Sequeri legge Bertuletti D i b at t i to v erità di Dio, libertà dell’uomo I n questo corposo lavoro, dalla tessitura fitta e di intarsio fine, Angelo Bertuletti, filosofo, teologo, professore ordinario della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, mette a disposizione la summa di un lungo e alto magistero dell’intellectus fidei. Per l’audacia della sua decostruzione storica e l’originalità della sua costruzione sistematica questa proposta costituisce certamente un evento nell’ambito della ricerca europea impegnata con il sapere della fede. Naturalmente, non è questa la sede per una puntuale recensione analitica e critica dell’impianto e dei contenuti di questo singolare trattato. Il mio intento è piuttosto quello di sintetizzare, soprattutto a beneficio del lettore non specialista, ma seriamente interessato, i termini della provocazione che esso rivolge a una consolidata narrazione del rapporto tra fede e ragione all’interno della quale si dispone il discorso moderno (teologico e filosofico) «su Dio». In riferimento a essa, apriremo qualche interrogativo che potrebbe allargarne la recezione e il dibattito nell’orizzonte propriamente contemporaneo. Fede e ragione oltre l’esteriorità reciproca L’assunto fondamentale è questo. L’evento cristologico realizza il principio costitutivo dell’intenzionalità realistica della fede, che è la rivelazione di Dio, proprio in quanto istituisce l’inclusione della differenza creaturale, ossia la libertà umana, nella determinazione della verità assoluta, ossia la comunicazione di Dio. L’ i n c l u s i o n e d e l l a « d i f f e r e n z a c r e a t u r a l e » in Dio che si rivela In questa prospettiva, la prima parte, più che l’ultima, appare come il momento della verità (è il caso di dirlo) dell’intera ricerca. Essa, infatti, si applica puntigliosamente alla deduzione storico-teoretica delle ragioni per le quali la tradizione occidentale, nata sul terreno di una sostanziale rifondazione della dottrina su Dio, che trae dalla novità cristologica l’ispirazione a far convergere la veritas graeca e la veritas haebraica del divino, abbia finito per consegnarci in eredità un assetto di sostanziale esteriorità reciproca della ragione e della fede. Un’esteriorità in virtù della quale la manifestazione dell’evento cristologico di Dio e la costituzione dell’intenzionalità veritativa del soggetto, divenute estrinseche l’una all’altra, hanno alla fine introdotto nella nostra cultura una reciproca estraneità (indicata nella radicale eterogeneità del «naturale» e del «soprannaturale»). Da un lato, abbiamo così un’idea della filosofia come ambito del sapere che totalizzerebbe il dominio della ragione umana proprio in quanto orizzonte estraneo alla pretesa di verità della fede (e quindi alla teologia). Dall’altro, una concezione della teologia che deve custodire la sua specificità, in quanto sapere della fede rivelata, proprio nella sua eccedenza alla logica veritativa della ragione (e quindi della filosofia). L’orientamento attuale è che la distinzione deve essere mantenuta, ma la scissione e l’estraneità devono essere superate. Bertuletti mette in campo direttamente l’impianto di una risoluzione cristologica assoluta della separazione. La verità cristologica di Dio viene fatta valere come principio di una vera e propria costituzione antropologica della verità di Dio: in cui all’uomo è definitivamente consegnata proprio la libertà di decidere ultimamente e irrevocabilmente di sé. L’evento cristologico appare qui come l’evento assoluto della verità di Dio non semplicemente in quanto accadere finito dell’assoluto divino che si comunica nella temporalità storica dell’umano, bensì, più radicalmente, in quanto attuazione assoluta della verità dell’umano che va a definire la generazione eterna di Dio. Tra Barth e Rahner In questa linea potremmo iscrivere la prospettiva aperta da Bertuletti nell’icona di un barthismo antropologicamente realizzato (e teologicamente rovesciato, in vista