato membro del giudice adito” ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Non constano precedenti conformi. Difforme Cass. n. 1183/2007; Cass. n. 15814/2008; Cass. n. 1781/2012. La Corte (omissis). Motivi della decisione 1.- Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 64, lett. b) e g), nonché vizio di motivazione, per avere la sentenza impugnata escluso la contrarietà all’ordine pubblico della sentenza straniera che aveva condannato AXO a pagare a NOSA l’importo corrispondente alla transazione stipulata da quest’ultima con il danneggiato, ancorché tale condanna fosse stata emessa in applicazione dell’istituto del potential liability test, cioè sulla base della mera constatazione che OXA avesse rifiutato di assumere la difesa di NOSA nei confronti del danneggiato e che la transazione apparisse equa, in considerazione della possibilità di successo della domanda del danneggiato contro NOSA per un importo superiore, ma senza alcuna verifica circa il plausibile fondamento della domanda di garanzia proposta da NOSA verso AXO. Con il secondo motivo è denunciata la violazione della L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. b) e g), nonché vizio di motivazione, per avere ritenuto che AXO avesse profittato ex art. 1304 c.c. dell’accordo stipulato da NOSA con il danneggiato; l’istituto del potential liability test violerebbe il principio di ordine pubblico, in base al quale il garantito (NOSA), per essere rimborsato dell’importo corrisposto in forza di una transazione stipulata con il Danno e responsabilità 8-9/2016 danneggiato, dovrebbe risultare vittorioso in un giudizio avente ad oggetto l’accertamento in concreto (che non v’era stato) della responsabilità del garante (AXO). Con il terzo motivo è denunciata la violazione della L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. g), nonché vizio di motivazione, per avere la Corte veneziana trascurato che la sentenza americana aveva condannato AXO a reintegrare NOSA per un indennizzo corrisposto al danneggiato a titolo di danni punitivi, come risultava dal fatto che la somma posta a carico di AXO corrispondeva a quella indicata nella proposta transattiva del danneggiato, a composizione integrale della pretesa risarcitoria, compresi i punitive damages; per non avere valutato la totale omissione di motivazione della sentenza americana, quanto ai criteri seguiti per la determinazione del danno: ciò non consentiva (e, quindi, secondo la giurisprudenza di questa Corte, impediva) di riconoscerla nell’ordinamento italiano, in quanto contraria al principio di ordine pubblico circa la natura esclusivamente compensatoria del rimedio risarcitorio, in presenza di un quantum abnorme rispetto ai parametri italiani, che ne evidenziava la natura punitiva e sanzionatoria; tanto più che l’importo si aggiungeva a quello corrisposto al danneggiato dall’importatrice del casco (la Helmet) e che si trattava di un transazione (settlement) necessariamente inclusiva della componente punitiva, incorporando un 827 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danni non risarcitori aliquid datum e un aliquid retentum che rivelava una stima del danno ancora maggiore. 2.- Il terzo motivo implica l’esame di una questione, di massima di particolare importanza, che va rimessa all’esame del Primo Presidente della Corte di Cassazione, perché valuti l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite Civili, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, per le ragioni di seguito esposte. 3.- L’orientamento contrario alla riconoscibilità delle sentenze straniere di condanna al pagamento di somme a titolo di danni punitivi (espresso da Cass. n. 1183 del 2007) è rinforzato dall’affermazione secondo cui a giustificare il diniego di riconoscimento è sufficiente, in sostanza, anche solo il dubbio dell’esistenza di una condanna ai punitive damages, non essendo “sintomatica l’assenza nella pronuncia straniera di esplicito rinvio all’istituto” in esame (in tal senso Cass. n. 1781 del 2012). Secondo quest’ultima sentenza, “la mancanza di motivazione nella sentenza straniera, che in linea di principio non integra in sé una violazione dell’ordine pubblico (cfr. Cass. n. 9247 del 2002, n. 3365 del 2000), non può mantenere un significato neutro ai fini del riconoscimento in Italia”, nel caso in cui manchi “qualsiasi indicazione positiva circa la causa giustificativa della statuita attribuzione patrimoniale e sia Li omesso il richiamo in essa e nella impugnata sentenza a regole legali e/o criteri esteri propri della liquidazione del danno in questione e nella specie applicabili”. Al giudice della delibazione, ai fini della verifica di compatibilità con l’ordine pubblico (inteso come) interno, si chiede di “conoscere i criteri legali in concreto applicati dal giudice straniero nell’adozione della pronuncia, e segnatamente, con riferimento al tema controverso, quelli seguiti per qualificare la responsabilità e le conseguenti voci di danno ristorabili, onde evincere la causa giustificatrice dell’attribuzione” e, in sostanza, di controllare la “ragionevolezza e proporzionalità del liquidato in sede estera in rapporto non solo alle specificità dell’illecito ed alle patite conseguenze, ma anche ai criteri risarcitori interni”. A questa metodologia decisoria si è sottratta la Corte veneziana, la quale ha escluso che la sentenza straniera contenesse una statuizione di danni punitivi, senza verificare la causa dell’attribuzione patrimoniale, le regole legali e/o i criteri applicati dal giudice americano nella liquidazione delle diverse voci di danno (neppure esplicitate) e, in definitiva, la ragionevolezza e proporzionalità del risarcimento. E ciò, nonostante che l’importo liquidato fosse elevato, si aggiungesse ad un altro dovuto dall’importatrice del casco e fosse il risultato di una proposta transattiva del danneggiato che conteneva i danni punitivi. La Corte, in tal modo, non ha fatto applicazione di un principio - della non delibabilità, per contrasto con l’ordine pubblico, della sentenza straniera che riconosca danni punitivi - la cui attuale vigenza nell’ordinamento suscita, in effetti, perplessità. 4.- È necessaria una premessa sull’ambito applicativo del principio di ordine pubblico, a norma della L. n. 218 del 1995, artt. 16, 64 e 65. 828 La giurisprudenza di legittimità ha compiuto una progressiva evoluzione nell’interpretazione del principio di ordine pubblico (cui si aggiungeva, nell’abrogato art. 31 disp. gen., il richiamo al buon costume), inteso originariamente come espressione di un limite riferibile all’ordinamento giuridico nazionale, costituito dal complesso dei principi che, tradotti in norme inderogabili o da queste desumibili, informano l’ordinamento giuridico e concorrono a caratterizzare la struttura etico-sociale della società nazionale in un determinato momento storico (vd. Cass. n. 3881 del 1969 e n. 818 del 1962, quest’ultima escludeva che il principio andasse inteso in senso internazionale, astratto o universale); successivamente, si è ritenuto che l’indagine sulla conformità all’ordine pubblico andasse riferita all’ordine pubblico interno se la sentenza da riconoscere riguardava cittadini italiani e all’ordine pubblico internazionale se riguardava (soltanto) cittadini stranieri (vd. Cass. n. 228 del 1982); nella giurisprudenza più recente prevale il riferimento all’ordine pubblico internazionale, da intendersi come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma fondati su esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e desumibili, innanzi tutto, dai sistemi di tutela approntati a livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria (vd., tra le tante, Cass. n. 1302 e 19405 del 2013, n. 27592 del 2006, n. 22332 del 2004, n. 17349 del 2002, n. 2788 del 1995). Questa evoluzione del concetto di ordine pubblico segna un progressivo e condivisibile allentamento del livello di guardia tradizionalmente opposto dall’ordinamento nazionale all’ingresso di istituti giuridici e valori estranei, purché compatibili con i principi fondamentali desumibili, in primo luogo, dalla Costituzione, ma anche dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e, indirettamente, dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (si è osservato, in dottrina, che il nostro ordinamento si propone, in tal modo, di salvaguardare la stessa comunità internazionale che trova la sua difesa anche negli ordinamenti interni dei vari Stati). Se ne ha conferma nella normativa comunitaria, che esclude il riconoscimento (ora previsto come automatico) nei soli casi di “manifesta” contrarietà all’ordine pubblico (vd., ad es., l’art. 34 del regol. CE 22 dicembre 2001 n. 44, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale; l’art. 26 del regol. CE 11 luglio 2007 n. 864, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali; l’art. 22 e 23 del regol. CE 27 novembre 2003, n. 2201, in tema di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e della responsabilità genitoriale; l’art. 24 del regol. CE 18 dicembre 2008, n. 4/2009, in materia di obbligazioni alimentari); nella giurisprudenza comunitaria, dove il ricorso alla nozione di ordine pubblico presuppone l’esistenza di una minaccia reale, attuale e grave nei confronti di un interesse fondamentale della società (vd. Corte giust. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Danni non risarcitori VE, 4 ottobre 2012, C-249/11, per giustificare le deroghe alla libera circolazione delle persone invocabili dagli Stati membri) e nella giurisprudenza di legittimità. Quest’ultima ha evidenziato come il rispetto dell’ordine pubblico debba essere garantito, in sede di controllo della legittimità dei provvedimenti giudiziari e degli atti stranieri, avendo riguardo non già all’astratta formulazione della disposizione straniera o alla correttezza della soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o di quello italiano, bensì “ai suoi effetti” (come ribadito da Cass. n. 9483 del 2013), in termini di compatibilità con il nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento (nel senso che le norme espressive dell’ordine pubblico sono quelle fondamentali e non coincidono con quelle, di genere più ampio, imperative o inderogabili, vd. Cass. n. 4040 del 2006, n. 13928 del 1999, n. 2215 del 1984, sicché il contrasto con queste ultime non costituisce, di per sé solo, impedimento all’ingresso del provvedimento straniero). In altri termini, l’ordine pubblico non si identifica con quello esclusivamente interno, poiché, altrimenti, le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto simile a quelle italiane, cancellando la diversità tra i sistemi giuridici e rendendo inutili le regole del diritto internazionale privato (è chiara in tal senso Cass. n. 10215 del 2007). Se è acquisito che l’ordine pubblico è costituito non dalle singole norme del nostro ordinamento, ma dai principi fondamentali di esso (vd., in linea di principio, già Cass. n. 543 del 1980), non è chiaro come individuare l’esistenza di tali principi e, in particolare, se sia possibile individuarli immediatamente nelle norme di legge ordinarie (come sembra ricavarsi da Cass. n. 2215 del 1984), ipotizzando, ad esempio, un collegamento funzionale con disposizioni costituzionali. In realtà, non può essere indicativo dell’esistenza di un principio di ordine pubblico il solo fatto che il legislatore ordinario abbia esercitato la propria discrezionalità, in una determinata direzione, con riferimento a materie e istituti giuridici la cui regolamentazione non sia data direttamente dalla Costituzione, ma sia rimessa allo stesso legislatore (in presenza di una riserva di legge o, entro certi limiti, di norme costituzionali programmatiche). Come efficacemente rilevato in dottrina, se il legislatore è libero di atteggiarsi come meglio ritiene, allora potranno avere libero ingresso prodotti giudiziali stranieri applicativi di regole diverse, ma comunque non contrastanti con i valori costituzionali essenziali o non incidenti su materie disciplinate direttamente dalla Costituzione. Non è conforme a questa impostazione, ad esempio, l’orientamento che, in passato, negava ingresso alle sentenze straniere di divorzio, solo perché la legislazione ordinaria dell’epoca stabiliva l’indissolubilità del matrimonio (vd. Cass. n. 3444/1968), sebbene detta indissolubilità non esprimesse alcun principio o valore costituzionale essenziale. La progressiva riduzione della portata del principio di ordine pubblico, tradizionalmente inteso come clausola di sbarramento alla circolazione dei valori giuridici - cui Danno e responsabilità 8-9/2016 tende, invece, il sistema del diritto internazionale privato - è coerente con la storicità della nozione e trova un limite soltanto nella potenziale aggressione del prodotto giuridico straniero ai valori essenziali dell’ordinamento interno, da valutarsi in armonia con quelli della comunità internazionale. Il giudice della delibazione, al quale è affidato il compito di verificare preventivamente la compatibilità della norma straniera con tali valori, desumibili direttamente da norme e principi sovraordinati (costituzionali e internazionali), dovrà negare il contrasto in presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con l’assetto normativo interno, quando questo rappresenti una delle diverse modalità di attuazione del programma costituzionale, quale risulti dall’esercizio della discrezionalità del legislatore ordinario in un determinato momento storico. Si tratta di un giudizio simile a quello di costituzionalità, ma preventivo e virtuale, dovendosi ammettere il contrasto con l’ordine pubblico soltanto nel caso in cui al legislatore ordinario sia precluso di introdurre, nell’ordinamento interno, una ipotetica norma analoga a quella straniera, in quanto incompatibile con i valori costituzionali primari (già secondo Corte cost. n. 214 del 1983, la verifica del rispetto dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale costituisce un “passaggio obbligato della tematica dell’ordine pubblico”). 5.- In questa prospettiva, non dovrebbe considerarsi pregiudizialmente contrario a valori essenziali della comunità internazionale (e, quindi, all’ordine pubblico internazionale) l’istituto di origine nordamericana dei danni non risarcitori, aventi carattere punitivo: una statuizione di tal genere potrebbe esserlo, in astratto, solo quando la liquidazione sia giudicata effettivamente abnorme, in conseguenza di una valutazione, in concreto, che tenga conto delle “circostanze del caso di specie e dell’ordinamento giuridico dello Stato membro del giudice adito” (è in tal senso il Considerando 32 del regol. CE 11 luglio 2007, n. 864, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali). Analoghe indicazioni provengono dal diritto comparato: la Corte costituzionale federale tedesca (24 gennaio 2007, in JZ, 2007, 1046) e il Tribunale Supremo spagnolo (13 novembre 2001, n. 2039/1999) hanno ritenuto che le pronunce contenenti statuizioni di condanna ai danni punitivi non siano automaticamente contrarie all’ordine pubblico; analogamente, la Corte di cassazione francese (7 novembre 2012, n. 11-23871, e 1 dicembre 2010 n. 9013303) ha ritenuto i danni punitivi contrari all’ordine pubblico solo se liquidati in misura realmente eccessiva. 6.- Venendo alle ragioni che hanno indotto questa Corte a negare l’ingresso, nel nostro ordinamento, di sentenze straniere contenenti statuizioni di condanna ai danni punitivi, il leading case è la sentenza di questa Corte n. 1183 del 2007, che ha riguardato un caso, analogo a quello in esame, di responsabilità da prodotto difettoso per i vizi di un casco da motociclista. Ne è stata tratta la seguente massima: “Nel vigente ordinamento alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha 829 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danni non risarcitori subito la lesione, anche mediante l’attribuzione al danneggiato di una somma di denaro che tenda a eliminare le conseguenze del danno subito mentre rimane estranea al sistema l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed è indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta. È quindi incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto dei danni punitivi che, per altro verso, non è neanche riferibile alla risarcibilità dei danni non patrimoniali o morali. Tale risarcibilità è sempre condizionata all’accertamento della sofferenza o della lesione determinata dall’illecito e non può considerarsi provata in re ipsa. È inoltre esclusa la possibilità di pervenire alla liquidazione dei danni in base alla considerazione dello stato di bisogno del danneggiato o della capacità patrimoniale dell’obbligato”. In senso analogo si è espressa la già citata Cass. n. 1781 del 2012, la quale ha precisato che, altrimenti, vi sarebbe un arricchimento senza una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all’altro (anche secondo Cass. n. 15814/2008, in linea generale, “nel vigente ordinamento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso né il medesimo ordinamento consente l’arricchimento se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro”). Secondo Cass., sez. un., n. 15350 del 2015, in tema di risarcibilità del cd. danno tanatologico, “i danni risarcibili sono solo quelli che consistono nelle perdite che sono conseguenza della lesione della situazione giuridica soggettiva e non quelli consistenti nell’evento lesivo, in sé considerato”; pertanto, “la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità civile da quella penale ha comportato l’obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza (v., tra le tante, Cass. n. 1704 del 1997, n. 3592 del 1997, n. 491 del 1999, n. 12253 del 2007, n. 6754/2011) e l’affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria)”. 7.- È dubbio, tuttavia, se la funzione riparatoria-compensativa, seppur prevalente nel nostro ordinamento, sia davvero l’unica attribuibile al rimedio risarcitorio e se sia condivisibile la tesi che ne esclude, in radice, qualsiasi sfumatura punitiva-deterrente (una parte della dottrina, infatti, auspica un parziale recupero della categoria dell’”illecito civile”, cui si connette la funzione preventiva o deterrente del rimedio risarcitorio, quale strumento più adeguato per la tutela dei diritti fondamentali della persona); è anche dubbio se al riconoscimento di statuizioni risarcitorie straniere, con funzione sanzionatoria, possa opporsi un principio di ordine pubblico desumibile da categorie e concetti di diritto interno, finendo, in tal modo, per trattare la sentenza straniera come se fosse una sentenza di merito emessa da un giudice italiano (come rilevato dalla dottrina, espressasi in senso prevalentemente critico rispetto ai precedenti di questa Corte del 2007 e del 2012). 830 E soprattutto, si dovrebbe dimostrare che la funzione del rimedio risarcitorio, attualmente configurato in termini esclusivamente compensatori, assurga al rango di un valore costituzionale essenziale e imprescindibile del nostro ordinamento, rispetto al quale (secondo la proposta metodologica delineata sub p. 4) non sarebbe consentito neppure al legislatore ordinario di derogarvi, conclusione questa cui, però, non si spinge neppure la citata Cass., sez. un., n. 15350 del 2015. In realtà, si deve tenere conto sia dello scopo del giudizio delibatorio - che è di dare ingresso nell’ordinamento interno non alla legge straniera, ma ad una sentenza o ad un atto, nell’ambito di uno specifico rapporto giuridico, con limitata incidenza sul piano del diritto interno - sia della “evoluzione della tecnica di tutela della responsabilità civile verso una funzione anche sanzionatoria e deterrente” (come rilevato da Cass. n. 7613 del 2015 - che, nonostante le differenze, ha evidenziato i “tratti comuni” tra i punitive damages e le astraintes, queste ultime non implicanti alcuna incompatibilità con l’ordine pubblico - e da una parte della dottrina, la quale ha osservato che la funzione anche afflittiva del risarcimento del danno non patrimoniale non era estranea ai lavori preparatori del codice civile, nei casi di particolare intensità dell’offesa all’ordine giuridico). È il segno della dinamicità o polifunzionalità del sistema della responsabilità civile, nella prospettiva della globalizzazione degli ordinamenti giuridici in senso transnazionale, che invoca la circolazione delle regole giuridiche, non la loro frammentazione tra i diversi ordinamenti nazionali. 8.- Tale evoluzione è testimoniata da numerosi indici normativi che segnalano la già avvenuta introduzione, nel nostro ordinamento, di rimedi risarcitori con funzione non riparatoria, ma sostanzialmente sanzionatoria. Si possono segnalare, a titolo solo esemplificativo, i seguenti: - la L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 12, che, in materia di diffamazione a mezzo stampa, prevede il pagamento di una somma “in relazione alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato”; - l’art. 96 c.p.c., comma 3 (aggiunto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45), che prevede la condanna della parte soccombente al pagamento di una “somma equitativamente determinata”, in funzione sanzionatoria dell’abuso del processo (nel processo amministrativo vd. il D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 26, comma 2,); - l’art. 709 ter c.p.c. (inserito dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 2), in base al quale, nelle controversie tra i genitori circa l’esercizio della responsabilità genitoriale o le modalità di affidamento della prole, il giudice ha il potere di emettere pronunce di condanna al risarcimento dei danni, la cui natura assume sembianze punitive; - la L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 158 e, soprattutto, D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 125 (proprietà industriale), che riconoscono al danneggiato un risarcimento corrispondente ai profitti realizzati dall’autore del fatto, connotato da una funzione preventiva e deterrente, laddove l’agente abbia lucrato un profitto di maggiore entità rispetto alla perdita subita dal danneggiato, seb- Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Danni non risarcitori bene il cons. 26 della direttiva CE (cd. Enforcement) 29 aprile 2004, n. 48 (sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale), attuata dal D.Lgs. 16 marzo 2006, n. 140 (v. art. 158), abbia precisato che “il fine non è quello di introdurre un obbligo di prevedere un risarcimento punitivo” (Cass. n. 8730 del 2011 ne ammette la “funzione parzialmente sanzionatoria, in quanto diretta anche ad impedire che l’autore dell’illecito possa farne propri i vantaggi”); - il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 187 undecies, comma 2, (in tema di intermediazione finanziaria), che prevede, nei procedimenti penali per i reati di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, che la Consob possa costituirsi parte civile e “richiedere, a titolo di riparazione dei danni cagionati dal reato all’integrità del mercato, una somma determinata dal giudice, anche in via equitativa, tenendo comunque conto dell’offensività del fatto, delle qualità del colpevole e dell’entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato”; - il D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 (artt. 3 - 5), che ha abrogato varie fattispecie di reato previste a tutela della fede pubblica, dell’onore e del patrimonio e, se i fatti sono dolosi, ha affiancato al risarcimento del danno, irrogato in favore della parte lesa, lo strumento afflittivo di sanzioni pecuniarie civili, con finalità sia preventiva che repressiva (il cui importo è determinato dal giudice sulla base dei seguenti criteri: gravità della violazione, reiterazione dell’illecito, arricchimento del soggetto responsabile, opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze dell’illecito, personalità dell’agente, condizioni economiche dell’agente). Un’ultima notazione: quando l’illecito incide sui beni della persona, il confine tra compensazione e sanzione sbiadisce, in quanto la determinazione del quantum è rimessa a valori percentuali, indici tabellari e scelte giudiziali equitative, che non rispecchiano esattamente la lesione patita dal danneggiato. La recente Cass. n. 1126 del 2015 ha visto nella “gravità dell’offesa” un “requisito di indubbia rilevanza ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale”. 9.- Queste le ragioni che inducono il Collegio a giudicare opportuno un intervento delle Sezioni Unite sul tema della riconoscibilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi. P.Q.M. La Corte, visto l’art. 374 c.p.c., comma 2, rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, in quanto implicante la soluzione di una questione di massima di particolare importanza. IL COMMENTO di Pier Giuseppe Monateri Nel commento alla sentenza in esame, l’A. ripercorre le funzioni della RC così come mostrate dalla migliore dottrina italiana ed internazionale relativamente allo specifico problema dei “punitive damages”, dimostrando l’ormai insostenibile perorazione della teoria della monofunzionalità della RC. Dopo una breve ricapitolazione dei fondamentali insegnamenti provenienti dall’analisi economica del diritto, l’A. dimostra infatti che, soprattutto nei casi di illeciti commessi dolosamente, i danni punitivi si configurano quale logica conseguenza degli stessi principi che portano all’equivalenza tra risarcimento e danno della vittima nei casi di illeciti colposi. Ne conseguono un giudizio a favore di un ripensamento circa la delibabilità delle sentenze straniere di condanna ai danni punitivi, ma una sospensione del giudizio per quanto concerne la trapiantabilità sic et simpliciter delle soluzioni americane. Tre questioni differenti Ci sono tre questioni che devono essere affrontate. La prima è quella della monofunzionalità della responsabilità civile: se cioè essa abbia un’unica funzione, quella risarcitoria, o molteplici funzioni, non solo quella punitiva, ma anche ad esempio quella preventiva. La seconda questione è quella strettamente legata alla delibabilità delle sentenze straniere che riconoscono i punitive damages. Danno e responsabilità 8-9/2016 Questi due problemi sono collegati ma non strettamente interdipendenti. Infatti, si potrebbe ben pensare che la RC abbia più funzioni, ma concludere comunque per il rigetto della delibazione. Vi è infine una terza questione che concerne le norme positive del nostro ordinamento, e cioè se esse non permettano già, o addirittura richiedano, indipendentemente da ogni teoria sulle funzioni della RC, una graduazione del risarcimento in base alla condotta del danneggiante. 831 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danni non risarcitori Le funzioni della RC Garanzie processuali e “pene private”? In fondo la risposta alla prima questione è la più semplice. A parte la Corte di cassazione nessuno più ritiene, almeno a partire dal celebre articolo di Calabresi del 1972 (1), che la RC abbia una sola funzione: quella risarcitoria. Questo non è neanche più un problema discusso in dottrina, e avevano già indicato nel nostro trattato della fine degli anni ’90 (2), e prima di noi già Bianca nel suo diffusissimo trattato (3), come la RC abbia più funzioni, e sicuramente quella preventiva. Perché concediamo dei risarcimenti, e perché mettiamo in moto un meccanismo così costoso come quello della giustizia civile per arrivare a concederli? Il vero motivo non è un’ansia risarcitoria, di assicurare comunque alla vittima un ristoro. Un sistema di first party insurance sarebbe probabilmente molto meno costoso per la società. Il vero motivo è quello di rendere costoso per l’agente la produzione del danno. Cioè di far internalizzare all’agente i costi delle sue azioni. In questo senso il risarcimento ha necessariamente, anche quando il suo contenuto sia semplicemente quello di compensare il danno subito, la funzione di prevenire il costo sociale degli incidenti. Questa verità è stata resa lampante da Rodotà e da Alpa fin dagli anni ’70, ed era anche alla base della impostazione di Trimarchi risalente fino agli inizi degli anni ’60. È rendendo costose le azioni colpose o dolose che provocano un danno ingiusto che la RC produce un ordine spontaneo delle attività umane: cioè che consente determinate attività purché si prendano le precauzioni necessarie a minimizzarne i costi sociali. Se vogliamo proibire determinate attività non bisogna ricorrere alla RC ma ad altri strumenti come la regolazione amministrativa (4). Non vi è quindi in realtà molto da aggiungere, visto che la voce della Cassazione è sul punto una voce del tutto isolata, e finisce per essere nient’altro che un arroccamento tecnico sorto sul terreno della delibazione delle sentenze di condanna ai punitive damages. Occorre allora vedere come questo arroccamento si sia prodotto in un campo ristretto per tentare di divenire una doctrine generale di cui oggi, insospettatamente, si deve tornare a discutere. La questione tecnica della delibazione di tali sentenze trae invero la sua forza, più che da una insostenibile monofunzionalità della RC, dall’avversione dell’ordinamento italiano per le pene private, e le sanzioni che si sottraggano al regime loro proprio che non può, se non in ristrettissimi ambiti del contratto o del testamento, essere quello del diritto privato. Questa posizione merita una certa considerazione. Soprattutto rispetto al problema della garanzia del convenuto. Da questo punto di vista la nostra Corte Suprema tenta di evitare che il convenuto si ritrovi a pagare una somma che supera il danno subito dalla vittima, in ragione della gravità della sua condotta, senza le dovute garanzie, ed anche che lo stesso sia tenuto a pagare una somma di cui non possa controllare la motivazione logica che ha condotto a concederla. Si vede bene, allora, come il problema della delibazione non dipenda tanto dalla questione della monofunzionalità, ma da quella delle garanzie per il convenuto. Ovvero ben si potrebbe ammettere, per me si dovrebbe, che la RC ha più funzioni, ma comunque rifiutare la delibazione perché vengono violati diritti importantissimi della difesa. Due sono quindi le questioni: se la somma del risarcimento possa superare il danno subito dalla vittima, e se le sue garanzie vengano meno nel caso, soprattutto, dei processi americani che concedono dei punitive damages. Occupiamoci per il momento di questa seconda questione. Nel processo americano questi danni sono assegnati dalla giuria, la quale è stata prevista in tali casi proprio a garanzia del convenuto, nel senso di sottrarlo all’arbitrio del giudice per affidarlo ad un giudizio dei suoi pari. Quindi, semmai, il problema si pone in modo invertito rispetto alle idee della Cassazione, invero apparentemente basate su comparazioni piuttosto approssimative. Cioè è il processo italiano, in caso di ammissione dei punitive damages a porre il convenuto nel possibile arbitrio del giudice, onde ne seguirebbe che a) le sentenze americane sono delibabili, proprio perché rese dalla giuria - anche perché altrimenti non si capisce co- (1) Calabresi, Guido and Melamed, A. Douglas, Property Rules, Liability Rules, and Inalienability: One View of the Cathedral, in Harvard Law Review, 1972, 1089. (2) P.G. Monateri, La responsabilità civile, Torino, 1998, 3 ss. 832 (3) M. Bianca, La responsabilità, Milano, 1994, 5 ss. (4) A.M. Polinsky - S. Shavell, The Uneasy Case for Product Liability, in Harvard Law Review, 2010, 1437. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Danni non risarcitori me siano accettabili nel nostro ordinamento le sentenze penali americane basate su un verdetto immotivato per definizione della giuria; mentre invece b) i punitive damages non sono trapiantabili perché il processo italiano - privo di giuria - è meno garantista di quello americano. Secondo me è naturale che la Cassazione confonda la garanzia con la controllabilità della decisione, dal momento che questo è il suo lavoro quotidiano, onde delle decisioni immotivate significano essenzialmente una impossibilità per la Cassazione di controllare quel particolare sviluppo del diritto. Ma questo è infine un modo di sovvertire il sostanziale col formale. La controllabilità della motivazione della decisione - come peraltro ben si osserva - non assicura affatto una maggiore tutela dei diritti, tant’è che proprio nel campo delle sanzioni i nostri diritti sono decisamente inferiori a quelli degli americani, e non valgono a salvare questo dato chissà quali arzigogolati ragionamentini: nessuno nel mondo preferirebbe la giustizia penale italiana a quella americana, checché si voglia dire e cammuffar le carte. Per altro verso è proprio la mancanza di punitive damages che permette a determinati convenuti seriali, come i giornali o le compagnie di assicurazione, o le banche, a poter tenere condotte che spesso irridono agli stessi principi posti dalla nostra S.C. Basti qui far riferimento al “decalogo del giornalista”. Ovvero è la mancanza dei danni punitivi a permette condotte, talvolta ben apprezzabili sul piano del dolo, che sicuramente sono antisociali, dacché distribuiscono sui più deboli costi rilevanti, e che non appaiono tali solo perché non possono adeguatamente venire represse dagli strumenti del diritto italiano. In estrema sintesi, per ovvie ragioni di spazio, risulta che a) i danni punitivi tornano a vantaggio della parte debole contro condotte volontarie dei soggetti forti; b) il convenuto è comunque tutelato, negli ordinamenti di common law, dalla presenza della giuria. A questo punto, però, tra il problema della non delibabilità delle sentenze straniere che accordano i danni punitivi e la loro ricezione si apre uno iato, cioè la soluzione dell’una questione può non incidere sull’altra, ma se si apre uno iato può darsi che si apra anche una via mediana che vale la pena di investigare. Danno e responsabilità 8-9/2016 L’efficienza sociale dei danni punitivi in caso di dolo Da un punto di vista generale non è difficile dimostrare che il risarcimento ottimale (R*) e i risarcimenti attuali (R) convergono nell’uguagliare i costi sociali (C). Il costo individuale (Ci) di un incidente tende infatti ad essere uguale al suo costo sociale. Quindi se viene ripianato il costo individuale -10 con un risarcimento equivalente di 10 il costo sociale diventa nullo: se R=Ci allora C=0, e naturalmente R=R*. Ciò avviene perché il danneggiante potenziale investe positivamente in misure di cautela per evitare di pagare il risarcimento. Queste equazioni però non tengono nel caso in cui il danneggiante non solo non investa in misure di sicurezza, ma addirittura investa negativamente in prevenzione, ovvero cominci ad investire positivamente in produzione del danno. Normalmente il danneggiante potenziale adottando cautela impiega parte del proprio tempo e delle proprie risorse nel prevenire il danno, quindi il suo investimento in sicurezza (S) è positivo: +1, +2 ...+x e dovrebbe equivalere, trascurando per semplicità i costi di detection e supponendo che i tribunali siano corretti nell’individuare i valori dei danni, alla probabilità dell’occorrenza del danno, e quindi del risarcimento, per il suo ammontare: S=p(R). Ne segue che per un danno di 10 con la probabilità di prodursi del 50% l’investimento ottimale in sicurezza dovrebbe essere di 5: 5=1/2(10). Nel caso di dolo però non ci troviamo in questa situazione. Il dolo può infatti essere descritto come un investimento positivo nella produzione del danno, ovvero come l’impiego delle proprie risorse, del proprio tempo, ed eventualmente anche del proprio denaro, per produrre il danno conseguente. Il ché equivale ad un investimento negativo in sicurezza. In questo caso non avremo un investimento di +1,+2...+x in misure preventive, ma un disinvestimento di -1, -2...-x, equivalente ad un investimento di +1,+2...+x nel produrre il danno stesso. Questi investimenti in produzione del danno sono ovviamente un costo sociale perché di indirizzano ad attività antisociali. Ne segue che a fronte del danno di 10 ipotizzato avremo un costo sociale pari al disinvestimento in sicurezza + il danno prodotto, cioè: -1 + -10 = -11 In questo caso se il risarcimento accordato è di 10, ovvero eguaglia il costo per la vittima, residua un 833 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danni non risarcitori costo sociale ulteriore di -1; ovvero la società nel suo complesso ci rimette. Il danno per la società differisce, in questi casi, dal danno individuale; questo rimane di -10, ma il danno sociale è di -11. Perciò è pacifico che, se R=Ci, cioè se il risarcimento attuale rimane 10, R<C, la società nel suo complesso perde comunque un -1, e quindi che nei casi di dolo il risarcimento deve essere superiore al costo individuale per evitare un costo sociale positivo per C>Ci, e quindi che per aversi R=R* allora deve essere R*>Ci. Ovvero che nei casi di dolo lo stesso principio del risarcimento ottimale che porta a farlo coincidere con la riparazione del danno individuale in quanto misura del costo sociale deve invece superarlo per la buona ragione che il costo sociale in questi casi è superiore al costo individuale. Ne consegue, pertanto, che i danni punitivi, in caso di dolo, sono la logica conseguenza degli stessi principi che portano all’equivalenza tra risarcimento e danno della vittima nei casi di colpa. L’evidente implicazione è che se taluno ritiene che in caso di colpa il giusto risarcimento equivale alla perdita subita (ed al mancato guadagno) deve ammettere che in caso di dolo questo non sarebbe un risarcimento sufficiente a ripianare il costo sociale degli incidenti. Se non lo fa è perché scarta dai propri principi, per ragioni varie, oppure che la sua logica è difettosa. Questa dimostrazione è importante perché risolve anche de plano la questione della colpa grave e del limite tra la colpa grave e il dolo eventuale. Infatti se, come abbiamo visto, esiste una scala che va dall’investimento massimo in produzione del danno (dolo pravo, premeditato) alla prevenzione massima (ultra-cautela), quindi esiste una scala da -x...-2-1, 0, +1,+2...+x allora, per definizione, esiste un punto 0. Cioè esiste un punto in cui non vi sono più investimenti in sicurezza e non vi sono ancora investimenti attivi nella produzione del danno. Il ché significa che la soglia tra colpa grave e dolo eventuale non è affatto meramente linguistica o categoriale, ma è ontologica. A questo punto mi pare facile dedurne che se si può far coincidere la colpa grave, che non è ancora dolo, con l’assoluta mancanza di precauzioni, essa corrisponde precisamente a tale punto 0. Viceversa il dolo eventuale, per essere dolo, deve già corrispondere ad un qualche investimento positivo nella produzione del danno, sia pure dello 0,1, ma, insomma, può cominciare a parlarsi di dolo eventuale solo quando sia S<0, cioè solo quando 834 l’investimento in sicurezza cominci a diventare negativo. Ciò significa che in situazioni di colpa grave R* rimane =Ci, ovvero che i danni punitivi non sono socialmente giustificati, perché siamo ancora in situazioni in cui C=Ci, in cui il costo sociale è pari al costo individuale. Ciò smette di avvenire solo a partire da un S negativo, ovvero in casi di dolo in quanto diverso dal caso di colpa sia pure grave. Pertanto se il compito della RC deve essere la minimizzazione del costo sociale atteso degli incidenti, ne segue che il risarcimento socialmente ottimale coincide con il danno individuale in tutti i casi di colpa, e che invece deve reagire alla condotta del danneggiante nei casi di dolo, perché il costo sociale aumenta con l’intensità con cui il danneggiante ha perseguito la produzione del danno a partire da -1...fino a -x, con x eventualmente tendente a infinito. Conclusione: i danni aggravati dalla condotta Vediamo, allora, di giungere ad una conclusione quanto alla delibazione, al trapianto dei danni punitivi, ed anche alle possibilità autonome già offerte dal nostro ordinamento. Quanto alla delibazione le ragione addotte a favore di un ripensamento mi paiono stringenti. Infatti, siccome i danni punitivi risultano razionalmente giustificabili non risulta ipso facto contrario all’ordine pubblico interno l’accogliento di un provvedimento straniero che li conceda, essendosi il legislatore estero attenuto a criteri di ragionevolezza che gli spettano nel permettere tali risarcimenti. Se ci si appunta sulle garanzie e sul meccanismo della giuria, in quanto verdetto non motivato, ne deriva che simile ragionamento debba, allora, essere seguito per tutti i provvedimenti, specie in materia penale, che derivano dall’adozione del meccanismo della giuria. Risulterebbe però internazionalmente un po’ strano che da un lato si guardi al trial by jury come ad una delle grandi conquiste della Magna Charta e dall’altro si bolli tale meccanismo come addirittura contrario all’ordine pubblico. Questa stessa rilevanza della giuria pone però in serio dubbio che si possa trapiantare nel nostro ordinamento sic et simpliciter la soluzione dei danni punitivi, soluzione che non può viaggiare agevolmente senza un complesso di norme che è comunque connesso al processo di common law e che non trovano equivalenti nelle nostre dinamiche processuali. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Danni non risarcitori Pare, quindi, difficile perorare la causa di una trapiantabilità delle soluzioni americane. Lasciamo qui, volutamente, nell’ombra il problema del transplant di alcune soluzioni inglesi, o di altri ordinamenti, difformi nei dettagli da quelle americane. Tuttavia la questione non può fermarsi a questi due soli punti. Infatti se risulta razionale trattare in modo difforme i casi di dolo da quelli di colpa (incluso quelli di colpa grave), con conseguente grave problema di equiparare situazioni difformi dal punto di vista della ragionevolezza e dell’uguaglianza, è mai possibile che il nostro legislatore non se ne sia accorto, e che la nostra secolare tradizione giuridica non abbia provveduto a differenziare questi due casi ? A ben vedere, infatti, non è così. Basti in primis ricordare la norma del 1225 c.c. dettata in sede di parte generale delle obbligazioni, e concernente il dolo del debitore. Ora qui è evidente che il legislatore ha trattato in modo del tutto difforme l’ipotesi della colpa e del dolo nell’inadempimento, tanto che se esso dipende da colpa il debitore è tenuto ai soli danni prevedibili, mentre se dipende da dolo egli è tenuto anche ai danni imprevedibili. Siamo qui di fronte ad una palese manifestazione del principio per cui i casi di dolo vanno trattati diversamente da quelli di colpa, e che deriva da una plurisecolare elaborazione intellettuale che rimonta a Donello, a Louis des Moulins, a Pothier, ed ovviamente anche a ben prima ed affonda addirittura nella tradizione romanista che infatti considerava centrale la distinzione tra delitto, recato con dolo, e quasi-delitto, recato con colpa, come asse portante della stessa teoria delle fonti dell’obbligazione. Tutto ciò è puntualmente confermato da una norma dettata in modo diretto, e peculiare, per ciò che attiene alla responsabilità civile extra-contrattuale, l’art. 2056 c.c. Secondo tale articolo, infatti, il risarcimento deve essere determinato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 c.c., ma il lucro cessante deve essere valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso. Orbene siamo qui di fronte ad una norma interessante. Essa è dettata nella parte speciale delle obbligazioni, nel titolo dei fatti illeciti, che bisogno aveva quindi la norma di dichiarare applicabili gli artt. 1223, 1226 e 1227, visto che essi sono dettati in sede di parte generale delle obbligazioni? Siccome noi dobbiamo fare riferimento al criterio del legislatore razionale e non ridondante è chiaro che l’unico motivo per tale richiamo è quello che si appoggia alla sua aggiunta sulle circostanze del caso. La formulazione del 2056 c.c. infatti differisce ampiamente da quella del 1226 c.c. Per il 1226 l’intervento equitativo del giudice dipende da una questione epistemologica: se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa. Questo problema della difficoltà della prova rispetto al vero non è il problema posto dal 2056. Peraltro, siccome il 1226 risulta applicabile per espressa previsione del 2056, rimane vero che in caso di difficoltà di prova si deve far ricorso ad una valutazione equitativa, ma risulta allora anche vero e palese che la valutazione equitativa di cui al 2056 non è la stessa di cui al 1226 e che vi possono nel caso di specie essere due rimandi all’equità: uno che concerne la difficoltà della prova, e l’altro che riguarda le circostanze del caso. Ora la presenza del dolo non è appunto una circostanza del caso? Certo che lo è, in particolare con riferimento proprio al 1225, il quale parlerà pure il linguaggio del contratto quanto a esplicazione della fattispecie, ma non è dettato in tema di contratto, bensì di parte generale delle obbligazioni, onde il principio che esso incorpora prescinde dall’esemplificazione della fattispecie. Esso non sarà applicabile quanto alla prevedibilità dei danni al campo della RC, per ovvie ragioni, e infatti non risulta richiamato dal 2056, ma rimarrà un’esemplificazione di principio valido per l’intera area delle obbligazioni. Comunque sia già da sé il 2056 c.c. è perfettamente chiaro, proprio nella misura in cui lessicalmente differisce dal 1226 che esso stesso richiama. Quindi richiama e innova in modo speciale per il campo dei fatti illeciti. In questo modo il giudice italiano è già dotato degli strumenti legislativi per valutare la presenza del dolo, e si badi della sua intensità, come circostanza del caso che incide per espressa previsione normativa sull’ammontare della liquidazione. Poiché parliamo di circostanze siamo quindi qui in presenza di danni che potremmo chiamare danni aggravati dalla condotta (5). (5) Cfr. G. Arnone - N. Calcagno - P.G. Monateri, Il dolo, la colpa e i risarcimenti aggravati dalla condotta, Torino, 2014. Danno e responsabilità 8-9/2016 835 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danni non risarcitori Questa categoria, congruente alle fonti legislative, può forse riuscire a risolvere l’empasse e le nostre conclusioni finali possono quindi essere le seguenti: a favore di un ripensamento della questione della delibabilità delle sentenze straniere di condanna ai danni punitivi - specie dal punto di vista della ormai insostenibile teoria della monofunzionalità della RC -; una sospensione del giudizio per quanto concerne la trapiantabilità delle soluzioni americane, questione che però perde molto del suo appeal se si considerano le potenzialità interne al sistema legislativo italiano - peraltro qui solo sommariamente considerate, e molto più ampie, a partire dal 96 c.p.c. fino all’art. 18 della legge sull’ambiente, e quant’altro -. Tali conclusioni sono avvalorate sia dal ragionamento razionale che da quello esegetico. Perciò quando esegesi e ragione coincidono, come in Maimonide, si può dire che la soluzione su cui convergono è quella verso la quale occorre cercare di progredire. Conclusioni Delibabili come e allo stesso modo di una sentenza penale americana. Possibile intervento delle Sezioni Unite sui danni punitivi di Giulio Ponzanelli Con l’ordinanza in questione si chiede l’intervento delle Sezioni Unite sul riconoscimento delle decisioni straniere di condanna a danni punitivi, sul quale la giurisprudenza di Cassazione aveva assunto una costante posizione negativa . Un diverso modo di concepire la categoria dell’ordine pubblico, elementi desumibili da una prospettiva comparatistica e infine la nuova attenzione rivolta alla condotta del danneggiante sollecitano oggi una diversa risposta da parte dell’ordinamento anche alla luce di un istituto, quale quello della responsabilità civile, che si presenta polifunzionale. L’ordinanza della prima sezione del 16 maggio: non esistenza di un contrasto interno La prima Sezione (cui spetta, come è noto, decidere i casi di riconoscimento di sentenze straniere all’interno dell’ordinamento italiano) chiede l’intervento delle Sezioni Unite sul problema specifico della contrarietà all’ordine pubblico di sentenze straniere di condanna ai danni punitivi. L’intervento è chiesto non tanto per la presenza di un conflitto di opinioni all’interno della Cassazione tale da richiedere l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite, quanto perché si tratta di questione di massima importanza. In effetti, nelle due volte in cui la Prima Sezione aveva affrontato la compatibilità con l’ordine pubblico internazionale di decisioni americane di condanna a danni punitivi (anche se si trattava di provvedimenti emessi da giurie, privi, come tali, di (1) Si tratta rispettivamente di Cass. 19 febbraio 2007, n. 1183, in Foro it., 2007, I, c. 1461, con mio commento, Danni punitivi? No grazie; in questa Rivista, 2007, 1125, con commento di P. Pardolesi, Danni punitivi all’indice? e in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, 981, con commento di S. Oliari, I danni 836 qualsiasi motivazione e indicanti la sola somma di condanna), non si avevano avuti molti dubbi nel giudicare non delibabili tali decisioni, sull’assunto che la riparazione rappresenta l’unico fine della responsabilità civile e che altri compiti, quali ad esempio la punizione e/o la deterrenza, sono estranei al corpo della responsabilità civile (1). Tali decisioni non avevano convinto del tutto perché: a) limitavano e condizionavano la circolazione delle decisioni straniere in un quadro sempre più dinamico di globalizzazione dei rapporti; b) trascuravano che, oltre alla riparazione del danno, l’imponente lettura formatasi in tema di compiti e finalità della RC aveva segnalato l’esistenza di altre, possibili funzioni della responsabilità civile. Proprio per questa ragione forte è stata la sorpresa nel leggere l’assai articolata ordinanza della prima sezione; anche perché il caso presentato all’esame dei giudici di appello veneti era specularmente similare a quello deciso dalla Cassazione nel suo pripunitivi bussano alla porta: la Cassazione non apre, e di Cass. 8 febbraio 2012, n. 1781, in questa Rivista, 2012, 608 con mia nota, La Cassazione bloccata dalla paura di un risarcimento non riparatorio. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Danni non risarcitori mo intervento del febbraio 2007: responsabilità del produttore italiano (anche in questo caso di un casco di protezione rivelatasi poi difettoso), causa intentata dagli eredi del motociclista deceduto contro il rivenditore nordamericano e successiva domanda di manleva chiesta nei confronti del produttore italiano, rimasto ovviamente contumace nel giudizio americano. L’ordinanza si pone in una posizione di sostanziale discontinuità con i precedenti arresti in tema di danni punitivi e, invece, di completa coerenza con la decisione della Cassazione dell’aprile 2015 ove, pur decidendo il caso delle astreintes, assai meno complicato dei danni punitivi per la forte vicinanza individuata tra le astreintes e il rimedio di cui all’art. 614 bis c.p.c., erano stati usati argomenti di grande apertura verso le finalità non riparatorie della RC (2). L’ordinanza è quindi particolarmente interessante proprio perché oltre a offrire una nuova lettura della nozione di un ordine pubblico (interno o internazionale è qui irrilevante), si è interrogata sulle finalità della responsabilità civile, alla luce di una variegata gamma di novità legislative e ci si chiede se il risarcimento collegato alla sussistenza di un’ipotesi di RC possa presentare una identità diversa da quella riparatoria. Analizziamo allora separatamente le due questioni, cominciando da quella che ha a che fare con l’ordine pubblico. La diversa nozione di ordine pubblico La Cassazione dedica la maggior pare della motivazione a fissare l’evoluzione del concetto di ordine pubblico che viene letto accostandolo singolarmente al contenuto del giudizio di costituzionalità: in altri termini, la norma straniera che è alla base della decisione di cui si chiede la delibabilità, non solo non deve essere vista in contrasto con la Costituzione, ma deve esistere una precisa preclusione a che il legislatore possa introdurre “un’ipotetica norma analoga a quella straniera, in quanto incompatibile con i valori costituzionali primari”. Quindi, una nozione di ordine pubblico molto più duttile di quella sperimentata in precedenza, che deve però essere applicata sempre tenendo in mente che ciò che si discute nel caso di riconoscimento sono sentenze e non norme. Questo approccio metodico è il prius logico necessario per esaminare il tema specifico: esistono norme in Italia che in qualche modo sono avvicinabili a una funzione non riparatoria ma punitiva dell’illecito civile? E se il legislatore volesse introdurne altre potrebbero esse essere tacciate di incostituzionalità? Così ricostruito il quadro di assieme, diventa più agevole il compito di valutare se, nel caso concreto, una decisione di condanna ai danni punitivi sia o meno in contrasto con l’ordine pubblico. L’interesse verso la figura dei danni punitivi in particolare e verso la funzione di deterrenza svolta dalle regole di responsabilità civile in generale Come anticipato, da anni la letteratura, e non solo quella giuseconomica, ha indagato come il risarcimento non dovrebbe presentare una sola identità riparatoria. Queste considerazioni crescevano mano a mano che il perimetro del danno risarcibile veniva allargato in una prospettiva sempre più panriparatoria, tanto che qualcuno ha voluto drasticamente celebrare questa stagione come caratterizzata da una sorta di “imperialismo disciplinare”:risarcire sempre più i danni, infatti, non può essere il solo ed esclusivo fine della responsabilità civile e rischiapoi di stravolgere gli equilibri del sistema. La bilateralità del rapporto danneggiante-danneggiato esige che possa essere presa in considerazione anche la posizione del danneggiante, anche se la norma generale, fissando la sostanziale equivalenza tra dolo e colpa, pare non escludere questi perimetri. Il risarcimento deve cioè riparare il danneggiato, ma anche incidere sulla condotta del danneggiante. In termini generali, non si può non incidere sul livello di attività del danneggiante, evitando la ripetizione di quelle condotte antigiuridiche alla base del danno che sarà risarcito (paradigmatica in questa prospettiva è la situazione della responsabilità medica). Quando, però, bisogna allora alzare il livello dell’integrale riparazione del danno perché possa essere efficacemente realizzata l’obiettivo di deterrenza e ,soprattutto , quanto. Due, infatti, sono i piani del discorso che devono essere analizzati: a) le si- (2) Cass. 15 aprile 2015, n. 7613, in Danno e Resp. 2015, 1155, con nota di G. Corsi, Il sì della Suprema Corte all’astreinte straniera. Danno e responsabilità 8-9/2016 837 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danni non risarcitori tuazioni concrete che possono legittimare l’applicazione di un rimedio ultracompensativo; b) il concreto divario rispetto all’integrale riparazione. Le scelte nell’ordinamento italiano sono evidentemente diverse da quelle proprie di quello americano, dove il ruolo decisivo spetta alla giuria, la cui incondizionata libertà è stata però sempre più progressivamente limitata dagli interventi della Corte Suprema (3). Nell’ordinamento italiano, non credo che una misura non riparatoria possa essere fissata dal giudice secondo il suo esclusivo e incondizionato apprezzamento equitativo: essa necessita di una intermediazione legislativa (4). Del resto, la linea più favorevole nella valutazione positiva sulla delibabilità delle decisioni straniere ,recanti condanne ai danni punitivi, prende le proprie mosse dagli interventi legislativi ,che negli ultimi dieci anni hanno previsto misure non riparatorie a maggiore presidio dell’effettività di alcuni diritti o per contrastare comportamenti abusivi e ostruzionistici. Misure non strettamente legate alla materiale esistenza di un danno e che dovranno essere poi implementate nella loro concreta quantificazione da parte del singolo giudice. Proprio l’esistenza di tali misure conduce a ritenere non in contrasto con l’ordine pubblico la decisione straniera di condanna a danni punitivi. Spetta quindi al legislatore fissare i settori e le situazioni, mentre, per ciò che riguarda la determinazione del danno, il potere rimane al giudice che lo eserciterà secondo il suo apprezzamento discrezionale, anche se non è impossibile immaginare Un’ultima annotazione, sull’ultima parte della decisione della Corte, ove la stessa fa riferimento al fatto che nel settore del danno alla persona “... il confine tra compensazione e sanzione sbiadisce in quanto la determinazione del quantum è rimessa a valori percentuali”. Non pare che ci possa essere spazio, salvo una diversa valutazione da parte del legislatore, per l’applicazione di rimedi non compensativi nel settore del danno alla persona. Qui, la valutazione del danno, anche per i suoi immediati riflessi assicurativi, è infatti determinata da misure convenzionali di tipo collettivo: le tabelle, frutto di un lavoro congiunto di tutti i più importanti operatori (medici legali, giudici, assicuratori etc.), non permettono l’azione di misure non riparatorie. Non si può certo dire che, siccome il principio di integrale riparazione del danno trova serie difficoltà nel campo del danno non patrimoniale (essendo impossibile in rerum natura quantificare un pregiudizio non patrimoniale), allora conseguentemente il giudice sarebbe libero di determinarne la misura, superando, se del caso, i limiti tabellari. La difficoltà di tradurre in denaro le lesioni alla persona infatti non può certo portare l’interprete verso livelli che, alla fine, superano quanto previsto dalle tabelle, mettendone in discussione la loro posizione di insostituibile strumento di equità collettiva. (3) Per una indagine completa F. Benatti, Correggere e punire. Dalla law of torts all’inadempimento del contratto, Milano, 2008 e ora anche in Danni punitivi e abuso del diritto, in Con- tratto e impresa, 2015, 861. (4) Cfr. G. Ponzanelli, Novità per i danni esemplari?, in Contratto e impresa, 2015, 1195. 838 che lo stesso legislatore stabilisca lui criteri specifici per la quantificazione del danno. Il danno alla persona Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Danni da eventi atmosferici Caso fortuito Danni da pioggia intensa: responsabilità e caso fortuito Cassazione Civile, Sez. III, 24 marzo 2016, n. 5877 - Pres. Vivaldi - Rel. Travaglino - P.M. Patrone - La Chiocciola di Iseo S.r.l. c Comune di Lissone - Condominio (omissis) - Helvetia S.p.a. Posto che è dato invocare il caso fortuito solo laddove il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante abbia un’efficacia di tale intensità da interrompere tout court il nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo, di tal che esso possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento, una pioggia intensa e persistente, dal carattere eccezionale, può integrarne gli estremi, salva l’ipotesi (ricorrente nella specie) in cui si accerti l’esistenza di condotte astrattamente idonee a configurare una responsabilità del soggetto che invoca l’esimente in questione. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cass., Sez. III, 11 maggio 1991, n. 5267; Cass., Sez. III, 9 ottobre 2003, n. 15061; Cass., Sez. III, 8 maggio 2008, n. 11227; Cass., Sez. III, 9 marzo 2010, n. 5658; Cass., Sez. III, 11 novembre 2011, n. 23562; Cass., Sez. III, 17 dicembre 2014, n. 26545; Cass.,Sez. III, 24 settembre 2015, n. 18877. Difforme Cass.,Sez. III, 22 maggio 1998, n. 5133; Cass., Sez. II, 8 maggio 2013, n. 10898. La Corte (omissis). Svolgimento del processo Omissis. Motivi della decisione Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 244 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione - responsabilità del comune di Lissone. Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 244 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in riferimento agli artt. 2043, 2051 e 2729 c.c. - responsabilità del condominio. Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 244 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione - responsabilità del comune di Lissone. Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 244 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in riferimento agli artt. 2043, 2051 e 2729 c.c. - responsabilità del condominio. Di qui, la riconduzione dell’evento di danno al caso fortuito. La questione giuridica sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi consiste, pertanto, nello stabilire se un fenomeno di pioggia intensa e persistente, tale da as- Danno e responsabilità 8-9/2016 sumere i connotati di una pioggia definita dalla Corte d’appello come di eccezionale intensità, alla luce degli acquisiti dati pluviometrici, possa costituire o meno un evento riconducibile alla fattispecie del fortuito, idoneo di per sé ad interrompere il nesso di causalità, in considerazione del suo carattere di straordinarietà ed imprevedibilità - quesito al quale la Corte d’appello ha dato risposta affermativa. La questione non è nuova nella giurisprudenza di questa Corte. La sentenza 11 maggio 1991, n. 5267, relativa alla diversa fattispecie di un contratto di deposito nei magazzini generali, ebbe già ad affrontare il problema della possibilità di riconoscere la natura di caso fortuito in riferimento ad un allagamento provocato da intense precipitazioni atmosferiche; e, sia pure con le diversità evidenti rispetto alla fattispecie per la quale è ancor oggi processo, questa Corte osservò che “per caso fortuito deve intendersi un avvenimento imprevedibile, un quid di imponderabile che si inserisce improvvisamente nella serie causale come fattore determinante in modo autonomo dell’evento. Il carattere eccezionale di un fenomeno naturale, nel senso di una sua ricorrenza saltuaria anche se non frequente, non è, quindi sufficiente, di per sé solo, a configurare tale esimente, in quanto non ne esclude la prevedibilità in base alla comune esperienza”. La successiva sentenza 22 maggio 1998, n. 5133, emessa in un giudizio avente ad oggetto un risarcimento danni per allagamento di un negozio conseguente all’invasione delle acque a seguito di abbondanti piogge, affermò 839 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danni da eventi atmosferici che “possono integrare il caso fortuito precipitazioni imprevedibili o di eccezionale entità”, rilevando che l’evento imprevedibile costituisce caso fortuito e non determina responsabilità. In tempi più recenti, la sentenza 9 marzo 2010, n. 5658 (...omissis...) ha affermato che è certamente vero “che una pioggia di eccezionale intensità può anche costituire caso fortuito in relazione ad eventi di danno come quello in questione; ma non è affatto vero che una siffatta pioggia costituisca sempre e comunque un caso fortuito”. Con quest’ultima pronuncia, in particolare, è stato precisato che, per potersi condividere la decisione del giudice di merito che in quell’occasione aveva respinto la domanda di risarcimento dei danni, l’ANAS “avrebbe dovuto dimostrare che le piogge in questione erano state da sole causa sufficiente dei danni nonostante la più scrupolosa manutenzione e pulizia da parte sua delle opere di smaltimento delle acque piovane; il che equivale in sostanza a dimostrare che le piogge in questione erano state così intense (e quindi così eccezionali) che gli allagamenti si sarebbero verificati nella stessa misura pure essendovi stata detta scrupolosa manutenzione e pulizia”. La sentenza in esame ha poi aggiunto che, ove fosse stato provato che la manutenzione e la pulizia sarebbero state idonee almeno a ridurre l’entità degli allagamenti, si sarebbe dovuto fare applicazione della previsione di cui all’art. 1227 c.c., comma 1. Ritiene questo Collegio che vada confermato tale, più recente orientamento, con le necessarie precisazioni richieste dalla specificità del caso in esame. La possibilità di invocare il fortuito (o la forza maggiore) deve, difatti, ritenersi ammessa nel solo caso in cui il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante abbia un’efficacia di tale intensità da interrompere tout court il nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo, di tal che esso possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento. È evidente, perciò, che un temporale di particolare forza ed intensità, protrattesi nel tempo e con modalità tali da uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, può, in astratto, integrare gli estremi del caso fortuito o della forza maggiore, salva l’ipotesi - predicabile nel caso di specie - in cui sia stata accertata l’esistenza di condotte astrattamente idonee a configurare una (cor)responsabilità del soggetto che invoca l’esimente in questione. Applicando tale principio al caso di specie, è evidente l’errore in cui è caduta la sentenza impugnata la quale, trascurando del tutto ogni accertamento in ordine al funzionamento delle pompe di smaltimento (che si assume da parte ricorrente non funzionanti) sulla scorta dell’erronea considerazione della loro insufficienza a smaltire l’intero flusso delle acque (senza interrogarsi né sulla possibilità e sulla efficacia causale di uno smaltimento anche solo parziale, né su eventuali responsabilità amministrative circa le caratteristiche stesse delle pompe di filtraggio), ha tuttavia attribuito, sic et simpliciter, il carattere del fortuito determinante alla pioggia torrenziale che si era abbattuta sul territorio, omettendo altresì di considerare le rilevanti perplessità espresse dal 840 ctu circa il reale stato di manutenzione della fognatura (...omissis...). La Corte d’appello, di converso, ha ritenuto - sulla base di un sillogismo evidentemente privo delle necessarie premesse - che anche un sistema di deflusso che fosse stato realizzato e avesse funzionato nel pieno rispetto di tutte le norme tecniche e di ordinaria diligenza non sarebbe stato idoneo a contenere la furia delle acque e ad evitare il danno. È tale affermazione ad apparire, nella sostanza, sfornita di motivazione, mentre è evidente che l’accertamento di una sicura responsabilità in capo all’ente tenuto alla manutenzione avrebbe dovuto imporre un più accurato esame della fattispecie, allo scopo di valutare se, come ed in quale percentuale l’esecuzione dei lavori a regola d’arte e il regolare funzionamento del sistema di pompaggio sarebbero stati in grado, se non di evitare, almeno di ridurre l’entità dei danni. Questa Corte ha già in più occasioni riconosciuto, anche in relazione agli obblighi di manutenzione gravanti sulla P.A., che la discrezionalità, e la conseguente insindacabilità da parte del giudice ordinario, dei criteri e dei mezzi con cui la P.A. realizzi e mantenga un’opera pubblica trova un limite nell’obbligo di osservare, a tutela della incolumità dei cittadini e dell’integrità del loro patrimonio, le specifiche disposizioni di legge e regolamenti disciplinanti detta attività, nonché le comuni norme di diligenza e prudenza, con la conseguenza che dall’inosservanza di queste disposizioni e di dette norme deriva la configurabilità della responsabilità della stessa pubblica amministrazione per i danni arrecati a terzi (tra le altre, Cass. 9 ottobre 2003, n. 15061 e 11 novembre 2011, n. 23562). È appena il caso di aggiungere, infine, che ogni riflessione, declinata in termini di attualità, sulla prevedibilità maggiore o minore di una pioggia a carattere alluvionale, certamente impone, oggi, in considerazione dei noti dissesti idrogeologici che caratterizzano il nostro Paese, criteri di accertamento improntati ad un maggior rigore, poiché è chiaro che non si possono più considerare come eventi imprevedibili alcuni fenomeni atmosferici che stanno diventando sempre più frequenti e, ormai, tutt’altro che imprevedibili. La responsabilità del condominio. La Corte territoriale ha ritenuto che l’esimente del caso fortuito predicata con riferimento alla responsabilità del comune giustificasse ipso facto una pronuncia di assoluzione da responsabilità anche per il condominio - così immotivatamente rigettando l’istanza di ammissione di prove per testi sulla circostanza che l’allagamento verificatosi al piano terra dei locali condotti in locazione dalla ricorrente fosse stato determinato anche da acque provenienti da un tubo di scarico pluviale rotto o disconnesso, in relazione al quale lo stesso tecnico della compagnia assicuratrice Helvetia aveva formulato un’offerta risarcitoria,- limitandosi sotto altro profilo a riportare un’affermazione del CTU che, peraltro, faceva acriticamente propria una circostanza contenuta nel fascicolo di parte del condominio (f. 15 della relazione, riportato al folio 31 del ricorso). Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Danni da eventi atmosferici La responsabilità della compagnia Helvetia. Osserva correttamente la società ricorrente che la Corte d’appello ha erroneamente escluso dall’operatività della garanzia assicurativa non soltanto i danni al seminterrato, ma anche quelli al piano terra (la cui risarcibilità era stata negata in prime cure non per inoperatività della garanzia stessa - la cui validità, sia pur parziale, era stata viceversa riconosciuta -, ma per carenza di elementi probatori, pur in assenza di appello incidentale da parte della compagnia), ed ha, altrettanto erroneamente, omesso del tutto di valutare la doglianza relativa al comportamento concludente dell’Helvetia, volto al sostanziale riconoscimento dell’operatività in parte qua di tale garanzia, corrispondendo un indennizzo, sia pur “per spirito conciliativo”. Anche tale profilo della controversia dovrà pertanto costituire oggetto di riesame da parte del giudice del rinvio. (...omissis...). Il ricorso è pertanto accolto, e il procedimento rinviato alla Corte di appello di che, in diversa composizione, si atterrà ai principi di diritto sopra esposti. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia (...omissis...) alla Corte di appello di Milano in altra composizione. IL COMMENTO di Vera Vozza L’orientamento prevalente in tema di danni da eventi atmosferici stabilisce che il caso fortuito può essere invocato solo nell’ipotesi in cui il fattore causale sia di intensità tale da interrompere il nesso esistente tra la cosa e l’evento lesivo. La Corte, inoltre, invita a riflettere sul concetto di discrezionalità della P.A. nella manutenzione dei beni demaniali e di eccezionalità degli eventi atmosferici. Il caso A seguito di un forte temporale, sia per l’esondazione di un vicino sottopasso, sia per precipitazioni da un tubo pluviale del condominio, una società subisce diversi danni in due locali condotti in locazione. Pertanto, cita in giudizio il Comune di Lissone, il condominio e le relative compagnie assicuratrici. L’attrice ritiene che tra le cause dall’allagamento abbia avuto, però, un particolare rilievo il mancato funzionamento delle elettropompe che il Comune aveva installato proprio per evitare danni di questo genere. I giudici di primo e di secondo grado respingono la domanda. Secondo la Corte d’Appello, in particolare, sarebbe stato inutile ogni accertamento sul mancato funzionamento delle elettropompe poiché, anche se funzionanti, non sarebbero state sufficienti a smaltire la copiosa pioggia caduta. Proposto ricorso per cassazione, però, la società vede accolte le proprie doglianze. La corte di legittimità ritiene che i giudici di merito avrebbero dovuto accertare il reale stato di funzionamento delle (1) A. Franchi, La Pubblica Amministrazione e l’art. 2051 c.c.: verso un tertium genus di responsabilità?, in Resp. civ. prev., 2014, 6, 1958. Danno e responsabilità 8-9/2016 elettropompe poiché, se è vero che la P.A. gode di ampi poteri discrezionali nel realizzare e manutenere un’opera pubblica, è anche vero che deve applicare la dovuta diligenza e prudenza al fine di tutelare l’incolumità pubblica e privata e il patrimonio dei cittadini. La Pubblica Amministrazione e il regime di responsabilità applicabile: breve excursus storico Per comprendere al meglio le diverse posizioni assunte dai giudici dei tre gradi di giudizio nella sentenza in commento, occorre chiarire l’annoso dibattito sorto sulla questione dell’applicabilità o meno dell’art. 2051 c.c. in capo alla P.A., la quale risulta probabilmente una delle più controverse nell’ambito del diritto civile (1). Fino alla fine degli anni Novanta, la scienza giuridica e la giurisprudenza osteggiavano l’operatività dell’art. 2051 c.c. in capo alla P.A., riconoscendo semmai applicabile il principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. (2). Questo indirizzo, tuttavia, è stato da più parti aspramente criticato poi(2) Tra le tante, Cass. 4 aprile 1985, n. 2318, in Nuova giur. civ. comm., 1985, 560, con nota di Cabella Pisu. In dottrina, sostengono l’applicabilità in capo alla P.A. del solo art. 2043 841 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danni da eventi atmosferici ché incentrato su uno sproporzionato trattamento di favore concesso alla P.A. rispetto al privato cittadino (3). Sul finire del secolo scorso, nasce e si consolida un orientamento più elastico, basato essenzialmente sull’applicabilità attenuata dell’art. 2051 c.c. alla P.A., limitatamente ai beni demaniali di non notevole estensione, destinati ad un uso moderato e non generalizzato da parte della collettività (4). La S.C., tuttavia, più volte sollecitata dai continui ricorsi promossi dalle parti lese, ha posto un deciso revirement giurisprudenziale a partire dalle sentt. nn. 3651 e 5445 del 2006 (5). In base a questa terza corrente di pensiero, alla P.A. non viene più accordato alcun “privilegio”, ben potendosi applicare in ogni circostanza il regime di responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., nella sua veste di responsabilità aggravata con conseguente inversione dell’onere probatorio nei confronti del custode (6). Infine, la Cassazione è approdata in questi ultimi anni all’orientamento certamente più severo e intransigente per il soggetto pubblico custode di beni demaniali, rivisitando la responsabilità de qua in termini oggettivi (7). Sulla scorta di questo indirizzo, l’interprete sarebbe tenuto a tralasciare l’esame di qualunque fattore soggettivo legato all’evento, concentrando la propria attenzione sul solo rapporto eziologico che collega la cosa oggetto di custodia al danno lamentato (8). Danni da eventi atmosferici e caso fortuito Una pioggia intensa e persistente, anche dal carattere eccezionale, che provoca l’allagamento dei locali condominiali, quando può essere considerata caso fortuito? c.c. molti autori dell’indirizzo soggettivistico, tra cui G. Gentile, La responsabilità per le cose in custodia del nuovo codice delle obbligazioni, in Resp. civ. prev., 1941, 169; D.R. Peretti Griva, Sul fondamento colposo della responsabilità di cui all’art. 2051 cod. civ., in Foro pad., 1952, I, 1063. (3) A tale proposito la dottrina più critica, favorevole alla qualificazione oggettiva della responsabilità da cose in custodia non ha esitato a parlare di vero e proprio “privilegio” accordato alla Pubblica Amministrazione: cfr. M. Comporti, Presunzioni di responsabilità e pubblica amministrazione: verso l’eliminazione di privilegi ingiustificati, in Foro it., 1985, I, 1497. (4) Orientamento che pare riproposto, in sede tanto di merito quanto di legittimità, anche dalla giurisprudenza di questi ultimi anni: vedasi ex aliis Cass. 1° dicembre 2004, n. 22592 e Cass. 23 febbraio 2005, n. 3745, entrambe con nota di M. Bona, Buche sulle strade urbane: spunti per un nuovo modello di responsabilità dei Comuni, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2005, 390-43. (5) Cass. 20 febbraio 2006, n. 3651, Resp. civ. prev., 2006, 1502; A tale pronuncia fa seguito Cass. 14 marzo 2006, n. 842 Nella sentenza de qua la S.C. scandisce i presupposti per invocare la predetta esimente: occorre che il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante abbia un’efficacia di tale intensità da interrompere il nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo, ossia che possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento. La giurisprudenza ha più volte affermato come il caso fortuito, in relazione all’art. 2051 c.c., si ponga quale fattore eccezionale, estraneo alla sfera soggettiva del custode, idoneo ad interrompere il nesso causale tra la cosa e l’evento lesivo (9). Giova ricordare come la dottrina abbia distinto varie tipologie di fortuito: 1) il fortuito c.d. autonomo, che rileva nel caso in cui il danno risulta prodotto esclusivo del fattore esterno; 2) il fortuito c.d. incidente, in cui la res - pur contribuendo al processo eziologico dell’evento - si pone alla stregua di mera occasione assorbita interamente dal fattore esterno; 3) il fortuito c.d. concorrente, in cui l’azione del fattore esterno non esclude l’efficienza causale del bene nella determinazione dell’evento. L’interruzione del nesso di causa comporta, quindi, che l’elemento estraneo si sia posto quale causa diretta ed esclusiva del danno, con relativa esclusione della potenziale pericolosità della res nel processo fenomenico dell’evento. Siffatto elemento - per pacifica e consolidata giurisprudenza di merito e legittimità - ben può essere rappresentato dal fatto del terzo o da quello dello stesso danneggiato, oltre che da eventi eccezionali ed imprevedibili (10). Come ha osservato la Cassazione con la sent. n. 5267/1991 (11), il caso fortuito deve consistere in un avvenimento imprevedibile, imponderabile ed improvviso, determinante in maniera autonoma dell’evento; l’eccezionalità di un fenomeno naturale, saltuario e dunque non frequente, non è suffi5445, in Arch. giur. circ. sin., 2006, 1034. (6) Cosi, A. Franchi, La Pubblica Amministrazione e l’art. 2051 c.c.: verso un tertiumgenus di responsabilità?, cit., 1958. (7) Tra le tante, Cass. 20 maggio 2003, n. 12219, in Foro it., 2004, I, 511. (8) Ancora, A. Franchi, La Pubblica Amministrazione e l’art. 2051 c.c.: verso un tertiumgenus di responsabilità?, cit., 1958. (9) Ex aliis, Cass. 8 aprile 1997, n. 3041; e Cass. 13 maggio 1997, n. 4196, entrambe in Giur. it., 1998, 1382, con nota di F.G. Pizzetti, Nuovi profili della responsabilità per danno da cose in custodia ex art. 2051 c.c. (10) È il caso, ad esempio, di fenomeni climatici assolutamente eccezionali per gravità ed imprevedibilità, di fronte ai quali si presume che una attività manutentiva pur diligente e perita da parte della Pubblica Amministrazione non avrebbe comunque potuto impedire l’insorgenza di situazioni pericolose per gli utenti del demanio: da ultimo Cass. 18 febbraio 2014, n. 3767, in www.altalex.com. (11) In Mass. Giust. civ., 1991, 5. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Danni da eventi atmosferici ciente a configurare tale esimente poiché non ne sarebbe esclusa la prevedibilità. Infatti, i cambiamenti climatici e l’espansione dei centri urbani che si è avuta negli ultimi 30 anni, hanno variato i dati alla base del dimensionamento di molte opere idrauliche: si è determinata una maggiore estensione del bacino di drenaggio per continuo sviluppo e impermeabilizzazione dei centri abitati, e la diminuzione del tempo di ritorno in seguito alle variazioni climatiche. Questo ha determinato di fatto una riduzione del tempo di vita utile a questi manufatti, che quindi in molti casi oggi sono obsoleti. Ad aggravare ulteriormente la situazione i problemi economici che affliggono gli enti locali e le aziende di gestione che spesso hanno loro impedito di effettuare i necessari adeguamenti degli impianti. Le conseguenze gravose di un nubifragio sono quindi spesso da ricercare in problemi strutturali degli impianti di raccolta e smaltimento delle acque meteoriche: l’estensione e l’entità dei danni è la manifestazione di un sintomo patologico delle strutture, non l’evidenza di un fatto eccezionale (12). La corretta analisi di questi elementi dovrà essere sempre alla base di ogni valutazione sulla responsabilità: la pioggia intensa e persistente, come nel caso di specie, tale da assumere i caratteri della eccezionale intensità, non costituisce un evento tale da rientrare nel caso fortuito specie in epoche, come quella attuale, in cui i dissesti idrogeologici (13) che attanagliano il nostro Paese sono sempre più frequenti e non consentono di considerare una pioggia a carattere alluvionale un evento imprevedibile e imponderabile. La sentenza impugnata ha, dunque, sbagliato nel trascurare del tutto ogni accertamento in ordine al funzionamento delle pompe di smaltimento sulla scorta dell’erronea considerazione della loro insufficienza a smaltire l’intero flusso delle acque, senza però interrogarsi né sulla possibilità e sulla efficacia causale di uno smaltimento anche solo parziale, né su eventuali responsabilità amministrative circa le caratteristiche stesse delle pompe di filtraggio; in tal modo il giudice ha attribuito, sic et simpliciter, il carattere del fortuito determinante alla pioggia torrenziale che si era abbattuta sul territorio, omettendo altresì di considerare le rilevanti perplessità espresse dal CTU circa il reale stato di manutenzione della fognatura (14). La Cassazione, infine, ha stabilito che la discrezionalità dell’ente pubblico nella manutenzione dei propri beni non vuol dire impunità. Se le sentenze di primo e secondo grado avevano escluso la responsabilità del Comune (e, per gli stessi motivi, del condominio) la S.C. ha riaperto i giochi, ricordandoci che le norme poste a tutela dei diritti soggettivi possono fungere da parametro di condotta dell’ente pubblico (15). (12) P. Bera, Eventi atmosferici: caso di forza maggiore o no?, in http://aipai.org/eventi-atmosferici-caso-di-forza-maggiore-o-no/. (13) Con l’espressione “ dissesto idrogeologico ”, oggi, si suole indicare un fenomeno o una serie di fenomeni (generalmente frane, alluvioni, valanghe e fenomeni ad esse associati) che compromettono l’assetto del territorio ai fini di un suo sfruttamento da parte dell’uomo. Dal punto di vista geologico, invece, le frane e le alluvioni sono gli eventi attraverso i quali la superficie terrestre “ evolve ” fin dalla sua formazione: ne discende che ciò che l’uomo considera dissesto, per la natura non è altro che un altro assetto, che comporta generalmente nuove condizioni di equilibrio. L’Italia è un Paese in cui l’esposizione al rischio di frane e alluvioni è particolarmente elevata e costituisce, pertanto, un problema di grande rilevanza sociale, sia per il numero di vittime che per i danni prodotti alle abitazioni, alle industrie e alle infrastrutture. Questo si deve al suo assetto geologico e alla morfologia spesso accidentata del nostro territorio: vanno però assumendo un peso sempre più rilevante le cause di origine antropica, legate ad un uso del territorio non attento (per usare un eufemismo) alle caratteristiche e ai delicati equilibri idrogeologici dei suoli italiani. Così, F. Di Dio, Frane e dissesto idrogeologico: verso una strategia di adattamento ai cambiamenti climatici, in Riv. giur. ambiente, 2011, 3-4, 463. (14) L. Izzo, La pioggia intensa non giustifica l’incuria, Condominio e comune responsabili per i danni da allagamento, in http://www.studiocataldi.it/articoli/21559-la-pioggia-intensanon-giustifica-l-incuria-condominio-e-comune-responsabili-peri-danni-da-allagamento.asp. (15) In tal senso, A Gallucci, Pioggia e infiltrazioni: riconosciuto il caso fortuito se i danni sono causati da un prolungato acquazzone, in D&G, 2013, 554. Danno e responsabilità 8-9/2016 843 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Risarcimento del danno Inadempimento contrattuale La responsabilità delle banche tra principi generali e norme speciali Cassazione Civile, Sez. I, 19 gennaio 2016, n. 806 - Pres. S. Di Palma - Est. M. Acierno - P.M. M. Velardi Ai fini della valutazione della responsabilità della banca per il caso di utilizzazione illecita da parte di terzi di carta bancomat trattenuta dallo sportello automatico, non può essere omessa, a fronte di un’esplicita richiesta della parte, la verifica dell’adozione da parte dell’istituto bancario delle misure idonee a garantire la sicurezza del servizio da eventuali manomissioni, nonostante la condotta imprudente del cliente e l’intempestività della sua denuncia, poiché la diligenza posta a carico del professionista ha natura tecnica e deve essere valutata tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento ed assumendo quindi come parametro la figura dell’accorto banchiere (massima non ufficiale). ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cass., Sez. III, 20 marzo 2014, n. 21613, in Corr. giur., 2014, 906; Cass., Sez. III, 20 settembre 2013, n. 21613, in CED; Cass., Sez. III, 24 settembre 2009, n. 20543, in Guida dir., 2009, 48, 56; Trib. Milano 16 marzo 2009, in www.ilcaso.it; Cass. 12 giugno 2007, n. 13777, in Giur. it., 2008, 319 e in Guida dir., 2007, 27, 30. Difforme Corte App. Cagliari n. 213/2008, inedita. La Corte (omissis). Svolgimento del processo A ha convenuto in giudizio la X - Cassa di Risparmio di X, attualmente C, deducendo di essere correntista della banca; di aver tentato di eseguire un prelievo bancomat presso di essa il 9/9/1999 senza riuscirci perché l’apparecchio, dopo aver trattenuto la carta, visualizzava la scritta “carta illeggibile” e successivamente “sportello fuori servizio”; di aver immediatamente segnalato l’inconveniente al vicedirettore della filiale che si trovava presso l’istituto e di aver ricevuto l’indicazione di tornare il giorno dopo; di averlo fatto e di aver constatato il mancato rinvenimento della carta predetta. I giorni 9 e 10 settembre ignoti effettuavano consistenti prelievi per oltre 7000 Euro. L’attore affermava di aver comunicato per iscritto l’evento al vice direttore e di aver sporto denuncia all’autorità giudiziaria il successivo 13 settembre. La banca deduceva la tardività della segnalazione e della denuncia del fatto. Il Tribunale rigettava la domanda rilevando che non era stata eseguita regolare comunicazione entro 48 ore dall’accaduto così come prescritto nell’art. 14 delle condizioni generali di contratto. La Corte d’Appello ha confermato il rigetto sulla base delle seguenti argomentazioni: l’indebito prelievo è ascrivibile in via esclusiva alla responsabilità dell’appellante. Le riprese video della fase 844 del prelievo hanno evidenziato che il A è stato vittima di una truffa da parte di persona ignota che si è avvicinato a lui e, con il pretesto di volerlo aiutare nell’operazione, ha evidentemente visto e memorizzato il PIN, avendo in precedenza manomesso il funzionamento dell’apparecchio in modo da poter recuperare la disponibilità della carta rimasta al suo interno. L’appellante ha commesso l’imprudenza di digitare il PIN sotto gli occhi del truffatore, senza aver tempestivamente attivato il blocco, mediante numero verde così come sollecitato dal funzionario, limitandosi ad allertare il direttore della filiale della mancata restituzione della carta ma omettendo di far menzione della presenza di un terzo. Così facendo l’appellante ha violato in particolare la disposizione contrattuale che impone la segretezza del PIN. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso il A affidandosi a due motivi. Motivi della decisione Nel primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1176 c.c., per avere la corte territoriale individuato nell’esclusiva responsabilità del ricorrente la causa del danno patrimoniale dal medesimo subito. La decisione assunta si è posta in contrasto con il canone di buona fede dal momento che il A aveva immediatamente avvisato la banca del cattivo funzionamento dello sportello Bancomat e del trattenimen- Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Risarcimento del danno to della carta. Non è stato, di conseguenza, preso in considerazione il grave difetto di diligenza dell’istituto all’esito di tale segnalazione in quanto non è stata posta in essere nessuna cautela atta ad evitare il danno a fronte della segnalazione dello spossessamento. Da parte della banca è stata attuata una condotta radicalmente omissiva in violazione dell’art. 1176 c.c., comma 2. Lo sportello era costantemente ripreso da una telecamera e conseguentemente poteva essere verificato agevolmente come si era svolta effettivamente l’operazione. L’istituto poteva essere a conoscenza delle truffe ma nulla aveva posto in essere. Secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 13777 del 2007) banca avrebbe dovuto porre in essere strumenti idonei a garantire gli impianti da manomissione, rispondendo in mancanza dei relativi rischi. Il motivo si chiude con rituale quesito di diritto. Nel secondo motivo viene dedotta l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia consistente nel fatto che la corte territoriale non ha considerato le contestazioni specifiche in ordine all’ammontare dei prelievi effettuati da ignoti in misura ben superiore ai limiti giornalieri (2500 Euro) e la previsione contrattuale secondo la quale in caso di mancata comunicazione tempestiva dell’indebito od illecito uso della carta restano a carico del titolare le conseguenze pregiudizievoli fino ad un massimo di 300 Euro. In particolare l’art. 34, delle Condizioni generali di contratto prevede che in caso di smarrimento, furto o sottrazione della carta o del PIN, il titolare deve darne immediata comunicazione alla X con qualsiasi mezzo. Entro le 48 ore deve seguire conferma scritta da presentare direttamente o mediante lettera raccomandata, corredata da copia conforme della denuncia sporta alle autorità competenti. Ove la comunicazione avvenga dopo l’uso indebito od illecito le conseguenze pregiudizievoli rimangono a carico del cliente fino a 300 Euro. Il titolare risponde di tutti gli utilizzi se ha agito con dolo o colpa grave, ovvero in conseguenza di quanto previsto nel presente articolo nonché nel precedente art. 31. Il ricorrente tuttavia ha immediatamente informato la banca dell’avvenuta sottrazione della carta e della presenza di un terzo, constatando la mattina successiva che il bancomat non era stato rinvenuto ma ricevendo assicurazioni in ordine alla circostanza giustificata dal funzionario della banca come temporaneo blocco o malfunzionamento. Il primo motivo è fondato. La Corte d’Appello nel riconoscere l’esclusiva responsabilità del ricorrente per aver consentito l’individuazione del PIN ad un terzo e non aver provveduto all’immediato blocco della carta, non ha svolto uno scrutinio effettivo del comportamento contrattuale della banca secondo il parametro della diligenza professionale ex art. 1176 c.c., comma 2. A tale verifica invece la Corte territoriale era tenuta sotto due profili. Il primo consistente nell’indagine della condotta del funzionario che ha raccolto la denuncia immediata del malfunzionamento del bancomat il quale invece di mettersi in allarme per la sottrazione della carta da parte dello sportello ha differito il controllo al giorno suc- Danno e responsabilità 8-9/2016 cessivo; il secondo consistente nell’omessa verifica mediante il sistema di telecamere incontestatamente attivato (ed assolutamente necessario al fine d’integrare l’obbligo di diligenza specifica) dell’avvenuta manomissione del medesimo da parte di terzi. Omettendo l’esecuzione di tale indagine la Corte d’Appello ha sostanzialmente non applicato il parametro della diligenza specifica posta a carico della banca nonostante il chiaro orientamento espresso dalla prima sezione di questa Corte in una fattispecie del tutto analogo secondo il quale: “Ai fini della valutazione della responsabilità contrattuale della banca per il caso di utilizzazione illecita da parte di terzi di carta bancomat trattenuta dallo sportello automatico, non può essere omessa, a fronte di un’esplicita richiesta della parte, la verifica dell’adozione da parte dell’istituto bancario delle misure idonee a garantire la sicurezza del servizio da eventuali manomissioni, nonostante l’intempestività della denuncia dell’avvenuta sottrazione da parte del cliente e le contrarie previsioni regolamentari; infatti, la diligenza posta a carico del professionista ha natura tecnica e deve essere valutata tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento ed assumendo quindi come parametro la figura dell’accorto banchiere”. (Cass. 13777 del 2007). Nel presente giudizio il ricorrente ha espressamente affermato (e provato con la riproduzione delle conclusioni dei due gradi di merito) di aver contestato puntualmente e tempestivamente la violazione dell’art. 1176, secondo comma, cod. civ. La manomissione dello sportello costituisce una circostanza incontestatamente derivante dal mancato rinvenimento della carta al suo interno e dalla sua sottrazione ed utilizzazione da parte di terzi. Risulta pertanto evidente l’omesso accertamento della violazione del dovere di diligenza specifica derivante dal rapporto contrattuale e dalla peculiarità degli obblighi di custodia dello sportello bancomat. Come precisato nella sentenza sopra citata la diligenza professionale nella specie deve valutarsi non solo con riferimento all’attività di esecuzione contrattuale in senso stretto ma anche in relazione ad ogni tipo di atto e operazione oggettivamente riferibile ai servizi contrattualmente forniti. Nella specie, è stata del tutto elusa dalla corte d’Appello l’indagine volta a verificare se la banca sia tenuta a garantire la sicurezza del servizio bancomat dalle manomissioni di terzi anche quando il titolare della carta non abbia rispettato l’obbligo di chiedere immediatamente il blocco della medesima o abbia favorito la conoscenza del PIN da parte di terzi. L’art. 1176 secondo comma, cod. civ. lascia imprecisata la questione della misura della diligenza nelle obbligazioni inerenti l’esercizio di un’attività professionale ma la sua valutazione di carattere tecnico deve essere commisurata alla natura dell’attività ed in particolare alla specificità dell’obbligo di custodia di uno strumento esposto al pubblico avente ad oggetto l’erogazione di denaro. Ad integrare l’indagine non eseguita dalla corte territoriale devono essere inclusi non solo i comportamenti omissivi della banca (l’omessa verifica continua- 845 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Risarcimento del danno tiva della manutenzione dello sportello mediante le telecamere in uso) ma anche quelli commissivi consistenti nella specie nell’ambigua indicazione, sollecitata dall’immediata lamentela del cliente relativa alla sottrazione della carta, di tornare il giorno dopo per la riconsegna, sulla base di un ragionevole affidamento della sua insottraibilità unita al suggerimento non univoco del blocco. Del tutto ignorata, infine anche la circostanza del prelievo in misura molto superiore al plafond contrattuale da ritenersi un ulteriore profilo di malfunzionamento del sistema da valutare ai fini di un esame complessivo della diligenza professionale posta a carico della banca. L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento del secondo e la cassazione con rinvio della sentenza impugnata. Il giudice del rinvio dovrà valutare se il comportamento della banca sia in ordine al riscontrato difetto di manutenzione e custodia, sia in ordine alla condotta accertata del responsabile presente nella sede della medesima, sia in ordine al prelievo largamente eccedente il plafond giornaliero possano integrare il difetto di diligenza e art. 1176 c.c., comma 2, anche a fronte del comportamento non osservante dell’obbligo contrattuale di non favorire la lettura del PIN e di provvedere al blocco immediato. P.Q.M. La Corte, accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente procedimento alla Corte d’Appello di Cagliari in diversa composizione. Cassazione Civile, Sez. III, 18 dicembre 2015, n. 25442 - Pres. Dott. L. Russo - Est. Dott. M. Chiarini - P.M. Dott. R. Fuzio L’intermediario finanziario risponde delle conseguenze civilistiche dell’appropriazione indebita compiuta dal suo promotore in danno di terzi, essendo sufficiente a tal fine il nesso di occasionalità tra l’illecito ed il conferimento dell’incarico di promuovere affari, il cui espletamento abbia reso possibile o anche solo agevolato la condotta illecita. Ciò in base all’art. 31, comma 3, D.Lgs. n. 58/1998, ma tanto più se al fatto dannoso l’intermediario finanziario abbia concorso con un comportamento colpevole, omettendo di osservare i doveri che gli sono prescritti dalla legge e senza che possa valere ad interrompere il nesso di causalità tra lo svolgimento dell’attività e la consumazione dell’illecito la circostanza che la consegna al promotore finanziario delle somme di denaro da investire da parte del risparmiatore sia avvenuta con modalità difformi da quelle previste dalla legge. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cass., Sez. III, 22 settembre 2015, n. 18613, in CED, n. 636983; Trib. Milano, Sez. VIII, 13 dicembre 2011, in Società, 2012, 2, 223; Cass., Sez. III, 25 gennaio 2011, n. 1471, in questa Rivista, 2011, 7, 727. Difforme Cass., Sez. I, 10 novembre 2015, n. 22956, in CED, n. 637646, Trib. Milano 23 gennaio 2003. La Corte (omissis). In fatto A convenne dinanzi al Tribunale di Milano C1 e s.p.a. C2, incorporante X Investimenti, già X Investimenti Sim, deducendo di aver consegnato al C1, promotore finanziario di X dal 1992 ed iscritto all’albo a norma del D. Lgs. n. 31 del 1998, Euro 284.000 in contanti nel luglio del 2003 per prenotare - come da modulo del 23 luglio 2003 che produceva, sottoscritto dal C1 per ricevuta e dalla A - un’obbligazione Y su carta intestata X Investimenti S.I.M. s.p.a. per un valore nominale di Euro 301.040, autorizzandone l’addebito sul c/c n. (omissis) intrattenuto con X. Precisò poi che in data 18 gennaio 2004 ricevette dalla banca X una lettera su cui erano manoscritti appunti e confermato il prestito obbligazionario Y, con dichiarazione di immissione in un deposito titoli cumulativo ad essa sottorubricato per sottoscrizione nominale di Euro 315.950 di obbligazioni scadenti il 846 31 luglio 2004, con sottoscrizione illeggibile “Banca Investimenti X. A maggio 2004 l’avvocato del C1 la informò che questi non aveva provveduto ad investire la somma ricevuta avendola sottratta e che non era più in condizioni di restituirla. Pertanto la A chiese la condanna in solido dei convenuti, a norma dell’art. 31, comma 3, TUF, non avendo la banca esercitato alcun controllo sul suo promotore esclusivo, al pagamento di Euro 315.950, oltre interessi convenzionali e legali, rivalutazione e danno morale per la condotta illecita. La convenuta s.p.a. C2, incorporante X investimenti, contestò la domanda deducendo che la A aveva consegnato la cospicua somma al più in esecuzione di un rapporto personale con il C1, poi giustificato dai moduli prodotti, privi di data certa, di cui il secondo ideologicamente falso e in relazione al quale ne disconosceva la sottoscrizione, e per un tasso dell’11,25%, incredibile per un investimento obbligazionario. Inoltre il primo modulo era intestato “Investimenti Sim S.p.A.”, mentre Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Risarcimento del danno da novembre 2002 la denominazione era cambiata in Banca X Investimenti s.p.a.; la corresponsione in contanti era anche in violazione della normativa antiriciclaggio, e la a non era cliente X, né vi erano investimenti a suo nome. Il Tribunale accolse la domanda sulle seguenti considerazioni: 1) ai sensi del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 13, comma 2, i documenti, in particolare quello del 2003 sottoscritto dal C1, con il codice (...) quale promotore finanziario della X, dovevano ritenersi veri poiché non contestati, e riconosciuti dal C1 a norma dell’art. 215 c.p.c.; 2) il documento del 18 gennaio 2004 provava il rapporto con costui ed era irrilevante che non provenisse da funzionari della banca perché la A1 aveva agito ai sensi dell’art. 31, comma 3, TUF; 3) i documenti trasmessi all’investitrice avevano un contenuto minimo tale da ritener possibile fossero obblighi della banca e l’affidamento sul promotore era stato da questa ingenerato; 4) avendo la A riscosso Euro 15.000 per cedole maturate, essi dovevano esser decurtati da Euro 284.000, mentre non spettavano gli interessi riconosciuti nel documento 3 perché nessun reale investimento era stato effettuato; 5) a norma dell’art. 31, comma 3, TUF, in linea con la L. n. 1 del 1991, art. 5, comma 4, la banca doveva rispondere in solido per la condotta illecita del suo promotore, e a tal fine era irrilevante che costui avesse il potere di rappresentanza della banca non avendo questa dimostrato la collusione tra investitore e promotore, mentre le incongruenze tra i documenti - come quella tra il riconoscimento del C1 del versamento della somma di Euro 284.000, mentre nel modulo di prenotazione era previsto l’addebito di tale importo sul conto della risparmiatrice - “erano tipiche” del dolo del promotore; 6) le norme della L. n. 197 del 1991, sull’antiriciclaggio non erano volte ad impedire il rischio del danno verificatosi e dunque non avevano influenza nella fattispecie; 7) il concorso causale - art. 1227 c.c., comma 1, della A per aver con estrema imprudenza consegnato in contanti la rilevante somma di danaro, era riconoscibile nella misura del 30%; 8) il danno morale per l’appropriazione indebita era riconoscibile nella somma di Euro 700. Con sentenza del 15 febbraio 2011 la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale sulle seguenti ragioni: 1) la consegna del danaro nella somma allegata dalla A, avvenuta con più versamenti al C1, nella qualità di promotore finanziario di X Investimenti s.p.a. a scopo di investimento, come provato dal suo numero di codice apposto nell’apposito spazio, era provata dal modulo, con duplice sottoscrizione del C1 “per ricevuta 23 luglio 2003 Euro 284.000” la cui firma la banca non ha contestato - ed infatti ne ha sostenuto la falsità ideologica, non materiale, ed in relazione ad esso ha astrattamente ipotizzato, non allegando alcun riscontro concreto, un accordo fraudolento tra il suo promotore e la A - con cui era stato formalizzato l’ordine, e dall’estratto conto, in relazione al quale l’istanza di C.T.U. grafologica era esplorativa e non sorretta da alcun motivo di impugnazione; 2) le incongruenze tra i due documenti, concernenti la denominazione della banca e la Danno e responsabilità 8-9/2016 misura dei prospettati interessi, non incidevano sulla valenza probatoria della consegna del danaro, ma rilevano per il concorso di colpa della A e poiché, comunque, il modulo era proveniente dalla banca, erano irrilevanti; 3) decine di investitori truffati dal C1 per milioni di Euro, gran parte in contanti, rendevano ancor più verosimile l’assunto della A; 4) pertanto i moduli di consegna del danaro e di conferma dell’ordine erano riconducibili all’attività di promotore finanziario del C1 per conto della C2 che l’investitrice aveva percepito come veritieri e perciò sussisteva la speciale responsabilità di cui all’art. 31 TUF, prevalente su quella della A attesa l’attività professionalmente qualificata del promotore. Ricorre per cassazione la C2 s.p.a. cui resiste A1. Le parti hanno depositato memoria. Motivi della decisione 1.- Con il primo motivo la ricorrente lamenta: “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 31, - artt. 2049 e 2697 c.c.; artt. 1175 e 1375 c.c., art. 116 c.p.c., anche in coordinata lettura con gli artt. 2731 e 1309 c.c., per avere il collegio dato per accertato senza prova oggettiva l’avvenuto versamento di Euro 284.000.000 dalla A al C1. Art. 360 c.p.c., comma, n. 5. Contraddittoria ed insufficiente motivazione sul punto decisivo della controversia, consistente nella mancata prova oggettiva dell’avvenuto versamento di Euro 284.000 dalla A al C1, il tutto in relazione all’affermazione della responsabilità di C2”, non avendo la A provato di aver consegnato al T. la rilevante somma in contanti, sostenendo dapprima di averla corrisposta in unica soluzione, in violazione della normativa antiriciclaggio - ed infatti nei confronti della A era stato aperto dal dipartimento del Tesoro un procedimento per l’abnorme modalità del versamento di somma la cui provenienza era ignota, ma l’esito era sconosciuto - poi in versamenti ripetuti, infine in somme inferiori ai 12.500 Euro. Gli argomenti posti a fondamento della decisione potevano valere nei confronti del C1, ma non della banca, nei cui confronti opera la responsabilità ai sensi dell’art. 31 TUF previo accertamento dell’effettiva dazione, mentre al più vi erano indizi, ed il silenzio della A era da valutare ai sensi dell’art. 116 c.p.c., e artt. 1375 e 1175 c.c., anche perché è inusuale che una banca fornisca rendiconti manoscritti e non è verosimile l’interesse dell’11,25% annuo su un investimento obbligazionario per un periodo breve, a meno che la A conoscesse la reale destinazione del danaro consegnato in violazione delle modalità prescritte dal D. Lgs. n. 58 del 1998, e dal reg. Consob: assegni bancari o circolari intestati al soggetto abilitato all’offerta fuori sede per conto del quale agisce il promotore, con clausola non trasferibile; ordine di bonifico e documenti similari a favore del beneficiario e conferma tramite posta indirizzata al cliente. In difetto vi era soltanto un rapporto fiduciario con il T. Il motivo è infondato. 847 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Risarcimento del danno 1.1- La Corte di merito ha correttamente applicato i principi secondo i quali l’intermediario finanziario abilitato - quale era X Investimenti Sim - risponde di un illecito compiuto in danno di terzi - D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 31, comma 3, - dal suo promotore che lo abbia commesso in tale veste, con conseguente responsabilità dell’intermediario per effetto della correlazione essendo sufficiente un nesso di occasionalità necessaria tra l’illecito e il conferimento dell’incarico di promuovere affari, il cui espletamento abbia reso possibile o anche solo agevolato la condotta illecita, tanto più se al fatto dannoso abbia concorso un comportamento colpevole dell’intermediario, che abbia omesso di osservare i doveri prescritti dalla legge - D.Lgs. n. 58 del 1998, ratione temporis applicabile, secondo i quali: (art. 21, comma 1) “Nella prestazione dei servizi di investimento e accessori i soggetti abilitati devono: a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati (profilo privatistico e pubblicistico); d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi; e) svolgere una gestione indipendente, sana e prudente e adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti sui beni affidati” - ovvero di adottare cautele efficaci e di vigilare e controllare l’attività del suo collaboratore, in violazione sia dei generali obblighi di correttezza e diligenza nello svolgimento del rapporto instauratosi con l’investitore, sia degli specifici obblighi richiesti dalla particolare natura dell’attività imprenditoriale e professionale esercitata servizio di investimento - e sul cui corretto esercizio, tramite il suo preposto, il consumatore di prodotti finanziari confida (ex multis Cass. 6033 del 2008), sia della normativa comunitaria di protezione del medesimo e dell’integrità dei mercati, e costituzionale di tutela del risparmio (art. 47). Infatti nella specie i giudici di merito hanno evidenziato, a prova del collegamento tra il comportamento del T. e la sua veste di promotore della X Investimenti e a fondamento della corresponsabilità di quest’ultima: a) il C1, nel periodo in cui ha ricevuto i versamenti dalla A, era validamente investito della qualità di promotore di X; 2) il modulo di investimento del 23 luglio 2003, consegnato alla A per l’obbligazione Y per un complessivo valore nominale di 301.040,00 Euro, era intestato a X Investimenti, con conseguente rilevanza esterna del rapporto tra promotore e preponente a cui apparteneva il prodotto finanziario, ed era sottoscritto dalla investitrice e dal promotore, che aveva riempito l’apposita casella indicando il suo codice (...) secondo la procedura stabilita dalla normativa applicabile (precitato D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 1, art. 36 della delibera Consob del primo luglio 1998 e 96 della delibera Consob n. 12409/del 2000); 2) la X Investimenti, su carta alla stessa intestata, in data 18 gennaio 2004 ha inviato alla A la conferma e il rendiconto degli interessi maturati sul suddetto investimento; 3) l’incarico affidato da detta Banca al C1 ha agevolato la condotta criminosa di costui - senza che perciò sia elisa la corresponsabilità dell’intermediario (art. 31.3 del precitato D. Lgs.) - non 848 avendo questi assolto l’onere non soltanto di provare di aver agito con la circostanziata, specifica diligenza richiesta (art. 23, comma 6 stesso D.Lgs.), ma altresì avendo denotato, nell’omettere reiteratamente di effettuare i dovuti controlli - tanto che, evidenzia la Corte di merito, decine di investitori erano stati truffati per svariati milioni di Euro - di riporre una fiducia assoluta nel suo promotore, che aveva continuato a disporre della modulistica di investimento dell’intermediario, in modo che l’investitore non potesse dubitare del suo potere di raccogliere ordini e di riceverne il pagamento, avallati dal rendiconto proveniente dall’intermediario. 1.2- Altrettanto correttamente i giudici di merito hanno applicato il principio secondo il quale la circostanza che il cliente abbia consegnato al promotore finanziario somme di denaro con modalità difformi da quelle con cui quest’ultimo sarebbe legittimato a riceverle - assegni bancari o circolari intrasferibili, ordini di bonifico o documenti similari, strumenti finanziari nominativi o all’ordine, intestati o girati al soggetto abilitato per conto del quale opera (artt. 81 precitata delibera Consob e 94, comma 6 del regolamento intermediari Consob del 1998 n. 11522, applicabile ratione temporis, e della cui violazione risponde l’intermediario che abbia accettato modalità di pagamento difformi da quelle prescritte, come nel caso in esame alla luce del rendiconto sull’andamento dell’investimento) - non vale, in caso di indebita appropriazione di dette somme da parte del promotore, ad interrompere il nesso di causalità esistente tra lo svolgimento dell’attività dello stesso e la consumazione dell’illecito, e non interrompe la corresponsabilità solidale dell’intermediario preponente (...). 3.- Concludendo il ricorso va respinto. Le spese giudiziali seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso (...). Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Risarcimento del danno IL COMMENTO di Martina Gerbi (*) Attraverso le due pronunce della S.C. prese in esame, l’A. si interroga sul tema dell’inadempimento contrattuale e dei danni risarcibili ad esso conseguenti con riferimento, in particolare, a due peculiari fattispecie, entrambe coinvolgenti la figura dell’istituto di credito, verificando le specificità della risposta normativa e giurisprudenziale alle esigenze di tutela dei soggetti più deboli nei rapporti presi in esame. Introduzione Le sentenze in esame Le due pronunce in commento, depositate da due diverse sezioni della Corte di cassazione nell’arco di poco meno di un mese l’una dall’altra, tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, offrono l’occasione per una breve riflessione in ordine ai confini del danno risarcibile in ipotesi di responsabilità da inadempimento contrattuale degli istituti di credito. All’interno del presente commento si prenderà spunto dalle fattispecie sottoposte all’esame della I e della III Sezione della S.C. (rispettivamente, con la sent. 19 gennaio 2016, n. 806 e con la sent. 18 dicembre 2015, n. 25442), per verificare quali siano i principi di diritto di volta in volta individuati dai giudici di legittimità come parametro per addivenire all’affermazione o alla negazione della responsabilità degli istituti di credito per i danni lamentati dai loro clienti a fronte delle peculiari fattispecie concrete dalle stesse affrontate, nonché se ed in che termini essi si coniughino con i principi generali in tema di causalità e danni risarcibili nell’inadempimento contrattuale, così come da ultimo riaffermati anche recentemente dalla Corte di cassazione (1). Cass. 18 dicembre 2015, n. 25442 affronta il caso della risparmiatrice che, dopo avere consegnato ingenti capitali in contanti ad un promotore finanziario affinché li investisse per il tramite di una società di intermediazione mobiliare collegata e poi incorporata ad un noto istituto di credito (convenuto in giudizio) e dopo essersi vista consegnare della corrispondenza manoscritta su carta intestata della medesima società, attestante l’avvenuto investimento, era poi venuta a conoscenza dal legale del promotore finanziario, che questi aveva in verità sottratto la somma a lui affidata e non era ormai più in grado di restituirla. In prima istanza il Tribunale di Milano, ai sensi dell’art. 31, comma 3, TUIF aveva riconosciuto la responsabilità, oltre che del promotore finanziario, anche della banca per la quale costui aveva svolto la propria attività, ma aveva ritenuto anche che, nel caso di specie, sussistessero gli estremi per l’affermazione di un concorso della responsabilità della stessa cliente nella causazione del danno, ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c. In particolare, il giudice di primo grado aveva giudicato rilevante l’imprudenza con la quale la donna aveva consegnato brevi manu al promotore una così rilevante somma di denaro in contanti (oltre euro (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. (1) In particolare, la seconda sezione civile della S.C. è tornata recentemente a pronunciarsi sul tema del danno risarcibile in caso di inadempimento contrattuale con la sent. 9 dicembre 2015, n. 24850 (reperibile nella banca dati Lex 24), coeva, dunque, alle pronunce qui prese in esame. Mediante tale provvedimento, la Corte di cassazione, con riferimento al mancato adempimento di un contratto preliminare di compravendita immobiliare, cui era seguita la domanda della parte adempiente volta ad ottenere anche il risarcimento del danno da ritardata apertura di un hotel e di quello rappresentato dai costi sostenuti per dare esecuzione ad un lodo arbitrale ottenuto nei confronti di terzi soggetti (entrambi ritenuti dalla parte adempiente conseguenza appunto dell’altrui inadempimento), ha riaffermato che, in tema di inadempimento contrattuale, l’ambito del danno risarcibile deve essere circoscritto mediante il ricorso alla regola della c.d. regolarità causale. Deve, cioè, essere risarcito solo il danno che sia diretta ed immediata conseguenza dell’inadempimento o quello che, pur essendo solo una sua conseguenza mediata ed indiretta, rientri comunque nelle conseguenze normali dell’inadempimento, in base ad un giudizio di probabile verificazione, rapportato all’apprezzamento dell’uomo di ordinaria diligenza (l’id quod plerumque accidit). Unica fondamentale eccezione a tale regola - continua la sentenza- è quella per la quale, qualora tra tutte le possibili cause di un danno (e tra le quali si colloca anche l’inadempimento contrattuale), ve ne sia una ad esso più prossima, da sola sufficiente a produrre l’evento, essa deve escludere tutte le altre antecedenti. Proprio in applicazione di tali principi, atteso che la sentenza d’appello era stata coerentemente con essi motivata, la sentenza in parola respingeva il ricorso per cassazione. Danno e responsabilità 8-9/2016 849 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Risarcimento del danno 280.000), invece che per mezzo di assegno bancario o circolare non trasferibile o comunque altro mezzo comunque idoneo a consentire la tracciabilità del pagamento ed aveva, dunque, condannato sia il promotore sia la banca per la quale il primo aveva svolto la propria attività di promozione al pagamento, in favore dell’attrice, di un danno patrimoniale (2) e di un danno morale (3) decurtati però del 30%. La sentenza era stata, quindi, confermata dalla Corte d’Appello di Milano, la quale, a fronte dell’impugnazione della banca appellante, aveva ribadito la condanna delle convenute, “attesa l’attività professionalmente qualificata del promotore”. Chiamata a pronunciarsi in merito alla legittimità della decisione di secondo grado, con la pronuncia in esame, la Corte di cassazione conferma la decisione, concludendo che la condotta di parte attrice, per quanto imprudente, non era stata sufficiente ad elidere il nesso causale sussistente tra l’attività del promotore e la consumazione dell’illecito. Nella motivazione, la S.C. specifica come le ragioni della responsabilità dell’istituto di credito convenuto fossero da individuare, oltre che nel disposto dell’art. 31, comma 3, TUIF (4), anche nel livello di attenzione particolarmente basso tenuto dallo stesso verso il proprio promotore, circostanza desumibile dal fatto che una grande quantità di clienti, come parte attrice, in quello stesso periodo, era stata parimenti truffata dal medesimo soggetto. Con la seconda pronuncia presa in esame (Cass. 19 gennaio 2016, n. 806), invece, la S.C. affronta il caso del correntista che aveva citato in giudizio la propria banca, assumendone la responsabilità per l’illegittimo prelievo di denari avvenuti dal proprio conto corrente, posto in essere da terzi rimasti ignoti, dopo che lo sportello dell’istituto aveva trattenuto la sua carta bancomat (5). Uscito sconfitto in primo grado a motivo della ritenuta tardività della denuncia dell’accaduto rispetto ai termini contrattualmente previsti (6), anche in grado d’appello il correntista aveva visto rigettare la sua domanda. Proprio nel corso del giudizio di appello, in particolare dall’esame delle riprese video della banca, era emerso come il correntista fosse stato vittima di una vera e propria truffa ad opera di un ignoto, il quale, dopo avere manomesso lo sportello bancomat affinché trattenesse la carta del malcapitato avventore, lo aveva avvicinato e, con la scusa di prestargli aiuto, gli aveva invece carpito il codice della sicurezza. Con il ricorso in cassazione, veniva denunciato un errore della Corte d’Appello, nella valutazione dell’adeguatezza della condotta posta in essere dalla (2) Il danno patrimoniale viene quantificato in misura pari alla somma consegnata dalla risparmiatrice al promotore finanziario, decurtata di euro 15.000, che erano stati medio tempore alla stessa corrisposti da quest’ultimo a titolo di “cedole maturate”. La sentenza non riconosceva, invece, la spettanza degli interessi promessi, in quanto “nessun reale investimento era stato effettuato”. (3) Il risarcimento del danno morale veniva dal Tribunale di Milano specificamente motivato alla luce della rilevanza penale della condotta illecita del promotore finanziario e veniva in definitiva quantificato nella misura equitativamente determinata di euro 700. Sul tema del danno morale si rinvia, in primiis, alle pronunce a Sezioni Unite della Cass. 11 novembre 2008, nn. 26972-26975 pubblicate, tra le altre, in Foro it., 2009, 1, 120, con commenti di G. Ponzanelli, Sezioni unite: il “nuovo statuto” del danno non patrimoniale e E. Navarretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e la sostanza dei danni non patrimoniali, ibidem, F.D. Busnelli, Le Sezioni unite e il danno non patrimoniale, in Riv. dir. civ., 2009, 97, e, in questa Rivista 2009, 19, A. Procida Mirabelli di Lauro, Il danno non patrimoniale secondo le Sezioni unite. Un “de profundis” per il danno esistenziale, S. Landini, Danno biologico e danno morale soggettivo nelle sentenze della Cass. SS.UU. 26972, 26973, 26974, 26975/2008 e C. Sganga, Le Sezioni unite e l’art. 2059 c.c.; censure, riordini, ed innovazioni del dopo principio. Sulle stesse pronunce anche Cendon P. L’urlo e la furia, in Nuova giur. civ. comm., 2009, 2, 71 e AA.VV. Il danno non patrimoniale. Guida commentata alle SS.UU. 11.11.2008 nn. 26972-26975, Milano, 2009. Per un’antologia ragionata della giurisprudenza di merito successiva a tali pronunce, tra gli altri, A. D’Angelo - G. Comandé - D. Amram (a cura di), La liquidazione del danno alla persona, Milano, Lex 24, 2010, l’inserto Il danno alla persona a due anni dalle Sezioni Unite del 2008 allegato a questa Rivista, 2011, 6, e L. Nocco (a cura di) Osservatorio della giurisprudenza in materia di danno alla persona, in questa Rivista, 2013, 12. Sul tema del danno morale da reato nell’inadempimento contrattuale si veda anche Il danno non patrimoniale e la responsabilità contrattuale, di E. Navarretta - D. Poletti, in E. Navarretta (a cura di), Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle per la liquidazione, Milano, 2010. Sul danno non patrimoniale in generale, si vedano E. Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996 e G. Comandé, Risarcimento del danno alla persona e alternative istituzionali. Studio di diritto comparato, Torino, 1999. (4) Si tratta, più precisamente, del Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli artt. 8 e 21 della L. 6 febbraio 1996, n. 52, pubblicato in G.U. Il 26 marzo 1998, n. 71, il quale, all’art. 31, comma 3, stabilisce, infatti, che il soggetto che conferisce l’incarico è responsabile in solido dei danni arrecati a terzi dal promotore finanziario abilitato all’offerta fuori sede e ciò “anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale”. Sull’argomento si rinvia a E. Galanti, Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, Padova, 2008. (5) Nel caso di specie il malcapitato cliente lamentava anche che le somme prelevate dai malviventi risultavano essere superiori ai plafond giornalieri di prelievo contrattualmente pattuiti. (6) Il ricorrente aveva, in particolare, sostenuto di avere subito denunciato l’accaduto alla banca, ma verbalmente e di avere reiterato la denuncia scritta solo in un secondo momento, quando ormai erano in effetti decorse le 48 ore dagli accadimenti de quo (termine massimo per la denuncia, previsto a pena di decadenza in base alle previsioni del contratto). 850 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Risarcimento del danno La responsabilità della banca per il fatto illecito commesso dal promotore finanziario affonda le proprie radici nel rapporto di preposizione sussistente tra l’autore della condotta ed il soggetto preponente chiamato a risponderne, nonché nel nesso di causalità tra l’esercizio delle incombenze affidate al primo ed il danno dallo stesso cagionato. Tale schema, riconducibile in prima istanza al paradigma generale della responsabilità per fatto altrui di cui agli artt. 1228 e 2049 c.c. (7), con specifico riferimento al rapporto di preposizione sussi- stente tra il promotore finanziario e la banca, trova nell’art. 31 TUIF la propria definitiva affermazione (8). Nell’interpretazione della norma, tesa a garantire una sempre maggiore tutela al contraente debole del rapporto, in linea con l’evolversi generale di una normativa sempre più rivolta alla maggior tutela dei consumatori, spesso in esecuzione di input comunitari, si è affermata la tendenza ad indagare in maniera progressivamente meno restrittiva il nesso di causalità sussistente tra le incombenze svolte dal promotore per conto dell’istituto di credito suo preponente ed il danno cagionato dal preposto ai risparmiatori (9). La giurisprudenza ha elaborato a questo riguardo il concetto di occasionalità necessaria (10), riconoscendo la responsabilità della banca preponente in tutti i casi in cui l’agire del promotore sia uno degli strumenti attraverso i quali essa organizza la sua attività di impresa, traendone benefici, cui vanno collegati anche i relativi rischi (11). Esteso così fino ai suoi massimi confini il concetto di nesso di causalità, il preponente può andare esente da responsabilità solo dimostrando l’esistenza di circostanze atte ad interrompere questo nesso funzionale. Tuttavia, l’ipotesi che si potrebbe formulare sulla base di tale assunto, per la quale l’avere, allora, del promotore finanziario perseguito esclusivamente fini di profitto personali dovrebbe elidere il legame che inchioda il suo preponente alla responsabilità patrimoniale dei danni che sono conseguiti alla condotta del primo, viene smentita dagli orientamenti più recenti della giurisprudenza. (7) A questo proposito si ricordano M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità oggettive artt. 2049-2053), in Commentario al codice civile, Schlesinger - Busnelli, Milano, 2009 e, più risalenti, S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, 176, M Franzoni, Fatti illeciti, Bologna, 1993, 424 e U. Ruffolo in La responsabilità vicaria, Milano, 1976, per il quale sussiste una preposizione rilevante ai sensi dell’art 2049 c.c. “in ogni ipotesi di potere giuridico in ordine all’utilizzazione di quel particolare tipo d’altrui attività latamente definibile lavoro e caratterizzata da subordinazione tale da presentarsi come compatibile, anche se non coincidente, rispetto allo schema del lavoro subordinato”. Tra le pronunce che espressamente sanciscono la responsabilità della banca con rinvio alla norma dell’art. 2049 c.c., si segnalano Trib. Biella 5 giugno 2007, di cui si dà conto in Come difendersi dalle banche, R. Cafaro, Sant’Arcangelo di Romagna, 2011, nonché Cass., Sez. III, 29 settembre 2005, n. 19166, in questa Rivista, 2006, 2, 141. Sulla natura contrattuale della responsabilità per fatto altrui delle cc.dd. SIM si rinvia a F. Greco, La natura contrattuale della responsabilità della SIM per fatto illecito del promotore finanziario, in Resp. civ. prev., 2016, 6, 1963. Riconduce, invece, la responsabilità della banca alla norma generale dell’art. 2049 c.c. Cass., Sez. III, 22 settembre 2015, n. 18612, in D&G, 2015, 33, 102, con nota di A Paganini, La responsabilità della banca per il fatto del proprio promotore finanziario non esclude il concorso di colpa del danneggiato. (8) Sul rapporto tra norma generale di cui all’art. 2049 c.c. e la previsione di carattere speciale qui richiamata si segnala, all’indomani dell’entrata in vigore della normativa, E. Roppo in P.G. Alpa - P.M.S. Caprioglio (a cura di), Commentario al Testo Unico Finanza, Milano, 1998, 331. (9) Per un’analisi accurata del fenomeno giurisprudenziale evolutivo in parola si rinvia a F. Bartolini, L’occasionalità necessaria non tramonta mai: una conferma sulla responsabilità della Sim per gli illeciti del promotore, in questa Rivista, 2011, 7, 727, nota a Cass., Sez. III. 25 gennaio 2011, n. 1741. (10) Sul concetto di occasionalità necessaria si vedano Trib. Prato 23 gennaio 2011, n. 211, in Guida dir., 2011, 24, 50, Corte App. L’Aquila 21 gennaio 2010, in Foro it., 2010, I, 1946, V Cass., Sez. III, 12 marzo 2008, n. 6602, in Mass. Giust. civ., 2008, 3, 409. (11) È un’epifania del principio di diritto cuius commoda eius et incommoda, riaffermato dalla S.C. con sent. n. 11590 del 26 maggio 2011 e che secondo una certa dottrina condurrebbe all’affermazione della natura oggettiva della responsabilità conseguente all’assunzione del rischio di impresa. In tal senso V. Cuffaro (a cura di), Il codice di consumo, Milano, 2012, 1168. banca, in esito alla denuncia del proprio correntista. Assumeva, in particolare, il ricorrente che, se la banca avesse visionato i filmati delle telecamere di sicurezza subito dopo la sua denuncia, essa avrebbe immediatamente compreso la reale natura dell’accaduto ed avrebbe potuto così bloccare la carta, prima che terzi potessero portare a compimento i loro intenti criminosi. In accoglimento del ricorso, la S.C. cassa la sentenza della Corte d’Appello con rinvio al giudice di secondo grado, per rimettere allo stesso la valutazione della correttezza della condotta della banca secondo il parametro non applicato in occasione della sua prima pronuncia, cioè, avendo riguardo alla diligenza specifica esigibile dalla banca, che si legge in sentenza - è chiamata ad adottare misure sicure idonee a prevenire eventuali manomissioni, “nonostante l’intempestività della denuncia”. L’occasionalità necessaria: un limite non limite alla responsabilità della banca Danno e responsabilità 8-9/2016 851 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Risarcimento del danno La sent. della Cass. n. 25442/2015 in commento costituisce un chiaro esempio degli approdi di questo filone interpretativo (12). Neppure la circostanza che, mediante il suo comportamento, espressione tipica di una ben precisa fattispecie di reato (l’appropriazione indebita), il preposto abbia inteso procurare solo a se stesso uno specifico profitto economico è sufficiente per mandare esente la banca dalla co-responsabilità patrimoniale che le ascrive la previsione dell’art. 31 TUIF, se l’espletamento da parte del preposto dell’incarico affidatogli dalla banca abbia reso possibile o anche solo agevolato la condotta illecita. Evidente la deriva verso un sistema di responsabilità oggettiva della banca per le conseguenze pregiudizievoli della condotta - anche se dolosa - del preposto all’esercizio dell’attività finanziaria. Movimento che, con riferimento al caso preso in esame, viene solo molto limitatamente ridimensionato dall’accenno della sentenza in commento alla mancata adeguata vigilanza della banca sul suo preposto (13). Ma vi è di più. La pronuncia in parola sancisce, infatti, il principio per il quale neppure il fatto proprio del cliente danneggiato è sempre sufficiente ad elidere quel nesso di occasionalità necessaria che costituisce la matrice propria della responsabilità della banca per i fatti del suo promotore. Se quest’ultimo accetta la consegna di denaro in contanti da parte della cliente, afferma la pronuncia in commento, egli commette senz’altro una violazione della normativa di settore e ne risponderà nelle sedi opportune e di fronte alle autorità competenti, ma per ciò solo il cliente incauto che sia stato truffato non può rimanere privo di tutela. Se è vero che senza la condotta imprudente del risparmiatore il promotore non si sarebbe potuto trovare nelle condizioni di fatto idonee a consentirgli di portare a termine l’appropriazione indebita, sembra suggerire la Corte di cassazione, non sarebbe però coerente con i principi dell’ordinamento immaginare di sollevare il responsabile dell’azione de- littuosa dall’obbligo di rispondere delle conseguenze che da essa derivano, per il fatto di avere agito in danno di un risparmiatore non sufficientemente avveduto ed in violazione della normativa antiriciclaggio. La soluzione rinvenuta dalla giurisprudenza di merito e confermata dalla pronuncia in commento all’esigenza di tutelare un soggetto così debole, tenendo comunque in debita considerazione della sua condotta attiva che è evidentemente non irrilevante rispetto alla concatenazione causale dei fatti che conduce all’appropriazione indebita del promotore, è quella del riconoscimento del concorso del fatto colposo del danneggiato e della riduzione del risarcimento allo stesso spettante in maniera proporzionale all’incidenza della sua imprudenza nell’evolversi generale della vicenda. Guardando ai principi generali in tema di responsabilità conseguente ad un inadempimento contrattuale, sembrano potersi esprimere almeno due considerazioni a proposito della sentenza in commento. La prima è che la norma speciale dettata dall’art. 31 TUIF sembra quanto mai lontana dal criterio per l’individuazione del danno risarcibile nell’inadempimento contrattuale che - come riaffermato anche recentemente dalla Corte di cassazione nella pronuncia richiamata supra - resta quello della regolarità causale rapportato al principio di causalità efficiente ed in applicazione del quale si sarebbe dovuta rinvenire una causa prossima da sola sufficiente a produrre l’evento del depauperamento del patrimonio del risparmiatore, se non già nella condotta imprudente del risparmiatore, quantomeno nel comportamento del preposto dolosamente finalizzato a commettere il reato di appropriazione indebita ai danni dei malcapitati di turno. La seconda, invece, è che il risultato della suddetta deroga normativa ai principi generali, unitamente all’interpretazione estensiva della previsione dell’art. 31 TUF posta in essere dalla giurisprudenza, sono evidentemente rispondenti a contingenti ragioni di politica del diritto nelle scelte allocative (12) Sul tema si rinvia anche a A. Stabilini, La responsabilità solidale della banca per gli illeciti compiuti dall’intermediario finanziario, in Società, 2012, 2, 223, nota a Trib. Milano, Sez. VIII, 13 dicembre 2011. (13) Ad un’attenta lettura, la sentenza in parola non manca, infatti, di sottolineare anche che la condotta della banca, nel caso di specie, era stata particolarmente negligente rispetto ai doveri di vigilanza che le competevano sui propri preposti (circostanza dimostrata dal fatto che molti risparmiatori, nello stesso periodo, erano stati truffati alla medesima maniera). Tali considerazioni non costituiscono però il fulcro della decisione e sono semmai solo argomentazioni ad adiuvandum. A questo proposito si osserva, peraltro, che, come statuito dalla Corte di cassazione sin dalla sentenza della sua III Sezione del 28 agosto 1995, n. 9100, “la responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2049 c.c., essendo fondata sul presupposto della sussistenza di un rapporto di subordinazione tra l’autore dell’illecito e il proprio datore di lavoro e sul collegamento dell’illecito stesso con le mansioni svolte dal dipendente, prescinde del tutto da una culpa in vigilando o in eligendo del datore di lavoro ed è quindi insensibile all’eventuale dimostrazione dell’assenza di colpa”. 