“I TRATTATI ITALIANI NELLA
PRIMA GUERRA MONDIALE”
di Daniele Cellamare
Nel primo grande conflitto mondiale l’Italia dichiarò la sua neutralità il
3 Agosto 1914 sulla base del carattere puramente difensivo del trattato
della Triplice Alleanza stipulato con Berlino e Vienna nel 1882.
L’intensa attività diplomatica del Ministro degli Esteri austriaco, conte
Leopold von Berchtold, subito dopo l’attentato di Sarajevo del 28
Giugno (l’appoggio politico e militare di Guglielmo II ottenuto il 5
Luglio, l’ultimatum a Belgrado il 23 Luglio, la rottura delle relazioni
diplomatiche con il governo serbo il 25 Luglio, ed infine il telegramma
con la dichiarazione di guerra alla Serbia del 28 Luglio) non tenne in
debita considerazione la diplomazia italiana, con l’errata convinzione
che tutte le altre potenze estranee alla guerra, Italia compresa, avrebbero
accettato la tesi di un conflitto localizzato austro-serbo.
Quindi, oltre alla natura difensiva dell’alleanza, l’assenza di
consultazioni preventive stabilite espressamente nel Trattato e la
intempestiva dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria, indussero il
governo di Roma alla dichiarazione di neutralità che accese in Italia
nove mesi di aspro dibattito sul problema del completamento della
propria unità nazionale e sulla strada da percorrere per la sua possibile
realizzazione.
Kajetan Mérey von Kapos-Mére, ambasciatore austro-ungarico a Roma,
scrisse un telegramma al conte Berchtold in data 30 Luglio 1914 per
illustrare le sue considerazioni sull’atteggiamento del governo italiano :
“Il Ministro degli Affari Esteri ha spontaneamente introdotto oggi la
questione dell’atteggiamento italiano nell’eventualità di una guerra
europea.
Dato il carattere della Triplice Alleanza puramente difensivo; dato che
le nostre misure contro la Serbia possono precipitare una
conflagrazione europea; e infine, dato che non abbiamo
preventivamente consultato questo governo, L’Italia non sarebbe
obbligata a unirsi a noi nella guerra. Questo, tuttavia, non preclude
l’alternativa che l’Italia possa, nell’eventualità, dover decidere per se
stessa se i suoi interessi fossero serviti meglio alleandosi con noi in
un’operazione militare o rimanendo neutrale.
Personalmente [il Ministro degli Esteri] si sente più incline a favore
della prima soluzione, che gli appare la più probabile, purchè gli
interessi italiani nella penisola balcanica siano salvaguardati e purchè
noi non cerchiamo cambiamenti che probabilmente ci daranno un
predominio dannoso agli interessi italiani nei Balcani.”
Le difficili Alleanze europee prima del conflitto
La fedeltà al trattato della Triplice Alleanza, ed una serie di accordi con
le potenze mediterranee, erano ancora le direttive del ministro Giulio
Prinetti [1], nonostante l’Italia avesse già superato le divergenze con la
Francia (in seguito all’occupazione di Tunisi avvenuta nel 1881 che
provocò l’adesione alla Triplice) con la nomina di Theophile Delcassé
al Ministero degli Esteri francese e di Camille Barrère ambasciatore in
Italia, che riuscirono a convincere la diplomazia italiana che l’ingresso
a Tripoli sarebbe avvenuto solo con il beneplacito francese e non certo
con l’avallo austro-tedesco.
Svuotando quindi di contenuto l’adesione dell’Italia alla Triplice
Alleanza (senza pretenderne l’uscita, così come avevano fatto i loro
predecessori) si giunse agli accordi Visconti Venosta[2]-Barrère
(Dicembre 1900) dove si definirono le reciproche zone di influenza per l’Italia la Libia e la Cirenaica e per la Francia il Marocco –
suggellando così il già avvenuto riconoscimento del protettorato
francese sulla Tunisia e la fine della guerra commerciale tra i due paesi.
Due anni più tardi (Giugno 1902) gli accordi Prinetti-Barrère definirono
anche l’impegno alla neutralità reciproca in caso di aggressione da parte
di una terza potenza, assicurando così a Parigi (ma con analoghi
accordi anche a Londra, in cambio della tutela degli interessi italiani in
Libia) un “non intervento” militare in caso di attacco da parte di Berlino
o di Vienna.
Dopo la sconfitta subita in Estremo Oriente (guerra con il Giappone
1904-05) la Russia – già indebolita militarmente ed alle prese con i
primi disordini rivoluzionari – orientò la sua attività diplomatica nel
Vicino Oriente, con l’obiettivo di ottenere l’apertura degli Stretti per le
proprie navi da guerra nel Mar Nero.
L’ambizioso Ministro degli Esteri russo, Alexander Isvolski (in carica
dal 1906 al 1910), dopo aver messo fine alla rivalità anglo-russa con
l’Accordo della Persia (1907) intensificò le relazioni estere nella
politica balcanica e durante l’incontro di Buchlau (1908) con il Ministro
degli Esteri austro-ungarico, il barone Alois Lexa von Aerenthal, non
esitò ad offrire l’appoggio russo all’annessione della Bosnia e
dell’Erzegovina (occupate già da trent’anni dall’Austria) suscitando le
forti proteste della Serbia che contava di ottenere proprio quelle regioni,
che già da tempo erano considerate proprio dai serbi patrimonio etnico
e culturale dell’intero movimento slavista.
Fu invece ben lieto di accettare la proposta il ministro Aerenthal che
stava appunto lavorando per assicurare alla Corona di Francesco
Giuseppe il superamento del dualismo austro-ungarico a vantaggio del
trialismo Austria-Ungheria-Jugoslavia, con l’intento di assorbire
pacificamente la Serbia nell’orbita dell’Impero asburgico.
Il progetto di Isvolski per ottenere l’apertura degli Stretti naufragò a
causa dell’intransigenza britannica ed a questo fallimento della
diplomazia russa si aggiunse anche un parziale successo della
controparte austriaca che effettuò l’annessione della Bosnia-Erzegovina
(1908) ma rinunciò all’assorbimento della Serbia per via della forte
opposizione dell’elemento magiaro ostile alla creazione di una
Jugoslavia nell’ambito dell’Impero, realizzabile solo sottraendo la
Croazia al Regno ungherese.
Isvolski, come abbiamo visto già autore del riavvicinamento anglorusso del 1907 - e quindi non in grado di rinnegare la propria politica
verso l’Inghilterra nonostante il divieto britannico ai suoi progetti
mediorientali - orientò la sua sdegnata reazione contro l’Austria,
fomentando proprio quegli ideali di panslavismo che aveva tradito
nell’incontro di Buchlau.