della sua implementazione filosofica, in chiave rahneriana). Egli stesso ci indirizza verso questa formulazione quando, nelle conclusioni del capitolo terzo, lascia affiorare il lato positivo del suo debito barthiano nella difesa dell’indeducibilità della cristologia dalla teologia, ma individua l’insufficienza del ricupero antropologico che l’assoluto novum cristologico di Dio impone alla teologia medesima. Neppure l’integrazione già tentata da Balthasar appare risolutiva. «La teologia trinitaria di von Balthasar si distingue da quella di Barth, di cui condivide l’opzione cristologica, per la positività che essa riconosce all’antropologia (...). Ciò che essa trascura è che la posi- Il Regno - at t ua l i t à 20/2014 703 tività riguarda l’antropologia in quanto alterità irriducibile al suo paradigma teologico e proprio perciò capace di determinare in modo nuovo il suo stesso principio. Questa prospettiva, lungi dall’essere incompatibile con il primato della cristologia, lo realizza, poiché comprende la cristologia non come una “modalizzazione” dell’essere di Dio nella forma umana, ma come l’evento in cui Dio conferisce alla differenza creaturale la capacità di determinare la sua stessa comunicazione» (528). Perché dico di un’ispirazione barthiana che è anche realizzata, e non semplicemente rovesciata? Lo spunto lo trovo proprio nell’analisi prodotta a riguardo dell’impostazione di Rahner («l’altro fondatore della teologia trinitaria contemporanea»; 515), della quale Bertuletti intende rifondare il cosiddetto Grundaxiom, ossia il principio regolativo supremo del pensiero dell’assoluto di Dio coerente con la rivelazione storica del Figlio («La Trinità economica è la Trinità immanente, e viceversa»). Nello svolgimento della formulazione rahneriana, là dove si tratta di istituire un’immanenza divina dell’accettazione divina della comunione con l’uomo, che comporta la sua consegna all’irriducibile libertà dell’uomo, Rahner individua lo spazio di questa correlazione nella figura propriamente divina dell’amore, che potrebbe essere descritta così: «L’autocomunicazione di sé che si vuole assolutamente e crea la sua possibilità di accoglimento e questo suo accoglimento». La paradossale affinità barthiana della formula non sfugge al nostro autore: «La vicinanza non solo terminologica della teologia trinitaria di Rahner con quella di Barth appare tanto più significativa in quanto essa è raggiunta a partire da un’opzione contraria a quella che regge la teologia di Barth». Lo stesso assioma fondamentale che è stato ricevuto (e discusso) nella teologia contemporanea come manifesto della svolta antropologica, è suscettibile di una lettura perfettamente barthiana (Jüngel). Libertà umana e autocomunicazione divina In effetti, Bertuletti non intende uscire da questa produttiva ambivalen- 704 Il Regno - at t ua l i t à 20/2014 za, dato che «la difesa dell’assioma fondamentale appare del tutto convincente» (521). Il punto problematico sta nel fatto che l’elaborazione sistematica del concetto di auto-comunicazione di Dio, in Rahner, «rimane al di qua delle possibilità di un approccio antropologico-trascendentale, poiché non tematizza il rapporto del concetto con la realtà» (ivi). Mentre in Barth il residuo di esteriorità, a motivo del quale l’elaborazione sistematica non appare all’altezza del principio cristologico di rivelazione, sta nel fatto che lo scarto fra l’a priori teologico e l’effettività cristologica è debitore dell’esteriorità della metafisica moderna (Kant), in quanto essa appare, nella prospettiva della fede, funzionale alla salvaguardia dell’assolutezza teologica e dell’indeducibilità antropologica della cristologia (cf. 514). In entrambi i casi, l’intenzionalità rivolta all’assoluto cristologico, formalmente ineccepibile, non dà conto della sua effettività antropologica ma solo della sua attitudine a rappresentarne teologicamente il fondamento. La residua esteriorità che marca il principio cristologico della comunicazione