“I TRATTATI ITALIANI NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE” di Daniele Cellamare Nel primo grande conflitto mondiale l’Italia dichiarò la sua neutralità il 3 Agosto 1914 sulla base del carattere puramente difensivo del trattato della Triplice Alleanza stipulato con Berlino e Vienna nel 1882. L’intensa attività diplomatica del Ministro degli Esteri austriaco, conte Leopold von Berchtold, subito dopo l’attentato di Sarajevo del 28 Giugno (l’appoggio politico e militare di Guglielmo II ottenuto il 5 Luglio, l’ultimatum a Belgrado il 23 Luglio, la rottura delle relazioni diplomatiche con il governo serbo il 25 Luglio, ed infine il telegramma con la dichiarazione di guerra alla Serbia del 28 Luglio) non tenne in debita considerazione la diplomazia italiana, con l’errata convinzione che tutte le altre potenze estranee alla guerra, Italia compresa, avrebbero accettato la tesi di un conflitto localizzato austro-serbo. Quindi, oltre alla natura difensiva dell’alleanza, l’assenza di consultazioni preventive stabilite espressamente nel Trattato e la intempestiva dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria, indussero il governo di Roma alla dichiarazione di neutralità che accese in Italia nove mesi di aspro dibattito sul problema del completamento della propria unità nazionale e sulla strada da percorrere per la sua possibile realizzazione. Kajetan Mérey von Kapos-Mére, ambasciatore austro-ungarico a Roma, scrisse un telegramma al conte Berchtold in data 30 Luglio 1914 per illustrare le sue considerazioni sull’atteggiamento del governo italiano : “Il Ministro degli Affari Esteri ha spontaneamente introdotto oggi la questione dell’atteggiamento italiano nell’eventualità di una guerra europea. Dato il carattere della Triplice Alleanza puramente difensivo; dato che le nostre misure contro la Serbia possono precipitare una conflagrazione europea; e infine, dato che non abbiamo preventivamente consultato questo governo, L’Italia non sarebbe obbligata a unirsi a noi nella guerra. Questo, tuttavia, non preclude l’alternativa che l’Italia possa, nell’eventualità, dover decidere per se stessa se i suoi interessi fossero serviti meglio alleandosi con noi in un’operazione militare o rimanendo neutrale. Personalmente [il Ministro degli Esteri] si sente più incline a favore della prima soluzione, che gli appare la più probabile, purchè gli interessi italiani nella penisola balcanica siano salvaguardati e purchè noi non cerchiamo cambiamenti che probabilmente ci daranno un predominio dannoso agli interessi italiani nei Balcani.” Le difficili Alleanze europee prima del conflitto La fedeltà al trattato della Triplice Alleanza, ed una serie di accordi con le potenze mediterranee, erano ancora le direttive del ministro Giulio Prinetti [1], nonostante l’Italia avesse già superato le divergenze con la Francia (in seguito all’occupazione di Tunisi avvenuta nel 1881 che provocò l’adesione alla Triplice) con la nomina di Theophile Delcassé al Ministero degli Esteri francese e di Camille Barrère ambasciatore in Italia, che riuscirono a convincere la diplomazia italiana che l’ingresso a Tripoli sarebbe avvenuto solo con il beneplacito francese e non certo con l’avallo austro-tedesco. Svuotando quindi di contenuto l’adesione dell’Italia alla Triplice Alleanza (senza pretenderne l’uscita, così come avevano fatto i loro predecessori) si giunse agli accordi Visconti Venosta[2]-Barrère (Dicembre 1900) dove si definirono le reciproche zone di influenza per l’Italia la Libia e la Cirenaica e per la Francia il Marocco – suggellando così il già avvenuto riconoscimento del protettorato francese sulla Tunisia e la fine della guerra commerciale tra i due paesi. Due anni più tardi (Giugno 1902) gli accordi Prinetti-Barrère definirono anche l’impegno alla neutralità reciproca in caso di aggressione da parte di una terza potenza, assicurando così a Parigi (ma con analoghi accordi anche a Londra, in cambio della tutela degli interessi italiani in Libia) un “non intervento” militare in caso di attacco da parte di Berlino o di Vienna. Dopo la sconfitta subita in Estremo Oriente (guerra con il Giappone 1904-05) la Russia – già indebolita militarmente ed alle prese con i primi disordini rivoluzionari – orientò la sua attività diplomatica nel Vicino Oriente, con l’obiettivo di ottenere l’apertura degli Stretti per le proprie navi da guerra nel Mar Nero. L’ambizioso Ministro degli Esteri russo, Alexander Isvolski (in carica dal 1906 al 1910), dopo aver messo fine alla rivalità anglo-russa con l’Accordo della Persia (1907) intensificò le relazioni estere nella politica balcanica e durante l’incontro di Buchlau (1908) con il Ministro degli Esteri austro-ungarico, il barone Alois Lexa von Aerenthal, non esitò ad offrire l’appoggio russo all’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina (occupate già da trent’anni dall’Austria) suscitando le forti proteste della Serbia che contava di ottenere proprio quelle regioni, che già da tempo erano considerate proprio dai serbi patrimonio etnico e culturale dell’intero movimento slavista. Fu invece ben lieto di accettare la proposta il ministro Aerenthal che stava appunto lavorando per assicurare alla Corona di Francesco Giuseppe il superamento del dualismo austro-ungarico a vantaggio del trialismo Austria-Ungheria-Jugoslavia, con l’intento di assorbire pacificamente la Serbia nell’orbita dell’Impero asburgico. Il progetto di Isvolski per ottenere l’apertura degli Stretti naufragò a causa dell’intransigenza britannica ed a questo fallimento della diplomazia russa si aggiunse anche un parziale successo della controparte austriaca che effettuò l’annessione della Bosnia-Erzegovina (1908) ma rinunciò all’assorbimento della Serbia per via della forte opposizione dell’elemento magiaro ostile alla creazione di una Jugoslavia nell’ambito dell’Impero, realizzabile solo sottraendo la Croazia al Regno ungherese. Isvolski, come abbiamo visto già autore del riavvicinamento anglorusso del 1907 - e quindi non in grado di rinnegare la propria politica verso l’Inghilterra nonostante il divieto britannico ai suoi progetti mediorientali - orientò la sua sdegnata reazione contro l’Austria, fomentando proprio quegli ideali di panslavismo che aveva tradito nell’incontro di