IL TRAPIANTO DI FEGATO M. Pompili, V.G. Mirante, G.L. Rapaccini

Il trapianto di fegato
Maurizio Pompili, Vincenzo Giorgio Mirante, Gian Ludovico Rapaccini, Giovanni Gasbarrini
Liver transplantation represents the first choice treatment for patients with fulminant acute hepatitis and for patients with chronic liver disease and advanced functional failure. Patients in the waiting list for liver transplantation are classified according to the severity of their clinical conditions
(evaluated using staging systems mostly based on hematochemical parameters related to liver function). This classification, together with the blood group and the body size compatibility, remains
the main criterion for organ allocation. The main indications for liver transplantation are cirrhosis
(mainly HCV-, HBV- and alcohol-related) and hepatocellular carcinoma emerging in cirrhosis
in adult patients, biliary atresia and some inborn errors of metabolism in pediatric patients. In
adults the overall 5-year survival ranges between 60 and 70%, in both American and European
series. Even better results have been reported for pediatric patients: in fact, the 5-year survival
rate for children ranges between 70 and 80% in the main published series. In this study we evaluated the main medical problems correlated with liver transplantation such as immunosuppressive treatment, acute and chronic rejection, infectious complications, the recurrence of the
liver disease leading to transplantation, and cardiovascular and metabolic complications.
(Ann Ital Med Int 2004; 19: 20-35)
Key words: Complications; Indications; Liver transplantation; Survival.
Introduzione
stato registrato nell’ultimo decennio un costante e progressivo aumento del numero di trapianti passati dai 202
del 1992 agli 818 del 2001 (fonte del Centro Nazionale
Trapianti) (Fig. 1).
La crescente diffusione della procedura è stata favorita da un progressivo e costante miglioramento dei dati relativi alla sopravvivenza dei pazienti operati. Negli adulti la sopravvivenza globale a 1 anno è compresa tra il 70
e l’85% mentre quella a 5 anni oscilla su valori compresi tra il 60 e il 70% sia nelle casistiche statunitensi che in
quelle europee1,3,4. Risultati altrettanto lusinghieri sono ottenuti anche nei bambini: nelle principali casistiche di
trapianto in età pediatrica la sopravvivenza a 5 anni è
compresa tra il 70 e l’80%1,5. Questi dati sono sostanzialmente confermati nell’esperienza italiana in cui negli
adulti la sopravvivenza a 5 anni è pari al 72% mentre nei
bambini raggiunge il 73%6,7.
Il primo trapianto di fegato della storia risale ormai a 40
anni fa. Era infatti il 1963 quando Thomas Starzl, dopo aver
perfezionato la tecnica sul cane, effettuò il primo trapianto di fegato della storia della medicina. Tuttavia gli
scarsi risultati raggiunti in termini di sopravvivenza dei pazienti limitarono nei primi anni la diffusione della procedura. Infatti, fino all’inizio degli anni ’80 i trapianti di fegato eseguiti nel mondo erano poco più di 300. Successivamente si è verificata una svolta in positivo, frutto del
concorrere di numerosi fattori, tra cui la migliore selezione
dei pazienti, la standardizzazione della tecnica chirurgica e della conservazione dell’organo prelevato da cadavere,
l’utilizzo di una terapia immunosoppressiva sempre più efficace e sicura dopo l’introduzione nel 1983 dell’uso della ciclosporina e, non ultimo, lo sviluppo di un approccio
interdisciplinare nella gestione dei pazienti candidati o sottoposti a trapianto. Si è quindi avuto negli ultimi due decenni un progressivo aumento del numero di trapianti di
fegato in tutto il mondo. In Europa, secondo i dati dell’European Liver Transplant Registry, al dicembre 1997 erano stati effettuati oltre 28 500 trapianti di fegato in più di
25 000 pazienti e tale dato includeva più del 90% dei trapianti effettuati1. Secondo un recente studio coinvolgente tutti i centri italiani che effettuano trapianto di fegato,
nel nostro paese sono stati effettuati dal 1983 al dicembre
1998 3149 trapianti in poco meno di 3000 pazienti2 ed è
Candidatura e controindicazioni
al trapianto di fegato
Il trapianto di fegato rappresenta il trattamento di scelta per pazienti affetti da epatopatie acute o croniche che
non abbiano opzioni terapeutiche medico-chirurgiche alternative e presentino una malattia in fase avanzata. Più
precisamente, il trapianto dovrebbe essere preso in considerazione quando il paziente è ancora in condizione di
tollerare la procedura chirurgica, e la malattia epatica è talmente avanzata da rendere poco verosimile una sopravvivenza prolungata senza il trapianto8. Di conseguenza è
stato stabilito che l’opzione trapianto dovrebbe cominciare
Istituto di Medicina Interna e Geriatria (Direttore: Prof. Giovanni
Gasbarrini), Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma
© 2004 CEPI Srl
20
Maurizio Pompili et al.
FIGURA 1. Trapianti di fegato per anno in Italia degli ultimi 10 anni (dati
Centro Nazionale Trapianti).
ad essere considerata in tutti i pazienti con epatopatia
cronica e con probabilità di sopravvivenza a 1 anno < 90%
quali i pazienti in classe B o C o comunque con punteggio ≥ 7 secondo lo score di Child-Pugh9,10 (Tab. I). Modelli
di sopravvivenza specifici vanno presi in considerazione
per decidere il momento di inserimento in lista d’attesa nei
pazienti con malattie primitivamente colestatiche come cirrosi biliare primitiva e colangite sclerosante11,12 (Tab. II).
Infine, alcune indicazioni al trapianto sono rappresentate da problematiche strettamente correlate alla patologia
epatica, come l’osteopatia metabolica e il prurito incoercibile in corso di epatopatie colestatiche o le colangiti ricorrenti non controllabili con le tecniche di radiologia
e/o endoscopia interventistica nella colangite sclerosante, ma non strettamente ricollegabili all’entità dello scompenso funzionale epatico.
In tutti i centri trapianto italiani i pazienti in lista di trapianto sono classificati in base alla gravità delle condizioni
cliniche; questo criterio, oltre alla compatibilità di gruppo sanguigno e di caratteristiche somatiche, rimane il
principale nell’assegnazione degli organi. Il sistema più
semplice e diffuso di classificazione dei malati adulti e pediatrici in lista d’attesa per trapianto di fegato è il cosiddetto “UNOS 2” elaborato negli Stati Uniti dalla United
Network for Organ Sharing, introdotto nella pratica clinica
a partire dal 1997 e successivamente adottato anche in
Europa (Tabb. III e IV), e che divide i pazienti in quattro
grandi classi. Dal 2002 è stato introdotto un sistema numerico progressivo, denominato “model for end-stage liver disease” (MELD), calcolato sulla base dei valori ematici di creatinina, bilirubina e INR (Tab. V). Alcuni studi
hanno dimostrato che il MELD ha rispetto alla classificazione di Child-Pugh una maggiore accuratezza nel predire il rischio di mortalità in lista d’attesa dei pazienti con
cirrosi epatica sia compensata13 che scompensata14. Altri
studi hanno invece documentato che il sistema MELD è
un buon predittore di sopravvivenza a 1 e 2 anni dopo trapianto15,16.
Le controindicazioni al trapianto si sono progressivamente ridotte negli ultimi anni. Attualmente sono ancora
da considerarsi controindicazioni assolute al trapianto di
fegato la presenza di infezione attiva extraepatica, l’impossibilità tecnica di esecuzione della procedura (per
trombosi del sistema portale coinvolgente la giunzione
spleno-meseraica e la vena mesenterica superiore), l’in-
TABELLA I. Classificazione secondo Child-Turcotte-Pugh per la gravità dello scompenso funzionale epatico con relativo sistema di punteggio.
Punti
Encefalopatia
Ascite
Bilirubina (mg/dL)
Albumina (g/dL)
PT (secondi in più
rispetto al limite
superiore della norma)
1
2
3
No
Assente
<2
> 3.5
<4
I-II
Lieve
2-3
2.8-3.5
4-6
III-IV
Moderata o severa
>3
< 2.8
>6
PT = tempo di protrombina.
Classe A = 5-6 punti; classe B = 7-9 punti; classe C ≥ 10 punti.
TABELLA II. Mayo Clinic Score per la prognosi dei pazienti affetti
da cirrosi biliare primitiva e colangite sclerosante primitiva.