Ma la sua proposta di un Congresso (appoggiata da sir Edward Grey,
Ministro degli Esteri della Gran Bretagna), con l’obiettivo di mettere in
discussione l’annessione della Bosnia-Erzegovina, trovò reazioni
negative da parte dell’Austria che intendeva riunirsi intorno ad un
tavolo solo per suggellare a livello internazionale il fatto compiuto
dell’annessione.
In questi delicati frangenti la diplomazia italiana (Tommaso Tittòni [3]
al portafoglio degli Esteri) in maniera piuttosto arbitraria cercò di trarre
profitto dalla complessità della situazione e pretese, nell’ipotesi di un
congresso internazionale, compensi territoriali che non vennero mai
neanche presi in considerazione per via dell’assoluta mancanza di una
base giuridica.
Fu comunque il primo intervento dell’Italia nella questione balcanica di
fronte all’espansione austriaca e nel tentativo di arginare le pretese
austro-ungariche (la Turchia e la Serbia protestano, il Capo di Stato
Maggiore austriaco Franz Conrad von Hotzendorf chiede di mobilitare
le truppe per una guerra preventiva contro la Serbia ed il Cancelliere
tedesco, principe Bernhard von Bulow promette “fedeltà nibelungica”
all’Austria) il ministro Tittòni riuscì ad ottenere un accordo segreto con
la Russia (Trattato di Racconigi, 1909) per la conservazione delle
posizioni territoriali nei Balcani, sfruttando gli ormai deteriorati
rapporti tra Nicola II e Francesco Giuseppe, e per ottenere inoltre dalla
Russia il riconoscimento degli interessi africani dell’Italia (Libia) in
cambio di analogo riconoscimento italiano delle aspirazioni russe sui
Dardanelli.
Assicuratasi così il consenso delle maggiori potenze, l’Italia dichiarò
guerra all’Impero ottomano e dopo lo sbarco a Tripoli (ad opera del
Generale Carlo Caneva, il 29 Settembre 1911) occupò la Tripolitania, la
Cirenaica, Rodi e il Dodecaneso. Dopo il decreto regio per l’annessione
della Libia (5 Novembre 1911) si giunse alla Pace di Losanna (18
Ottobre 1912) dove la Turchia riconobbe la sovranità italiana in Libia,
oltre al fatto che Rodi ed il Dodecaneso rimasero sotto occupazione
italiana a garanzia dell’evacuazione turca dai territori africani.
La guerra italo-turca, che non solo mise in evidenza le serie difficoltà
militari e politiche della Sublime Porta, ebbe anche l’effetto di spingere
la “rancorosa” diplomazia di Pietroburgo verso la coalizione di Serbia,
Bulgaria, Montenegro e Grecia (1° Lega Balcanica, Marzo 1912) nel
convincimento che tale raggruppamento dovesse costituire il primo
passo verso la distruzione dell’Austria-Ungheria : la prima guerra della
“quadruplice” balcanica contro la Turchia (Ottobre 1912) superò ogni
previsione ed in poco tempo i Turchi persero tutto il territorio europeo
ad eccezione di Costantinopoli.
La conseguenza di questa guerra fu una situazione internazionale molto
critica dove, in particolare, oltre alle proteste greche per l’occupazione
italiana del Dodecaneso, la Serbia avanzò la pretesa di uno sbocco
sull’Adriatico trovando però la ferma opposizione dell’Italia,
nonostante il forte appoggio della diplomazia russa al progetto serbo
(nuovo Ministro degli Esteri russo, Sergei Sazonov, dopo la “sconfitta”
di Isvolski e la sua nomina ad ambasciatore a Parigi nel 1912).
In effetti, nonostante l’opposizione dell’Austria-Ungheria ad ogni
ingrandimento territoriale dell’Italia – e nonostante un’alleanza solo
formale tra i due paesi – verso la fine del 1912 le diplomazie di Vienna
e di Roma trovarono occasione di solidarietà nell’opporsi
congiuntamente alla richiesta della Serbia di ottenere il porto di
Durazzo, con il comune timore che potesse diventare una potente base
navale russa nell’Adriatico. Nel nome di questa ritrovata “amicizia”, e
con l’aiuto dell’Inghilterra, ottennero la creazione di uno Stato albanese
indipendente, rinnovarono anticipatamente il trattato della Triplice
Alleanza (Dicembre 1912) e conclusero una Convenzione Navale
(Gennaio 1913) per la conquista della superiorità marittima nel
Mediterraneo in caso di conflitto europeo.
La contestazione italo-austriaca sui territori da assegnare alla Serbia
spinse quest’ultima a rivendicare alcuni territori dell’Impero turco
ambiti dalla Bulgaria, ma ancora non formalmente assegnati dopo la
prima guerra balcanica. Solo con la Pace di Londra (Maggio 1913) si
definì la cessione di tutti i territori turchi ad ovest della linea EnezMidia e delle isole egee ma la dichiarazione di guerra della Bulgaria
alla Serbia (Giugno 1913) scatenò la seconda guerra balcanica (questa
volta con l’intervento della Romania, della Grecia, del Montenegro e
della Turchia al fianco della Serbia) e il paventato intervento
dell’Austria-Ungheria in difesa di Sofia, scongiurato solo grazie alle
mediazioni della diplomazia tedesca ed italiana, non riuscì ad impedire
l’irritazione di Vienna verso Bucarest, entrata a far parte della Triplice
Alleanza già dal lontano 1883, proprio un anno dopo l’ingresso
dell’Italia.
Il Trattato di Bucarest (Agosto 1913) sanzionò la sconfitta bulgara
(Sofia perse la Macedonia e la Dobrugia) ma non risolse certo le
numerose e complicate tensioni balcaniche, ovvero rese ancora più
rigidi e sospettosi i già delicati rapporti di alleanza tra le grandi e
piccole potenze : le premesse per lo scoppio della prima guerra
mondiale erano ormai maturate.
Il Patto di Londra
Il 28 Giugno del 1914 cadde assassinato a Sarajevo l’Arciduca
ereditario d’Austria Francesco Ferdinando e l’Italia iniziò la sua lotta
interna per l’intervento militare nella grande guerra europea.
Roma non abbandonò inizialmente la sua vecchia politica (anche se
l’Italia del Risorgimento non poteva certo combattere a fianco
dell’impero degli Asburgo) ed iniziò una serie di trattative – faticose ed
improduttive – con il governo di Vienna.
Il Presidente del Consiglio, Antonio Salandra [4] ed il ministro Sidney
Sonnino [5] (che dal Novembre del 1914 aveva sostituito di San
Giuliano [6] agli Affari Esteri) si scontrarono ben presto con la tenace
resistenza dell’Austria-Ungheria a non cedere la benché minima parte
dei territori dell’impero.
Il 9 Dicembre del 1914 Sonnino incaricò il duca Avarna [7],
ambasciatore italiano a Vienna, di trasmettere al governo asburgico le
“aspirazioni nazionali” che l’Italia riteneva dovessero essere soddisfatte
come corrispettivo degli eventuali guadagni che l’Austria-Ungheria
avrebbe ottenuto con la guerra a spese della Serbia.