Buchlau. Ma la sua proposta di un Congresso (appoggiata da sir Edward Grey, Ministro degli Esteri della Gran Bretagna), con l’obiettivo di mettere in discussione l’annessione della Bosnia-Erzegovina, trovò reazioni negative da parte dell’Austria che intendeva riunirsi intorno ad un tavolo solo per suggellare a livello internazionale il fatto compiuto dell’annessione. In questi delicati frangenti la diplomazia italiana (Tommaso Tittòni [3] al portafoglio degli Esteri) in maniera piuttosto arbitraria cercò di trarre profitto dalla complessità della situazione e pretese, nell’ipotesi di un congresso internazionale, compensi territoriali che non vennero mai neanche presi in considerazione per via dell’assoluta mancanza di una base giuridica. Fu comunque il primo intervento dell’Italia nella questione balcanica di fronte all’espansione austriaca e nel tentativo di arginare le pretese austro-ungariche (la Turchia e la Serbia protestano, il Capo di Stato Maggiore austriaco Franz Conrad von Hotzendorf chiede di mobilitare le truppe per una guerra preventiva contro la Serbia ed il Cancelliere tedesco, principe Bernhard von Bulow promette “fedeltà nibelungica” all’Austria) il ministro Tittòni riuscì ad ottenere un accordo segreto con la Russia (Trattato di Racconigi, 1909) per la conservazione delle posizioni territoriali nei Balcani, sfruttando gli ormai deteriorati rapporti tra Nicola II e Francesco Giuseppe, e per ottenere inoltre dalla Russia il riconoscimento degli interessi africani dell’Italia (Libia) in cambio di analogo riconoscimento italiano delle aspirazioni russe sui Dardanelli. Assicuratasi così il consenso delle maggiori potenze, l’Italia dichiarò guerra all’Impero ottomano e dopo lo sbarco a Tripoli (ad opera del Generale Carlo Caneva, il 29 Settembre 1911) occupò la Tripolitania, la Cirenaica, Rodi e il Dodecaneso. Dopo il decreto regio per l’annessione della Libia (5 Novembre 1911) si giunse alla Pace di Losanna (18 Ottobre 1912) dove la Turchia riconobbe la sovranità italiana in Libia, oltre al fatto che Rodi ed il Dodecaneso rimasero sotto occupazione italiana a garanzia dell’evacuazione turca dai territori africani. La guerra italo-turca, che non solo mise in evidenza le serie difficoltà militari e politiche della Sublime Porta, ebbe anche l’effetto di spingere la “rancorosa” diplomazia di Pietroburgo verso la coalizione di Serbia, Bulgaria, Montenegro e Grecia (1° Lega Balcanica, Marzo 1912) nel convincimento che tale raggruppamento dovesse costituire il primo passo verso la distruzione dell’Austria-Ungheria : la prima guerra della “quadruplice” balcanica contro la Turchia (Ottobre 1912) superò ogni previsione ed in poco tempo i Turchi persero tutto il territorio europeo ad eccezione di Costantinopoli. La conseguenza di questa guerra fu una situazione internazionale molto critica dove, in particolare, oltre alle proteste greche per l’occupazione italiana del Dodecaneso, la Serbia avanzò la pretesa di uno sbocco sull’Adriatico trovando però la ferma opposizione dell’Italia, nonostante il forte appoggio della diplomazia russa al progetto serbo (nuovo Ministro degli Esteri russo, Sergei Sazonov, dopo la “sconfitta” di Isvolski e la sua nomina ad ambasciatore a Parigi nel 1912). In effetti, nonostante l’opposizione dell’Austria-Ungheria ad ogni ingrandimento territoriale dell’Italia – e nonostante un’alleanza solo formale tra i due paesi – verso la fine del 1912 le diplomazie di Vienna e di Roma trovarono occasione di solidarietà nell’opporsi congiuntamente alla richiesta della Serbia di ottenere il porto di Durazzo, con il comune timore che potesse diventare una potente base navale russa nell’Adriatico. Nel nome di questa ritrovata “amicizia”, e con l’aiuto dell’Inghilterra, ottennero la creazione di uno Stato albanese indipendente, rinnovarono anticipatamente il trattato della Triplice Alleanza (Dicembre 1912) e conclusero una Convenzione Navale (Gennaio 1913) per la conquista della superiorità marittima nel Mediterraneo in caso di conflitto europeo. La contestazione italo-austriaca sui territori da assegnare alla Serbia spinse quest’ultima a rivendicare alcuni territori dell’Impero turco ambiti dalla Bulgaria, ma ancora non formalmente assegnati dopo la prima guerra balcanica. Solo con la Pace di Londra (Maggio 1913) si definì la cessione di tutti i territori turchi ad ovest della linea EnezMidia e delle isole egee ma la dichiarazione di guerra della Bulgaria alla Serbia (Giugno 1913) scatenò la seconda guerra balcanica (questa volta con l’intervento della Romania, della Grecia, del Montenegro e della Turchia al fianco della Serbia) e il paventato intervento dell’Austria-Ungheria in difesa di Sofia, scongiurato solo grazie alle mediazioni della diplomazia tedesca ed italiana, non riuscì ad impedire l’irritazione di Vienna verso Bucarest, entrata a far parte della Triplice Alleanza già dal lontano 1883, proprio un anno dopo l’ingresso dell’Italia. Il Trattato di Bucarest (Agosto 1913) sanzionò la sconfitta bulgara (Sofia perse la Macedonia e la Dobrugia) ma non risolse certo le numerose e complicate tensioni balcaniche, ovvero rese ancora più rigidi e sospettosi i già delicati rapporti di alleanza tra le grandi e piccole potenze : le premesse per lo scoppio della prima guerra mondiale erano ormai maturate. Il Patto di Londra Il 28 Giugno del 1914 cadde assassinato a Sarajevo l’Arciduca ereditario d’Austria Francesco Ferdinando e l’Italia iniziò la sua lotta interna per l’intervento militare nella grande guerra europea. Roma non abbandonò inizialmente la sua vecchia politica (anche se l’Italia del Risorgimento non poteva certo combattere a fianco dell’impero degli Asburgo) ed iniziò una serie di trattative – faticose ed improduttive – con il governo di Vienna. Il Presidente del Consiglio, Antonio Salandra [4] ed il ministro Sidney Sonnino [5] (che dal Novembre del 1914 aveva sostituito di San Giuliano [6] agli Affari Esteri) si scontrarono ben presto con la tenace resistenza dell’Austria-Ungheria a non cedere la benché minima parte dei territori dell’impero. Il 9 Dicembre del 1914 Sonnino incaricò il duca Avarna [7], ambasciatore italiano a Vienna, di trasmettere al governo asburgico le “aspirazioni nazionali” che l’Italia riteneva dovessero essere soddisfatte come