Cirrosi biliare primitiva
0.039 u età (anni) + 0.871 u log bilirubina (mmol/L) - 2.53 u log
albumina (g/dL) + 2.38 u log protrombina (s) + 0.89 u edema*
Colangite sclerosante primitiva
0.03 u età (anni) + 0.54 u log e (bilirubina mg/dL) + 0.54 u log
e (AST U/L) + 1.24 u sanguinamento varici (0/1) - 0.84 u albumina
(g/dL)
AST = alanina aminotransferasi.
* assenza di edema = 0, edema sensibili ai diuretici = 0.5, edema resistente ai diuretici = 1.
21
Ann Ital Med Int Vol 19, N 1 Gennaio-Marzo 2004
TABELLA III. Classificazione United Network for Organ Sharing 2
per la stadiazione di gravità dei pazienti adulti inseriti in lista d’attesa per trapianto di fegato.
1.
controindicazione assoluta alla procedura e pazienti ben
selezionati di età > 60 anni hanno mostrato una sopravvivenza post-trapianto analoga a quella di pazienti di età
più giovane4. Tuttavia, in relazione alla ridotta disponibilità
di organi da trapiantare, tutti i centri trapianto italiani
considerano attualmente 60 anni il limite massimo di età
per l’inserimento in lista d’attesa2. In passato la semplice positività sierologica per il virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV) è stata considerata una controindicazione assoluta al trapianto di fegato. Tuttavia, con l’introduzione nella pratica clinica di un’efficace terapia antiretrovirale (HAART), la sopravvivenza a lungo termine
di questi pazienti è migliorata drasticamente. Peraltro, il
20-40% dei pazienti HIV-positivi risulta coinfettato dai virus dell’epatite C (HCV) o B (HBV) ed è stato documentato che la progressione delle epatiti virali verso la cirrosi è molto più rapida e severa nei pazienti HIV-positivi. È quindi sempre più probabile che un alto numero di
pazienti anti-HIV-positivi muoia per cirrosi epatica più che
per AIDS conclamato17. Questa osservazione ha portato
alla conclusione che la presenza di AIDS conclamato
rappresenti una controindicazione assoluta al trapianto
di fegato, mentre la sola positività per anti-HIV rappresenti
soltanto una controindicazione relativa18. In un recente lavoro, Neff et al.19 hanno riportato la loro esperienza in 16
pazienti HIV-positivi sottoposti a trapianto di fegato: la sopravvivenza ad 1 e 2 anni è stata rispettivamente del 94
e dell’80%. Risultati simili sono stati ottenuti da Samuel
et al.17 in un gruppo di 9 pazienti. Quindi si può asserire
che in casi ben selezionati (linfociti CD4 > 200/mm3 nei
6 mesi prima del trapianto, negatività anamnestica di
eventi clinici AIDS-relati, viremia dell’HIV bassa o non
rilevabile in corso di HAART), il trapianto di fegato può
essere preso in considerazione come atto terapeutico nei
pazienti HIV-positivi con malattia di fegato in fase terminale17,19.
Paziente con epatite fulminante ed aspettativa di vita senza trapianto < 7 giorni.
2a. Paziente con insufficienza epatica cronica in unità di terapia intensiva con aspettativa di vita senza trapianto < 7 giorni. Il paziente deve avere punteggio secondo Child-Pugh ≥ 10 e almeno una delle seguenti condizioni: varici esofagee sanguinanti non
responsive a trattamento, sindrome epatorenale, ascite e/o idrotorace refrattari, encefalopatia di grado III-IV.
2b. Paziente con punteggio secondo Child-Pugh ≥ 10 o con punteggio secondo Child-Pugh ≥ 7 e almeno una delle seguenti condizioni: varici esofagee sanguinanti non responsive a trattamento, sindrome epatorenale, ascite e/o idrotorace refrattari, encefalopatia di grado III-IV.
3.
Paziente che richiede assistenza medica continuativa e presenta punteggio secondo Child-Pugh ≥ 7.
TABELLA IV. Classificazione United Network for Organ Sharing 2
per la stadiazione di gravità dei pazienti pediatrici inseriti in lista
d’attesa per trapianto di fegato.
1.
Paziente con insufficienza epatica acuta o cronica in unità di terapia intensiva e con aspettativa di vita senza trapianto < 7
giorni. Inoltre il paziente deve presentare almeno una delle seguenti condizioni: epatite fulminante, “primary non function”
o trombosi dell’arteria epatica entro 7 giorni dal trapianto, morbo di Wilson acuto scompensato, ventilazione meccanica, sanguinamento gastrointestinale, sindrome epatorenale, encefalopatia stadio III o IV, ascite e/o idrotorace refrattari, sepsi biliare.
2.
Paziente con almeno una delle seguenti condizioni: sanguinamento gastrointestinale, sindrome epatorenale, peritonite batterica spontanea, encefalopatia stadio III o IV, ascite e/o idrotorace refrattari, colangite ricorrente, ritardo dell’accrescimento.
3.
Paziente che richiede assistenza medica continuativa e presenta punteggio secondo Child-Pugh ≥ 7.
TABELLA V. Model for end-stage liver disease (MELD) score per
l’allocazione dei pazienti in lista d’attesa.
Chirurgia del trapianto di fegato
Il primo atto operatorio è il prelievo del fegato dal donatore con morte cerebrale accertata e con “cuore battente”.
L’epatectomia può essere eseguita con due tecniche differenti: la prima prevede l’isolamento dei vasi dell’ilo
prima della perfusione del fegato con soluzione Wisconsin,
la seconda, ormai predominante, prevede prima la perfusione dell’organo con soluzione Wisconsin e successivamente la dissezione dei vasi dell’ilo epatico. Dopo la perfusione inizia il periodo di ischemia fredda, corrispondente
al tempo intercorso tra l’espianto del fegato e il suo impianto nell’addome del ricevente, durante il quale l’organo
è mantenuto a 4°C. Trasferito nel centro trapianto, il fegato viene impiantato nell’addome del ricevente e la fa-
MELD
(0.957 u log e [creatinina mg/dL] + 0.378 u log e [bilirubina totale mg/dL] + 1120 u log e [INR] + 0.643) u 10
Un punteggio > 24 è suggestivo di cattiva prognosi in lista e ad 1 anno
dopo il trapianto.
sufficienza funzionale pluriorganica non reversibile dopo
il trapianto, il danno cerebrale irreversibile e l’impossibilità
da parte del paziente di assicurare un’adeguata compliance alle norme igienico-dietetiche e terapeutiche necessarie dopo il trapianto (come ipotizzabile nei tossicodipendenti e negli alcolisti attivi). L’età non costituisce una
22
Maurizio Pompili et al.
se di ischemia calda è corrispondente al tempo che intercorre tra l’impianto dell’organo e la sua riperfusione tramite il circolo portale. Ad oggi esistono due tecniche di
trapianto. La prima, detta “classica”, consiste nel clampare
la vena cava inferiore sovraepatica e sottoepatica, con
resezione del tratto di cava compreso tra i due clampaggi, ed inizio di circolazione extracorporea mediante bypass
tra vena porta-vena femorale e ascellare sinistra; le anastomosi vascolari termino-terminali sono effettuate nel seguente ordine: anastomosi cava-cava sovraepatica e sottoepatica, anastomosi portale e anastomosi arteriosa. La
seconda tecnica, che permette di fare a meno della circolazione extracorporea preservando il flusso nella vena
cava, è detta “piggy-back” e consiste nel conservare la cava del ricevente, con successiva anastomosi tra vene sovraepatiche del donatore e vena cava del ricevente; le restanti anastomosi vengono eseguite come nella tecnica classica. Al termine dell’intervento viene confezionata l’anastomosi biliare che può essere coledoco-coledocica termino-terminale con posizionamento di tubo di Kehr (da
togliere nelle settimane successive) o coledoco-digiunale, su ansa esclusa alla Roux (molto frequente nei bambini
già sottoposti a intervento di epatico-digiunostomia secondo Kasai per atresia delle vie biliari)20.