In realtà, Salandra annotò nelle sue memorie che questi “[…] furono i
primi passi decisivi verso l’intervento”, lasciando così intendere che si
trattava di una richiesta che l’impero asburgico avrebbe sicuramente
rifiutato, dando in questo modo all’Italia la giustificazione necessaria
per abbandonare la Triplice Alleanza e schierarsi con le potenze
dell’Intesa.
Infatti, riguardo al Trentino - obiettivo invano perseguito dall’Italia sin
dal 1866 - il governo di Vienna aveva già dichiarato al Ministro degli
Esteri italiano, Visconti-Venosta, con una nota ufficiale del 1874, di
essere disposto a negoziare con il governo di Roma qualunque accordo
relativo ad eventuali aspirazioni territoriali, purchè non riguardassero le
province dell’impero asburgico abitate da popolazioni italiane, ed
esistevano quindi fondati motivi per ritenere che tale divieto fosse
ancora più imperante con lo scoppio delle ostilità, non potendo certo
l’Austria soddisfare l’irredentismo italiano proprio mentre entrava in
guerra contro quello serbo.
E fu così che Sonnino trasmise al barone Stephan von Burian (Ministro
degli Esteri austro-ungarico, dimissionario nel Dicembre del 1916 e poi
riconfermato nell’Aprile del 1918 sino al crollo della monarchia
asburgica) con una nota successiva affidata sempre ad Avarna, il suo
malcontento sull’esito delle trattative in corso, unitamente al veto
italiano ad ogni azione militare austriaca nei balcani :
“Di fronte al contegno persistentemente dilatorio a nostro riguardo,
non è possibile ormai nutrire più alcuna illusione sull’esito pratico
delle trattative.
Onde il Regio Governo si trova costretto, a salvaguardia della propria
dignità, a ritirare ogni sua proposta o iniziativa di discussione e a
trincerarsi nel semplice disposto dell’Art.7, dichiarando che considera
come apertamente contraria all’articolo stesso qualunque azione
militare che volesse muovere da oggi in poi l’Austria-Ungheria nei
Balcani, sia contro la Serbia, sia contro il Montenegro o altri, senza
che sia avvenuto il preliminare accordo richiesto dall’Art.7.
Non ho bisogno di rilevare che se di questa dichiarazione e del disposto
Art.7 il Governo austro-ungarico mostrasse con il fatto di non voler
tenere il dovuto conto, ciò potrebbe portare a gravi conseguenze delle
quali questo Regio Governo declina fin d’ora ogni responsabilità.”
Come già accennato, l’Articolo 7 del trattato della Triplice Alleanza
prevedeva compensi territoriali all’Italia nel caso che l’impero
asburgico avesse alterato a proprio favore l’equilibrio esistente nei
Balcani e nell’Adriatico [8].
Quindi la neutralità italiana dichiarata il 3 Agosto del 1914 costituì
solamente un passaggio obbligato e non certo una scelta definitiva di
politica estera, non potendo l’Italia prendere in considerazione né
l’ipotesi della partecipazione alla guerra degli Imperi Centrali (neanche
in caso di vittoria avrebbe ottenuto il compimento dell’unità nazionale e
la sicurezza strategica sulle Alpi e nel Mediterraneo) ed al tempo stesso
la sua neutralità avrebbe influito negativamente sui rapporti con Berlino
e Vienna, così come – in caso di vittoria dell’Intesa – nessuna potenza
avrebbe avuto un particolare interesse a proteggere uno Stato rimasto
neutrale.
Oltre a queste considerazioni, il governo italiano sicuramente valutò
con grande attenzione il problema dell’Inghilterra (oltre a quello della
Francia e della Russia, già esaminati in precedenza) ed il suo peso nel
Mediterraneo.
Quando venne stipulato il trattato della Triplice Alleanza nel 1882, il
ministro Pasquale Mancini [9] pretese ed ottenne da parte della
Germania e dell’Austria-Ungheria che l’alleanza non fosse diretta
contro la Gran Bretagna, già dominatrice del Mediterraneo da Gibilterra
al Canale di Suez e con basi intermedie a Malta e a Cipro. Fu quindi
necessario da parte della politica estera italiana individuare e conservare
una permanente ricerca del migliore allineamento possibile con la
“flotta britannica” a tutela dell’indipendenza e dello sviluppo
commerciale dello Stato italiano.
Proprio per questi motivi, già cinque giorni dopo la dichiarazione di
guerra dell’Inghilterra alla Germania (4 Agosto 1914) l’allora Ministro
degli Esteri italiano, il marchese Antonino di San Giuliano, sottopose a
Salandra una prima bozza di quello che successivamente sarebbe
diventato il Trattato di Londra ed ancora il 25 Settembre 1914, quasi
alla vigilia della sua morte, inviò – con l’obiettivo di avere un parere
qualificato in merito – una analoga nota agli ambasciatori italiani a
Parigi (Tittòni), a Londra (Imperiali [10]) e a Pietroburgo (Carlotti) :
anche le premesse per il Patto di Londra stavano maturando.
I negoziati con l’Austria-Ungheria continuarono nonostante l’ostinato
atteggiamento di von Burian (che si decise a fare delle concessioni
territoriali solamente nell’Aprile del 1915, ovvero dopo il fallimento
dell’offensiva invernale nei Carpazi contro la Russia) sino a quando
Sonnino, il 3 Maggio 1915, inviò una nota al governo asburgico, la cui
conclusione determinava l’annullamento del trattato della Triplice
Alleanza :
“Tutti gli sforzi del Regio Governo s’infransero nella resistenza del
Governo Imperiale, che dopo parecchi mesi, si è soltanto deciso ad
ammettere gli interessi speciali dell’Italia a Valona e a promettere una
concessione non sufficiente di territori nel Trentino, concessione che
non comporta il regolamento normale della situazione, né dal punto di
vista etnico né dal punto di vista politico e militare. Questa concessione
inoltre non doveva essere eseguita che ad epoca indeterminata, alla
fine della guerra. In questo salto di cose il Governo italiano deve
rinunciare alla speranza di giungere ad un accordo e si vede costretto a
ritirare tutte le sue proposte. E’ ugualmente inutile mantenere
all’alleanza un’apparenza formale, la quale non sarebbe destinata che
a dissimulare la realtà di una diffidenza continua e di contrasti
quotidiani. Perciò l’Italia, fidando nel suo buon diritto, afferma e
proclama di riprendere da questo momento la sua intera libertà
d’azione e dichiara annullato e ormai senza effetto il suo trattato
d’alleanza con l’Austria-Ungheria”
Le trattative ufficiali per l’intervento a fianco dell’Intesa erano state già
avviate, attraverso il canale segreto della diplomazia britannica, il 4
Marzo 1915 con la consegna a sir Edward Grey, Ministro degli Esteri
britannico, da parte dell’ambasciatore italiano a Londra (Imperiali) di
un memorandum in cui erano spiegate le condizioni richieste dall’Italia
per la discesa in campo contro gli Imperi Centrali. A queste condizioni
l’Italia avrebbe dichiarato guerra entro il 25 Maggio 1915 all’Austria,
alla Turchia e agli altri nemici dell’Intesa, con eccezione della
Germania, ovvero soltanto se quest’ultima avesse aiutato militarmente
le truppe austriache contro l’esercito italiano.