852 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Risarcimento del danno dei danni, ma sono rese possibili grazie all’assenza, nel diritto civile, contrariamente a quanto si verifica con l’art. 41 c.p., di una nozione generale del “nesso causale” (14). Così, in un contesto quale è quello del mercato mobiliare degli investimenti, connotato per sua natura da tecnicismi spesso davvero incomprensibili per il quisque de populo, si allargano le maglie del danno risarcibile, garantendo un ristoro alle vittime di determinate condotte, anche delittuose, ricorrendo, tra l’altro, al concetto di occasionalità necessaria (15). La diligenza dell’accorto banchiere Leitmotiv che accomuna le due decisioni è proprio l’attenzione posta sulla posizione del soggetto più debole del rapporto contrattuale. In questo caso, tuttavia, la chiave di volta che serve a dare risposta a tale esigenza di tutela in concreto non è rappresentata da una norma speciale che imponga alla banca di rispondere del fatto altrui, come accade, invece, in tema di intermediazione finanziaria e creditizia. Fulcro del percorso argomentativo, in questo caso, è ipotizzare l’innalzamento del livello di diligenza esigibile in concreto dal professionista, attraverso l’elaborazione della figura dell’accorto banchiere (16) e rimettere al giudice di merito il compito di verificare se la banca convenuta, nel caso sotto(14) Per un’analisi sistematica del tema si rinvia a L. Berti, Il nesso di causalità in responsabilità civile, Milano, 2013, M. Capecchi, Il nesso di causalità. Dalla condicio sine qua non alla responsabilità proporzionale, III ed., Padova, 2012 e M. Infantino, La causalità nella responsabilità extracontrattuale. Studio di diritto comparato, Napoli, 2012 e, più risalenti, P. Forchielli, Il rapporto di causalità nell’illecito civile, Padova, 1960, F. Realmonte, Il problema del rapporto di causalità nel risarcimento del danno, Milano, 1967 e P. Trimarchi, Causalità e danno, Milano, 1967. Sul rapporto tra la nozione di nesso di causalità e la politica del diritto, poco più risalente, a L. Nocco Il sincretismo causale e la politica del diritto: spunti dalla responsabilità sanitaria, Torino, 2010. L’assenza di una nozione unitaria di nesso di causalità ha favorito l’affermarsi di contrapposte teorie giurisprudenziali in ordine alla rilevanza giuridica delle concause naturali nelle ipotesi di responsabilità contrattuale da esercizio delle professioni mediche e sanitarie. Su questo tema, in particolare, si segnalano Cass., Sez. III, 16 gennaio 2009, n. 975, in Corr. giur., 2009, 12, 1653 con nota di B. Tassone, Concause, orientamenti recenti e teorie sulla causalità, in Corr. giur., 2009, 12, 1653 con nota di M. Bona, Più probabile che non e concause naturali: se, quando ed in quale misura possono rilevare gli stati patologici pregressi della vittima e in questa Rivista 2012, II, 149 con nota di L. Nocco, Rilevanza delle concause naturali e responsabilità proporzionale: un discutibile revirement della Cassazione e Zorzit Il problema del concorso di fattori naturali e condotte umane - Il nuovo orientamento della cassazione, nonché Cass., Sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991, in Corr. giur., 2011, 1672 con nota di M. Bona, La Cassazione rigetta il modello della causalità proporzionale con un decalogo impeccabile Danno e responsabilità 8-9/2016 posto al suo esame, abbia adottato tutte le misure idonee a garantire la sicurezza del servizio da eventuali manomissioni, nonostante l’intempestività della denuncia. Uscito sconfitto nei due gradi di giudizio con sentenze che, in definitiva, avevano ascritto alla sua incauta condotta l’intera responsabilità della disavventura nella quale era incorso, per avere egli con ritardo denunciato alla banca il trattenimento della sua carta da parte dello sportello bancomat, per essersi egli fatto carpire da terzi il codice di sicurezza della carta di debito e per avere infine anche taciuto tale circostanza all’atto della tardiva denuncia dell’accaduto, l’anziano risparmiatore di cui alla pronuncia in parola vede così riaccendersi le speranze di un possibile accoglimento della sua domanda. Non sempre, statuisce in sostanza la S.C., la condotta criminosa del terzo costituisce antecedente logico da se solo sufficiente ad interrompere la catena causale che dall’assunzione da parte della banca dell’obbligo di rendere il servizio bancomat porta all’evento dannoso (il prelievo illegittimo e non autorizzato di somme dal conto corrente del cliente). Né per la pronuncia in commento può dirsi sempre sufficiente ad interrompere tale connessione la circostanza che il correntista stesso, con la propria condotta, abbia in qualche modo facilitato il terzo sulla valutazione degli stati pregressi, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 180 con nota di R. Pucella, Concorso di cause umane e naturali: la via impervia tentata dalla Cassazione. (15) È il c.d. deeper pocket argument. Sul tema della rilevanza della condotta del risparmiatore ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’intermediario si rimanda, molto recentemente, a Cass., Sez. I, 13 maggio 2016, n. 9892, per la quale qualora l’intermediario abbia dato corso all’acquisto di titoli ad alto rischio senza adempiere ai propri obblighi informativi nei confronti del cliente, e questi non rientri in alcuna delle categorie di investitore qualificato o professionale previste dalla normativa di settore, non è configurabile un concorso di colpa del medesimo cliente nella produzione del danno, neppure per non essersi egli stesso informato della rischiosità dei titoli acquistati. La pronuncia è pubblicata in D&G, 2016, 23, 38, con nota di G. Tarantino, Investimento in fumo: responsabilità esclusiva dell’intermediario per mancata acquisizione degli obiettivi di rischio del cliente. (16) In tema di diligenza della banca si rimanda a Cass., Sez. III, 24 settembre 2009, n. 20543, in Guida dir., 2009, 48, 56 e Cass., Sez. III, 20 marzo 2014, n. 21613, in Corr. giur., 2014, 906 secondo le quali la diligenza di tale soggetto deve essere “qualificata dal maggior grado di prudenza ed attenzione che la connotazione professionale dell’agente consente di richiedere”. Conforme anche Cass., Sez. III, 20 settembre 2013, n. 21613, in CED. Per un’analisi della giurisprudenza dell’ABF si rimanda a V. Sangiovanni, Bancomat, carte di credito e responsabilità civile nella giurisprudenza dell’ABF, in La resp. civ., 2012, 697. 853 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Risarcimento del danno nel raggiungimento del proprio fine illecito (facendosi ingenuamente carpire il codice di sicurezza della propria carta). Occorre verificare se fosse esigibile dalla banca, sia con riferimento alle attività nelle quali essa estrinseca l’esecuzione di propri impegni contrattuali in senso stretto, sia con riferimento ad ogni ulteriore atto o operazione oggettivamente riferibile ai servizi contrattualmente forniti, una condotta di diligenza tale da comprendere anche la specifica vigilanza sulle truffe condotte mediante l’alterazione degli sportelli bancomat, a danno dei propri clienti. Se si dovesse astrarre da questo principio una norma di carattere generale, quella che più e prima di ogni altra sembrerebbe adattarsi alla suddetta massima sarebbe quella dettata dall’art. 2050 c.c. in tema però di responsabilità extracontrattuale. Eppure la giurisprudenza, che a lungo ha dibattuto in ordine alla possibilità di qualificare l’attività della banca come un’attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c. e, conseguentemente, sulla stessa applicabilità della disposizione in parola ad ipotesi come quelle del pishing o con riferimento alle problematiche connesse all’uso dell’home banking (17), ha infine dato risposta, giustamente negativa, a questo interrogativo (18). La sentenza in parola, del resto, è chiara nel qualificare come di natura contrattuale l’eventuale responsabilità della banca nel caso sottoposto al suo esame (19) e conferma al di là di ogni possibile dubbio l’irriducibilità del caso de quo allo schema della responsabilità per l’esercizio di attività pericolosa. Ciò nonostante è impossibile non percepire come l’esigenza di tutelare i soggetti più deboli del sinallagma contrattuale esaminato conduca di fatto all’affermazione, in via giurisprudenziale, di una forma di responsabilità quasi oggettiva a carico del contraente più forte, che si spinge fino a suggerire l’idea di una banca che deve garantire “la sicurezza del servizio da manomissioni” e che rimane responsabile anche laddove l’altro contraente tenga una condotta tutt’altro che parimenti ispirata alla buona fede nell’esecuzione del contratto, ritardando nella denuncia dell’accaduto o omettendo di riferire di avere consentito a terzi di venire a conoscenza del codice di sicurezza della carta che gli è stata sottratta (20). (17) Cfr. Trib. Palermo 20 dicembre 2009, in Resp. civ., 2011, 1, con nota di C. Iurilli, Conto corrente on line e furto di identità. La controversa applicazione dell’art. 2050 c.c. Si segnala a questo proposito però anche la più recente Trib. Firenze 20 maggio 2014, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 2, 10137, con nota di A. Salomoni, Responsabilità dell’operatore bancario nei confronti del cliente in caso di addebito non autorizzato su conto corrente on line. Quest’ultima pronuncia riconduce la fattispecie nell’alveo della responsabilità contrattuale, attraverso il richiamo al D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 11 di recepimento della Dir. comunitaria CE 64/2002 sulla disciplina dei servizi di pagamento nel mercato interno, per quanto, ratione temporis, non applicabile al caso sub judice. (18) Così, Cass. 11 febbraio 2009, n. 3350, in questa Rivista, 2009, 448 e in Resp. civ., 2009, 806. (19) Eventuale in quanto l’accertamento in concreto dell’avere la banca rispettato gli standard di diligenza che le sono richiesti è rimesso al giudice di merito. (20) Sulla responsabilità del titolare della carta bancomat si rinvia a M. Sella, Commento sub Art. 1322, in P. Cendon (a cura di), Commentario al codice civile, Milano, 2009, 270. 854 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Danno non patrimoniale Equa riparazione L’ente e il processo “lumaca”: il danno morale soggettivo alla velocità della luce Cassazione Civile, Sez. VI - 2, 12 gennaio 2016, n. 322 - Pres. Petitti - Est. Petitti - C.D. Trade S.r.l. c. Ministero della Giustizia In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 2 della L. n. 89/2001, anche per le persone giuridiche il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, è - tenuto conto dell’orientamento in proposito maturato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo - conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Questo avviene perché la lesione del menzionato diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente e ai suoi membri disagi e turbamenti di carattere psicologico non diversi dal danno morale da lunghezza eccessiva del processo subito dagli individui persone fisiche. Ne consegue il carattere superfluo della valutazione concernente la concreta e puntuale sofferenza di amministratori e preposti: una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere il danno non patrimoniale esistente, sempre che non risulti la sussistenza, nel caso concreto, di circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato patito dalla persona giuridica. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conformi Cass. 4 giugno 2013, n. 13986; Cass. 1° dicembre 2011, n. 25730; Cass. 18 febbraio 2011, n. 3993; Cass. 10 gennaio 2008, n. 337; Cass. 2 febbraio 2007, n. 2246; Cass. 29 marzo 2006, n. 7145; Cass. 28 ottobre 2005, n. 21094; Cass. 30 agosto 2005, n. 17500; Cass. 8 giugno 2005, n. 12015; Cass. 18 febbraio 2005, n. 3396; Cass. 21 luglio 2004, n. 13504; Cass. 16 luglio 2004, n. 13163. Difformi Cass. 30 settembre 2004, n. 19647; Cass. 2 luglio 2004, n. 12110; Cass. 2 luglio 2004, n. 12112; Cass. 10 aprile 2003, n. 5664; Cass. 2 agosto 2002, n. 11600; Cass. 2 agosto 2002, n. 11573. La Corte (omissis). Ritenuto in fatto che, con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Campobasso il 20 luglio 2012, la C.D. TRADE s.r.l. chiedeva la condanna del Ministero della giustizia al pagamento del danno sofferto a causa della irragionevole durata di una controversia di lavoro, proposta nei suoi confronti nel 2001, definita con sentenza del maggio 2012, dopo undici anni; che l’adita Corte d’appello rigettava la domanda, rilevando che: parte del giudizio presupposto era un’altra società; la ricorrente aveva semplicemente dichiarato che la identità tra essa e l’altra società, senza tuttavia dare alcuna significazione delle modalità del mutamento; la ricorrente, pur sollecitando il riconoscimento del danno morale, non aveva allegato la sussistenza di una sofferenza psichica derivante dalla durata del processo; Danno e responsabilità 8-9/2016 che per la cassazione di questo decreto C.D. TRADE s.r.l. ha proposto ricorso, affidato a due motivi; che l’intimato Ministero della giustizia non si costituiva; che essendosi rilevata la nullità della notificazione del ricorso perché effettuata presso l’Avvocatura distrettuale, all’udienza del 17 febbraio 2015 è stata disposta la rinnovazione della notificazione del ricorso presso l’Avvocatura generale dello Stato; che il ricorrente ha tempestivamente adempiuto, provvedendo altresì a depositare tempestivamente l’atto notificato; che il Ministero della giustizia ha resistito con controricorso. Considerato in diritto che il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza; 855 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danno non patrimoniale che con il primo motivo la ricorrente deduce violazione/falsa applicazione degli artt. 100, 115, 116 e 167 c.p.c., nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, sostenendo che nel giudizio dinnanzi alla Corte d’appello aveva prodotto la visura camerale dalla quale emergeva la identità di essa ricorrente con la CD Informatica s.r.l., che era stata parte del giudizio presupposto; che da tale visura emergeva la identità tra le due società, avendo la CD TRADE mantenuto la partita IVA e il codice fiscale della precedente società, la quale aveva sostanzialmente mutato denominazione; che, d’altra parte, nel mentre non vi era alcun onere di giustificazione del mutamento, come invece ritenuto dalla Corte d’appello, la circostanza non aveva formato oggetto di contestazione alcuna da parte della difesa erariale; che con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione/falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e degli artt. 6, 32 e 41 della CEDU, anche in rapporto agli artt. 10 e 11 Cost., oltre che alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché violazione/falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost., artt. 1223, 1226, 1227, 2056, 2059 e 2697 c.c., ricordando che nella giurisprudenza di questa Corte, conformemente a quella della Corte europea, si è affermato il principio per cui il danno non patrimoniale costituisce conseguenza normale della violazione del termine di durata ragionevole, salvi i casi in cui emerga positivamente l’assenza di pregiudizio; principio, questo, che nella giurisprudenza europea e in quella di legittimità si ritiene applicabile anche alle persone giuridiche e agli enti collettivi; che, prosegue la ricorrente, per la persona giuridica la questione della allegazione del pregiudizio e del danno non patrimoniale si pone nei medesimi termini che per le persone fisiche; e ciò tanto più in un caso, come quello di specie, in cui la società di capitali è a socio unico che ne è anche l’amministratore; che deve essere preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità del controricorso, formulata dalla difesa del ricorrente in pubblica udienza, atteso che il controricorso è stato notificato nel domicilio eletto in ricorso; che il primo motivo di ricorso è fondato; che, invero, deve escludersi che vi sia per la società che, assuma di identificarsi con una precedente società un onere di motivazione sulle ragioni del mutamento della denominazione, atteso che ciò che rileva sono gli elementi che consentano di affermare la identità dei due soggetti; che, nella specie, dalla visura camerale prodotta dalla ricorrente emerge la identità di partita IVA e di codice fiscale tra CD Informatica e CD TRADE s.r.l., sicché appare evidente l’errore in cui è incorsa la Corte d’appello nel ritenere che non fosse stata documentata la identità tra la società che era stata parte del giudizio presupposto e quella che ha agito per l’equa riparazione; che il secondo motivo è del pari fondato; che, invero, questa Corte ha affermato che, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo ai 856 sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, anche per le persone giuridiche il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, è - tenuto conto dell’orientamento in proposito maturato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo - conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia del diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a causa del disagi e del turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto, solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri, e ciò non diversamente da quanto avviene per il danno morale da lunghezza eccessiva del processo subito dagli individui persone fisiche (cfr., fra le altre, Cass. n. 25730 del 2011; Cass. n. 13986 del 2013); che ciò rende superflua la valutazione circa la concreta e puntuale sofferenza di amministratori e preposti nel corso del giudizio presupposto perché tali soggetti non potevano che essere interessati, in quanto organi rappresentativi ed esecutivi della società, alla sollecita trattazione del giudizio di cui la CD Informatica s.r.l. era parte sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno in re ipsa - ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione -, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non risulti la sussistenza, nel caso concreto, di circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dalla società ricorrente; che, dunque, il ricorso deve essere accolto, con conseguente cassazione del decreto impugnato; che la causa va rinviata per nuovo esame alla Corte d’appello di Campobasso, in diversa composizione, la quale provvederà anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso; cassa il decreto impugnato e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Campobasso, in diversa composizione. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Danno non patrimoniale IL COMMENTO di Silvia Monti (*) Se viene superato il termine di ragionevole durata del processo, si presume il danno morale soggettivo in capo all’ente, imputandogli la sofferenza di amministratori e membri. Con la pronuncia in commento, la Cassazione si conforma con eccessiva leggerezza a un orientamento consolidato, senza valutarne i profili di criticità. Una controversia di lavoro durata la bellezza di undici anni. Un classico italiano verrebbe da dire. La ricorrente, C.D. Trade S.r.l., però, non vuole adeguarsi alla patologia temporale del sistema: decide di sfruttare le opportunità concesse dalla L. 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. “legge Pinto”) (1) e, decorsi due mesi dalla definitività della decisione (2), conviene il Ministero della Giustizia dinanzi alla Corte d’Appello di Campobasso (3) per sentirlo condannare al “pagamento del danno” (4) da irragionevole durata del processo (5). Coraggio premiato? Assolutamente, no. (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. (1) Si noti che la L. 24 marzo 2001, n. 89, comunemente denominata “legge Pinto” dal nome del senatore primo firmatario del disegno, non è stata elaborata con il precipuo intento di tutelare il diritto alla ragionevole durata del processo, diritto sancito dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e - a seguito della novellazione operata dalla L. Cost. 23 novembre 1999, n. 2 - dall’art. 111 Cost. Il vero motivo che ha portato al varo del menzionato provvedimento normativo consiste nel desiderio di porre un argine rispetto ai numerosissimi ricorsi di cittadini italiani al Tribunale Europeo dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo con richiesta di condanna del nostro Stato al risarcimento dei danni subiti per l’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari. Sul punto, ampiamente condiviso in dottrina, si vedano, ex multis: G. Ponzanelli, “Equa riparazione” per i processi troppo lenti, in questa Rivista, 2001, 569; C. Consolo, Disciplina “municipale” della violazione del termine di ragionevole durata del processo: strategie e profili critici, in Corr. giur., 2001, 569; E. Benigni, Il diritto all’equa riparazione nel “giusto” processo italiano, in Riv. dir. proc., 2004, 630; G. Visintini, La responsabilità dello Stato da ingiusto processo, in Contr. e impr., 2008, 111; V. Loccisano, Equa riparazione per irragionevole durata del giudizio ed illecito civile, in Resp. civ., 2008, 251; A. Venturelli, La responsabilità dello Stato per irragionevole durata del processo, in Resp. civ., 2009, 249; F.R. Fantetti, Il danno non patrimoniale per irragionevole durata del processo, in Resp. civ., 2009, 506. Peraltro, un’accurata analisi degli effetti negativi prodotti dalla c.d. “legge Pinto”, trascorsi undici anni dalla sua entrata in vigore, è svolta da L. Salvato, La disciplina dell’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo nella morsa della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e delle specificità del nostro ordinamento, in Corr. giur., 2012, 993. (2) Si osservi che l’art. 4, L. 24 marzo 2001, n. 89 prevede: “La domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva”. (3) Si ricordi che l’art. 3, comma 1, L. 24 marzo 2001, n. 89, dispone: “La domanda di equa riparazione si propone dinanzi alla corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell’art. 11 del codice di procedura penale a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito ovvero pendente il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata”. Per un’accurata analisi delle questioni giurisprudenziali relative al comma primo dell’art. 3 della c.d. “legge Pinto”, si veda L. Salvato, Profili controversi dell’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo: il punto sulla giurisprudenza, in Corr. giur., 2010, 881. Inoltre, per completezza, si noti che il D.L. 22 giugno 2012, n. 83 e la relativa legge di conversione, nel rimodellare il procedimento ex lege Pinto, hanno modificato l’art. 3 della L. 24 marzo 2001, n. 89. Tuttavia, hanno lasciato invariato il profilo attinente alla competenza per territorio. Sul punto, si consideri M. Mazzeo, Risarcimento per irragionevole durata dei processi: cambia la legge Pinto, in Resp. civ., 2012, 634. (4) L’espressione “pagamento del danno” è contenuta proprio nella sentenza oggetto di commento. In tal modo, la Corte di Cassazione dimostra di avallare la posizione della dottrina maggioritaria che, già all’indomani della pubblicazione della c.d. “legge Pinto”, aveva riconosciuto natura risarcitoria all’equa riparazione. Sul punto, si vedano: G. Ponzanelli, “Equa riparazione”, cit., 569; E. Dalmotto, Diritto all’equa riparazione per l’eccessiva durata del processo, in S. Chiarloni (a cura di), Misure acceleratorie e riparatorie contro l’irragionevole durata dei processi, Torino, 2002, 81 ss.; F. Petrolati, I tempi del processo e l’equa riparazione per la durata non ragionevole (la c.d. “legge Pinto”), Milano, 2005, 15; R. Partisani, L’irragionevole durata del processo nel pluralismo delle fonti e nel sistema delle tutele, in Resp. civ. prev., 2011, 480. Contra G. Tarzia, Sul procedimento di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, in Giust. civ., 2001, 2431; A. Didone, Equa riparazione e ragionevole durata del giusto processo, Milano, 2002, 39; D. Chindemi, Legge Pinto: questioni processuali, sostanziali e di “etica del diritto”, in Resp. civ. prev., 2008, 690. (5) Per quanto concerne la durata ragionevole del processo, funzione dell’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (cfr. Corte cost. 22 ottobre 1999, in Giur. it., 2000, 1127), si ricordi che il D.L. 22 giugno 2012, n. 83 ha legificato, in linea di massima, gli standard fissati dalla giurisprudenza. Così facendo, da un lato, ha escluso la possibilità di considerare irragionevole il processo protrattosi per un periodo non superiore a quello indicato; dall’altro, ha mantenuto correttamente ferma la possibilità di ritenere ragionevole un giudizio dalla durata maggiore rispetto a quella normativamente prevista. Infatti, l’art. 55, comma 1, lett. a) ha inserito nell’art. 2 della c.d. “legge Pinto”: i) il comma secondo bis, sulla cui base “si considera rispettato il termine ragionevole di cui al comma 1 se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, Il caso Danno e responsabilità 8-9/2016 857 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danno non patrimoniale persone preposte alla gestione dell’ente e ai suoi membri disagi e turbamenti di carattere psicologico analoghi al danno morale da lunghezza eccessiva del processo subito dagli individui persone fisiche. Il decreto impugnato viene, quindi, cassato e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Campobasso in diversa composizione, per la relativa determinazione del danno. Vengono rigettate le domande proposte, sul presupposto che la società: a) si era limitata a dichiarare la propria identità rispetto a C.D. Informatica S.r.l., parte del giudizio presupposto, senza fornirne alcuna evidenza; b) aveva sollecitato il riconoscimento del danno morale, ma non aveva allegato la sussistenza di una sofferenza psichica derivante dalla durata del processo. Non finisce qui, però. Persa la prima battaglia, C.D. Trade S.r.l. non si arrende: ancora fiduciosa nella vittoria della guerra, propone ricorso in Cassazione, formulando due motivi di censura rispetto alla pronuncia emanata. Nello specifico, la società deduce che la Corte d’Appello molisana: a) non aveva tenuto conto della produzione della visura camerale, da cui risultava la completa identità tra la C.D. Informatica S.r.l. e la C.D. Trade S.r.l.; b) aveva omesso di considerare che, secondo la giurisprudenza di legittimità e quella europea, il danno non patrimoniale costituisce - anche per le persone giuridiche e gli enti collettivi - una conseguenza normale della violazione del termine di durata ragionevole del processo, tanto da essere sempre riconosciuto, salvo che ne emerga positivamente l’assenza. La Suprema Corte avalla in toto le prospettazioni della ricorrente. Ribadisce il proprio orientamento in materia di danno non patrimoniale da violazione del diritto inviolabile a una durata ragionevole del processo e ne esplicita la ragione: il superamento del termine di ragionevole durata provoca alle La sentenza in commento rende necessarie alcune preliminari considerazioni sulla natura del danno non patrimoniale e, quindi, sui soggetti che possono ottenerne il ristoro. Nonostante qualche autorevole voce dottrinale, fin dalla metà degli anni Sessanta, avesse sottolineato la necessità di configurare il danno non patrimoniale in termini residuali rispetto a quello patrimoniale (6), la giurisprudenza ha fatto coincidere per molto tempo il pregiudizio risarcibile ex art. 2059 c.c. soltanto con il danno non patrimoniale menzionato dall’art. 185, comma 2, c.p.: esso era identificato con il c.d. “danno morale soggettivo”, ossia con il patema d’animo, la sofferenza interiore, il perturbamento psichico di natura meramente emotiva cagionato da un illecito penale. Tale concezione - certamente conforme alla tradizione (7) e agli intenti del legislatore penale del 1930 (8) - implicava una logica conseguenza: soltanto le persone di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità. Ai fini del computo della durata il processo si considera iniziato con il deposito del ricorso introduttivo del giudizio ovvero con la notificazione dell’atto di citazione. Si considera rispettato il termine ragionevole se il procedimento di esecuzione forzata si è concluso in tre anni, e se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni.(...)”; ii) il comma secondo ter, ai sensi del quale “si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni”. Inoltre, ha modificato l’art. 2, comma 2, che ora stabilisce: “Nell’accertare la violazione il giudice valuta la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione”. (6) Si veda, in particolare, A. De Cupis, Il danno, Milano, 1966, 51: “Danno non patrimoniale, conformemente alla sua negativa espressione letterale, è ogni danno privato che non rientra nel danno patrimoniale, avendo per oggetto un interesse non patrimoniale, vale a dire relativo a un bene non patrimoniale. (...) se si vuole dare dei danni non patrimoniali una nozione logica e completa non bisogna limitarli al campo delle sofferenze fisiche o morali; ma concepirli invece in modo da comprendere tutti i danni che non rientrano nell’altro gruppo, quello dei danni patrimoniali”. (7) Si noti che il danno non patrimoniale, già sotto il vigore del Codice civile del 1865 - unico a contemplarlo, data la mancata configurazione della figura nell’allora vigente codice pe- nale - era identificato con il danno morale soggettivo di tradizione romanistica, comprensivo del dolore e delle sofferenze conseguenti a un comportamento altrui. Sul punto, si vedano: F. Carnelutti, Il danno e il reato, Padova, 1926, 38; C.F. Gabba, Ancora sul risarcimento dei danni cosiddetti morali, in Giur. it., 1912, I, 837; G. Pacchioni, Del risarcimento dei danni morali, in Riv. dir. comm., 1911, 241; C. Grassetti, In tema di risarcibilità del danno non patrimoniale, in G. Pacchioni (a cura di), Corso di diritto civile - Delle leggi in generale, Torino, 1933, 296. Peraltro, molti Autori hanno considerato favorevolmente - fino a tempi relativamente recenti - l’identificazione del danno non patrimoniale con il mero danno morale soggettivo. Ad esempio, si considerino: M. Paradiso, Il danno alla persona, Milano, 1981, 135; G. Visintini, Intervento, in Dir. Inf., 1986, 766; Ead., I fatti illeciti, Padova, 1997, I, 533. (8) Come ha osservato Corte cost. 14 luglio 1986, n. 184, in Foro it., 1986, 2053, il fatto che - nelle intenzioni del legislatore penale del 1930 - il danno non patrimoniale ex art. 185, comma secondo, c.p. costituisse l’equivalente del danno morale soggettivo è reso evidente dalla Relazione ministeriale al progetto definitivo del codice. Del resto, ivi si afferma: “Quanto alla designazione del concetto, ho creduto che la locuzione danno non patrimoniale sia preferibile a quella di danno morale, tenuto conto che spesso nella terminologia corrente la locuzione danno morale ha un valore equivoco e non riesce a differenziare il danno morale puro da quei danni che, sebbene abbiano radice in offese alla personalità morale, direttamente o indirettamente menomano il patrimonio” (cfr. A. Rocco, Rela- 858 Il danno non patrimoniale “scorre come un fiume”: dalla persona fisica all’ente Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Danno non patrimoniale fisiche potevano patire il nocumento indicato dall’art. 2059 c.c. e, di conseguenza, ottenerne il risarcimento (9). Ma, per dirla con Eraclito, “tutto scorre come un fiume” e anche la concezione di danno non patrimoniale non fa eccezioni (10). Una delle tappe più importanti in materia è, senza dubbio, costituita da Cass. 10 luglio 1991, n. 7642 (11). Tale pronuncia, emessa in esito alla controversia che contrapponeva lo Stato italiano a una serie di soggetti coinvolti nella ben nota vicenda delle tangenti corruttive del c.d. “Scandalo Lockheed” (12), si è occupata ex professo proprio del “profilo problematico, di configurabilità (...) di un danno non patrimoniale nei confronti della persona giuridica” (13). In proposito, ha affermato che il danno non patrimoniale comprende tutte le conseguenze pregiudizievoli di un illecito non valutabili in termini monetari, ivi inclusi alcuni effetti lesivi che prescindono dalla personalità psicologica del danneggiato. Dunque, anche gli enti personificati, in quanto titolari di diritti non patrimoniali (come quelli a tutela dell’onore, della reputazione, dell’identità personale), possono subire un pregiudizio non patrimoniale dalla loro aggressione. La sentenza ha avuto un immediato seguito. Basti pensare che Cass. 5 dicembre 1992, n. 12951, riprendendo persino il linguaggio della decisione appena citata, ha fissato il concetto di danno non patrimoniale come comprensivo di ogni tipo di pregiudizio di matrice non economica riferibile alla persona o, meglio, al soggetto di diritto (14). zione ministeriale al progetto definitivo di un nuovo codice penale, Roma, 1929, 203). (9) Giova rilevare che il diretto e pressoché esclusivo collegamento tra il danno non patrimoniale e il reato faceva sì che il risarcimento del pregiudizio in questione assumesse una funzione sanzionatoria prima che riparatoria (cfr., ex plurimis, M. Astone, Danni non patrimoniali: art. 2059 c.c., in Commentario al codice civile Schlesinger - Busnelli, Milano, 2012, 239). La prospettiva è completamente cambiata a seguito della reinterpretazione in chiave costituzionale dell’art. 2059 c.c. chiaramente sancita - a partire dal 2003 - dalla Corte di cassazione e dalla Corte costituzionale (v. infra). Del resto, l’applicazione del principio di integrale riparazione al risarcimento del danno alla persona ha portato autorevoli esponenti dottrinali a ritenere che il risarcimento del danno non patrimoniale avesse una funzione esclusivamente riparatoria: nessuna funzione deterrente, nemmeno ancillare (cfr., ex multis: G. Miotto, La funzione del risarcimento dei danni non patrimoniali nel sistema della responsabilità civile, in Resp. civ. prev., 2008, 188; C. Castronovo, Del non risarcibile aquiliano: danno meramente patrimoniale, c.d. perdita di chance, danni punitivi, danno c.d. esistenziale, in Eur. e dir. priv., 2008, 315; Id., La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 283; P. Fava, Funzione sanzionatoria dell’illecito civile? Una decisione costituzionalmente orientata sul principio compensativo conferma il contrasto tra danni punitivi e ordine pubblico, in Corr. giur., 2009, 525). In senso contrario, altri Autori hanno sottolineato che una funzione di general deterrence è naturalmente propria del risarcimento dei danni non patrimoniali: ferma la principale funzione riparatoria del risarcimento, l’elemento sanzionatorio può essere preso in considerazione in via sussidiaria in sede di determinazione del quantum (cfr., a titolo meramente esemplificativo: G. Ponzanelli, L’attualità del pensiero di Guido Calabresi: un ritorno alla deterrenza, in Nuova giur. civ. comm., 2006, 295; E. Navarretta, Funzioni del risarcimento e quantificazione dei danni non patrimoniali, in Resp. civ. prev., 2008, 505). A fronte di una dottrina divisa, il sistema giurisprudenziale italiano ha preferito tendenzialmente privilegiare il momento soltanto riparatorio del risarcimento del danno non patrimoniale, accantonando quasi completamente - almeno a parole - la funzione preventivo-sanzionatoria della responsabilità civile. Sul punto, si veda, da ultimo, Trib. Milano 10 luglio 2015, in questa Rivista, 2015, 1029: “Non sussiste, accanto alla tipica funzione reintegratrice, una funzione di general deterrence della tutela risarcitoria, che abbia ricadute pratico-applicative in punto di quantificazione della somma riparatoria. La tutela rimediale ha infatti carattere compensativo (e non punitivo) in quanto tende a reintegrare il danno provocato, e di conseguenza la quantificazione del danno non può fare riferimento a dati che si collochino fuori dalla lesione”. (10) Per approfondimenti sul ristoro del danno non patrimoniale agli enti, si vedano: A. Fusaro, I diritti della personalità dei soggetti collettivi, Padova, 2002; C. Perlingieri, I diritti della personalità nel fenomeno associativo, Napoli, 2002; P. Perlingieri, La persona e i suoi diritti, Napoli, 2005. (11) La pronuncia si legge in: Giust. civ., 1991, 1955; Resp. civ. prev., 1992, 89, con nota di A. Guiotto, Configurabilità e quantificazione della riparazione del danno non patrimoniale allo Stato; in Giur. it., con nota di L. Caso, Lo Stato come soggetto passivo dei danni non patrimoniali. (12) In questa sede, basti ricordare che il c.d. “Scandalo Lockheed” riguardava gravi casi di corruzione avvenuti negli anni settanta in diversi Stati, quali Paesi Bassi, Germania, Giappone e Italia. Nel 1976 l’azienda statunitense Lockheed ammise di aver pagato tangenti a politici e militari stranieri per vendere in altri Paesi i propri aerei militari. Nei Paesi Bassi fu coinvolta la monarchia, mentre in Germania, Giappone e Italia i corrotti risultarono essere le strutture preposte alle valutazioni tecnico-militari dei ministeri della difesa, i ministri della difesa e, soltanto negli ultimi due Stati, anche i primi ministri. (13) Così, Cass. 10 luglio 1991, n. 7642, cit. (14) Del resto, Cass. 5 dicembre 1992, n. 12951, in Foro it., 1994, 561 ha affermato: “Affrontando il problema del risarcimento del danno non patrimoniale subito da una persona giuridica (in concreto, dallo Stato) questa Corte, con sent. 10 luglio 1991, n. 7642 ha affermato che non può condividersi l’equazione fra danno non patrimoniale e danno morale (c.d. “pecunia doloris”; e su questo punto la ricorrente concorda), perché il danno non patrimoniale comprende qualsiasi conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento, sebbene di riparazione, di guisa che, comprendendo il danno non patrimoniale anche gli effetti lesivi che, prescindendo dalla personalità psicologica del danneggiato, esso è riferibile anche ad entità giuridiche prive di fisicità. Se egli enti personificati sono titolari di diritti non patrimoniali (quali quelli alla tutela dell’onore, della reputazione, dell’identità personale) anch’essi possono subire un pregiudizio non patrimoniale dalla correlativa aggressione, ed ottenerne la riparazione anche attraverso l’attribuzione di una somma di denaro, secondo un giudizio per sua natura equitativo, affidato all’apprezzamento del giudice del merito”. Danno e responsabilità 8-9/2016 859 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danno non patrimoniale Di tappa in tappa (15), si arriva agli albori del ventunesimo secolo. Ecco allora le sentenze gemelle di fine maggio 2003 (nn. 8827 e 8828) (16), definite poco dopo dalla Corte Costituzionale come “due recentissime pronunce che hanno l’indubbio pregio di ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona” (17). Esse hanno ribadito che il danno non patrimoniale è il pregiudizio da lesione di valori di rilevanza costituzionale inerenti alla persona (non solo fisica) e, pertanto, è ben lungi dal coincidere con il solo danno morale soggettivo. A riprova dell’assunto, hanno ricordato l’orientamento di legittimità che aveva riconosciuto il ristoro del danno non patrimoniale anche agli enti, ossia a soggetti per i quali non è ontologicamente configurabile un coinvolgimento psicologico in termini di patemi d’animo (18). Qualche anno dopo lo stesso principio è stato confermato con vigore dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con le cc.dd. sentenze di San Martino (19) ed è stato acquisito da tutta la giurisprudenza successiva. È evidente che alla base del percorso che ha condotto al riconoscimento del ristoro danno non patrimoniale anche a entità diverse dalle persone fisiche si pone la mutata concezione del pregiudizio di cui si discute. Insomma, in termini matematici, l’equazione è: il danno morale soggettivo sta alla sola persona fisica come il danno non patrimoniale in senso lato sta a ogni soggetto di diritto (persona fisica e non) (20). (15) Si noti che, nel frattempo, anche alcune pronunce di merito avevano riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale a soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche. Ex multis, a titolo meramente esemplificativo, si considerino: Trib. Genova 29 giugno 1994, in Giur. it., 1995, 275; Trib. Roma 24 gennaio 1994, in Dir. Inf., 1994, 725; Trib. Milano 9 novembre 1992, in Giur. it., 1993, 747; Trib. Roma 16 aprile 1991, in Nuova giur. civ. comm., 1992, 143. (16) Si veda Cass. 31 maggio 2003, nn. 8827-8828, in questa Rivista, 2003, 816. (17) Così, Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233, in questa Rivista, 2003, 939. (18) In proposito, è interessante riportare integralmente un passo di Cass. 31 maggio 2003, n. 8828, cit.: “Nel senso del riconoscimento della non coincidenza tra il danno non patrimoniale previsto dall’art. 2059 e il danno morale soggettivo va altresì ricordato che questa S.C. ha ritenuto risarcibile il danno non patrimoniale, evidentemente inteso in senso diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche; soggetti per i quali non è ontologicamente configurabile un coinvolgimento psicologico in termini di patemi d’animo (v., da ultimo, sent. n. 2367-00). Si deve quindi ritenere ormai acquisito all’ordinamento positivo il riconoscimento della lata estensione della nozione di ‘danno non patrimoniale’, inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona, e non più solo come “danno morale soggettivo’”. (19) Il riferimento è a Cass., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 29672, in questa Rivista, 2009, 19; n. 26973, in Foro it., 2009, 120; n. 26974, in DeJure; n. 26975, ivi. (20) Sul punto, particolarmente incisivo è F. Morozzo Della Rocca, L. 24 marzo 2001, n. 89: anche alla persona giuridica spetta la pecunia doloris, in Giust. civ., 2005, 1585: “Nel nostro ordinamento l’ammissione che la persona giuridica (o, più generalmente il soggetto diverso dalla persona fisica) possa patire danno non patrimoniale è un’acquisizione relativamente recente, legata alla distinzione, nell’ambito della più ampia categoria di danno non patrimoniale, fra danno morale soggettivo e danno per la lesione dei diritti non patrimoniali: il primo, consistente nel patimento psichico per la patita lesione di un diritto, non era ritenuto configurabile per la persona giuridica, non in grado naturalisticamente di provare patemi e non avente perciò titolo per ottenere una pecunia doloris; il secondo, non legato a considerazioni di ordine naturalistico, configurabile anche per la persona giuridica sulla sola base del diritto positivo, in quanto ne preveda espressamente il risarcimento o il relativo diritto discenda dalla tutela particolarmente forte garantita all’interesse leso da una norma di rango costituzionale”. (21) Sul punto, si veda Cass. 2 agosto 2002, n. 11573, in Giur. it., 2003, 25: “(...) il danno non patrimoniale per irragionevole durata del processo, mentre è configurabile rispetto alla persona fisica anche sulla base della mera tensione o preoccupazione che comunque detta durata sia in grado di provocare, può essere ravvisato per la persona giuridica solo se risulti un effettivo rifluire del fattore tempo a scapito dei diritti della personalità di cui anch’essa è portatrice, come il diritto all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine ed alla reputazione”. Nello stesso senso, ex plurimis: Cass. 2 agosto 2002, n. 11600, in Foro it., 2003, 838; Cass. 10 aprile 2003, n. 5664, in Foro it., 2004, 191; Cass. 2 luglio 2004, n. 12110, in Giust. civ., 2005, 1042; Cass. 2 luglio 2004, n. 12112, in Dir. e Giust., 2004, 113; Cass. 30 settembre 2004, n. 19647, in Giust. civ., 2005, 59. 860 L’ente e il danno non patrimoniale da eccessiva durata del processo Richiamato il percorso che ha condotto al risarcimento del danno non patrimoniale anche a soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche, si pone ora l’attenzione sul pregiudizio non economico derivante dal processo “lumaca” e sulle condizioni richieste per il suo ristoro all’ente. In un primo tempo, la giurisprudenza, partendo dal presupposto che la sofferenza contingente e il turbamento d’animo transeunte fossero tipici soltanto della persona fisica, ha escluso la presunzione di un danno morale soggettivo per l’irragionevole durata del processo in capo agli enti. In tali casi, il danno non patrimoniale non poteva derivare ex se dallo stato di ansia o di preoccupazione che l’eccessiva durata del procedimento normalmente ingenerava nelle parti: quel nocumento (tutto da provare) poteva, al più, dipendere dalla lesione di diritti immateriali della personalità ritenuti compatibili con la naturale assenza di fisicità, come quello all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine e alla reputazione (21). Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Danno non patrimoniale A partire dalla seconda metà del 2004, invece, i Giudici nazionali hanno cambiato posizione, con l’intento di conformarsi agli influssi della Corte europea dei diritti dell’uomo. Sul punto, è rilevante ricordare che, con una pronuncia del 6 aprile 2000, la Corte di Strasburgo ha sostenuto che: a) il diritto di ottenere, ai sensi dell’art. 41 della Convenzione (22), una riparazione pecuniaria del danno non patrimoniale causato dalla durata irragionevole di un processo compete pure a soggetti diversi dalle persone fisiche; b) in tale ipotesi, l’esistenza di un danno non patrimoniale può essere ravvisata pure nello stato di incertezza e di disagio che la durata eccessiva del processo determina nei membri e nelle persone fisiche preposte alla gestione (23). Di qui, varie pronunce di legittimità hanno assicurato un trattamento garantista ai soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche, equiparandoli a queste ultime in pressoché tutti gli aspetti del risarcimento del danno non patrimoniale (24): si ritiene, cioè, che siano state pregiudicate dall’eccessiva durata del processo anche delle persone fisiche che ricoprono degli uffici negli enti ovvero ne sono membri, per poi imputare la loro presunta sofferen- za al soggetto di diritto, privo del carattere della fisicità. Costituisce una prima espressione di questo orientamento Cass. 16 luglio 2004, n. 13163 (25). Secondo questa pronuncia: a) alle persone giuridiche possono essere imputati stati soggettivi legati al possesso di qualità psichiche tipicamente umane, dati la loro soggettività meramente transitoria e strumentale e il carattere in linea di principio vincolante delle decisioni della Corte Europea; b) non esistono ostacoli insuperabili al riconoscimento del diritto delle persone giuridiche di ottenere la riparazione del danno non patrimoniale secondo i criteri stabiliti dalla Cedu e, quindi, anche nell’ipotesi in cui tale danno sia correlato a turbamenti di carattere psichico. Da queste premesse, deriva l’applicabilità anche alle persone giuridiche del principio, in base a cui “la durata irragionevole del processo arreca, normalmente, alle parti sofferenze di carattere psicologico sufficienti a giustificare la liquidazione di un danno non patrimoniale e che, conseguentemente, una volta accertata e determinata l’entità della violazione (...) il giudice deve ritenere tale danno esistente” (26). Il descritto orientamento, dotato di una significativa forza espansiva (27), nonostante le perplessità (22) L’art. 41 Cedu tratta della c.d. “Equa soddisfazione” e dispone: “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”. (23) Il riferimento è a Cedu 6 aprile 2000, Comingersoll s.a. c. Portugal, in Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, 2007, 185. In senso analogo, ex plurimis: Cedu 9 novembre 2002, Tor di Valle Costruzioni S.p.A. c. Italie, in www.echr.coe.int; Cedu 20 marzo 2002, L.s.i. Information Tecnologies c. Grece, ivi; Cedu 15 febbraio 2003, Oval s.p.r.l. c. Belgique, ivi; Cedu 31 luglio 2003, Sociedade Agricola do Peral s.a. c. Portugal, ivi. (24) Per quanto concerne il risarcimento del danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo alle persone fisiche, è imprescindibile il riferimento a Cass., SS.UU., 26 gennaio 2004, nn. 1338-1341, in Giust. civ., 2004, I, 910, con nota di P. Morozzo Della Rocca, Durata irragionevole del processo e presunzione di danno non patrimoniale; in Giur. it., 2004, 944, con nota di A. Didone, La Cassazione, la legge Pinto e la Corte europea dei diritti dell’uomo: sepolti i contrasti; in Guida dir., 2004, 16, con nota di E. Sacchettini, Un’attività di difficile realizzazione pratica che mette a repentaglio le casse dello Stato; in D&G, 2004, 12, con nota di M. De Stefano, È finita la guerra delle Corti: la Cassazione si adegua alla CEDU. Le Sezioni Unite, attraverso le quattro menzionate pronunce, si sono distanziate sia dalla tesi del c.d. danno non patrimoniale in re ipsa (tesi a cui, subito dopo l’entrata in vigore della c.d. “legge Pinto”, aveva aderito, richiamando le pronunce della Corte di Strasburgo, parte della giurisprudenza di merito e della dottrina) sia dall’orientamento della necessaria allegazione e prova del danno non patrimoniale (orientamento seguito, sino alla fine del 2003, dalla prima sezione della Corte di cassazione). Esse hanno optato per una soluzione compromissoria, affermando che il pregiudizio in questione si presume iuris tantum: il nocumento è ritenuto sussistente ogni volta, in cui, accertata la durata irragionevole del procedimento, non ricorrono, nel caso concreto, circostanze particolari, atte a escludere che il medesimo sia stato subito dalla persona fisica che ne fosse parte. Per completezza, si osservi come la soluzione, adottata dalle Sezioni Unite nel 2004, sia stata riproposta da tutta la giurisprudenza di legittimità e di merito successiva. In proposito, a titolo esemplificativo, si vedano: Cass. 11 maggio 2004, n. 8896, in Resp. civ., 2004, 21, 84; App. Bari 9 luglio 2004, in Foro it., 2005, I, 200; Cass. 30 marzo 2005, n. 6714, in Giur. it., 2005, 1721; Cass. 5 aprile 2005, n. 7088, in Rep. Foro it., 2005, Diritti politici e civili, 258; Cass. 7 aprile 2005, n. 7297, in Giust. civ., 2006, 1818; Cass. 3 novembre 2005, n. 21318, in Giur. it., 2007, 617; Cass. 11 marzo 2006, n. 5386, in Resp. civ, 2006, 244; Cass. 28 marzo 2006, n. 6998, in Resp. civ., 2006, 242; Cass. 13 settembre 2006, n. 19666, in Resp. civ., 2006, 251; Cass 7 luglio 2006, n. 15588, in Resp. civ., 2006, 947; Cass. 16 marzo 2007, n. 6294, in Resp. civ., 2007, 172; Cass. 6 settembre 2007, n. 18719, in Resp. civ., 2007, 179. (25) Cass. 16 luglio 2004, n. 13163, in Giust. civ., 2005, 1583. (26) Così, Cass. 16 luglio 2004, n. 13163, cit. (27) Si ricordi che, proprio prendendo le mosse dal descritto orientamento affermatosi in punto di irragionevole durata del processo, la Suprema Corte è arrivata a riconoscere all’ente leso nell’immagine da un’erronea segnalazione alla Centrale Rischi di Banca d’Italia il ristoro di ogni voce di danno non patrimoniale, ivi incluso il danno morale soggettivo. Sul punto, si consideri Cass. 4 giugno 2007, n. 12929, in questa Rivista, 2007, 1236: la pronuncia afferma che, in caso di lesione di un diritto costituzionalmente garantito, il danno morale soggettivo Danno e responsabilità 8-9/2016 861 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danno non patrimoniale espresse in ambito dottrinale (28), si è diffuso velocemente negli anni a venire, sino a configurarsi come dominante, se non assoluto (29). La sentenza in commento è ben lungi dal discostarsi dalla posizione consolidata: presume il danno morale soggettivo in capo all’ente, partendo dalla considerazione delle sofferenze che la violazione del termine di ragionevole durata del processo ha probabilmente provocato al suo unico socio e amministratore. L’orientamento della Cassazione in materia di danno non patrimoniale da durata irragionevole del processo si fonda sull’assunto che “nella personalità giuridica non deve essere ravvisato lo statuto di un’entità diversa dalle persone fisiche, ma una particolare normativa avente sempre ad oggetto le relazioni tra uomini”. Dunque, anche alle persone giuridiche “possono essere imputati stati soggettivi legati al processo di qualità psichiche tipicamente umane” (30). Tale posizione, pur richiamando alla mente le teorie di illustri giuristi del Novecento (31), presenta due profili di criticità. Anzitutto, liquida sbrigativamente le norme codicistiche che chiariscono come un ente collettivo, riconosciuto o meno, sia un soggetto nuovo, distinto dai componenti. E, infatti, fa emergere sul piano dei rapporti di diritto la realtà soggettiva dei membri, arrivando persino a imputare alla realtà impersonale sentimenti tipici delle persone fisiche (32). si produce indirettamente sull’ente, per l’effetto della lesione sulle persone fisiche che compongono il soggetto collettivo e agiscono per suo conto; di qui, sostiene che l’ente può chiedere iure proprio i danni lamentati da soggetti che compongono i suoi organi. (28) La migliore dottrina ha sottolineato l’estrema difficoltà di poter anche solo immaginare un danno morale soggettivo in capo alla persona giuridica. In proposito, si confrontino: G.F. Basini, I soggetti legittimati in ordine alla riparazione del danno non patrimoniale, in Resp. civ. prev., 1998, 942; E. Palmerini, I diritti della personalità e il danno agli enti collettivi, in E. Navarretta (a cura di), I danni non patrimoniali, Milano, 2004, 253; G. Pedrazzi, Il danno non patrimoniale da lesione dei diritti inviolabili, in G. Ponzanelli (a cura di), Il “nuovo” danno non patrimoniale, Padova, 2004, 126; C. Poncibò, Gli enti: dal danno morale al “nuovo” danno non patrimoniale, in questa Rivista, 2009, 237; T. Bonamini, Gli enti e il danno non patrimoniale, in Fam. Persone e Successioni, 2012, 517; C. Pasquinelli, Legge Pinto ed irragionevole durata del processo. La Cassazione ammette il danno morale per gli enti collettivi, in Resp. civ. prev., 2006, 281. Peraltro, per un approfondimento sulle varie posizioni assunte dalla dottrina in materia, si veda T. Mauceri, Enti collettivi e danno non patrimoniale, Torino, 2013, 33. (29) Sul punto, a titolo meramente esemplificativo, si vedano: Cass. 4 giugno 2013, n. 13986, in Rep. Foro it., 2013, voce Diritti politici e civili, 252; Cass. 1° dicembre 2011, n. 25730, in Rep. Foro it., 2012, voce Diritti politici e civili, 236; Cass. 18 febbraio 2011, n. 3993, in Il civilista, 2011, 18; Cass. 10 gennaio 2008, n. 337, in Resp. civ. prev., 2008, 1916; Cass. 2 febbraio 2007, n. 2246, in Rep. Foro. it., 2007, voce Diritti politici e civili, 236; Cass. 29 marzo 2006, n. 7145, in Rep. Foro it., 2006, voce Diritti politici e civili, 253; Cass. 28 ottobre 2005, n. 21094, in Rep. Foro it., 2005, voce Diritti politici e civili, 269; Cass. 30 agosto 2005, n. 17500, in Resp. civ. prev., 2006, 345; Cass. 8 giugno 2005, n. 12015, in Rep. Foro it., 2005, voce Diritti politici e civili, 270; Cass. 18 febbraio 2005, n. 3396, in Giust. civ., 2006, I, 2913; Cass. 21 luglio 2004, n. 13504, in Rep. Foro it., 2004, voce Diritti politici e civili, 182. (30) Così, espressamente Cass. 30 agosto 2005, n. 17500, cit. (31) Il riferimento è, anzitutto, ad Hans Kelsen, la cui concezione costituisce certamente la pietra miliare del processo di revisione critica della persona giuridica: la persona giuridica altro non è se non un modo sintetico di regolare determinati gruppi di uomini, ma non è ascrivibile alla categoria dei soggetti di diritto. In proposito, si veda H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino, 2000, 89: “Come la persona fi- sica così anche la così detta persona giuridica è soltanto l’espressione unitaria di un complesso di norme, cioè di un ordinamento che regola il comportamento d’una pluralità di uomini. A volte essa è la personificazione di un ordinamento parziale come sarebbe lo statuto di una società che costituisce una comunità parziale, la persona giuridica della società, a volte è la personificazione d’un ordinamento giuridico totale che costituisce una comunità giuridica comprensiva di tutte le comunità parziali e che di solito è rappresentata dalla persona dello stato. (...) Come la persona fisica non è un uomo, così la persona giuridica non è un superuomo. Gli obblighi e i diritti di una persona giuridica debbono risolversi in obblighi e diritti dell’uomo, cioè in comportamenti umani regolati da norme, in comportamenti che le norme statuiscono come obblighi e diritti”. Per analoghe considerazioni, Id. Teoria del diritto e dello Stato, Milano, 1952, 98. Nella letteratura sulle persone giuridiche, l’intuizione di Hans Kelsen è stata poi sviluppata dal compianto Francesco Galgano. Per una forte critica dell’affezione dei giudici italiani all’astratta figura della “persona giuridica” si veda F. Galgano, Persona giuridica e no, in Riv. Società, 1971, 50: “Il punto è che la persona giuridica non si tocca. Essa rende servizi inestimabili; tant’è vero che se ne fabbricano, ogni giorno, a centinaia: le si tiene nel cassetto (tanto costano poco: appena cinquemila lire), pronte per ogni possibile, e tempestivo, impiego. Altre vengono fabbricate all’estero e, quindi, introdotte nel territorio italiano (o si deve dire che se ne fa la ‘tratta’, con antropomorfico rigore scientifico?). Vaduz è la capitale di un Paese favoloso, nel quale tutte le metafore sono realtà: il ‘legislatore’ è, o è stato fino a qualche tempo fa, una persona fisica (il Dr. Wilhelm Beck); i cittadini sono, nella stragrande maggioranza, persone giuridiche. Ci si guardi dall’insegnare ai giudici italiani la tecnica del ‘perforare i veli’ della persona giuridica: essi potrebbero cessare di decidere, come hanno deciso finora, che la questione delle Anstalten di Vaduz è una questione da risolvere in termini di ‘capacità delle persone’; potrebbero ricredersi sulla massima, alla quale sono ora ancorati, secondo la quale ‘a norma dell’art. 17 disp. prel. lo stato e la capacità delle persone giuridiche, oltre che di quelle fisiche, sono regolate dalla legge dello Stato al quale esse appartengono’”. Nello stesso senso: Id., Lex Mercatoria, Bologna, 1993, 76; Id., Le insidie del linguaggio giuridico. Saggio sulle metafore nel diritto, Bologna, 2010, 25; Id. Dogmi e dogmatica nel diritto, Padova, 2010, 25. (32) In proposito, è interessante notare che la dottrina più recente, negando che l’imputazione soggettiva della persona giuridica possa risolversi nei termini di un regime speciale del- Alcuni rilievi sulla soluzione adottata dalla Suprema Corte: il fine non giustifica i mezzi 862 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Danno non patrimoniale In secondo luogo, identificando il danno non patrimoniale con il solo danno morale soggettivo, ne adotta una nozione alquanto ristretta, oltre che confliggente con le acquisizioni della giurisprudenza in materia. Come si è detto, il riconoscimento del danno non patrimoniale agli enti è passato attraverso la considerazione che una realtà impersonale non potesse soffrire e, quindi, attraverso la mutata concezione del nocumento descritto all’art. 2059 c.c.: esso è ora inteso non più quale danno morale soggettivo, ma quale danno non patrimoniale in senso lato, comprensivo di tutte le conseguenze non patrimoniali della lesione dei diritti della personalità. Ciò posto, occorre chiedersi se i menzionati rilievi possano dirsi in qualche misura giustificati dallo scopo perseguito Cassazione, ossia dall’esigenza di conformarsi alla posizione assunta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La risposta è negativa. È vero che le Sezioni Unite, con le famose pronunce del 2004 (33), sulla scia della decisione Scordino c. Italia (34), hanno sostanzialmente riconosciuto il dovere del giudice interno di applicare la c.d. “legge Pinto” conformemente alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (35). Tuttavia, la Cassazione avrebbe potuto riconoscere agli enti il danno non patrimoniale da violazione del diritto alla ragionevole durata del processo per una via diversa, piana e più conforme all’assetto interno: le sarebbe bastato constatare che la lesione del diritto di cui si discute è inquadrabile nella violazione del più ampio diritto al “giusto processo”, espressamente sancito per la persona (fisica e non) dall’art. 111 Cost. Del resto, analoga soluzione è stata adottata dal Tribunale di Milano con riferimento al diritto a un giudizio imparziale nella nota sentenza c.d. “Mondadori”: la Corte meneghina ha riconosciuto il danno non patrimoniale alla società di capitali CIR per lesione del diritto inviolabile a ottenere una sentenza non viziata da corruzione, dopo aver qualificato tale lesione come una violazione dell’art. 111 Cost. (36). Alla luce di quanto esposto, pare che il ristoro del danno non patrimoniale a un ente non richieda la distruzione del concetto di personalità giuridica né, tanto meno, il riferimento all’artificioso patema d’animo di soggetti che, per propria natura, non soffrono e non gioiscono. Eppure, la S.C. è ben lungi dall’accennare a ripensamenti: mentre i processi continuano a essere “lumaca”, il danno morale soggettivo si fa avanti, sprezzante, alla velocità della luce, sino a raggiungere realtà inanimate. la persona fisica, ha ribadito che le situazioni soggettive che si appuntano all’ente sono diverse da quelle che si appuntano ai singoli membri. Si vedano, ex multis: M. Basile, Le persone giuridiche, Milano, 2003, 146; A. Zoppini, I diritti della personalità delle persone giuridiche (e dei gruppi organizzati), in Riv. dir. civ., 2002, 872. (33) Il riferimento è a Cass., SS.UU., 26 gennaio 2004, nn. 1338-1341, cit. (34) Si veda Corte dir. uomo, 27 marzo 2003, Scordino c. Italia, in Guida dir., 2003, 106. (35) Per approfondimenti sul punto, si veda R. Conti, CEDU e diritto interno: le Sezioni Unite si avvicinano a Strasburgo sull’irragionevole durata dei processi, in Corr. giur., 2004, 609. (36) Si veda Trib. Milano 10 luglio 2015, cit. Danno e responsabilità 8-9/2016 863 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società Responsabilità di amministratori e sindaci La valutazione del danno in via equitativa, il criterio della differenza dei netti patrimoniali e la responsabilità degli amministratori Tribunale di Ferrara 1° marzo 2016 - Pres. Vignati - Rel. Arcani Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore nei confronti degli amministratori il pregiudizio risarcibile non può essere automaticamente identificato nella differenza fra passivo ed attivo accertati in sede fallimentare. La mancanza o l’irregolarità della contabilità sociale non sono, infatti, legate da alcun potenziale nesso eziologico con il danno costituito dal deficit patrimoniale accertato in sede fallimentare. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cass., SS.UU., 6 maggio 2015, n. 9100; Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538; Cass. 15 febbraio 2005, n. 3032. Difforme Cass. 11 marzo 2011, n. 5876; Cass. 4 aprile 2011, n. 7606; Cass. 8 luglio 2009, n. 16050; Cass. 23 luglio 2007, n. 16211. Il Tribunale (omissis). ... Tanto premesso, occorre in primo luogo soffermarsi sulla questione relativa all’efficacia del giudizio penale sul presente giudizio civile. Il procedimento penale nei confronti dei due convenuti T.V. e T.V. si è esaurito in fase di appello con pronuncia che ha dichiarato la prescrizione del reato ed accertato l’insussistenza di elementi che consentano assoluzione degli imputati. La difesa dei convenuti insiste sulla erroneità di tale pronuncia, che tace sui capi civili della pronuncia di primo grado n. 1341/07, sottolineando come pertanto gli esiti del processo penale non possano essere in questa sede utilizzati. Tale argomento non risulta convincente. Ed invero sul punto deve constatarsi come il silenzio della sentenza d’appello sulle statuizioni civili della pronuncia di primo grado dipende dal fatto che l’appello dei due imputati V.T. e V.T. investiva solo la condanna penale: rispetto a tale motivo d’appello la Corte si è pronunciata con dichiarazione di prescrizione del reato. L’omissione di pronuncia si sarebbe avuta laddove gli imputati avessero anche impugnato la condanna generica al risarcimento del danno e la Corte nulla avesse pronunciato sul punto. In ogni caso, poi, anche laddove si voglia ritenere che la Corte fosse tenuta comunque a pronunciarsi sul capo relativo alla condanna al risarcimento del danno, l’e- 864 ventuale vizio derivante dall’omessa pronuncia avrebbe dovuto essere fatto valere dalle parti interessate mediante ricorso per cassazione. E le parti interessate devono necessariamente individuarsi nei due imputati, posto che solo i due imputati avevano interesse ad ottenere una pronuncia che riformasse la statuizione contenuta nella sentenza di primo grado, che li condannava al risarcimento del danno provocato alla società con il loro comportamento. In difetto di impugnazione, il capo civile della sentenza n. 1341/07 deve ritenersi coperto dal giudicato. Per tale motivo non possono essere riproposte in questo giudizio questioni relative alla condotta dei due convenuti. Anche poi laddove si volesse escludere l’efficacia di giudicato della sentenza penale nel giudizio civile, gli elementi emersi dalle indagini e dal processo penale, come acquisiti a questo processo per effetto delle produzioni documentali di parte attrice, conducono, comunque, all’affermazione della responsabilità dei due convenuti per i danni provocati al Fallimento della società. Precisamente in questo giudizio sono stati riprodotti la relazione ex art. 33 l.f. depositata dal curatore (doc.3), la relazione della guardia di Finanza del 3.5.2004 (doc.4), oltre alla sentenza penale del Tribunale di Ferrara n. 1341-2007 (doc.27). Da tali documenti si evince in primo luogo conferma della tenuta incompleta dei libri contabili, che risultano scritturati solo fino al 12.11.97; risultano, poi, omesse le Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società dichiarazioni fiscali relative al 1997; il bilancio al 31.12.1997 non è presentato come prescritto dalla legge, con conseguente impossibilità di ricostruire il patrimonio della società alla data della sentenza dichiarativa di fallimento intervenuta il 22.1.99(così nella relazione del curatore ex art. 33 LF). Dai documenti emerge, poi, come in data 24.2.97 la T. s.r.l. avesse concluso un appalto del valore di oltre 10 miliardi di lire per la costruzione di un villaggio turistico di 170 unità immobiliari e di un centro commerciale di Lido delle Nazioni, con committente C. s.r.l. La T. aveva provveduto a costruire le prime 52 unità immobiliari ed il contratto era stato poi risolto il 24.2.98 con atto di transazione a seguito di non precisate contestazioni sull’ammontare dei corrispettivi dovuti. L’appalto per l’edificazione delle restanti villette era passato in pari data in capo alla società I.M. sas di T.V., la cui compagine sociale risultava suddivisa tra T.V. ( che era divenuta accomandataria della società pochi giorni dopo avere lasciato la carica di amministratore unico di T. s.r.l., della quale rimaneva socia) e la convivente di T.V.F.B.; la società I.M. sas era stata costituita nel dicembre 1997, con sede identica a quella della fallita. Nella relazione ex art. 33 LF il Curatore rileva l’esistenza di pesanti debiti soprattutto nei confronti di enti previdenziali. Questo dato, unito alla sostituzione nell’appalto della M. sas alla T. s.r.l., che creava la parvenza di una cessione d’azienda a titolo gratuito, induceva il curatore dott.ssa S. ad ipotizzare che il fallimento fosse stato volontariamente preordinato dai T. per evitare il pagamento delle ingenti somme dovute allo Stato ed agli enti di previdenza, salvando al contempo i profitti relativi all’appalto. Ancora, il curatore evidenziava la grave anomalia della contabilità di T. s.r.l., rappresentata da un conto cassa con saldo superiore ai 700 milioni di lire alla data dell’ultima scritturazione, cioè al 12.11.97: saldo che si era formato a far data dal 2.6.97 tramite una serie di prelievi- assegni e giroconti dal c/c bancario, contanti- ingiustificati dai due conti della società fallita, che poi apparivano messi in cassa come contropartita contabile per far quadrare i conti. Il curatore evidenziava come il denaro non fosse stato rinvenuto e non vi fosse alcuna prova che il denaro fosse stato utilizzato per pagamenti a fornitori o dipendenti. L’istruttoria svolta nel giudizio penale ed in particolare la deposizione del teste B., socio di minoranza, aveva messo in rilievo che la gestione e le scelte rilevanti nella società erano effettuate da T.V. Ancora dalle dichiarazioni rese in sede penale dall’avv. Mingolla, legale di T., era emerso che la risoluzione del contratto d’appalto era avvenuta con la stipula di un atto di transazione concordato tra T.V. e il Bocchi, per conto della parte committente, anche se poi era stata sottoscritta dal legale rappresentante della T., all’epoca C.. Il medesimo teste confermava che le decisioni rilevanti sulla gestione sociale venivano prese da T.V. Danno e responsabilità 8-9/2016 All’esito di tale disposizioni i giudici penali sono pervenuti alla conclusione della responsabilità degli imputati per i fatti loro ascritti. Si legge a pag.11 della sentenza “deve anzitutto affermarsi al di là di ogni dubbio che l’amministratore di fatto della società fallita-quantomeno a far data dalla stipulazione del contratto di appalto con la C. s.r.l. nel febbraio 1997- è stato T.V. e che tutti i testimoni, nonché il coimputato C. ed il defunto C. nelle sue dichiarazioni al Curatore da costui puntualmente ricordate, indicano espressamente o implicitamente sulla base di una serie di fattori oggettivi di seguo univoco, come dominus della situazione, padrone di fare e disfare, referente in prima persona della T. con operai ( che provvedeva direttamente ad assumere a seconda delle necessità), fornitori, soci e consulente legale della società”. Ed ancora a pag.13 della decisione “Per T.V. è emerso del pari un suo pieno coinvolgimento- in stretta collaborazione col padre V.- nella gestione della T. e nella tempestiva e sempre coordinata creazione della I.M. sas per raccoglierne l’eredità positiva e la capacità di produrre utile, abbandonando la indebitata- e priva di credibilità verso i terzi- T. al suo destino di fallimento. D’altronde la T. pur negandolo, risultava oggettivamente dotata del potere di operare sul c/c societario presso la Banca Commerciale Italiana già molti mesi prima di diventare ufficialmente amministratore unico della fallita. Successivamente continua ad operare con le banche, a sottoscrivere e ritirare assegni (ivi compresi quelli in deposito presso l’avv. Mingolla per complessivi 50 milioni di lire, da lei personalmente prelevati per non precisate necessità societarie in data 24.10.97)”. Alla luce di tali considerazioni i giudici hanno ritenuto sussistere in capo a tutti e due gli imputati (V. e V.T.) gli elementi costituitivi dei reati loro ascritti e precisamente: quanto al delitto di bancarotta patrimoniale documentale si legge nella sentenza: “i documenti contabili della società furono scritturati soltanto fino al 12.11.1997, mentre nessuno -e in primo luogo l’allora amministratore T.V.- si curò di aggiornare le annotazioni per il periodo successivo perdurante almeno sino al febbraio 1998, nel corso del quale la T. s.r.l. continuò l’attività (il curatore ha rinvenuto varie fatture successive al 12/11/97) e proseguì a mantenere un buon numero di dipendenti ( che furono licenziati e migrarono verso la I.M. sas solo nel febbraio 1998)”. Quanto all’altro capo di imputazione relativo al reato di cui all’art. 223 comma 2 n. 2 LF, che si riferisce all’accusa di avere cagionato dolosamente ed in concorso tra loro il fallimento della T., allo scopo di evitare il pagamento dei pesanti debiti societari con la creazione della nuova società I.M. sas e proseguendo con la stessa l’esecuzione dell’appalto a suo tempo ottenuto dalla T. s.r.l., i giudici penali, traendo convincimento dalle risultanze dell’istruttoria, ritengono sussistenti gli elementi costitutivi del reato in capo ad entrambi gli imputati. La sentenza mette in luce come la consistenza economica dell’appalto era tale da consentire di escludere che, in caso di regolare esecuzione del contratto, la società 865 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società sarebbe fallita. Quali elementi di prova della colpevolezza si sofferma sul ruolo dominante assunto da T.V. nella trattativa per la risoluzione del contratto tra T. e C., sull’opposizione da parte dei soci C. e C., sulla stipula contestuale alla risoluzione del primo contratto di nuovo contratto con la società I.M. s.a.s., della quale è amministratore di diritto proprio T.V.; ed ancora la sentenza penale convincentemente sottolinea la coincidenza dei tempi tra la cessazione da parte di V.T. dalla carica di amministrare la T. e la assunzione di analogo ruolo nella società I.M. sas; la consapevolezza in capo a V.T. dei debiti contributivi della società, che a maggior ragione non poteva ignorare il padre, dominus della vicenda; la mancanza di ragione giustificante la risoluzione del contratto di appalto nei confronti della T., salvo poi la prosecuzione dell’appalto con soggetto solo formalmente diverso. Tali emergenze processuali non sono efficacemente contrastate dalle difese dei convenuti e consentono di affermare la responsabilità dei due convenuti per i danni cagionati dal loro comportamento. Si analizzerà quindi, a questo punto, il profilo relativo alla individuazione del danno risarcibile. Occorre premettere che nella individuazione del danno deve essere rispettato rigorosamente il principio che limita il danno risarcibile a quello causalmente riconducibile all’inadempimento contestato, non potendo semplicisticamente il danno essere individuato nella differenza fra passivo ed attivo come accertata in sede fallimentare. Tale principio è affermato chiaramente dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 9100/2015, che perviene alla conclusione che nella azione di responsabilità promossa dal curatore nei confronti degli amministratori il pregiudizio risarcibile non possa essere automaticamente identificato nella differenza fra passivo ed attivo accertati in sede fallimentare. L’insegnamento della pronuncia va qui richiamato in quanto essa contiene alcuni interessanti spunti in punto di individuazione del danno risarcibile. La Corte, premessa una sintetica ricapitolazione degli sviluppi della giurisprudenza di legittimità negli ultimi decenni, ha ricordato in primo luogo che gli illeciti ascrivibili all’amministratore di società, idonei a generare l’obbligo di risarcire il danno, consistono in una pluralità di comportamenti: ed infatti i doveri imposti dalla legge, dall’atto costitutivo e dello statuto agli amministratori di società sono variegati. In parte, tali doveri sono puntualmente specificati e si identificano in ben determinati comportamenti, quali, ad esempio, la tenuta delle scritture contabili, la predisposizione dei bilanci e i prescritti adempimenti fiscali e previdenziali, il divieto di concorrenza. Per il resto, si tratta di doveri il cui preciso contenuto non è sempre facile da specificare a priori, in quanto essi comprendono l’obbligo in capo all’amministratore di compiere con la necessaria diligenza tutto ciò che occorre per la corretta gestione di essa. Conseguentemente, gli effetti dannosi per la società e per i suoi creditori che possono eventualmente scaturire dalla violazione dei suddetti doveri non sono suscettibili di 866 una considerazione unitaria, ma appaiono destinati a variare a seconda di quale sia stato l’obbligo di volta in volta violato. Da tali premesse la sentenza desume che non tutti gli inadempimenti degli amministratori determinino quale danno risarcibile la differenza fra passivo ed attivo patrimoniale. Il deficit patrimoniale fatto registrare dalla società in fallimento non può essere, cioè, automaticamente addebitato all’amministratore che abbia violato obblighi connessi al suo mandato: in primo luogo perché il fallimento della società può dipendere da circostanze esterne che prescindono dal comportamento degli amministratori, ma poi anche perché vi sono ipotesi di inadempimento addebitato all’amministratore che si riferisca alla violazione di doveri specifici, cui corrispondono a carico del patrimonio sociale, soltanto effetti altrettanto specifici e ben delimitati. Ciò premesso, occorre soffermarsi sulle risultanze della CTU a firma del Dott. Andrea Ranieri, cui si è dato corso su sollecitazione di parte attrice, ai fini della individuazione del danno risarcibile alla luce della documentazione versata in atti. Il CTU ha analizzato le varie condotte addebitate ai convenuti da parte attrice e messo in relazione tali condotte con le voci di danno delle quali il fallimento attore invoca il risarcimento. In primo luogo il CTU ha constatato come, alla luce della documentazione prodotta in giudizio da parte attrice, risulti effettivamente che la contabilità della società è aggiornata solo fino al 12.11.97, momento nel quale V.T. risultava amministratrice di diritto della società. Con riferimento alle violazioni all’obbligazione di regolare tenuta delle scritture contabili, la Corte nell’autorevole pronuncia sopra ricordata ha chiarito che la mancanza o l’irregolarità della contabilità sociale non sono legate da alcun potenziale nesso eziologico con il danno costituito dal deficit patrimoniale accertato in sede fallimentare. Postulare che l’amministratore debba rispondere dello sbilancio patrimoniale della società solo perché non ha correttamente adempiuto l’obbligo di conservazione delle scritture contabili ed ha reso perciò più arduo il compito ricostruttivo del curatore fallimentare equivale ad attribuire al risarcimento del danno così identificato una funzione sanzionatoria. Coerentemente con tali conclusioni, in punto di difetto di regolare tenuta delle scritture contabili da parte degli amministratori della società fallita, il CTU Dott. Ranieri, ha correttamente stigmatizzato che tale omissione comporta quale conseguenza la impossibilità di una ricostruzione del patrimonio sociale, ma non si traduce immediatamente in un pregiudizio economico per la società. Per quanto riguarda l’addebito relativo allo svuotamento della cassa, il CTU evidenzia che la modalità operativa della T. consisteva nell’annotare aumenti nel conto cassa a seguito di prelievi di analogo importo dai conti bancari, cui seguiva il decremento della cassa quando le somme prelevate venivano destinate ai pagamenti. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società Per effetto delle movimentazioni di segno opposto - entrate ed uscite- risultava un saldo attivo di cassa alla data dell’ultima registrazione contabile il 12.11.97 di Euro 367.888,60 ( L. 712.331.650,00): le corrispondenti somme non sono, però state reperite dal curatore. Secondo il CTU tanto comporta l’insorgenza in capo al fallimento di un danno di pari importo, non essendovi documenti che consentano di comprovare l’eventuale destinazione di tale saldo di cassa a fini societari. Sul punto deve, tuttavia, constatarsi come la stessa sentenza penale, nell’assolvere T.V., unico incolpato a tale titolo, dall’accusa di bancarotta per distrazione, abbia accertato come non sia stata raggiunta la prova che l’ammanco di cassa sia allo stesso imputabile. Né alcuna evidenza circa la responsabilità per l’ammanco di cassa è stata raggiunta in questo giudizio a carico dei due convenuti. Proseguendo la propria indagine, con riguardo alla anticipata risoluzione del contratto d’appalto, il CTU evidenzia come dagli atti prodotti in giudizio non possa ritenersi derivato alcun danno risarcibile a carico della società quale conseguenza derivante dallo scioglimento di tale rapporto negoziale, non essendovi elementi dai quali poter desumere con certezza che i crediti derivanti dall’appalto, ove portato alla sua naturale conclusione, sarebbero stati onorari dalla debitrice committente. Tale conclusione va sicuramente condivisa. Del resto la parte attrice non invoca alcuna pretesa risarcitoria a tale specifico titolo. L’individuazione del danno risarcibile è data, piuttosto, dagli ingenti debiti esistenti a carico della società al momento del fallimento. Al riguardo, sulla base del doc.20 prodotto da parte attrice recante lo stato passivo dichiarato esecutivo il 12.08.99 e delle successive insinuazioni vengono in rilievo: l’insinuazione di S. s.p.a. alla data del 21.10.2003,che ha comportato la ammissione al passivo di un credito per Euro 531.304,01 ( di cui Euro 115.609,39 in privilegio ex artt. 2752/2778 n.19 c.c. ed Euro 415.694,92 in chirografo); l’insinuazione di S. s . p . a . i n d at a 1 7 . 7 . 2 0 0 2 p e r l’ i m p o r t o d i E u r o 214.333,85 (di cui Euro 213.510,10 in privilegio ex art. 2752/2778 n. 19 c.c. ed Euro 823,75 in chirografo). Con riguardo a tale insinuazione sono allegati gli estratti del suolo da cui si evince che il credito azionato è correlato per il modesto importo di Euro 200,90 ad Irpeg anno 1995, quindi non di immediata rilevanza per i fatti oggetto di questo giudizio e per il restante ad IVA per l’anno 1997, quindi correlato alle contestazioni mosse a T. s.r.l. dalla Guardia di Finanza; insinuazione di S. s.p.a. del 19.4.2006, con conseguente ammissione al passivo del credito di Euro 2.606.183,27 ( ripartito in Euro 1299.184,14 per imposte sul reddito in privilegio ex art.2759/2778 n.7 c.c.; Euro 16.481, 64 -imposte -imposte sul reddito- in privilegio ex art. 2752/2778 n.18 c.c.; Euro 156.253,99-IVA- in privilegio ex art. 2752/2778 n.19; Euro 1.134.263,50 in chirografo). Il CTU ha affermato, alla luce dei documenti prodotti, che risulta possibile rinvenire una diretta correlazione tra la passività per IVA di Euro 213.510,00 di cui all’in- Danno e responsabilità 8-9/2016 sinuazione in data 17.7.2002 e le contestazioni mosse dalla Guardia di Finanza agli amministratori di T. s.r.l. Con riguardo agli altri due crediti ammessi al passivo della società, il CTU evidenzia come l’assenza dei relativi estratti di molo non consenta di accertare in modo incontrovertibile la correlazione fra il credito insinuato e le violazioni fiscali contestate dalla Guardia di Finanza, in quanto non sono individuabili le annualità delle omissioni riscontrate dagli uffici fiscali preposti. Precisa, comunque, di ritenere che anche le altre insinuazioni, alla luce della natura dei privilegi riconosciuti, debbano ritenersi ricorresse alle violazioni contestate agli amministratori relative a violazioni della disciplina fiscale. Proprio il richiamo alla necessità di una rigorosa ricostruzione della causalità fra condotta contestata all’amministratore infedele e danno risarcibile impone di riconoscere la sussistenza di nesso eziologico solo con riguardo al credito di cui all’insinuazione S. del 17.7.2002 e per il solo importo di Euro 213.510,00, ammesso con il privilegio ex art. 2752/2778 c.c.: credito relativo cioè a mancato versamento dell’IVA. Solo per questo credito risulta prodotto in atti, infatti, il relativo estratto di molo, che consente di collocare temporalmente la violazione nell’anno 1997. In questo anno si sono verificati i comportamenti accertati in sede penale a carico di entrambi i convenuti consistenti nella irregolare tenuta della contabilità e nelle conseguenti omissioni nelle dichiarazioni fiscali ai fini dell’applicazione dell’IVA, violazioni dalle quali sono derivati i crediti tributati insinuati al passivo del fallimento. Con riferimento agli altri crediti S. non vi è la prova della sussistenza di analogo nesso causale. L’onere di fornire la relativa dimostrazione gravava in capo al Fallimento attore, che avrebbe dovuto produrre in giudizio non solo le istanze di ammissione al passivo del fallimento dei vari crediti ed il relativo provvedimento di ammissione, ma anche documentazione specifica idonea a far luce sulla fonte delle varie ragioni di credito ammesse al passivo. In conclusione il danno risarcibile deve essere quantificato nella somma di Euro 213.510,00. Su tale somma, trattandosi di debito di valore, deve applicarsi la rivalutazione monetaria a partire dalla data del fallimento ( 22.1.1999) e fino all’attualità, oltre agli interessi compensativi, al tasso legale, sulla somma anno per anno rivalutata, secondo l’insegnamento della sentenza n. 1712 del 17.2.1995 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. I convenuti sono pertanto tenuti in solido a corrispondere al fallimento attore a titolo di risarcimento del danno la somma di Euro 390.038,18. Su tale somma devono, poi, applicarsi gli interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo. All’esito della lite, merita accoglimento l’istanza revoca parziale del sequestro conservativo disposto con Provv. 8 ottobre 2013 per la somma che supera l’importo riconosciuto a titolo di risarcimento del danno con questa sentenza. Le spese di lite e di CTU seguono la soccombenza... Omissis. 867 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società Tribunale di Pistoia 19 gennaio 2016 - Pres. Amato - Rel. Garofalo Nei giudizi di responsabilità promossi dalla curatela fallimentare nei confronti degli amministratori debbono bandirsi criteri di individuazione e liquidazione del danno che prescindano dal rigoroso accertamento di quali siano le conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate e ritenute sussistenti. Per questa ragione, nel caso in cui sia lamentata la violazione dell’art. 2486 c.c., deve essere respinta la domanda se l’attrice non assolve all’onere di allegazione degli atti gestori adottati dagli amministratori in violazione del dovere di gestione conservativa e non allega e prova il danno derivante da tali atti. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Trib. Venezia 19 maggio 2015; Trib. Prato 14 settembre 2012; Trib. Padova 24 giugno 2009; Trib. Lecce 3 novembre 2009. Difforme Trib. Bologna 3 novembre 2014; Trib. Vicenza 20 ottobre 2014; Trib. Milano 20 aprile 2009; Trib. Torino 10 febbraio 1995. Il Tribunale (omissis). “... Ciò premesso si deve subito rilevare una carenza di allegazione dei fatti fondanti, in ipotesi, la responsabilità degli amministratori ex art. 2486 c.c. A tal proposito giova richiamare il principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui “l’inadempimento rilevante nell’ambito delle azioni di responsabilità da risarcimento dei danni nelle obbligazioni cosidette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisca causa (o concausa) efficiente del danno” sicché “l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento per così dire qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno” (Cass. SS.UU. n. 577/2008). Tale principio - espresso in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria - è stato ritenuto dalle SS.UU. della Corte di Cassazione (sent. 9100 del 6/5/2015) applicabile anche all’azione sociale di responsabilità degli amministratori proposta dal curatore del fallimento in quanto avente pacificamente natura contrattuale. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella sentenza da ultimo citata, hanno sottolineato che l’onere gravante sul curatore del fallimento di allegare e provare i fatti costitutivi della domanda risarcitoria proposta nei confronti degli amministratori (danno e nesso di causalità) imponga, come necessario antecedente logico, l’allegazione di un inadempimento qualificato e cioè di un inadempimento che sia astrattamente idoneo a provocare il dedotto danno. Orbene, nel caso in esame, parte attrice ha lamentato la prosecuzione dell’attività di impresa, e comportamento di per sé non vietato, senza precisare quali sarebbero stati gli atti di mala gestio e cioè le condotte poste in essere dagli amministratori in violazione del divieto di cui all’art. 2486 c.c. perché consistenti, ad esempio, in assunzione di nuovi impegni od obbligazioni. Né è convincente l’assunto attoreo secondo cui l’incremento del passivo societario dopo il 2005 proverebbe la condotta illecita e cioè una gestione non finalizzata alla conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale. L’argomentazione, sebbene 868 suggestiva, finisce per far coincidere la condotta illecita con quella di prosecuzione dell’attività di impresa con esiti economicamente sfavorevoli sovrapponendo, così, il piano della condotta a quello dell’evento. Il risultato di esercizio sfavorevole di per sé non integra responsabilità degli amministratori ex art. 2486 c.c. salvo che sia conseguenza di atti di gestione volontariamente (o colposamente) finalizzati a incidere negativamente sull’integrità e sul valore del patrimonio sociale. Giova richiamare sul punto l’argomentazione svolta nella sent. n. 9100/2015 secondo cui l’attività di impresa è “intrinsecamente connotata dal rischio di possibili perdite il cui verificarsi non può quindi essere considerato di per sé solo un sintomo significativo della violazione dei doveri gravanti sull’amministratore, neppure quando a costui venga addebitato di essere venuto meno al suo dovere di diligenza nella gestione, appunto in quanto non basta la gestione diligente dell’impresa a garantire i risultati positivi”. Muovendo dalle considerazioni che l’art. 2486 c.c. non vieta, al verificarsi di una causa di scioglimento, la prosecuzione dell’attività di impresa e che tale attività può ben determinare un incremento del passivo, senza che ciò implichi necessariamente responsabilità degli amministratori, deve giungersi alla necessaria conclusione che l’allegazione di un inadempimento qualificato presupponga l’individuazione degli specifici atti di gestione che costituiscono causa del lamentato danno (e cioè idonei a provocare la lesione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale). Giova precisare che le considerazioni sopra esposte, riferite all’azione sociale di responsabilità di natura contrattuale, valgono a maggior ragione per l’azione di responsabilità spettante ai creditori sociali che ha natura extracontrattuale poiché il curatore che agisce per far valere la responsabilità aquiliana deve non solo allegare ma anche provare il comportamento dei convenuti in violazione del dovere del neminem laedere. Parte attrice non ha specificamente allegato, né tanto meno provato, il compimento da parte degli amministratori degli atti di gestione non finalizzati alla conservazione del patrimonio della società. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società La carente allegazione della condotta, integrante la responsabilità degli amministratori, si ripercuote sull’allegazione e prova del lamentato danno. Anche a tal proposito è utile richiamare i principi espressi dalle sezioni unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 9100/2015. In tale pronuncia la Corte ha sottolineato che, stante l’ampiezza e variabilità dei doveri imposti all’amministratore di società, “le conseguenze dannose per la società e per i suoi creditori - che possano eventualmente scaturire dalla violazione dei suddetti doveri, dovendo essere in rapporto di causalità con quelle violazioni, non sono suscettibili di una considerazione unitaria, ma appaiono destinate a variare a seconda di quale sia stato l’obbligo di volta in volta violato dall’amministratore. In tanto, allora ha senso parlare dell’individuazione del danno, del nesso di causalità che deve sussistere tra il danno medesimo e la condotta illegittima ascritta all’amministratore, della liquidazione del quantum debeatur e degli oneri di prova che gravano in proposito sulle parti del processo, in quanto si sia prima ben chiarito quale è il comportamento che si imputa all’amministratore di aver tenuto e quale violazione, tra i molteplici doveri gravanti sul medesimo amministratore, quel comportamento ha integrato”. Il principio espresso dalla Corte di Cassazione è che nei giudizi di responsabilità promossi dalla curatela fallimentare nei confronti degli amministratori debbano bandirsi criteri di individuazione e liquidazione del danno che prescindano dal rigoroso accertamento di quali siano le conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate e ritenute sussistenti. Ha, infatti, affermato la Corte di Cassazione che il protrarsi della gestione dell’impresa in assenza delle condizioni economiche e giuridiche che giustificano la continuità aziendale non può valere di per sé quale fonte di danno in quanto “anche in questo caso non sarebbe logicamente corretto né imputare all’amministratore quella quota delle perdite patrimoniali che potrebbero già essersi verificate in un momento anteriore al manifestarsi della situazione di crisi in tutta la sua portata, né, soprattutto, far gravare su di lui, a titolo di responsabilità, anche le ulteriori passività che quasi sempre inevitabilmente un’impresa in crisi comunque accumula pur nella fase di liquidazione”, concludendo quindi che “nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento”. La richiamata pronuncia delle SS.UU. del Supremo Collegio conferma, invero, il prevalente orientamento giurisprudenziale secondo cui compete al curatore, il quale eserciti l’azioni di responsabilità contro gli organi di una società fallita, dare la prova dell’esistenza del danno, del suo ammontare e del nesso di causalità con il comportamento illecito di determinati soggetti (negli Danno e responsabilità 8-9/2016 stessi termini v. anche Cass. sez. I, sentenza n. 7606 del 04/04/2011). Poiché, per i motivi sopra esposti, l’art. 2486 c.c. non vieta la prosecuzione dell’attività ma solo il compimento di atti gestione non conservativi, il danno che consegue alla violazione della detta norma dovrà individuarsi nelle perdite causate, in maniera immediata e diretta, dal compimento degli atti vietati e cioè dagli atti che comportino, ad esempio, l’assunzione di nuovi impegni o di nuove obbligazioni, o che comunque siano stati adottati per una finalità diversa da quella di conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale. L’assunto di parte attrice, secondo cui il danno è individuabile nella “perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell’attività al netto dei costi che la società avrebbe comunque sostenuto anche se fosse rimasta inattiva”, si fonda sulla implicita ed errata premessa che sia la prosecuzione dell’attività in sé ad essere vietata, mentre l’art. 2486 c.c. consente il compimento di atti di gestione della società, anche di atti nuovi, di talché l’accertamento del danno passa attraverso la necessaria individuazione delle operazioni tenute in contrasto con la finalità conservativa e l’accertamento delle conseguenze immediate e dirette di tali determinate operazioni. A ragionare diversamente, seguendo cioè la tesi di parte attrice, si riesumerebbe il divieto di nuove operazioni di cui al previgente art. 2449 c.c. individuando cioè il fatto illecito nella mera prosecuzione dell’esercizio attivo ed il danno nella perdita incrementale riferita alla detta prosecuzione. In definitiva è onere della curatela che agisca per il risarcimento del danno ex art. 2486 c. 2 c.c. individuare gli specifici atti compiuti dagli amministratori in violazione della norma e provare il conseguente danno. (Omissis). Nel caso in esame parte attrice, come già esposto, non ha assolto all’onere di allegazione degli atti gestori adottati dagli amministratori in violazione del dovere di gestione conservativa e non ha allegato e provato il danno derivante da tali atti. Tale carenza si ripercuote, ovviamente, sulla domanda proposta nei confronti dei sindaci cui si addebita una responsabilità, solidale con gli amministratori, per non aver vigilato sull’operato degli stessi e quindi per non aver impedito la prosecuzione dell’attività e la produzione del danno. Giova, peraltro, precisare che la curatela ha depositato tutte le scritture contabili senza allegare una loro incompletezza o infedeltà (ad eccezione del profilo relativo alla contabilizzazione dei contributi ministeriali e dei costi concernenti le immobilizzazioni materiali ed immateriali), di talché aveva la concreta possibilità di individuare gli atti di gestione non conservativa posti in essere dagli amministratori e di allegare e di provare il danno direttamente connesso a tali atti. Ciò non è avvenuto e non può il Tribunale espletare le richieste di consulenza tecnica di ufficio al fine di superare il deficit di allegazione e prova imputabile a parte attrice. La consulenza tecnica d’ufficio, lungi dall’integrare un mezzo istruttorio in senso proprio, assolve, in via esclusiva, la funzione di fornire al giudice una valu- 869 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società tazione tecnicamente qualificata di dati già regolarmente acquisiti agli atti di causa. Ne consegue che detto mezzo d’indagine giammai può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (cfr. tra le ultime Cass. Ord. 8.2.2011, n. 3130 e Cass. sez. III, sent. 2072 del 30.1.2014). Né appare pertinente il richiamo di parte attrice al principio di riferibilità o vicinanza dei mezzi di prova atteso che detto principio potrebbe, in ipotesi, rilevare nelle azioni di risarcimento del danno promosse dal fallimento nei confronti di amministratori e sindaci solo qualora la mancanza o la irregolare tenuta delle scritture contabili impedisca al curatore di individuare le condotte illecite e provare il danno sofferto (v. Cass. SS. UU. Sent. 9100/2015, par. 3.5.). Nel caso in esame, invece, le scritture contabili sono state rinvenute (e prodotte) e parte attrice non ha allegato la loro incompletezza o comunque l’impossibilità di ricavare dalla contabilità le principali vicende della società. In ragione delle lacune assertive e probatorie di cui sopra la domanda deve essere respinta. Le considerazioni sin qui svolte appaiono assorbenti, in base al principio della ragione più liquida (v. Cass. Sez. 6 - L, Sentenza n. 12022 del 28/05/2014 secondo cui “Il principio della ragione più liquida, imponendo un approccio interpretativo con la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo, piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica, consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare, di cui all’art. 276 c.p.c., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall’art. 111 Cost., con la conseguenza che la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione anche se logicamente subordinata - senza che sia necessario esaminare preventivamente le altre”; negli stessi termini Cass. Sezioni Unite, Sentenza n. 26242 del 12/12/2014), di talché non occorre valutare né la fondatezza dell’allegazione attorea circa la perdita del patrimonio della società sin dal 2005 né le altre eccezioni di merito svolte dalle parti convenute e dai terzi chiamati. Il rigetto delle domande risarcitorie formulate dal fallimento R. s.p.a. comporta l’assorbimento delle subordinate domande di garanzia proposte dai convenuti contro i terzi chiamati in causa. Omissis. ... Tribunale di Milano 7 ottobre 2015 - Pres. Crugnola - Rel. Mambriani In caso di illegittima prosecuzione dell’attività sociale certamente generativa di danno per la società, allorché la complessità dell’attività aziendale e il rilevante numero di nuove operazioni di rischio rendano oltremodo difficoltosa la ricostruzione analitica delle conseguenze dannose di ogni singola operazione posta illecitamente in essere in ottica non conservativa, è legittima l’utilizzazione - ai fini della quantificazione del danno - del criterio presuntivo e sintetico della differenza dei netti patrimoniali. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Trib. Bologna 22 ottobre 2015; Trib. Prato 30 giugno 2015; Trib. Lucca 29 aprile 2015, n. 814; Trib. Perugia 25 febbraio 2015; Trib. Milano 18 gennaio 2011; Trib. Genova 24 novembre 1997. Difforme Cass. 23 giugno 2008, n. 17033; Trib. Milano 1° aprile 2011. Il Tribunale (omissis). “... Ad avviso del Tribunale, la riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale, occultata mediante le predette irregolarità contabili, era - o avrebbe dovuto essere - nota al L. - socio e storico amministratore unico, oltre che protagonista delle valutazioni contabili di cui si discute, macroscopicamente erronee - sin dal momento in cui ebbe a verificarsi (31.12.2004). In tale contesto, tuttavia, il L. ometteva di convocare l’assemblea dei soci ai sensi dell’art. 2447 e in violazione dell’art. 2485 c.c. non accertava la causa di scioglimento di cui all’art. 2484 comma 1 n. 4) e non procedeva all’iscrizione della medesima presso il Registro delle Imprese; al contrario, il convenuto proseguiva l’atti- 870 vità sociale con assunzione di nuovo rischio imprenditoriale, come reso evidente dalla disamina anche superficiale dei più significativi indici di bilancio: risultano rimasti costanti sia l’ammontare dei ricavi da vendite e prestazioni, sia i costi di produzione per materie prime, con aumento di costi per il personale, nell’anno 2005, con successivo decremento indicativo di una progressiva contrazione dell’attività in un contesto in cui non risulta adottata alcuna misura o strategia gestionale volta alla salvaguardia del valore e dell’integrità del patrimonio sociale. Tali considerazioni risultano altresì documentalmente confermate dall’assunzione, da parte della Società di nuove obbligazioni nel corso degli anni 2005-2007: dalle numerose fatture allegate dal Fallimento sub doc. 68 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società emerge che diversi appalti e lavori hanno avuto origine dopo il 2004 (cfr. anche il prospetto sub doc. 69 att.). Inoltre, dalle risultanze dello stato passivo figurano ammessi diversi creditori per ragioni formatesi successivamente al 2004 (sub doc. 66 att.). Tutto ciò integra una palese violazione dell’art. 2486 c.c. L’illegittima prosecuzione dell’attività sociale è stata certamente generativa di danno per la Società, che al 31.10.2007 presentava, già sulla base delle risultanze della situazione patrimoniale redatta in occasione della presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, un patrimonio netto negativo per euro 1.710.500,00 (allegato 5 Rel. Ctu). Tuttavia, per effetto della già descritta ricostruzione contabile operata dal Ctu, anche tale valore ha subito delle rettifiche ed è risultato pari a euro 4.294.778,50 riportando pertanto un decremento nel corso del biennio 2005-2007 ancor più consistente. Dalle superiori consideraizoni la responsabilità dell’amministratore unico L. per i danni subiti dalla Società e dai creditori sociali per effetto dell’illegittima prosecuzione dell’attività sociale, risulta completamente acclarata. In punto di quantificazione del danno, la complessità dell’attività aziendale e il rilevante numero di nuove operazioni di rischio rendono oltremodo difficoltosa la ricostruzione analitica delle conseguenze dannose di ogni singola operazione posta illecitamente in essere in ottica non conservativa. Pertanto risulta legittima l’utilizzazione del criterio presuntivo e sintetico della differenza dei netti patrimoniali (Cass., n. 2538 del 2005). Il quantum del danno può pertanto determinarsi come differenza tra i patrimoni netti al momento della perdita del capitale e alla data del fallimento (rectius: data di deposito della domanda di ammissione al concordato preventivo, dovendosi ritenere non illegittima la porzione di attività svoltasi da quel momento alla dichiarazione di fallimento (cfr. Trib. Milano, ord. n. 45542 del 18.3.2012 Fall.to Club Air c. Conti ed altri), con l’espunzione dell’abbattimento che il patrimonio netto avrebbe comunque subito se la società fosse stata tempestivamente posta in liquidazione. A tal fine il Ctu ha provveduto a rettificare ulteriormente i bilanci della Società secondo i criteri di liquidazione (cfr. pp. 9-10 Rel. Ctu), giungendo a formulare due diverse ipotesi di danno come differenza tra “netti patrimoniali”: 1) euro 3.942.524,79 nel caso in cui si anticipi la rivalutazione dell’immobile sociale, operata nel bilancio al 31.12.2005 già al 31.12.2004; 2) euro 2.463.524,79 nel caso in cui non si anticipi al 31.12.2004 la rivalutazione dell’immobile. A seguito del deposito dell’elaborato peritale il Fallimento attore, pur adducendo di ritenere corretta l’ipotesi n. 1), in sede di conclusioni, sulla base di una valutazione sulla solvibilità del convenuto, dichiarava di adeguare la domanda risarcitoria alla seconda delle due ipotesi suddette (danno = ad euro 2.463.524,79). Infine, per quantificare il danno ascrivibile al convenuto L. per i fatti di cui sopra, è necessario scomputare dal Danno e responsabilità 8-9/2016 danno così come calcolato in sede di Ctu e posto da parte attrice a fondamento della sua domanda risarcitoria, la quota di responsabilità del Collegio Sindacale, in carica per parte del periodo in contestazione (cfr. visura storica della Società, doc. 5 att.). A tal fine il Tribunale ritiene corretto utilizzare l’indicazione contenuta nelle premesse degli accordi transattivi conclusi tra il Fallimento e i sindaci convenuti, dove la quota di responsabilità addebitata in via solidale ai sindaci da parte del Fallimento è calcolata come 28,29% delle domanda risarcitoria complessivamente azionata. Sebbene non vincolante per il Tribunale, infatti, in relazione allo sviluppo delle vicende societarie ed imprenditoriali della Società fallita, tale percentuale di riparto deve ritenersi senz’altro congrua e rispondente ad una corretta ripartizione delle responsabilità tra amministratore unico e Collegio sindacale. Ne consegue che, per determinare il danno ascrivibile al convenuto L., dall’intero come sopra quantificato (euro 2.463.524,79) deve essere detratto il 28,29% dell’ammontare del danno causato in solido dal predetto e dal Collegio sindacale. Quest’ultimo danno è relativo al periodo in cui il Collegio sindacale è rimasto in carica (21.3.2005/29.11.2006), danno da quantificare equitativamente in misura proporzionale rispetto al periodo di tempo in cui l’intero danno si è prodotto (1.1.200513.11.2007), e dunque in euro 1.376.675. Ne discende che il danno imputabile al L. è pari ad euro 2.074.064 (euro 2.463.524 - euro 389.461)... Omissis”. 871 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società IL COMMENTO di Giovanni Facci (*) Le azioni di responsabilità contro amministratori e controllori di società di capitali dichiarate insolventi sono spesso vanificate a causa delle difficoltà di dimostrare un pregiudizio in rapporto di causalità giuridicamente rilevante rispetto alla condotta della parte convenuta. Per questa ragione, davanti alla difficoltà di separare la singola operazioni o le singole operazioni gestionali produttive di danno - in considerazione del sistema dinamico e complesso di operazioni della realtà d’impresa - sono state prospettate valutazioni di carattere prettamente equitativo, giustificate dall’impossibilità concreta di determinare il danno nel suo preciso ammontare. In particolare, in caso di illegittima prosecuzione dell’attività d’impresa, ha trovato applicazione il criterio della c.d. differenza dei netti patrimoniali. Premessa Le pronunce sopra riportate sono ben esemplificative delle problematiche spesso sottese alle azioni di responsabilità esercitate dal curatore, ai sensi dell’art. 146 l.fall., nei confronti degli organi di gestione e di controllo di società dichiarate fallite. In particolare, il Tribunale estense ribadisce il principio - evidenziato dal noto arresto delle Sezioni Unite del maggio 2015 (1) - secondo il quale il danno risarcibile non può essere individuato semplicisticamente nella differenza fra passivo ed attivo accertata in sede fallimentare. Per questa ragione, in considerazione della necessaria e rigorosa ricostruzione del rapporto causale fra condotta contestata all’amministratore infedele e danno risarcibile, i giudici ferraresi riconoscono - ai fini risarcitori - la sussistenza di un nesso eziologico soltanto con riguardo ad un debito della società per un mancato versamento dell’IVA. Nel caso sottoposto all’esame del Tribunale toscano - riguardante l’illegittima prosecuzione dell’attività d’impresa, in violazione dell’art. 2486 c.c. - la domanda risarcitoria viene respinta non essendo stato assolto da parte attrice l’onere di allegazione di singoli atti di gestione non conservativi e conte(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. (1) Cass., SS.UU., 6 maggio 2015, n. 9100, in Corr. giur., 2015, 1568, con nota di Ferraro; Dir. fall., 2015, 509, in Giur. it., 2015, 1413 con nota di Spiotta. (2) Il tema si è posto da tempo all’attenzione degli interpreti; sull’argomento, tra i tanti, Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporti di causalità fra atti di mala gestio e danni. Lo stato della giurisprudenza, in Giust. civ., 1989, II, 86; P.G. Jaeger, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci nelle procedure concorsuali: una valutazione critica, in Fall., 1989, 969; R. Rordorf, Il risarcimento del danno nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, in Società, 1993, 617; A. Patti, Il danno e la sua quantificazione nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, in Giur. comm., 1997, I, 96; S. Patti, La responsabilità degli amministratori, in Resp. civ. prev., 2002, 872 stualmente non essendo stato provato il danno derivante da tali atti. In una vicenda analoga, invece, il Tribunale di Milano evidenzia come la complessità dell’attività aziendale ed il rilevante numero di “nuove operazioni di rischio” abbiano reso oltremodo difficoltosa la ricostruzione analitica delle conseguenze dannose “di ogni singola operazione posta illecitamente in essere in ottica non conservativa”. Per questa ragione il danno viene quantificato in via equitativa, attraverso l’impiego del criterio presuntivo e sintetico della differenza dei netti patrimoniali. Nelle pronunce sopra riportate, viene così in rilievo il tema della liquidazione del danno che rappresenta verosimilmente l’aspetto maggiormente critico del contenzioso contro amministratori e sindaci, a causa della difficoltà spesso riscontrata di dimostrare la sussistenza di un pregiudizio risarcibile (2). Non è infrequente, pertanto, che le predette azioni di responsabilità siano vanificate - come nel caso del Tribunale di Pistoia - in assenza di un valido riscontro probatorio circa la sussistenza di un pregiudizio causalmente riconducibile alla condotta della parte convenuta. 601; E. Gabrielli, La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita, in Riv. dir. priv., 2004, 7; Signorelli, Azione di responsabilità ex art. 146 l. fall. e determinazione del danno, in Società, 2007, 1127; Zampretti, La mala gestio degli amministratori in prossimità dello stato di insolvenza e la quantificazione del danno risarcibile, in Giust. civ., 2009, 2441; Galletti, Brevi note sulla prova del danno nelle azioni di responsabilità, in Giur. mer., 2010, 2505; Iorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, in Giur. comm., 2011, 149; Vitiello, Il danno risarcibile nelle azioni di responsabilità della curatela, in Giur. comm., 1, 2013, 163; Lamponi - Barbini, L’aggravamento del dissesto e la quantificazione del danno riconducibile alla responsabilità dei sindaci: i criteri di liquidazione di natura equitativa, in Resp. civ. prev., 2014, 1254. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società La responsabilità degli amministratori e sindaci e risarcimento del danno È indubbio che il solo accertamento di una condotta illecita in capo agli amministratori o ai controllori non è di per sé idonea ad integrare la fattispecie risarcitoria, se non viene fornita la prova di un deterioramento del patrimonio sociale, che si ponga in rapporto di conseguenzialità immediata e diretta rispetto al comportamento antidoveroso oggetto di contestazione (3). Al contempo, non tutti gli inadempimenti degli amministratori o degli organi di controllo sono forieri di pregiudizio, come ad esempio nell’ipotesi di irregolare tenuta dei libri e delle scritture contabili. È innegabile, infatti, che tale condotta rappresenta sicuramente l’inosservanza di un preciso obbligo di fonte legale gravante sugli amministratori; tuttavia, è altrettanto certo che le mere irregolarità contabili non sono di per sé idonee a cagionare un pregiudizio alla società (4). Ai fini del risarcimento è necessario, invece, dimostrare che le irregolarità contabili hanno depauperato il patrimonio sociale (5), mentre la presunzione di responsabilità derivante dal disordine contabile non può portare anche ad una equivalente presunzione di danno (6). Allo stesso modo, un difetto di informazione circa la situazione patrimoniale della società (7) oppure l’omessa astensione dell’amministratore dalla deliberazione di un’operazione in una situazione di conflitto d’interessi integrano la violazione di specifici obblighi di legge; tuttavia, tali condotte non (3) Secondo i principi generali fissati dall’art. 2697 c.c., infatti, incombe sul danneggiato l’onere di provare le circostanze che, sul piano della causalità giuridica, rendono determinato, esistente o certo il danno; al contempo, la parte istante deve dimostrare anche l’ammontare del pregiudizio e così quantificare il danno di cui chiede il ristoro; al riguardo, tra gli altri, Franzoni, Il danno risarcibile, in Trattato della responsabilità civile, Milano, 2004, 149; Bianca, Diritto civile, La responsabilità, V, Milano, 2012, 185; più in generale sulle funzioni ed ambito di applicazione dell’art. 2697 c.c., S. Patti, Delle prove, in Commentario Cod. civ. Scialoja-Branca-Galgano, a cura di De Nova, sub art. 2697-2739, Bologna-Roma, 2015. (4) Cass. 25 luglio 1979, n. 4415, in Giur. comm., 1980, II, 325, secondo la quale “L’omissione di una registrazione contabile meramente formale (nella specie di un incasso relativo ad una vendita simulata) non comporta di per sé responsabilità per “mala gestio” se non in quanto abbia arrecato un danno alla società ed ai creditori sociali”. (5) Sul punto, Trib. Milano 3 giugno 1988, in Giur. comm., 1989, II, 945, che evidenzia come “Non sussiste responsabilità degli amministratori per irregolarità contabili se dalla irregolarità non venga depauperato il patrimonio sociale”. (6) Franzoni, Società per azioni, III, Dell’amministrazione e del controllo, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca-Galgano, Bologna-Roma, 2015, 298. Sull’utilizzo delle presunzioni nelle azioni di responsabilità degli amministratori, S. Patti, La responsabilità degli amministratori: il nesso causale, in Resp. civ. prev., Danno e responsabilità 8-9/2016 sono rilevanti sul piano risarcitorio se contestualmente non viene fornita la prova del pregiudizio economico subito dal patrimonio sociale a causa delle predette violazioni (8). Ugualmente significativa è l’ipotesi di violazione del divieto di agire in concorrenza con la società amministrata: il pregiudizio per il patrimonio della società non è in re ipsa nella situazione concorrenziale, ma è meramente potenziale, potendo anche non divenire mai attuale (9). Più in generale, è difficilmente contestabile che, nell’ambito della responsabilità civile, la sola dimostrazione dell’inadempimento dell’obbligazione, oppure (a seconda dell’inquadramento della fattispecie di responsabilità) della violazione del dovere del neminem laedere, non può determinare un obbligo risarcitorio, essendo necessario anche il riscontro probatorio del pregiudizio effettivo, cagionato nella sfera patrimoniale o non patrimoniale della parte che si assume danneggiata (10). (Segue) La funzione del risarcimento del danno patrimoniale Se si ragionasse diversamente in punto di necessaria dimostrazione del nesso causale tra condotta illecita ed evento di danno, si giungerebbe a conclusioni in contrasto con la funzione prevalentemente riparatoria riconosciuta al risarcimento e più in generale alla responsabilità civile (11). In particolare, mentre al danno non patrimoniale sono tradizionalmente attribuite anche altre finali2002, 602; Platania, La responsabilità degli amministratori tra presunzioni ed onere della prova, in Società, 2015, 324. (7) Cass. 28 aprile 1997, n. 3652, secondo la quale “In tema di responsabilità degli amministratori di società per azioni ex art. 2392 c.c., l’eventuale esistenza di una denunciata violazione di legge (nella specie, consistente nell’avere presentato all’assemblea una relazione non rispondente alla situazione patrimoniale della società, così evitando l’adozione dei provvedimenti richiesti dagli art. 2446 e 2447 c.c. in caso di più gravi perdite di capitale) non è di per sé sola sufficiente a determinare una responsabilità risarcitoria a carico degli amministratori nei confronti delle società, ove non si dimostri che, a causa di quella violazione, la società medesima ha subito un danno”. (8) Al riguardo, A. Patti, Il danno e la sua quantificazione nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, in Giur. comm., 1997, I, 85. (9) Trib. Milano 25 febbraio 1982, in Società, 1982, 784. (10) Di recente, Cass. 3 dicembre 2015, n. 24632, in Banca Dati pluris, in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno per erronea inserzione del nominativo della ditta ricorrente sull’elenco telefonico, in assenza della prova di uno sviamento di clientela per tale disguido, tanto più che il recapito telefonico della ditta risultava, chiaramente, in altra parte dello stesso elenco cartaceo e in quello “on line”. Nella giurisprudenza meno recente, Cass. 5 marzo 1973, n. 608. (11) Sulle funzioni attribuite alla responsabilità civile, le pa- 873 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società tà accanto a quella riparatoria (12), invero, al danno patrimoniale - che rappresenta l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria nelle azioni previste dall’art. 146 l.fall. - è assegnata una finalità eminentemente compensativa; per questa ragione, il risarcimento del danno patrimoniale è strettamente ancorato all’entità del pregiudizio concretamente patito dal soggetto danneggiato ed è incentrato così sul principio dell’equivalenza tra danno subito ed ammontare del danno risarcibile (13). In altre parole, se nell’ambito del danno non patrimoniale sono riscontrabili - in chiave punitivo sanzionatoria - ipotesi di cc.dd. danni aggravati dalla condotta (14), tale impostazione - che tra l’altro costituisce eccezione alla regola anche per il danno non patrimoniale - non è proponibile per il danno patrimoniale. Il risarcimento del danno patrimoniale, infatti, è volto a ripristinare per equivalente il deterioramento subito dal patrimonio del danneggiato, con la conseguenza che il risarcimento non può superare l’entità del pregiudizio patito (15). Solo in ipotesi tassative di legge sono stati espressamente previsti criteri risarcitori del danno patrimoniale disancorati dalla commisurazione del pregiudizio subito dal danneggiato, come ad esempio nella fattispecie dell’art. 125 del Codice della Proprietà industriale (come sostituito dal D.Lgs. 16 marzo 2006, n. 140) (16) e dell’art. 158, L. 22 aprile 1941, n. 633 (come sostituito dall’art. 5, D.Lgs. n. 140 del 2006) oppure del comma 2, dell’art. 187 undecies del T.U. della finanza (17). È evidente, però, che le predette ipotesi legislative - previste anche per evitare che le difficoltà probatorie in punto di danno subito determinino un indebito arricchimento del danneggiante (18) - rappresentano eccezioni rispetto al principio generale. Al di fuori di espresse previsioni di legge, quindi, non è consentito introdurre misure risarcitorie che si distacchino dal paradigma riparatorio (19). Per questo motivo, anche nella prospettiva di una liquidazione prettamente equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c., l’oggetto dell’obbligazione gine di Alpa, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile, Milano, 1999, 131; più di recente, Perlingieri, Le funzioni della responsabilità civile, in Rass. dir. civ., 2011, 115. Per una lettura della responsabilità civile in prospettiva anche di deterrenza, Busnelli - Patti, Danno e responsabilità civile, Torino, 2013, 219. (12) Sulle diverse funzioni attribuite al danno non patrimoniale, Salvi, La responsabilità civile, Milano, 2005, 64; Id., Il risarcimento integrale del danno non patrimoniale, una missione impossibile. Osservazione sui criteri per la liquidazione del danno non patrimoniale, in Europa e dir. Priv., 2014, 517; Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996, 354. Sul numero crescente di fattispecie legislativamente contemplate che travalicano la mera prospettiva riparatoria, Vincieri, I danni alla persona del discriminato, in La resp. civ., 2009, 840; Venchiarutti, Condotta discriminatoria nei confronti di persona disabile per mancanza sui marciapiedi delle piattaforme di accesso ai mezzi di trasporto, in Nuova giur. civ., 2012, II, 967; Morozzo della Rocca, Gli atti discriminatori nel diritto civile, alla luce degli artt. 43 e 44 del T.U. sull’immigrazione, in Dir. fam. e pers., 2002, 112. Al riguardo anche, S. Patti, Il risarcimento del danno e il concetto di prevenzione, in La responsabilità civile, 2009, 165. (13) Tra gli altri di recente, Maggiolo, Microviolazioni e risarcimento ultracompensativo, in Riv. dir. civ., 2015, 95. (14) Al riguardo, Monateri, I danni aggravati dalla condotta e le circostanze del caso di cui all’art. 2056 c.c., in questa Rivista, 2015, 740; l’impiego di tale criterio, pertanto, denota una risalente propensione del diritto vivente a valorizzare il profilo della condotta dell’autore dell’illecito, in una prospettiva indubbiamente sanzionatoria deterrente. Sull’incidenza del carattere doloso del fatto, ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale, Bianca, Diritto civile, La responsabilità, V, Milano, 2012, 207. Sulla funzione anche deterrente della riparazione del danno non patrimoniale, tra gli altri, Cendon, Responsabilità per dolo e prevenzione del danno, in Resp. civ. prev., 2009, 4; Scognamiglio, Danno morale e funzione deterrente della responsabilità civile, ivi, 2007, 2485; Busnelli, Deterrenza, responsabilità civile, fatto illecito, danni punitivi, in Eur. e dir. priv., 2009, 909. Per una ricostruzione delle funzioni attribuite al risarcimento del danno non patrimoniale, Astone, Danni non patrimoniali, nel Commentario Schlesinger, Milano, 2012, 242. (15) Lo evidenzia Franzoni, Il danno patrimoniale, Convegno La quantificazione del danno patrimoniale, in questa Rivista, 2010, supplemento al fasc. XI, 23, il quale sottolinea come nella valutazione del danno non patrimoniale, in caso di illecito doloso, non si tratta di punire di più il responsabile ma di riparare alle conseguenze prodotte dal fatto che sono più avvertite dalla vittima quanto maggiore è l’intensità della condotta del responsabile o il lucro conseguitone. (16) Sull’art. 125 c.p.i., tra gli altri Pardolesi, Riflessioni in tema di retroversione degli utili, in Riv. dir. priv., 2014, 217 - 236; Galli, Risarcimento del danno e retroversione degli utili: le diverse voci di danno, in Il Diritto industriale, 2012, 2, 109 - 120; Spolidoro, Il risarcimento del danno nel codice della proprietà industriale. Appunti sull’art. 125 c.p.i., in Rivista di diritto industriale, 2009, 3, 149 - 204; Martorana, Sulla retroversione degli utili, in Dir. Ind., 2013, 6, 568 - 571. (17) Al riguardo, Trib. Milano 21 dicembre 2006, in Giur. comm., 2007, 6, II, 1291; in dottrina sull’art. 187 undecies T.u.f., si segnala Granelli, In tema di “danni punitivi”, in Resp. civ. prev., 2014, 1760 - 1769; Mauceri, Abusi di mercato e responsabilità civile: danni all’integrità del mercato e danni non patrimoniali agli enti lucrativi lesi dal reato, in Nuova giur. civ.comm., 2010, 10, 1, 1001 - 1009; Toschi Vespasiani, Il danno all’integrità del mercato finanziario: vanno risarciti alla Consob i danni patrimoniali e non patrimoniali causati dal reato di aggiotaggio, in Resp. civ., 2007, 726. (18) Sul punto, Sirena, Il risarcimento dei c.d. danni punitivi e la restituzione dell’arricchimento senza causa, in Riv. dir. civ., 2006, 352. Un criterio simile era già stato adottato da Trib. Monza 26 marzo 1990, in Foro it., 1991, I, 2863, al fine di liquidare il danno conseguente all’appropriazione non autorizzata di una prestazione artistica (nella specie, pubblicazioni di immagini, di nudo); il danno è stato quantificato, in mancanza di prova certa, “con riguardo all’illecito guadagno percepito dalla rivista, consistente sia nell’aumento della tiratura determinato dalla pubblicazione illecita, sia nella mancata erogazione del compenso che sarebbe stato presumibilmente richiesto alla persona ritratta”. (19) Di recente, in argomento, Ponzanelli, Novità per i danni esemplari?, in Contr. e impr., 2015, 1203, il quale evidenzia che 874 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società risarcitoria del danno patrimoniale deve essere strettamente commisurata all’entità del pregiudizio verificatosi. La valutazione equitativa dell’ammontare del risarcimento, infatti, è solo un modo di determinazione e liquidazione giudiziale di ripercussioni patrimoniali sfavorevoli che sicuramente si sono verificate ma che è impossibile provare nel loro preciso ammontare. Per la liquidazione, pertanto, è necessaria la certezza sull’an ossia sull’esistenza del danno, in quanto il giudizio equitativo non è un mezzo di prova, come invece le presunzioni semplici o le nozioni di comune esperienza dell’art. 115 c.p.c., ma una tecnica che consente di raggiungere la decisione a dispetto della mancanza di una prova precisa sul quantum del danno (20). Ciò comporta che il danneggiato non è esonerato dall’onere probatorio, essendo necessario che egli fornisca la prova della concreta esistenza - e quindi della certezza - del pregiudizio patrimoniale. Al riguardo, il criterio per poter attribuire certezza all’esistenza del danno e poterlo successivamente misurare e stimare, anche in via equitativa, è quello della causalità: un danno è risarcibile quando è in rapporto di causalità con il suo fatto produttivo e soltanto a questa condizione esso è certo (21). Il requisito della certezza è assente, invece, quando si tratta di un pregiudizio soltanto meramente po- tenziale, come