Per sopperire alla carenza di donatori negli anni sono state elaborate due tecniche per aumentare il pool di organi
disponibili. La prima è quella del cosiddetto fegato “ridotto”, utilizzato principalmente in pazienti pediatrici: si
ottiene con chirurgia di banco un emifegato da trapiantare nel ridotto spazio a disposizione senza utilizzare il rimanente parenchima. L’introduzione della seconda tecnica
ha consentito un notevole progresso in relazione al favorevole impatto sui tempi d’attesa sia per i pazienti adulti
che per i pediatrici. Si tratta della tecnica “split”, in base
alla quale da un fegato da cadavere (con chirurgia di banco o addirittura già nel corso dell’intervento sul donatore) si ottengono un emifegato sinistro costituto dai segmenti
II e III (da trapiantare in riceventi pediatrici) ed un emifegato destro (da trapiantare in riceventi adulti)21.
biliari, come stenosi o deiscenze). La trombosi dell’arteria epatica può essere sospettata allo studio eco-Doppler,
che dimostra assenza o netta riduzione del flusso, ma richiede abitualmente una conferma angiografica. La terapia della trombosi precoce è molto complessa poiché non
sempre il tentativo di riconfezionamento dell’anastomosi arteriosa risulta risolutivo e spesso si deve ricorrere al
ritrapianto. La terapia della trombosi tardiva consiste nella dilatazione del tratto stenotico o nel posizionamento di
uno stent endovascolare4.
Complicanze biliari
Le complicanze biliari come stenosi o deiscenza sono
causate da danni ischemici delle vie biliari del donatore
o da errori tecnici, più frequenti nei bambini < 2 anni. La
stenosi biliare si manifesta con un quadro colangitico con
febbre, ittero e rialzo delle transaminasi e degli indici di
colestasi. La deiscenza si presenta invece con coleperitoneo, che comporta il rischio di pericolose sepsi. Il trattamento delle stenosi consiste o nella dilatazione percutanea con catetere o nel riconfezionamento di una nuova anastomosi biliare, solitamente di tipo coledoco-digiunostomia20.
Complicanze mediche post-trapianto
Primary non function
La mancata ripresa post-trapianto della funzione epatica, detta “primary non function” (PNF), è una condizione grave ed irreversibile, che si instaura nelle ore immediatamente successive al trapianto. Una diagnosi precoce
è essenziale per evitare complicanze irreversibili. La PNF
si presenta con aumento marcato dei parametri di citonecrosi e colestasi, grave coagulopatia, acidosi metabolica,
ipoglicemia, instabilità emodinamica, e può portare fino
all’insufficienza multiorgano e al coma epatico ingravescente. Il ritrapianto, unica terapia valida, si rende necessario entro 7 giorni dal primo trapianto. Numerosi sono i
fattori chiamati in causa per spiegare la PNF, alcuni dei
quali strettamente correlati con il donatore, come alterazioni della funzionalità epatica (steatosi epatica > 30%) o
presenza di anomalie vascolari, altri invece correlati alla
procedura, come i metodi di preservazione dell’organo e
i tempi di ischemia calda e fredda22. Meno drammatica è
l’alterata ripresa funzionale del fegato trapiantato, ovvero la cosiddetta “primary dysfunction”, che avrebbe le stesse cause della PNF. In questo caso esistono infatti margini
di ripresa spontanea della funzione epatica con appropriata terapia di supporto.
Complicanze chirurgiche post-trapianto
Trombosi vascolare
La trombosi vascolare colpisce generalmente l’arteria
epatica, e meno frequentemente la vena porta e la cava, ed
è più frequente nei pazienti pediatrici, per il calibro minore dei vasi. La trombosi dell’arteria epatica può essere
precoce (con infarto massivo che comporta insufficienza
epatica acuta con encefalopatia e coagulopatia, febbre alta, ipoglicemia ed iperkaliemia) o tardiva (con quadro
subdolo di batteriemie e ascessi epatici o di complicanze
23
Ann Ital Med Int Vol 19, N 1 Gennaio-Marzo 2004
Infezioni
ri organi inclusi fegato, polmone, tratto gastroenterico e
midollo osseo; in particolare, l’epatite da CMV si presenta
entro i primi mesi dal trapianto con febbre elevata, leucopenia, malessere generale, mialgie e artralgie, aumento degli enzimi epatici e della bilirubina; la biopsia epatica mostra un caratteristico quadro con corpi inclusi negli epatociti25. Il CMV può essere isolato nelle urine,
nell’espettorato, nei leucociti e, con tecniche di ibridizzazione molecolare, nel reperto bioptico. La terapia dell’infezione sintomatica si basa sull’uso di gancyclovir, un analogo sintetico della guanina. Molti centri trapianto effettuano un trattamento profilattico utilizzando gammaglobuline specifiche anti-CMV o antivirali come il gancyclovir
per 2 settimane seguito dall’acyclovir per 3 mesi.
Il virus di Epstein-Barr (EBV) presenta tropismo selettivo per i linfociti B causando di solito nei soggetti
immunocompetenti una malattia asintomatica autolimitata.
Dopo l’infezione primaria il virus persiste nell’ospite per
tutta la durata della vita ed appare associato all’insorgenza di alcune forme di linfoma B cellulare (tra cui il
linfoma di Burkitt) e al carcinoma nasofaringeo; è stato ipotizzato che la proliferazione prolungata di cloni B cellulari infettati da EBV incrementi il rischio di aberrazioni
cromosomiche determinanti un vantaggio selettivo di crescita per i cloni cellulari trasformati. I pazienti trapiantati di fegato presentano una capacità di controllo deficitaria nei confronti dei linfociti infettati dall’EBV poiché gli
agenti immunosoppressori riducono la risposta immune e
la stessa ciclosporina si è dimostrata in grado di promuovere la crescita di linfociti trasformati dall’EBV in vitro.
Malattie linfoproliferative insorgono nell’1-3% dei trapiantati di fegato, molti dei quali presentano infezione concomitante da EBV. Si tratta, per lo più, di linfomi non
Hodgkin ad origine B cellulare e la loro prevalenza sembra più alta nei pazienti trapiantati in età pediatrica. La diagnosi di linfoma associata ad EBV richiede obbligatoriamente la dimostrazione della presenza di sequenze di
DNA dell’EBV o di proteine virali nel tessuto linfomatoso
utilizzando rispettivamente la reazione polimerasica a catena o tecniche di ibridizzazione26.
Rimangono una delle più frequenti complicanze del
post-trapianto e rappresentano una delle più importanti cause di morte di questi pazienti immunosoppressi. L’incidenza di gravi episodi infettivi sembra più elevata nei
pazienti che aspettano il trapianto in unità intensiva o che
hanno una stentata ripresa della funzionalità epatica.
Batteriche. L’addome è la più comune sede di infezioni batteriche nel paziente trapiantato di fegato e i microrganismi più spesso in causa sono Pseudomonas, Enterobacter, Staphylococcus e Klebsiella. Comuni fattori
di rischio sono un intervento di lunga durata, la perforazione dell’intestino e uno scadente stato nutrizionale. Le
infezioni addominali precoci sono in genere associate alla presenza di ampie raccolte fluide e allo sviluppo di
complicazioni biliari. Quelle tardive, come colangite o
ascessi epatici, sono per lo più dovute ad ostruzione tardiva e incompleta dell’arteria epatica e a stenosi delle
vie biliari. La prevenzione di queste complicanze è essenzialmente basata sulla somministrazione profilattica di
antibiotici ad ampio spettro prima dell’intervento e nei 25 giorni successivi23,24.
Micotiche. L’infezione polmonare da Pneumocystis carinii
insorge generalmente dopo la seconda settimana post-trapianto e la diagnosi si basa sull’esame del liquido di lavaggio
broncoalveolare. La prevalenza di questa complicanza
era in passato elevata (circa 10%)24 ma è virtualmente
scomparsa negli ultimi anni dopo l’adozione del trattamento profilattico con basse dosi di trimetoprin-sulfametossazolo somministrato a basso dosaggio per 3-6 mesi dopo il trapianto. Per il resto, i più comuni miceti coinvolti in episodi infettivi post-trapianto sono Candida,
Aspergillus, Mucor e Cryptococcus.