di Dio (che deve apparire intrinseco alla realtà «immanente» della generazione del Figlio, proprio perché effettivamente determinato dall’attuazione «economica» della sua incarnazione), vuole essere superata da Bertuletti proprio mediante la radicale valorizzazione dell’assoluto antropologico a cui la cristologia dà luogo. Nel senso per cui proprio l’assolutizzazione della libertà umana è l’autentica evidenza dell’assoluta autocomunicazione di Dio che vi è implicata come fondamento. In questa indeducibile libertà dell’evento cristologico Dio può e deve essere compreso nella sua verità, precisamente in quanto, nell’effettività di tale evento deve essere compresa la riuscita antropologica della libertà che lo definisce. Detto con la formula conclusiva di Bertuletti: «L’intera riflessione teologica consiste nella determinazione della forma della coscienza per la quale l’appartenenza dell’uomo a Dio come ciò “che fa una differenza in Dio” non è più solo una “idea” della ragione, ma il termine reale della sua intenzionalità. Questa intenzionalità non può avere altra manifestazione che la verità di Dio rivelata in Gesù Cristo. Tutta la concettualità teologica consiste nella tematizzazione della necessità che regge questa intenzionalità» (590; sottolineatura mia). Un trattato sulla ragione teologica Il lavoro di Bertuletti è concepito come un trattato su Dio, ma è svolto come un trattato sulla ragione teologica. Nella teoria dell’autore, un trattato sulla ragione teologica si giustifica fondamentalmente proprio come trattato su Dio; e, reciprocamente, un trattato su Dio non può che includere un trattato di teologia della ragione. Bertuletti intende far valere, come chiave non metafisicamente o trascendentalmente surrogabile dell’intenzionalità realistica della fede, il fatto che soltanto la realtà di Dio in essa può giustificarla come attuazione della verità di Dio nella libertà dell’uomo, esibita cristologicamente. In altri termini, l’attuazione cristologica di questa libertà umana come accadere di Dio attesta la verità teologica del suo accadere in Dio. Il primo corollario di questo assunto, sul piano della teologia filosofica e, rispettivamente, dell’antropologia della verità è definito nel fatto che, nella sua attuazione credente, la determinazione antropologica effettiva di questa libertà si rende fenomenologicamente accessibile alla ragione umana come il luogo proprio della rivelazione della verità. Il corollario entra evidentemente in tensione con una storia degli effetti della tradizione teologica e filosofica occidentale che si è attestata piuttosto su un regime di separazione e di parallelismo dei due approcci. Le sue motivazioni vanno dunque storicamente indagate per rapporto allo scostamento nei confronti dell’unità implicata in questa rappresentazione dell’originario seme cristologico della nostra cultura. L’espansione analitica del primo capitolo esplora puntigliosamente le trasformazioni del regime della conoscenza che – direttamente o indirettamente – corrispondono a un mutamento del modo di pensare Dio per rapporto alla verità: nell’orizzonte della metafisica della grande scolastica medievale e, rispettivamente, nell’oriz- zonte della svolta trascendentale moderna. La prima ricognizione mette capo all’ipotesi – suggestiva – di una concordia discors di Tommaso d’Aquino e di Duns Scoto che apre una storia degli effetti gravida di conseguenze sulla modernità, giacché il modello scotista del rapporto fra teologia metafisica e teologia rivelata finirà per essere sovradeterminato nella recezione razionalistica dell’esteriorità di ragione e fede; e il modello tomista rimarrà sottodeterminato nella sua vis unitiva, nella recezione dogmatica di un rapporto preambolare della ragione nei confronti della fede. La seconda ricognizione fa valere l’ipotesi che le due anime del kantismo (l’esteriorità della fede dogmatica alla ragione critica, da un lato, e la limitazione cognitiva della ragione rispetto all’apertura