ad esempio nell’ipotesi già citate di irregolarità contabili, di operazioni in conflitto di interessi oppure di violazione del divieto di agire in concorrenza con la società. L’accertamento di tali irregolarità ed il riscontro di un danno soltanto potenziale consente l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 2409 c.c. (22), ma non è di per sé sufficiente per una condanna al risarcimento del danno (23). Il danno meramente potenziale è, infatti, di norma irrisarcibile salvo che non assuma le forme della perdita di chance (24). soltanto al legislatore spetta il compito di introdurre misure risarcitorie che si distaccano dal modulo riparatorio. (20) Lo ricorda, tra gli altri, Franzoni, Strage del 2 agosto 1980 e risarcimento allo Stato, in questa Rivista, 2015, 713; in argomento anche Rossetti, Dei fatti illeciti, II, in Commentario del codice civile, diretto da Gabrielli, Torino, 2011, 470; Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 2012, 187; Carbone, La quantificazione del danno, in Convegno La quantificazione del danno patrimoniale, in questa Rivista, 2010, supplemento al fasc. XI, 15. In giurisprudenza, sulla necessità che il danno sia certo per la liquidazione in via equitativa, tra le tante, Cass. 16 maggio 2013, n. 11968; Cass. 20 maggio 2011, n. 11254; Cass. 15 febbraio 2008, n. 3794; Cass. 8 novembre 2007, n. 23304; Cass. 15 marzo 2007, n. 5997. (21) Tra gli altri, Franzoni, Il danno al patrimonio, Milano, 1996, 210; Monateri, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 1998, 281. (22) Sull’adozione dei provvedimenti dell’art. 2409 c.c. in caso di omessa o irregolare tenuta della contabilità sociale, in specie quando reca grave turbamento alla attività sociale, si veda App. Bologna 19 marzo 1988 e Trib. Monza 17 maggio 2001; in caso di violazione del divieto di agire in concorrenza con la società, Trib. Napoli 9 ottobre 1986, in Banca dati Pluris. (23) Franzoni, Società per azioni, Dell’Amministrazione e del controllo, II, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2015, sub. art. 2407 c.c., 297; sul danno potenziale che consente l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 2409 c.c., Zanardo, Denuncia al tribunale per gravi irregolarità: il requisito del danno potenziale alla società, in Società, 2013, 914; Sangiovanni, Il controllo giudiziario nella società per azioni, in Giur. mer., 2010, 1893; Sega, Il controllo giudiziale nella s.r.l.: orientamenti giurisprudenziali, in Nuova giur. civ. comm., 2007, 139; Mainetti, sub art. 2409 c.c., in Il nuovo diritto societario, diretto da Cottino ed al., I, Bologna, 2004, 936; Speranzin, Denunzia al tribunale, stato di liquidazione della società e riforma del diritto societario, in Giur. comm., 2004, II, 547, nt. 21. In giurisprudenza, tra le altre, App. Salerno 8 novembre 2012, in Foro it., 2012, I, 3489; Trib. Napoli 22 giugno 2004, in Giur. comm., 2006, II, 949. (24) Lo evidenzia Travaglino, Il danno patrimoniale extracontrattuale, in questa Rivista, 2010, 11S, 48; Monateri, La responsabilità civile, cit., 281, distingue invece tra “danno meramente eventuale” o “mero pericolo di danno” che non sono risarcibili e danno da pericolo in cui, invece, il pregiudizio è certo ed attuale ed influisce negativamente sul bene minacciato, diminuendone il valore economico. (25) Sull’art. 1223 c.c., quale norma finalizzata a contenere l’estensione dell’obbligazione risarcitoria, sulla base di un indagine causale sul rapporto tra l’evento di danno e le conseguenze dannose, che presuppone quindi già risolta la questione della causalità materiale, di recente Cass. 17 settembre 2013, n. 21255, in Corr. giur., 2014, con nota di Bona, Tortious interference with buisness relationships, rimedio effettivo, “nuova” (ulteriormente affinata) causalità civile e danni punitivi, di Scognamiglio, Ancora sul caso Cir c. Fininvest: brevissime note sull’interpretazione del contratto di transazione e sulla delimitazione del suo oggetto, di Boccagna, Corruzione di un componente del collegio, mancata impugnazione della sentenza e risarcimento del danno: riflessioni in margine alla sentenza della Cassazione sul “Lodo Mondadori”; in Resp. civ. prev., 2014, 143; in Europa e dir. Priv., 2013, 1097, con nota di Di Majo; in Foro it., 2013, I, 3121, con note di Costantino - Palmieri - Pardolesi. Danno e responsabilità 8-9/2016 Le condotte oggetto di contestazione e le regole della causalità giuridica Nelle azioni esercitate dal curatore ai sensi dell’art. 146 l.fall., il danno - in assenza di norme speciali deve essere stimato secondo le regole generali sulla causalità giuridica, di cui agli artt. 1223 ss. c.c. La finalità della predetta disciplina è quella di delimitare le conseguenze dannose risarcibili, in modo da circoscrivere la responsabilità del danneggiante alle conseguenze immediate e dirette della sua condotta ed evitare che egli possa essere chiamato a rispondere di qualsiasi conseguenza remota, improbabile o indiretta che possa discendere dall’inadempimento (25). Alla luce di tali criteri generali, appare quindi indubbio che la quantificazione dei danni deve ne- 875 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società cessariamente muovere dalla condotta oggetto di contestazione. In altre parole, la vexata quaestio della quantificazione del danno risarcibile non può essere esaminata in termini “generici”, come se “gli illeciti eventualmente ascrivibili” ai gestori e controllori “idonei a generare l’obbligo di risarcire il danno”, si traducessero sempre “in un’unica e ben determinata tipologia di comportamenti” (26). A questo proposito, si è già evidenziato che non tutti gli inadempimenti sono idonei a deteriorare il patrimonio della società e così a disperdere quella ricchezza che, invece, avrebbe dovuto essere conservata ed aumentata (27). La questione, pertanto, deve essere impostata valutando in primo luogo quale specifico inadempimento è oggetto di contestazione, rispetto al quale incombe sull’attore un preciso onere di allegazione (28). Al contempo, l’istante deve provare il collegamento causale tra il predetto inadempimento e l’evento di danno lamentato. In particolare, in alcune ipotesi può essere più agevole dimostrare il rapporto di consequenzialità tra la condotta ed il pregiudizio, come ad esempio nell’ipotesi di condotte di natura distrattiva (29). In questo caso, appare evidente che il pregiudizio risarcibile è rappresentato sotto il profilo del danno emergente dall’ammontare dell’importo dissipato oppure dal valore del bene distratto (30); ugualmente, allorché oggetto dell’attività distrattiva sia stato un bene aziendale produttivo la cui distrazione abbia impedito in concreto l’esercizio della normale attività d’impresa, può profilarsi un danno da lucro cessante da mancata utilizzazione del bene, da stimarsi secondo i tradizionali criteri della regolarità statistica e della normalità, ferma restando quindi la ragionevole certezza in ordine all’esistenza del pregiudizio (31). In ipotesi, invece, di violazione di norme tributarie o previdenziali, è necessario dimostrare quanto meno l’insorgenza di passività per sanzioni, oneri ed interessi maturati, non trovando applicazione alcun criterio presuntivo circa il pregiudizio subito dal patrimonio della società a causa della riscontrata irregolarità (32). Allo stesso modo, in caso di violazioni nella redazione del bilancio che determinano sopravvalutazioni del patrimonio sociale, con conseguente sovratassazione per utili non conseguiti, il pregiudizio per il patrimonio sociale può essere rappresentato dal maggior onere fiscale (33) oppure dalla ri- (26) Lo evidenzia Cass., SS.UU., 6 maggio 2015, n. 9100, in relazione all’uso del criterio della differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare. Dubbi circa l’esistenza di un criterio univoco e risolutivo per stimare i danni risarcibili sono segnalati anche da A. Patti, La determinazione del danno risarcibile nell’azione di responsabilità per la perdita del capitale sociale: quale criterio?, in Fall., 2013, 176. (27) In questo senso, tra gli altri, A. Patti, Il danno e la sua quantificazione nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, in Giur. comm., 1997, I, 85. (28) Sotto questo profilo viene in rilievo l’allegazione della condotta antidoverosa, in funzione della corretta delimitazione del dibattito processuale, nel rispetto dei principi della domanda, della corrispondenza ad essa della pronuncia e dell’instaurazione di un pieno e leale contraddittorio tra le parti; così A. Patti, Azione di responsabilità e danno per prosecuzione non consentita dell’attività di impresa, in Fall., 2013, 173. L’onere di allegazione incombente all’attore nelle azioni di responsabilità promosse dalla curatela è stato valorizzato anche da Cass., SS.UU., 6 maggio 2015, n. 9100, cit., la quale ha anche rimarcato la distinzione tra allegazione e prova. Sulla distinzione tra allegazione e prova, tra gli altri, Cordopatri, Appunti in tema di allegazione, di prova e di presunzione, in Giust. civ., 2007, 679. Sull’inquadramento generale dell’allegazione, come atto e come onere della parte, Comoglio, Allegazione, in Dig. disc. priv., sez. civ., I, Torino, 1987, 272. (29) Su ipotesi di responsabilità per atti di natura distrattiva, di recente Cass. 11 aprile 2014, n. 8591; App. Potenza 23 gennaio 2015, in Banca dati Pluris; Trib. Bologna, Sez. spec., 29 dicembre 2014, in Banca dati Pluris; Trib. Milano 6 marzo 2013, in Banca dati Pluris; Trib. Roma 3 novembre 2011, in Banca dati Pluris. (30) Vitiello, Il danno risarcibile nelle azioni di responsabilità della curatela, in Giur. comm., 2013, 163. Al riguardo, Cass. 28 aprile 1997, n. 3652, la quale evidenzia che “ la conservazione del patrimonio sociale costituisce uno dei doveri principali facenti capo agli amministratori, e la distrazione a proprio favore di somme appartenenti alla società costituisce, con ogni evidenza, un comportamento contrario a tale dovere. Comportamento che - è quasi superfluo dirlo - si pone in immediato rapporto di causalità con il danno consistente, per la società, nella perdita della disponibilità dell’indicata somma”. In argomento, anche Trib. Milano 8 maggio 2006, in Giur. it., 2006, 11., 2087. (31) Sui criteri di stima del danno da lucro cessante, tra gli altri Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 2012, 134. (32) Si esclude, comunque, la risarcibilità di danni provocati dall’irrogazione di sanzioni amministrative determinate dal disordine contabile, nel caso in cui la società non si sia avvalsa di fatti sopravvenuti estintivi dell’obbligazione sanzionatoria Cass. 2 dicembre 2011, n. 25854, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 417, con nota di Piacentini, che ha confermato la sentenza di secondo grado che aveva accertato che la società aveva erroneamente pagato la sanzione amministrativa in misura ridotta quando in realtà l’obbligazione si era estinta. In questo caso, infatti, che il pregiudizio derivante dall’irrogazione della sanzione non è più conseguenza immediata e diretta del fatto dell’amministratore, in quanto il creditore avrebbe potuto evitare il pregiudizio con l’uso dell’ordinaria diligenza. (33) Cass. 6 marzo 1970, n. 558, in Foro it., 1970, I, 1728; in argomento, Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità tra mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, in Fall., 1989, il quale evidenzia che il danno non deriva dall’irregolare tenuta della contabilità o dall’illegittima redazione del bilancio, ma da altri fatti, rispetto ai quali le omissioni formali operano talvolta come concause e soprattut- 876 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società partizione fra i soci di utili fittizi e non realizzati (34). Significativa ad esempio è anche l’ipotesi di vicende riguardanti l’accantonamento di liquidità monetaria extrabilancio (cc.dd. fondi neri), talvolta impiegate per procurare vantaggi alla società attraverso, però, operazioni illecite, come ad esempio nell’ipotesi di acquisizione di commesse importanti, attraverso il pagamenti di tangenti o regalie. A questo riguardo, si può osservare che la costituzione di riserve extracontabili è generalmente idonea a procurare un pregiudizio, coincidente in primo luogo con il valore delle risorse distratte ed allocate al di fuori del patrimonio ufficiale della società; così ad esempio, in caso di mancata contabilizzazione o iscrizione in bilancio di beni o denaro della società che sono poi trasferiti ad altri soggetti, il danno è rappresentato dall’entità delle somme stornate dal patrimonio sociale ed attribuite ingiustificatamente ad altri soggetti. Allo stesso modo, se le riserve vengono costituite tramite la stipula di contratti per prestazioni fittizie oppure per prestazioni effettive ma con maggiorazione di prezzo, il pregiudizio immediato e diretto è rappresentato dalla perdita economica patita dal patrimonio sociale per effetto delle operazioni sprovviste di giustificazione ed in violazione dell’obbligo di agire nell’interesse della società (35). Una costituzione di riserve extracontabili, invece, non cagiona conseguenze immediate sul piano risarcitorio - ferme restando in ogni caso quelle eventuali derivanti dall’irregolarità contabile - nell’ipotesi in cui gli amministratori riescano a provare che non vi è stata una lesione concreta del patrimonio sociale, ad esempio perché le riserve seppur intestate fittiziamente a terzi - non sono state utilizzate e sono ancora nella disponibilità della società, oppure allorché le predette somme sono state utilizzate per il perseguimento dell’oggetto sociale e dell’interesse sociale (36). In questo caso, la prova riguarda così la destinazione attribuita dagli amministratori alle somme occultate, se pertinente o meno con l’oggetto sociale. Si esclude, tuttavia, che possa essere considerato in rapporto di strumentalità con l’oggetto sociale il compimento di un atto illecito, anche se effettuato allo scopo di procurare vantaggi alla società, come ad esempio nell’ipotesi di occultamento di riserve volto al pagamento di tangenti o regalie (37). Allo stesso modo, non possono essere tenuti in considerazione, ai fini della quantificazione del pregiudizio risarcibile, gli eventuali vantaggi ricevuti dalla società da operazioni illecite realizzate to come circostanze che incidono sulla valutazione della colpa nel comportamento tenuto dagli amministratori; secondo l’a. non potrà andare indenne da censura l’amministratore che proceda al compimento di nuove operazioni dopo la perdita del capitale sociale, se egli non abbia potuto rilevare tale perdita per via del disordine contabile in cui versava la società, a lui stesso imputabile. In giurisprudenza, anche App. Milano 9 ottobre 1984, in Società, 1985, 177, secondo la quale “Benché non possa dubitarsi che la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili costituisce fonte di responsabilità per gli amministratori di una società di capitali, la domanda di risarcimento del danno, conseguente alle predette omissioni, proposta contro gli amministratori dal curatore del fallimento della società, può essere accolta solo se l’attore prova la relazione esistente fra le predette inadempienze e il danno”. (34) Sul punto, ancora Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità tra mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, in Fall., 1989: “... le illegittime sopravvalutazioni del patrimonio sociale operate in bilancio possono essere fonte diretta di responsabilità degli amministratori verso i terzi (ad esempio per sottoscrizione di azioni o per erogazione di credito alla società cui altrimenti il terzo non si sarebbe risolto), ma che di regola non sono fonte di danno per la società, ma semmai il mezzo per occultare ulteriori e diversi inadempimenti agli obblighi legali e statutari, causa - questi sì - di danno (come nel caso in cui l’illegittima sopravvalutazione sia servita ad occultare la perdita del capitale sociale, consentendo la prosecuzione dell’attività della società, altrimenti impossibile). Nello stesso modo la sottovalutazione in bilancio di determinati cespiti o la tenuta di una contabilità falsa od irregolare può consentire gestioni extra contabili che di per sé stesse non sono fonte di danno per la società, perché non influiscono sulla consistenza patrimoniale, ma possono costituire il mezzo per il compimento di operazioni in conflitto d’interessi o al di fuori dell’oggetto sociale o ancora per veri e propri atti distrattivi”. In giurisprudenza, Trib. Milano 15 novembre 1973, in Giur. comm., 1974, II, 67. (35) In questo senso Trib. Milano 21 aprile 2005, in Giur. comm., 2007, 675, con nota di Nocella, Creazione e gestione di fondi extrabilancio e responsabilità degli amministratori: si anticipa la lesività della condotta. (36) Trib. Milano 21 aprile 2005, cit., secondo la quale pertanto la costituzione di una contabilità occulta farebbe presumere la sussistenza di un danno per il patrimonio sociale, fatta salva la prova contraria da parte degli amministratori. In questo senso anche Trib. Torino 27 febbraio 2015, cit.; in senso diverso, circa il fatto che la gestione extra contabile non è di per sé fonte di danno per la società, perché non influiscono sulla consistenza patrimoniale, ma possono costituire il mezzo per il compimento di operazioni in conflitto d’interessi o al di fuori dell’oggetto sociale o ancora per veri e propri atti distrattivi, Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità fra atti di mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, in Fall., 1989, 973; Bonelli, Violazioni in tema di bilancio e responsabilità degli amministratori, in Giur. comm., 1975, I, 321. In questo senso anche Campana, La responsabilità civile degli amministratori delle società di capitali, in Nuova giur. civ. comm., 2000, II, 253. In giurisprudenza, sulla responsabilità per costituzione di cc.dd. fondi neri, App. Genova 5 luglio 1986, in Giur. comm., 1988, II, 730. (37) Lo evidenzia Trib. Milano 21 aprile 2005, cit., secondo il quale vi è un’esigenza di affidamento dei terzi, i quali non potrebbero, in caso contrario, fare affidamento sulle statuizioni del legislatore nella valutazione degli atti degli amministratori. Nello stesso senso, Trib. Torino, 27 febbraio 2015, cit.; al riguardo, si segnalano le considerazioni svolte da Nocella, Creazione e gestione di fondi extrabilancio e responsabilità degli amministratori: si anticipa la lesività della condotta, cit. Danno e responsabilità 8-9/2016 877 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società Sono assai frequenti le ipotesi - come nelle vicende esaminate dal Tribunale di Pistoia e dal Tribunale di Milano - in cui la condotta oggetto di contestazione è rappresentata dall’omessa tempestiva assunzione delle iniziative disposte dalla legge in caso di riduzione del capitale sociale, al di sotto del minimo legale previsto dall’art. 2484, comma 1, n. 4, c.c., ed in caso di insolvenza. Ai fini del risarcimento, quindi, si deve stimare l’aggravamento del dissesto e più in generale il pregiudizio patito dal patrimonio della società, a causa del ritardo nell’ottemperare alle prescrizioni dell’art. 2485 c.c.; a questo proposito, va tenuto in considerazione che - a differenza del regime previgente, in cui l’art. 2449 c.c. sanciva il divieto di intraprendere nuove operazioni - il comma 1 dell’art. 2486 c.c. consente, al verificarsi di una causa di scioglimento, il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale (41). Dopo il verificarsi della causa di scioglimento, pertanto, la gestione deve essere finalizzata alla conservazione del valore e dell’integrità del patrimonio, sia a tutela dei soci che non hanno più interesse all’incremento del patrimonio, ma alla sua liquidazione, sia a tutela di coloro che sono già creditori, che hanno interesse a conservare integra la garanzia generica costituita dal patrimonio della società (42). La responsabilità è così collegata al discostamento da uno standard di gestione conservativa, che, se meglio si adatta alla variabilità delle situazioni conseguenti allo scioglimento della società, impegna l’interprete in un più approfondito esame dei singoli casi (43). Anche per questa ragione, rappresentata dalle peculiarità delle situazioni conseguenti allo scioglimento della società, sono stati prospettati diversi criteri al fine di determinare e liquidare il pregiudizio cagionato dall’illegittima prosecuzione dell’attività: dal criterio del deficit fallimentare (44), a quello puramente equitativo (45), al criterio del- (38) Lo evidenzia Nocella, Creazione e gestione di fondi extrabilancio e responsabilità degli amministratori: si anticipa la lesività della condotta, cit. (39) Sui rapporti tra violazione di norma penale ed invalidità del contratto, Grasso, Illiceità penale e invalidità del contratto, Milano, 2002; Rabbiti, Contratto illecito e norma penale, contributo allo studio della nullità, Milano, 2000. (40) Al riguardo, Trib. Torino 27 febbraio 2015, cit. (41) Sulla responsabilità al verificarsi dello scioglimento della società, Fabiani, L’azione di responsabilità per le operazioni successive allo scioglimento nel passaggio tra vecchio e nuovo diritto societario, in Fall., 2004, 297; E. Gabrielli, La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita, cit., 11; Ambrosini, Le azioni di responsabilità, in Ambrosini - Cavalli - Jorio, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale, (n. 5), Padova, 2009, 759; Rordorf, La responsabilità degli amministratori di s.p.a. per operazioni successive alla perdita del capitale, in Società, 2009, 282; Zamperetti, La prova del danno da gestione non conservativa nella società disciolta per perdita del capitale, in Fall., 2009, 571; Verna, La determinazione del danno causato dagli amministratori che continuano l’impresa dopo la perdita del capitale, in Società, 2011, 43. Per una sostanziale equivalenza tra il precedente divieto di nuove operazioni, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, e l’attuale obbligo di gestire la società per finalità conservativa del patrimonio sociale, Franzoni, Società per azioni, Dell’amministrazione e del controllo, in Commentario del codice civile, Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2008, 431. (42) Proto, L’azione dei creditori sociali nella società a responsabilità limitata e la determinazione del danno, in Fall., 2010, 737, il quale evidenzia altresì che la società ha interesse al rispetto dell’obbligo della gestione conservativa, anche nel caso in cui il patrimonio sia già integralmente perduto; in questa particolare ipotesi, i creditori anteriori e i soci avrebbero perso ogni interesse alla gestione conservativa, posto che non avrebbero più nulla da preservare, ma non si può negare che la società mantenga un interesse a non vedere incrementato l’ammontare dei suoi debiti ai quali essa dovrebbe comunque far fronte in caso di ricapitalizzazione e che in ogni caso possono pregiudicarla nella possibilità di accedere ad un concordato fallimentare. (43) Lo evidenzia A. Patti, La determinazione del danno risarcibile nell’azione di responsabilità per la perdita del capitale sociale: quale criterio?, in Fall., 2013, 175; Rordorf, La responsabilità degli amministratori di s.p.a. per operazioni successive alla perdita del capitale, cit., 282. Al riguardo, anche Zamperetti, La prova del danno da gestione non conservativa nella società disciolta per perdita del capitale, in Fall., 2009, 571, il quale si sofferma ampiamente sul passaggio - operato dalla riforma dal divieto di “nuove operazioni” (contenuto nell’art. 2449 c.c.) al più ampio criterio di gestione conservativa dell’impresa. (44) Al riguardo, Cass. 17 settembre 1997, n. 9252, in Foro it., 2000, I, 243, con nota di Delle Vergini. (45) Trib. Genova 6 aprile 1993, in Fall., 1993, 1263, con nota di Naldini; Trib. Napoli 4 aprile 2000, in Società, 2000, 1243, con nota di Fabrizio, secondo la quale “nell’ipotesi in cui l’azione di responsabilità ex art. 146 l.fall. viene proposta in danno per mezzo della contabilità separata. Appare evidente, infatti, non solo la diversa fonte del danno rispetto a quella dei vantaggi, ma anche la circostanza che le utilità, ai fini della c.d. compensatio lucri cum damno, debbono essere effettivamente entrate nel patrimonio della società, in modo che quest’ultima ne possa disporre legittimamente (38). È indubbio, invece, che la stipula di contratti a seguito di corrutela determina l’invalidità degli stessi, con conseguente ripetizione delle prestazioni (39); al contempo, la società potrebbe essere esposta ad ulteriori conseguenze assai pregiudizievoli, come ad esempio, le azioni risarcitorie da parte delle imprese concorrenti danneggiate, la confisca del profitto del reato, la responsabilità ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (40). La prosecuzione non consentita dell’attività d’impresa 878 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società l’aggravamento del passivo, inteso come aumento della massa debitoria (46), a quello incentrato su una minuziosa ricostruzione delle singole operazioni e sui singoli pregiudizi cagionati da ogni singola violazione (47). In particolare, il criterio del c.d. deficit fallimentare - utilizzato soprattutto nell’ipotesi di mancanza o di irregolarità nella tenuta della contabilità sociale, ostativa ad una ricostruzione delle vicende della gestione della società (48) - è stato al centro di un interessante dibattito, culminato con l’arresto delle Sezioni Unite n. 9100 del maggio 2015 (49). Queste ultime, come già ricordato, hanno censurato l’impiego del criterio liquidativo incentrato sulla differenza tra il passivo e l’attivo, come accertati in sede fallimentare, in quanto non rispondente all’esigenza di una rigorosa verifica della sussistenza di un rapporto di conseguenzialità causale tra la condotta illecita ed il danno. Tale metodo di quantificazione del danno, infatti, può risultare approssimativo ed erroneo sia per difetto, sia per eccesso. Può accadere, ad esempio, che alcuni creditori possano aver rinunziato ad insinuarsi nel fallimento, con la conseguenza che il deficit fallimentare risulta inferiore rispetto alla perdita derivante dalla condotta illecita; in tal modo, il rapporto tra attivo e passivo fallimentare potrebbe addirittura risolversi a favore degli amministratori e dei sindaci che, a causa della loro cattiva gestione, siano stati responsabili del dissesto (50). Al contempo, una liquidazione basata sul criterio del deficit fallimentare risulta sovente errata per eccesso, con conseguente allocazione ai convenuti di un danno che non è conseguenza immediata e diretta della loro condotta. Questo, ad esempio, accade quando la società è fallita anche a causa dell’andamento sfavorevole del mercato, mentre ai convenuti sono imputati fatti inidonei di per sé stessi a determinare il dissesto (51). Ugualmente, il criterio può risultare erroneo per eccesso, poiché attivo e passivo vengono determinati in modo ben differente da quanto avviene per un’impresa in attività; così, ad esempio, l’attivo sconta la svalutazione dei cespiti aziendali in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa (come l’avviamento od i marchi) (52), mentre il passivo potrebbe aumentare per effetto delle sanzioni connesse ai debiti d’im- degli amministratori essenzialmente in ragione della violazione del divieto di cui all’art. 2449 c.c. di compiere nuove operazioni dopo che si è verificato un fatto che ha determinato lo scioglimento della società, è inaccettabile la soluzione di identificare automaticamente il danno nella differenza fra il passivo e l’attivo del fallimento. Pertanto, qualora risulta difficile identificare e/o quantificare il pregiudizio sulla base della comparazione dei netti patrimoniali individuati nei diversi momenti dell’attività sociale vietata con detrazione del più lontano dal più vicino nel tempo, è preferibile far riferimento ad una valutazione equitativa”. (46) Trib. Torino 10 febbraio 1995, in Fall., 1995, 1150. Al riguardo, Proto, L’azione dei creditori sociali nella società a responsabilità limitata e la determinazione del danno, cit., 738, una volta provato che nonostante il sopraggiungere una causa di scioglimento la gestione non è stata finalizzata alla conservazione del patrimonio sociale, che al contrario è stato esposto al rischio tipico d’impresa, l’amministratore dovrebbe essere ritenuto responsabile per tutta la perdita verificatasi nel corso della gestione non conservativa, salvo la possibilità di dimostrare che la gestione “conservativa” avrebbe provocato a sua volta delle perdite che dovranno essere detratte dal complessivo ammontare del danno risarcibile. (47) In particolare, alla stregua di quest’ultima impostazione, si tratta di individuare quali operazioni, quali contratti, quali attività gestorie hanno determinato un maggior indebitamento per la società, attività che invece non sarebbero state svolte ove il fallimento fosse stato dichiarato tempestivamente, con conseguente consolidamento del patrimonio sociale e della relativa esposizione debitoria; sul punto, Trib. Venezia 19 maggio 2015, in http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/cri.php?id_cont=14012.php; Trib. Pistoia 19 gennaio 2016, Pres. Amato, rel. Garofalo, inedita; Trib. Prato 14 settembre 2012, in http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7838.pdf; Trib. Torre Annunziata 14 dicembre 2011, in Dir. fall., 2012, 372, con nota di Pannella; Trib. Padova 24 giugno 2009, in Fall., 2010, 729; Trib. Milano 10 maggio 2001, in Giur. it., 2001, 1898, con nota di Spiotta; significativa la motivazione di Trib. Lecce 3 no- vembre 2009, in Dir. fall., 2010, II, 430, con nota di Restuccia. (48) Si è, così, introdotto un criterio presuntivo in virtù del quale l’omessa o irregolare tenuta delle scritture contabili, tale da impedire in via assoluta la ricostruzione delle vicende societarie, vale a fondare ex se la responsabilità ed il conseguente risarcimento dell’intero deficit fallimentare. In questo senso, Cass. 8 luglio 2009, n. 16050, in Società, 2010, 407, con nota di Cassani; Cass. 23 luglio 2007, n. 16211, in Società, 2008, 1364; Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538; Cass. 4 aprile 1998, n. 3483; Cass. 17 settembre 1997, n. 9252. Al riguardo, anche Trib. Milano 27 aprile 2009, in Giur. it., 2009, 2466; Trib. Milano 14 novembre 2006, in Società, 2007, 864, con nota di Leone; Trib. Milano 30 ottobre 2003, in Fall., 2005, 45, con nota di Rondinone. (49) In particolare, Cass. 3 giugno 2014, n. 12366, la quale ha rimesso al Primo Presidente della Corte di cassazione per valutare l’opportunità dell’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, in considerazione della divergenza tra le pronuncia sulla questione dell’utilizzabilità, ai fini dell’accertamento e della liquidazione del danno nelle azioni di responsabilità del dato costituito dalla differenza tra attivo e passivo fallimentare. (50) Al riguardo, Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità tra mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, in Fall., 1989, 980; Badini Confalonieri, Determinazioni del danno risarcibile nell’azione di responsabilità: note a margine di due interventi giurisprudenziali, in Fall., 1999, 1079; A. Patti, Il danno e la sua quantificazione nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, in Giur. comm., 1997, I, 95. Di recente anche Franzoni, Società per azioni, Dell’amministrazione e del controllo, in De Nova (a cura di), Commentario del Codice civile Scialoja-Branca-Galgano, Bologna-Roma, 2015, 298. (51) Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità tra mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, in Fall., 1989, 980. (52) Al riguardo, Cass. 23 giugno 2008, n. 17033, in Fall., 2009, 565. Danno e responsabilità 8-9/2016 879 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società posta e previdenziali che la società in esercizio potrebbe sovente evitare (53). In applicazione del criterio del deficit fallimentare, quindi, anche pregiudizi non causalmente ricollegabili alla condotta oggetto di contestazione sarebbero imputati ai gestori ed ai controllori. Il criterio della differenza dei netti patrimoniali Davanti alla difficoltà di separare la singola operazione o le singole operazioni gestionali produttive di danno (54) - in considerazione del sistema dinamico e complesso di operazioni della realtà d’impresa (55) - ha trovato particolare applicazione, al fine di determinare il pregiudizio cagionato dall’illegittima prosecuzione dell’attività d’impresa, il criterio della c.d. differenza dei netti patrimoniali (56). L’applicazione del predetto criterio presuppone, in prima battuta, che si determini il momento a partire dal quale l’attività d’impresa è proseguita indebitamente, individuato nel momento in cui l’amministratore o il sindaco convenuto ha acquisito consapevolezza dello stato di dissesto o di insolvenza (57). La seconda operazione consiste nel determinare il momento della dichiarazione di fallimento o, se c’è stata, della messa in liquidazione, antecedente alla dichiarazione di fallimento, oppure il (53) E. Gabrielli, La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita, cit., 21. (54) Zamperetti, La prova del danno da gestione non conservativa nella società disciolta per perdita del capitale, cit., 573; Proto, L’azione dei creditori sociali nella società a responsabilità limitata e la determinazione del danno, cit., 738. (55) Sulle difficoltà di operazione di “parcellizzazione” delle operazioni, tra gli altri, Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità tra mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, cit., 980; Spiotta, L’atteso chiarimento delle Sezioni Unite sull’utilizzabilità del criterio del deficit., cit., 1413; Verna, La determinazione del danno causato dagli amministratori che continuano l’impresa dopo la perdita del capitale, cit., 42, il quale evidenzia l’impossibilità di una ricerca dei nocumenti causati da singole operazioni, stante l’interdipendenza generalmente esistente tra tutte le operazioni aziendali e quindi la pressoché impossibilità di una loro separata misurazione. (56) Sull’impiego di tale criterio, Cass. 8 febbraio 2005, n. 2538; Trib. Bologna 22 ottobre 2015, in Banca dati Pluris; Trib. Prato 30 giugno 2015, in Banca dati Pluris; Trib. Lucca 29 aprile 2015, n. 814, in Banca dati Dejure; Trib. Perugia 25 febbraio 2015, in Banca dati Pluris; Trib. Milano 22 gennaio 2015, in Fall., 2015, 615; Trib. Bologna 3 novembre 2014, in Banca dati Pluris; Trib. Vicenza 20 ottobre 2014, in Banca dati Pluris; Trib. Taranto 5 febbraio 2014, in Banca dati Pluris; Trib. Lucca 9 novembre 2012, in Banca dati Dejure; Trib. Lecce 11 novembre 2011, in Banca dati Dejure; Trib. Milano 20 aprile 2009, in Giustizia a Milano, 2009, 29; Trib. Trani 14 aprile 2005, in Banca dati Dejure; Trib. Genova 24 novembre 1997, in Fall., 1998, 843, con nota di Massaro; Trib. Bologna 30 marzo 2004, in http://www.giuraemilia.it/wfcBancaDati/wfProvvedimentoSele- 880 momento in cui il gestore od il controllore è stato sostituito. Rispetto a tali momenti viene così calcolata la differenza tra il valore del patrimonio netto alla data iniziale (opportunamente rettificato in considerazione dello svilimento che il patrimonio avrebbe comunque subito), in cui l’attività di gestione caratteristica avrebbe dovuto cessare, ed il valore del patrimonio netto al momento finale in cui, per il fallimento (o per l’anteriore messa in stato di liquidazione), la gestione caratteristica è effettivamente cessata oppure il convenuto viene sostituito. Dalla comparazione tra l’esito di una liquidazione anticipata e quella che si verifica a seguito del ritardato procedimento liquidatorio (volontario o concorsuale), emerge, quindi, il pregiudizio risarcibile, in quanto i saldi di periodo misurano proprio l’evoluzione negativa del patrimonio netto della società nel periodo - preso in considerazione - di illegittima prosecuzione dell’attività (58). (Segue) Le criticità nell’impiego del criterio dei netti patrimoniali di periodo Il criterio dei netti patrimoniali di periodo - rispetto al criterio del c.d. deficit fallimentare - segue un procedimento più conforme ai principi della causalità giuridica - volti a delimitare il danno alle sole conseguenze immediate e dirette dell’inadempizionato.aspx?ID=s516_98BO&; Trib. Milano 7 febbraio 2003, in Società, 2003, 1385, con nota di Redeghieri Baroni; Trib. Milano 8 ottobre 2001, in Giur. it., 2002, 795. Tale criterio è stato prospettato da A. Patti, Il danno e la sua quantificazione nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, in Giur. comm., 1997, I, 96; Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità tra mala gestio e danno. Lo stato della giurisprudenza, in Fall., 1989, 973. Più di recente, E. Gabrielli, La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita, cit., 25; Galletti, Brevi note sull’uso dei criteri dei netti patrimoniali di periodo nelle azioni di responsabilità, in www.ilcaso.it. (57) Al riguardo, Vitiello, Il danno risarcibile nelle azioni di responsabilità della curatela, in Giur. comm., 2013, 163, il quale evidenzia come tale momento possa coincidere con la diminuzione del capitale sociale al di sotto dei limiti di legge (art. 2447 c.c.) o, in alternativa, con il determinarsi dello stato di insolvenza, che impone all’organo gestorio di presentare il ricorso diretto ad ottenere la dichiarazione del proprio fallimento. I due momenti possono non coincidere, ben potendo l’uno precedere l’altro. In argomento, anche A. Patti, Azione di responsabilità e danno per prosecuzione non consentita dell’attività di impresa, cit., 177; Ferrari, Responsabilità degli amministratori per prosecuzione dell’attività sociale, in Società, 2012, 274; Franzoni, Società per azioni, Dell’amministrazione e del controllo, in De Nova (a cura di), Commentario del Codice civile Scialoja-Branca-Galgano, Bologna-Roma, 2015, 303; Verna, La determinazione del danno causato dagli amministratori che continuano l’impresa dopo la perdita del capitale sociale, in Società, 2011, 41. (58) Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, in Giur. comm., 2011, 149. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società mento - e così è più rispondente alla finalità compensativa propria della teoria differenziale del danno patrimoniale (59). Per questa ragione, la metodica è stata impiegata talvolta con “motivata convinzione” (60), mentre in altri casi è stata utilizzata - come nella vicenda sottesa al giudizio del Trib. di Milano sopra riportato - come criterio residuale, applicabile ex art. 1226 c.c., nell’impossibilità (ad esempio per l’ampiezza del decorso temporale tra il momento di integrale erosione del capitale sociale e la data di dichiarazione di fallimento) di ricostruire gli effetti dannosi delle singole condotte contestate, della cui specifica allegazione e della conseguente prova del relativo danno è onerato il curatore (61). È evidente, tuttavia, che il criterio - comunque presuntivo - presenta criticità in relazione alla non automatica riferibilità dell’intera perdita incrementale al compimento di nuove operazioni e così pure alla prosecuzione dell’attività. Non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento, infatti, è sempre riferibile alla prosecuzione dell’attività medesima, potendo in parte prodursi anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento (62). Allo stesso modo, una maggior perdita di gestione può essere frutto dell’esito del tutto incolpevole della condotta degli amministratori, i quali anche in una situazione di liquidazione ed, anzi, proprio al fine di liquidare il patrimonio conservandone il valore, possono essere costretti a mantenere costi fissi, e talvolta ad affrontarne di nuovi per evitare pregiudizi maggiori (63). In considerazione di tali rilievi, l’impiego del predetto criterio è stato, in alcuni precedenti, ritenuto inadeguato, salva la dimostrazione che l’aggravamento del dissesto non si sarebbe verificato qualora gli amministratori avessero operato correttamente (64). In altre parole, alcune decisioni sminuiscono il valore del ragionamento presuntivo basato sul criterio della perdita di periodo, richiedendo - ai fini della quantificazione del danno - la prova che l’incremento delle perdite, successivo al verificarsi della causa di scioglimento, sia stato interamente conseguenza delle nuove operazioni e che tale incremento sarebbe stato assente (o comunque minore), a seguito di una tempestiva messa in liquidazione della società o sottoposizione alla procedura fallimentare (65). Al contempo, è del tutto significativa la motivazione della sentenza del Tribunale di Pistoia del gennaio 2016 sopra riportata, la quale - nel respingere la domanda di risarcimento - evidenzia come l’attore abbia “lamentato la prosecuzione dell’attività d’impresa, comportamento di per sé non vietato, senza precisare quali sarebbero stati gli atti di mala gestio e cioè le condotte poste in essere dagli amministratori in (59) Lo sottolinea Franzoni, Società per azioni, III, Dell’amministrazione e del controllo, cit., 303. (60) Lo rileva A. Patti, Azione di responsabilità e danno per prosecuzione non consentita dell’attività di impresa, cit., 177, in relazione al precedente di Trib. Genova 24 novembre 1997, in Fall., 1998, 843, il quale fa riferimento ad un criterio basato sulla comparazione dei netti patrimoniali (ovvero dei valori risultanti dal computo algebrico delle sottovoci tutte precedute da numero romano di cui all’art. 2424, “Passivo”, voce “Patrimonio netto”) individuati nei diversi momenti dell’attività sociale vietata, con detrazione del più lontano dal più vicino nel tempo. Al riguardo anche Trib. Torino 10 febbraio 1995, in Fall., 1995, 1151. (61) Al riguardo, Trib. Milano 18 gennaio 2011, in Fall., 2011, 589; evidenzia che il metodo dei netti patrimoniali è utilizzabile solo se non è possibile “ricostruire gli effetti pregiudizievoli conseguenti a ciascuna delle “condotte di mala gestio accertate”, Trib. Prato 14 settembre 2012, cit.; applica il criterio dei cc.dd. netti differenziali, evidenziando come il “tempo trascorso tra il momento di integrale erosione del capitale sociale e la data della dichiarazione di fallimento pari a circa due anni, l’assenza di una contabilità di magazzino, l’anomalo incremento delle rimanenze negli anni 2006 e 2007 rilevato dal ctu, pur in presenza di un importante calo di fatturato, costituiscono fattori ostativi ad una minuziosa ricostruzione ex post delle singole operazioni vietate”, Trib. Prato 30 giugno 2015, cit. (62) Sul punto, Cass. 23 giugno 2008, n. 17033, in Fall. 2009, 565, con nota di Zamperetti, La prova del danno da gestione non conservativa nella società disciolta per perdita del capitale: “ne deriva che il danno va dimostrato in concreto come conseguenza immediata e diretta dei fatti di mala gestio e non può essere determinato in via presuntiva con riferimento alla perdita di periodo, salvo che si possa dimostrare che quella perdita non si sarebbe verificata ove gli amministratori avessero correttamente operato”. (63) Lo evidenzia Trib. Milano 1° aprile 2011, n. 4480, in Società, 2012, 268, il quale pone ad esempio il caso dell’acquisto della materia prima necessaria alla conclusione di un appalto, la cui interruzione comporterebbe gravose penali oppure dei canoni di locazione dell’immobile che funge da sede oppure da magazzino. (64) Cass. 23 giugno 2008, n. 17033, cit., la quale sottolinea che il danno deve essere dimostrato in concreto come conseguenza immediata e diretta dei fatti di mala gestio, non potendo essere determinato in via presuntiva. (65) Trib. Milano 1° aprile 2011, n. 4480, in Società, 2012, 268, secondo la quale “ ... la curatela ... avrebbe dovuto anzitutto verificare (per poi allegarlo) se dopo la perdita del capitale non sufficientemente ripianata, erano state intraprese iniziative imprenditoriali al di fuori di una logica meramente conservativa, individuare per quanto possibile siffatte iniziative e indicare quali conseguenze negative sul piano del depauperamento del patrimonio sociale ne fossero derivate ... Oppure avrebbe dovuto dedurre e spiegare le ragioni che, impedendo di cogliere nell’ambito di un’attività dinamica e complessa singole operazioni dannose e le loro specifiche conseguenze, giustificavano nella fattispecie il ricorso ad un criterio presuntivo di individuazione e prova di tale attività (quello appunto dell’aggravamento del risultato negativo di esercizio al netto di costi fissi o di falcidie frutto del mutamento dei criteri contabili) nonché di individuazione e liquidazione del danno (quello della c.d. perdita differenziale)”. Danno e responsabilità 8-9/2016 881 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Società È innegabile che le predette censure abbiano il pregio di evidenziare che la metodica incentrata sui cc.dd. “netti patrimoniali di periodo” - alla stregua di ogni criterio di semplificazione dell’accertamento del danno risarcibile, basato su una valutazione equitativa da parte del giudice ex art. 1226 c.c. (66) - non possa essere adottata in modo automatico. Il criterio, invece, deve costituire la premessa per la quantificazione del danno, che deve essere stimato tenendo in considerazione tutte le peculiarità che si accompagnano all’attività d’impresa. Per questa ragione, alla metodica vengono spesso apportati correttivi, al fine di consentire di misurare in modo più attendibile l’incremento del deficit patrimoniale imputabile all’illecita continuazione dell’esercizio dell’impresa ed all’impiego non conservativo del patrimonio sociale (67). Di recente, è stata proposta anche l’applicazione del principio contabile OIC 5, Bilanci di liquidazione, il quale sulla base delle più recenti acquisizioni dell’economia aziendale - permette di valutare il patrimonio netto alla data iniziale ed a quella finale dello stato di liquidazione con criteri omogenei di liquidazione (68). Le predette rettifiche alla procedura basata sui netti di periodo rendono, pertanto, più adeguato il criterio rispetto alle circostanze rilevanti nel caso di specie; al contempo, esse rispondono ad una regola di portata generale nella stima e nella liquidazione del danno che deve essere applicata ogni qualvolta, successivamente all’evento dannoso, accadano nuovi eventi capaci di modificare l’entità del pregiudizio (69). Non va dimenticato, tuttavia, che il criterio di accertamento del danno rimane comunque presuntivo e, come tale, alla stessa stregua di ogni presunzione semplice, consente la prova contraria (70). Al contempo, l’aspetto maggiormente di rilievo è che la metodica rappresenta comunque un criterio di semplificazione basato su una valutazione equitativa da parte del giudice ex art. 1226 c.c. e come tale applicabile “se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare”. In altre parole, la vexata quaestio circa la quantificazione dei danni nelle azioni di responsabilità promosse dal curatore deve essere risolta, in primo luogo, alla luce della disciplina generale degli artt. 1223 e ss., che presuppone - al di fuori di qualsiasi automatismo di calcolo - una precisa verifica del rapporto di conseguenzialità immediata e diretta tra il comportamento oggetto di contestazione ed il pregiudizio lamentato. È pertanto onere di parte attrice allegare gli atti di mala gestio degli amministratori nonché allegare e provare il danno derivante da tali condotte. La metodica dei cc.dd. netti di periodo - alla stessa stregua di ogni altro criterio di quantificazione presuntiva del danno - può, invece, trovare applicazione soltanto attraverso lo schermo normativo dell’art. 1226 c.c.” (71) ossia sulla base di una liquidazione equitativa. Alla liquidazione equitativa si può fare ricorso - come anche di recente sottolineato dai giudici di legittimità - “a condizione che la sussistenza di un danno risarcibile nell’an debeatur sia stata dimostrata ovvero sia incontestata o infine debba ritenersi in re ipsa in quanto discendente in via diretta ed immediata dalla stessa situazione illegittima rappresentata in causa, nel solo caso di obiettiva impossi- (66) Di recente sulla liquidazione in via equitativa ex art. 1226 c.c., Cass. 7 marzo 2016, n. 4377, la quale in modo incisivo evidenzia che “la liquidazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c. non può sbiadirsi in un responso oracolare, né svilirsi al livello di un frettoloso calcolo ragionieristico del tutto sganciato dalle specificità del caso concreto”. (67) Così ad esempio, vengono esclusi dal saldo differenziale i costi che sarebbero stati ugualmente sostenuti oppure gli effetti di operazioni non imputabili ai convenuti, come ad esempio la svalutazione di partecipazioni conseguente all’approvazione dei bilanci delle controllate e\o di crediti (al riguardo, Trib. Milano 22 gennaio 2015, cit.; Trib. Milano 1° aprile 2011, n. 4480, cit., 268). Più in generale sulle rettifiche, Franzoni, Società per azioni, III, Dell’amministrazione e del controllo, cit., 305; Galletti, Brevi note sull’uso dei criteri dei netti patrimoniali di periodo nelle azioni di responsabilità, in www.ilcaso.it., 17. (68) Sul principio contabile OIC 5 Bilanci di liquidazione, utilizzato per misurare l’incremento del deficit imputabile agli amministratori che hanno colpevolmente ritardato la liquidazione stessa, Verna, La determinazione del danno causato dagli amministratori che continuano l’impresa dopo la perdita del capitale sociale, in Società, 2011, 37; sull’impiego di tale principio anche A. Patti, Azione di responsabilità e danno per prosecuzione non consentita dell’attività di impresa, cit., 178. (69) Franzoni, Società per azioni, III, Dell’amministrazione e del controllo, cit., 305. (70) Franzoni, Società per azioni, III, Dell’amministrazione e del controllo, cit., 304. (71) Lo sottolinea E. Gabrielli, La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità verso amministratori e sindaci della società fallita, cit., 28. violazione del divieto di cui all’art. 2486 c.c. perché consistenti, ad esempio, in assunzione di nuovi impegni od obbligazioni”. Viene così sottolineata la necessità di un “rigoroso accertamento” degli atti adottati dagli amministratori in violazione del dovere di gestione conservativa nonché delle “conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate”. (Segue) La liquidazione in via equitativa 882 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Società bilità o particolare difficoltà di fornire la prova del quantum debeatur” (72). È quindi evidente che in caso di assenza dei presupposti appena richiamati, l’applicazione della metodica della c.d. differenza dei netti patrimoniali rappresenterebbe non già un mezzo di liquidazione del danno in funzione equitativa, ma uno strumento che verrebbe a determinare, di fatto, una semplificazione eccessiva degli oneri probatori facenti capo alla curatela fallimentare (73), con conseguente criticità rispetto alla natura meramente sussidiaria del rimedio equitativo ai fini risarcitori. Non va dimenticato, infine, che questa appare la soluzione individuata dalle Sezioni Unite del maggio 2015 (74), volta a contemperare le opposte esigenze, rappresentate da una parte dalla necessità di impedire indebite estensioni della responsabilità degli amministratori, dall’altro evitare che la difficoltà di quantificare il danno, a causa della mancanza delle scritture contabili, si risolva in vantaggio per chi è responsabile della sottrazione, distruzione od omessa redazione delle stesse (75). I giudici di legittimità, infatti, riconoscono che il c.d. deficit patrimoniale possa essere impiegato, anche parzialmente, nell’ambito di una liquidazione equitativa, solo se - non essendo stato possibile accertare per circostanze oggettive, ovviamente non imputabili all’inerzia della parte istante, gli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducibili alla condotta del convenuto - l’impiego di tale criterio presuntivo appaia logicamente sostenibile, in relazione alle circostanze del caso concreto (76). (72) Cass. 31 marzo 2016, n. 6218, la quale evidenzia che “grava, pertanto, sulla parte interessata dimostrare, secondo la regola generale posta dall’art. 2697 c.c., ogni elemento di fatto, di cui possa ragionevolmente disporre nonostante la riconosciuta difficoltà, al fine di consentire che l’apprezzamento equitativo esplichi la sua peculiare funzione di colmare soltanto le lacune riscontrate insuperabili nell’iter della precisa determinazione della misura del danno stesso”. (73) Lo pone in evidenza, Trib. Prato 14 settembre 2012, in http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7838.pdf. (74) Cass., SS.UU., 6 maggio 2015, n. 9100, cit. (75) Lo evidenzia Spiotta, L’atteso chiarimento delle Sezioni Unite sull’utilizzabilità del criterio del deficit, in Giur. it., 2015, 1413. Sulla necessità di un contemperamento tra indebite estensioni della responsabilità degli amministratori e controllo- ri e quella di evitare che la difficoltà di quantificare il danno si risolva a vantaggio di chi lo ha cagionato, anche Ferrari, Responsabilità degli amministratori per prosecuzione dell’attività sociale, in Società, 2012, 277, la quale sottolinea che molto spesso le domande risarcitorie sono respinte, per il mancato accertamento del nesso di causalità tra gli atti posti oggetto di contestazione e le passività accertate. (76) Questo, ad esempio, è l’ipotesi in cui l’inadempimento allegato dal curatore sia idoneo a cagionare il deficit fallimentare, così che - ferma restando comunque la possibilità per i convenuti di fornire la prova contraria volta a superare la presunzione di danno - l’utilizzo della metodica consente comunque una verifica circa la sussistenza di un rapporto di consequenzialità causale tra la condotta ed il danno. Danno e responsabilità 8-9/2016 883 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Abuso del diritto Cessione di crediti L’abuso della cessione del credito risarcitorio Giudice di Pace di Milano, Sez. VII, 13 gennaio 2016, n. 227 - Giud. Lombroso - A. S.r.l. c. Zurich Insurance Public Limited Company La duplicazione di richieste derivanti da un unico fatto lesivo si traduce in una condotta contraria al dovere di correttezza e buona fede. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Giud. pace Perugia 12 gennaio 2010, n. 45; Giud. pace Milano 15 marzo 2010, n. 6162; Giud. pace Massa 16 ottobre 2011, n. 319; Giud. pace Torino 11 marzo 2014, n. 1375; Giud. pace Roma 20 ottobre 2014, n. 29219; Trib. Milano 14 ottobre 2015, n. 6099. Difforme Giud. pace Milano 1° giugno 2011, n. 6999; Giud. pace Torino 11 giugno 2012; Giud. pace Milano 19 febbraio 2015, n. 2149. Il Giudice di Pace (omissis). Svolgimento del processo e motivi della sentenza Con l’atto di citazione sopra indicato la A. S.r.l. ha convenuto in giudizio la Zurich Insurance Plc per sentirla condannare al pagamento dell’importo di euro 292,00, oltre ad euro 73,78 per spese stragiudiziali, con gli interessi e le spese del presente giudizio. Assumeva l’attrice che il 30.07.14 in **, il veicolo Citroen C3 tg. **, di proprietà di A. V., e assicurato presso la Zurich Insurance Plc, veniva urtato dalla vettura tg. ** di proprietà della **, assicurata con Axa Ass.ni. Nell’immediatezza del sinistro le parti avevano provveduto a redigere modulo di constatazione amichevole di incidente, nel quale il conducente del veicolo di proprietà della ** riconosceva la propria esclusiva responsabilità. Il signor V., nelle more della riparazione della propria vettura, aveva provveduto a prendere a noleggio dalla A. S.r.l. un veicolo di cortesia e, al momento della riconsegna del suddetto, aveva ceduto alla A. S.r.l. il credito vantato per il fermo tecnico conseguente ai danni subiti, quantificato in euro 292,00, come da fattura prodotta. L’odierna attrice aveva pertanto inoltrato alla Zurich richiesta di risarcimento dell’importo alla stessa ceduto. La Zurich Insurance Plc aveva rifiutato tuttavia di procedere al pagamento di quanto richiesto, per cui l’attrice si era vista costretta ad adire le vie legali. Si costituiva regolarmente in giudizio la Zurich Insurance Plc eccependo preliminarmente di aver già provveduto, a seguito di notifica di atto di citazione, al pagamento del fermo tecnico, avendo concordato con il si- 884 gnor V. il versamento in suo favore di euro 619,00 onnicomprensive, precisando inoltre che euro 1475,00 erano già stati pagati prima della notifica della citazione. In subordine eccepiva comunque la improcedibilità del presente giudizio per l’illegittimo frazionamento giudiziale di un credito unitario. Poiché l’attrice, dopo la prima costituzione, non compariva né alla prima udienza del 09.11.15, né a quella successiva del 16.12.15, la Zurich Insurance Plc precisava le proprie conclusioni e la causa era assegnata a sentenza. La convenuta ha correttamente documentato che nell’atto di citazione notificatole dal signor A. V. erano stati richiesti sia i danni riportati dal veicolo dello stesso, sia i danni da fermo tecnico. Dopo la notifica dell’atto il signor V. aveva accettato l’importo di euro 619,00 (oltre ad euro 1475,00 già versatigli ante causam) a saldo e stralcio per tutti i danni dallo stesso subiti (comprensivi evidentemente anche del danno da fermo tecnico). E poiché, dopo la notificazione della citazione con cui si è instaurata la presente causa, l’attrice ha rinunciato a coltivare questo giudizio non replicando così a quanto eccepito dalla Zurich, la sua domanda appare del tutto infondata. Risulta infatti sufficientemente documentato dalla convenuta che gli importi versati al V. fossero comprensivi di tutti i danni subiti dallo stesso in relazione all’incidente sopra descritto. La circostanza che l’attrice non sia mai comparsa nel presente giudizio, nulla eccependo così in contrario a quanto sostenuto dalla convenuta avvalora la fondatezza di quanto eccepito dalla Zurich Insurance Plc. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Abuso del diritto Ogni altra eccezione sollevata dalla convenuta, a parere di questo Giudice, rimane perciò assorbita da quanto sopra esposto. Ad abundantiam si evidenzia comunque che la cessione dell’importo relativo al costo del noleggio da parte del signor V. all’odierna attrice si concreta in un frazionamento del credito che, a parere di questo Giudice, non è proponibile. “Una duplicazione di richieste derivanti da un unico fatto lesivo si traduce in una condotta contraria al dovere di correttezza e buona fede” (Trib. Milano sent. n. 6099 del 14.10.15). La Corte di Cassazione, con le recenti sentenze n. 8576 del 09.04.13 e n. 5491 del 19.03.15 ha confermato che “la condotta del creditore che procede a frazionare il proprio credito avanzando diverse domande giudiziali volte ad ottenere la condanna del debitore al pagamento di quanto dovutogli costituisce una condotta contraria ai canoni di buona fede e correttezza” (Cass. n. 23726/07). In tal senso si vedano anche le sentenze del Giudice di Pace di Milano n. 6539/15 e n. 6532/15. La domanda della A. S.r.l. deve pertanto essere rigettata. Le spese di lite seguono la soccombenza e, tenuto conto del valore e della natura della presente controversia, vengono liquidate come in dispositivo. (omissis). Tribunale di Milano, Sez. X, 14 maggio 2015, n. 6099 - Est. Ilarietti - N. G. S.r.l. c. Zuritel S.p.a. Non è consentito al danneggiato in presenza di un unico fatto illecito frazionare la tutela giurisdizionale e ciò neppure mediante riserva di far valere ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento, in quanto tale disarticolazione dell’unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, per l’aggravamento della posizione del danneggiante debitore, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale. La parcellizzazione del credito è condotta contraria a buona fede non solo quando sfocia in una duplicazione di azione giudiziarie, ma altresì quando fonda una duplicazione di richieste di risarcimento derivanti da un unico fatto lesivo, traducendosi in una condotta idonea a sorprendere la buona fede del debitore (fattispecie in tema di cessione parziale del credito risarcitorio relativa al costo per il noleggio di una vettura sostitutiva utilizzata dal danneggiato-cedente durante il ricovero del mezzo incidentato a seguito di un sinistro stradale) ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cass., SS.UU., 15 novembre 2007, n. 23726; Cass. 22 dicembre 2011, n. 28286. Difforme Cass., SS.UU., 10 aprile 2000, n. 108. Il Tribunale (omissis). Fatto e diritto Con atto di citazione in appello ritualmente notificato come in epigrafe, l’odierna appellante proponeva appello avverso la sentenza del Giudice di Pace n. 118004/11 con cui era stata rigettata la pretesa risarcitoria svolta in primo grado da N. G., cessionaria del relativo credito risarcitorio, volta ad ottenere dalla compagnia assicuratrice convenuta in primo grado, sulla base della procedura di cui agli artt. 149 e 150 D. Lvo 7.9.2005, n. 209 (indennizzo diretto) in favore di N. G. il risarcimento del danno pari ad Euro 216,00, corrispondente al corrispettivo del noleggio dell’auto sostitutiva utilizzata dal M. M. durante il periodo strettamente necessario alla riparazione dei danni riportati al proprio mezzo, quale danno derivato dal sinistro occorso in data 16.9.2010. Contestava la motivazione della sentenza del Giudice di pace che aveva deciso la sentenza concludendo per la improponibilità della azione, sulla base dei motivi di appello che si andranno a considerare. Costituendosi nel presente grado di Giudizio Zuritel supportava le argomentazione svolte dal Giudice di Pa- Danno e responsabilità 8-9/2016 ce, richiamava le argomentazioni già svolte in primo grado e chiedeva la conferma della sentenza impugnata. L’appello è infondato. Deve intanto premettersi che le questioni circa la completezza della richiesta risarcitoria che deve essere svolta alla compagnia assicuratrice in regime di indennizzo diretto e la questione della parcellizzazione del credito sono state poste all’attenzione del giudicante in primo grado sono state ampiamente dibattute (cfr. al riguardo la comparsa di costituzione in primo grado pag. 6 e pag. 32, trattato anche da parte convenuta in primo grado nelle note finali pag. 14) sicché non è dato comprendere su che cosa si fondi la dedotta violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa allegata da parte appellante come motivo di appello enucleato a pag. 2 dell’atto di citazione in appello. Ugualmente in nessun modo il Giudice di pace ha fondato la sua decisione negando la libera circolazione del credito; il medesimo ha, per contro, incentrato la propria motivazione sulle norme relative al sistema di indennizzo diretto previsto dal disposto di cui agli artt. 149 e 150 Codice delle Assicurazioni e sulle disposizioni dettate per l’incentivazione della definizione stragiudi- 885 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Abuso del diritto ziale delle richieste risarcitorie che costituiscono condizioni di proponibilità dell’azione in sede giudiziaria; in particolare il Giudice di Pace ha sottolineato che corollario di tali previsioni è il carattere di completezza della richiesta risarcitoria e di definitività della stessa nell’ambito del rapporto di collaborazione e buona fede che deve caratterizzare i rapporti fra le parti. Sul punto le censure mosse dall’appellante non colgono nel segno e devono essere rigettate. Il Giudice di Pace ha argomentato che si pone in contrasto con le finalità perseguite dal legislatore e poste alla base della normativa specifica oltre che con le norme del principio di correttezza e buona fede, la condotta del danneggiato che, come nel caso di specie, ha operato, in relazione alle richieste risarcitorie nascenti dallo stesso sinistro, due cessioni di credito, una avente ad oggetto i costi delle riparazioni che è stata definita con il pagamento da parte della Zuritel e l’altra avente ad oggetto il credito risarcitorio relativo al noleggio della autovettura sostitutiva. Si consideri che parte attrice in primo grado ha esplicitamente riconosciuto che il credito risarcitorio fu frazionato, allegando che la cessione rilasciata in favore della carrozzeria L. e documentata dal doc. 1 fascicolo Zuritel “ebbe ad oggetto unicamente il credito relativo alle sole riparazioni effettuate al mezzo del Sig. M.” (cfr. doc. 1 fascicolo Zuritel), dando atto altresì che a tale cessione fece seguito il pagamento effettuato da Zuritel per la somma di Euro ** corrispondente esattamente all’importo della fattura fiscale emessa per la riparazione, laddove la cessione di credito effettuata in favore di N. G. atteneva esclusivamente al danno derivante dal noleggio di auto sostitutiva durante il periodo della riparazione (cfr. le deduzioni svolte a pag. 3 della comparsa conclusionale in primo grado). Sul punto la decisione del Giudice di pace, ampiamente argomentata, deve essere interamente richiamata e condivisa. Va solo ulteriormente valorizzata a sostegno delle argomentazioni svolte dal giudice di prime cure la considerazione che il debitore ceduto può opporre al cessionario tutte le eccezioni che può opporre al cedente, così come osservato da Zuritel già in primo grado e che la ritenuta necessità della completezza della richiesta risarcitoria va di pari passo con la illegittimità della frazionabilità del credito derivante da un unico rapporto obbligatorio, secondo le considerazioni che seguono. Al riguardo il giudice di legittimità ha con più di una pronuncia statuito che “non è consentito al danneggiato in presenza di un unico fatto illecito … frazionare la tutela giurisdizionale … e ciò neppure mediante riserva di far valere ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento in quanto tale disarticolazione dell’unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, per l’aggravamento della posizione del danneggiante debitore, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale” (sentenza 28286/2011). Le argomentazioni al riguardo, ampiamente trattate da Cass. 15476/2008 e SU 23726/2007 in materia contrat- 886 tuale, si fondano sull’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto che si protrae anche nelle richieste di adempimento e quindi anche nella fase processuale; le medesime argomentazioni sono state valorizzate in materia extracontrattuale da Cass. 28286/2011 che ha argomentato nel senso che “i principi di buona fede e correttezza per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione in rapporto all’inderogabile dovere di solidarietà ex art. 2 Costituzione costituiscono un canone oggettivo ed una clausola generale che attiene non solo al rapporto obbligatorio e contrattuale, ma anche alla fase processuale”. La parcellizzazione del credito è condotta contraria a buona fede non solo quando sfocia in una duplicazione di azioni giudiziarie, ma altresì quando fonda una duplicazione di richieste di risarcimento derivanti da un unico fatto lesivo, traducendosi in una condotta idonea a sorprendere la buona fede del debitore. Posto che il debitore può opporre al cessionario tutte le eccezioni che poteva opporre al creditore originario tali considerazioni devono essere confermate anche nel caso che ci occupa, ove all’originario creditore è subentrato il cessionario. L’appello va pertanto rigettato. Parte appellante dovrà essere condannata al pagamento delle spese di lite sostenute nel presente grado di giudizio che si liquidano, ex DM 55/2014, come da dispositivo. (omissis). Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Abuso del diritto IL COMMENTO di Stefano Argine e Giampaolo Miotto (*) Nel commentare le pronunce milanesi in rassegna, gli autori colgono l’occasione per esaminare il meccanismo negoziale incentrato sulla cessione dei crediti risarcitori, di cui si fa largo uso in ambito r.c. auto. Il sempre più diffuso utilizzo di tale strumento contrattuale suscita attente riflessioni in tema di abuso del diritto, categoria dogmatica sempre più presente nella normale dialettica degli affari e del contenzioso civile. Il dibattito scientifico relativo alla configurabilità giuridica del contratto di cessione del credito applicato all’ambito dei sinistri stradali pare ormai aver raggiunto un punto senza ritorno (1). Non vi è dubbio, infatti, che la cessione del credito risarcitorio abbia conosciuto in questi ultimi anni uno sviluppo senza precedenti nella normale prassi liquidativa susseguente a un incidente stradale, specie per quanto attiene al risarcimento del danno a cose (2). Un tale fenomeno, del resto, non è affatto casuale: in ragione della perdurante crisi economica in cui versa il nostro Paese e del relativo impoverimento di famiglie e consumatori, per molti danneggiati da sinistri stradali anticipare spese (non previste nei propri bilanci) per riparazione del mezzo incidentato, noleggio di un veicolo sostitutivo o spese sanitarie e di cura rappresenta sicuramente una grave difficoltà. Di qui l’affermazione di strumenti giuridici e negoziali - quali appunto la cessione del credito - atti ad impedire un immediato esborso di somme di denaro a carico del danneggiato, allocando piuttosto l’onere di recuperare la posta risarcitoria in capo a carrozzieri, noleggiatori di auto, medici, tecnici della riabilitazione e persi- no avvocati che, divenuti titolari del credito, formuleranno nei confronti degli istituti assicurativi tenuti ex lege alla liquidazione del danno le richieste di pagamento diretto delle prestazioni fornite. Inutile dire come un tale meccanismo negoziale di per sé legittimo e immune da espliciti divieti normativi - abbia ingenerato nel volgere di poco tempo un vero e proprio “mercato” (3) dei crediti risarcitori, gestito da operatori professionali dediti perlopiù alla gestione della contrattualistica di cessione legata ai servizi offerti al pubblico. Alla liquidazione dei danni derivanti da un sinistro stradale, quindi, spesso partecipa una vasta congerie di soggetti cessionari, ognuno portatore di un proprio specifico interesse patrimoniale. Questa situazione, tra l’altro, crea non poche difficoltà da parte degli istituti assicurativi obbligati, sia ai fini di definire il risarcimento del danno in tempi rapidi e certi (come previsto dal legislatore), sia in termini di aggravio del costo dei sinistri. In questo quadro non pare azzardato rilevare come la sottoscrizione di un contratto di cessione del credito sia divenuto - nel settore dell’infortunistica stradale - un vero e proprio mezzo di pagamento (4), al pari di quella di un assegno. (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. (1) Cfr. in argomento, per tutti, Argine, Cessione del credito risarcitorio e noleggio di vettura sostitutiva: profili interpretativi, in Resp. civ. prev., 2011, 2462 ss.; Fraschina, La cessione del credito risarcitorio derivante da fatto illecito (da sinistro stradale), in Riv. giur. circ. trasp., 2013 (edizione online); e, con accurato spirito comparativo, Violante, La circolazione del credito tra favor per il cessionario e tutela del debitore ceduto, in questa Rivista, 2012, 1023 ss. (2) È diffusissima, infatti, la prassi di cedere le poste risarcitorie relative al danno materiale dell’autoveicolo e ai suoi accessori (fermo tecnico, noleggio, spese di soccorso stradale). Nondimeno, la S.C. è recentemente intervenuta nel senso di consentire la libera cedibilità del credito risarcito anche con riferimento a pregiudizi di natura non patrimoniale (lesioni, danno morale): Cass. 3 ottobre 2013, n. 22601, in Nel diritto, 2014, 43, con commento di Maffei, Sulla trasmissibilità inter vivos del credito al risarcimento del danno non patrimoniale; in www.altalex.it, con nota di Buffoni, Danno non patrimoniale da sinistro: i magici effetti della cessione del credito; in Resp. civ. prev., 2014, 539, con nota di Argine, Alla ricerca dei giusti confini della cessione del credito; in Arch. giur. circ. sin., 2014, 637, con nota di Senzacqua, Sì alla cessione del credito al risarcimento del danno, anche non patrimoniale e 733, con nota di Ritunno, La cessione del credito e il sistema del risarcimento diretto del codice delle assicurazioni. Leggasi in argomento Violante, Danno non patrimoniale e cessione del credito risarcitorio, in questa Rivista, 2015, 114 ss. (3) Miotto, Cessione di crediti risarcitori e disciplina delle attività finanziarie, in Resp. civ. prev., 2013, 553; Argine, Alla ricerca dei giusti confini della cessione del credito, cit., 555. (4) L’ordinamento, come noto, consente la cessione di un credito in luogo dell’adempimento (art. 1198 c.c.), ma le ipotesi che ci interessano appaiono ontologicamente diverse nei presupposti applicativi. Infatti, nel caso di cui alla norma codicistica citata, il debitore cede un proprio credito che vanta nei confronti di terzi al fine di adempiere ad una ulteriore obbligazione assunta verso il creditore-cessionario: quest’ultimo, tuttavia, non partecipa alla formazione del credito oggetto del ne- Premessa: il caso di specie Danno e responsabilità 8-9/2016 887 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Abuso del diritto Sulla base di tali presupposti - fermo restando che la Suprema Corte ha sancito in alcune sue note pronunce la legittimità della cessione del credito risarcitorio nel settore r.c. auto (5) - non è certo un caso che la giurisprudenza di merito abbia rilevato alcuni profili critici in questo strumento negoziale, impedendone un utilizzo abnorme o abusivo. Così è accaduto, ad esempio, allorquando la gestione seriale delle cessioni dei crediti risarcitori ad opera di carrozzieri o società di rent auto è stata ricondotta allo schema tipico dell’attività di finanziamento secondo le leggi dettate in materia bancaria e creditizia, con relativa declaratoria di nullità dei suddetti contratti poiché stipulati da soggetti privi dei necessari requisiti autorizzativi (6). Le due sentenze milanesi in commento, che possono senz’altro annoverarsi a questa famiglia di giudicati scettici, si sono occupate invece di un fenomeno che non di rado si accompagna a quello della cessione del credito risarcitorio, cioè quello inerente al suo frazionamento. In entrambi i casi si trattava, infatti, della richiesta di rimborso della spesa di noleggio di un veicolo sostitutivo utilizzato dal danneggiato-cedente nelle more delle riparazioni del proprio, rimasto incidentato a seguito del sinistro. In ambedue le ipotesi il danneggiato aveva inizialmente incaricato il pro- prio carrozziere di fiducia di riparare il mezzo di sua proprietà, sottoscrivendo in suo favore una prima cessione del credito. Il riparatore aveva quindi rivolto la propria richiesta risarcitoria all’assicuratore tenuto al risarcimento del danno, limitandola alla frazione di credito cedutagli, e aveva celermente ottenuto il pagamento del corrispettivo delle proprie prestazioni, oggetto di cessione, rilasciando quietanza liberatoria a definizione della pratica risarcitoria. Solo successivamente il danneggiato aveva sottoscritto una seconda ed ulteriore cessione di credito in favore di una società di rent, che gli aveva fornito un veicolo sostitutivo nel tempo necessario ad eseguire gli interventi riparativi del caso. Alla richiesta di risarcimento del corrispettivo della fattura di noleggio, l’assicuratore aveva opposto la già raggiunta definizione transattiva della controversia, rifiutando il risarcimento richiestogli. Ne seguivano due distinti contenziosi giudiziari, che vedevano soccombere le società di noleggio cessionarie del credito in virtù di due principali motivazioni, afferenti l’una all’illegittimità del frazionamento del credito risarcitorio azionato in giudizio, e l’altra all’incompletezza della richiesta risarcitoria, ritenuta imprescindibile in ambito r.c. auto. gozio di cessione, ma si limita ad accettare la titolarità del credito, accollandosi l’onere del suo recupero. Nelle fattispecie in esame, invece, il soggetto cessionario partecipa attivamente nella determinazione del credito, in quanto è esso stesso che emette la fattura per la riparazione (carrozziere), il noleggio del veicolo sostitutivo (società di rent), le terapie sanitarie (medico curante), le prestazioni professionali forensi (avvocato patrocinatore): non vi è chi non veda profili di rischio legati alla unilaterale ed arbitraria quantificazione del credito da parte dello stesso cessionario in conflitto di interessi, con relativa ipotesi di nullità del negozio per indeterminatezza dell’oggetto. Sul punto cfr. in giurisprudenza ex multis Giud. pace Perugia 12 gennaio 2010, n. 45; Giud. pace Milano 4 febbraio 2010, n. 2070; Giud. pace Brescia 8 febbraio 2010, n. 237; Giud. pace Milano 9 maggio 2012, n. 106489; Giud. pace Roma 22 dicembre 2014, n. 42596; Giud. pace Milano 30 dicembre 2014, n. 14854. Esplicitamente, infine, Giud. pace Roma 3 agosto 2012, n. 36981, inedita, sostiene che “la presenza del cessionario … sostituisce il connotato risarcitorio e reintegratore dell’azione con quello speculativo proprio di chi con la cessione vuol realizzare un vantaggio economico ulteriore, i cui limiti quantitativi e qualitativi sono da lui stesso posti e definiti”. (5) Ci riferiamo a Cass. 5 novembre 2004, n. 21192, in Resp. civ., 2005, 172; a Cass. 13 maggio 2009, n. 11095, in Mass. Giust. civ., 2011, 525; e, specialmente, alle sentenze gemelle Cass. 10 gennaio 2012, nn. 51 e 52, variamente pubblicate in svariate riviste di settore, tra cui in Arch. giur. circ. sin., 2012, 319; in Giud. pace, 2012, 207, con commento di Palmieri - Casoria, Il placet della Cassazione sulla cedibilità del credito risarcitorio da sinistro stradale e sulla legittimazione attiva del relativo cessionario; in Resp. civ. prev., 2012, 1217, con nota di Argine, Il (precario) principio di libera cedibilità dei crediti cristallizzato da due sentenze gemelle della Cassazione del 2012; in Dir. fisc. ass., 2013, 253, con nota di Vai, Cessione del credito derivante da sinistro stradale. La posizione della Suprema Corte. In senso conforme Cass. 13 marzo 2012, n. 3965, in Guida dir., 2012, 27, 56. (6) Cfr. Trib. Venezia 8 novembre 2012, n. 2094, in Resp. civ. prev., 2013, 550, con nota di Miotto, Cessione di crediti risarcitori e disciplina delle attività finanziarie cit. secondo cui “l’esercizio professionale, in modo organizzato e sistematico, di attività di cessione di crediti risarcitori correlata all’assunzione dell’obbligazione di anticipare le spese di riparazione di veicoli danneggiati, anche in assenza della corresponsione di somme di denaro o di interessi da parte del cedente al cessionario, costituisce attività finanziaria ai sensi dell’art. 106 TUB e dell’art. 3, D.M. 17 febbraio 2009, n. 29, come tale riservata ai soli intermediari iscritti nell’apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia e da questa autorizzati, ed implica, pertanto, la nullità dei contratti di cessione di credito stipulati da un soggetto che non sia in possesso di tale requisito, per contrarietà a norme imperative”. In senso conforme già Giud. pace Milano 15 marzo 2010, n. 6162, in Foro pad., 2010, 649, con nota di Costa; e in Giud. pace, 2012, 57, con commento di Argine, Noleggio di auto sostitutiva e cessione del credito risarcitorio derivante da sinistro stradale: fra prassi commerciale e orientamenti interpretativi; Trib. Venezia 13 febbraio 2013, n. 316; Trib. Venezia 2 settembre 2014, n. 1758; Giud. pace Roma 1° ottobre 2014, tutte in questa Rivista, 2015, 393, con commento di Miotto, Cessione di crediti risarcitori, attività finanziaria e nullità ex art. 1418 c.c.; Giud. pace Palermo 24 dicembre 2013, n. 4714, in Arch. giur. circ. sin., 2014, 343; da ultimo Giud. pace Prato 1° febbraio 2016, n. 80; Contra Giud. pace Caltanissetta 4 aprile 2012, n. 188; Giud. pace Bologna 13 gennaio 2014, n. 70; Giud. pace Milano 22 gennaio 2016, n. 786, inedite. 888 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Abuso del diritto Entrambi gli aspetti interpretativi summenzionati per quanto avremo modo di osservare - paiono meritevoli di un attento approfondimento. Il Giudice di Pace (in primo grado) e il Tribunale di Milano (in sede di appello) rilevano - al fine di fondare le proprie decisioni - una circostanza pacifica e incontroversa tra le parti: il frazionamento del credito risarcitorio derivante dall’evento lesivo in plurime poste di danno, separatamente azionate da differenti cessionari. Il danneggiato-cedente aveva infatti stipulato due contratti di cessione del credito: il primo inerente alle riparazioni meccaniche e di carrozzeria sul veicolo incidentato; il secondo inerente al nolo della vettura sostitutiva o di cortesia. Le sentenze annotate si sono interrogate in merito alla liceità della parcellizzazione di un credito originariamente unitario secondo i principi posti dall’ordinamento giuridico. Il fenomeno del frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario rappresenta - come noto - una problematica particolarmente dibattuta in dottrina e giurisprudenza. Attorno alla vexata quaestio, sorta principalmente in procedimenti monitori promossi dal creditore nei confronti dello stesso debitore per l’adempimento di prestazioni non onorate, si sono affermati nel tempo due principali orientamenti interpretativi. Un primo risalente indirizzo - avallato dalle Sezioni Unite (7) all’inizio del nuovo millennio e ormai minoritario - ammetteva l’attività di parcellizzazione, ritenendo che al creditore competesse il potere di chiedere un adempimento parziale del credito, in quanto speculare alla facoltà di accettarlo attribuitagli dall’art. 1181 c.c. Sulla scorta di ciò si riteneva che la posizione del debitore, esposto a una pluralità di ingiunzioni e di procedimenti pendenti, fosse pienamente tutelata, in ragione della sua facoltà di mettere in mora il creditore offrendogli l’adempimento dell’intero, oppure di chiedere l’accertamento negativo di questo (8). Tale indirizzo è stato superato da una successiva pronuncia delle Sezioni Unite (9), che ha ispirato un diverso orientamento, oggi senz’altro prevalente. Secondo SS.UU. n. 23276/2007, infatti, la facoltà concessa al creditore di accettare l’adempimento parziale non implica affatto quella di frazionare egli stesso il proprio credito, poiché tale disarticolazione della pretesa creditoria appare, in realtà, “contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.”, stante l’evidente ed ingiustificato aggravio recato al debitore. Per un altro aspetto, il frazionamento del credito sul piano processuale - “contraddice il canone del giusto processo, di cui al novellato art. 111 Cost.”, integrando piuttosto un abuso del processo stesso, ed implica l’evidente rischio della “formazione di giudicati (praticamente) contraddittori cui potrebbe dar luogo la pluralità di iniziative giudiziarie collegate allo stesso rapporto”. Si noti, in particolare, come tale nuovo indirizzo giurisprudenziale ponga l’accento sulla posizione del debitore, che dall’anzidetta disarticolazione del credito viene indubbiamente aggravato, costringendolo a difendersi in molteplici giudizi anziché in uno soltanto (10) ed assoggettandolo ad una (7) Cass., SS.UU., 10 aprile 2000, n. 108, in Arch. civ., 2000, 991; in Giust. civ., 2000, 2265, con nota di Marengo, Parcellizzazione della domanda e nullità dell’atto; in Corr. giur., 2000, 1618, con nota di Dalla Massara, Tra res iudicata e bona fides: le sezioni unite accolgono la frazionabilità nel quantum della domanda di condanna pecuniaria; in Giur. it., 2001, 1143, con nota di Carratta, Ammissibilità della domanda giudiziale frazionata in più processi?; in Nuova giur. civ. comm., 2001, 502, con nota di Ansanelli, Rilievi minimi in tema di abuso del processo; in Dir. giur., 2002, 443, con nota di Sena, Richiesta di adempimento parziale e riserva di azione per il residuo: l’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione. (8) Cfr. ex multis Cass. 15 aprile 1998, n. 3814; Cass. 19 ottobre 1998, n. 10326, in Giur. it., 1999, 1372, con nota di Forchino; Cass. 5 novembre 1998, n. 11114; Cass. 9 novembre 1998, n. 11265. (9) Cass., SS.UU., 15 novembre 2007, n. 23726, in Guida dir., 2007, 28, con commento di Finocchiaro, Una soluzione difficile da applicare nei futuri procedimenti di merito; in Inf. prev., 2007, 642, con nota di Laganà, Il frazionamento giudiziale del credito come ipotesi di abuso del processo; in questa Rivi- sta, 2008, 996, con commento di Festi, Buona fede e frazionamento del credito in più azioni giudiziarie; in Resp. civ. prev., 2008, 1183; in Corr. giur., 2008, 745, con nota di Rescigno, L’abuso del diritto (una significativa rimeditazione delle Sezioni Unite); in Giust. civ., 2008, 641, con nota di Fico, La tormentata vicenda del frazionamento della tutela giudiziaria del credito; in Nuova giur. civ. comm., 2008, 458, con note di Finessi, La frazionabilità (in giudizio) del credito: il nuovo intervento delle sezioni unite e di Cossignani, Credito unitario, unica azione; in Obbl. contr., 2008, 800, con nota di Veronese, Domanda frazionata: rigetto per contrarietà ai principi di buona fede e correttezza; in Foro it., 2008, I, 1514, con note di Palmieri-Pardolesi, Frazionamento del credito e buona fede inflessibile e di Caponi, Divieto di frazionamento giudiziale del credito: applicazione del principio di proporzionalità nella giustizia civile?. Cfr. altresì in dottrina Buffone, Frazionamento giudiziale, contestuale (o sequenziale) di un credito unitario. Parcellizzazione in plurime e distinte domande dell’azione giudiziaria per l’adempimento di una obbligazione pecuniaria: per la Cassazione è un abuso del processo, in Il Civilista, 2008, 34 ss. (10) “Ciò che, infatti, unicamente rileva, ai fini di una corret- Il frazionamento del credito risarcitorio Danno e responsabilità 8-9/2016 889 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Abuso del diritto moltiplicazione delle condanne alle spese di lite (11). Ponendosi in questa prospettiva, il Tribunale di Milano - nell’ottica di una valorizzazione dei principi di buona fede e correttezza in capo alle parti coinvolte nella vicenda risarcitoria - accoglie il principio dell’infrazionabilità della pretesa creditoria, facendo insistente riferimento nel proprio percorso motivazionale a quanto affermato dalla Suprema Corte nella nota pronuncia n. 28286/2011 (12). Nel caso allora esaminato dai giudici di legittimità, infatti, il danneggiato da un sinistro stradale aveva promosso due distinte azioni risarcitorie procrastinate nel tempo: la prima (di modesto valore) per il solo danno materiale al mezzo incidentato; la seconda (assai più importante in termini economici) avente ad oggetto il danno non patrimoniale deri- vante dalle lesioni patite. La Cassazione - in linea col succitato precedente delle Sezioni Unite del 2007 in tema di illegittimo frazionamento giudiziale del credito - aveva quindi dichiarato l’improcedibilità del secondo giudizio, respingendo le richieste risarcitorie relative al danno alla persona. Ancor meno giustificabile ai fini dei ricordati principi di buona fede e correttezza, rispetto alla parcellizzazione del credito risarcitorio per danni a cose e per danni alla persona appena ricordata, appare indubbiamente la scissione della specifica pretesa creditoria attinente ai danni materiali in una frazione riguardante le spese di riparazione del veicolo e in un’altra concernente le spese di noleggio di un mezzo sostitutivo (spesso ricondotte alla controversa figura del fermo tecnico) (13). Anche in questo caso, infatti, il danneggiato che cede tali sottocategorie di danno (non di rado per ta impostazione del problema entro i canoni ermeneutici del principio di buona fede, è l’esistenza di un qualsivoglia pregiudizio per il debitore, non giustificato da un corrispondente vantaggio - meritevole di tutela - per il creditore”: Cass. 23 luglio 1997, n. 6900 e Cass. 8 agosto 1997, n. 7400, entrambe in Giur. it., 1998, 889, con nota di Ronco, Azione e frazione: scindibilità in più processi del petitum di condanna fondato su un’unica causa petendi o su causae petendi dal nucleo comune, ammissibilità delle domande successive alla prima e riflessi oggettivi della cosa giudicata. Cfr. in senso conforme, più recentemente, Cass. 27 maggio 2008, n. 13791 e Cass. 11 giugno 2008, n. 15476, entrambe in questa Rivista, 518-519, con commento di Rossi, Il principio della contrarietà del frazionamento giudiziale del credito alla clausola generale di buon fede: prime applicazioni giurisprudenziali; Cass. 20 novembre 2009, n. 24539, in Guida dir., 2010, 42; Cass. 27 gennaio 2010, n. 1706, ivi, 2010, 100. Di recente, in senso parzialmente critico rispetto a quanto appena precisato, Cass. 15 marzo 2013, n. 6663 e Cass. 9 aprile 2013, n. 8576, entrambe in Foro it., 2014, I, 916, con nota di Brunialti, La Cassazione apre al frazionamento giudiziale motivato del credito?, pur confermando il divieto di parcellizzazione del credito quale regola generale anche nell’ambito del processo esecutivo, hanno ammesso la possibilità residuale che emergano “particolari elementi che giustifichino tale scelta del creditore in relazione alla straordinaria difficoltà di agire per l’intero”: è evidente, quindi, come nel rapporto tra creditore (frazionante) e debitore debba essere svolta in sede di merito una attenta ponderazione tra diritti ed interessi contrastanti, con onere della prova in merito alla necessità della parcellizzazione a carico del creditore. (11) Con particolare riferimento ai crediti risarcitori attinenti alla r.c. auto, poi, si consideri come la sovrapposizione di frazionamento e cessione implichi immancabilmente un incremento del costo del sinistro, sia per le spese aggiuntive (stragiudiziali e/o di lite) che ne conseguono, sia per l’eliminazione della funzione equilibratrice che il corretto rapporto di mercato tra danneggiato e prestatori d’opera (riparatori, noleggiatori ed altri ancora) esercita sull’ammontare dei corrispettivi richiesti da questi ultimi: l’interlocutore di chi fornisce i propri servizi al danneggiato non è più il suo cliente, ma un terzo estraneo (l’assicuratore) privo di qualsiasi potere contrattuale. (12) Cass. 22 dicembre 2011, n. 28286, in Ass., 2012, 167; in Giud. pace, 2012, 68; in Arch. giur. circ. sin., 2012, 321; in Foro it., 2012, I, 2813, con nota di Graziosi, Neppure i crediti risarcitori possono più essere frazionati giudizialmente; in Giust. civ., 2012, 2641, con nota di Troncone. (13) Capita sovente, infatti, che il credito consistente nella spesa per noleggiare il veicolo sostitutivo utilizzato dal danneggiato nel periodo in cui il mezzo incidentato sia fermo in officina per le riparazioni sia ricondotto al pregiudizio da fermo tecnico. Un espediente non certo casuale, dal momento che in base ad un non trascurabile orientamento giurisprudenziale tale voce risarcitoria sarebbe dovuta in re ipsa, anche in assenza di prova specifica, rilevando la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo (cfr. ex aliis Cass. 14 dicembre 2002, n. 17963, in Mass. Giust. civ., 2002, 2202; Cass. 9 novembre 2006, n. 23916, in Resp. civ. prev., 2007, 1471; Cass. 27 gennaio 2010, n. 1688, in Resp. civ., 2010, 841, con nota di Primiceri, Il danno da fermo tecnico; Cass. 8 maggio 2012, n. 6907, in questa Rivista, 2013, 284, con commento di Grasselli, Risarcibilità del danno da fermo tecnico; e in Resp. civ., 2012, 853, con nota di Miotto, Il danno da fermo tecnico e la genesi del danno risarcibile nella giurisprudenza; da ultimo Cass. 26 giugno 2015, n. 13215, inedita). Parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, al contrario, ha rilevato la “distinzione ontologica” tra noleggio e fermo tecnico di autoveicolo, in quanto quest’ultimo sarebbe riferito ai soli costi gestionali dell’auto in sosta forzata (bollo di circolazione, premio assicurativo e deprezzamento di valore nel tempo di fermo) e non a pregiudizi ulteriori, che quindi dovrebbero essere oggetto di accurato esame probatorio (così Argine, Cessione del credito risarcitorio e noleggio di vettura sostitutiva cit., 2464-2468; Id., La Suprema Corte e la reale nozione del danno da fermo tecnico, in Resp. civ. prev., 2014, 852; Giud. pace Milano 15 marzo 2010, n. 6162 cit.; Giud. pace Torino 21 settembre 2012, n. 6950; Giud. pace Milano 7 novembre 2012; Giud. pace Torino 11 marzo 2014, n. 1375; Giud. pace Roma 22 dicembre 2014, n. 42596; Giud. pace Roma 23 luglio 2015, n. 31999, inedita). Recentemente la S.C. - in una importante pronuncia interpretativa - sembra fare il punto della situazione, non soltanto rifiutando l’incongruo concetto di danno in re ipsa, ma anche sostenendo che il fermo tecnico “può essere risarcito soltanto al cospetto di esplicita prova non solo del fatto che il mezzo non potesse essere utilizzato, ma anche del fatto che il proprietario avesse davvero necessità di servirsene, e sia perciò dovuto ricorrere a mezzi sostitutivi, ovvero abbia perso l’utilità economica che ritraeva dall’uso del mezzo” (Cass. 14 ottobre 2015, n. 20620, inedita). Accurati rilievi dogmatici in ordine alla configurabilità giuridica del danno da fermo tecnico sono possibili nel noto scritto di Cavallaro, Il danno da fermo tecnico: fondamento e limiti della sua risarcibilità, in Riv. dir. civ., 2002, 79 ss. 890 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Abuso del diritto esservi stato sollecitato dai cessionari che ne beneficiano) causa un aggravamento della situazione del danneggiante che, in quanto debitore ceduto, non ha alcuna possibilità di opporsi a tale unilaterale decisione del proprio creditore, e (a ben guardare) dello stesso sistema giudiziario (14). E ciò per almeno due ragioni. In primo luogo, in tal caso il debitore ceduto diviene destinatario di plurime richieste risarcitorie procrastinate nel tempo e riguardanti le più diverse tipologie di danno, da lui non conoscibili a priori. Per di più, poiché il principale debitore del risarcimento nell’ambito dei sinistri r.c. auto è un istituto assicurativo, occorre considerare come questi rimanga esposto ad una perdurante quanto inaccettabile (15) incertezza in ordine alla definizione della pratica liquidativa inerente a un dato sinistro, con tutte le conseguenze che ne derivano per ciò che attiene agli obblighi di riservazione che la legge gli impone. In questi casi l’assicuratore obbligato, dopo aver risarcito il danneggiato o il cessionario di questi, rimarrebbe esposto sino allo spirare del termine di prescrizione ad una indefinita quantità di nuove richieste risarcitorie per ulteriori, diverse voci di danno mai palesate in precedenza e provenienti da soggetti diversi dal danneggiato, in quanto cessionari delle relative frazioni del credito risarcitorio. Per fare un’ipotesi estrema, ma tutt’altro che inverosimile, l’assicuratore potrebbe dapprima ricevere e soddisfare la richiesta di risarcimento del riparatore del veicolo incidentato (quale cessionario della frazione di credito riguardante il corrispettivo dovutogli per la riparazione del mezzo) e poi, via via, col passar del tempo, quelle del noleggiatore del veicolo sostitutivo e del centro medico cessionari rispettivamente del prezzo del noleggio e del compenso per le cure fisiatriche prestate, per vedersi infine recapitare quella del danneggiato che agisca - questa volta in proprio - per il danno alla persona subito in occasione dell’incidente. Non a caso, peraltro, in molte fattispecie analoghe a quelle affrontate nelle sentenze in analisi, la sussistenza del frazionamento del credito risarcitorio è legata a doppio filo con l’exceptio rei transactae, in forza della quale la pratica risarcitoria viene considerata definita nel momento in cui il danneggiatocedente (ovvero un riparatore-cessionario) dichiara di non avere altro a pretendere in relazione al credito riguardante tutti i danni derivati dal sinistro (quantomeno quelli materiali), sottoscrivendo un atto di transazione e quietanza, e, dunque, senza ab origine alcuna riserva esplicita in ordine alla sussistenza di ulteriori voci di danno (16). In secondo luogo, si consideri la dilatazione del contenzioso (stragiudiziale e soprattutto giudiziale) legato ad un solo sinistro, allorquando questo viene (14) Presso i Tribunali, infatti, nella non infrequente ipotesi di contestazione di alcune voci di danno richieste dal danneggiato o dai vari soggetti cessionari, si trovano spesso incardinate plurime vertenze inerenti alla medesima causa petendi (ovvero lo stesso sinistro), con conseguente appesantimento del carico di lavoro per la risoluzione di liti non raramente bagatellari: cfr. Argine, Il risarcimento del danno nelle liti bagatellari: profili interpretativi, in Foro pad., 2013, 257 ss. (15) È noto che nel settore r.c. auto l’assicuratore tenuto al risarcimento del danno è sottoposto allo spatium deliberandi di cui all’art. 148 cod. ass. per la formulazione dell’offerta o l’illustrazione delle ragioni ostative alla liquidazione. Negli intenti del legislatore, peraltro, specialmente per la trattazione dei sinistri di più facile gestione (ovvero quelli fondati sul modulo di constatazione amichevole firmato da entrambi i conducenti dei mezzi coinvolti, dal quale non emergano contestazioni in ordine alla dinamica dell’evento e al conseguente riparto di responsabilità), il breve spatium deliberandi concesso è finalizzato proprio all’impostazione di processi rapidi e funzionali, atti a risolvere bonariamente la vicenda risarcitoria in poco tempo. Inoltre, allorquando una posizione di sinistro viene aperta, la compagnia assicuratrice accantona risorse disponibili a riserva, sottraendole da attività lucrative o di investimento. È evidente che - nel dubbio che per ogni posizione di semplice gestione giungano scaglionate nel tempo le più disparate richieste risarcitorie da parte di questo o quel soggetto cessionario del credito - lasciare le posizioni di sinistro aperte a scopo cautelativo corrisponde, sul piano macroeconomico e a fini di bilancio, a un serio danno. (16) Cfr. ex multis, specialmente presso la giurisprudenza onoraria ambrosiana, Giud. pace Milano 14 ottobre 2011, n. 115065; Giud. pace Milano 7 febbraio 2012, n. 101796; Giud. pace Milano 19 marzo 2012, n. 104251; Giud. pace Milano 28 maggio 2012, n. 107682; Giud. pace Milano 12 giugno 2013, n. 108597; Giud. pace Milano 28 maggio 2014, n. 7445; Giud. pace Milano 17 luglio 2014, n. 9652; Giud. pace Milano 2 maggio 2015, n. 6539; Giud. pace Milano 16 settembre 2015, n. 12143; Giud. pace Milano 24 dicembre 2015, n. 17320; Giud. pace Milano 28 gennaio 2016, n. 975. In senso conforme Giud. pace Roma 19 maggio 2016, n. 17628; Giud. pace Roma 4 febbraio 2016, n. 3705; Giud. pace Roma 26 gennaio 2016, n. 2663; Giud. pace Roma 10 dicembre 2015, n. 47309, tutte inedite; Giud. pace Roma 20 ottobre 2014, n. 29219; Giud. pace Tivoli 6 ottobre 2015, n. 644; Giud. pace Tivoli 19 ottobre 2015, n. 694. Giud. pace Roma 3 gennaio 2012, n. 29, in Foro pad., 2013, 123, con nota di Argine, Le nuove frontiere del frazionamento giudiziale dei crediti ha precisato che, normalmente, la definizione transattiva del danno con l’assicuratore è da intendersi definitiva e tombale in relazione a tutte le voci di danno sussumibili, “a meno che non risulti esclusa a priori la sua idoneità a ricomprenderle tutte attraverso una riserva significativamente esplicita ed espressa di rinviare ad altro procedimento il soddisfacimento delle ulteriori ragioni di credito temporaneamente accantonate”. In tal senso vedasi altresì, nella giurisprudenza di legittimità, Cass. 29 gennaio 2008, n. 1985, in Resp. civ. prev., 2008, 1591, con nota di Bertoncini, Parcellizzazione del credito: le Sezioni Unite e le Sezioni semplici a confronto. Interessante è - sotto questo profilo di analisi - il giudicato in commento reso dal Giudice di pace di Milano: nel caso specifico, infatti, lo stesso danneggiato-cedente aveva incardinato una prima lite nei confronti dell’assicuratore-debitore ceduto, ottenendo un accordo transattivo Danno e responsabilità 8-9/2016 891 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Abuso del diritto promosso da una vasta congerie di soggetti interessati al rimborso della singola prestazione fornita in favore dell’unico danneggiato (carrozzieri, società di noleggio, centri medici …). Un fenomeno del genere implica un potenziale lesivo enorme anzitutto per il debitore ceduto, costretto a fronteggiare una molteplicità di richieste e a difendersi da esse in una pluralità di giudizi diversi, con conseguente grave moltiplicazione delle spese legali di resistenza, col risultato che queste non di rado risultino sproporzionate rispetto alla reale entità del petitum. Ma non meno gravi sono le sue ricadute sia sul sistema giudiziario, per l’inutile aumento del carico di lavoro degli uffici che ne consegue, sia ai fini processuali, e cioè relativamente al corretto accertamento dei fatti che stanno alla base delle istanze risarcitorie oggetto della frantumazione della pretesa creditoria. Una simile disseminazione di domande giudiziali in relazione alla medesima causa petendi, infatti, implica un palese rischio di contrasto di giudicati, poiché il diverso sviluppo delle singole vicende processuali ed il libero convincimento dei vari giudici aditi potrebbe condurre a differenti accertamenti dei fatti azionati (si pensi solo a una contrastante ricostruzione della dinamica del sinistro, se oggetto di contestazione, o ad una sua differente interpretazione da parte dei diversi magistrati chiamati a conoscerne). Tale rischio non può certo essere escluso dalla connessione oggettiva che caratterizza simili giudizi, trattandosi di un caso di litisconsorzio facoltativo per il quale la riunione delle relative cause non è obbligatoria, non essendo infrequente che queste vengano promosse in tempo. A questo proposito vi è stato chi ha osservato come non si verifichi un frazionamento della tutela giurisdizionale nel caso in cui il credito venga parcellizzato e parzialmente ceduto nella sola fase stragiudiziale della lite, soprattutto allorquando i vari soggetti cessionari non promuovano separatamente distinti giudizi per farlo valere nei riguardi del debitore. L’art. 1262, comma 2, c.c., infatti, ammette la cessione parziale del credito e, comunque, i soggetti istanti sarebbero portatori di differenti interessi meritevoli di tutela (17). Risalendo a questi presupposti parte della dottrina e della giurisprudenza si è posta in una posizione sostanzialmente intermedia tra i due differenti indirizzi interpretativi dianzi citati, da un lato riconoscendo la legittimità della cessione parziale del credito risarcitorio, ma dall’altro ritenendo che l’attività di parcellizzazione del credito - nell’ipotesi in cui essa concreti un abuso - debba incidere soltanto sul regime delle spese di lite (18). Alla medesima soluzione pratica era pervenuta la Cassazione in un precedente (19) relativo ad un caso molto particolare ed affatto diverso da quelli in esame, trattandosi in realtà di più crediti analoghi, ma distinti, vantati ciascuno da un diverso soggetto verso un unico debitore: più persone, che avevano congiuntamente agito per la tutela di posizioni giuridiche analoghe in un processo irragionevolmente protrattosi, salvo poi agire separatamente, ciascuno per proprio conto, nei confronti del Ministero della Giustizia per ottenere l’equo indennizzo previsto dalla L. n. 89/2001. tombale per ogni voce di danno relativa all’evento dannoso. L’exceptio rei transactae sollevata in riferimento alla seconda lite appare, quindi, in tutta la sua chiarezza: non casualmente, peraltro, lo stesso cessionario (che pure aveva notificato l’atto di citazione) ha ritenuto di non dover partecipare alla causa (iscritta a ruolo dall’assicuratore convenuto). (17) Così ex aliis Giud. pace Milano 1° giugno 2011, n. 6099; Trib. Trento 19 marzo 2013, n. 251 e Trib. Milano 7 agosto 2013, n. 10786, entrambe in www.unarca.it; Giud. pace Milano 19 febbraio 2015, n. 2149; Giud. pace Milano 14 aprile 2016, n. 3676, inedita. (18) Cfr. Giud. pace Torino 11 giugno 2012, in Giud. pace, 2012, 338, con commento di Scarpa, Cessione del credito risarcitorio e possibile abuso da frazionamento delle domande. Anche Miserendino, La pretesa unicità della richiesta risarcitoria stragiudiziale in materia r.c. auto alla luce delle recenti pronunce sul giusto processo, in www.unarca.it, pur essendo favorevole all’operazione di cessione parziale dei crediti risarcitori derivanti da sinistro stradale, sostiene come sia “maggiormente condivisibile, al fine di garantire la tutela sostanziale del diritto … quell’orientamento della Suprema Corte che, in caso di proposizione di plurime domande risarcitorie in sede giudiziale, statuisce che le uniche conseguenze sanzionatorie possano at- tenere al solo piano delle spese processuali, dovendo essere sempre fatto salvo il principio della tutela sostanziale del diritto”. (19) Cass. 3 maggio 2010, n. 10634, in Corr. giur., 2011, 369, con nota di Fin, Una coraggiosa pronuncia della corte di legittimità: l’onere delle spese come rimedio contro un uso scorretto dello strumento processuale, che sostiene: “Integra un abuso del processo la condotta di più parti che, senza aver interesse alla diversificazione delle rispettive posizioni, agendo contemporaneamente con identico patrocinio legale e proponendo domande connesse per l’oggetto e per il titolo, instaurano singolarmente procedimenti diversificati, destinati inevitabilmente alla riunione”. Nel caso allora esaminato dalla S.C. vari soggetti, che erano state parti in un giudizio il cui giudicato si era protratto oltre i termini stabiliti dalla legge Pinto, avevano richiesto in sedi separate il risarcimento del danno per l’eccessiva durata del processo mediante il patrocinio del medesimo avvocato: lo scopo era, evidentemente, quello di ottenere da ogni singola posizione la rifusione degli onorari di soccombenza, di entità ben maggiore in plurimi giudizi di valore contenuto piuttosto che in un unico giudizio di valore più elevato. 892 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Abuso del diritto e frazionamento della tutela giurisdizionale, in base alla quale solo la seconda costituirebbe oggetto di sindacato da parte del giudice. Entrambe queste attività si inseriscono uniformemente in quella famiglia, sempre più numerosa, di operazioni abusive intese in senso lato, ove abuso del diritto e abuso del processo paiono fondersi sino a formare un unicum concettuale dal quale non è più possibile prescindere. Sicché, in quel caso, l’aver invocato i principi di buona fede e correttezza per limitare la condanna alle spese del Ministero fu, piuttosto, una forzatura, non trattandosi del frazionamento di un unico credito, ma di danneggiati diversi, ciascuno dei quali faceva valere separatamente il proprio credito nei riguardi di un unico debitore (20). In questo filone si è collocata pure un’altra decisione di legittimità, pertinente invece ai casi considerati, che ha ravvisato nella riunione e nella “liquidazione delle spese di lite come se il procedimento fosse stato unico sin dall’origine” la sanzione del frazionamento del credito (21). Ciò nondimeno, appare prevalente nella giurisprudenza di legittimità il ricordato orientamento per cui il “frazionamento dell’azione extracontrattuale per i danni materiali e personali da circolazione stradale, ancorché effettuato con riserva espressa di far valere ulteriori e diverse voci di danno in un altro procedimento, costituisce una forma di abuso del processo ostativo all’esame della seconda domanda” (22), come anche di recente confermato (23). In quest’ultimo indirizzo interpretativo si inscrivono senz’altro le pronunce in epigrafe, che - nell’accentuare al massimo livello il principio di solidarietà sociale ex art. 2 Cost. e la circostanza secondo cui al debitore ceduto è fatta salva la possibilità di sollevare nei confronti del cessionario tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre all’originario creditore - affermano: “la parcellizzazione del credito è condotta contraria a buona fede non solo quando sfocia in una duplicazione di azioni giudiziarie, ma altresì quando fonda una duplicazione di richieste di risarcimento derivanti da un unico fatto lesivo, traducendosi in una condotta idonea a sorprendere la buona fede del debitore” (24). Sembra quindi venire meno - a nostro giudizio in maniera del tutto condivisibile - quella scissione tra parcellizzazione sostanziale del diritto di credito Pur concentrando la propria analisi della fattispecie sulla questione relativa all’illegittimo frazionamento del credito risarcitorio, il Tribunale di Milano non manca di cogliere un altro aspetto che riveste un’importanza fondamentale sotto il profilo interpretativo. Si tratta della completezza della richiesta di risarcimento, imposta dalle norme vigenti in materia di danni derivati da sinistri r.c. auto. Infatti, facendo leva sulle domande di risarcimento procrastinate nel tempo da parte dei soggetti cessionari, il giudice di prime cure aveva ritenuto inammissibile la richiesta di rimborso della fattura di noleggio, ricevuta dalla compagnia assicuratrice solo in un secondo tempo rispetto a quella relativa alle spese necessarie per il ripristino del veicolo incidentato (che essa aveva già liquidato e pagato). Sul punto la sentenza del Giudice di Pace, appellata dal cessionario, aveva infatti osservato che si sarebbe dovuta presumere la completezza delle istanze risarcitorie precedentemente avanzate dal primo cessionario, per le quali il danneggiato-cedente non aveva espresso alcuna esplicita riserva di danno. Ebbene, che la completezza della messa in mora in ambito r.c. auto integri - secondo la vigente disciplina di cui al D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209 e a (20) Si noti quanto risulta al riguardo dalla motivazione della sent. n. 10634/2010 in merito al fatto che “evento causativo del danno e quindi giustificativo della pretesa sia identico come unico sia il soggetto che ne deve rispondere e plurimi soli i danneggiati i quali, dopo aver agito unitariamente nel processo presupposto così dimostrando la carenza di interesse alla diversificazione delle posizioni ed avere sostanzialmente tenuto la stessa condotta in fase di richiesta di indennizzo agendo contemporaneamente con identico patrocinio legale e proponendo domande connesse per l’oggetto e per il titolo, instaurano singolarmente procedimenti diversificati pur destinati inevitabilmente (come puntualmente avvenuto nella fattispecie) alla riunione”. (21) Cass. 19 marzo 2015, n. 5491, in www.ridare.it, con nota di Cataliotti - Simonini, È possibile frazionare la pretesa risarcitoria?: “ferma restando la natura abusiva della parcellizza- zione giudiziale del credito, la sanzione di tale comportamento non può consistere nella inammissibilità delle relative domande giudiziali, essendo illegittimo non lo strumento adottato, ma la modalità della sua utilizzazione. Ne consegue che il rimedio agli effetti distorsivi del fenomeno della fittizia proliferazione delle cause autonomamente introdotte dal creditore deve individuarsi in applicazione di istituti processuali ordinari, vuoi nella riunione delle medesime, vuoi sul piano della liquidazione delle spese di lite, da riguardarsi come se il procedimento fosse stato unico sin dall’origine”. (22) Cass. 22 dicembre 2011, n. 28286, cit. (23) Cass. 21 ottobre 2015, n. 21318, in www.personaedanno.it. (24) Leggasi supra il testo della pronuncia del Tribunale di Milano, fatto proprio anche dal Giudice di Pace nella successiva sentenza annotata. Danno e responsabilità 8-9/2016 Parcellizzazione del credito e procedibilità in ambito r.c. auto 893 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Abuso del diritto differenza di quanto era stato stabilito nell’antiquata normativa di cui alla L. 24 dicembre 1969, n. 990 (25) - un vizio di procedibilità del giudizio promosso in assenza delle dovute integrazioni documentali o informative da parte del soggetto leso è oggigiorno circostanza fuori di discussione (26). La novella, non casualmente, ha un chiaro intento deflattivo del contenzioso giudiziario in materia di incidenti stradali, essendo diretta ad incentivare le parti a una reciproca collaborazione: scopo del legislatore è, infatti, quello di favorire la composizione delle vertenze sin dalla fase stragiudiziale. Valorizzando i principi testé ricordati e la circostanza per cui l’assicuratore aveva già risarcito il carrozziere (primo cessionario del credito), è stato coerentemente osservato nel caso concreto come “corollario della completezza della richiesta di risarcimento del danno è la definitività della stessa, nel senso che, accertati e periziati i danni subiti in seguito al sinistro, non è più possibile accampare ulteriori pretese e richieste di danno relative allo stesso sinistro, e riguardanti il bene già oggetto di perizia e di accordo sulle somme da erogare o già versate”. Pertanto “dal momento che una richiesta risarcitoria non completa di tutti gli elementi indicati comporta la declaratoria di improponibilità, allo stesso modo una ulteriore domanda di risarcimento, avanzata anche a titolo diverso, ma riguardante lo stesso sinistro si ritiene che comporti la declaratoria di inammissibilità della ulteriore domanda” (27). (25) Secondo un orientamento teleologico o finalistico - affermatosi specialmente nella vigenza della precedente normativa di cui alla L. n. 990/1969 - occorrerebbe valutare se, nonostante la mancanza nella richiesta risarcitoria di tutti i requisiti formali o contenutistici, l’assicuratore fosse in grado di valutare adeguatamente il caso secondo ordinaria diligenza. In questa ipotesi, pertanto, fermo restando il rispetto dello spatium deliberandi previsto dalla normativa speciale, la missiva di messa in mora non comprometterebbe il giudizio successivamente promosso dal danneggiato con l’improponibilità della domanda: cfr. in particolare la nota Cass. 9 agosto 1988, n. 4898, in Riv. giur. circ. trasp., 1989, 54; e in Arch. giur. circ. sin., 1989, 29; Giud. pace Ancona 30 luglio 1997, in Giur. mer., 1999, 469. Con l’introduzione della novella disciplina, più severa e rigorosa sotto tale aspetto, questo indirizzo interpretativo pare essere stato sostanzialmente abbandonato, anche se non mancano isolate resistenze di alcuni magistrati di merito, tra cui Giud. Pace Bari 13 ottobre 2011, n. 5662, in www.giurisprudenzabarese.it; Trib. Palermo, Sez. dist. Bagheria, 23 aprile 2012; Trib. Palermo 7 maggio 2013. (26) Cfr. ex multis Giud. pace Milano 9 aprile 2008, n. 14161, in Giustizia a Milano, 2008, 5, 37; Giud. pace Milano 5 febbraio 2009, n. 1933, in Guida dir., 2009, 22, 67; Giud. pace Augusta 27 marzo 2009, n. 153, in Arch. giur. circ. sin., 2009, 742; Trib. Roma 15 luglio 2010 e Trib. Roma 16 dicembre 2010, entrambe in www.altalex.it; Giud. pace Bari 20 settembre 2010, n. 7061, in www.giurisprudenzabarese.it; Trib. S. Maria Capua Vetere 12 ottobre 2010; Trib. Alessandria 18 gennaio 2011; Trib. Genova 18 gennaio 2011; Giud. pace Mestre 14 luglio 2011, in Arch. giur. circ. sin., 2012, 40; Giud. pace Roma 14 novembre 2012, n. 50441, in Resp. civ. prev., 2013, 2035, con nota di Argine, L’auspicio di maggiore collaborazione fra danneggiato e assicuratore in ambito r.c. auto, che precisa come l’incompletezza della richiesta risarcitoria può integrare un vizio di procedibilità della domanda giudiziale solo a condizione che sia rilevata su eccezione di parte; Trib. Roma 2 ottobre 2013, n. 19503, in Ass., 2014, 159, con nota di Losco, secondo cui l’improponibilità per incompletezza della richiesta risarcitoria “è posta a presidio della migliore e corretta gestione da parte degli enti assicuratori della gran massa di sinistri stradali ed è funzionale anche al raggiungimento dell’interesse pubblico a che non vengano instaurati processi civili che le parti, comportandosi con lealtà e correttezza nella fase stragiudiziale, ben potrebbero evitare”; Trib. Milano 23 ottobre 2013, inedita. L’orientamento qui brevemente ricordato - definito da parte della dottrina formalista o rigoroso - è stato ritenuto conforme ai principi costituzionali da Corte cost. 18 aprile 2012, n. 111, in Ass., 2012, 516; in Resp. civ. prev., 2013, 79, con nota di Bugiolacchi, Art. 148 cod. ass. e conseguenze sulla proponibilità della domanda dopo la Consulta: forma e sostanza nella tutela del danneggiato; in Giur. it., 2013, 609, con commento di Carretto; in Dir. fisc. ass., 2013, 399, con nota di Martini, La legittimità costituzionale degli oneri di allegazione del danneggiato ex art. 145 e 148 Codice delle Assicurazioni: la Consulta, infatti, individua “un nesso funzionale che lega le prescrizioni formali, a carico del richiedente, all’offerta congrua che, sulla base della richiesta così formulata, è fatto obbligo all’assicuratore di presentare al danneggiato … le formalità di cui all’art. 148 cod. ass. non sono volte ad avvantaggiare l’impresa assicuratrice del responsabile nei confronti del danneggiato, bensì al contrario a realizzare una più tempestiva ed efficace tutela di quest’ultimo”. Cfr. in dottrina, su tutti, Mariotti, Lesioni con danni micropermanenti. Il risarcimento, i nuovi obblighi per offerte, le liquidazioni dei danni, Milano, 2001, 8; Toninelli, Ancora sull’onere del danneggiato di cooperare all’accertamento del danno, e sulle conseguenze di tale inadempimento, in Arch. giur. circ. sin., 2002, 813; Hazan-Zorzit, Ancora sulla condizione di proponibilità dell’azione diretta nei confronti dell’istituto assicuratore: disarmonie di sistema e dubbi forse risolti, in Giud. pace, 2005, 50; Rossetti, L’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’impresa assicuratrice per la r.c.a. e di altri soggetti legittimati. La procedura stragiudiziale per la liquidazione dell’indennizzo, in Ass., 2007, 437; Zardo, La richiesta di risarcimento danni nell’assicurazione r.c.a., ivi, 2008, 417; Losco, Ancora sui doveri di collaborazione del danneggiato in materia di assicurazione di responsabilità civile e risarcimento del danno, ivi, 2014, 50; Zardo, Le modifiche normative sinora intervenute sugli artt. 148-149 cod. ass., ivi, 2014, specialmente 73-81. (27) Così, con ampiezza di argomenti, il giudice di primo grado nel caso esaminato dal Tribunale: Giud. pace Milano 5 dicembre 2011, n. 118004. In senso pienamente conforme Giud. pace Milano 23 marzo 2011, n. 105521; Giud. pace Milano 17 ottobre 2013, n. 112488, inedita. Le affermazioni del giudice onorario appaiono pienamente condivise dal magistrato d’appello in commento: “il Giudice di Pace ha argomentato che si pone in contrasto con le finalità perseguite dal legislatore e poste alla base della normativa specifica oltre che con le norme del principio di correttezza e buona fede la condotta del danneggiato che, come nel caso di specie, ha operato, in relazione alle richieste risarcitorie nascenti dallo stesso sinistro, due cessioni di credito, una avente ad oggetto i costi delle riparazioni che è stata definita con il pagamento … e l’altra avente ad oggetto il credito risarcitorio relativo al noleggio della autovettura sostitutiva”: cfr. supra il testo della pronuncia in epigrafe. 894 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Abuso del diritto È evidente, quindi, come il carattere strutturalmente unitario del diritto al risarcimento del danno, che sta alla base del giudicato in analisi, sia destinato ad esplicare i suoi effetti non soltanto in relazione all’aspetto sostanziale dell’illegittimità del frazionamento del credito risarcitorio, ma anche a quelli di natura più squisitamente procedurale, in applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 145, 148 e 149 c. ass. Un approccio interpretativo - quest’ultimo - che può dirsi tanto coraggioso dal punto di vista ermeneutico (28), quanto coerente e condivisibile, soprattutto alla luce del recente orientamento assunto dalla Suprema Corte con la sent. n. 11154/2015 (29). In quel caso il soggetto danneggiato richiedeva il rimborso delle spese di assistenza legale sostenute per la coltivazione delle trattative con l’assicuratore tenuto alla liquidazione dei danni. Era emerso in sede di merito - che nella formale richiesta risarcitoria ex art. 145 c. ass. non era stata formulata esplicita domanda di ripetizione di tale voce di spesa, che la compagnia assicuratrice solvente aveva quindi omesso di pagare. Nel valorizzare i requisiti contenutistici della messa in mora nel settore r.c. auto, i giudici di legittimità rilevano che “se tale richiesta non contenga tutte le voci di danno, ma ne escluda alcuna, la domanda è improponibile limitatamente a tale voce esclusa dalla richiesta”. Infatti “non è l’assicuratore tenuto a compulsare il danneggiato in merito ad eventuali spese legali stragiudiziali necessarie nel caso concreto, ma deve essere questi che ne faccia richiesta ex art. 145 c. ass.” (30). Rapportando il dictum della Cassazione all’ipotesi affrontata dal Tribunale ambrosiano, è palese il parallelismo tra la mancata specificazione nella messa in mora relativamente alle spese legali stragiudiziali e l’omessa richiesta risarcitoria del costo per il noleggio di una vettura sostitutiva, di cui non era stata fatta alcuna menzione nella prima richiesta risarcitoria. (28) A tale proposito, seppur negli effetti la decisione riferita appaia pienamente coerente con lo spirito e la ratio della novella, sul piano dogmatico sembra claudicante e necessita di maggiori approfondimenti. Infatti, nel caso esaminato dal magistrato milanese, sarebbe semmai la prima richiesta risarcitoria ad essere incompleta (poiché non faceva espressa menzione della voce inerente al nolo), e non la seconda. Quest’ultima, secondo una lettura criticamente più rigorosa, ben poteva dirsi formalmente completa, ancorché fondante una richiesta risarcitoria illegittimamente frazionata per scopi non meritevoli di tutela giuridica. (29) Cass. 29 maggio 2015, n. 11154, in Arch. giur. circ. sin., 2015, 696; e in Foro it., 2015, I, 3624. In senso conforme, quanto ai principi espressi, Cass. civ. 19 febbraio 2016, n. 3266, inedita. (30) Cfr. il testo di Cass. 29 maggio 2015, n. 11154 cit. (31) È noto come nell’ordinamento italiano, similmente a quello francese dove pure sono sorti i primi studi sull’abuso del diritto ad opera della scuola dell’Esegesi, non esista una norma giuridica che disciplini in via generale le pratiche abusive, costringendo l’interprete a costruire la categoria dell’abuso avvalendosi di principi generali sanciti dalla legge, quali la buona fede e correttezza, il principio di socialità, il concetto di elusione e frode alla legge, il principio di ragionevolezza. In ciò si evidenzia una sensibile differenza con altri ordinamenti, i quali al contrario accolgono a livello normativo la figura dell’abuso del diritto: in Portogallo (art. 334 c.c. del 1966); in Spagna (art. 7, comma 2, c.c. inserito nel 1974); nei Paesi Bassi (art. 13 c.c.); in Grecia (art. 248 c.c.); su tutti esemplare l’art. 2 cod. civ. svizzero per cui “il manifesto abuso del proprio diritto non è protetto dalla legge”. (32) In termini Gentili, L’abuso del diritto come argomento, in Riv. dir. civ., 2012, 297; Id., Abuso del diritto e uso dell’argomentazione, in Resp. civ. prev., 2010, 345 (in nota alla celebre Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, che ha ridisegnato i contorni della figura dell’abuso del diritto). (33) Sul legame tra concetto di abuso del diritto e divieto di atti emulativi al solo scopo di recare danno a terzi ex art. 833 c.c. insiste copiosa dottrina. Si rinvia ai contributi più chiari e autorevoli: Groppali, Atto emulativo, abuso del diritto, sviamento di potere e abuso di potere, in Riv. dir. priv., 1940, I, 23; Mazzoni, Atti emulativi, utilità sociale e abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1969, 601; Ruffolo, Atti emulativi, abuso del diritto e “interesse” nel diritto, in Riv. dir. civ., 1973, 23; da ultimo Caringella, L’atto emulativo e l’abuso del diritto, in Studi di diritto civile, Milano, 2005, II, 1975 ss. Danno e responsabilità 8-9/2016 Conclusioni: uso (non abuso) della cessione del credito La lettura delle pronunce in commento suscita considerazioni di non poco momento. I magistrati milanesi hanno inteso sindacare con rigore la prassi di cedere parzialmente plurime voci di danno costituenti il credito risarcitorio, che osta indubbiamente ad una pacifica, bonaria e (soprattutto) sicura definizione della pratica liquidativa dei danni derivanti dagli incidenti stradali. Nel fare ciò, essi hanno incentrato il proprio percorso motivazionale sulla figura dell’abuso del diritto e dello strumento processuale. Questa posizione appare, a ben vedere, tutt’altro che isolata. La categoria dogmatica dell’abuso del diritto è contigua, per non dire complementare, a quella dell’abuso del processo: infatti, se da un lato essa non ha ancora effettiva residenza in alcuna norma di legge (31), dall’altro lato viene considerata sempre più utile argomento (32) per il ragionare del giudice in sede decisionale. Ciò, del resto, non è affatto casuale: sdoganato dal settore del divieto degli atti emulativi, ove pure ha tratto per lungo tempo linfa vitale (33), l’abuso del 895 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Abuso del diritto diritto e del processo sembra attualmente affermarsi nel diritto vivente con energia sempre maggiore (34), condizionando l’operato delle parti in innumerevoli relazioni giuridiche intersoggettive, di natura contrattuale o legale che siano. Così è accaduto, in particolar modo, per il divieto di illegittima parcellizzazione del credito, che (nel suo impiego sinergico con il negozio di cessione) ha costituito il principale argomento di analisi da parte dei giudici de quibus. In questa prospettiva l’abuso del diritto pare inevitabilmente destinato a giocare un ruolo essenziale proprio nel caso della cessione seriale dei crediti risarcitori, derivanti specialmente da incidenti stradali: complice la crisi economica, infatti, si è progressivamente formata una fitta rete di imprese e professionisti operanti nel settore (carrozzieri, società di rent, medici, avvocati e patrocinatori) che impiegano in modo seriale frazionamento e cessione dei crediti per incrementare la propria clientela ed i relativi ricavi, prospettando i servizi offerti come “gratuiti” (35) a fronte della semplice sottoscrizione di un contratto di cessione di una frazione del credito risarcitorio (36). Nell’esaminare il costante sviluppo di questa proliferazione dei contratti di cessione assumono un sapore quasi profetico le parole di Pietro Rescigno, che già in anni lontani e non sospetti rilevava acutamente: “il creditore, in virtù di una norma vigen- te in tutti i sistemi (nel nostro codice civile dettata all’art. 1260), può cedere ad un terzo il credito che gli spetta contro il debitore. A costui, si dice, è indifferente pagare ad una persona piuttosto che a un’altra. Ma l’esercizio di questo diritto (la cessione del credito) deve ammettersi senza limiti, e senza considerare l’aggravio che può risultare al debitore?” (37). Ebbene, l’aggravio che deriva (non solo al debitore ceduto, ma anche al sistema giudiziario) dallo sfruttamento intensivo e seriale di siffatto strumento negoziale appare particolarmente evidente proprio nel settore dei danni r.c. auto. In primo luogo, nei confronti dei debitori ceduti, ovvero le compagnie assicuratrici tenute ex lege alla liquidazione dei danni. Accantonare riserve nell’attesa di ricevere per ogni posizione di sinistro future ed imprevedibili istanze risarcitorie da parte di questo o quel cessionario equivale - quantomeno entro il limite prescrizionale di cui all’art. 2947, comma 2, c.c. - a una importante perdita economica su vasta scala. Non è un caso, peraltro, che svariati istituti assicurativi abbiano recentemente introdotto nelle proprie polizze, sulla scorta della previsione di cui all’art. 1260, comma 2, c.c., una clausola comportante il divieto di cessione del credito risarcitorio a terzi (38). Moltiplicare le spese di lite prodotte da questa proliferazione di contenzioso significa, inoltre, gravare il costo dei sinistri, (34) Dossetti, Orientamenti giurisprudenziali in tema di abuso del diritto, in Giur. it., 1969, 1573; Pino, L’abuso del diritto tra teoria e dogmatica, in Eguaglianza, ragionevolezza e logica giuridica, Milano, 2006, 115 ss.; Martines, Teorie e prassi sull’abuso del diritto, Padova, 2006, passim; Falco, La buona fede e l’abuso del diritto. Principi, fattispecie e casistica, Milano, 2010, 377 ss. Utile a tale riguardo la lettura del recente contributo di Ghirga, Recenti sviluppi giurisprudenziali e normativi in tema di abuso del processo, in Riv. dir. proc., 2015, 445 ss. Sia concesso, infine, il rinvio a Argine, Il fenomeno del frazionamento quale manifestazione abusiva del diritto, in Foro pad., 2015, 17 ss. (35) Non a caso, peraltro, sulla base della prospettata natura gratuita e dell’indeterminatezza della prestazione al momento della sottoscrizione del contratto, parte della giurisprudenza adita sull’argomento ha qualificato il meccanismo negoziale incentrato sulla cessione del credito risarcitorio alla stregua di una donazione di bene futuro, nulla a mente dell’art. 771 c.c.: il cedente, infatti, “lungi dal dimostrare alcuna necessità, ha semplicemente accettato la donazione consistente nell’uso di una vettura sostitutiva, senza neppure averla sollecitata e quindi senza che esistesse il di lui credito verso il danneggiante e la di lui compagnia assicuratrice” (così Giud. pace Milano 15 marzo 2010, n. 6162 cit.; in senso sostanzialmente conforme già Giud. pace Pescara 21 giugno 2007, n. 857, in Arch. giur. circ. sin., 2008, 763). (36) Una condotta, quella di prospettare al danneggiato il meccanismo della cessione del credito risarcitorio, figlia (non unica) della