Virali. Tra le infezioni virali ricordiamo quella temibile da Cytomegalovirus (CMV). Il CMV è un virus a DNA
ampiamente diffuso nella popolazione adulta, che presenta
immunoglobuline G (IgG) specifiche sieriche in più del
50% dei casi. Data la bassa patogenicità, l’infezione da
CMV è asintomatica nella maggior parte dei soggetti immunocompetenti e il virus persiste a vita nel soggetto infettato a livello delle ghiandole salivari, dei reni e dei
leucociti. Nel paziente trapiantato immunosoppresso si può
assistere sia ad una riattivazione del CMV già presente
nell’organismo sia ad una nuova infezione trasmessa dal
donatore IgG anti-CMV positivo al ricevente IgG antiCMV negativo. Fattori di rischio sono rappresentati da sieropositività del donatore, grado dell’immunosoppressione e ritrapianto. L’infezione da CMV può coinvolgere va-
Malattie cardiovascolari
Le malattie cardiovascolari rappresentano una frequente
complicanza a lungo termine del trapianto di fegato. Infatti
esse sono la terza causa di morte (8.3%) nei pazienti sottoposti a trapianto di fegato, dopo le complicanze infettive e le neoplasie de novo27. Fattori di rischio cardiovascolare come l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito, le
dislipidemie e l’obesità, sono frequenti effetti collaterali
della terapia immunosoppressiva.
24
Maurizio Pompili et al.
Ipertensione arteriosa. Più del 50% dei pazienti sottoposti a trapianto di fegato sviluppa a lungo termine ipertensione arteriosa28-30. La ciclosporina e il tacrolimus determinerebbero un aumento della pressione arteriosa sia
attraverso la vasocostrizione delle arteriole afferenti renali
(con conseguente ritenzione di sodio), sia attraverso la ridotta produzione di ossido nitrico e prostacicline vasodilatatrici e l’aumentato rilascio di endotelina-1 vasocostrittrice31. È stata segnalata una minore incidenza di ipertensione arteriosa nei pazienti che hanno assunto il tacrolimus rispetto a quelli trattati con ciclosporina32. Il
primo provvedimento terapeutico da adottare è la sospensione dell’eventuale terapia con steroidi31. In caso di
persistenza di elevati valori pressori, il farmaco di scelta
è rappresentato dai diuretici tiazidici o dai diuretici dell’ansa. Poiché sia la ciclosporina che il tacrolimus determinano
una vasocostrizione periferica, farmaci ad azione vasodilatatrice diretta (calcioantagonisti e, in misura minore,
betabloccanti) o indiretta (clonidina, doxazosina) sono
farmaci efficaci nel trattamento dell’ipertensione nei trapiantati di fegato31. L’uso di ACE-inibitori è invece indicato soltanto in presenza di diabete mellito, per prevenire la progressione della nefropatia diabetica.
renale terminale che necessita di terapia emodialitica29 e
peggiora nettamente la prognosi (sopravvivenza pari al
27% a 6 anni dall’inizio della dialisi)31. Gli effetti nefrotossici della ciclosporina e del tacrolimus sono correlati
alla loro già citata attività vasocostrittrice e alla capacità,
soprattutto dimostrata per la ciclosporina, di indurre fibrosi
interstiziale renale tramite l’aumentata produzione di
transforming growth factor beta-128,34. Altre cause di danno renale cronico sono l’ipertensione arteriosa e il diabete mellito. In caso di insorgenza di alterazione della funzionalità renale, si può tentare di ridurre l’effetto nefrotossico della ciclosporina o del tacrolimus riducendo il loro dosaggio o sospendendo la loro somministrazione e sostituendoli con altri farmaci immunosoppressori non nefrotossici, quali il mofetile micofenolato e il sirolimus31.
Neoplasie de novo
Le neoplasie de novo sono una complicanza severa e frequente nei trapiantati di fegato che, rispetto alla popolazione generale, presentano un incremento di circa 4 volte del rischio relativo di insorgenza35. Infatti, la prevalenza
media di questa complicanza nei pazienti sottoposti a trapianto di fegato oscilla tra il 3 e il 15%, ed aumenta con
la durata del follow-up. Le neoplasie de novo più frequenti sono i tumori della pelle (in prevalenza carcinoma
squamocellulare, ma anche basocellulare e sarcoma di
Kaposi), che rappresentano il 30-70% del totale, e le malattie linfoproliferative, più frequenti nei pazienti pediatrici, che rappresentano il 20-50% del totale36. Il fattore
di rischio più importante per l’insorgenza di neoplasie de
novo è rappresentato dalla durata di esposizione ai farmaci
immunosoppressivi e quindi dalla lunghezza del followup post-trapianto35,37. Tra le varie forme di cirrosi che sono causa di trapianto, quella alcolica è correlata ad una
maggiore incidenza di neoplasie de novo, in particolare della pelle, della cavità orale, del laringe e dell’esofago.
Questa correlazione si può spiegare con l’alto tasso di tabagismo presente in questa coorte di pazienti36,38. L’infezione da EBV rappresenta invece il maggior fattore di
rischio per lo sviluppo di malattie linfoproliferative, del
carcinoma nasofaringeo e alcuni tipi di leiomiosarcoma39. La mortalità nei pazienti che sviluppano una neoplasia de novo varia in base al tipo di tumore: una mortalità più elevata si riscontra nei pazienti con linfoma
(73.3%), mentre una bassa mortalità è stata segnalata nei
pazienti affetti da tumori della pelle diversi dal sarcoma
di Kaposi (5.8%)40.
Diabete mellito. L’incidenza di diabete mellito di tipo
2 dopo trapianto varia dal 3 al 19%30. I corticosteroidi inducono insulino-resistenza dose-dipendente, mentre sia la
ciclosporina che il tacrolimus possono determinare riduzione della sintesi e della secrezione di insulina, oppure resistenza periferica all’insulina e quindi iperinsulinemia. La
terapia del diabete in questi pazienti è praticamente identica a quella della popolazione generale. Un miglior compenso della glicemia si può avere dopo sospensione di eventuale terapia con corticosteroidi e l’eventuale switch da tacrolimus a ciclosporina33.
Dislipidemie e obesità. Dopo trapianto di fegato il 4060% dei pazienti sviluppa ipercolesterolemia e/o ipertrigliceridemia30. Tale complicanza si presenta meno frequentemente nei pazienti trattati con tacrolimus. La terapia consiste nella sospensione degli steroidi e nella somministrazione di fibrati o statine. Due terzi dei pazienti statunitensi sottoposti a trapianto di fegato sono in sovrappeso o francamente obesi. Il rischio di sviluppo di steatoepatite del fegato trapiantato nel lungo termine impone
un restrizione dietetica con calo ponderale33.
Insufficienza renale
Terapia immunosoppressiva
Sia la ciclosporina che il tacrolimus sono farmaci nefrotossici. Quasi il 5% dei pazienti sottoposti a trapianto
di fegato con sopravvivenza > 5 anni presenta insufficienza
Come per altri trapianti di organo, il trapianto di fegato determina una reazione avversa contro antigeni dell’or-
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Ann Ital Med Int Vol 19, N 1 Gennaio-Marzo 2004
gano trapiantato non riconosciuti dal sistema immunitario del ricevente. Al contrario di altri trapianti di organo,
la compatibilità del sistema HLA non è considerata necessaria nel trapianto di fegato; infatti, la relativa bassa immunogenicità del fegato ha permesso di ottenere buoni risultati anche in presenza di sola compatibilità di gruppo
sanguigno ABO tra il donatore e il ricevente.
L’utilizzo combinato dei farmaci immunosoppressori
non è ancora standardizzato ed esiste una notevole varietà
di protocolli di trattamento da centro a centro. Nei centri
italiani il più comune regime immunosoppressivo è stato
rappresentato dall’associazione di ciclosporina, metilprednisolone e azatioprina. Ad iniziare dal 1994 il tacrolimus ha cominciato ad essere utilizzato come farmaco immunosoppressore primario in sostituzione della ciclosporina6.
zialmente documentato che il tacrolimus riduceva, rispetto alla ciclosporina, il numero e la severità degli episodi di rigetto acuto41-43. Più recentemente è stato osservato che il tacrolimus e la nuova forma microemulsificata
della ciclosporina sono sostanzialmente equivalenti nella prevenzione del rigetto acuto e nella sopravvivenza a
lungo temine dei pazienti e dell’organo trapiantato44.
