Vienna, 1785: «Venerdì sera alle 6 andammo al primo dei concerti

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Vienna, 1785: «Venerdì sera alle 6 andammo al primo dei concerti in abbonamento. C’era una gran
riunione di persone di rango. Ciascuno paga per i 6 concerti della Quaresima una Souvrin d’oro, o
3 Dugatten …. Più che 150 abbonati … se non ha debiti da pagare, può ben tenere 2000 fiorini in
banca e li ha di sicuro, perché il tono della casa è, per quanto riguarda il mangiare ed il bere,
assolutamente economico». Da buon pragmatico preciso e pedante, Leopold Mozart
informava, in una serie di lettere, la figlia Nannerl riguardo lo stato delle finanze di
Wolfgang. Leopold si trovava allora a Vienna, ospite del figlio, in quella casa del quartiere
bene che costava di affitto quanto il suo stipendio. Vi era giunto l’11 Febbraio 1785 e vi
rimase sino al 25 Aprile di quell’anno. Era una visita di cortesia in ricambio del viaggio
che, non molto prima, Wolfganf e la moglie Constanze Weber avevano compiuto a
Salisburgo; una sorta di presentazione della sposa presso Leopold e Marianne (Nannerl, la
sorella di Wolfgang), un viaggio che, per una ragione o per l’altra, era stato più volte
rimandato da quando i due si erano sposati. Naturalmente il tempo trascorso insieme non
indusse il suocero a cambiare idea sulla sposa di Wolfgang, né tanto meno indusse la
cognata a mutar atteggiamento.
Tuttavia ora, ospite a Vienna in una bella casa, avviluppato dal turbinio frenetico e
scintillante della vita di Wolfgang si lasciò conquistare e, per un momento, fu veramente
orgoglioso della posizione raggiunta dal figlio: «Ogni giorno un concerto e sempre studiare e
scrivere musica etc. è impossibile descrivere tutto, l’agitazione, il putiferio: da che mi trovo qui, il
fortepiano di tuo fratello è stato trasportato almeno 12 volte, da casa al teatro, o in altre case. Si è
fatto costruire un grande Fortepiano pedale che sta sotto lo strumento, ed è di tre spanne più lungo
e straordinariamente pesante. Tutti i venerdì viene portato alla Mehlgrube, l’hanno portato anche
dal Co.Cziczi e dal principe Kaunitz». E come non esserlo se a tessere le lodi è Haydn in
persona: «Sono stati eseguiti i nuovi quartetti – scrisse Leopold il 16 febbraio, sempre a
Nannerl – ma solo gli ultimi tre, che egli ha aggiunto ai tre che abbiamo noi: sono un poco più
facili, ma scritti in maniera eccellente. Il Sig. Haydn mi ha detto: “Le dico davanti a Dio, da uomo
onesto, che Suo figlio è il più grande compositore che io conosca di persona e di nome; ha gusto ed
inoltre un’enorme tecnica compositiva”».
In tale brillante ambiente salottiero ed aristocratico di accademie il concerto per pianoforte
ed orchestra fungeva da importante elemento attrattivo. Significativo dunque che Mozart
ne scrivesse in buon numero, dato che erano una via di mezzo «tra il troppo facile ed il
troppo difficile – scrisse al padre nel Dicembre del 1782 – sono molto brillanti, gradevoli
all’orecchio, pur senza scadere nella vuotaggine; qua e là anche gli intenditori avranno di che essere
soddisfatti, ma in modo che anche coloro che non lo sono proveranno piacere, senza sapere perché».