corrispettivo degli eventuali guadagni che l’Austria-Ungheria avrebbe ottenuto con la guerra a spese della Serbia. In realtà, Salandra annotò nelle sue memorie che questi “[…] furono i primi passi decisivi verso l’intervento”, lasciando così intendere che si trattava di una richiesta che l’impero asburgico avrebbe sicuramente rifiutato, dando in questo modo all’Italia la giustificazione necessaria per abbandonare la Triplice Alleanza e schierarsi con le potenze dell’Intesa. Infatti, riguardo al Trentino - obiettivo invano perseguito dall’Italia sin dal 1866 - il governo di Vienna aveva già dichiarato al Ministro degli Esteri italiano, Visconti-Venosta, con una nota ufficiale del 1874, di essere disposto a negoziare con il governo di Roma qualunque accordo relativo ad eventuali aspirazioni territoriali, purchè non riguardassero le province dell’impero asburgico abitate da popolazioni italiane, ed esistevano quindi fondati motivi per ritenere che tale divieto fosse ancora più imperante con lo scoppio delle ostilità, non potendo certo l’Austria soddisfare l’irredentismo italiano proprio mentre entrava in guerra contro quello serbo. E fu così che Sonnino trasmise al barone Stephan von Burian (Ministro degli Esteri austro-ungarico, dimissionario nel Dicembre del 1916 e poi riconfermato nell’Aprile del 1918 sino al crollo della monarchia asburgica) con una nota successiva affidata sempre ad Avarna, il suo malcontento sull’esito delle trattative in corso, unitamente al veto italiano ad ogni azione militare austriaca nei balcani : “Di fronte al contegno persistentemente dilatorio a nostro riguardo, non è possibile ormai nutrire più alcuna illusione sull’esito pratico delle trattative. Onde il Regio Governo si trova costretto, a salvaguardia della propria dignità, a ritirare ogni sua proposta o iniziativa di discussione e a trincerarsi nel semplice disposto dell’Art.7, dichiarando che considera come apertamente contraria all’articolo stesso qualunque azione militare che volesse muovere da oggi in poi l’Austria-Ungheria nei Balcani, sia contro la Serbia, sia contro il Montenegro o altri, senza che sia avvenuto il preliminare accordo richiesto dall’Art.7. Non ho bisogno di rilevare che se di questa dichiarazione e del disposto Art.7 il Governo austro-ungarico mostrasse con il fatto di non voler tenere il dovuto conto, ciò potrebbe portare a gravi conseguenze delle quali questo Regio Governo declina fin d’ora ogni responsabilità.” Come già accennato, l’Articolo 7 del trattato della Triplice Alleanza prevedeva compensi territoriali all’Italia nel caso che l’impero asburgico avesse alterato a proprio favore l’equilibrio esistente nei Balcani e nell’Adriatico [8]. Quindi la neutralità italiana dichiarata il 3 Agosto del 1914 costituì solamente un passaggio obbligato e non certo una scelta definitiva di politica estera, non potendo l’Italia prendere in considerazione né l’ipotesi della partecipazione alla guerra degli Imperi Centrali (neanche in caso di vittoria avrebbe ottenuto il compimento dell’unità nazionale e la sicurezza strategica sulle Alpi e nel Mediterraneo) ed al tempo stesso la sua neutralità avrebbe influito negativamente sui rapporti con Berlino e Vienna, così come – in caso di vittoria dell’Intesa – nessuna potenza avrebbe avuto un particolare interesse a proteggere uno Stato rimasto neutrale. Oltre a queste considerazioni, il governo italiano sicuramente valutò con grande attenzione il problema dell’Inghilterra (oltre a quello della Francia e della Russia, già esaminati in precedenza) ed il suo peso nel Mediterraneo. Quando venne stipulato il trattato della Triplice Alleanza nel 1882, il ministro Pasquale Mancini [9] pretese ed ottenne da parte della Germania e dell’Austria-Ungheria che l’alleanza non fosse diretta contro la Gran Bretagna, già dominatrice del Mediterraneo da Gibilterra al Canale di Suez e con basi intermedie a Malta e a Cipro. Fu quindi necessario da parte della politica estera italiana individuare e conservare una permanente ricerca del migliore allineamento possibile con la “flotta britannica” a tutela dell’indipendenza e dello sviluppo commerciale dello Stato italiano. Proprio per questi motivi, già cinque giorni dopo la dichiarazione di guerra dell’Inghilterra alla Germania (4 Agosto 1914) l’allora Ministro degli Esteri italiano, il marchese Antonino di San Giuliano, sottopose a Salandra una prima bozza di quello che successivamente sarebbe diventato il Trattato di Londra ed ancora il 25 Settembre 1914, quasi alla vigilia della sua morte, inviò – con l’obiettivo di avere un parere qualificato in merito – una analoga nota agli ambasciatori italiani a Parigi (Tittòni), a Londra (Imperiali [10]) e a Pietroburgo (Carlotti) : anche le premesse per il Patto di Londra stavano maturando. I negoziati con l’Austria-Ungheria continuarono nonostante l’ostinato atteggiamento di von Burian (che si decise a fare delle concessioni territoriali solamente nell’Aprile del 1915, ovvero dopo il fallimento dell’offensiva invernale nei Carpazi contro la Russia) sino a quando Sonnino, il 3 Maggio 1915, inviò una nota al governo asburgico, la cui conclusione determinava l’annullamento del trattato della Triplice Alleanza : “Tutti gli sforzi del Regio Governo s’infransero nella resistenza del Governo Imperiale, che dopo parecchi mesi, si è soltanto deciso ad ammettere gli interessi speciali dell’Italia a Valona e a promettere una concessione non sufficiente di territori nel Trentino, concessione che non comporta il regolamento normale della situazione, né dal punto di vista etnico né dal punto di vista politico e militare. Questa concessione inoltre non doveva essere eseguita che ad epoca indeterminata, alla fine della guerra. In questo salto di cose il Governo italiano deve rinunciare alla speranza di giungere ad un accordo e si vede costretto a ritirare tutte le sue proposte. E’ ugualmente inutile mantenere all’alleanza un’apparenza formale, la quale non sarebbe destinata che a dissimulare la realtà di una diffidenza continua e di contrasti quotidiani. Perciò l’Italia, fidando nel suo buon diritto, afferma e proclama di riprendere da questo momento la sua intera libertà d’azione e dichiara annullato e ormai senza effetto il suo trattato d’alleanza con l’Austria-Ungheria” Le trattative