(E’ bene qui ricordare che l’Italia, che aveva sempre avuto i suoi due
poli di politica estera in Londra e Berlino - per un equilibrio
mediterraneo e continentale - nonostante dopo la firma del Trattato si
fosse impegnata a dichiarare guerra a tutti i nemici dell’Intesa, aspettò
sedici mesi prima di inviare la dichiarazione di ostilità alla Germania.)
Il 10 Marzo 1915 sir Grey consegnò a Paul Cambon, ambasciatore
francese in Inghilterra, e al conte Bruder Alexander Benckendorff,
ambasciatore russo, il memorandum italiano da sottoporre a Parigi e a
Pietroburgo, sottolineando l’importanza, sia militare che politica,
dell’ingresso dell’Italia a fianco delle tre potenze alleate.
In questo modo iniziarono le complesse trattative dei compensi
territoriali italiani, secondo una serie di annessioni, spartizioni,
protettorati e sfere d’influenza (metodi tradizionali delle diplomazie
prebelliche, oltre ai doverosi omaggi al principio delle nazionalità) dove
le proposte italiane – accentrate sulla questione adriatica – incontrarono
la ripetuta ostilità del governo russo, maggiormente preoccupato di
patrocinare gli interessi serbi, punta avanzata dell’espansione del
mondo slavo sotto il controllo di Pietroburgo, e solo in parte mitigata
dal Primo Ministro inglese Lord Herbert Henry Asquith.
Il 20 Marzo 1915 sir Grey consegnò all’ambasciatore Imperiali una nota
con cui dichiarava che l’Intesa era disposta ad accettare in linea di
massima le proposte italiane, ma che sarebbe stato necessario rivedere,
quasi interamente, il suo progetto sull’Adriatico in ossequio alle
legittime aspirazioni serbe, condivise sia dalla Russia che dalla Francia
:
“[…] la domanda italiana della Dalmazia, unita alla proposta di
neutralizzare una larga parte della carta orientale adriatica e la
pretesa delle isole del Quarnaro lasciavano alla Serbia opportunità e
condizioni molto ristrette per il suo accesso al mare, e rimaneva chiusa
nelle sue province jugoslave, che avevano con ragione guardato a
questa guerra come a quella che avrebbe assicurato loro le legittime
aspirazioni di espansione e di sviluppo di cui erano state fino allora
private”
Pur non convenendo all’Italia un ingresso in guerra per sostituire il
dominio austriaco nell’Adriatico a favore di quello serbo-russo,
l’ambasciatore Imperiali consegnò il 29 Marzo 1915 alla diplomazia
inglese la conferma di adesione di massima alla “Dichiarazione di
Londra” del 5 Settembre 1914 (nella quale le potenze dell’Intesa si
impegnavano a condurre congiuntamente non solo la guerra ma, ancora
più importante, anche la pace) insieme ad un altro memorandum che
vedeva ridotte le richieste italiane. Ma su insistenza di sir Grey, anche
lui convinto che le richieste italiane fossero eccessive, il 30 Marzo
venne presentato un terzo memorandum (questa volta l’ultimo) con una
forte riduzione dei compensi territoriali rispetto alla prima stesura – ma
sempre ragguardevoli per l’Italia – insieme ad una richiesta di sollecita
conferma.
Verso la metà del mese successivo vennero a cadere le principali
difficoltà diplomatiche ed il 26 Aprile 1915, ottenuto senza difficoltà il
consenso di Vittorio Emanuele III, si giunse alla stesura del Patto di
Londra, con l’impegno italiano ad intervenire in guerra entro un mese
dalla firma ed a non concludere una pace in via separata.
L’accordo - che venne firmato per l’Italia dall’ambasciatore Imperiali,
per la Gran Bretagna dal Ministro degli Esteri Grey, per la Russia
dall’ambasciatore Benckendorff e per la Francia dall’ambasciatore
Cambon - rivestì carattere di segretezza :
“La dichiarazione del 26 Aprile 1915, con la quale la Francia, la Gran
Bretagna, l’Italia e la Russia si impegnavano a non concludere pace
separata, durante l’attuale guerra europea, rimarrà segreta. Dopo la
dichiarazione di guerra da parte dell’Italia o contro di essa, le quattro
potenze firmeranno una nuova dichiarazione identica, che sarà resa
pubblica in quel momento”.
In linea di massima questo accordo avrebbe permesso all’Italia di
realizzare un ingente “guadagno”, specialmente considerando la sua
ridotta posizione all’interno delle grandi potenze europee ed il rischio,
connaturato con la guerra, di mettere a repentaglio la proprio unità :
il futuro confine dell’Italia (Art.4) sarebbe passato per il Brennero e,
sviluppandosi ad oriente lungo il versante alpino, avrebbe raggiunto il
golfo di Fiume senza tuttavia comprendere la città, che insieme alle
isole di Veglia e Arbe, sarebbero state attribuite alla Croazia e quindi
all’impero asburgico (vale qui la pena ricordare che gli accordi
dell’Intesa non solo non intendevano sconvolgere la carta politica
dell’Europa – l’intento era piuttosto quello di farle subire aggiustamenti
ragguardevoli – ma non prevedevano neanche la totale disfatta
dell’impero austro-ungarico).
All’Italia andavano anche attribuite (Art.5) la provincia della Dalmazia
nei suoi confini amministrativi e le isole situate a nord e a ovest delle
sue coste oltre all’estensione della sovranità italiana (Art.6) su Valona e
l’isola di Saseno. Inoltre l’Italia, se avesse ottenuto i confini dei
precedenti Articoli, avrebbe acconsentito allo smembramento del
residuo stato albanese a beneficio della Serbia, del Montenegro e della
Grecia, fatto salvo un “piccolo stato autonomo neutralizzato” sotto
protettorato italiano (Art.7).
Oltre quindi alla definizione dei problemi connessi con la sicurezza del
paese e la chiusura del “ciclo risorgimentale”, il Trattato assicurava
all’Italia anche la difesa dell’equilibrio raggiunto nel Mediterraneo
orientale con il passaggio di Rodi e del Dodecaneso sotto la sua
sovranità (Art.8) ed il riconoscimento degli interessi italiani nella
Turchia asiatica (Art.9) fondati anch’essi sul presupposto della
sopravvivenza dell’impero ottomano.