Tuttavia quello cui assistette Leopold al Casino alla Mehlgrube la sera del suo arrivo a
Vienna l’11 Febbraio 1785 era qualcosa che si staccava dai precedenti concerti: il KV 466
era in modo minore, “agitato”, con zone ombrose unite a temi cantabili ed una coda
terminante il concerto in re maggiore. Il primo tempo, in forma sonata, lasciava spazio ad
un terzo tema presentato dall’ingresso del pianoforte, mentre il secondo movimento era
cantabile, ma l’impiego del couplet ne drammatizza l’andamento; il finale Rondò con il
suo scorrere fluido e veloce era gaio. Gli piacque molto e con entusiasmo descrisse il
«grande concorso di gente di rango» e che il concerto «fu incomparabile, l’orchestra eccellente»,
ma soprattutto scrisse del «nuovo, superbo concerto per piano di Wolfgang, che il copista stava
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ancora copiando quando siamo arrivati e del rondò di cui tuo fratello non ha avuto il tempo di
suonare perché stava rivedendo le copie».
Beethoven amò molto questo concerto tanto che scrisse le cadenze che di solito ancor oggi
vengono eseguite.
Vienna e ancora Vienna, «questa Vienna con il suo campanile di Santo Stefano, le sue belle
donne, lo sfarzo delle sue vie e dei suoi palazzi, cinta com’è dal Danubio come da innumerevoli
nastri, distesa nella fiorente pianura che gradualmente sale verso i monti sempre più alti, questa
Vienna con i suoi ricordi dei più grandi maestri tedeschi dev’essere un terreno fertile per la fantasia
di un musicista» scriveva Robert Schumann sulla Neue Zeitschrift für Musik nel 1840. È qui
che nel 1797 nacque Franz Schubert ed è sempre qui che egli trascorse praticamente quasi
tutta la sua pur breve vita, rimanendo ai margini dello sfavillio mondano, frequentando
poco il mondo aristocratico, privilegiando la compagnia di una ristretta cerchia di amici
con la quale condividere arte e vita.
Gli amici lo ricordavano come un uomo piuttosto piccolo di statura e pingue, con una
pancettina prominente, le spalle curve, una selva di capelli irti e cresposi, un volto grasso
troppo largo e rotondo, labbra tumide e quasi africane, il naso schiacciato e un po’ camuso,
il mento grosso e segnato da una fossetta curiosa. Ma sotto le sopracciglia folte e irsute,
dietro gli occhiali a stanghetta, Franz Schubert – come scrisse Joseph von Spaun, che gli fu
anche compagno quando frequentava per studio il regio Convitto di Vienna – aveva due
occhi splendenti, accesi da una fiamma divina. In virtù di tali caratteristiche fisiche gli
amici lo appellarono bonariamente “Schwammerl”, ovvero “funghetto”.
Tutti sanno che non fu facile per Franz Schubert potersi dedicare esclusivamente alla
musica, per via dell’opposizione famigliare; si preferiva divenisse un maestro di scuola,
come lo era il padre. Certamente queste difficoltà contribuirono ad accentuare alcune
caratteristiche insite nel suo un carattere e forgiarono una personalità assai sfaccettata, in
un certo senso dalla «doppia natura, - ricordava il commediografo Eduard von Bauernefeld,
nel novembre del 1857 in una lettera indirizzata a Ferdinand Luib - l’allegria viennese
congiunta e nobilitata da un tratto di profonda malinconia. Poeta nell’intimo e, di fuori, quasi una
specie di gaudente, come persona naturalmente veniva giudicato da quel che appariva all’esterno;
inoltre alla sua figura mancavano le forme consuete delle convenzioni sociali, così che un uomo
colto qualsiasi poteva credersi assai migliore del grezzo cantore dei Müllerlieder o della
Winterreise». Ed in proposito anche un altro amico, col quale condivise l’appartamento,
Johann Mayhofer (che morì folle e suicida): «Il suo carattere mescolava tenerezza e rudezza,
sensualità e candore, socievolezza e malinconia. Modesto, aperto, infantile, ebbe protettori e amici
che presero parte ai suoi destini e alle sue opere con tutto il cuore, aprendo la strada a quella
partecipazione generale che sicuramente ci sarebbe stata se fosse vissuto più a lungo e che sarebbe
aumentata ancora se non fosse morto nel fiore degli anni».
