Francesca Bonicalzi (a cura di), Pensare la pace. Il legame

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Francesca Bonicalzi (a cura di), Pensare la pace. Il legame imprendibile, Jaca Book,
Milano 2011, pp. 336.
Una della più grandi novità della modernità è stata sicuramente la nascita dell’individuo e
l’emancipazione dai poteri olistici. L’homo faber si scopre, o meglio si riscopre, come
homo agens, come capace di uscire dal mero umwelt e di dar vita in modo autonomo a un
welt e soprattutto a una weltanschauung. Le grandi innovazioni tecnologiche degli ultimi
anni hanno ulteriormente aumentato il potere dell’individuo che è assurto alla posizione di
homo creator ma che allo stesso si è scoperto homo materia, ovvero vittima delle sue
stesse nuove capacità. L’individuo si rende conto di essere infatti incapace di gestire
l’enorme potere che ha ottenuto e si sente impotente davanti alla scorrere ineluttabile degli
eventi. Le profonde trasformazioni della modernità e della post-modernità ci pongono
quindi di fronte alla necessità urgente di ripensare e di recuperare il tema della pace, che
in questo volume viene trattato attraverso tre modalità di lettura: 1) La persona e i suoi
legami, 2) Ridefinizioni e 3) L’ordine del giusto.
Come fa notare Francesca Bonicalzi fin dalla introduzione, la questione della pace è
innanzitutto una riflessione sull’umano: chi sono io? Chi è l’altro? In che modo l’io incontra
(o si scontra con) altre soggettività?
Pace quindi non tanto come assenza di guerra, bensì come modus essendi.
L’urgenza della pace scaturisce dalla presa d’atto che il soggetto post-moderno vive una
condizione paradossale: da un lato infatti, dopo la fine delle grandi narrazioni, si può
ergere al di sopra delle macerie metafisiche della modernità; dall’altro si scopre solo,
debole e soprattutto vulnerabile. Quella dell’individuo è una vulnerabilità, oltre che fisica,
sopratutto etica. L’individuo contemporaneo si sente quindi bersaglio di una “violenza
etica” da cui cerca disperamente un modo di difendersi. L’homo democraticus, preda della
paura dell’indeterminatezza, cerca di recuperare una parvenza di identità annullandosi in
una qualche forma di collettività. Tuttavia, poiché queste neocomunità non si basano su
una cum-munius, ovvero sulla condivisione di un onore ma anche di un onere, bensì
rappresentano una forma di difesa verso le contaminazioni esterne, più che su un
processo di communitas si basano su processi di immunitas. Ecco allora che l’opposizione
alla globalizzazione e la rinascita di movimenti comunitari e identitari sono spesso
associati a forme più o meno gravi di violenza verso possibili “contaminatori”, che siano gli
immigrati, gli omosessuali, gli oppositori politici e così via. È quindi necessario recuperare
una concezione dialogica dell’identità, che prenda coscienza del fatto che il soggetto si
può arricchire soltanto attraverso un processo osmotico con l’alterità. In altre parole,
secondo la definizione di Teresa Serra, dobbiamo sviluppare “un’antropologia della
connettività”, la consapevolezza che essere noi stessi ha senso solo in relazione all’Altro
che ci sta di fronte e che ci mostra il suo volto. La mera riaffermazione della nostra
identità, sempre che sia possibile sostenere l’esistenza di un’identità originaria e
adamitica, non è altro che un sostanzialismo inerte destinato prima alla distruzione
dell’Altro e poi alla propria. Pensare di osservare il mondo dall’esterno come potrebbe fare
solo una ipotetica divinità, e di restarne incontaminati, è una mera illussione cartesiana.
A queste influenze non sfugge neanche l’ambito giuridico, come fa ben notare
Serenella Armellini nel suo contributo. Da un lato infatti gli ultimi anni hanno visto una
diffusione sempre più ampia del diritto soggettivo a scapito di quello oggettivo, dei diritti
degli individui a svantaggio del diritto dello Stato, ridotto a mero garante degli interessi dei
singoli; dall’altro il diritto viene ridotto a prodotto di mercato destinato a soddisfare capricci
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momentanei di soggetti irrelati e quindi risulta incapace di svolgere una funzione regolativa
a lungo termine.
Tuttavia, sviluppare un legame di pace con l’Altro significa anche rinunciare ad
assimilarlo, accettando il fatto, come dice Maria Teresa Maiocchi, che l’alterità dell’Altro
non è completamente catturabile, che sfugge in qualche modo mistico e misterioso a ogni
comprensione definitiva di senso. La relazione che ci unisce con l’Altro, che sia una muta
relazione di violenza o una condivisione di valori, non ha infatti i contorni definiti bensì è
paragonabile all’incontro tra la spiaggia e il mare nella celebre metafora di Merleau-Ponty
dove l’una penetra nell’altro e viceversa in un moto eterno e quotidiano dove non ci sono
né vinti né vincitori. Su questa linea si colloca anche il contributo di Gianfranco Dalmasso,
che va anche oltre affermando che «l’uomo è i suoi legami» e che proprio questo lo
differenzia dal resto del mondo animale. La nascita di ogni legame ha però come
prerequisito il discorso, ovvero la possibilità di entrare in contatto con l’altro attraverso la
parola e così di conoscerlo. Tuttavia, conoscere l’altro significa in qualche modo anche riconoscerlo in quanto soggetto portatore di una singolarità e quindi ri-spettarlo nella sua
diversità irriducibile.