ufficiali per l’intervento a fianco dell’Intesa erano state già avviate, attraverso il canale segreto della diplomazia britannica, il 4 Marzo 1915 con la consegna a sir Edward Grey, Ministro degli Esteri britannico, da parte dell’ambasciatore italiano a Londra (Imperiali) di un memorandum in cui erano spiegate le condizioni richieste dall’Italia per la discesa in campo contro gli Imperi Centrali. A queste condizioni l’Italia avrebbe dichiarato guerra entro il 25 Maggio 1915 all’Austria, alla Turchia e agli altri nemici dell’Intesa, con eccezione della Germania, ovvero soltanto se quest’ultima avesse aiutato militarmente le truppe austriache contro l’esercito italiano. (E’ bene qui ricordare che l’Italia, che aveva sempre avuto i suoi due poli di politica estera in Londra e Berlino - per un equilibrio mediterraneo e continentale - nonostante dopo la firma del Trattato si fosse impegnata a dichiarare guerra a tutti i nemici dell’Intesa, aspettò sedici mesi prima di inviare la dichiarazione di ostilità alla Germania.) Il 10 Marzo 1915 sir Grey consegnò a Paul Cambon, ambasciatore francese in Inghilterra, e al conte Bruder Alexander Benckendorff, ambasciatore russo, il memorandum italiano da sottoporre a Parigi e a Pietroburgo, sottolineando l’importanza, sia militare che politica, dell’ingresso dell’Italia a fianco delle tre potenze alleate. In questo modo iniziarono le complesse trattative dei compensi territoriali italiani, secondo una serie di annessioni, spartizioni, protettorati e sfere d’influenza (metodi tradizionali delle diplomazie prebelliche, oltre ai doverosi omaggi al principio delle nazionalità) dove le proposte italiane – accentrate sulla questione adriatica – incontrarono la ripetuta ostilità del governo russo, maggiormente preoccupato di patrocinare gli interessi serbi, punta avanzata dell’espansione del mondo slavo sotto il controllo di Pietroburgo, e solo in parte mitigata dal Primo Ministro inglese Lord Herbert Henry Asquith. Il 20 Marzo 1915 sir Grey consegnò all’ambasciatore Imperiali una nota con cui dichiarava che l’Intesa era disposta ad accettare in linea di massima le proposte italiane, ma che sarebbe stato necessario rivedere, quasi interamente, il suo progetto sull’Adriatico in ossequio alle legittime aspirazioni serbe, condivise sia dalla Russia che dalla Francia : “[…] la domanda italiana della Dalmazia, unita alla proposta di neutralizzare una larga parte della carta orientale adriatica e la pretesa delle isole del Quarnaro lasciavano alla Serbia opportunità e condizioni molto ristrette per il suo accesso al mare, e rimaneva chiusa nelle sue province jugoslave, che avevano con ragione guardato a questa guerra come a quella che avrebbe assicurato loro le legittime aspirazioni di espansione e di sviluppo di cui erano state fino allora private” Pur non convenendo all’Italia un ingresso in guerra per sostituire il dominio austriaco nell’Adriatico a favore di quello serbo-russo, l’ambasciatore Imperiali consegnò il 29 Marzo 1915 alla diplomazia inglese la conferma di adesione di massima alla “Dichiarazione di Londra” del 5 Settembre 1914 (nella quale le potenze dell’Intesa si impegnavano a condurre congiuntamente non solo la guerra ma, ancora più importante, anche la pace) insieme ad un altro memorandum che vedeva ridotte le richieste italiane. Ma su insistenza di sir Grey, anche lui convinto che le richieste italiane fossero eccessive, il 30 Marzo venne presentato un terzo memorandum (questa volta l’ultimo) con una forte riduzione dei compensi territoriali rispetto alla prima stesura – ma sempre ragguardevoli per l’Italia – insieme ad una richiesta di sollecita conferma. Verso la metà del mese successivo vennero a cadere le principali difficoltà diplomatiche ed il 26 Aprile 1915, ottenuto senza difficoltà il consenso di Vittorio Emanuele III, si giunse alla stesura del Patto di Londra, con l’impegno italiano ad intervenire in guerra entro un mese dalla firma ed a non concludere una pace in via separata. L’accordo - che venne firmato per l’Italia dall’ambasciatore Imperiali, per la Gran Bretagna dal Ministro degli Esteri Grey, per la Russia dall’ambasciatore Benckendorff e per la Francia dall’ambasciatore Cambon - rivestì carattere di segretezza : “La dichiarazione del 26 Aprile 1915, con la quale la Francia, la Gran Bretagna, l’Italia e la Russia si impegnavano a non concludere pace separata, durante l’attuale guerra europea, rimarrà segreta. Dopo la dichiarazione di guerra da parte dell’Italia o contro di essa, le quattro potenze firmeranno una nuova dichiarazione identica, che sarà resa pubblica in quel momento”. In linea di massima questo accordo avrebbe permesso all’Italia di realizzare un ingente “guadagno”, specialmente considerando la sua ridotta posizione all’interno delle grandi potenze europee ed il rischio, connaturato con la guerra, di mettere a repentaglio la proprio unità : il futuro confine dell’Italia (Art.4) sarebbe passato per il Brennero e, sviluppandosi ad oriente lungo il versante alpino, avrebbe raggiunto il golfo di Fiume senza tuttavia comprendere la città, che insieme alle isole di Veglia e Arbe, sarebbero state attribuite alla Croazia e quindi all’impero asburgico (vale qui la pena ricordare che gli accordi dell’Intesa non solo non intendevano sconvolgere la carta politica dell’Europa – l’intento era piuttosto quello di farle subire aggiustamenti ragguardevoli – ma non prevedevano neanche la totale disfatta dell’impero austro-ungarico). All’Italia andavano anche attribuite (Art.5) la provincia della Dalmazia nei suoi confini amministrativi e le isole situate a nord e a ovest delle sue coste oltre all’estensione della sovranità italiana (Art.6) su Valona e l’isola di Saseno. Inoltre l’Italia, se avesse ottenuto i confini dei precedenti Articoli, avrebbe acconsentito allo smembramento del residuo stato albanese a beneficio della Serbia, del Montenegro e della Grecia, fatto salvo un “piccolo stato autonomo neutralizzato” sotto protettorato italiano (Art.7). Oltre quindi alla definizione dei problemi connessi con la sicurezza del paese e la chiusura del “ciclo risorgimentale”, il Trattato assicurava all’Italia anche la difesa dell’equilibrio raggiunto nel Mediterraneo orientale con il passaggio di Rodi e del Dodecaneso sotto la