Ma la diplomazia italiana era riuscita anche a cautelarsi nell’ipotesi di
una conquista russa di Costantinopoli e di una penetrazione francese in
Asia minore (coste del Libano e della Siria) pretendendo di partecipare
alla eventuale spartizione dell’eredità turca in Asia.
Anche se in termini piuttosto vaghi, l’Italia ottenne la salvaguardia dei
suoi rapporti in Africa (Art.13) richiedendo eventuali compensi nel caso
di liquidazione delle colonie tedesche a beneficio della Gran Bretagna
e della Francia.
Infine (Art.15) riuscì a negare alla Santa Sede, con l’impegno dei paesi
contraenti, la partecipazione alla conferenza della pace, considerando
già definita la “questione romana” sin dal 20 Settembre del 1870 (una
clausola inserita da Sonnino, nel suo laicismo protestante, anche nelle
richieste avanzate durante le trattative con l’Austria-Ungheria).
In definitiva, il Trattato riconosceva all’Italia il Trentino, il Tirolo
Cisalpino (abitato da una maggioranza tedesca), Trieste, Gorizia, l’Istria
(sino al Quarnaro ma esclusa Fiume) la Dalmazia, Valona (ed una sorta
di protettorato sull’Albania) Rodi e le isole del Dodecaneso, il bacino
carbonifero di Adalia (in Asia minore) e gli altri eventuali compensi
territoriali in Africa.
Tutto l’impianto della diplomazia di guerra dell’Italia – riassunto nel
Patto di Londra – venne costruito sull’ipotesi che la guerra, oltre a
riuscire vittoriosa, non avrebbe alterato i rapporti con gli alleati, vecchi
e nuovi, e non prese in considerazione la possibilità che questo “valore”
potesse mutare sino al punto di esigere un radicale ripensamento :
quando ciò avvenne la diplomazia italiana risultò impreparata.
Il Trattato di Versailles
Nell’autunno del 1918 l’Europa, sconvolta da una immane
carneficina, si preparò a firmare uno dopo l’altro una serie di
Armistizi – dal 29 Settembre all’11 Novembre – per determinare,
anche se in forma provvisoria, la situazione di fatto creatasi alla
fine del confronto bellico.
Ma alle diplomazie delle potenze dell’Intesa non fu subito chiaro
che si trovarono davanti ad una situazione senza precedenti - non
certamente come nel 1814 con la vittoria dell’Europa sulla grande
potenza ribelle - ma davanti ad una Europa formata soltanto da
vincitori e da vinti, ovvero davanti alla vittoria di una metà
dell’Europa sull’altra metà, appena di poco inferiore.
Questi due schieramenti europei, anche se per diversi motivi,
palesarono subito l’immediata tendenza a staccarsi dagli Armistizi e
quindi a cercare di modificare, secondo i propri vantaggi, i risultati
della guerra : la Germania, per esempio, non subì una sconfitta sul
campo di battaglia (sul fronte occidentale non si produsse un evento
risolutivo come quello dell’offensiva italiana di Vittorio Veneto) e i
plenipotenziari dell’impero asburgico firmarono l’armistizio di
Villa Giusti (Padova, 3 Novembre 1911) senza rappresentarlo
ufficialmente, dopo la rivoluzione avvenuta in Austria il 1°
Novembre, così come nello stesso giorno si insediò a Budapest il
governo repubblicano di Giulio Kàrolyi, facendo scomparire
l’antico Regno di Ungheria (in effetti la nuova Ungheria, che
pretese di regolare in via indipendente tutti i suoi rapporti postbellici, stipulò l’armistizio di Belgrado il 15 Novembre con il
comandante dell’Armée d’Orient, come se l’armistizio di Villa
Giusti non la riguardasse affatto).
In realtà il nuovo fenomeno che l’Europa stava vivendo era quello
delle “nazionalità soppresse”, ovvero l’atteggiamento di quei popoli
che, pur avendo combattuto per l’imperatore Francesco Giuseppe,
colsero adesso l’occasione per rendersi indipendenti e si
schierarono al fianco dei “fratelli” che erano scesi in campo per la
stessa causa, ma sotto la bandiera dell’Intesa (la Boemia-Moravia,
la Slovacchia e la Rutenia ciscarpatica diedero vita alla Repubblica
Cecoslovacca; Slovenia e Croazia si unirono alla Serbia; la
Transilvania e la Bucovina vennero assorbite dalla Romania e la
Galizia riconfluì nella nuova Polonia).
Dopo l’abdicazione di Guglielmo II e di Carlo d’Asburgo i nuovi
regimi faticarono non poco per impedire che la conquistata libertà
politica si convertisse alla tentazione della rivoluzione bolscevica
ed in questa delicata fase di transizione cominciarono a delinearsi,
in un più generale contesto europeo, i lineamenti di una nuova
società, dove l’antica classe dirigente aveva perduto il suo ruolo
tradizionale a vantaggio di una nuova classe borghese, a sua volta
premuta da una disordinata massa popolare che, incoraggiata dalle
disfunzioni statali in cerca di un nuovo equilibrio post-bellico,
cercava di partecipare più attivamente alle decisioni delle istituzioni
politiche.
A questo complesso quadro sociale e politico si aggiunsero i
problemi militari legati allo scioglimento degli eserciti vinti (sia ad
opera degli Armistizi che per dissoluzione spontanea) che con vere
e proprie ondate di ritorno “sommersero” i paesi di origine, così
come gli eserciti vittoriosi (che rimasero ancora uniti) provocarono,
con il mancato rientro dei soldati, motivi di insofferenza e
malumori diffusi.
In particolare l’Italia, che tra le grandi potenze era la compagine
unitaria più giovane, si trovò ad affrontare questi problemi con uno
sviluppo economico e sociale meno progredito e rimase pertanto la
più esposta ai contraccolpi del difficile passaggio dalla guerra alla
pace.
Questo fu il contesto nel quale le due Europe si fronteggiarono
durante il periodo a cavallo tra gli Armistizi e la Conferenza della
Pace, marcando sempre di più il solco della divisione da parte delle
rispettive diplomazie, pur essendo la rivoluzione sociale
(socialismo e internazionalismo proletario) ormai connotato
comune di entrambe.
Per l’Italia il punto di riferimento rimase indiscutibilmente il Patto
di Londra del 1915, con il suo elenco di richieste territoriali, che
giunse formalmente integro sino alla fine della guerra – e non
venne alterato nella sua validità contrattuale dalla defezione della
Russia dopo il successo della rivoluzione bolscevica e la sua pace
separata con la Germania – ma che venne piuttosto affiancato
dall’adesione italiana ai “14 Punti” del presidente americano
Thomas Woodrow Wilson, proprio alla vigilia della firma
dell’Armistizio.