crisi: cfr. Bussani, La responsabilità civile al tempo della crisi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 567-581. Per quanto di nostro interesse, essa non manca di essere analizzata da attenti magistrati, i quali hanno sostenuto come “l’interpretazio- ne dell’istituto vada riveduta e corretta, alla luce della proliferazione abnorme del contenzioso avente ad oggetto la cessione del credito … elevato pressoché a sistema generale e patologico di contenuto chiaramente speculativo, che confligge sotto molteplici profili con l’ordinamento giuridico dello Stato” (così Giud. pace Milano 4 novembre 2011, n. 116382; nel senso di affermare una pratica abusiva legata alle cessioni parziali di crediti risarcitori, in diversi e più pacati termini, cfr. altresì Giud. pace Milano 1° marzo 2011, n. 3914; Giud. pace Milano 27 maggio 2011, n. 108871). (37) Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, 208. L’interrogativo dell’insigne giurista era sorto esaminando una prassi particolarmente diffusa nell’ordinamento tedesco in relazione all’abitudine di molti lavoratori di cedere a terzi il credito alla retribuzione, costringendo il datore di lavoro ad organizzare, con aggravio di spese a proprio carico, un apposito ufficio di contabilità interna che gestisse su vasta scala i pagamenti relativi alle cessioni: questa prassi viene sindacata in una nota sentenza del Bundesgericht del 20 dicembre 1956, analizzata anche dalla dottrina italiana dell’epoca in Bianca, Il debitore e i mutamenti del destinatario del pagamento, Milano, 1963, 313, che rinviene in tal senso una insufficiente tutela giuridica del debitore ceduto. (38) Si pensi, a solo titolo esemplificativo, alla clausola contrattuale comportante il divieto di cessione del credito applicata da Vittoria Assicurazioni nei confronti dei propri assicurati per la gestione delle pratiche liquidative nell’ambito dell’azione di risarcimento diretto ex art. 149 c. ass. La clausola in menzione è stata ritenuta non vessatoria da parte dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato con provvedimento n. 24268/2013 (pubblicato in Dir. fisc. ass., 2013, 205-209). Nel 896 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Abuso del diritto con inevitabili riflessi sull’entità dei premi e quindi con sicuro pregiudizio per la massa degli assicurati r.c. auto. Ecco allora che “il diritto del singolo durante l’esercizio può trovare ostacolo nell’eguale o simile diritto di uno o più altri consociati. L’esercizio del diritto non deve mai nuocere ad altri. La società esige questo temperamento nella affermazione del diritto come facoltà di agire riconosciuta dalla legge. All’ombra di un mezzo lecito potrebbero commettersi i più deplorabili atti lesivi dell’ordine e del tranquillo vivere civile” (39). In proposito si è recentemente e ripetutamente espressa la stessa Consulta, laddove - con riferimento al disposto di cui all’art. 139, comma 2, ultima parte del D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209 - ha osservato che “in un sistema, come quello vigente, di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata, in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici, l’interesse risarcitorio partico- lare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi” (40). In secondo luogo, nei confronti della collettività. Disarticolare il credito risarcitorio in una serie indefinita di frazioni, cedendole in tutto o in parte a terzi, significa infatti provocare un’indebita moltiplicazione del contenzioso giudiziario, a volte per somme di denaro davvero assai modeste, che grava poi sul lavoro delle Corti e dei Tribunali, contribuendo ad allungare i tempi dell’amministrazione della giustizia, con sicuro pregiudizio per il servizio offerto ai cittadini. Le pronunce in commento - prendendo atto di ciò - rappresentano indubbiamente dei precedenti quanto mai utili ad evitare che l’impiego su vasta scala di condotte opportunistiche vadano a gravare in maniera significativa, ad un tempo, sui singoli debitori, sulla massa degli assicurati r.c. auto e sulla collettività. provvedimento si legge: “La ratio della disposizione contrattuale, secondo Vittoria, risiede nella necessità di arginare comportamenti opportunistici e fraudolenti da parte delle autofficine o dei riparatori non convenzionati con la compagnia che, divenuti titolari (cessionari) del diritto al risarcimento loro ceduto dall’assicurato, possono incrementare l’ammontare del quantum spettante per il danno subito dal veicolo, tra l’altro, aggiungendo altre voci di costo (es. spese legali, danno da fermo tecnico, auto sostitutiva) che l’assicuratore è tenuto a risarcire, con conseguente pregiudizio economico per l’impresa di assicurazioni e recupero - in termini di aumento - dei maggiori costi con l’aumento del premio delle polizze per gli assicurati”. Ebbene, i casi affrontati dai giudici milanesi in commento appaiono del tutto analoghi a quanto prospettato dalla compagnia assicuratrice citata. (39) Così, in uno dei primi scritti che la dottrina italiana ricordi in materia di abuso del diritto, Noto Sardegna, L’abuso del diritto, Palermo, 1907, 9. (40) In termini Corte cost. 16 ottobre 2014, n. 235, in Foro it., 2014, I, 3345, con note di Palmieri - Cuocci; in Resp. civ. prev., 2014, 1826, con note di Scognamiglio, Il danno da micropermanenti: la giurisprudenza della Corte costituzionale, la funzione della responsabilità civile ed una condivisibile concretizzazione del principio di irrisarcibilità del danno non eccedente il livello della tollerabilità e di Ziviz, Prima furon le cose, e poi i nomi; in Arch. giur. circ. sin., 2014, 979; in Guida dir., 2014, 44, 14, con nota di Martini; in Giur. cost., 2014, 3805, con nota di Gagliardi, Legittimo l’art. 139 cod. ass. per la liquidazione dei danni alla persona di lieve entità. Il valore del sistema r.c. auto ed il rischio di non chiarire quale sia; in Europa e dir. privato, 2014, 1389, con nota di Guffanti Pesenti, La Corte costituzionale e l’inedita funzione sociale del diritto alla salute; in Riv. it. medicina legale, 2015, 295, con nota di Parziale; in senso conforme Corte cost. 21 ottobre 2015, n. 242, in www.ridare.it. Danno e responsabilità 8-9/2016 897 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi Osservatorio di legittimità a cura di Antonella Batà e Angelo Spirito RISARCIMENTO DEL DANNO PERDITA DELLA CAPACITÀ DI GUADAGNO Cassazione Civile, Sez. III, 4 maggio 2016, n. 8896 Pres. Armano - Est. Rossetti Il danno da perdita della capacità di guadagno va liquidato sulla base del reddito da lavoro, nel caso in cui la vittima svolga effettivamente un lavoro. Mentre, la base di calcolo è il triplo della pensione sociale nell’ipotesi in cui la vittima non abbia un reddito da lavoro. Il caso La vittima di un incidente stradale si vede liquidare dal giudice di merito il danno da perdita della capacità di guadagno sulla base del reddito più alto da lui percepito nei tre anni precedenti il sinistro, ai sensi dell’art. 137, comma 1, cod. ass. Propone ricorso per cassazione, sostenendo che il danno da riduzione della capacità di guadagno debba essere liquidato in base al triplo della pensione sociale (oggi “assegno sociale”) tutte le volte che il danneggiato abbia un reddito a questa inferiore. La decisione La sentenza in commento rigetta la tesi del ricorrente, spiegando che si tratta di una interpretazione inammissibile, che trasformerebbe il risarcimento in un indennizzo. Infatti, il sistema previsto dall’art. 137 cod. ass. alla luce della costante giurisprudenza, si compendia nelle tre seguenti possibilità: (a) se la vittima ha un reddito da lavoro, è quest’ultimo che va posto a base del calcolo; (b) se la vittima non ha un reddito da lavoro, è il triplo della pensione sociale che va posto a base del calcolo; (c) se la vittima ha un reddito da lavoro saltuario, è il triplo della pensione sociale che va posto a base del calcolo. In questo caso ricorre l’ipotesi sub (a), sicché correttamente il giudice del merito ha liquidato il danno in base al reddito effettivo della vittima. La conclusione non è inficiata dal solo fatto che la vittima, essendo un lavoratore ancor giovane, avrebbe potuto legittimamente attendersi, se fosse rimasta sana, un incremento del reddito de die in diem. La circostanza che il reddito goduto dalla vittima al momento dell’infortunio sarebbe potuto aumentare in futuro, se non si fosse verificato il sinistro, va infatti tenuta presente dal giudice al momento della liquidazione del danno, opportunamente aumentando il reddito da porre a base del calcolo. La suddetta circostanza, quindi potrebbe giustificare un aumento equitativo del reddito reale da porre a base della liquidazione, ma non la pretesa che questa avvenga sulla base del triplo della pensione sociale. I precedenti Per il costante principio secondo cui la circostanza che il reddito goduto dalla vittima al momento dell’infortunio sarebbe potuto aumentare in futuro, se non si fosse verificato 898 il sinistro, va tenuta presente dal giudice al momento della liquidazione del danno, opportunamente aumentando il reddito da porre a base del calcolo, cfr. Cass. 6 ottobre 1994, n. 8177, secondo cui, nella liquidazione del danno futuro per la morte di un congiunto che con certezza o con rilevante grado di probabilità avrebbe continuato ad elargire ai superstiti durevoli e costanti sovvenzioni, il giudice deve tenere conto non solo del reddito della vittima al momento del sinistro, ma anche dei probabili incrementi di guadagno dovuti, per gli impiegati, ad eventuali immissioni in ruolo, allo sviluppo della carriera ed ad altri consimili eventi che con prudente apprezzamento e sulla base dell’“id quod plerumque accidit” si sarebbero verificati. La dottrina S. Viciani, Il danno potenziale ovvero patrimoniale futuro, in Giust. civ., 2012, II, 69. RESPONSABILITÀ CIVILE RESPONSABILITÀ DEI MAESTRI E PRECETTORI Cassazione Civile, Sez. III, 9 maggio 2016, n. 9337 Pres. Salvago - Est. Valitutti In tema di responsabilità civile dei maestri e dei precettori, il superamento della presunzione di responsabilità gravante, ex art. 2048 c.c., sull’insegnante per il fatto illecito dell’allievo, postula la dimostrazione di non essere stato in grado di spiegare un intervento correttivo o repressivo dopo l’inizio della serie causale sfociante nella produzione del danno, e di aver adottato, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione di pericolo favorevole al determinarsi di quella serie, commisurate all’età ed al grado di maturazione raggiunto dagli allievi in relazione alle circostanze del caso concreto, dovendo la sorveglianza dei minori essere tanto più efficace e continuativa in quanto si tratti di fanciulli in tenera età, sicché, con riguardo ad uno stato dei luoghi connotato dalla presenza di un manufatto in grado di ostacolare la piena e totale visibilità dello spazio da controllare, non costituiscono idonee misure organizzative la mera presenza delle insegnanti in loco, se non disposte in prossimità del manufatto stesso, e l’avere le medesime impartito agli alunni la generica raccomandazione “di non correre troppo durante la ricreazione” senza l’adozione di interventi correttivi immediati, diretti a prevenire e ad evitare il verificarsi di eventi dannosi. Il caso Una bambina della prima elementare, durante l’ora di ricreazione, è investita da un ragazzo di quarta elementare che, sbucando di corsa, inseguito da un altro ragazzo di quinta, da dietro un muretto, la travolge. La piccola cade e si procura lesioni. I suoi genitori citano in giudizio risarcitorio l’istituto scolastico, che viene assolto dal giudice di merito per avere offerto la prova liberatoria, ai sensi dell’art. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi 2048, comma 3, c.c. in ordine all’imprevedibilità dell’evento lesivo in questione ed alla concreta adozione, da parte della scuola, di misure organizzative e disciplinari idonee a prevenire l’insorgenza di situazioni di pericolo per l’incolumità degli allievi. I genitori della piccola vittima propongono ricorso per cassazione, sostenendo che la sorveglianza esercitata dalle insegnanti non era adeguata, in relazione al luogo (cortile interno alla scuola connotato dalla presenza di un muretto), al momento (ricreazione) nel quale l’incidente ebbe a verificarsi, nonché alla diversa fascia di età degli alunni appartenenti alle diverse classi che si trovavano insieme nel medesimo cortile. La decisione La sentenza in commento accoglie il ricorso, spiegando che la fattispecie in esame deve essere inquadrata nel disposto dell’art. 2048 c.c., trattandosi di danno cagionato ad un terzo dal fatto illecito dell’allievo. Orbene, in tema di responsabilità civile dei maestri e dei precettori, per superare la presunzione di responsabilità che, ex art. 2048 c.c., grava sull’insegnante per il fatto illecito dell’allievo, non è sufficiente la sola dimostrazione di non essere stato in grado di spiegare un intervento correttivo o repressivo, dopo l’inizio della serie causale sfociante nella produzione del danno, ma è necessario anche dimostrare di aver adottato, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione di pericolo favorevole al determinarsi di detta serie causale. Tali misure vanno, peraltro, commisurate all’età ed al grado di maturazione raggiunto dagli allievi in relazione alle circostanze del caso concreto, essendo del tutto evidente che la sorveglianza dei minori dovrà essere tanto più efficace e continuativa in quanto si tratti di fanciulli in tenera età. Tanto premesso, i giudici di legittimità spiegano che nel giudizio del merito non è stata fatta corretta applicazione di questi principi, laddove, dopo avere ritenuto del tutto prevedibile e “normale” che, nel corso della ricreazione, i ragazzi possano giocare rincorrendosi, è stato poi considerato sufficiente il mero fatto della presenza in loco delle insegnanti (una per classe), nonché la circostanza che queste avessero più volte raccomandato agli alunni “di non correre troppo”. La decisione di appello ha, inoltre, valorizzato, del pari in maniera non convincente, ai fini di pervenire alla conclusione che l’evento dannoso non poteva essere impedito dalle insegnanti, ai sensi dell’art. 2048, comma 3, c.c. la circostanza in sé, costituita dal fatto che l’incidente si fosse verificato in modo improvviso e repentino, tale da non poter essere in alcun modo previsto e dunque materialmente impedito, senza porla in alcun modo in relazione alle altre circostanze emerse dagli atti processuali. Siffatto modus operandi del giudice di seconde cure - per quanto concerne la pretesa imprevedibilità ed inevitabilità dell’evento - non gli ha, peraltro, consentito di dare il giusto rilievo, ai fini dell’accertamento della sussistenza di una adeguata prova liberatoria da parte della scuola, al fatto, pure riportato dallo stesso giudicante, che il ragazzo investitore era sbucato correndo velocemente, inseguito da un altro ragazzo di quinta, da dietro un muretto ubicato nel cortile nel quale si stava svolgendo la ricreazione. Tale circostanza evidenzia, invero, senza ombra di dubbio, che nonostante la presenza delle insegnanti e di un’operatrice scolastica - la situazione all’interno del cortile della scuola era tutt’altro che sotto controllo. Ed è evidente che, in presenza di un volgere di eventi di tal fatta, il rischio che qual- Danno e responsabilità 8-9/2016 cuno dei bambini - soprattutto se più piccolo e fragile, come gli alunni di prima - potesse restare travolto dai più grandi, costituiva un fatto tutt’altro che imprevedibile. I precedenti Sul tema, cfr. la fondamentale Cass. SU n. 9346 del 2002. In conformità al principio espresso dalla sentenza impugnata, cfr. Cass. n. 6937 del 1993; n. 12424 del 1998; n. 2272 del 2005. La dottrina V. Vozza, La responsabilità degli insegnanti: prova liberatoria e misure disciplinari, in questa Rivista 2016, 131. F. Piaia, La responsabilità per condotta auto lesiva dell’allievo: tra risarcimento del danno e onere della prova, in questa Rivista, 2016, 271. RESPONSABILITÀ DEL NOTAIO Cassazione Civile, Sez. II, 11 maggio 2016, n. 9660 Pres. Bucciante - Est. Scarpa Il notaio che inserisca, nella redazione dell’atto pubblico di trasferimento immobiliare, la dichiarazione della parte venditrice, accettata dall’acquirente, di estinzione del debito garantito da ipoteca sull’immobile, con impegno a provvedere alla cancellazione di quest’ultima a propria cura e spese, non risponde per la mancata veridicità della dichiarazione, poiché non è tenuto ad alcuna attività accertativa a fronte di un’espressione del potere valutativo del contraente, al quale solo spetta apprezzare il rischio di quella operazione negoziale. Il caso Due coniugi acquistano un appartamento mediante atto pubblico, pagandone il relativo prezzo. Nell’atto è scritto che il bene è gravato d’ipoteca a favore di una banca e che il venditore avrebbe provveduto all’estinzione dell’ipoteca a sue spese, nei tempi strettamente necessari all’adempimento. Dopo sette anni dall’acquisto i coniugi apprendono che l’immobile è ancora gravato d’ipoteca e che l’esposizione debitoria ammonta ad una consistente somma di danaro. Ne consegue precetto e pignoramento. Allora, gli acquirenti citano in giudizio il notaio rogante per il risarcimento del danno. Il professionista contesta che nell’atto erano ben indicati sia l’esistenza dell’ipoteca, sia l’impegno del venditore ad estinguerla a sue cure e spese e che, semmai, era verso quest’ultimo che doveva essere rivolta la domanda risarcitoria. Il primo giudice condanna il notaio per negligente esecuzione dell’incarico professionale svolto, sotto il profilo di un omesso dovere d’informazione e di dissuasione. Il giudice d’appello l’assolve, essendo stata indicata nell’atto stesso l’esistenza dell’ipoteca, e non risultando nel rogito formule recanti connotati di ingannevolezza o scarsa chiarezza. Propongono ricorso per cassazione i coniugi acquirenti, insistendo intorno alla tesi della negligenza professionale. La decisione La sentenza impugnata respinge il ricorso, spiegando che il notaio richiesto della redazione di un atto pubblico di trasferimento immobiliare ha certamente l’obbligo di compiere le attività preparatorie e successive necessarie per il conseguimento del risultato voluto dalle parti e, in particolare, è tenuto ad effettuare le visure catastali e ipotecarie, la cui eventuale omissione è fonte di responsabilità per violazione della diligenza qualificata di cui all’art. 1176, com- 899 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi ma 2, c.c. Il notaio che ometta di accertarsi dell’esistenza di iscrizioni ipotecarie pregiudizievoli sull’immobile, risponde, perciò, del danno patito dall’acquirente, a nulla rilevando se sia configurabile anche una responsabilità del venditore che abbia garantito la libertà del bene da ipoteca, vincoli o pesi di altra natura. L’opera professionale di cui è richiesto il notaio non si riduce, perciò, al mero compito di accertamento della volontà delle parti e di direzione nella compilazione dell’atto, ma si estende ad ogni attività volta ad assicurare la serietà e la certezza degli effetti tipici dell’atto e del risultato pratico perseguito dalle parti; pertanto, il notaio che abbia la conoscenza o anche il solo sospetto di un’iscrizione pregiudizievole gravante sull’immobile oggetto della compravendita, deve informarne le parti, quando anche egli sia stato esonerato dalle visure. Nel caso in esame, tuttavia, il giudice del merito ha convincentemente negato la responsabilità professionale del notaio nei confronti degli acquirenti, avendo egli inserito nel rogito una clausola che asseverava l’esistenza di un’ipoteca gravante sull’immobile venduto e recava l’assunzione da parte del venditore dell’obbligo di procedere alla cancellazione della garanzia “nei tempi tecnici necessari”. Il compratore non può pretendere di riversare sul notaio rogante le conseguenze dell’inadempimento del venditore rispetto all’obbligo assunto di procedere alla cancellazione dell’ipoteca pregiudizievole esistente sul bene e verificata dal notaio stesso. Né può sostenersi che l’obbligo per il notaio di dissuasione del cliente dalla stipula dell’atto sussista non soltanto nell’ipotesi di constatazione della presenza di iscrizioni pregiudizievoli, ma anche nel senso di indurre il compratore a non confidare nell’adempimento del venditore rispetto agli impegni presi di estinguere tali iscrizioni: il cd. “dovere di consiglio”, deontologicamente imposto al notaio, investe solo le conseguenze giuridiche della prestazione a lui richiesta, e non pure le circostanze di fatto dell’affare concluso, tra le quali rientrano i rischi economici dello stesso, la cui valutazione è rimessa in via esclusiva al prudente apprezzamento delle parti. In definitiva, l’inadempimento del venditore all’obbligo di provvedere alla cancellazione di un’ipoteca iscritta sull’immobile alienato a garanzia di un mutuo e portata a conoscenza dell’acquirente, obbligo assunto nell’atto di compravendita dai contraenti nell’ambito della loro autonomia negoziale, non comporta affatto l’inadempimento dell’obbligazione assunta dal notaio rogante di verificare le iscrizioni ipotecarie relative all’immobile compravenduto, risultato poi tuttora gravato da ipoteca e sottoposto a procedura esecutiva. I precedenti Il principio di cui in massima trova il suo recente predente in Cass. 27 ottobre 2015, n. 21792. Quanto al mancato accertamento di iscrizioni pregiudizievoli, cfr. Cass. 19 giugno 2013, n. 15305. Sul “dovere di consiglio” imposto al notaio, cfr. Cass. 5 giugno 2015, n. 11665. La dottrina Tra le più recenti pubblicazioni in argomento, cfr. G. Musolino, Responsabilità del notaio. Ritardo nella trascrizione giustificato dall’attesa della liquidità dell’assegno del cliente, in Riv. not. 2016, II, 76. E. Bucciante, Notaio, responsabilità professionale, visure ipocatastali, omissione o negligente compimento, in Foro it., 2015, I, 1018. 900 RISARCIMENTO DEL DANNO VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI AVVIAMENTO Cassazione Civile, Sez. II, 12 maggio 2016, n. 9758 Pres. Napoletano - Est. Boghetich Il datore di lavoro, inadempiente all’obbligo di assunzione del lavoratore avviato ai sensi della L. n. 482 del 1968, è tenuto, per responsabilità contrattuale, a risarcire l’intero pregiudizio patrimoniale che il lavoratore ha consequenzialmente subito durante tutto il periodo in cui si è protratta l’inadempienza del datore di lavoro medesimo. Il caso Un lavoratore, premesso di aver ottenuto, da parte del Consiglio di Stato, l’annullamento dell’atto di avviamento dell’Ufficio di collocamento che lo aveva pretermesso per una assunzione presso l’Enel con contratto di formazione e lavoro, propone azione risarcitoria per il periodo 1987 2002 (data di avviamento al lavoro presso l’Enel). I giudici del merito condannano il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali al pagamento dei danni liquidati equitativamente, tenendo conto della cd. perdita di chance. Propone ricorso per cassazione il Ministero deducendo la mancata allegazione, da parte del lavoratore, di uno stato di disoccupazione protratto per il periodo in atti (19872002), elemento necessario per consentire la liquidazione del danno patrimoniale e, prima ancora, per far sorgere l’onere di specifica contestazione della controparte, anche a fronte della circostanza (emersa da una verifica previdenziale) dello svolgimento di lavoro subordinato da parte del lavoratore per altre aziende sin dal 1990. Aggiunge pure che, non essendo previsto alcun obbligo a carico del datore di lavoro, alla scadenza del termine del contratto, di stipulare un contratto a tempo indeterminato e mancando ogni motivazione circa la “rilevante” probabilità dell’interessato di trasformare il contratto di formazione e lavoro in rapporto a tempo indeterminato e, di conseguenza, non potendosi valutare alcuna perdita di chance in relazione alla suddetta opportunità. La decisione La sentenza in commento respinge il ricorso del Ministero spiegando che il datore di lavoro, inadempiente all’obbligo di assunzione del lavoratore avviato ai sensi della L. n. 482 del 1968, (ma il principio è analogamente applicabile alla controversia che ci occupa), è tenuto, per responsabilità contrattuale, a risarcire l’intero pregiudizio patrimoniale che il lavoratore ha consequenzialmente subito durante tutto il periodo in cui si è protratta l’inadempienza del datore di lavoro medesimo; pregiudizio che può essere in concreto determinato, senza bisogno di una specifica prova del lavoratore, sulla base del complesso delle utilità (salari e stipendi) che il lavoratore avrebbe potuto conseguire, ove tempestivamente assunto, mentre spetta al datore di lavoro provare l’aliunde perceptum, oppure la negligenza del lavoratore nel cercare altra proficua occupazione. Nella specie la Corte di legittimità osserva che il giudice del merito, dopo aver rilevato la formazione del giudicato interno con riguardo alla sussistenza di un “vero e proprio diritto soggettivo all’avviamento in esecuzione della richiesta effettuata dall’Enel”, ha evidenziato che i lavoratori illegittimamente avviati nel 1987 al posto dell’interessato hanno Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi stipulato un contratto di formazione e lavoro e, alla scadenza, sono stati tutti assunti con rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Il giudice di merito, pertanto, traendo l’inferenza presuntiva dagli elementi raccolti, ha fatto corretta applicazione dei principi innanzi richiamati, ritenendo che “l’aspettativa dell’interessato, che era utilmente collocato nella graduatoria in vigore al momento della richiesta dell’imprenditore, di essere avviato al lavoro presso l’Enel con un contratto di formazione e lavoro fosse concreta”. 488 del 2009; n. 2402 del 2004; n. 1085 del 1994; n. 10851 del 1990; n. 5793 del 1990; n. 2465 del 1988; n. 5262 del 1987. La dottrina M. Bellina, Mancata assunzione e responsabilità precontrattuale, in Dir. prat. trib. 2012, 873. S. Assennato, Quando il collocamento sbaglia mira: sulla risarcibilità del danno da mancata assunzione di soggetti obbligatoriamente avviati, in Riv. giur. lav., 2012, II, 487. I precedenti Sul pregiudizio derivante dalla violazione dell’obbligo d’assunzione del lavoratore avviato, cfr., tra le altre, Cass. n. Danno e responsabilità 8-9/2016 901 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi Osservatorio di merito a cura di Paolo L. Carbone (*) PROMESSA DI MATRIMONIO ROTTURA DEL FIDANZAMENTO PER GIUSTO MOTIVO Tribunale di Cagliari, Sez. civ., 16 febbraio 2016 - Giudice Dott.ssa Valeria Pirari L’annullamento della promessa di matrimonio causata dalla intollerabilità della convivenza, intrapresa dalle parti prima di contrarre le nozze, rappresenta un giusto motivo per la rottura del fidanzamento. L’onere di provare la sussistenza del giustificato motivo, quale fatto costitutivo negativo della pretesa dell’altra parte, incombe al recedente, qualora voglia sottrarsi a siffatta obbligazione riparatoria. Il caso Con atto di citazione, ritualmente notificato in data 8 settembre 2004, VA.EM. conveniva in giudizio PI.FA., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni per la ingiustificata rottura della promessa di matrimonio. L’attrice esponeva di aver intrattenuto da circa sette anni una relazione sentimentale col convenuto, col quale era intercorsa vicendevole promessa di sposarsi, tanto che, nel periodo 15 marzo 2004 - 23 marzo 2004, l’ufficiale dello stato civile del Comune di San Sperate aveva proceduto alla pubblicazione del matrimonio, così come avvenne anche nel Comune di Ussana per il periodo 15 marzo 2004 - 23 marzo 2004. Il contegno del convenuto, durante il rapporto sentimentale, aveva determinato, in capo all’attrice, una situazione di affidamento sulla conclusione del contratto di matrimonio, cui era seguito l’acquisto di vari arredi (con versamento dell’acconto di euro 500,00) e dell’abito da sposa, per un totale di euro 12.208,14, oltre che la fissazione della data delle nozze per il 15 maggio 2004, preceduta, nel mese di agosto 2003, dalla convivenza presso un immobile messo a disposizione dalla madre dello sposo. Nonostante ciò, il convenuto, in data 9 aprile 2004, aveva immotivatamente rifiutato di sposarsi e anzi, dopo aver percosso e minacciato l’attrice, aveva invitato i genitori della stessa a portarla via. In data 3 novembre 2004, si costituiva in giudizio PI.FA., chiedendo il rigetto della domanda, in quanto il rifiuto di eseguire la promessa di matrimonio era giustificato dalla sussistenza di incompatibilità caratteriali tra i due promessi sposi, emerse durante la convivenza, ed altresì dal comportamento invadente dei genitori della sposa, sempre presenti nella casa dei fidanzati, oltreché ad usi ed a comportamenti insolenti nei confronti dei suoi amici che frequentavano l’abitazione. Esponeva, inoltre, che, nella mattina del 9 aprile 2004, si era verificato un litigio e, durante la serata, VA.EM. aveva lasciato l’abitazione in compagnia del padre, il quale aveva detto al convenuto che non ci sarebbe stato alcun matrimonio. Per di più, nel corso delle successive settimane, i genitori dell’attrice gli avevano altresì impedito di avere un chiarimento con la figlia. Esponeva, inoltre come l’acquisto rateale dei mobili fosse avvenuto sin dal 2000 e dunque molto tempo prima della promessa di matrimonio e che avesse versato euro 250,00 per l’acquisto della camera da letto e la metà dell’importo per le bomboniere e delle partecipazioni, mentre l’acconto per l’abito da sposa era stato perso dall’attrice per il suo disinteresse, essendole stato offerto di sostituire l’abito nuziale con altra merce di pari importo. La decisione Il Tribunale di Cagliari ha ritenuto la domanda attorea infondata e, per l’effetto, l’ha rigettata. Il giudicante ha evidenziato innanzitutto come, a mente dell’art. 81 c.c., la promessa di matrimonio fatta vicendevolmente per atto pubblico o per scrittura privata oppure risultante dalla richiesta della pubblicazione, obblighi il promettente a risarcire il danno cagionato all’altra parte per le spese sostenute e per le obbligazioni contratte in ragione di quella promessa, entro il limite in cui le spese e le obbligazioni corrispondano alla condizione delle parti, qualora egli rifiuti di eseguirla senza giusto motivo. La giurisprudenza della S.C. è concorde nel qualificare l’obbligazione relativa al rimborso delle spese affrontate e delle obbligazioni contratte in vista del matrimonio come una speciale responsabilità conseguente, ex lege, all’esercizio di recesso, non riconducibile a quella aquiliana ai sensi dell’art. 2043 c.c., essendo la scelta di non contrarre matrimonio un atto di libertà incoercibile (Cass. 2 gennaio 2012, n. 9), e neppure a quella precontrattuale o contrattuale, non essendo la promessa di matrimonio un contratto e non costituendo essa un vincolo giuridico tra le parti, la quale presuppone che la rottura del fidanzamento avvenga “senza giusto motivo” (Cass. 15 aprile 2010, n. 9052). Ebbene, nel caso di specie, pur essendo stato documentalmente comprovato come le parti avessero deciso di contrarre matrimonio, provvedendo alle relative pubblicazioni presso la casa comunale dei rispettivi comuni di residenza nel periodo 15 marzo 2004 - 23 marzo 2004, è rimasto altrettanto provato come la rottura del fidanzamento non fosse avvenuta “senza giusto motivo”, essendo essa frutto di una decisione sostanzialmente concorde delle parti sia pure indotta da un aspro litigio intercorso a circa un mese dalla data fissata per la celebrazione del matrimonio. Infatti, se anche il convenuto, dopo il litigio, avesse dunque manifestato la sua intenzione di non sposarsi (come riferito dal futuro suocero), il Giudice ha evidenziato come sia stata la stessa attrice a interrompere il rapporto, mostrandosi oppositiva rispetto a qualsiasi dialogo nei giorni successivi. Il Tribunale ha, dunque, concluso ritenendo che la rottura del matrimonio sia stata causata da intollerabilità della convivenza, intrapresa dalle parti prima di contrarre le nozze e, alla luce di ciò, in presenza di un giusto motivo. (*) Con la collaborazione di: Tania Bortolu, Chiara Cadoni, Samanta Midori Takahashi. 902 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi Pertanto, avendo il convenuto dimostrato il fatto costitutivo negativo della pretesa dell’attrice, della cui prova era onerato, la domanda proposta è stata rigettata. I pecedenti Cass., Sez. VI, 2 gennaio 2012, n. 9; Cass., Sez. III, 15 aprile 2010, n. 9052; Cass., Sez. I, 8 febbraio 1994, n. 1260; Cass., Sez. III, 10 agosto 1991, n. 8733; Trib. Monza 6 giugno 2006; Trib. Genova, Sez. IV, 17 gennaio 2004; Trib. Reggio Calabria 12 agosto 2003; Trib. Verona 29 gennaio 1982. La dottrina Auletta, Il diritto di famiglia, Torino, 1992, 23; Bucelli, Mutamento sociale e donazioni prematrimoniali, in Giur. it., 1995, I, 1, 684; Loi, Promessa di matrimonio, in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, 95; Taratano, La promessa di matrimonio, in Trattato dir. Priv., diretto da Rescigno, 2, Persone e Famiglia, I, Torino, 1982, 527; Trabucchi, La promessa di matrimonio, Commentario al diritto italiano della famiglia, diretto da Cian - Oppo - Trabucchi, Padova, 1992, 14. RISARCIMENTO DEL DANNO DANNI DERIVANTI DALLA VIOLAZIONE DEI DIRITTI D’AUTORE Tribunale di Roma, Sez. IX, 27 aprile 2016 - Giud. Marvasi L’hosting c.d. “attivo” che distribuisce contenuto digitale e sfrutta commercialmente i video caricati dagli utenti a fini pubblicitari, anche se non è soggetto ad un obbligo generale di sorveglianza e di controllo preventivo, ha la responsabilità di rimuovere prontamente il contenuto illecito appena prenda conoscenza, mediante un’informazione fornita dalla persona lesa o in altro modo, della natura illecita di tali dati o attività, di cui agli artt. 78 ter, 79, 156 e 158 della L. 22 aprile 1941, n. 633 (Legge sul diritto d’autore - Lda). Il caso R.T.I Reti Televisive Italiane S.p.a., società del gruppo Mediaset concessionaria per l’esercizio delle emittenti televisive “Canale 5”, “Italia 1” e “Retequattro” rilevava in data 14 luglio 2011 la presenza non autorizzata sul Portale Break di sequenze e frammenti dei suoi programmi trasmessi in modalità “streaming” sul sito www.break.com. R.T.I. in un primo momento inviava una diffida stragiudiziale intimando l’immediata cessazione dell’attività illecita, rimasta però senza alcun esito. Proponeva, successivamente, domanda giudiziale perché fosse accertata l’illegittimità del comportamento tenuto da Break media con risarcimento del danno. Break media, costituitosi ritualmente, chiedeva il rigetto della domanda. La decisione In via preliminare Il Giudice ha riconosciuto la giurisdizione italiana. Anche se la società Break media ha sede legale negli Stati Uniti - ove si trovano i server di sua proprietà sui quali sono caricati i contenuti contestati - trattandosi di violazione di diritti connessi ex art. 79 Lda è competente il giudice del luogo dove l’evento dannoso è avvenuto. Nel caso di specie il danno si è verificato nel momento in cui le trasmissioni sono state visionate dall’utente italiano (principio Danno e responsabilità 8-9/2016 del locus commissi delicti). La competenza territoriale, in particolare, viene individuata in Roma, dove ha sede RTI, luogo in cui ha subito gli effetti pregiudizievoli della condotta della convenuta. La legittimazione attiva, a sua volta, deriva dalla titolarità dei diritti di sfruttamento economico dei programmi elencati in citazione. Quanto al merito, il giudice ha individuato la responsabilità della convenuta, in quanto: a) l’attività da lei svolta non si limita a quella di “social network”, come una semplice piattaforma di condivisione o hosting c.d. “passivo”, trattandosi invece di “una complessa e sofisticata organizzazione di sfruttamento pubblicitario dei contenuti immessi in rete che vengono selezionati, indirizzati, correlati, associati ad altri arrivando a fornire all’utente un prodotto audiovisivo di alta qualità e complessità dotato di una sua precisa e specifica autonomia”, ragione per cui inapplicabile in relazione a questo business l’art. 16 D.Lgs. n. 70/2003 e art. 15 della Dir. CE 311/2000, con la correlativa esenzione da responsabilità, che dev’essere accertata in base alle norme comuni; b) sebbene l’hosting c.d. “attivo” non possa essere soggetto ad un obbligo generale di sorveglianza e controllo preventivo del materiale immesso in rete dagli utenti, in quanto comprometterebbe il diritto di informazione e della libertà di espressione (Corte di Giustizia UE 24 novembre 2011, n. 70/10, caso Scarlet Extended S A c. Société belge auteurs), la responsabilità sussiste allorché il prestatore “dopo aver preso lesa o in altro modo, della natura illecita di tali dati o di attività di detto destinatari abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati o disabilitare l’accesso agli stessi” (Corte di Giustizia, decisione 23 marzo 2010, Punto I 09). Insostenibile la tesi della parte convenuta sull’irrilevanza delle due diffide inviate da RTI in quanto non sufficientemente specifiche nell’indicare i contenuti illeciti, per mancati indirizzi compendiati in singoli URL. Prima perché gli URL non sono i contenuti ma la loro “localizzazione” e inoltre perché pur affermando l’insussistenza di un obbligo generale di sorveglianza la normativa a tutela del diritto d’autore viene applicata laddove la “conoscenza effettiva” dell’illecito determina il momento dell’insorgenza della responsabilità. Si ritiene sufficiente l’indicazione specifica dei files illeciti (video, programmi etc.) tramite diffida o al mezzo (precedente del Tribunale nell’ordinanza RTIGOOGLE), c.c. Trib. Milano 29 gennaio 2011 RTI - Italia on line). Sostiene il Giudice che l’indicazione precisa dei programmi individuati (“grande fratello” - diffide 14 luglio 2011 e 31 agosto 2011 e “striscia la notizia” “zelig” - diffida 28 settembre 2011) è sufficiente ed idonea ad attivare la necessaria attività di verifica e controllo, peraltro attraverso gli stessi strumenti informatici messi a disposizione dagli utenti per la ricerca delle trasmissioni attraverso le parole chiave, sistema peraltro che la stessa Break Media mette a disposizione di coloro che vogliono segnalare la presenza di video illecitamente trasmessi. Il Tribunale non ha ritenuto, altresì, che la fattispecie integri l’ipotesi di concorrenza sleale parassitaria ex art. 2598, n. 3, c.c. né di violazione dei marchi di parte attrice (i programmi riportavano solo il logo dei canali di titolarità di RTI). Il Giudice ha inoltre esclusa l’ipotesi di violazione di un diritto morale d’autore, riservato dalla legge all’autore del format dei programmi ed ai singoli partecipanti. Conclude, pertanto, che la condotta illecita della convenuta si è esaurita nella violazione del diritto d’autore. Da qui la condanna della Break media al pagamento in favore della RTI di euro 115.000,00 (in base alla valutazione del C.T.U.) a titolo di risarcimento del danno, somma maggiorata degli interessi di mora al sag- 903 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi gio legale oltre alle spese di lite. Il Giudice, inoltre, ha fissato a titolo di penale per ogni violazione e/o inosservanza successivamente constatata ed ogni giorno di permanenza la somma di euro 1.000,00, oltre alla pubblicazione della sentenza nelle edizioni cartacee e on line per due volte consecutive a cura di RTI ed a spese della convenuta sui quotidiani “Il Sole 24 Ore” e “Il Corriere della Sera” nonché nella home page del portale Break, di proprietà della convenuta. I precedenti Il precedente specifico, che ha affrontato la differenza tra l’hosting “attivo” e quello “passivo” o hosting “puro”, riguarda una vicenda che coinvolge lo stesso attore, stavolta nelle vesti di Mediaset, contro Yahoo!. Il caso è stato di recente deciso in modo differente dalla sentenza in esame da App. Milano 7 gennaio 2015, n. 29 che ha considerato Yahoo! un hosting “puro” che si limita ad offrire servizi di accesso ad Internet e di ospitalità di dati (hosting) senza proporre altri servizi di elaborazione dei dati, travolgendo così quella posizione di equilibrio tra dottrina e giurisprudenza - volta a conciliare un disciplina tra direttiva europea (quella sul commercio elettronico 2000/31/CE), recepita in Italia con il D.Lgs. n. 70/2003, ed una realtà quotidiana che si evolve rapidamente - che era stata recepita dal giudice di prime cure del medesimo caso (Trib. Milano 9 settembre 2011, n. 10893, in Riv. dir. ind., 2011, 375) e ribadita dal Tribunale di Roma qui annotato. Il tema inoltre, si confronta anche con diversi precedenti della Corte di Giustizia tra cui sentenza C-291/13 dell’11 settembre 2014 (Papasavvas c. Fileleftheros), che ha ribadito la responsabilità dell’hosting che svolga un’attività non “neutra”. In tal senso anche la citata Corte di Giustizia UE 24 novembre 2011, n. 70/10, caso Scarlet Extended S A c. Société belge auteurs, in Foro it., 2012, IV, 297, n. Granieri; in Giornale dir. amm., 2012, 632 (m), n. Melis; in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 571, n. Colangelo; in Dir. inf., 2012, 260, n. Sammarco, nonché, in materia di marchi v. anche Corte di Giustizia UE 23 marzo 2010; n. 236/08238/08, caso Google France Sarl c. Louis Vuitton Malletier S A, in Foro it., 2010, IV, 458; in Giur. it., 2010, 1603 (m), n. Ricolfi; in Giur. amm., 2010, III, 341; in Dir. ind., 2010, 429, n. Tavella, Bonavita, in Dir. informazione e informatica, 2010, 707, n. Spedicato; in Dir. comm. internaz., 2011, 507, n. Montanari. La dottrina L. Chimienti, Lineamenti del nuovo diritto d’autore, direttive comunitarie e normativa interna, Milano, 2001; S. Sarti, I soggetti di Internet, in AIDA, 1996; B. Donato, La responsabilità dell’operatore di sistemi telematici, in Dir. inf., 1996, 135 ss.; S. Magli - M. Saverio Spolidoro, La responsabilità degli operatori in Internet: profili interni e internazionali, in Dir. inf., 1997, 61 ss.; M. De Cata, La responsabilità civile dell’internet service provider, Milano, 2010; L. Bugiolacchi, La responsabilità dell’host provider alla luce del d.Isg. n. 70/2003: esegesi di una disciplina “dimezzata”, in Resp. civ. prev., 199 M. Tescaro, La responsabilità dell’internet provider nel d.lg. n. 70/2003, in Resp. civ., 2010, 3, 177; G. Cassano - I.P. Cimino, La responsabilità del content provider per la diffusione di materiale protetto dal diritto d’autore, in Resp. civ., 2005, 435; A. Stazi, La tutela del diritto d’autore in rete: bilanciamento degli interessi, opzioni regolatorie europee e modello italiano, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, A. 31 n. 1 (2015: gen-feb), 89-110; S. Longhini A. Izzo, Tutela del diritto d’autore e internet in Il diritto di 904 autore: rivista giuridica trimestrale della Società italiana degli autori ed editori A. 83, n. 3 DANNI SUBITI PER IL RITARDO DI TRENITALIA DI 99 MINUTI NONCHÉ PER IL FURTO SUBITO NEL VAGONE LETTO Tribunale di Venezia 17 marzo 2016 - dott. Sabina Rubini – C.A. c. Trenitalia S.p.a. e C.I.CLT. Compagnia Internazionale delle Carrozze Letti del Turismo S.A. I danni subiti per il cospicuo ritardo del treno espresso nonché per il furto durante la notte nel vagone letto sono risarcibili. Il caso Con atto di citazione ritualmente notificato il sig. C.A. evoca in giudizio Trenitalia Spa per sentirla condannare al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, subiti a causa del ritardo del treno espresso n. 1931 del 25 maggio 2007, nonché del furto subito ad opera di ignoti durante la notte in cui viaggiava nei convoglio ferroviario. Con riferimento all’inadempimento di Trenitalia relativo al ritardo, l’attore chiedeva la condanna della convenuta, a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 1218 e 1681 c.c., ai pagamento della somma di euro 130,50 pari all’importo del prezzo dei biglietto; inoltre, a titolo di responsabilità extracontrattuale ex art. 2059 c.c. chiedeva la condanna della convenuta al risarcimento del danno morale, quantificato in via equitativa in euro 2.000,00 e di quello biologico per inabilità temporanea parziale, quantificato in via equitativa in euro 5.000,00, nonché del danno esistenziale, che quantificava in euro 2.500,00, oltre ai rimborso delle spese mediche sostenute pari ad euro 100,35. Con riferimento, invece, al furto subito nel treno, il C.A. chiedeva la condanna di Trenitalia al pagamento di euro 550,00, per responsabilità contrattuale ex artt. 1218 e 1681 c.c., a titolo di danno patrimoniale costituito dalla somma di euro 250,00, che il medesimo teneva in contanti nel portafogli, ed euro 300,00 per il disagio patito in conseguenza del furto della carta di credito; l’attore chiedeva, inoltre, il risarcimento del danno, che quantificava in euro 2.000,00, per responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 conseguente alla lesione del diritto di proprietà dei beni personali; il risarcimento del danno morale ex art. 2059 c.c., che quantificava in euro 2.500,00; il risarcimento del danno biologico, che quantifica in euro 3.500,00 ed infine, il risarcimento dei danno esistenziale, che quantificava in euro 2.000,00. Nel costituirsi in giudizio Trenitalia S.p.A. contestava le allegazioni attorce e chiedeva, in via preliminare, che l’azione fosse dichiarata improcedibile per la mancata attivazione della procedura di cui all’art. 15 delle Condizioni Generali regolanti il trasporto ferroviario, come previsto dal RDL 11 ottobre 1934, n.1948 conv. in L. 4 aprile 1935, e successive modifiche. Rilevava nel merito la convenuta che, in relazione alla domanda relativa al risarcimento del danno per ritardo del treno, Trenitalia aveva già provveduto all’emissione di un bonus pari al 20% dei valore del biglietto, così come previsto dalla L. n. 911/1935, che deroga la disposizione di cui all’art. 1680 c.c., e chiedeva, quindi, che fosse accertato l’adempimento dell’obbligazione risarcitoria e, in via subordinata, che fosse dichiarata la cessazione della materia del contendere sul punto per intervenuta transazione. In ordine alla domanda di risarcimento del danno da furto, Trenitalia chiedeva che la domanda fosse rigettata per assenza di responsabilità ex d.P.R. 30 marzo 1961, n. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi 197 par. 5, e, nel contempo, chiedeva ritualmente il differimento della prima udienza per poter chiamare in causa C.I.C.L.T. S.A. - Compagnia Internazionale Carrozze Letti del Turismo - soggetto che contrattualmente si era obbligato a provvedere e garantire la sicurezza dei clienti nelle vetture letto, affinché la manlevasse e la tenesse indenne dall’eventuale accertata responsabilità per il furto subito dall’attore. La decisione Il Tribunale ha respinto l’eccezione preliminare della parte convenuta relativa all’improcedibilità della domanda attorea, avendo la Corte costituzionale, con sent. 25 luglio 2008, n. 296, dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1, R.D.L. 11 ottobre 1934, n. 1948 che condizionava l’esercizio dell’azione giudiziaria al preventivo reclamo in via amministrativa, eliminando così la necessità di agire in sede amministrativa prima di adire le vie giudiziarie. Nel merito, con riferimento alla domanda diretta ad ottenere il rimborso integrale del prezzo del biglietto, si osserva che la responsabilità di Trenitalia nei confronti del passeggero ha natura contrattuale, in quanto l’acquisto del biglietto determina la nascita di un rapporto sinallagmatico nell’ambito del quale l’utente si obbliga a pagare il prezzo per l’utilizzo del servizio e Trenitalia si impegna ad eseguire la controprestazione consistente nel portare il passeggero a destinazione. Nel caso in cui la prestazione oggetto del contratto di viaggio non venga eseguita l’utente ha, quindi, diritto a vedersi riconosciuto il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale. Trenitalia ha eseguito la propria obbligazione, relativa al trasporto del sig. C.A. dalla stazione di Padova a quella di Siracusa con un notevole ritardo; risulta, invero, accertato, anche a seguito della mancata contestazione di Trenitalia, che il treno espresso n. 1931, proveniente da Venezia - Mestre è partito dalla stazione di Padova il 25 maggio 2007 con un ritardo di 77 minuti rispetto all’orario previsto e che il ritardo è dipeso da un problema al funzionamento dell’impianto di condizionamento di una carrozza; nel corso del viaggio il ritardo si è aggravato, anche a causa della necessità di far scendere un disabile alla stazione di Gioia Tauro, e il treno ha raggiunto la destinazione finale di Siracusa con un ritardo di 99 minuti. Risulta, pertanto, accertato che vi è stato un inesatto inadempimento colposo dei vettore, atteso che il mancato funzionamento dell’impianto dell’aria condizionata non è motivo sufficiente per giustificare un ritardo rilevante fin dall’inizio del viaggio; Trenitalia, quale vettore professionale avrebbe dovuto porre rimedio all’inconveniente, peraltro del tutto prevedibile, in tempi ben più brevi di quelli occorsi, così come non è giustificabile un tempo di 25 minuti per consentire l’uscita di una persona affetta da disabilità, la cui presenza era peraltro prevista, come risulta dalla documentazione in atti. Trenitalia ha eccepito l’intervenuta transazione o la cessazione della materia dei contendere a seguito dell’emissione del bonus in favore dell’attore, nonché la possibilità di risarcire ii danno solo nei limiti di quanto stabilito dal R.D.L. n. 1948/1934 convertito in L. n. 911/1935, che all’art. 11, prescrive che il viaggiatore ha diritto al risarcimento del danno derivatogli dal ritardo, dalla soppressione del treno, da mancata coincidenza, da interruzioni esclusivamente nei casi e nei limiti previsti dagli arti 9 e 10, qualunque sia la causa e l’inconveniente che dà luogo alla domanda di indennizzo. Dette norme limitano il risarcimento, in favore Danno e responsabilità 8-9/2016 del viaggiatore, al rimborso del biglietto, qualora non sia sfato effettuato il viaggio, o al riconoscimento di una percentuale sul costo dei biglietto a seconda della durata del ritardo, percentuale che viene indicata nelle condizioni generali di contratto predisposte da Trenitalia. Quanto alla prima eccezione non si può ritenere conclusa alcuna transazione con il C.A., il quale si è limitato a richiedere l’emissione dei bonus, ma non lo ha utilizzato in quanto, evidentemente, non soddisfatto dell’offerta di Trenitalia. Quanto alla limitazione di responsabilità invocata da Trenitalia ritiene questo Giudice che la disciplina applicabile sia quella contenuta nei principi generali dettati dagli artt. 1218 e 1681 c.c., che in caso di inadempimento, legittimano ii passeggero al risarcimento del danno, mentre non può trovare applicazione la legge speciale ed in particolare le norme che prevedono il rimborso totale o parziale del biglietto - in caso soppressione del servizio o di ritardo - in quanto illegittime. Infatti, dopo la trasformazione dell’ente F.S. in società per azioni Trenitalia S.p.A., non vi è motivo per non applicare la disciplina generale dei codice civile e conseguentemente le Condizioni Generali di Trenitalia debbono ritenersi inefficaci con riferimento alla limitazione di responsabilità trattandosi di clausole vessatorie contenute in contratti standard per adesione ai sensi dell’art. 1342 c.c. e non specificatamente approvate per iscritto dall’aderente. Inoltre, devesi ricordare che l’introduzione del Codice del Consumo ha rafforzato ulteriormente la tutela dei consumatori, stabilendo all’art. 36 la nullità delle clausole contrattuali di cui sia accertata la vessatorietà in materia di contratti conclusi tra il professionista e la persona fisica. Ne discende, pertanto, che essendo indubbio che l’attore debba essere qualificato come consumatore e Trenitalia e CICLI come professionisti, il richiamo alla regolamentazione delia citata legge (R.D.L. 11 ottobre 1934, n. 1948) appare del tutto inconferente, dovendosi ritenere tali norme illegittime. In favore della derogabilità delle norme su condizioni e tariffe per il trasporto di persone contenute nel R.D.L. 11 ottobre 1934 n. 1948 anche la Corte costituzionale (sent. n. 28 luglio 1999, n. 372) ha affermato - seppure incidentalmente - che queste ultime non possono essere interpretate nel senso che i ritardi non possano dar diritto al risarcimento del danno secondo le norme civilistiche. A fronte, quindi, dell’inesatto adempimento colposo di Trenitalia il signor C.A. ha diritto al risarcimento del danno, che appare equo liquidare in misura pari al 50% dei valore del biglietto - e quindi pari ad euro 65,25 maggiorata della rivalutazione e degli interessi legali sulla somma rivalutata tenuto conto che l’attore ha, comunque, utilizzato il mezzo ferroviario per raggiungere Siracusa. Non può essere riconosciuto, invece, alcun danno per la perdita della coincidenza con il treno diretto a Modica, atteso che l’attore ben avrebbe potuto prendere il treno successivo a quello inizialmente previsto delle 14.20, che partiva da Siracusa alle ore 16.30 (vedi doc. 3 di parte attrice) senza farsi dare alcun passaggio dalla cognata; né consegue che qualsivoglia danno riconducibile a tale fatto non può essere riconosciuto. Con riferimento alla domanda di risarcimento dei danno biologico per inabilità temporanea e al rimborso delle spese mediche, del danno esistenziale e del danno morale conseguenti allo stazionamento forzato in piedi causato dal ritardo del treno, si rileva che, in forza dell’evoluzione giurisprudenziale, si ritiene ormai superata la figura del danno morale transeunte così come quella di danno esistenziale (Cass., SS.UU., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 905 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi 26974 e 26975) con conseguente assorbimento nel concetto di danno biologico di ogni sofferenza fisica o psichica provata dalla vittima. Peraltro, fatte tali premesse, si osserva che, anche qualora si volesse ritenere distinta la voce relativa ai danni non patrimoniali lamentati dall’attore, gli stessi non sono supportati da prova alcuna. Non risulta, invero, provato il nesso causale tra l’evento - ritardo del Treno espresso n.1931 del 25-26 maggio 2007 ed il lamentato danno fisico patito dall’attore riconducibile allo stazionamento in piedi, essendo peraltro provata dall’audizione testimoniale la presenza di spazi atti ad ospitare i passeggeri in stazione. Venendo, infine, ad esaminare la domanda di risarcimento dei danni azionata per l’evento furto, si evidenzia che il contratto di trasporto ferroviario in carrozza letto è un servizio aggiuntivo offerto da Trenitalia, che obbliga detta società ad adempiere alla relativa prestazione accessoria di custodia del bagaglio che il viaggiatore porta con sé, con la diligenza qualificata dalla qualità dell’offerente - imprenditore, che costituisce il criterio per la valutazione della sua responsabilità (art. 47 disposizioni speciali Allegato A della L. n. 976 del 1984, richiamato nell’art. 33, comma 2, Allegato 1, appendice A, capo 3, sez. 1). Anche in questo caso, come affermato di recente dalla S.C. (Cass., Sez. III, sent., 19 dicembre 2014, n. 26887) in un caso analogo, trova applicazione l’art. 1786 c.c., che espressamente estende la responsabilità dell’albergatore all’imprenditore del servizio di carrozza letto, sulla considerazione che, come l’albergatore esso è tenuto a garantire, quale l’obbligazione accessoria, il cliente contro i furti delle cose che egli porta nella camera d’albergo. L’organizzatore del trasporto ferroviario in carrozza Ietto deve, pertanto, predisporre analoghi accorgimenti e cautele per la sicurezza del viaggio - anche di concerto con la polizia ferroviaria - che devono essere ancor più rigorose se non è offerto un autonomo servizio di custodia dei valori e preziosi, non potendo imporre ai viaggiatore il medesimo onere dì custodia di quello richiesto per il viaggio diurno in un ordinario scompartimento aperto ai pubblico. Si rileva che l’aver affidato il servizio ad una società esterna, la CICLI SA, non esime Trenitalia dalla propria responsabilità nei confronti dei contraenti per il comportamento colposo della terza chiamata, che non ha adempiuto a quanto stabilito dall’art. 5.1 del contratto intervenuto tra le predette parti (doc. 10 di parte convenuta) che prevede l’obbligo per CICLI di “svolgere il servizio di sorveglianza a bordo dei treni notte e nelle stazioni durante tutto il percorso”, sorveglianza che deve essere adeguata e non limitata all’invito ai viaggiatori di accertarsi che la porta delia cabina sia chiusa, cautela che peraltro nel caso in esame non ha evitato il furto. Tenuto conto che risulta che in quella notte ben 8 passeggeri hanno lamentato di avere subito furti, come emerge dai doc. 8) prodotto da Trenitalia, e considerato che il teste Cozzupoli ha affermato di essersi accertato che la porta della cabina fosse chiusa, è evidente che, né Trenitalia, che rimane responsabile del convoglio, né CICLI hanno sorvegliato in modo adeguato sulla sicurezza delle carrozze, consentendo così agli autori dei furti di agire indisturbati. Alla luce di quanto sopra esposto, Trenitalia va condannata in solido con la terza chiamata CICLI a risarcire l’attore del danno subito per il furto di danaro pari ad euro 250,00, circostanza che la convenute non hanno contestato limitandosi a contestare la responsabilità a loro carico, ma non il fatto delittuoso, né l’ammontare dell’importo. Non può, invece, essere riconosciuta la maggior somma di euro 906 300,00 che l’attore chiede a titolo di danno conseguente al furto della carta di credito non avendo il C.A. dimostrato di avere subito alcun danno conseguente al furto e nemmeno allegato e precisato in cosa sarebbe consistito il relativo pregiudizio. Analoghe considerazioni devono essere svolte in merito alla domanda di risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale che il C.A. afferma di avere patito, stante la totale assenza di prova del reale pregiudizio subito e del nesso causale con il furto subito. I precedenti Autorità garante della concorrenza, 16 ottobre 2008, n. 18997, in Foro it., 2010, III, 47, Il riconoscimento e la corresponsione di un bonus da parte del vettore ferroviario in caso di ritardi dei treni, con modalità tali da rendere disagevole o impossibile l’erogazione ai consumatori della somma corrispondente ad una parte del prezzo del biglietto, configura un’ipotesi di pratica commerciale scorretta; Cass., Sez. III, 25 gennaio 2012, n. 1024, in Rep. Foro it., 2012, Procedimento civile davanti al giudice di pace, n. 16: La controversia relativa al riconoscimento di un danno esistenziale per inadempimento derivante al contraente di un contratto di massa (nella specie, sottoscrittore di un abbonamento ferroviario che si duole dei continui ritardi accumulati dai treni percorrenti una tratta fissa interregionale), benché rientrante nella competenza per valore del giudice di pace, resta sottratta al potere di quest’ultimo di decidere secondo equità, ai sensi dell’art. 113, comma 2, c.p.c., nel testo sostituito dal D.L. 8 febbraio 2003, n. 18, conv. con modif. dalla L. 7 aprile 2003, n. 63; pertanto la relativa pronuncia non è impugnabile mediante ricorso per cassazione, anche nel regime ratione temporis applicabile, ma esclusivamente con l’appello. La dottrina Claroni, Sull’“indennizzo” dovuto al passeggero in caso di ritardo del trasporto ferroviario dipeso da forza maggiore, in Riv. dir. navigaz., 2014, 362; Vernizzi, Ritardo nel trasporto ferroviario: la responsabilità dell’impresa tra rimedi restitutori e forza maggiore, in Resp. civ., 2014, 84; Scarpa, Il risarcimento del danno non patrimoniale da ritardo ferroviario, in Giudice di pace, 2011, 162. DANNI SUBITI DALL’AUTO ACCETTATA NEL PARCHEGGIO MA NON QUELLI DELLE ATTREZZATURE FOTOGRAFICHE LASCIATE IN MACCHNA E SOTTRATTE Tribunale di Roma, Sez. XI, 24 febbraio 2016 - dott. Massimo Corrias - Tizio, fotografo del banchetto nunziale c. Società organizzatrice del banchetto nunziale in località Pratica di mare Il danno subito per aver lasciato attrezzatture che sono state sottratte dalla macchina parcheggiata all’interno della villa dov’è stato organizzato il banchetto nuziale con servizio fotografico, non sono risarcibili ai sensi dell’art. 1785 quinquies, c.c. relativo alla responsabilità delle cose portate in albergo che esclude espressamente la responsabilità dell’albergatore “per i veicoli e per le cose lasciate negli stessi” Sussiste invece la responsabilità della società per il solo danneggiamento dell’auto accettata in custodia e parcheggiata. Il caso Con atto di citazione ritualmente notificato Tizio ha convenuto la società che, nella villa di Pratica di mare, aveva or- Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi ganizzato il banchetto nunziale dopo le nozze che era state celebrate con l’intervento del fotografo. Precisa che aveva parcheggiato la propria autovettura nell’area di parcheggio all’interno della recinzione della villa; che nel sito internet della convenuta era menzionata la presenza di un ampio parcheggio custodito; che inoltre aveva personalmente constatato che il varco di accesso alla villa era munito di cancello elettrico, con videocitofono e personale addetto alla custodia e alla sorveglianza. Ciò nonostante al termine della cerimonia aveva ritrovato la propria macchina danneggiata e dalla stessa a erano state rubate le attrezzatture fotografiche relative ad altro matrimonio, a causa della mancata sorveglianza del parcheggio da parte degli addetti della società convenuta. Il fotografo si duole del danno subito pari ai costi di riparazione dell’auto ed al valore delle attrezzature sottrattegli, nonché danni da lucro cessante e d’immagine, non avendo potuto portare a termine il servizio fotografico che si era impegnato a realizzare. Sulla base di tali prospettazioni Tizio ha chiesto la condanna della società convenuta al pagamento di euro 10.000,00 a titolo di risarcimento dei danni ex art. 1766 c.c. relativo al contratto di deposito in generale. La società convenuta ha chiesto il rigetto della domanda avversaria con condanna dell’attore ex art. 96 c.p.c. assumendo: che l’art. 1785 quinquies c.c. escludeva qualsiasi responsabilità di albergatori e ristoratori in caso di furto di autovetture; che il proprio sito web non pubblicizzava la disponibilità di un parcheggio custodito; che nessun contratto di parcheggio era stato stipulato; che il parcheggio di Villa Grant non era custodito; che in ogni caso la responsabilità del depositario o posteggiatore non si estendeva al furto degli oggetti lasciati all’interno delle auto; che infine non era stata fornita alcuna prova del furto né di quali oggetti fossero stati sottratti. La decisione La richiesta di risarcimento danni, avanzata dal fotografo al quale era stata danneggiata l’auto, legittimante parcheggiata all’interno della villa, dove si svolgeva il banchetto nunziale ed inoltre erano state sottratte dall’autovettura le attrezzatture fotografiche di altro matrimonio sono state respinte dal Tribunale sulla base del principio che i gestori di locali assimilabili agli alberghi e ai ristoranti, come la società convenuta, che gestisce pranzi e banchetti dopo le nozze rispondono dei danni arrecati alle vetture parcheggiate all’interno delle loro strutture unicamente in caso di stipulazione di un distinto contratto di parcheggio. Richiamando Cass., Sez. III, 22 settembre 2006, n. 20642, si è preliminarmente osservato che, a norma dell’art. 1785 quinquies c.c., le disposizioni attinenti alla responsabilità dell’albergatore, per cose portate in albergo, a norma dell’art. 1783 c.c., non si estendono ai veicoli. Perché l’albergatore sia responsabile per i danni o per il furto subiti dal veicolo, è necessario che tra questi ed il cliente si sia concluso un contratto accessorio, ma autonomo, di deposito. Il contratto di deposito è un contratto reale, per cui la consegna della cosa è necessaria per il perfezionamento del contratto. Da ciò consegue che è ultronea ogni questione se nella specie vi sia stato un consenso da parte dei commessi dell’albergatore (a norma dell’art. 2210 c.c.) per la conclusione di tale contratto, in quanto mancò la consegna dell’auto. Tuttavia, come nella fattispecie, la consegna, ai fini del deposito, può realizzarsi con una ficta traditio attraverso la ritenzione della cosa da parte del depositario (Cass. 25 set- Danno e responsabilità 8-9/2016 tembre 1998, n. 9596) ovvero attraverso l’affidamento della cosa al depositario. Ciò può avvenire in qualsiasi modo idoneo a produrre l’effetto reale voluto dalla legge e non necessariamente mediante consegna delle chiavi e del documento di circolazione, non essendo siffatta formalità necessaria per l’attribuzione al depositario della detenzione del veicolo, con l’obbligo di custodirlo e di restituirlo nello stato in cui è stato consegnato, ed il conseguente obbligo, se la cosa stessa venga sottratta, al risarcimento del danno, ove il depositario non fornisca la prova, su di lui incombente, dell’inevitabilità dell’evento nonostante l’uso della diligenza del buon padre di famiglia (Cass. 22 dicembre 1983, n. 7557; Cass. 2 marzo 1985, n. 1787). I precedenti Cass. 23 agosto 2011, n. 17528; Cass. 9 maggio 2012, n. 7037; Cass. 12 febbraio 2015, n. 2741; Cass. 28 aprile 2010, n. 10190; Cass. 7 dicembre 2005, n. 27001; Cass. 20 giugno 2002, n. 10638. La dottrina M. Franzoni, L’illecito, Milano, 2010; M. Sella, I danni non patrimoniali, Milano, 2010; C. Salvi, La responsabilità civile, in Tr. Iudica-Zatti, Milano, 1998; M. C. Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 2012. DANNI CAUSATI DA CANI RANDAGI Tribunale di Cagliari 10 febbraio 2016 - dott. E. Murru Tizia c. Comune Beta e ASL Gamma Il danno cagionato da cani randagi non può essere risarcito in forza della presunzione stabilita dall’art. 2052 c.c. - inapplicabile per la natura stessa degli animali in questione - ma solamente alla stregua dei principi generali della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c. Il caso Con atto di citazione ritualmente notificato, Tizia conveniva in giudizio il Comune Beta e la A.S.L. Gamma competente per territorio, chiedendone la condanna al pagamento dei danni subiti a causa delle lesioni riportate in seguito all’aggressione da parte di un cane randagio. Il Comune Beta, regolarmente costituitosi, eccepiva preliminarmente il proprio difetto di legittimazione passiva, per aver la L. n. 218/1991 attribuito alle ASL i compiti di igiene e sanità pubblica, ivi inclusi quelli di accalappiamento dei cani randagi. Nel merito, contestava la fondatezza della domanda per difetto di profili di responsabilità in capo all’ente. Gamma restava contumace. La decisione La domanda avanzata da Tizia viene reputata infondata. La legge statale n. 281/1991, nell’individuare gli strumenti rivolti ad arginare il fenomeno del randagismo, ripartisce le competenze tra i comuni ed i servizi veterinari delle ASL. In particolare, attribuisce ai comuni la costruzione, sistemazione e gestione dei canili e rifugi per cani; alle ASL competono invece le attività di profilassi e controllo igienico sanitario e di polizia veterinaria. In attuazione della delega contenuta all’art. 3 della medesima legge, la Sardegna ha emanato la L. R. n. 21 del 18 maggio 1994, la quale pone a carico dei servizi veterinari delle ASL il compito di provvedere sia alla cattura dei cani vaganti non identificati (art. 9) che alla tenuta e all’aggiornamento dell’anagrafe canina; 907 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi grava sui comuni l’obbligo il compito di risanare e gestire i canili comunali (art. 3). Dal combinato disposto delle citate norme emerge come il controllo del fenomeno del randagismo sia demandato esclusivamente al servizio veterinario delle Aziende Sanitarie. Né in senso contrario rileva il richiamo ai principi enunciati dalla Corte di cass. nella sent. n. 17528/2011, che ha individuato il comune quale soggetto titolare degli obblighi di organizzazione, prevenzione e controllo dei cani vaganti. Detta decisione è stata resa con riferimento alla disciplina applicabile nella Regione Campania, disciplina che, a differenza di quella adottata dalla Regione Sardegna, pone precisi obblighi di vigilanza in capo alla regione e ai comuni, in collaborazione con le ASL. Per quanto attiene alla natura della responsabilità, si esclude che il danno cagionato da cani randagi possa essere risarcito in forza della presunzione stabilita dall’art. 2052 c.c., ritenuto inapplicabile per la natura stessa degli animali in questione. La fattispecie concreta viene dunque ascritta all’ambito di operatività dell’art. 2043 c.c., che presuppone, oltre all’accertamento del danno ingiusto e del nesso di causalità rispetto ad una condotta omissiva o commissiva, la dimostrazione dell’elemento psicologico in capo al danneggiante. Non viene tuttavia rilevata la sussistenza di un comportamento colposo ascrivibile all’ente sanitario, stante l’assenza di prove circa eventuali precedenti avvistamenti di cani randagi nella zona in cui è avvenuta l’aggressione, tali da costituire un pericolo per gli utenti della strada e da allertare le autorità preposte. I precedenti Cass. 23 agosto 2011, n. 17528; Cass. 9 maggio 2012, n. 7037; Cass. 12 febbraio 2015, n. 2741; Cass. 28 aprile 2010, n. 10190; Cass. 7 dicembre 2005, n. 27001; Cass. 20 giugno 2002, n. 10638. La dottrina M. Franzoni, L’illecito, Milano, 2010; M. Sella, I danni non patrimoniali, Milano, 2010; C. Salvi, La responsabilità civile, in Tr. Iudica-Zatti, Milano, 1998; M. C. Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 2012. DANNI PROCURATI CON CONDOTTA COLPOSA Tribunale di Catanzaro, Sez. II civ., 6 gennaio 2016 Giud. Scalera In tema di risarcimento del danno, il danneggiato non può addebitare ad altri le conseguenze pregiudizievoli che abbia contribuito ad autoprocurarsi con la sua condotta colposa. Il caso Con atto di citazione ritualmente notificato, la Società Poste Italiane S.p.a. conveniva in giudizio P.C., impugnando la sentenza del Giudice di Pace di Chiaravalle Centrale, con la quale era stata condannata al risarcimento dei danni per il deterioramento del contenuto di un pacco spedito a mezzo del servizio postale. L’appellante lamentava la mancata applicazione da parte del giudice di prime cure delle condizioni contrattuali e della normativa speciale in tema di servizio pubblico postale; lamentava altresì la liquidazione del danno in mancanza di prova del pregiudizio effettivamente subito. 908 Si costituiva in giudizio il convenuto, il quale resisteva al gravame e chiedeva l’integrale conferma della sentenza di primo grado. La decisione Il Tribunale di Catanzaro ha accolto il gravame sul presupposto che l’art. 8 delle Condizioni di Trasporto Paccocelere prevede che “Poste Italiane è liberata da ogni responsabilità per ritardo, perdita, danneggiamento totale o parziale, manomissione dei pacchi con contenuto non ammesso e per ogni altro fatto imputabile al mittente o per causa di forza maggiore”. Tale clausola è applicabile alla fattispecie in esame per via del contenuto del pacco celere, costituito da salumi, formaggi e altri generi alimentari. Di talché, lo stesso non rientra tra gli oggetti consentiti dall’art. 3 delle Condizioni di Trasporto (trattandosi di prodotti deperibili); clausola specificamente approvata per iscritto ai sensi e per gli effetti degli artt. 1341 e 1342 c.c. Detta clausola non può essere, peraltro, considerata vessatoria ai sensi degli artt. 33 e 34 del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, in quanto non ricade in alcuna delle ipotesi espressamente elencate dall’art. 33, comma 2 del medesimo decreto e, più in generale, non determina a carico dell’utente “un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”. La clausola, infatti, si limita ad esplicitare un principio, già presente nell’ordinamento (art. 1227 c.c.), per cui il danneggiato non può addebitare ad altri le conseguenze pregiudizievoli che abbia contribuito ad autoprocurarsi con la sua condotta colposa. Pertanto, nel caso di specie, P.C. ha spedito, tramite il servizio postale, dei beni deperibili che, in base al regolamento contrattuale, non poteva spedire. Tale condotta si pone, dunque, all’origine della serie causale che ha portato all’avaria dei generi alimentari; infatti, se l’appellato avesse spedito beni contrattualmente ammessi, quali alimenti a lunga conservazione, egli non avrebbe subito alcun danno da ammaloramento quale conseguenza del mero disservizio postale. Il Giudicante ha, inoltre, precisato che nella fattispecie in esame non può dirsi neppure raggiunto l’accordo contrattuale in relazione alla spedizione del pacco contenente i beni in questione, essendo essi espressamente esclusi dal citato art. 3 delle Condizioni Generali. Né può attribuirsi valenza di manifestazione tacita di volontà al comportamento del dipendente delle Poste Italiane S.p.a. che aveva, comunque, ricevuto il pacco consegnatogli da P.C. recante la scritta “alimenti”. E ciò per l’assorbente ragione che l’addetto alla ricezione dei pacchi non era titolare di alcun potere rappresentativo della Società e non era, perciò, legittimato a stipulare contratti in nome e per conto della stessa. I precedenti Cass., SS.UU., 21 novembre 2011, n. 24406; Cass. 31 ottobre 2014, n. 23148; Cass. 23 ottobre 2014, n. 22514. La dottrina C.M. Bianca, Diritto Civile, La responsabilità, V, Milano, 2012; P. Stanzione, Trattato della responsabilità civile. Responsabilità contrattuale. Responsabilità extracontrattuale, Padova, 2012; P.G. Monateri, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 1998. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi Osservatorio di giustizia penale a cura di Carlo Piergallini (*) CIRCOLAZIONE STRADALE OMISSIONE DI SOCCORSO E FUGA Cassazione Penale, Sez. IV, 6 maggio 2016 (30 maggio 2016), n. 22718 - Pres. Blaiotta - Rel. Menichetti - Ric. M.N. Nel reato di “fuga” previsto dai commi 6 e 7 dell’art. 189 c. str. il dolo deve investire non solo l’evento dell’incidente, ma anche il danno alla persona e, conseguentemente, la necessità del soccorso, che non costituisce una condizione di punibilità. La consapevolezza che la persona coinvolta nel sinistro ha bisogno di soccorso, in ogni modo, può sussistere anche nella forma del dolo eventuale, che si configura normalmente in relazione all’elemento volitivo, ma che può attenere anche all’elemento intellettivo, quando l’agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento costituisce reato, accettandone per ciò stesso la relativa esistenza. Il caso La Corte d’Appello di Firenze condanna un imputato ai sensi dell’art. 189, commi 6 e 7, c. str. giacché questi, alla guida di autoveicolo, dopo aver tagliato la strada ad un motociclista, provocandone la caduta a terra, aveva omesso di arrestare la marcia e di prestare soccorso al medesimo. Due gli elementi probatori ritenuti decisivi dal giudice di merito: l’entità dell’impatto tra auto e motociclo, documentata dai danni riportati dalla vettura, nonché il momentaneo arrestarsi dell’imputato subito dopo l’urto. Elementi che dimostrerebbero quanto meno il dolo eventuale del reato, potendo ragionevolmente sostenersi che l’imputato si fosse prospettato di aver provocato un incidente e, decidendo di allontanarsi, avesse accettato il rischio che vi fossero persone lese bisognose di assistenza. Nel ricorrere per Cassazione, l’imputato deduce la inosservanza e/o l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’elemento soggettivo del dolo eventuale - che deve investire ogni componente del fatto tipico ex art. 189 c. str. e, segnatamente, la causazione dell’incidente, il danno alle persone e la presenza di feriti cui prestare assistenza - nonché il difetto e/o la manifesta illogicità della motivazione sulla consapevolezza dell’imputato circa la causazione del sinistro stradale. La decisione Il ricorso viene accolto dalla Cassazione, la quale rammenta come, nel reato di “fuga” ex art. 189 c. str., punito solo a titolo di dolo, l’accertamento dell’elemento psicologico debba essere compiuto in relazione al momento in cui l’a- gente pone in essere la condotta e, quindi, alle circostanze dal medesimo concretamente rappresentate e percepite. Tali circostanze devono essere univocamente indicative della sua consapevolezza di aver provocato un incidente idoneo ad arrecare danno alle persone. Resta confermata, in ogni modo, la sufficienza del dolo eventuale, che però “deve investire non solo l’evento dell’incidente ma anche il danno alle persone e, conseguentemente, la necessità del soccorso, che non costituisce una condizione di punibilità”; forma di dolo che “può attenere anche all’elemento intellettivo, quando l’agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento costituisce reato, accettandone per ciò stesso l’esistenza”. Nel caso di specie, nota la Cassazione, “può parlarsi di dolo eventuale solo con riferimento alle conseguenze dell’incidente, nel senso della condotta di chi - certo di aver provocato un sinistro - si allontani senza fermarsi pur nella prospettiva della presenza di feriti da soccorrere ed accettando quindi come possibile risultato di incorrere nelle omissioni penalmente rilevanti”. La Corte territoriale, tuttavia, non offre adeguata motivazione sulla prova certa del fatto che l’imputato “si fosse reso realmente conto di aver provocato un sinistro, ed ancor più che avesse assunto su di sé il dubbio in ordine all’esistenza di conseguenze lesive che esigessero soccorso”. Difetto motivazionale che la Cassazione ritiene ragguardevole, anche alla luce delle circostanze di fatto poste in luce dal ricorrente (sinistro accaduto di sera, mentre pioveva, con imputato non sceso dall’auto per verificare eventuali danni). L’esaustività delle indagini in fatto già esperite, peraltro, conduce la S.C. a ritenere inutili ulteriori approfondimenti; da qui l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato. I precedenti In senso analogo, cfr. Cass., Sez. IV, 6 settembre 2007, n. 34134, in CED, rv. 237239. Vedasi anche Cass., Sez. IV, 4 febbraio 2013, n. 5510, in CED, rv. 254667; Cass., Sez. IV, 9 maggio 2012, n. 17220, in CED, rv. 252374. La dottrina F. Basile, Note sul dolo nei reati omissivi propri, con particolare riguardo al reato di omissione di soccorso, in Dir. pen. cont., n. 2/2014, 108 ss.; Id., Art. 189 C.d.S., in E. Dolcini G. L. Gatta (diretto da), Codice penale commentato, III, Milano, 2015, 2553 ss. ed ivi per ulteriori richiami. COOPERAZIONE NEI DELITTI COLPOSI Cassazione Penale, Sez. IV, 4 febbraio 2016 (13 aprile 2016), n. 15324 - Pres. Blaiotta - Rel. Pavich - Ric. S. I. Per aversi cooperazione nel delitto colposo, non è necessaria la consapevolezza della natura colposa dell’al- (*) La prima e la seconda nota sono state redatte dal dott. Manuel Formica, la terza e la quarta dal dott. Alessio Matarazzi. Danno e responsabilità 8-9/2016 909 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi trui condotta né la conoscenza dell’identità delle persone che cooperano, essendo sufficiente la coscienza dell’altrui partecipazione nello stesso reato, intesa come consapevolezza, da parte dell’agente, del fatto che altri soggetti - in virtù di un obbligo di legge, di esigenze organizzative correlate alla gestione del rischio o anche solo in virtù di una contingenza oggettiva e pienamente condivisa - sono investiti di una determinata attività, con una conseguente interazione rilevante anche sul piano cautelare, nel senso che ciascuno è tenuto a rapportare prudentemente la propria condotta a quella degli altri soggetti coinvolti. Il caso Il conducente di una Volkswagen Polo e quello di una Lancia Y percorrono una strada di notte, a velocità molto elevata e con identica direzione. La distanza tra loro è ravvicinata ed, in alcuni tratti, le due autovetture si appaiano, occupando l’intera carreggiata, all’evidente fine di superarsi a vicenda. Dopo aver invaso l’opposta corsia di marcia, la Volkswagen Polo collide con una Alfa Romeo che sopraggiunge in senso opposto, conseguendo la morte del conducente di quest’ultima e del passeggero a bordo della Polo. Del duplice omicidio il Tribunale di L’Aquila ritiene responsabile (anche) il conducente delle Lancia Y, con sentenza confermata in appello. Innanzi alla Cassazione, detto imputato lamenta di non aver fornito alcun contributo causale all’evento, da addebitare alla sola condotta colposa del conducente della Polo (la cui posizione è stata definita separatamente). La decisione La S.C. respinge l’impugnazione. Per quanto non sia stata accertata una vera e propria gara in velocità (art. 9 ter, comma 2, c. str.) tra il conducente della Volkswagen Polo e quello della Lancia Y, la condotta sopra menzionata, “comune ad entrambi, era gravemente imprudente e inosservante quanto meno del disposto di cui all’art. 141 C.d.S., nonché necessariamente improntata alla reciproca consapevolezza che, procedendo in tal modo, essi creavano elevato pericolo per la circolazione delle altre autovetture”. E sebbene l’invasione di corsia, che ha cagionato il tragico sinistro, abbia riguardato la sola Volkswagen Polo, per la Cassazione è parimenti vero che detta condotta sia stata “necessariamente e consapevolmente ‘indotta’ e ‘stimolata’” dal ricorrente, al volante della Lancia Y. La posizione di quest’ultimo viene apprezzata dalla S.C. in chiave di cooperazione colposa ex art. 113 c.p., previa rassegna della relativa giurisprudenza di legittimità. Per aversi cooperazione colposa, “non è necessaria la consapevolezza della natura colposa dell’altrui condotta, né la conoscenza dell’identità delle persone che cooperano, ma è sufficiente la coscienza dell’altrui partecipazione nello stesso reato, intesa come consapevolezza da parte dell’agente che dello svolgimento di una determinata attività anche altri sono investiti”, sempre che “la mera conoscenza dell’altrui partecipazione a condizione che il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o, almeno, sia contingenza oggettivamente definita senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza”. Quando viene in essere una situazione di tal fatta, si impone “a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla 910 condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto”; e “tale pretesa d’interazione prudente individua il canone per definire il fondamento ed i limiti della colpa di cooperazione”, con deviazione dal principio di affidamento e di autoresponsabilità. Nel caso di specie, il ricorrente, “incurante dell’altrui comportamento (a fronte del detto dovere d’“interazione prudente”, che gli avrebbe imposto di desistere dalla propria guida spericolata), proseguiva nell’ingaggio” con la Volkswagen Polo. Il che assumeva rilevanza causale ai fini del successivo evento mortale, sia sotto il profilo della causalità della condotta, sia sul piano della causalità della colpa, “atteso che, violando le generali regole di prudenza e quelle stabilite dal Codice della Strada”, il ricorrente determinava, assieme al conducente della Polo, “una condizione di rischio che quelle regole miravano a prevenire e che rendevano evitabile”. Rischio che nell’occasione, purtroppo, si è concretizzato. Da qui la conferma della condanna pronunciata dal giudice di merito. I precedenti In senso analogo, cfr. Cass., Sez. IV, 2 dicembre 2008, n. 1786, in CED, rv. 242566; Cass., Sez. IV, 2 novembre 2011, n. 1428, in CED, rv. 252940; Cass., Sez. IV, 18 settembre 2014, n. 14053, in CED, rv. 263202; Cass., Sez. IV, 13 novembre 2014, n. 49735, in CED, rv. 261183; Cass., SS.UU., 24 aprile 2014, n. 38343, in CED, rv. 261105, 140 ss. della motivazione. La dottrina G. Grasso, Art. 113, in M. Romano - G. Grasso, Commentario sistematico del Codice penale. II. Art. 85-149, IV ed., Milano, 2012; S. Corbetta, Art. 113, in E. Dolcini - G. L. Gatta (diretto da), Codice penale commentato, I, Milano, 2015, 1806 ss. ed ivi per ulteriori richiami. ARCHIVIAZIONE AVVISO ALLA PERSONA OFFESA Cassazione Penale, Sez. III, 18 febbraio 2016 (13 giugno 2016), n. 24432 - Pres. Amoresano - Rel. Liberati P.M. Di Nardo (diff.) - Ric. F.N. Là dove la notizia di reato, iscritta nel relativo registro, contempli una fattispecie delittuosa, astrattamente commessa con violenza alla persona, l’avviso conseguente la richiesta di archiviazione deve essere in ogni caso notificato alla persona offesa, a prescindere dalle determinazioni dell’accusa circa l’effettività della condotta “violenta” e dalla mancata istanza del querelante ex art. 408, comma 2, c.p.p. Il caso Con decreto dell’11 marzo 2014, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ravenna accoglieva la richiesta di archiviazione del P.M. nel procedimento, iscritto nei confronti di Z.A., per il reato di cui all’art. 609 bis c.p. Avverso tale provvedimento, emesso de plano, propone ricorso per Cassazione la persona, lamentando l’omessa notifica della richiesta di archiviazione, sebbene l’art. 408, comma 3 bis, c.p.p. preveda espressamente che “per i delitti commessi con violenza alla persona, l’avviso della ri- Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi chiesta di archiviazione è in ogni caso notificato, a cura del pubblico ministero, alla persona offesa”. Il Procuratore Generale conclude per il rigetto del ricorso, evidenziando la non necessarietà della notificazione rispetto al caso di specie, posto che, essendo la richiesta di archiviazione fondata proprio sulla accertata mancanza di costrizione al rapporto sessuale della persona offesa, risulterebbe, in concreto, mancante il necessario presupposto della violenza. La decisione Come correttamente rappresentato nel ricorso, il comma 3 bis dell’art. 408 c.p.p., introdotto dall’art. 2, comma 1, lett. g), D.L. 14 agosto 2013, n. 93, impone al P.M. di effettuare “in ogni caso” la notifica della richiesta di archiviazione nei procedimenti, aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona offesa, la quale ultima ha diritto di presentare opposizione, non già nel termine ordinario di dieci giorni, ma in quello speciale di venti. Ciò posto, la giurisprudenza di legittimità ha, di recente, chiarito che la nozione di “violenza alla persona” deve intendersi alla luce dell’ampio concetto di “violenza di genere”, risultante dalle disposizioni di diritto internazionale, ed ha ulteriormente precisato che la comunicazione alla persona offesa della richiesta di archiviazione prescinde da ogni eventuale richiesta dell’interessato e la sua omissione è causa di nullità, ex art. 127, comma 5, c.p.p., del decreto di archiviazione emesso de plano. Ebbene, nel caso in esame, l’indagato risultava incolpato del reato previsto e punito dall’art. 609 bis c.p., delitto, questo, che, per definizione normativa, è commesso con violenza o minaccia alla persona; ciononostante, il P.M. procedente, avanzando richiesta di archiviazione, ometteva il previo e necessario avviso alla persona offesa. Il decreto, emesso de plano dal Giudice per le indagini preliminari, risulta, pertanto, affetto da nullità e non appare, in questo senso, rilevante la circostanza, evidenziata dal medesimo pubblico ministero con la richiesta di archiviazione e, successivamente, ribadita nella presente sede dal Procuratore Generale, per cui l’avviso alla querelante non sarebbe stato dovuto, attesa l’esclusione, da parte della medesima persona offesa, della violenza. Ciò attiene, infatti, al merito della vicenda ed all’eventuale archiviazione per infondatezza della notitia criminis e non anche alle forme da osservare per la procedura di archiviazione, per le quali si deve tenere esclusivamente in considerazione il titolo di reato per cui si procede. I precedenti Cassazione Penale, SS.UU., 29 gennaio 2016, n. 10959, in Dir. pen. proc., 2016, 455. La dottrina C. Bressanelli, La “violenza di genere” fa il suo ingresso nella giurisprudenza di legittimità: le Sezioni Unite chiariscono l’ambito di applicazione dell’art. 408 co. 3 bis c.p.p., in Dir. pen. cont., 21 giugno 2016; P. Tonini, Manuale di procedura penale, 2014, Milano, 600 ss.; C. Iasevoli, Pluralismo delle fonti e modifiche al codice di procedura penale per i delitti commessi con violenza alla persona, in Dir. pen. proc., 2013, 1396 ss. Danno e responsabilità 8-9/2016 PRESCRIZIONE STATUIZIONI CIVILI Cassazione Penale, Sez. II, 27 maggio 2016 (7 giugno 2016), n. 23579 - Pres. Gallo - Rel. Carrelli Palombi di Montrone - P.M. Cetrangolo (diff.) - Ric. D.B. Il giudice di secondo grado, che rilevi l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non può limitarsi a rinviare alle argomentazioni di cui alla sentenza di primo grado circa la conferma delle statuizioni civili ma deve, a questo proposito, effettuare un esame completo del materiale probatorio e, quindi, pronunciarsi sulle doglianze di cui all’atto di gravame. Il caso Con sentenza del 18 luglio 2013, il Tribunale di Foggia condannava D.B. alla pena ritenuta di giustizia. Avverso tale provvedimento, proponeva appello l’imputato; con sentenza del 3 febbraio 2015 la Corte d’Appello di Bari, rilevata l’intervenuta prescrizione del reato contestato, emetteva sentenza di non doversi procedere, revocando la confisca dei beni e confermando le statuizioni in ordine agli interessi civili, con la condanna dell’imputato alla rifusione delle spese legali. Nella specie, pur in presenza di puntuali doglianze nel merito da parte dell’imputato attinenti la condanna ex art. 539 c.p.p., la Corte territoriale si limitava ad accertare l’avvenuto decorso del termine di prescrizione, rinviando, per il resto, alle determinazioni civili contenute nella sentenza di primo grado. Propone ricorso per cassazione l’imputato, deducendo l’assoluta mancanza di motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., nella parte relativa alla pronunciata conferma delle statuizioni civili. La decisione La sentenza impugnata non ha, in alcun modo, preso in considerazione i motivi di gravame, avanzati dall’imputato con riferimento al merito della vicenda, oggetto di contestazione, essendosi, di contro ed esclusivamente, soffermata sulle censure attinenti la questione relativa all’estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Ora, al di là del dato normativo, che prevede, in presenza di una causa di estinzione del reato, di valutare, comunque, le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale (art. 129 c.p.p.), la declaratoria di non doversi procedere per intervenuta prescrizione non determina l’automatica conferma delle statuizioni civili, ma, anzi, impone al giudicante di procedere a rigorosa verifica dei presupposti per l’affermazione della responsabilità civile. È indubbio, infatti, che la decisione di conferma della responsabilità dell’imputato, sia pure ai soli fini civili, presuppone un esame completo del materiale probatorio, acquisito nel grado di giudizio precedente, sulla base dei punti della decisione devoluti con l’atto di impugnazione. Invero, nel ribadire la legittimità della motivazione per relationem, non può farsi a meno di evidenziare che, per costante giurisprudenza, il giudicante, che intenda uniformarsi, sia per la ratio decidendi sia per gli elementi di prova, alla motivazione del provvedimento impugnato, deve assicurarsi della sua consistenza, come nelle ipotesi in cui siano 911 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi dedotte questioni già esaminate e compiutamente disattese ovvero doglianze generiche, superflue o palesemente inconsistenti; solo in questo caso il giudice dell’impugnazione può legittimamente motivare per relationem. In difetto, deve, pertanto, considerarsi viziata da mancanza di motivazione la sentenza di appello che, in presenza di specifiche e puntuali censure su uno o più punti della decisione, si limiti a richiamare le argomentazioni di quest’ultima in termini apodittici e stereotipati. A fronte di quanto sopra, potendosi affermare che sussiste vizio di motivazione, non soltanto là dove vi sia un difetto grafico, ma anche quando le argomentazioni elaborate dal giudicante, a dimostrazione del proprio convincimento, siano prive completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall’interessato con i motivi di appello e dotate di decisività. 912 I precedenti Cass. Pen., Sez. VI, 20 marzo 2013, n. 16155, in CED, n. 255667; Cass. Pen., Sez. VI, 21 novembre 2012, n. 49754, ivi, n. 254102; Cass. Pen., Sez. 3, 13 maggio 2010, n. 24252, ivi, n. 247287; Cass. Pen., Sez. VI, 25 novembre 2009, n. 3284, in Cass. Pen., 2011, 2306; Cass Pen., SS.UU., 28 maggio 2009, n. 35490, in Dir. pen. proc., 2009, 1354; Cass. Pen., Sez. IV, 8 luglio 2008, n. 33309, in CED, n. 241962. La dottrina A. Anceschi, L’azione civile nel processo penale, Milano, 2012, 381 ss.; A. Natalini, Il richiamo al canone dell’economia processuale tiene conto del bilanciamento tra opposte esigenze, in Guida dir., 2009, 39, 82 ss.; A. Chiliberti, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 2006, 918 ss. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi Osservatorio sulla giustizia amministrativa a cura di Gina Gioia DANNO ERARIALE DEL MEDICO L’ONERE DELLA PROVA DEL DANNO MEDICO Corte dei Conti, Sez. giur. regione Emilia Romagna sent. 7 aprile 2016, n. 49 - Pres. F.F. M. Pieroni - Rel. A. Rigoni - Procura regionale c/ XX (Avv. Bernardini e Priolo) - P.M. Q. Lorelli Spetta alla parte pubblica nel processo contabile l’onere di dimostrare la responsabilità del convenuto provando, punto per punto, tutti gli elementi della responsabilità amministrativa, ovverosia il rapporto di servizio, la condotta dannosa, l’elemento soggettivo e il nesso causale. Ai fini della valutazione del nesso causale tra la condotta dei sanitari e il danno indiretto per malpractice medica, non è sufficiente contestare una condotta difforme dalle linee guida prodotte in giudizio dalla parte pubblica (nel caso in cui si dimostri che le stesse sono accreditate presso la comunità scientifica), ma spetta al P.M. contabile la dimostrazione positiva che le scelte diagnostiche e chirurgiche operate nel caso concreto si sono poste quale causa efficiente diretta del disagio arrecato al paziente, o ai pazienti, che ha portato alla richiesta di risarcimento del danno liquidato dalla struttura aziendale pubblica. Il caso La Procura Regionale ha citato in giudizio il Dirigente Medico presso il reparto di Ortopedia e la Dirigente Medico presso il reparto di Radiologia di un Ospedale per ottenere la condanna, a titolo di responsabilità amministrativa, al risarcimento del danno erariale. Il fatto per il quale si reclamava il danno erariale era seguito a un incidente domestico occorso ad una donna che per tale motivo si era recata al pronto soccorso dell’Ospedale nel quale lavoravano i due convenuti dove venne sottoposta ad esami radiologici il cui referto escluse la presenza di segni di fratture e la successiva visita ortopedica si concluse con la diagnosi di trauma distorsivo e la paziente venne dimessa con prognosi di dieci giorni. A causa del perdurare di disturbi, la paziente fu ricoverata presso un altro Ospedale, dove le veniva diagnosticata una frattura del femore sinistro che richiese un intervento di artroprotesi cervico-diafisaria. A seguito di denuncia per il reato di cui all’art. 590 c.p., P.M. ordinario aveva disposto una consulenza tecnica di parte, da cui emerse una responsabilità dei convenuti per la mancata diagnosi di frattura del femore sinistro. Una transazione con gli eredi della paziente, nel frattempo deceduta, per euro 20.000, ne poneva la metà a carico dell’Azienda. La decisione Sull’utilizzabilità della consulenza ordinata dal P.M. penale, o giudici hanno ritenuto non equiparabile alla consulenza Danno e responsabilità 8-9/2016 tecnica d’ufficio, perché si tratta di una consulenza di parte, elaborata in assenza di qualsivoglia contraddittorio proprio in virtù della connotazione di parte (pubblica, ma sempre parte) del P.M. Tuttavia, secondo il Collegio, la consulenza, potrebbe comunque essere liberamente valutata, secondo prudente apprezzamento ai sensi dell’art. 116, comma 1, c.p.c., quale allegazione probatoria di parte da cui poter trarre elementi di giudizio. L’inutilizzabilità è una sanzione che colpisce le prove acquisite in violazione di uno specifico divieto probatorio, che nel diritto processuale penale trova una specifica disciplina nell’art. 191 c.p.p., mentre nel diritto processuale civile consegue a gravi condotte della parte che l’allega, come ad esempio la tardiva produzione. Nel caso specifico si è inteso consentirne la valutazione, secondo il principio del libero convincimento, quale prova atipica, atteso che la stessa non consente l’ingresso illegittimo nel processo di elementi di prova non altrimenti ammessi. Entrambi i medici non avevano preso parte alle trattative intervenute tra la compagnia assicuratrice (che agiva in nome e per conto dell’azienda sanitaria riminese) e i beneficiari del risarcimento civile, né di essere mai stati sentiti per esporre le proprie ragioni. La giurisprudenza ritiene che la transazione tra l’ente o l’amministrazione di appartenenza del dipendente pubblico e i terzi danneggiati sia idonea a costituire il fondamento di un’azione di danno erariale nei confronti del dipendente che, con la sua condotta, abbia generato il presupposto di fatto che ha portato alla transazione medesima, anche se sia rimasto estraneo alla fase delle trattative o ad un eventuale processo civile tra il danneggiato e l’amministrazione pubblica. La fattispecie costituisce una tipica ipotesi di responsabilità per danno indiretto, che nasce dal risarcimento di un danno patito da un terzo per il quale la P.A. abbia provveduto al risarcimento in osservanza dei presupposti di cui all’art. 28 Cost. Secondo il Collegio l’eventuale assenza dei convenuti alla fase procedimentale, durante la quale l’amministrazione di appartenenza, sia pure attraverso la compagnia di assicurazione, è giunta a un accordo transattivo, non può, di per sé, generare l’inammissibilità dell’azione della Procura Regionale, posto che in questa sede ai convenuti sono riconosciute tutte le garanzie di natura processuale per assicurare un perfetto contraddittorio con la parte pubblica nel rispetto dei principi costituzionali della difesa in giudizio. Nel merito, i giudici hanno ritenuto che la Procura regionale non abbia dimostrato l’esistenza della responsabilità amministrativa dei convenuti sia sotto il profilo dell’elemento soggettivo della colpa grave, sia sotto il profilo del nesso causale. Secondo i giudici, l’art. 3, comma 1, L. n. 189/2012 introduce un’esimente che vale solamente nell’ambito della responsabilità penale e unicamente per le fattispecie colpose (tra le altre quelle previste dagli artt. 589 e 590 c.p.), maggiormente frequenti nella professione sanitaria. In questo senso spetta al medico cui sia attribuita una responsabilità penale colposa allegare le linee guida al- 913 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi le quali la sua condotta si sarebbe conformata, al fine di consentire al giudice nel processo penale di verificare la correttezza e l’accreditamento presso la comunità scientifica delle pratiche mediche indicate dalla difesa, e l’effettiva conformità ad esse della condotta tenuta dal medico nel caso di specie. I giudici contabili affermano che spetta alla parte che le allega dimostrare che le linee guida di cui si chiede la valutazione e l’applicazione alla fattispecie concreta siano accreditate presso la comunità scientifica, e, nel caso in cui sia il P.M. contabile ad allegarle al fascicolo del procedimento, questi deve necessariamente dimostrare, già in citazione, che le guidelines che ritiene siano state violate appartengano effettivamente alla categoria di quelle accreditate presso la comunità scientifica, che siano provenienti da fonti autorevoli, che siano conformi alle regole della migliore scienza medica e che non siano ispirate ad esclusiva logica commerciale (Cass. Pen., Sez. IV, 11 luglio 2012, n. 35922). È la parte pubblica nel processo contabile tenuta a dimostrare la responsabilità del convenuto provando, punto per punto, tutti gli elementi della responsabilità amministrativa, ovverosia il rapporto di servizio, la condotta dannosa, l’elemento soggettivo e il nesso causale. L’esistenza di particolari linee guida che si pongono, in astratto, in contrasto con la condotta del medico nel fatto che ha determinato una lesione al paziente non è di per sé sufficiente a dimostrare che la condotta del sanitario sia stata sicuramente connotata da colpa grave. Il concetto di colpa grave si differenzia tra l’ambito penalistico (dove per l’esimente in parola viene in rilievo la sola imperizia, non estendendosi anche ad errori diagnostici per negligenza o imprudenza; e l’ambito giuscontabile (dove la colpa grave del medico sussiste per errori non scusabili per la loro grossolanità o l’assenza delle cognizioni fondamentali attinenti alla professione o il difetto di un minimo di perizia tecnica e ogni altra imprudenza che dimostri superficialità; con ciò introducendo una valutazione ad ampio spettro dell’elemento soggettivo nella responsabilità medica sul piano erariale. Ai fini della valutazione del nesso causale tra la condotta dei sanitari e il danno indiretto per malpractice medica, non è sufficiente contestare una condotta difforme dalle linee guida prodotte in giudizio dalla parte pubblica (nel caso in cui si dimostri che le stesse sono accreditate presso la comunità scientifica), ma spetta al P.M. contabile la dimostrazione positiva che le scelte diagnostiche e chirurgiche operate nel caso concreto si sono poste quale causa efficiente diretta del disagio arrecato al paziente, o ai pazienti, che ha portato alla richiesta di risarcimento del danno liquidato dalla struttura aziendale pubblica. Infatti, si riconosce al medico un ruolo primario nella scelta delle modalità di approccio alla patologia evidenziata dallo stato clinico a lui sottoposto, nonché la facoltà di effettuare l’intervento farmacologico o chirurgico che ritiene necessario per la risoluzione dello stato patologico, anche mediante condotte che si pongono in antitesi con linee guida o protocolli di orientamento terapeutico, proprio per la caratteristica spiccatamente relativistica delle stesse, tanto che l’accreditamento presso le migliore dottrina scientifica deve essere dimostrato da chi intende valersene per ottenere l’esimente di cui all’art. 3, comma 1, L. n. 189/2012. In altri termini, la sola condotta difforme alle linee guida che il P.M. indica come violate o non rispettate appieno, non è sufficiente per sostenere che vi sia nesso causale tra il loro mancato rispetto e l’evento dannoso. Tale dimostrazione, 914 invece, deve essere calata nel caso concreto di cui si discute, ove la semplice difformità tra linee guida allegate in atto di citazione e la condotta tenuta dal medico o dai suoi collaboratori non basta a ritenere sussistente un valido nesso causale ma può, al più, ritenersi un indice rivelatore che va corroborato con altre risultanze di fatto da verificarsi nell’evento storico che ha determinato la fattispecie dannosa. Il Collegio non ha ravvisato la dimostrazione di tutti gli elementi della responsabilità amministrativa, per danno indiretto in ambito medico-sanitario. Ha concordato con le difese dei convenuti secondo cui la lettura di una lastra radiografica per individuare una frattura ossea rientra in un’attività diagnostica particolarmente complessa che dipende da molteplici fattori (età del paziente, nitidezza dell’immagine, algia persistente, ecc....) che incidono sulla valutazione della gravità della colpa. La valutazione della consulente del P.M. contabile ha ammesso la possibilità che il dolore potesse indurre l’ortopedico, sulla base del referto radiologico negativo proprio per la sua difficile intelligibilità, a consigliare un periodo di riposo e una terapia prettamente medica, con una diagnosi di stiramento degli adduttori del tutto compatibile con l’infortunio domestico riferito dalla paziente, nonché ritiene possibile che la frattura si sia scomposta in un periodo successivo al ricovero. I Precedenti Cass., Sez. II, n. 5440/2010; Corte dei conti, Sez. Calabria, n. 111/2015; Sez. Emilia Romagna, n. 124/2014; Corte dei conti, Sez. Emilia Romagna, n. 114/2015; Cass. Pen. 27 aprile 2015, n. 26996; Corte dei conti, Sez. III App., n. 601/2004; Cass. Pen., 18 dicembre 2014, n. 21243; Corte dei conti, Sez. Valle d’Aosta, sent. 10 settembre 2015, n. 11. La dottrina M.S. Bonomi, La responsabilità amministrativo-contabile del medico, in www.federalismi.it. A. Gorgoni, Il diritto alla salute e il diritto all’autodeterminazione nella responsabilità medica, in Obbl. e contr., 2011, D. Zorzit, La responsabilita’ del medico alla luce del “decreto balduzzi”: un viaggio tra nuovi e vecchi scenari, in questa Rivista 2014, 74. A. Roiati, Linee guida, buone pratiche e colpa grave: vera riforma o mero placebo?, in Dir. pen. proc., 2013, 216. B. Tassone, Concause, orientamenti recenti e teorie sulla causalità, in questa Rivista, 2013, 633; M. Mazzola, Appunti in tema di responsabilità civile della pubblica amministrazione, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 799. RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE P.A. FACOLTÀ DI AVVIARE LE TRATTATIVE PER UNA PROROGA CONTRATTUALE Consiglio di Stato, Sez. III - sent. 15 aprile 2016, n. 1532 - Pres. Lipari - Est. Ungari - Cofely Italia S.p.a. (Avv.ti Varrone e Migliarotti) c. Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II (Avv. Contieri) La violazione delle regole di correttezza, che presiedono alla formazione del contratto, può assumere rilevanza solo dopo che la fase pubblicistica abbia attribuito al ricorrente effetti concretamente vantaggiosi, e solo dopo che tali effetti siano venuti meno nonostante l’affidamento ormai conseguito dalla parte interessata. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Sintesi Il caso Una S.p.a., mandataria del r.t.i. affidatario dell’appalto per la realizzazione di un impianto di cogenerazione e di riqualificazione delle centrali di produzione di energia e di gestione dei servizi tecnologici integrati e /o multi global service presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Napoli Federico II, sulla base di contratto del 22 luglio 2003 (rep. 150) della durata di 10 anni, nel 2011, aveva chiesto all’Azienda la proroga del rapporto, in applicazione di quanto disposto dall’allegato II art. 6, comma 2, lett. b), D.Lgs. n. 115/2008 (recante attuazione della dir. 2006/32/CE relativa all’efficienza degli usi finali di energia e i servizi energetici e abrogazione della Dir. 93/76/CEE). L’Azienda aveva acquisito il parere legale sull’applicabilità del D.Lgs. n. 115/2008 al rapporto contrattuale in questione e aveva chiesto al r.t.i. di formulare le proprie proposte progettuali dirette all’efficientamento energetico e al contenimento dei consumi, successivamente presentate e positivamente valutate dall’incaricato dipartimento di ingegneria industriale della medesima Università, il quale ultimo aveva proposto dei miglioramenti progettuali, prontamente apportati dalla SPA. Tuttavia, l’Azienda, sulla base di un altro parere legale i e della decisione dell’AVCP, AG n. 18/13 in data 4 luglio 2013, che hanno affermato l’inapplicabilità dell’art. 6, comma. 2, lett. b), cit., ai contratti antecedenti al D.Lgs. n. 115/2008, con deliberazione n. 482 in data 18 novembre 2013, ha deciso di indire una nuova gara d’appalto, a tal fine, prorogando ulteriormente fino al marzo 2014 il contratto in essere. La SPA ha impugnato la delibera dinanzi al T.A.R. Campania, chiedendone l’annullamento e chiedendo altresì la condanna dell’Azienda al risarcimento dei danni subiti, a causa dell’ingiustificata interruzione delle trattative e della violazione del dovere di correttezza nella fase precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c., riguardo alle spese sostenute per la redazione della proposta progettuale, alla mancata partecipazione per oltre due anni ad altre gare d’appalto ed al danno curriculare. Il T.A.R. ha respinto il ricorso, affermando che la proroga contrattuale, ai sensi dell’allegato II art. 6, comma 2, lett. b), D.Lgs. n. 115/2008, è ammissibile esclusivamente nei confronti dei contratti di servizio energia stipulati dopo l’entrata in vigore del predetto decreto legislativo ed in conformità ai requisiti tecnici stabiliti dall’art. 4. La decisione I giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che la norma invocata prevede univocamente una rinegoziazione del contratto di servizio energia, con modifica delle condizioni ai fini del conseguimento di una maggiore efficienza energetica, ed allungamento (in questo senso, proroga) della durata originaria. Tuttavia nella sentenza appellata, la qualificazione di detta tipologia contrattuale non costituisce, a ben vedere, una premessa che condiziona le successive statuizioni, non essendo contestato che la proroga (la novazione oggettiva) dei contratti in essere sia in linea di principio vietata dalla normativa e che la predetta disposizione costituisca una deroga al divieto, ed essendo invece controversa l’applicabilità della disposizione al contratto stipulato tra le parti nel 2003. La norma mira alla tutela dell’ambiente ed al miglioramento dell’efficienza negli usi finali dell’energia ed è legata all’opportunità di conseguire un più rapido adeguamento dei servizi energia ai sopravvenuti parametri di efficienza energetica, senza attendere la naturale scadenza dei contratti e consentendone la rinegoziazione anticipata, Danno e responsabilità 8-9/2016 incentivandola mediante l’allungamento della durata, con possibilità quindi di spalmare su un periodo più lungo i corrispettivi a fronte degli investimenti necessari per far fronte agli interventi volti al conseguimento dell’efficienza energetica. Una simile finalità riguarda anzitutto i contratti in essere all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 115/2008, per i quali l’opportunità di un efficientamento è maggiore di quelli stipulati in conformità alle previsioni della normativa sopravvenuta, che presuppongono livelli di efficienza superiori. La possibilità di rinegoziazione e di allungamento della durata non va tuttavia collegato alla rispondenza dei contenuti del contratto in essere alle previsioni minime del D.Lgs. n. 115/2008, essendo la deroga al divieto di rinnovazione senza gara giustificabile al solo fine di conseguire migliori risultati ambientali, attraverso l’applicazione dei requisiti di cui all’Allegato II, altrimenti da rinviare alla naturale scadenza contrattuale Specificano i giudici che non sussisteva un impedimento giuridico all’applicazione dell’art. 6, comma 2, lett. b), dell’Allegato II del D.Lgs. n. 115/2008, ma non per questo l’Azienda era obbligata a farlo. Infatti, anche quando una disposizione normativa o una previsione dei precedenti atti di gara consentano la proroga o rinnovazione del contratto con il contraente originario, proprio in quanto possibilità derogatoria di un divieto generale, si tratta di mera facoltà. Sulla domanda di risarcimento del danno il Collegio osserva che la violazione delle regole di correttezza, che presiedono alla formazione del contratto, può assumere rilevanza solo dopo che la fase pubblicistica abbia attribuito al ricorrente effetti concretamente vantaggiosi, e solo dopo che tali effetti siano venuti meno nonostante l’affidamento ormai conseguito dalla parte interessata, come nel caso di annullamento per illegittimità degli atti della sequenza procedimentale, ovvero di revoca della gara o dell’aggiudicazione, o di rifiuto a stipulare il contratto con l’aggiudicataria. Nel caso in esame, tuttavia, l’individuazione del contraente potrebbe forse ritenersi implicita nella decisione di coltivare la rinegoziazione del contratto in essere. Nei confronti della P.A., se non è ipotizzabile una responsabilità precontrattuale, per violazione del dovere di correttezza di cui all’art. 1337 c.c. rispetto al procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, essa è ammissibile con riguardo alla fase successiva alla scelta, in cui il recesso dalle trattative da parte della P.A. è sindacabile sotto il profilo della violazione del dovere del neminem laedere, ove lo stessa sia venuto meno ai doveri di buona fede, correttezza, lealtà e diligenza, in rapporto anche all’affidamento ingenerato nel privato circa il perfezionamento del contratto. Nel caso in esame non può invece ritenersi maturato un legittimo affidamento in ordine alla conclusione del contratto. Infatti, restavano da concordare gli aspetti economici della rinnovazione contrattuale conseguente alla proposta progettuale presentata dall’appellante. Conseguentemente l’alea che non si addivenisse alla condivisione degli oneri economici era ancora significativamente alta, se si considera l’entità dell’investimento (che ammonta, nell’ultima proposta, a 4.742.296,93 euro al netto dell’IVA) ed i condizionamenti derivanti all’Azienda dalle limitate disponibilità finanziarie - elemento che emerge dalle stesse argomentazioni delle parti. I Precedenti C a s s . , S e z . I I I , n . 7 7 6 8 / 2 0 0 7 ; C a s s . , S e z . l a v. , n . 11438/2004; cfr. Cass., Sez. II, n. 477/2013; Cass., Sez. III, n. 12313/2005; Cons. Stato, Sez. VI, n. 816/2005. 915 Giurisprudenza Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sintesi La dottrina A. Perini, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione e la tutela dell’affidamento, in questa Rivista 2009, 819; E. Brugnoli, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione si configura solo dopo l’aggiudicazione, in Giornale dir. amm., 2009, 499. DANNO DA PROVVEDIMENTO ILLEGITTIMO ELEMENTO SOGGETTIVO E DANNO T.A.R. Piemonte, Sez. II - sent. 6 maggio 2016, n. 118 Pres. Testori - Est. Malanetto - Spataro Vincenza e Società V&V S.a.s. ed altro (Avv.ti Tabellini, Benelli, Domenicali e Giacovelli) c. Comune di Verbania (Avv. Simone), Ministero dell’Interno (Avv.ra Stato) Il Comune che si trovi ad intervenire per far fronte all’allarme sociale riscontrato sul territorio rispetto a nuovi fenomeni patologici, quale la ludopatia, e che per questo si trovi in evidente difficoltà di scelta degli strumenti da adottare non può essere imputata la colpa per aver adottato un provvedimento successivamente dichiarato illegittimo. Il caso Due esercenti che avevano installato degli apparecchi da gioco d’azzardosi sono rivolte al T.A.R. per chiedere la condanna del Comune di Verbania al risarcimento del danno dovuto per l’adozione del regolamento per la disciplina delle sale da giochi, che regolava l’orario di accensione degli apparecchi di cui all’art. 110, commi 6 e 7, lett c), t.u.l.p.s., limitandolo alle ore comprese tra le 15.00 e le 22.00, approvato dal Consiglio comunale e successivamente annullato dal medesimo T.A.R., sul presupposto che la disciplina degli orari di esercizio dei giochi afferisse alla materia “ordine pubblico e sicurezza” di pertinenza dello Stato e non fosse di competenza dell’amministrazione comunale. Nel successivo giudizio, le società reclamano i danni derivati dal rispetto della restrizione oraria loro imposta nel periodo compreso dalla data di deposito presso il T.A.R. del ricorso per l’annullamento del regolamento comunale e la data di deposito della sentenza del medesimo T.A.R. Il Comune avrebbe colpevolmente esorbitato dalle proprie prerogative, come acclarato dalla sentenza di annullamento del regolamento comunale provocando alle ricorrenti un danno da perdita di introiti. In una relazione contabile le ricorrenti hanno individuato la media degli incassi orari, che moltiplicata per le ore della giornata di necessaria disattivazione degli apparecchi, avrebbero subito un danno pari a euro 62.271,52 l’una, e a euro 1.350.174,48 l’altra, oltre interessi e rivalutazione monetaria, nonché un importo equitativamente determinato a titolo di sviamento di clientela, posto che negli orari di obbligatorio spegnimento gli utenti si sarebbero verosimilmente indirizzati altrove. La decisione Il Collegio ha rigettato l’eccezione di prescrizione proposta dal Comune poiché il danno lamentato non è un danno istantaneo, connesso all’adozione in sé del regolamento, bensì un danno derivante dall’effetto continuato dell’atto su un rapporto di durata, vale a dire l’esercizio della sala da giochi. I giudici hanno richiamato l’art. 2935 c.c. e afferma- 916 to che nessuna pretesa risarcitoria poteva essere avanzata dalla ricorrenti per l’astratta adozione del regolamento e sinché il danno non si fosse effettivamente realizzato nella loro sfera giuridica. Circa gli elementi costitutivi della fattispecie di danno e, in particolare quello soggettivo, i giudici amministrativi hanno fatto riferimento all’ampio dibattito che si è sviluppato circa la diffusione, gravità e rilevanza di fenomeni sociali di cosiddetta “ludopatia”, ossia dipendenza da gioco, particolarmente pericolosi per alcune fasce sensibili di popolazione e alla complessa presa di coscienza del fenomeno, che ha fisiologicamente preso le mosse dagli enti locali, più vicini al fenomeno sociale, da cui è derivata una esplicita disciplina nell’art. 7 del D.L. n. 158/2012, “Disposizioni in materia di vendita di prodotti del tabacco, misure di prevenzione per contrastare la ludopatia e per l’attività sportiva non agonistica”, con particolare riferimento ai minori, ai limiti ed alle modalità di pubblicità di queste attività, alla loro dislocazione sul territorio. Sulla questione è intervenuta anche la Corte costituzionale - interpellata dallo stesso T.A.R. Piemonte - è intervenuta in materia con la sentenza interpretativa di rigetto n. 220/2014. La Corte ha ascritto la problematica della ludopatia anche a più generali aspetti di tutela della salute, della quiete pubblica e della circolazione stradale, possibili oggetto di regolamentazione da parte dell’ente locale e non solo alla già riconosciuta tutela dell’ordine pubblico, intesa come prevenzione di fenomeni criminali. Il Comune si era determinato ad intervenire proprio per l’allarme sociale riscontrato sul territorio rispetto ai nuovi fenomeni patologici, ha dovuto affrontare un delicato fenomeno nuovo, con connessa evidente difficoltà di scelta degli strumenti. La complessità della problematica si riverbera necessariamente anche sul grado e sulla configurabilità della colpa richiesto, art. 1176 c.c. e art. 2236 c.c., norme che la giurisprudenza ritiene applicabili anche alla responsabilità extracontrattuale. In definitiva, il Comune è pervenuto ad una soluzione che è poi risultata coerente con l’interpretazione costituzionalmente orientata del sistema, come esplicitata dal giudice delle leggi. In tale contesto, il collegio ha ritenuto mancante l’elemento soggettivo. Anche in ipotesi di risarcimento del danno da interesse oppositivo (quale si configura l’azione proposta dalla ricorrenti avverso la limitazione oraria subita) non appare sufficiente, dal punto di vista della configurazione dello stesso elemento oggettivo, il mero annullamento dell’atto incidente sulle prerogative del privato, dovendosi comunque riscontrare una complessiva illiceità della condotta dell’amministrazione in rapporto al bene sostanziale presunto leso. I giudici hanno poi ritenuto che il danno non fosse provato. I Precedenti Cons. Stato, Sez. V, n. 2187/2014; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 17 novembre 2015, n. 2411; T.A.R. Liguria sent. n. 18 9 del 2 014; Corte cost. nn. 3 00/2011 e 220/2014. La dottrina A. Senatore, Lotta alla ludopatia e potere amministrativo, in Urb. e app., 2015, 625; A. Moliterni, Alla ricerca della risarcibilità degli interessi pretensivi: il nodo dei vizi procedimentali, in Giornale dir. amm., 2015, 817. Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danno e responsabilità Indici INDICE DEGLI AUTORI INDICE CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI Argine Stefano L’abuso della cessione del credito risarcitorio......... 887 Batà Antonella Osservatorio di legittimità ................................ Cassazione civile 898 902 11 maggio 2016, n. 9660, Sez. II........................ 9 maggio 2016, n. 9337, Sez. III......................... Facci Giovanni La valutazione del danno in via equitativa, il criterio della differenza dei netti patrimoniali e la responsabilità degli amministratori ................................... 16 maggio 2016, n. 9978, Sez. I ........................ 12 maggio 2016, n. 9758, Sez. II........................ Carbone Paolo Osservatorio di merito .................................... Giurisprudenza 4 maggio 2016, n. 8896, Sez. III......................... 24 marzo 2016, n. 5877, Sez. III......................... 872 19 gennaio 2016, n. 806, Sez. I ......................... 12 gennaio 2016, n. 322, Sez. VI-2 ..................... Franzoni Massimo Colpa e linee guida......................................... 18 dicembre 2015, n. 25442, Sez. III ................... 801 Cassazione penale Gerbi Martina 27 maggio 2016 (7 giugno 2016), n. 23579, Sez. II .. La responsabilità delle banche tra principi generali e norme speciali .............................................. 6 maggio 2016 (30 maggio 2016), n. 22718, Sez. IV 849 Osservatorio sulla giustizia amministrativa ............ 913 807 La delibabilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi finalmente al vaglio delle sezioni unite .......................................................... 831 Milano, Sez. X, 14 maggio 2015, n. 6099.............. Roma, Sez. IX, 27 aprile 2016 ........................... Venezia 17 marzo 2016 ................................... Ferrara 18 marzo 2016..................................... 857 Roma, Sez. XI, 24 febbraio 2016 ........................ Cagliari, Sez. civ., 16 febbraio 2016..................... Miotto Giampaolo L’abuso della cessione del credito risarcitorio......... 887 Cagliari 10 febbraio 2016 ................................. Pistoia 19 gennaio 2016 .................................. Piergallini Carlo Osservatorio di giustizia penale.......................... Catanzaro, Sez. II civ., 6 gennaio 2016 ................. 909 Milano 7 ottobre 2015 .................................... Ponzanelli Giulio T.A.R. La responsabilità medica: dal primato della giurisprudenza alla disciplina legislativa ........................... Piemonte, Sez. II, 6 maggio 2016, n. 118 ............. 816 Possibile intervento delle Sezioni Unite sui danni punitivi .......................................................... 836 Pucella Roberto Causalità e responsabilità medica: cinque variazioni del tema ..................................................... Danno e responsabilità 8-9/2016 916 Milano, Sez. VII, 13 gennaio 2016, n. 227 ............. 884 INDICE ANALITICO Archiviazione 898 Avviso alla persona offesa (Cassazione Penale, Sez. III, 18 febbraio 2016 (13 giugno 2016), n. 24432) in Osservatorio di giustizia penale ......................... Vozza Vera Danni da pioggia intensa: responsabilità e caso fortuito .......................................................... 885 903 904 864 906 902 907 868 908 870 Giudice di pace 821 Spirito Angelo Osservatorio di legittimità ................................ 913 Tribunale civile Monti Silvia L’ente e il processo ‘‘lumaca’’: il danno morale soggettivo alla velocità della luce ............................ 914 Corte dei Conti Sez. giur. regione Emilia Romagna, 7 aprile 2016, n. 49............................................................. Monateri Pier Giuseppe 911 909 910 909 Consiglio di Stato 15 aprile 2016, n. 1532, Sez. III ......................... Gorgoni Marilena La responsabilità della struttura sanitaria .............. 18 febbraio 2016 (13 giugno 2016), n. 24432, Sez. III 4 febbraio 2016 (13 aprile 2016), n. 15324, Sez. IV .. Gioia Gina 827 900 899 898 898 839 844 855 846 910 Cessione di crediti 841 L’abuso della cessione del credito risarcitorio (Giudice di Pace di Milano, Sez. VII, 13 gennaio 2016, n. 917 Numero Demo Danno e responsabilità - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Indici 227; Tribunale di Milano, Sez. X, 14 maggio 2015, n. 6099) nota di Stefano Argine e Giampaolo Miotto ... 884 Circolazione stradale Omissione di soccorso e fuga (Cassazione Penale, Sez. IV, 6 maggio 2016 (30 maggio 2016), n. 22718) in Osservatorio di giustizia penale....................... Cooperazione nei delitti colposi (Cassazione Penale, Sez. IV, 4 febbraio 2016 (13 aprile 2016), n. 15324) in Osservatorio di giustizia penale....................... 909 Responsabilità del medico 909 Colpa e linee guida, di Massimo Franzoni ............. La responsabilità della struttura sanitaria, di Marilena Gorgoni ...................................................... La responsabilità medica: dal primato della giurisprudenza alla disciplina legislativa, di Giulio Ponzanelli .. Causalità e responsabilità medica: cinque variazioni del tema, di Roberto Pucella ............................. Danni punitivi La delibabilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi finalmente al vaglio delle sezioni unite (Cassazione Civile, Sez. I, ord. 16 maggio 2016, n. 9978) Nota di Pier Giuseppe Monateri ...... Possibile intervento delle Sezioni Unite sui danni punitivi (Cassazione Civile, Sez. I, ord. 16 maggio 2016, n. 9978) nota di Giulio Ponzanelli ................ 827 Responsabilità dell’albergatore 836 Danni subiti dall’auto accettata nel parcheggio ma non quelli delle attrezzature fotografiche lasciate in macchina e sottratte (Tribunale di Roma, Sez. XI, 24 febbraio 2016) in Osservatorio di merito............... Danno da eventi atmosferici Danni da pioggia intensa: responsabilità e caso fortuito (Cassazione Civile, Sez. III, 24 marzo 2016, n. 5877), nota di Vera Vozza ................................. 839 Danni subiti per il ritardo di Trenitalia di 99 minuti nonché per il furto subito nel vagone letto (Tribunale di Venezia 17 marzo 2016) in Osservatorio di merito 916 Danno erariale del medico Responsabilità precontrattuale P.A. L’onere della prova del danno medico (Corte dei Conti, Sez. giur. regione Emilia Romagna - sent. 7 aprile 2016, n. 49) in Osservatorio sulla giustizia amministrativa .................................................. 913 Facoltà di avviare le trattative per una proroga contrattuale (Consiglio di Stato, Sez. III - sent. 15 aprile 2016, n. 1532) in Osservatorio sulla giustizia amministrativa..................................................... Diritto d’autore Risarcimento del danno Danni derivanti dalla violazione dei diritti d’autore (Tribunale di Roma, Sez. IX, 27 aprile 2016) in Osservatorio di merito ............................................ 903 Danni procurati con condotta colposa (Tribunale di Catanzaro, Sez. II civ., 6 gennaio 2016) in Osservatorio di merito ................................................. 855 Perdita della capacità di guadagno (Cassazione Civile, Sez. III, 4 maggio 2016, n. 8896) in Osservatorio di legittimità................................................. Violazione dell’obbligo di avviamento (Cassazione Civile, Sez. II, 12 maggio 2016, n. 9758) in Osservatorio di legittimità ............................................. Equa riparazione Inadempimento contrattuale Società La responsabilità delle banche tra principi generali e norme speciali (Cassazione Civile, Sez. I, 19 gennaio 2016, n. 806; Cassazione Civile, Sez. III, 18 dicembre 2015, n. 25442) nota di Martina Gerbi ............. La valutazione del danno in via equitativa, il criterio della differenza dei netti patrimoniali e la responsabilità degli amministratori (Tribunale di Ferrara 18 marzo 2016; Tribunale di Pistoia 19 gennaio 2016; Tribunale di Milano 7 ottobre 2015) nota di Giovanni Facci.............................................................. 844 Prescrizione Statuizioni civili (Cassazione Penale, Sez. II, 27 maggio 2016 (7 giugno 2016), n. 23579) in Osservatorio di giustizia penale .......................................... 899 801 807 816 821 906 904 Responsabilità extracontrattuale Danni causati da cani randagi (Tribunale di Cagliari 10 febbraio 2016) in Osservatorio di merito ........... L’ente e il processo ‘‘lumaca’’: il danno morale soggettivo alla velocità della luce (Cassazione Civile, Sez. VI-2, 12 gennaio 2016, n. 322) nota di Silvia Monti......................................................... 898 Responsabilità del vettore feroviario Danno da provvedimento illegittimo Elemento soggettivo e danno (T.A.R. Piemonte, Sez. II - sent. 6 maggio 2016, n. 118) in Osservatorio sulla giustizia amministrativa ............................. Civile, Sez. III, 9 maggio 2016, n. 9337) in Osservatorio di legittimità .......................................... Responsabilità del notaio (Cassazione Civile, Sez. II, 11 maggio 2016, n. 9660) in Osservatorio di legittimità .......................................................... 907 914 908 898 900 864 911 Promessa di matrimonio Rottura del fidanzamento per giusto motivo (Tribunale di Cagliari, Sez. civ., 16 febbraio 2016) in Osservatorio di merito............................................... 902 Responsabilità civile Responsabilità dei maestri e precettori (Cassazione 918 Danno e responsabilità 8-9/2016 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. itinera GUIDE GIURIDICHE IPSOA LAVORO La guida affronta, con taglio pratico, tutti gli istituti di diritto del lavoro e sindacale, evidenziando gli aspetti maggiormente interessati dal contenzioso. Partendo dall’inquadramento generale della disciplina normativa, sono poste in rilievo le questioni interpretative dando ampio spazio alla casistica giurisprudenziale e ai casi pratici. 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