sua sovranità (Art.8) ed il riconoscimento degli interessi italiani nella Turchia asiatica (Art.9) fondati anch’essi sul presupposto della sopravvivenza dell’impero ottomano. Ma la diplomazia italiana era riuscita anche a cautelarsi nell’ipotesi di una conquista russa di Costantinopoli e di una penetrazione francese in Asia minore (coste del Libano e della Siria) pretendendo di partecipare alla eventuale spartizione dell’eredità turca in Asia. Anche se in termini piuttosto vaghi, l’Italia ottenne la salvaguardia dei suoi rapporti in Africa (Art.13) richiedendo eventuali compensi nel caso di liquidazione delle colonie tedesche a beneficio della Gran Bretagna e della Francia. Infine (Art.15) riuscì a negare alla Santa Sede, con l’impegno dei paesi contraenti, la partecipazione alla conferenza della pace, considerando già definita la “questione romana” sin dal 20 Settembre del 1870 (una clausola inserita da Sonnino, nel suo laicismo protestante, anche nelle richieste avanzate durante le trattative con l’Austria-Ungheria). In definitiva, il Trattato riconosceva all’Italia il Trentino, il Tirolo Cisalpino (abitato da una maggioranza tedesca), Trieste, Gorizia, l’Istria (sino al Quarnaro ma esclusa Fiume) la Dalmazia, Valona (ed una sorta di protettorato sull’Albania) Rodi e le isole del Dodecaneso, il bacino carbonifero di Adalia (in Asia minore) e gli altri eventuali compensi territoriali in Africa. Tutto l’impianto della diplomazia di guerra dell’Italia – riassunto nel Patto di Londra – venne costruito sull’ipotesi che la guerra, oltre a riuscire vittoriosa, non avrebbe alterato i rapporti con gli alleati, vecchi e nuovi, e non prese in considerazione la possibilità che questo “valore” potesse mutare sino al punto di esigere un radicale ripensamento : quando ciò avvenne la diplomazia italiana risultò impreparata. Il Trattato di Versailles Nell’autunno del 1918 l’Europa, sconvolta da una immane carneficina, si preparò a firmare uno dopo l’altro una serie di Armistizi – dal 29 Settembre all’11 Novembre – per determinare, anche se in forma provvisoria, la situazione di fatto creatasi alla fine del confronto bellico. Ma alle diplomazie delle potenze dell’Intesa non fu subito chiaro che si trovarono davanti ad una situazione senza precedenti - non certamente come nel 1814 con la vittoria dell’Europa sulla grande potenza ribelle - ma davanti ad una Europa formata soltanto da vincitori e da vinti, ovvero davanti alla vittoria di una metà dell’Europa sull’altra metà, appena di poco inferiore. Questi due schieramenti europei, anche se per diversi motivi, palesarono subito l’immediata tendenza a staccarsi dagli Armistizi e quindi a cercare di modificare, secondo i propri vantaggi, i risultati della guerra : la Germania, per esempio, non subì una sconfitta sul campo di battaglia (sul fronte occidentale non si produsse un evento risolutivo come quello dell’offensiva italiana di Vittorio Veneto) e i plenipotenziari dell’impero asburgico firmarono l’armistizio di Villa Giusti (Padova, 3 Novembre 1911) senza rappresentarlo ufficialmente, dopo la rivoluzione avvenuta in Austria il 1° Novembre, così come nello stesso giorno si insediò a Budapest il governo repubblicano di Giulio Kàrolyi, facendo scomparire l’antico Regno di Ungheria (in effetti la nuova Ungheria, che pretese di regolare in via indipendente tutti i suoi rapporti postbellici, stipulò l’armistizio di Belgrado il 15 Novembre con il comandante dell’Armée d’Orient, come se l’armistizio di Villa Giusti non la riguardasse affatto). In realtà il nuovo fenomeno che l’Europa stava vivendo era quello delle “nazionalità soppresse”, ovvero l’atteggiamento di quei popoli che, pur avendo combattuto per l’imperatore Francesco Giuseppe, colsero adesso l’occasione per rendersi indipendenti e si schierarono al fianco dei “fratelli” che erano scesi in campo per la stessa causa, ma sotto la bandiera dell’Intesa (la Boemia-Moravia, la Slovacchia e la Rutenia ciscarpatica diedero vita alla Repubblica Cecoslovacca; Slovenia e Croazia si unirono alla Serbia; la Transilvania e la Bucovina vennero assorbite dalla Romania e la Galizia riconfluì nella nuova Polonia). Dopo l’abdicazione di Guglielmo II e di Carlo d’Asburgo i nuovi regimi faticarono non poco per impedire che la conquistata libertà politica si convertisse alla tentazione della rivoluzione bolscevica ed in questa delicata fase di transizione cominciarono a delinearsi, in un più generale contesto europeo, i lineamenti di una nuova società, dove l’antica classe dirigente aveva perduto il suo ruolo tradizionale a vantaggio di una nuova classe borghese, a sua volta premuta da una disordinata massa popolare che, incoraggiata dalle disfunzioni statali in cerca di un nuovo equilibrio post-bellico, cercava di partecipare più attivamente alle decisioni delle istituzioni politiche. A questo complesso quadro sociale e politico si aggiunsero i problemi militari legati allo scioglimento degli eserciti vinti (sia ad opera degli Armistizi che per dissoluzione spontanea) che con vere e proprie ondate di ritorno “sommersero” i paesi di origine, così come gli eserciti vittoriosi (che rimasero ancora uniti) provocarono, con il mancato rientro dei soldati, motivi di insofferenza e malumori diffusi. In particolare l’Italia, che tra le grandi potenze era la compagine unitaria più giovane, si trovò ad affrontare questi problemi con uno sviluppo economico e sociale meno progredito e rimase pertanto la più esposta ai contraccolpi del difficile passaggio dalla guerra alla pace. Questo fu il contesto nel quale le due Europe si fronteggiarono durante il periodo a cavallo tra gli Armistizi e la Conferenza della Pace, marcando sempre di più il solco della divisione da parte delle rispettive diplomazie, pur essendo la rivoluzione sociale (socialismo e internazionalismo proletario) ormai connotato comune di entrambe. Per l’Italia il punto di riferimento rimase indiscutibilmente il Patto di Londra del 1915, con il suo elenco di richieste territoriali, che giunse formalmente integro sino alla fine della guerra – e non venne alterato nella sua validità contrattuale dalla defezione della Russia dopo il successo della rivoluzione bolscevica e la sua pace separata con la Germania – ma che venne piuttosto affiancato dall’adesione italiana