Steroidi
Gli steroidi hanno proprietà antinfiammatorie (riduzione della chemiotassi di monociti e neutrofili, della maturazione dei monociti in macrofagi e dell’attività fagocitaria dei macrofagi) e immunosoppressive legate all’inibizione della proliferazione dei linfociti T, della cooperazione tra monociti e macrofagi e della riduzione della produzione delle interleuchine-1 e 2 e dell’interferone da
parte di linfociti T attivati. Essi vengono impiegati nell’induzione della terapia antirigetto durante la fase operatoria, nella successiva terapia a scalare e nella terapia di mantenimento (15-20 mg/die). Questi farmaci presentano numerosi effetti collaterali tra cui ritenzione di sodio e liquidi,
ipertensione, perdita di massa muscolare ed osteoporosi,
ulcere gastroduodenali, convulsioni, cefalea, ritardo di
crescita nei bambini, sindrome cushingoide, irregolarità
mestruali, diabete. Inoltre, gli steroidi possono peggiorare il decorso postoperatorio nei pazienti trapiantati per cirrosi postepatitica favorendo la replicazione virale45,46 tanto è vero che in questi pazienti è stato sperimentato con
successo un trattamento immunosoppressivo privo di steroidi47. In generale, negli ultimi 5 anni è emersa la tendenza
a ridurre più rapidamente che in passato l’uso di questi farmaci; infatti, molti centri trapianto sospendono l’uso degli steroidi entro 1 anno dal trapianto anche se ciò sembra determinare l’insorgenza di episodi di rigetto acuto in
circa il 20% dei pazienti48.
Ciclosporina
La ciclosporina è un polipeptide ciclico costituito da 11
aminoacidi e deriva dal fungo Tolypocladium inflatum.
Previo legame nel citoplasma delle cellule bersaglio con
le proteine calcio-dipendenti ciclofillina e calmodulina, essa agisce interferendo a livello nucleare con la sintesi
delle linfochine in genere e in particolare dell’interleuchina2; di conseguenza, viene inibita la produzione dei linfociti T citotossici. Somministrata in fase intra- e immediatamente postoperatoria per via endovenosa, essa viene successivamente assunta per os alla dose di 5-10
mg/kg/die in due somministrazioni nella fase di induzione della immunosoppressione. Gli effetti collaterali più frequenti sono: nefrotossicità, neurotossicità (dal tremore
con parestesie, alle crisi convulsive, fino al coma), ipertensione arteriosa, irsutismo, iperplasia gengivale. È stata segnalata inoltre una certa epatotossicità.
Tacrolimus
Azatioprina
Il tacrolimus è un macrolide idrofobico derivato dal
fungo Streptomyces tsukubaenesis, ed ha un meccanismo
d’azione simile a quello della ciclosporina. Esso è in grado di bloccare la risposta immunitaria legandosi ad una proteina citoplasmatica denominata immunofillina. Il complesso tacrolimus-immunofillina inibisce l’attività fosfatasica della calcineurina fondamentale per la trascrizione
dei geni per le interleuchine-1 e 2 che attivano i linfociti
T. Il dosaggio abituale del farmaco è pari a 0.05-0.1 mg/
kg/die per os in due somministrazioni nella fase di induzione della immunosoppressione. I principali effetti collaterali sono diabete, neurotossicità (tremori, iperestesie,
parestesie, insonnia con incubi, cefalea, disfasia motoria),
nefrotossicità, ipertensione arteriosa, iperkaliemia, nausea
e diarrea. Studi effettuati nei primi anni ’90 avevano ini-
L’azatioprina è un derivato imidazolico della 6-mercaptourina ed interferisce con la sintesi di DNA e RNA,
inibendo quindi la differenziazione e la proliferazione
dei linfociti B e T. Viene impiegata alla dose 1.5-2
mg/kg/die con sospensione della terapia se leucociti e/o
piastrine sono < 3000 o 50 000/mm3 rispettivamente. Infatti, il principale effetto collaterale del farmaco è una spiccata attività mielosoppressiva dovuta alla sua azione antimetabolica.
Nuovi immunosoppressori
La rapamicina è un macrolide derivato dal fungo Streptomyces hygroscopicus che agisce legandosi alla proteina citoplasmatica FKBP12 e inibendo la proteina citoplasma-
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Maurizio Pompili et al.
tica mTOR che è essenziale per l’attivazione T linfocitaria mediata dalle interleuchine-1, 2, 7, 12 e 15. L’impiego clinico di questo farmaco sembra limitato dalla sua tossicità (può causare piastrinopenia e iperlipemia).
Il mofetile micofenolato è un inibitore non competitivo dell’inosina monofosfato deidrogenasi che interferisce
con la sintesi del nucleotide guanosina e con la replicazione
del DNA. Il farmaco ha un’azione relativamente selettiva sulla replicazione dei linfociti che dipendono interamente da questa via metabolica per la sintesi purinica. Nei
pazienti trapiantati di fegato in trattamento con ciclosporina o tacrolimus, alla dose di 2-3 g/die, il farmaco si è dimostrato promettente nel ridurre il rischio di rigetto acuto e nel consentire la riduzione della posologia della ciclosporina o del tacrolimus in pazienti con problematiche
di nefro- o neurotossicità49. Il mofetile micofenolato può
avere effetti mielotossici o causare sintomi gastrointestinali come nausea e diarrea solitamente reversibili con la
riduzione della posologia.
vuti al rilascio massivo di citochine da parte dei linfociti
T. Va sottolineato che l’impiego degli OKT3 è associato
ad un rischio aumentato di complicanze infettive e malattie
linfoproliferative53.
Il rigetto cronico si verifica nel 5-10% dei trapiantati di
fegato ed è caratterizzato istologicamente dalla progressiva riduzione fino alla scomparsa dei dotti biliari (cui corrisponde dal punto di vista biochimico un’iperbilirubinemia ingravescente) associata ad aspetti di arteriopatia
obliterante54. Non è chiaro se un elevato numero di rigetti
acuti induca un rischio aumentato di rigetto cronico. È stato segnalato che il passaggio da ciclosporina a tacrolimus,
purché effettuato prima che i valori di bilirubinemia superino i 10 mg/dL, è efficace nell’indurre la remissione o
il rallentamento del rigetto cronico55. Analoghe segnalazioni sono state occasionalmente riportate in caso di passaggio al mofetil micofenolato. Rimane comunque ancora elevata la quota di pazienti che vanno incontro al decesso o al ritrapianto per rigetto cronico.
Rigetto acuto e cronico
Indicazioni e prognosi nell’adulto
Almeno un episodio di rigetto acuto si verifica in più del
40% dei pazienti trapiantati di fegato e la prevalenza di tali episodi sembra maggiore nei pazienti più giovani e in
quelli trapiantati per malattie a patogenesi autoimmunitaria
come cirrosi biliare primitiva, colangite sclerosante ed epatite autoimmune6,50,51. Il rigetto acuto solitamente si manifesta nelle prime 2-3 settimane dal trapianto con febbre,
dolore addominale, malessere generale e ittero. È presente un incremento dei parametri di colestasi e citonecrosi,
ma la diagnosi clinica di rigetto acuto deve essere confermata dall’esame istologico del prelievo tissutale ottenuto con la biopsia. Il rigetto acuto è caratterizzato dalla
presenza di infiltrato infiammatorio negli spazi portali, da
danno immunomediato dell’epitelio biliare e da processi
infiammatori a carico dell’endotelio. Esistono diverse
classificazioni per quantificare la gravità di un episodio di
rigetto acuto, e la più utilizzata in Italia rimane quella proposta da Snover et al.52.
Il trattamento del rigetto acuto consiste nella somministrazione di boli di metilprednisolone (0.5-1 g/die per 3
giorni oppure 1 g/die in prima giornata seguito da dosi scalari per 6 giorni). Se il quadro clinico-ematochimico non
si risolve è indicato un secondo ciclo di trattamento ad una
settimana di distanza dal primo. In caso di mancata risposta
il rigetto è definito “steroido-resistente”, ed a questo punto è indicato l’utilizzo degli anticorpi murini monoclonali OKT3 diretti contro il complesso molecolare CD3
espresso sui linfociti T maturi. Il dosaggio impiegato è di
5 mg/die e.v. per 10 giorni e gli inevitabili effetti collaterali (febbre, malessere, diarrea, artro-mialgie) sono do-
La principale causa di trapianto in età adulta è rappresentata in tutto il mondo dalle cirrosi postnecrotiche virali
correlate all’HCV e, in misura minore, all’HBV, con o senza coinfezione da virus dell’epatite delta, che costituiscono in Europa e negli Stati Uniti circa il 30-40% delle
indicazioni56. Il trapianto di fegato è un’opzione terapeutica ormai standardizzata nel carcinoma epatocellulare
(HCC) complicante la cirrosi epatica per lo più postepatitica purché siano rispettati i criteri minimi per l’inserimento in lista d’attesa e costituisce nella casistica italiana circa il 18% del totale delle indicazioni6. Seguono in
ordine di frequenza le cirrosi alcol-relate, le epatopatie croniche ad impronta primitivamente colestatica (cirrosi biliare primitiva, colangite sclerosante primitiva ed epatiti
autoimmuni), le epatiti fulminanti (su base tossica o virale)
e i tumori epatici diversi dall’HCC. Altre condizioni come il morbo di Wilson, l’emocromatosi, la sindrome di
Budd-Chiari sono di gran lunga meno frequenti. Una quota rilevante anche se in progressiva diminuzione, è tuttora rappresentata dalle cirrosi criptogenetiche, che in Italia
rappresentano circa il 5% delle cause di trapianto6.