trascendentale della coscienza, dall’altro) abbiano determinato l’ambivalenza metafisica della soggettività moderna quale principio e/o limite della verità assoluta intenzionata dalla fede teologale. Il banco di verifica della transizione di questa ambivalenza nella contemporaneità è il progetto della fenomenologia di Husserl, testato nei suoi incrementi o trasformazioni contemporanee attraverso le varianti esibite da Heideger, Lévinas, Marion, Ricoeur. Di fatto, Bertuletti riconosce alla fenomenologia l’oggettiva capacità di convergere filosoficamente con l’obiettivo della teologia nelle condizioni determinate dalla crisi della (esteriorità) metafisica classica e (dell’ambivalenza) della soggettività trascendentale. La circolarità di fenomenologia, ontologia e teologia sarebbe suscettibile di adeguare l’istanza fondamentale della teologia contemporanea: ossia, la necessità di pensare il realismo della costituzione antropologica dell’effettività teologale della verità, senza compromettere – anzi riconoscendo la necessità – della trascendenza assoluta di Dio. Una vistosa elusione Nell’ambito di questa ricostruzione-decostruzione non può sfuggire una vistosa elisione, che rimuove l’intero passaggio dell’idealismo tedesco. La puntigliosa e analitica ricognizione, infatti, passa direttamente da Kant a Husserl. L’elusione colpisce, dato che la filosofia idealistica della ragione e di Dio ha messo in campo la riabilitazione di una continuità, e non solo di un superamento, nei confronti della problematica ontologico-spirituale della metafisica antica. Non senza intrattenere un rapporto cruciale – sia in termini di recezione, sia in termini di progettazione – con l’idea e con la realtà di Dio, esibendo sulla scena della nostra cultura il tentativo più audace mai compiuto dalla filosofia ormai «separata» di tentarne la «riconciliazione» post-metafisica con l’unità trascendentale della coscienza e della verità. Quale che sia il bilancio critico che deve esserne stabilito, un bilancio, appunto, va certamente pronunciato. Tanto più se si pone mente al fatto che l’intera filosofia contemporanea, sui temi ontologicamente e antropologicamente sensibili del divino e della finitezza, irriducibili al dispositivo gnoseologico della verità (Kant) ha giocato – e gioca – la sua partita sulla scacchiera delle mosse di Hegel (e di Schelling). Per contrastarle definitivamente, riconducendole alla vecchia metafisica, o per farne lievitare una nuova soggettività, non importa. La teologia filosofica della storia, dominante nella stagione biblico-patristica, che la teologia stessa aveva abbandonato, è riabilitata: in una posizione esterna alla teologia rivelata della fede, ma non estrinseca alla storicità cristologica del divino. Nella ripresa conclusiva del suo saggio, Bertuletti dedica soltanto un inciso breve e liquidatorio al gesto speculativo di Hegel (e lo fa en passant, nel contesto della esposizione del pensiero teologico-biblico di Beauchamp, alle pp. 575-577). Il pensiero hegeliano vi è riassunto nel progetto di «ritrascrivere l’escatologia cristiana nel registro della ragione». L’intero «sistema» è sigillato nell’assunto (giudicato velleitario) di identificare e risolvere la libertà nella ragione, che rappresenta l’effettività dello Spirito e guida la storia. La critica è che lo Spirito hegeliano «non ha una qualità teologica», e ciò che Hegel chiama la «conoscenza di Dio» è da giudicare teologicamente «privo di portata reale», poiché porta su una formula «che si pretende più radicale dell’effettività di Dio» (577). Il sommario giudizio sintetizza indubbiamente un protocollare fin de non recevoir che è stato largamente condiviso dalla teologia. L’interpretazione è classica, certo: ma ormai coralmente messa in discussione nel dibattito degli ultimi decenni. In ogni caso, in un trattato che dedica alle pieghe più stremanti della gnoseologia di Kant e di Husserl l’onore di una discussione analitica di alto profilo, differenziata e