ai “14 Punti” del presidente americano Thomas Woodrow Wilson, proprio alla vigilia della firma dell’Armistizio. E’ interessante qui notare che il “Punto 9” del piano americano – il riconoscimento generico a procedere verso un ritocco delle frontiere italiane, secondo il principio delle “indicazioni di nazionalità chiaramente riconoscibili” – pur costituendo una contraddizione all’impegno del Patto che avrebbe dovuto assicurare il pieno compimento del confine geografico italiano, venne brillantemente risolto da Vittorio Emanuele Orlando [11] che riuscì a far prevalere un’esplicita riserva nei suoi confronti in seno al Consiglio Supremo Interalleato, proprio quando si trattò di fare del progetto americano la vera e propria piattaforma della pace con la costituzione della Società delle Nazioni [12]. Il piano americano (presentato dal presidente Wilson l’8 Gennaio 1918) tracciò le linee per un disegno di riorganizzazione complessiva della società internazionale insieme ad una proposta di soluzione dei maggiori problemi europei ma venne accettato con alcune riserve – oltre che dall’Italia sul già citato “Punto 9”, anche dalla Gran Bretagna (“Punto 2”, la libertà dei mari) e dalla Francia (“Punto 8”, le riparazioni per i danni subiti) – rappresentando in definitiva per le diplomazie vincitrici soltanto uno schema d’azione orientativo e non vincolante per gli sviluppi politici dell’Europa post-bellica. Ma la totale dissoluzione dell’impero asburgico – non prevista al momento della firma del Patto di Londra, così come dal piano americano di Wilson – avvenuta prima ancora che la guerra finisse, aveva oggettivamente alterato alcuni presupposti di fatto, ed in particolar modo le ragioni che avevano indotto il governo italiano a non includere Fiume tra le richieste territoriali. L’organizzazione della Conferenza della Pace trasse origine dall’organo costituito dall’Intesa verso la fine della guerra, il Supremo Consiglio di Guerra Interalleato, e la prima riunione (12 Gennaio 1919, la data di apertura della Conferenza, anche se ufficialmente venne inaugurata il giorno 18) venne di conseguenza limitata ai rappresentanti delle quattro potenze vincitrici (Francia, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti) a cui si aggiunsero, il giorno successivo, i delegati del Giappone. A questa riunione vennero esclusi i paesi neutrali ma vennero invece ammessi tutti quelli che avevano dichiarato guerra, o rotto le relazioni diplomatiche, con la Germania. Sulle nuove fondazioni politiche – nate come abbiamo visto nel periodo Armistizi-Conferenza – e non ancora riconosciute ufficialmente dalle potenze dell’Intesa (per esempio il Regno serbocroato-sloveno, riconosciuto dagli Stati Uniti ma non dagli altri alleati) prevalse il parere dell’Italia che chiese di non tener conto di queste formazioni, fatta salva un’interrogazione ai loro rappresentanti, per il legittimo timore di subire le suggestioni di “fatti compiuti” in contrasto con le determinazioni del Patto di Londra. La prima crisi nell’ambito della Conferenza non tardò a manifestarsi (14 Febbraio 1919) quando la discussione sul progetto di una “Riunione Plenaria” non fu favorevole a Wilson, che tornò in America, e il tavolo delle trattative venne abbandonato anche da sir George Lloyd e da Orlando. Nel mese di Marzo, al fine di assicurare ai lavori una maggiore celerità, venne creato un Consiglio più ristretto composto dal Presidente della Commissione (Georges Clémenceau) e da tre VicePresidenti, rappresentanti dell’Italia, della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Ad una seconda crisi (nel mese di Aprile, in merito alle clausole territoriali da imporre alla Germania) seguì ben presto la terza crisi dovuta al temporaneo abbandono della Conferenza da parte di Orlando, seguito da Sonnino, per l’impossibilità di trovare una soluzione soddisfacente alla questione adriatica, così come esamineremo meglio più avanti. Ma il Consiglio dei Quattro, anche se ridotto a tre, continuò ugualmente i suoi lavori ed inserì nel progetto del Trattato di Pace da presentare alla Germania la clausola secondo la quale la ratifica di soltanto tre delle grandi potenze era sufficiente per farlo entrare in vigore, privando quindi l’Italia di giocare la carta dell’unanimità per definire la pace con la Germania, prima ancora della soluzione della questione adriatica. Il 7 Maggio 1919 il progetto del Trattato venne consegnato ai plenipotenziari tedeschi e nello stesso giorno si procedette, anche in assenza dell’Italia, alla distribuzione dei mandati per le colonie di ex appartenenza tedesca : Orlando e Sonnino ritornarono a Parigi il giorno successivo. La politica estera italiana venne quindi a trovarsi nelle condizioni di dover scegliere tra il Patto di Londra ed il suo “abbandono” (non certo una rinuncia, vista la sua inattaccabilità giuridica) ovvero ad accettare sia il fatto che gli Stati Uniti volevano ignorarlo, sia la sua superata validità storica e politica, determinata dalla nuova ideologia democratica favorevole al principio di nazionalità e di autodecisione prevalente tra le potenze vincitrici. La decisione fu quella di rimanere saldamente ancorati al Patto (la Gran Bretagna e la Francia lo avrebbero sicuramente onorato, anche se ormai è ampiamente diffusa l’opinione che all’Italia è stato offerto troppo) ma proprio queste condizioni determinarono il rifiuto della richiesta italiana della città di Fiume, non compresa nelle richieste territoriali elencate nel Patto. Anche se la richiesta italiana sembrava conciliarsi con il principio di nazionalità e di autodecisione (è proprio la città di Fiume a reclamare con la fine della guerra la sua annessione all’Italia) apparve pur sempre come una tardiva richiesta di sapore imperialistico, proprio lì dove la Conferenza intendeva assicurare nell’Adriatico la piena libertà di manovra a tutti gli Stati, senza contare l’aperta ostilità degli Stati Uniti già avversi all’esecuzione del Patto in generale nei confronti dell’Italia. Ma le aspettative italiane alla fine del conflitto furono ben diverse e senza la città di Fiume il compenso non sembrò adeguato alle grandi sofferenze patite – anche Vittorio Emanuele III fu di questa opinione – ed Orlando, pur senza l’appoggio di Sonnino che identificava nel Patto