È forse questa consapevolezza che spinge Cusano, nel contributo di Marco Maurizi,
a rinunciare al tentativo di assimilare il mondo islamico e a elaborare nel De pace fidei una
concordantia che non si basa sul cristianesimo, bensì su una religione trascendentale di
cui le religioni storiche non sono che una manifestazione. Ciò che spinge Cusano a
promuovere un discorso sulla pace all’alba di una nuova crociata è infatti l’idea che, al di là
delle differenze religiose, sociali e culturali tra Turchi e Cristiani, tutti gli uomini e le donne
sono contraddistinti da un’unità originaria, ovvero la loro umanità. In Cusano la pace non è
però il fine, bensì è prima di tutto il metodo. La pace è infatti il metodo per realizzare l’unità
del cosmo, missione di cui l’uomo è stato investito da Dio stesso.
Un certo tipo di concordantia è anche quella ricercata dal re Teodorico degli
Ostrogoti, la cui figura viene tratteggiata nel saggio di Massimo Guidetti attraverso le
parole di Paolo Diacono.Teodorico, barbaro di origine ma cresciuto alla corte di
Costantinopoli, sognava infatti di unire barbari e romani in un’unica grande civiltà che
tenesse conto di entrambe le culture. Attraverso la vicenda di questo re ostrogoto, Guidetti
ci mostra come la pace non sia qualcosa che può essere costruito a priori. Essa infatti
esiste e si realizza solo come processo concreto di integrazione.
La pace però, oltre che essere declinata a livello interiore, rappresenta anche
l’opposto di un concetto che ha avuto molto spazio all’interno della storia della filosofia,
ovvero quello di guerra. Nel saggio di Sante Maletta questo tema è affrontato dal punto di
vista della coppia oppositiva amico-nemico (Freund-Feind) di Carl Schmitt. È importante
sottolineare che la coppia amico-nemico non è in alcun modo paragonabile a quella di
buono-cattivo o bello-brutto. Non è infatti necessario che il nemico sia moralmente
malvagio o esteticamente brutto. Più che l’Altro, egli è lo straniero, colui che si pone di
fronte al soggetto nel sue essere essenzialmente qualcosa di diverso. Nella riflessione del
grande pensatore tedesco sul concetto di politico, il conflitto svolge perciò un ruolo
fondamentale. Questa conflittualità non è però definibile come guerra di idee o come mero
interesse personale; il nemico politico non è semplicemente l’inimicus, cioè il nemico
privato, bensì l’hostis, il nemico pubblico. E tuttavia, è l’incapacità di una parte e dell’altra
di occupare interamente e definitivamente lo spazio pubblico che lascia aperta la strada
alla trascendenza e all’incontro con l’altro, straniero ma in fondo fratello. Nella prospettiva
di Schmitt la pace non si oppone quindi al conflitto, ma lo ingloba come suo momento
fisiologico.
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Un ruolo altrettanto importante, se non addirittura metafisico, viene dato alla guerra
nel pensiero di Scheler, così come mostrato nel contributo di Matteo Amori, il quale
evidenzia come per questo pensatore il conflitto rappresenti il vero motore della storia e un
momento di conoscenza interiore per il soggetto stesso. Bisogna quindi prima di tutto
chiedersi, nella prospettiva dell’autore, se la pace sia una valore positivo e se una pace
perpetua sia realmente praticabile e augurabile. Riguardo il primo punto Scheler
considerava la guerra lo strumento per superare quell’individualismo nato con la filosofia
illuministica che aveva minato la Kultur tedesca. Egli vedeva infatti nella I guerra mondiale
l’occasione per il popolo tedesco di riunificarsi in un’unica patria spirituale e dare
finalmente atto del suo destino cosmico. Oltre quindi a rappresentare un momento
catartico della vita dell’uomo, la guerra permette la nascita di qualcos’altro, lo spirito
appunto, che allontana l’essere umano dalla mera fattualità e lo innalza verso Dio. La
guerra, con un chiaro eco hegeliano, è quindi il più importante principio dinamico della
storia. Il futuro dell’uomo non è però quello di un perenne stato di guerra, bensì Scheler,
alcuni anni più tardi, scorgerà “un destino ineluttabile” dell’umanità, ovvero una inesorabile
tendenza all’armonizzazione. La pace si configura quindi, dopo varie fasi conflittuali, come
l’ultimo stadio dell’evoluzione della vita dell’uomo e della filosofia biologicistica di Scheler.
La natura in fondo finisce sempre per tendere all’equilibrio. Šalom.
Giacomo Viggiani
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