di prima mano, questo trattamento suscita obiettivamente una certa sorpresa. E rende intrigante la ricerca delle sue ragioni più profonde. Nel frattempo, mi limito a esplicitare qualche indizio della necessità, interna allo svolgimento di Bertuletti, di ritornare più approfonditamente sull’argomento. Qualche interrogativo Per cominciare, lo stesso Grundaxiom rahneriano è pensabile soltanto in una costellazione di pensiero attraversata dallo hegelismo. Motivo di opposte valutazioni, come il dibattito teologico sulla «svolta antropologica» ha mostrato: confermandolo, in modo più o meno adeguato, come un tema di pertinente approfondimento. Del resto, una formula esplicativa dell’amore assoluto come «l’autocomunicazione di sé che si vuole assolutamente e crea la sua possibilità di accoglimento e questo suo accoglimento» è impensabile in un quadro postkantiano, ma solo in un orizzonte post-hegeliano. Lo stesso si può dire, del resto, al di là di ogni corriva istituzione di paralleli ideologici, della «autocomunicazione di Dio posta da Barth» come perno della sua deduzione cristologica della teo-logia (e non dalla teo-logia, appunto). Dopotutto, non si può dimenticare che la figura dell’autocomunicazione di Dio stesso, alla quale proprio Hegel ha restituito potenza ontologico-relazionale, è talmente evocativa dell’antica teologia biblicopatristica della oikonomia rivelata da essere finita (in epoca «hegeliana») nella costituzione dogmatica Dei Filius del concilio Vaticano I (cf. Denz 3004), che è la parte più bella e più attuale di tutto il testo. Fino a Hegel, infatti, nella scolastica teologica come Il Regno - at t ua l i t à 20/2014 705 anche nella filosofia illuministica, rivelazione di Dio significava correntemente, in un’accezione gnoeseologico-informativa, comunicazione delle verità divine (in questo senso si può lecitamente eccepire al secco giudizio della «totale» inutilità ermeneutica delle «affinità riscontrate dai commentatori con i modelli dell’idealismo tedesco», di p. 514). Naturalmente, in riferimento a una lettura convenzionale che riconducesse Barth al modello idealistico standard, ancora largamente diffusa fra i teologi, la resistenza è più che giustificata. Ma, appunto, non è l’unica possibilità ermeneutica della connessione. Infine, ci si può anche domandare se la stessa enfasi di Bertuletti sull’orizzonte ontologico-teologico del sapere della coscienza e della libertà oltre i limiti kantiani della ragione, nonché il riferimento alla fenomenologia più che husserliana resa possibile dalla cristologia teologica, e soprattutto il ricorso alla nozione di totalizzazione del sé, come figura radicale del rapporto alla verità e a Dio, siano realmente pensabili in un orizzonte post-kantiano, o anche post-husserliano, senza tradire il loro più sostanziale debito post-hegeliano. Insidiose autoreferenzialità La mia domanda finale, che pongo nella fiducia che possa essere ricevuta come contributo a un più compiuto dispiegamento delle ragioni dell’assunto centrale del «trattato», con il quale consento programmaticamente, prenderà la mosse da un passo in cui l’intreccio delle due letture (trattato sulla rivelazione cristologica di Dio – trattato sulla ragione teologica dell’umano) appare nel suo nodo epistemologico. «Per elaborare una dottrina della conoscenza di Dio si deve rompere l’equivalenza fra il concetto teologico di mistero e la teoria metafisica dell’inconoscibilità di Dio, superando la contaminazione tra i due dispositivi, biblico e metafisico, che ha segnato la tradizione teologica. La distinzione fra i due accessi, naturale e soprannaturale, introdotta dalla scolastica come correttivo dell’apofatismo, non deve essere riassorbita, ma deve esse- 706 Il Regno - at t ua l i t à 20/2014 re ricondotta al suo vero fondamento, la forma di reciprocità della coscienza teologale. Essa sfugge a una teoria della conoscenza di tipo concettualistico, la quale risolve la questione dell’evidenza nella corrispondenza