E’ interessante qui notare che il “Punto 9” del piano americano – il
riconoscimento generico a procedere verso un ritocco delle
frontiere italiane, secondo il principio delle “indicazioni di
nazionalità chiaramente riconoscibili” – pur costituendo una
contraddizione all’impegno del Patto che avrebbe dovuto assicurare
il pieno compimento del confine geografico italiano, venne
brillantemente risolto da Vittorio Emanuele Orlando [11] che riuscì
a far prevalere un’esplicita riserva nei suoi confronti in seno al
Consiglio Supremo Interalleato, proprio quando si trattò di fare del
progetto americano la vera e propria piattaforma della pace con la
costituzione della Società delle Nazioni [12].
Il piano americano (presentato dal presidente Wilson l’8 Gennaio
1918) tracciò le linee per un disegno di riorganizzazione
complessiva della società internazionale insieme ad una proposta
di soluzione dei maggiori problemi europei ma venne accettato con
alcune riserve – oltre che dall’Italia sul già citato “Punto 9”, anche
dalla Gran Bretagna (“Punto 2”, la libertà dei mari) e dalla Francia
(“Punto 8”, le riparazioni per i danni subiti) – rappresentando in
definitiva per le diplomazie vincitrici soltanto uno schema d’azione
orientativo e non vincolante per gli sviluppi politici dell’Europa
post-bellica.
Ma la totale dissoluzione dell’impero asburgico – non prevista al
momento della firma del Patto di Londra, così come dal piano
americano di Wilson – avvenuta prima ancora che la guerra finisse,
aveva oggettivamente alterato alcuni presupposti di fatto, ed in
particolar modo le ragioni che avevano indotto il governo italiano a
non includere Fiume tra le richieste territoriali.
L’organizzazione della Conferenza della Pace trasse origine
dall’organo costituito dall’Intesa verso la fine della guerra, il
Supremo Consiglio di Guerra Interalleato, e la prima riunione (12
Gennaio 1919, la data di apertura della Conferenza, anche se
ufficialmente venne inaugurata il giorno 18) venne di conseguenza
limitata ai rappresentanti delle quattro potenze vincitrici (Francia,
Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti) a cui si aggiunsero, il giorno
successivo, i delegati del Giappone.
A questa riunione vennero esclusi i paesi neutrali ma vennero
invece ammessi tutti quelli che avevano dichiarato guerra, o rotto le
relazioni diplomatiche, con la Germania.
Sulle nuove fondazioni politiche – nate come abbiamo visto nel
periodo Armistizi-Conferenza – e non ancora riconosciute
ufficialmente dalle potenze dell’Intesa (per esempio il Regno serbocroato-sloveno, riconosciuto dagli Stati Uniti ma non dagli altri
alleati) prevalse il parere dell’Italia che chiese di non tener conto di
queste formazioni, fatta salva un’interrogazione ai loro
rappresentanti, per il legittimo timore di subire le suggestioni di
“fatti compiuti” in contrasto con le determinazioni del Patto di
Londra.
La prima crisi nell’ambito della Conferenza non tardò a
manifestarsi (14 Febbraio 1919) quando la discussione sul progetto
di una “Riunione Plenaria” non fu favorevole a Wilson, che tornò in
America, e il tavolo delle trattative venne abbandonato anche da sir
George Lloyd e da Orlando.
Nel mese di Marzo, al fine di assicurare ai lavori una maggiore
celerità, venne creato un Consiglio più ristretto composto dal
Presidente della Commissione (Georges Clémenceau) e da tre VicePresidenti, rappresentanti dell’Italia, della Gran Bretagna e degli
Stati Uniti.
Ad una seconda crisi (nel mese di Aprile, in merito alle clausole
territoriali da imporre alla Germania) seguì ben presto la terza crisi
dovuta al temporaneo abbandono della Conferenza da parte di
Orlando, seguito da Sonnino, per l’impossibilità di trovare una
soluzione soddisfacente alla questione adriatica, così come
esamineremo meglio più avanti.
Ma il Consiglio dei Quattro, anche se ridotto a tre, continuò
ugualmente i suoi lavori ed inserì nel progetto del Trattato di Pace
da presentare alla Germania la clausola secondo la quale la ratifica
di soltanto tre delle grandi potenze era sufficiente per farlo entrare
in vigore, privando quindi l’Italia di giocare la carta dell’unanimità
per definire la pace con la Germania, prima ancora della soluzione
della questione adriatica.
Il 7 Maggio 1919 il progetto del Trattato venne consegnato ai
plenipotenziari tedeschi e nello stesso giorno si procedette, anche in
assenza dell’Italia, alla distribuzione dei mandati per le colonie di
ex appartenenza tedesca : Orlando e Sonnino ritornarono a Parigi il
giorno successivo.
La politica estera italiana venne quindi a trovarsi nelle condizioni di
dover scegliere tra il Patto di Londra ed il suo “abbandono” (non
certo una rinuncia, vista la sua inattaccabilità giuridica) ovvero ad
accettare sia il fatto che gli Stati Uniti volevano ignorarlo, sia la sua
superata validità storica e politica, determinata dalla nuova
ideologia democratica favorevole al principio di nazionalità e di
autodecisione prevalente tra le potenze vincitrici.
La decisione fu quella di rimanere saldamente ancorati al Patto (la
Gran Bretagna e la Francia lo avrebbero sicuramente onorato, anche
se ormai è ampiamente diffusa l’opinione che all’Italia è stato
offerto troppo) ma proprio queste condizioni determinarono il
rifiuto della richiesta italiana della città di Fiume, non compresa
nelle richieste territoriali elencate nel Patto.
Anche se la richiesta italiana sembrava conciliarsi con il principio
di nazionalità e di autodecisione (è proprio la città di Fiume a
reclamare con la fine della guerra la sua annessione all’Italia)
apparve pur sempre come una tardiva richiesta di sapore
imperialistico, proprio lì dove la Conferenza intendeva assicurare
nell’Adriatico la piena libertà di manovra a tutti gli Stati, senza
contare l’aperta ostilità degli Stati Uniti già avversi all’esecuzione
del Patto in generale nei confronti dell’Italia.
Ma le aspettative italiane alla fine del conflitto furono ben diverse
e senza la città di Fiume il compenso non sembrò adeguato alle
grandi sofferenze patite – anche Vittorio Emanuele III fu di questa
opinione – ed Orlando, pur senza l’appoggio di Sonnino che
identificava nel Patto la vittoria italiana senza condizionamenti od
aggiunte, iniziò la sua “personale” battaglia per l’attribuzione di
Fiume all’Italia, anche se fortemente contrastato dall’unanime
opposizione degli alleati europei e dell’associato americano.