la vittoria italiana senza condizionamenti od aggiunte, iniziò la sua “personale” battaglia per l’attribuzione di Fiume all’Italia, anche se fortemente contrastato dall’unanime opposizione degli alleati europei e dell’associato americano. Il 4 Aprile 1919 iniziò lo scontro decisivo tra Orlando da una parte e tutti gli altri interlocutori dall’altra, ostinatamente ostili alla cessione del ricco porto di Fiume all’Italia : Wilson, forse il più risoluto, fu tenacemente ancorato alla sua coerenza programmatica e non penetrò mai i complessi problemi della questione adriatica, Clémanceau vide nella caduta dell’impero austro-ungarico la possibilità di un nuovo riavvicinamento tra l’Italia e la Germania senza dimenticare i trentadue anni di alleanza nella Triplice e Lloyd, determinato a non compromettere i suoi buoni rapporti con l’alleato americano per sostenere quello italiano, vide nella città di Fiume la strada italiana per la penetrazione economica nell’Europa danubiana. Tra il 20 ed il 23 Aprile del 1919, Orlando decise di rinunciare alla Dalmazia in cambio di Fiume ed il rifiuto categorico di Wilson fu accompagnato da un appello all’opinione pubblica italiana (procedura oggettivamente inammissibile [13]) che costrinse il Presidente del Consiglio ad abbandonare la Conferenza per tornare in Italia e farsi confermare la solidarietà del Parlamento, che giunse puntualmente con la stragrande maggioranza della Camera e del Senato. Come abbiamo visto, il ritorno di Orlando a Parigi (8 Maggio 1919) sanzionò la sconfitta diplomatica dell’Italia al tavolo delle trattative – il “Consiglio dei Tre” – dove oramai era già pronta la bozza del Trattato che, senza mutamenti, diventerà il 28 Giugno del 1919, il Trattato di Versailles. I mesi di Maggio e di Giugno trascorsero senza che venisse fatto alcun progresso sulla questione adriatica – oramai riassunta ed ancorata nella città di Fiume – sino a rendere compromessa la posizione diplomatica del governo italiano e a determinare la caduta di Orlando, battuto alla Camera ma rimasto al potere sino alla firma del Trattato. I successivi governi di Francesco Nitti [14] (Tittòni agli Esteri) e di Giovanni Giolitti [15] (Sforza [16] agli Esteri) non riuscirono a modificare di molto la situazione – che venne anzi aggravata dall’occupazione di Fiume da parte di Gabriele D’Annunzio e dei suoi legionari con la presunzione di mettere l’Assemblea di fronte ad un fatto compiuto – e la Conferenza della Pace si concluse senza che la questione fosse risolta [17]. (Il Trattato di Rapallo del 12 Novembre 1920 raggiunse un compromesso, onorevole ma non duraturo, con la rinuncia della Dalmazia e Fiume diventata uno Stato libero, e solo con il successivo Patto di Roma, 27 Gennaio 1924, Fiume diventerà italiana). Un epilogo inatteso e sconcertante che neanche Orlando riuscì a comprendere sino in fondo e che l’opinione pubblica italiana trasformò nel mito della “vittoria mutilata”, non certo mitigato dall’insoddisfazione dei popoli sconfitti che videro sorgere al proprio interno movimenti antidemocratici e violenti per la revisione dei trattati di pace: la vittoriosa Italia si sentì tradita esattamente come la perdente Austria che aveva sconfitto, una volta per tutte, nell’orgogliosa potenza degli Asburgo. Note [1] Giulio Prinetti (1851-1908) già deputato nella Destra e Ministro dei Lavori Pubblici con di Rudinì (1896-97), fu Ministro degli Esteri nel gabinetto Zanardelli (1901-03) [2] Emilio Visconti-Venosta (1829-1914) già Ministro degli Esteri nel gabinetto Farini-Minghetti (1863) resse la politica estera italiana quasi ininterrottamente sino al 1876. Con la caduta della Destra rimase per quasi vent’anni fuori dalle responsabilità governative per ritornare al Ministero degli Esteri nel 1896, in seguito alla caduta di Crispi dopo il disastro di Adua. Sia come ministro che come primo delegato italiano alla Conferenza di Algeciras (1906) si adoperò per migliorare i rapporti con la Francia. [3] Tommaso Tittòni (1855-1931) già deputato nella Destra e Senatore nel 1902, fu Ministro degli Esteri con Giolitti (1903-05) conservando il ministero anche nel gabinetto Fortis. Fu ambasciatore a Londra nel 1906 e tornò ancora agli Esteri nel terzo ministero Giolitti (1906-09). Nel 1910 fu ambasciatore a Parigi e durante la prima guerra mondiale fu favorevole all’abbandono della Triplice Alleanza. [4] Antonio Salandra (1853-1931) già avvocato e professore all’Università di Roma, dopo aver ricoperto cariche governative tra il 1891 ed il 1910, fu Presidente del Consiglio dei Ministri nel 1914. Le correnti neutraliste parlamentari lo costrinsero alle dimissioni nel Maggio del 1915, ma la fiducia del re e le violenti dimostrazioni interventiste lo mantennero al governo. Rimase la potere sino al 10 Giugno 1916 (offensiva austriaca nel Trentino) e dopo la fine del conflitto fu delegato alla Conferenza di Parigi e rappresentò l’Italia a Ginevra. Nonostante si fosse ritirato successivamente dalla vita politica, fu nominato Senatore nel 1925. [5] Sidney Sonnino (1847-1922) già deputato nel 1880, ricoprì per due volte la carica di Ministro delle Finanze prima di costituire due gabinetti di breve durata (1906 e 1909-10). Fu Ministro degli Esteri (1914) sotto la presidenza di Salandra dopo la morte di San Giuliano e mantenne l’incarico per tutta la durata del primo conflitto mondiale. Abbandonò il dicastero alla caduta del gabinetto Orlando (1919) e continuò a difendere con tenacia le clausole del Patto di Londra. Fu nominato Senatore nel 1920. [6] Antonino Paternò-Castello San Giuliano, marchese di (18521914) già Sindaco di Catania (1879) fu deputato nel 1882. Nel 1892 fu Sottosegretario all’Agricoltura e nel 1898 Ministro delle Poste. Prima Ministro degli Esteri (1905-06), poi Ambasciatore a Londra (1906-09) e a Parigi (1909-10) ritornò al suo dicastero nel 1910 sino alla sua morte. [7] Giuseppe Avarna, duca di Gualtieri (1843-1916) dopo aver ricoperto numerosi incarichi nella carriera diplomatica (Parigi, Vienna, Belgrado, Atene e Berna) fu nominato Ambasciatore a Vienna nel 1904. Contrario alla neutralità italiana e alla rottura della Triplice Alleanza, restò comunque al suo posto sino alla dichiarazione di guerra. Senatore del Regno dal 1909. [8] Art.7 del Trattato della Triplice Alleanza : “Tuttavia, nel caso che, in seguito ad avvenimenti, il mantenimento dello status quo nella regione dei Balcani o nelle coste e isole ottomane nell’Adriatico e nel mare Egeo divenisse impossibile, e che, sia in conseguenza dell’azione di una terza potenza, sia altrimenti, l’AustriaUngheria o l’Italia si vedessero nella necessità di modificarlo con un’occupazione temporanea o permanente da parte loro, questa occupazione non avrà luogo se non dopo un accordo preventivo fra le due potenze, basato sul principio di un compenso reciproco per ogni vantaggio territoriale o altro che ciascuna di esse ottenesse in più dello status quo attuale e tale da dare soddisfazione agli interessi e alle pretese ben fondate delle due parti.” [9] Pasquale Mancini (1817-1888) già avvocato e professore all’Università di Napoli e di Roma, fu deputato al Parlamento nazionale (1860) nella Sinistra democratica. Ebbe il Ministero della Giustizia nel 1876 e quello degli Esteri nel 1881. Stipulò il trattato della Triplice Alleanza (1882) e si dimise nel 1885 a causa della mancata maggioranza alla Camera sulla politica coloniale italiana da lui inaugurata con l’occupazione di Assab. [10] Guglielmo Imperiali di Francavilla (1858-1944) marchese. Dopo avere ricoperto varie posizioni nella carriera diplomatica (Berlino, Washington, Sofia e Belgrado) nel 1904 fu nominato ambasciatore in Turchia e nel 1910 in Gran Bretagna. Concluse le trattative del Patto di Londra (1915) e fece parte della delegazione italiana per la pace con la Germania. Rappresentò, per breve periodo, l’Italia nel Consiglio della Società delle Nazioni. [11] Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952) già professore nelle Università di Modena, Messina, Palermo e Roma, fu Ministro della Pubblica Istruzione (1903-05) di Grazia e Giustizia (1907-09 e 191416) e dell’Interno (1916-17) prima di diventare Presidente del Consiglio (dal 29 Ottobre 1917 al 19 Giugno 1919) dopo la disfatta di Caporetto. Nel 1924 abbandonò la vita politica per dedicarsi agli studi ed alla vita forense, per riprenderla nel 1944 come membro della Consulta Nazionale e poi dell’Assemblea Costituente (1946-47) [12] La Società delle Nazioni fu costituita durante la Conferenza di Pace a Versailles e la sua attività iniziò il 10 Gennaio 1920 con la ratifica del Trattato di Pace con la Germania, nel quale il suo statuto era incorporato. Con sede a Ginevra, la Società era composta da un’Assemblea degli Stati membri, da un Consiglio e da un Segretariato Permanente. Del Consiglio facevano parte cinque Stati membri permanenti (Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Italia e Giappone) e quattro temporanei eletti dall’Assemblea ogni tre anni. Gli Stati aderenti si impegnavano a rispettare l’integrità territoriale e l’indipendenza politica degli altri membri, evitando nel contempo il ricorso alla guerra. [13] In data 23 Aprile 1919 il presidente americano Wilson rilasciò alla stampa un vero e proprio “Manifesto” sulla questione adriatica. [14] Francesco Saverio Nitti (1868-1953) già professore universitario all’Università di Napoli, fu Ministro dell’Agricoltura nel gabinetto Giolitti (1911-14) e Ministro del Tesoro nel gabinetto Orlando (191719) prima di diventare Presidente del Consiglio e successivamente Ministro dell’Interno (23 Giugno 1919 e 15 Giugno 1920). [15] Giovanni Giolitti (1842-1928) già Ministro del Tesoro nel gabinetto Crispi (1889-90) nel 1892 ricevette il suo primo incarico di gabinetto ma dovette ritirarsi l’anno successivo in seguito allo scandalo della Banca di Roma. Ministro dell’Interno nel gabinetto Zanardelli (1901-03) fu di nuovo Presidente del Consiglio dal 1903 al 1914 con tre successivi gabinetti, interrotti dalle brevi parentesi di Tittòni (1905) di Fortis (1905-06) di Sonnino (1906 e 1909-10) e di Luzzatti (1910-11). In politica estera accettò la Triplice Alleanza con un’interpretazione rigorosamente difensiva e favorì nel contempo l’avvicinamento alla Francia. Allo scoppio della Prima Guerra mondiale assunse una posizione nettamente neutralista, pur promuovendo negoziati con gli Imperi Centrali per la cessione di zone irridente dell’Italia. Durante il suo quinto gabinetto (1920) venne firmato con la Jugoslavia il Trattato di Rapallo e venne repressa l’impresa dannunziana di Fiume. [16] Carlo Sforza (1872-1952) dopo aver ricoperto importanti incarichi nella carriera diplomatica (Cina e Serbia) fu Sottosegretario agli Esteri con Tittòni (Giugno 1919) e Ministro degli Esteri con Giolitti dal 15 Giugno 1920 al 4 Luglio 1921, negoziando con la Jugoslavia il Trattato di Rapallo.Senatore nel 1919, fu nominato Ambasciatore a Parigi nel 1922. [17] Con il Trattato di Saint Germain-en-Laye (10 Settembre 1919) si definì il nuovo confine italo-austriaco dallo Stelvio a Tarvisio, che per quel tratto fu il confine previsto dal Patto di Londra. L’Austria cedette quindi all’Italia il Trentino, l’Alto Adige, l’Istria e Trieste, con il pieno riconoscimento della “Frontiera del Brennero”. Bibliografia Gli articoli relativi ai trattati della Triplice Alleanza e del Patto di Londra, così come le note diplomatiche dei Ministri degli Esteri e degli Ambasciatori italiani sono stati raccolti da “Documenti Diplomatici Italiani” (DDI), serie V, VI e VII, volumi vari, Roma 1954, e da “La politica estera italiana dal 1914 al 1945” con documenti ufficiali pubblicati da Eri, Torino 1963. B.Vigezzi : “I problemi della neutralità italiana e della guerra nel carteggio Salandra-Sonnino, 1914-1917” in Nuova Rivista Storica, Città di Castello (Pg), 1962. Sidney Sonnino : “Diario 1914-1916” e “Carteggio 1914-1916” a cura di P.Pastorelli, Laterza, Bari, rispettivamente 1972 e 1974. Antonio Salandra : “Ricordi e pensieri”, Mondadori, Milano 1928. Attilio Tamaro : “Il Trattato di Londra e le rivendicazioni italiane” Treves, 1918 A. Torre (a cura di) : “La politica estera italiana dal 1871 al 1915”, Feltrinelli, Milano 1970 ed in particolare “La diplomazia italiana nella guerra mondiale”. E. Ragionieri : “La storia politica e sociale” e Asor Rosa : “Dall’unità ad oggi” della Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1976. J.Joll : “Le origini della prima guerra mondiale”, Laterza, Bari 1980. P.Pieri : ”L’Italia nella prima guerra mondiale”, Einaudi, Torino 1965