Nel fiore degli anni, nel 1828, per una malattia frutto di quel lato gaudente, che gli procurò
momenti nel quale dovette nascondersi al mondo per le conseguenze sul suo fisico (come
non ricordare in proposito la frase buttata lì nei quaderni di conversazione di Ludwig van
Beethoven dal nipote Karl: «Si loda molto lo Schubert. Egli [il sig. Mosel] però dice che si deve
nascondere»). I primi segni della malattia si presentarono alla fine del 1822, in
quell’autunno che invece risulta assai prolifico di idee e composizioni significative: in
Ottobre si dedica alla stesura di due movimenti di una sinfonia, completi di
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orchestrazione, ed inizia un terzo movimento. Ma il lavoro si ferma nel Novembre, lo
sospende forse per dedicarsi alla stesura della Wanderer-Fantasie e la partitura finisce nelle
mani dell’amico Anselm Hüttenbrenner, che forse stava pensando ad un’esecuzione a
Graz per la Società Stiriana. Il concerto non venne poi realizzato e la partitura rimase nel
cassetto, senza che Schubert la richiedesse indietro, fino al 1865, quando Johann Herbek
rinvenne, tra le carte di Hüttenbrenner, il manoscritto e ne programmò l’esecuzione il 17
Dicembre dello stesso anno.
Che Schubert fosse impegnato in altro lavoro e che poi fosse stato assorbito dai propri
problemi di salute non giustifica completamente l’abbandono totale della Sinfonia che
rimarrà incompiuta. Probabilmente si aggiunse una certa insicurezza che il compositore
aveva nelle proprie capacità creative. Se leggiamo la risposta che inviò nel 1823 a Josef
Peitl - insegnante nella scuola che aveva frequentato Schubert, il quale gli chiedeva una
lavoro orchestrale da far suonare ai suoi studenti - ne riceviamo appunto una sensazione
di sfiducia, anche perché di pronto vi erano i due movimenti dell’Incompiuta: «Da che non
ho niente per orchestra che posso rendere noto al mondo con chiara coscienza e vi sono così tanti
brani di grandi maestri, come per esempio le ouvertures di Beethoven Prometheus, Egmont,
Coriolano …. devo molto gentilmente chiederVi perdono per non essere in grado di soddisfarVi in
tale occasione, vedendo che mi sarebbe assai svantaggioso comparire con un mediocre lavoro». Un
precedente era già occorso: due anni prima, nel 1821, Schubert aveva steso un abbozzo di
Sinfonia, approntando gli schizzi di tutti e 4 i movimenti, per poi abbandonarla e non
terminarla.
La musica è paradigma della vita e nella Sinfonia, poi soprannominata “Incompiuta”,
nella quale serenità e tensione, melodia e malinconia scandiscono il procedere di entrambi
i movimenti; la liricità dei temi si carica di un senso di ansietà e tragicità nei passi in ritmo
sincopato e sono il fluire ossessivo delle quartine di sedicesimi e trentaduesimi, gli accordi
che si ribattono in trentaduesimi preceduti da una battuta di pausa che alterna l’atmosfera
più distesa ad una più tesa.
Nella più grande semplicità il brano si annuncia; violoncelli e contrabbassi soli creano una
breve introduzione e su di un tappeto di quartine di sedicesimi steso dai violini l’oboe ed
il clarinetto porgono il primo tema in si minore; un breve passo dei corni presenta il
secondo tema eseguito dai violoncelli riproponendo con il timbro caldo degli strumenti
un’atmosfera malinconica ed un frammentino puntato che circolerà da uno strumento
all’altro creando una sorta di elaborazione timbrica, quasi per piani più che in senso
verticale. Non vi è un profondo lavoro di rielaborazione tematica o armonica, quanto
piuttosto un privilegiare il circolare di frammenti tematici fra gli strumenti. Un clima fra
melodico e teso che si ritrova anche nel secondo tempo e che risolve la sua dualità con la
coda finale, quasi che «la Weltschmerz, il dolore terreno, si dissolve nell’infinito».
Elena Ceranini
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