biunivoca fra concetto e realtà. Poiché il medio della conoscenza di Dio non è il concetto, ma l’atto totalizzante del sé, la mediazione antropologica non è un limite, ma la condizione interna del suo realismo. La verità di Dio è in se stessa indisponibile, non perché essa è sottratta alla conoscenza, ma perché essa non si manifesta se non come compimento dell’intenzione della coscienza nella quale essa si anticipa» (585-586). La domanda riguarda proprio la congruenza con l’assunto di quel residuo idealistico che insidia la figura trascendentale di un «atto totalizzante del sé» quale mediatore antropologico dell’intenzione realistica della fede. Mi chiedo cioè se la fenomenologia biblica di Gesù e il principio cristologico dell’incarnazione consentano di mantenere questa figura senza dialettizzarla. E mi chiedo se, lungi dall’offrirle ospitalità teologica, non sarà necessario disinnescare «cristologicamente» l’insidiosa autoreferenzialità che è virtualmente immanente all’idea moderna di coscienza. Proprio come è necessario superare «trinitariamente» la connotazione autoreferenziale dell’idea metafisica di Assoluto. L’instabile pacificazione con l’assetto dominante del tema filosofia-teologia, che Bertuletti giustamente descrive come «agnosticismo» filosofico su Dio ed «esteriorità» teologica alla filosofia, dipende anche dalla stratificazione di effetti storico-culturali e storico-politici che, pur ricorrentemente messi in discussione, sono stati concordemente custoditi come antidoto (in mancanza di meglio) ai pericoli del fondamentalismo religioso e dell’assolutismo politico. Disinnescare l’ambivalenza Nell’economia del suo lavoro teorico, Bertuletti non mette esplicitamente a tema la costellazione culturale più complessiva della separazione indagata nei sistemi teorici. Ora però, l’eredità moderna del trascendentale ha fini- to per consegnare alla forma dell’autocoscienza, intesa come totalizzazione di sé e come libertà di autodeterminazione, anche il gesto che requisisce ogni possibile rapporto assoluto con la verità assoluta nella forma dell’autoreferenzialità eticamente inviolabile del soggetto nei confronti di se medesimo. Il disinnesco di questa ambivalenza non è forse l’ultimo e decisivo bastione che è necessario aggredire, prendendo distanza da ogni totalizzazione del sé e da ogni autoreferenzialità della libertà, nella loro pretesa di valere quali figure autentiche della verità antropologica della ragione (o della ragione antropologica della verità)? E non sarà forse l’amore (evangelico) del prossimo, portato all’altezza dell’amore (trinitario) di Dio, il luogo della verità dell’idea di Dio che consente l’accesso effettivo alla realtà di Dio, secondo la provocazione e l’intenzione della fede teologale cristiana? L’avanzamento nella soluzione dell’equazione, secondo la mia opinione, è la pensabilità della fede come libera obbedienza all’unità – contro-intuitiva e contro-fattuale – del duplice comandamento in cui la verità di Dio si decide, e la sua realtà si rende effettiva, nell’atto sovrano di una libertà che prende distanza dal monoteismo del sé. Il lavoro che rimane da fare, in ogni caso, dovrà certamente approfittare del rigore con il quale, qui, è compiutamente risolta la dissociazione filosofica della coscienza credente prodotta congiuntamente dalla storia degli effetti della metafisica razionalistica e della soggettività trascendentale. Il saggio di Bertuletti può certamente considerarsi dirimente a questo riguardo: in virtù della fede cristologica, alla coscienza credente che intenziona la realtà di Dio attestandone la verità è riconsegnato titolo di piena idoneità a pronunciarsi, anche nell’orizzonte della ragione autonoma, sulla verità di Dio in cui viviamo, ci muoviamo e siamo. Pierangelo Sequeri* * Preside e docente di Teologia fondamentale presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale; membro della Commissione teologica internazionale, confermato per il quinquennio 2014-2019.