Cirrosi correlata al virus dell’epatite C
Sin dal momento della sua caratterizzazione molecolare nel 1989, l’HCV è stato identificato come la maggior
causa di epatite cronica non A non B e dal 1993 l’HCV è
diventato la principale indicazione al trapianto di fegato
in tutto il mondo. In pazienti affetti da cirrosi epatica
HCV-relata il rischio a 5 anni dalla diagnosi di scompenso
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funzionale epatico e sviluppo di HCC è rispettivamente pari al 18 e 7%57. Il problema più rilevante nei trapiantati di
fegato per cirrosi HCV-relata è la quasi costante recidiva
virale. Infatti, la presenza di HCV nel siero dopo il trapianto
(dimostrabile con il dosaggio quali-quantitativo delle sequenze di HCV-RNA con la tecnica della reazione polimerasica a catena) è dimostrabile praticamente in tutti i pazienti viremici prima della procedura; inoltre, il 50-80%
di questi pazienti sviluppa nel tempo un’epatite cronica clinicamente evidente58. La storia naturale della recidiva di
infezione da HCV in pazienti trapiantati è stata recentemente analizzata in uno studio che prevedeva l’esecuzione di biopsia epatica a 1 e 5 anni in pazienti trapiantati con e senza infezione da HCV. Quasi il 90% dei pazienti
trapiantati HCV-positivi aveva un’epatite cronica istologicamente documentata a 5 anni contro il 20% dei pazienti
trapiantati per altre cause. Alta era anche la percentuale
(circa il 20%) di pazienti che a 5 anni presentavano cirrosi epatica59.
Da questo si evince non solo che la recidiva virale è quasi la regola, ma anche che la storia naturale della malattia risulta accelerata dopo il trapianto. Diversi fattori sono stati chiamati in causa per spiegare questo decorso
post-trapianto, tra cui la carica virale pre-trapianto, il genotipo dell’HCV e il tipo di immunosoppressione. Diversi
gruppi di studio europei hanno suggerito che l’infezione
con genotipo 1b è associata con una più alta prevalenza
e una maggiore severità della ricorrenza istologica60,61.
Inoltre, alcuni dati permettono di affermare che dopo trapianto si assiste ad un incremento quantitativo della viremia62, e che i livelli di HCV-RNA nelle prime 2 settimane successive al trapianto sono significativamente più
alti tra i pazienti che svilupperanno un’epatite cronica attiva63. Per quanto riguarda il tipo di immunosoppressione utilizzato, la maggior parte dei dati retrospettivi disponibili indicano che la sopravvivenza nei pazienti trapiantati per cirrosi HCV-relata non è influenzata significativamente dall’utilizzo del tacrolimus o della ciclosporina58. Non sono invece disponibili dati sufficienti riguardo ai nuovi immunosoppressori (mofetile micofenolato, rapamicina, anticorpi diretti contro l’interleuchina2). È infine sufficientemente dimostrato che l’incidenza
di recidiva epatitica da HCV è influenzata dal numero di
episodi e dal tipo di terapia del rigetto acuto. In un recente
studio eseguito su cirrotici HCV-positivi trapiantati, il
72% dei pazienti trattati per rigetti acuti multipli o steroidoresistenti con OKT3 hanno presentato recidiva virale rispetto al 18% dei pazienti mai trattati per rigetto64. Inoltre
i pazienti HCV-positivi che hanno ricevuto OKT3 per il
trattamento dei rigetti steroido-resistenti hanno una possibilità circa 10 volte maggiore di perdere il nuovo organo rispetto agli altri pazienti65.
L’entità dalla recidiva a 1 anno dal trapianto sembra sufficientemente predittiva del successivo decorso: considerando i risultati dello studio istologico effettuato a 1 anno dal trapianto, solo il 10% dei pazienti con recidiva lieve erano affetti da cirrosi epatica a 5 anni dalla procedura contro il 66% circa dei pazienti con attività epatitica almeno moderata59. Peraltro, in una percentuale di casi
compresa tra il 2 e il 10% del totale, la recidiva epatitica
HCV-relata assume un grave decorso progressivamente colestatico e rapidamente ingravescente che appare correlato
a livelli molto elevati di HCV-RNA nel sangue e nel fegato a dimostrazione di un probabile effetto citopatico diretto del virus45.
Negli anni sono stati proposti diversi approcci per ridurre
la recidiva e la sua gravità. La possibilità di una terapia preventiva antivirale con interferone nei pazienti in attesa di
trapianto è solamente teorica in quanto la maggior parte
dei pazienti in lista è in condizioni cliniche che non permettono di intraprendere tale terapia. L’utilizzo dell’interferone in monoterapia nel trattamento della recidiva di
epatite cronica HCV-relata ha prodotto risultati inadeguati: dall’analisi di 5 lavori su questo argomento è emerso che solo in 1 paziente su 64 si è ottenuta clearance
dell’HCV-RNA in assenza di significativi miglioramenti istologici66. Più efficace sembrerebbe la terapia combinata con interferone e ribavirina protratta per almeno 6
mesi e in grado di determinare clearance sostenuta
dell’HCV-RNA in 5/21 pazienti (24%)67. Un approccio razionale nel tentativo di evitare la reinfezione del fegato trapiantato sembra rappresentato dal trattamento profilattico con antivirali nelle prime settimane dopo la procedura, nelle quali i livelli viremici sono più bassi. Avendo come obiettivo la clearance dell’HCV-RNA, sono stati riportati risultati conflittuali in termini di efficacia utilizzando
il solo interferone23,58; anche in questo ambito sembra
più promettente l’associazione di interferone e ribavirina
mostratasi in grado di determinare clearance virale in
9/21 pazienti dopo 12 mesi di terapia68.
Va infine sottolineato che nonostante l’elevata incidenza di recidiva epatitica la sopravvivenza dei pazienti
trapiantati per cirrosi HCV-relata non sembra significativamente diversa da quella dei pazienti trapiantati per altre indicazioni almeno nei primi 10 anni dalla procedura69
e che l’uso di fegati da donatori HCV-positivi in riceventi
a loro volta HCV-positivi non sembra comportare in questi ultimi un aumento della mortalità e della morbilità rispetto a riceventi HCV-positivi trapiantati con fegati da
donatori HCV-negativi70. Questa osservazione può avere rilevanti ricadute pratiche poiché può consentire un
incremento del pool dei donatori.
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Maurizio Pompili et al.
Cirrosi correlata al virus dell’epatite B
relata74. Inoltre risultati molto incoraggianti nella prevenzione della reinfezione post-trapianto sono stati ottenuti associando la lamivudina e le immunoglobuline anti-HBV75. I principali problemi legati all’utilizzo di questo farmaco sono la ricomparsa del virus nel sangue alla
sospensione del trattamento e l’elevato rischio di selezione
di mutanti HBV lamivudino-resistenti nei pazienti trattati per periodi molto prolungati23. Ancora incerti sono i risultati sull’uso del nuovo antivirale adefovir nei ceppi
mutanti sviluppatisi dopo trapianto di fegato.
La vaccinazione su scala mondiale per l’HBV è destinata a ridurre il numero delle cirrosi HBV-relate71. Tuttavia
al momento la cirrosi HBV-relata rimane una delle principali indicazioni al trapianto di fegato in tutto il mondo.