Il 4 Aprile 1919 iniziò lo scontro decisivo tra Orlando da una parte
e tutti gli altri interlocutori dall’altra, ostinatamente ostili alla
cessione del ricco porto di Fiume all’Italia : Wilson, forse il più
risoluto, fu tenacemente ancorato alla sua coerenza programmatica
e non penetrò mai i complessi problemi della questione adriatica,
Clémanceau vide nella caduta dell’impero austro-ungarico la
possibilità di un nuovo riavvicinamento tra l’Italia e la Germania
senza dimenticare i trentadue anni di alleanza nella Triplice e
Lloyd, determinato a non compromettere i suoi buoni rapporti con
l’alleato americano per sostenere quello italiano, vide nella città di
Fiume la strada italiana per la penetrazione economica nell’Europa
danubiana.
Tra il 20 ed il 23 Aprile del 1919, Orlando decise di rinunciare alla
Dalmazia in cambio di Fiume ed il rifiuto categorico di Wilson fu
accompagnato da un appello all’opinione pubblica italiana
(procedura oggettivamente inammissibile [13]) che costrinse il
Presidente del Consiglio ad abbandonare la Conferenza per tornare
in Italia e farsi confermare la solidarietà del Parlamento, che giunse
puntualmente con la stragrande maggioranza della Camera e del
Senato.
Come abbiamo visto, il ritorno di Orlando a Parigi (8 Maggio 1919)
sanzionò la sconfitta diplomatica dell’Italia al tavolo delle trattative
– il “Consiglio dei Tre” – dove oramai era già pronta la bozza del
Trattato che, senza mutamenti, diventerà il 28 Giugno del 1919, il
Trattato di Versailles.
I mesi di Maggio e di Giugno trascorsero senza che venisse fatto
alcun progresso sulla questione adriatica – oramai riassunta ed
ancorata nella città di Fiume – sino a rendere compromessa la
posizione diplomatica del governo italiano e a determinare la
caduta di Orlando, battuto alla Camera ma rimasto al potere sino
alla firma del Trattato.
I successivi governi di Francesco Nitti [14] (Tittòni agli Esteri) e di
Giovanni Giolitti [15] (Sforza [16] agli Esteri) non riuscirono a
modificare di molto la situazione – che venne anzi aggravata
dall’occupazione di Fiume da parte di Gabriele D’Annunzio e dei
suoi legionari con la presunzione di mettere l’Assemblea di fronte
ad un fatto compiuto – e la Conferenza della Pace si concluse senza
che la questione fosse risolta [17].
(Il Trattato di Rapallo del 12 Novembre 1920 raggiunse un
compromesso, onorevole ma non duraturo, con la rinuncia della
Dalmazia e Fiume diventata uno Stato libero, e solo con il
successivo Patto di Roma, 27 Gennaio 1924, Fiume diventerà
italiana).
Un epilogo inatteso e sconcertante che neanche Orlando riuscì a
comprendere sino in fondo e che l’opinione pubblica italiana
trasformò nel mito della “vittoria mutilata”, non certo mitigato
dall’insoddisfazione dei popoli sconfitti che videro sorgere al
proprio interno movimenti antidemocratici e violenti per la
revisione dei trattati di pace: la vittoriosa Italia si sentì tradita
esattamente come la perdente Austria che aveva sconfitto, una volta
per tutte, nell’orgogliosa potenza degli Asburgo.
Note
[1] Giulio Prinetti (1851-1908) già deputato nella Destra e Ministro dei
Lavori Pubblici con di Rudinì (1896-97), fu Ministro degli Esteri nel
gabinetto Zanardelli (1901-03)
[2] Emilio Visconti-Venosta (1829-1914) già Ministro degli Esteri nel
gabinetto Farini-Minghetti (1863) resse la politica estera italiana quasi
ininterrottamente sino al 1876. Con la caduta della Destra rimase per
quasi vent’anni fuori dalle responsabilità governative per ritornare al
Ministero degli Esteri nel 1896, in seguito alla caduta di Crispi dopo il
disastro di Adua. Sia come ministro che come primo delegato italiano
alla Conferenza di Algeciras (1906) si adoperò per migliorare i rapporti
con la Francia.
[3] Tommaso Tittòni (1855-1931) già deputato nella Destra e Senatore
nel 1902, fu Ministro degli Esteri con Giolitti (1903-05) conservando il
ministero anche nel gabinetto Fortis. Fu ambasciatore a Londra nel
1906 e tornò ancora agli Esteri nel terzo ministero Giolitti (1906-09).
Nel 1910 fu ambasciatore a Parigi e durante la prima guerra mondiale
fu favorevole all’abbandono della Triplice Alleanza.
[4] Antonio Salandra (1853-1931) già avvocato e professore
all’Università di Roma, dopo aver ricoperto cariche governative tra il
1891 ed il 1910, fu Presidente del Consiglio dei Ministri nel 1914. Le
correnti neutraliste parlamentari lo costrinsero alle dimissioni nel
Maggio del 1915, ma la fiducia del re e le violenti dimostrazioni
interventiste lo mantennero al governo. Rimase la potere sino al 10
Giugno 1916 (offensiva austriaca nel Trentino) e dopo la fine del
conflitto fu delegato alla Conferenza di Parigi e rappresentò l’Italia a
Ginevra. Nonostante si fosse ritirato successivamente dalla vita politica,
fu nominato Senatore nel 1925.
[5] Sidney Sonnino (1847-1922) già deputato nel 1880, ricoprì per due
volte la carica di Ministro delle Finanze prima di costituire due
gabinetti di breve durata (1906 e 1909-10). Fu Ministro degli Esteri
(1914) sotto la presidenza di Salandra dopo la morte di San Giuliano e
mantenne l’incarico per tutta la durata del primo conflitto mondiale.
Abbandonò il dicastero alla caduta del gabinetto Orlando (1919) e
continuò a difendere con tenacia le clausole del Patto di Londra. Fu
nominato Senatore nel 1920.
[6] Antonino Paternò-Castello San Giuliano, marchese di (18521914) già Sindaco di Catania (1879) fu deputato nel 1882. Nel 1892 fu
Sottosegretario all’Agricoltura e nel 1898 Ministro delle Poste. Prima
Ministro degli Esteri (1905-06), poi Ambasciatore a Londra (1906-09) e
a Parigi (1909-10) ritornò al suo dicastero nel 1910 sino alla sua morte.
[7] Giuseppe Avarna, duca di Gualtieri (1843-1916) dopo aver
ricoperto numerosi incarichi nella carriera diplomatica (Parigi, Vienna,
Belgrado, Atene e Berna) fu nominato Ambasciatore a Vienna nel 1904.
Contrario alla neutralità italiana e alla rottura della Triplice Alleanza,
restò comunque al suo posto sino alla dichiarazione di guerra. Senatore
del Regno dal 1909.