Come per i pazienti HCV-positivi, esiste la possibilità di
recidiva epatitica da HBV nel post-trapianto; in assenza
di immunoprofilassi passiva tale evento si verifica in più
dell’80% dei pazienti HbsAg-positivi, assume in una ridotta percentuale di casi un andamento gravemente colestatico e condiziona una sopravvivenza a 5 anni (51%) nettamente inferiore a quella dei pazienti trapiantati per malattie colestatiche non virali58,72. Il principale fattore di rischio associato con la recidiva è rappresentato dallo stato virologico prima del trapianto: un ampio studio retrospettivo europeo policentrico ha infatti dimostrato che i pazienti HBV-DNA-positivi hanno un rischio di recidiva significativamente aumentato (92%) rispetto ai pazienti
HBV-DNA-negativi (32%). Nello stesso studio è stato dimostrato che la sopravvivenza del paziente e del fegato trapiantato erano significativamente maggiori nei pazienti
HbeAg-negativi, nei pazienti trapiantati per epatite acuta HBV-relata piuttosto che per cirrosi HBV-relata, nei pazienti con sovrainfezione da virus delta e nei pazienti sottoposti dopo il trapianto a profilassi passiva della reinfezione per almeno 6 mesi con immunoglobuline policlonali
per l’HBV ottenute da donatori HbsAg-positivi dirette
contro il capside virale a cui si legano prevenendo l’infezione epatocitaria e favorendo la clearance virale73. Sulla
base di questi dati, i centri italiani trapianto di fegato effettuano la procedura pressoché esclusivamente nei pazienti
HBV-DNA-negativi i quali vengono poi sottoposti a profilassi passiva con immunoglobuline policlonali2. La schedula più seguita nella maggior parte dei centri prevede la
somministrazione di 10 000 UI nella fase anepatica del trapianto seguita da 10 000 UI giornaliere per 7 giorni.
Successivamente la posologia è variabile ed è comunque
tesa a mantenere livelli di anti-HBs > 200-400 UI/L.
Nella maggior parte dei casi tale trattamento viene proseguito per almeno 2 anni, periodo nel quale si verifica la
maggior parte delle reinfezioni post-trapianto2,4.
Per quanto riguarda il trattamento della recidiva epatitica HBV-relata dopo trapianto, l’interferone ha fornito risultati deludenti mentre buoni risultati sono stati ottenuti con la lamivudina, farmaco antivirale di recente introduzione capace di inibire la sintesi del DNA virale interferendo con l’attività della trascrittasi inversa. Alla dose
di 100 mg/die, priva di rilevanti effetti tossici nella maggior parte dei pazienti, il farmaco si è mostrato in grado
di indurre e mantenere la negatività dell’HBV-DNA prima e dopo il trapianto nei pazienti affetti da cirrosi HBV-
Cirrosi alcolica
La cirrosi alcolica è stata a lungo considerata una controindicazione relativa al trapianto per il rischio di recidiva
di abuso alcolico e la possibilità di una scarsa aderenza dei
pazienti alle prescrizioni terapeutiche. In realtà, se i pazienti
vengono accuratamente selezionati prima del trapianto e
sono validamente supportati dal punto di vista medico e
psicologico dopo la procedura, i risultati del trapianto in
termini di sopravvivenza non differiscono da quelli dimostrati per le altre indicazioni raggiungendo valori pari a circa il 69% a 5 anni nella casistica italiana6. La valutazione prima dell’inserimento in lista è volta da un lato a verificare e trattare un’eventuale dipendenza psicologica dall’abuso alcolico del potenziale candidato, dall’altro a escludere l’esistenza di patologie extraepatiche alcolrelate (in particolare miocardiopatia ed encefalopatia) che
costituiscono controindicazioni alla procedura. Tutti i
centri trapianto italiani ritengono comunque necessario un
periodo documentato di astinenza alcolica di almeno 6 mesi prima di inserire i pazienti in lista d’attesa2 e ciò, se da
un lato consente una selezione quanto più rigorosa possibile
dei candidati, dall’altro sembra condizionare una maggiore
mortalità in lista d’attesa per questa categoria di pazienti56. La percentuale di recidivismo alcolico post-trapianto è analoga nei centri trapianto europei e statunitensi ed
è stimata tra 10 e 30% dei casi.
Neoplasie epatiche
L’HCC è uno dei più comuni tumori solidi del mondo,
con un’incidenza mondiale stimata in circa 250 000 nuovi casi per anno. In oltre nel 90% dei casi l’HCC insorge
su cirrosi epatica e tale complicazione si verifica nei pazienti cirrotici con un’incidenza annua pari a circa il 3%
nel nostro paese76. Le casistiche iniziali sui risultati del trapianto nell’HCC avevano fornito risultati deludenti poiché la sopravvivenza a 5 anni era risultata pari a circa il
40% a causa dell’elevata frequenza di recidive sia intra che
extraepatiche della neoplasia77,78. Tuttavia, i buoni risultati in termini di sopravvivenza e recidiva di malattia di-
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Ann Ital Med Int Vol 19, N 1 Gennaio-Marzo 2004
mostrati nei pazienti trapiantati in cui il tumore, ignoto al
momento dell’intervento, era stato scoperto incidentalmente all’esame del fegato espiantato79 hanno portato ad
una rivalutazione delle precedenti esperienze nell’ipotesi che il trapianto fosse un trattamento proponibile solo nelle fasi relativamente precoci della malattia. Nel 1996
Mazzaferro et al.80 hanno dimostrato che se l’intervento
viene limitato a pazienti con tumore singolo inferiore a 5
o con massimo 3 tumori monolobari ciascuno dei quali
< 3 cm in assenza di invasione vascolare, linfonodale o extraepatica di malattia, la sopravvivenza globale e l’intervallo libero da malattia a 4 anni sono rispettivamente superiori al 75 e all’80%80. Questi criteri di selezione hanno in seguito ricevuto sostanziali conferme in alcune casistiche che hanno confermato una sopravvivenza a 5 anni > 60% e dimostrato che il principale fattore di rischio
di recidiva neoplastica è costituito dall’invasione vascolare macro- e microscopica81-83. Essi sono di fatto utilizzati in tutti i centri trapianto italiani nella selezione dei pazienti: una recente revisione dell’esperienza italiana ha preso in esame 593 pazienti con HCC (mono- o bifocale nel
75% dei casi, < 5 cm nel 93% dei casi) sottoposti a trapianto nei quali è stata dimostrata sopravvivenza a 5 anni del 63% e recidiva di malattia nel 7.5% dei casi6. Nei
pazienti con HCC candidabili al trapianto di fegato le
principali limitazioni alla procedura sono rappresentate dalla scarsa disponibilità di organi e dalla lunghezza del
tempo di attesa (che può essere associata ad una progressione di malattia tale da rendere il paziente non più trapiantabile)84. Per questo motivo il trapianto va considerato
in prima istanza nei pazienti di età < 60 anni con stadiazione di neoplasia compatibile con il trapianto e nelle
classi B o C secondo Child-Pugh nelle quali non è dimostrato un sicuro vantaggio di sopravvivenza utilizzando la
resezione chirurgica e le metodiche di trattamento locoregionale.
Il colangiocarcinoma non è attualmente considerato
un’indicazione corretta al trapianto di fegato a causa
dell’elevato rischio di recidiva e mortalità successivi
all’intervento2. Segnalazioni aneddotiche di buoni risultati a distanza dopo trapianto sono riportate in alcuni casi di neoplasie rare come l’epatocarcinoma fibrolamellare e l’emangioendotelioma endotelioide4.
seguenti cinque variabili prognostiche indipendenti: età,
bilirubina, albumina, tempo di protrombina, presenza o assenza di edemi periferici11. Ulteriori indicazioni all’inserimento in lista d’attesa sono rappresentate dalle complicanze che inficiano la qualità di vita quali prurito intrattabile, osteodistrofia con rischio di frattura e neuropatia
xantomatosa.
La cirrosi biliare primitiva è un’ottima indicazione al trapianto in quanto la sopravvivenza a lungo termine è elevata (88% a 5 anni)85. In una ridotta percentuale di casi
(prevalenza tra 8 e 16% a seconda delle casistiche) i pazienti trapiantati presentano una recidiva istologica che comunque sembrerebbe non avere grande rilevanza clinica,
dal momento che la progressione di malattia è molto lenta86. Infatti a 10 anni dall’intervento è molto rara la dimostrazione di cirrosi.