[8] Art.7 del Trattato della Triplice Alleanza :
“Tuttavia, nel caso che, in seguito ad avvenimenti, il mantenimento
dello status quo nella regione dei Balcani o nelle coste e isole ottomane
nell’Adriatico e nel mare Egeo divenisse impossibile, e che, sia in
conseguenza dell’azione di una terza potenza, sia altrimenti, l’AustriaUngheria o l’Italia si vedessero nella necessità di modificarlo con
un’occupazione temporanea o permanente da parte loro, questa
occupazione non avrà luogo se non dopo un accordo preventivo fra le
due potenze, basato sul principio di un compenso reciproco per ogni
vantaggio territoriale o altro che ciascuna di esse ottenesse in più dello
status quo attuale e tale da dare soddisfazione agli interessi e alle
pretese ben fondate delle due parti.”
[9] Pasquale Mancini (1817-1888) già avvocato e professore
all’Università di Napoli e di Roma, fu deputato al Parlamento nazionale
(1860) nella Sinistra democratica. Ebbe il Ministero della Giustizia nel
1876 e quello degli Esteri nel 1881. Stipulò il trattato della Triplice
Alleanza (1882) e si dimise nel 1885 a causa della mancata
maggioranza alla Camera sulla politica coloniale italiana da lui
inaugurata con l’occupazione di Assab.
[10] Guglielmo Imperiali di Francavilla (1858-1944) marchese. Dopo
avere ricoperto varie posizioni nella carriera diplomatica (Berlino,
Washington, Sofia e Belgrado) nel 1904 fu nominato ambasciatore in
Turchia e nel 1910 in Gran Bretagna. Concluse le trattative del Patto di
Londra (1915) e fece parte della delegazione italiana per la pace con la
Germania. Rappresentò, per breve periodo, l’Italia nel Consiglio della
Società delle Nazioni.
[11] Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952) già professore nelle
Università di Modena, Messina, Palermo e Roma, fu Ministro della
Pubblica Istruzione (1903-05) di Grazia e Giustizia (1907-09 e 191416) e dell’Interno (1916-17) prima di diventare Presidente del Consiglio
(dal 29 Ottobre 1917 al 19 Giugno 1919) dopo la disfatta di Caporetto.
Nel 1924 abbandonò la vita politica per dedicarsi agli studi ed alla vita
forense, per riprenderla nel 1944 come membro della Consulta
Nazionale e poi dell’Assemblea Costituente (1946-47)
[12] La Società delle Nazioni fu costituita durante la Conferenza di
Pace a Versailles e la sua attività iniziò il 10 Gennaio 1920 con la
ratifica del Trattato di Pace con la Germania, nel quale il suo statuto era
incorporato. Con sede a Ginevra, la Società era composta da
un’Assemblea degli Stati membri, da un Consiglio e da un Segretariato
Permanente. Del Consiglio facevano parte cinque Stati membri
permanenti (Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Italia e Giappone) e quattro
temporanei eletti dall’Assemblea ogni tre anni. Gli Stati aderenti si
impegnavano a rispettare l’integrità territoriale e l’indipendenza politica
degli altri membri, evitando nel contempo il ricorso alla guerra.
[13] In data 23 Aprile 1919 il presidente americano Wilson rilasciò alla
stampa un vero e proprio “Manifesto” sulla questione adriatica.
[14] Francesco Saverio Nitti (1868-1953) già professore universitario
all’Università di Napoli, fu Ministro dell’Agricoltura nel gabinetto
Giolitti (1911-14) e Ministro del Tesoro nel gabinetto Orlando (191719) prima di diventare Presidente del Consiglio e successivamente
Ministro dell’Interno (23 Giugno 1919 e 15 Giugno 1920).
[15] Giovanni Giolitti (1842-1928) già Ministro del Tesoro nel
gabinetto Crispi (1889-90) nel 1892 ricevette il suo primo incarico di
gabinetto ma dovette ritirarsi l’anno successivo in seguito allo scandalo
della Banca di Roma. Ministro dell’Interno nel gabinetto Zanardelli
(1901-03) fu di nuovo Presidente del Consiglio dal 1903 al 1914 con tre
successivi gabinetti, interrotti dalle brevi parentesi di Tittòni (1905) di
Fortis (1905-06) di Sonnino (1906 e 1909-10) e di Luzzatti (1910-11).
In politica estera accettò la Triplice Alleanza con un’interpretazione
rigorosamente difensiva e favorì nel contempo l’avvicinamento alla
Francia. Allo scoppio della Prima Guerra mondiale assunse una
posizione nettamente neutralista, pur promuovendo negoziati con gli
Imperi Centrali per la cessione di zone irridente dell’Italia. Durante il
suo quinto gabinetto (1920) venne firmato con la Jugoslavia il Trattato
di Rapallo e venne repressa l’impresa dannunziana di Fiume.
[16] Carlo Sforza (1872-1952) dopo aver ricoperto importanti incarichi
nella carriera diplomatica (Cina e Serbia) fu Sottosegretario agli Esteri
con Tittòni (Giugno 1919) e Ministro degli Esteri con Giolitti dal 15
Giugno 1920 al 4 Luglio 1921, negoziando con la Jugoslavia il Trattato
di Rapallo.Senatore nel 1919, fu nominato Ambasciatore a Parigi nel
1922.
[17] Con il Trattato di Saint Germain-en-Laye (10 Settembre 1919)
si definì il nuovo confine italo-austriaco dallo Stelvio a Tarvisio, che
per quel tratto fu il confine previsto dal Patto di Londra. L’Austria
cedette quindi all’Italia il Trentino, l’Alto Adige, l’Istria e Trieste, con
il pieno riconoscimento della “Frontiera del Brennero”.
Bibliografia
Gli articoli relativi ai trattati della Triplice Alleanza e del Patto di
Londra, così come le note diplomatiche dei Ministri degli Esteri e degli
Ambasciatori italiani sono stati raccolti da “Documenti Diplomatici
Italiani” (DDI), serie V, VI e VII, volumi vari, Roma 1954, e da “La
politica estera italiana dal 1914 al 1945” con documenti ufficiali
pubblicati da Eri, Torino 1963.
B.Vigezzi : “I problemi della neutralità italiana e della guerra nel
carteggio Salandra-Sonnino, 1914-1917” in Nuova Rivista Storica,
Città di Castello (Pg), 1962.
Sidney Sonnino : “Diario 1914-1916” e “Carteggio 1914-1916” a cura
di P.Pastorelli, Laterza, Bari, rispettivamente 1972 e 1974.
Antonio Salandra : “Ricordi e pensieri”, Mondadori, Milano 1928.
Attilio Tamaro : “Il Trattato di Londra e le rivendicazioni italiane”
Treves, 1918
A. Torre (a cura di) : “La politica estera italiana dal 1871 al 1915”,
Feltrinelli, Milano 1970 ed in particolare “La diplomazia italiana nella
guerra mondiale”.
E. Ragionieri : “La storia politica e sociale” e Asor Rosa : “Dall’unità
ad oggi” della Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1976.
J.Joll : “Le origini della prima guerra mondiale”, Laterza, Bari 1980.
P.Pieri : ”L’Italia nella prima guerra mondiale”, Einaudi, Torino 1965