Nella colangite sclerosante primaria, il trapianto è l’opzione terapeutica migliore negli stadi avanzati di malattia considerato il rischio di sviluppo di colangiocarcinoma87,88. Poiché non esistono ancora delle metodiche strumentali o di laboratorio predittive dell’insorgenza di colangiocarcinoma (anche se in questo senso sembra promettente il ruolo del CA 19-9) e la dimostrazione preoperatoria della neoplasia controindica il trapianto, è utile
sottolineare che il trapianto in fase precoce di scompenso riduce notevolmente il rischio di neoplasia delle vie biliari in questi pazienti87. Il rischio di recidiva di malattia
post-trapianto è pari al 10-20% mentre la sopravvivenza
a 5 anni, in assenza di colangiocarcinoma diagnosticato prima del trapianto o dimostrato sul fegato espiantato pur non
essendo clinicamente evidente, è pari a circa il 90%89.
Epatite cronica autoimmune
Tra i pazienti affetti da epatite cronica autoimmune
quelli con antigeni di istocompatibilità HLA DR3 presentano un’attività flogistica più grave, mostrano una risposta ridotta alla terapia immunosoppressiva e vanno
più frequentemente incontro a trapianto di fegato. In questa malattia il trapianto di fegato va comunque considerato quando la terapia immunosoppressiva corticosteroidea con o senza aziatioprina non è più efficace nel limitare la progressione della malattia90. I pazienti trapiantati hanno una sopravvivenza a 5 anni > 90%. Dopo il trapianto gli autoanticorpi persistono, anche se a un titolo più
basso, nella maggioranza dei pazienti e la recidiva di malattia si verifica nel 20-40% dei casi avendo nella maggior
parte dei casi un’aggressività limitata91,92.
Patologie colestatiche
Particolari problematiche sono presenti nelle malattie colestatiche croniche (cirrosi biliare primitiva e colangite sclerosante primaria); in queste malattie l’indicazione al trapianto è posta da livelli di bilirubina > 10 mg/dL e da
un’aspettativa di vita < 2 anni sulla base del modello predittivo elaborato presso la Mayo Clinic che considera le
Epatite fulminante
L’insufficienza epatica fulminante è una sindrome clinica caratterizzata da necrosi epatocitaria massiva che
30
Maurizio Pompili et al.
esita in rapida e severa compromissione funzionale epatica caratterizzata da ittero ed encefalopatia epatica. Tali
manifestazioni insorgono entro 8 settimane dall’inizio
clinico della malattia in pazienti precedentemente esenti
da patologia epatica93. La causa predominante di epatite
fulminante negli Stati Uniti e nella maggior parte dei paesi europei è rappresentata dall’epatite acuta virale (più comunemente da virus dell’epatite A o HBV con o senza virus delta, più raramente da virus C, E o di Epstein-Barr),
seguita dalle forme tossiche (Amanita phalloides, paracetamolo, farmaci diversi dal paracetamolo, altre sostanze epatotossiche come l’alotano). Altre cause meno frequenti di epatite fulminante sono il morbo di Wilson,
l’epatite cronica autoimmune, la sindrome di Budd-Chiari,
una diffusa infiltrazione neoplastica del fegato, la riattivazione del virus B dopo immunosoppressione o chemioterapia. Tra le cause di trapianto negli Stati Uniti
l’epatite fulminante rappresenta una quota approssimativamente vicina al 7%93 e tale percentuale è vicina a quella rilevata nella casistica italiana oscillante tra il 5 e il
7%6,51.
La mortalità nelle epatiti fulminanti rimane alta raggiungendo complessivamente percentuali intorno al 70%
e tra le varie eziologie le forme virali sembrano avere la
prognosi peggiore; la terapia medica è importante nella gestione delle complicanze delle epatiti acute, incluse infezioni batteriche e fungine, instabilità emodinamica, insufficienza renale e polmonare, disturbi dell’equilibrio
acido-base, degli elettroliti, e della coagulazione, encefalopatia portosistemica ed edema cerebrale. In presenza di
edema cerebrale è di fondamentale importanza il monitoraggio della pressione intracranica poiché se essa si
mantiene > 50 mmHg per oltre 8 ore il trapianto di fegato è da ritenersi controindicato poiché non vi sono reali possibilità di recupero di una normale funzione cognitiva94.
Negli anni sono state elaborate numerose scale per la valutazione delle condizioni cliniche dei pazienti con epatite fulminante, utili non solo per scegliere il timing ottimale per l’inserimento in lista di trapianto di fegato, ma
anche per avere una valutazione prognostica affidabile.
O’Grady et al.95 hanno proposto una scala prognostica oggi molto utilizzata nella quale i parametri che indicano l’urgenza del trapianto sono i gradi III e IV di coma, la coagulopatia grave (attività protrombinica < 20%), la rapida
necrosi epatocitaria con bilirubinemia > 20 mg/dL, l’acidosi, l’insufficienza renale (creatininemia > 10 mg/dL) e
l’instabilità emodinamica.
Dopo trapianto di fegato (per il quale l’epatite fulminante
rappresenta in Italia una priorità assoluta valida su tutto
il territorio nazionale con tempi d’attesa compresi tra 24
e 72 ore), la sopravvivenza a 5 anni di questi malati è in-
feriore a quella delle altre indicazioni (54% a 5 anni)6 in
relazione alla necessità di utilizzare qualsiasi organo disponibile e di trapiantare riceventi in condizioni generali spesso molto scadute.
Indicazioni e prognosi in età pediatrica
Il trapianto di fegato è un trattamento efficace e largamente praticato anche in età pediatrica in soggetti affetti
da malattie epatiche in fase terminale96. In termini di sopravvivenza, i risultati in età pediatrica sono tendenzialmente migliori rispetto a quelli ottenuti nell’adulto: fino
al dicembre 1997 erano stati effettuati in Europa più di
2500 trapianti in soggetti di età < 15 anni con percentuali di sopravvivenza pari a 75 e 74% a 3 e 5 anni2. Risultati
paragonabili sono stati ottenuti nel nostro paese dove fino al dicembre 1999 erano stati trapiantati 207 pazienti in
età pediatrica con percentuali di sopravvivenza pari a 76
e 73% a 3 e 5 anni7. Le indicazioni cliniche per un trapianto
di fegato in età pediatrica sono analoghe a quelle descritte nell’adulto includendo segni evidenti di sintesi epatica
severamente deficitari e la presenza di ipertensione portale, encefalopatia portosistemica, evidenza laboratoristica di ittero e prurito intrattabili. Altri fattori che pongono
indicazione al trapianto sono la scadente qualità di vita e
i severi deficit di accrescimento.
Il trapianto di fegato nei bambini ha avuto un notevole
impulso dall’utilizzo di tecniche chirurgiche innovative come l’utilizzo di fegati ridotti da donatore adulto e di fegati
divisi o “split”. Con quest’ultima tecnica, come già accennato, il fegato del donatore adulto è diviso in due emifegati di cui il sinistro è riservato a un ricevente pediatrico mentre il destro è destinato ad un ricevente adulto. È
soprattutto grazie all’introduzione e diffusione di questa
tecnica che i tempi d’attesa per trapianto pediatrico si sono notevolmente ridotti in tutto il mondo determinando un
sostanziale azzeramento della mortalità in lista d’attesa94. L’atresia delle vie biliari rappresenta la principale causa di trapianto di fegato pediatrico. Si tratta di una patologia ad impronta colestatica caratterizzata da obliterazione
di tutto o di parte dell’albero biliare extraepatico, con
un’incidenza di 1/10 000 neonati. La maggior parte di questi bambini è sottoposto entro i primi 2-3 anni di età ad intervento secondo Kasai (bilio-enteroanastomosi con resezione del tratto biliare ostruito e ristabilimento del drenaggio biliare nell’intestino), che può diminuire i sintomi e aumentare la sopravvivenza. Tuttavia, la ritenzione
intraepatica di bile può continuare fino ad indurre fibrosi parenchimale e cirrosi epatica. Compaiono allora deficit di crescita del bambino, frequenti episodi di colangite e segni tipici di insufficienza epatica, che portano al trapianto. Tra le altre indicazioni al trapianto di fegato in età
31
Ann Ital Med Int Vol 19, N 1 Gennaio-Marzo 2004
pediatrica vanno ricordati in ordine decrescente di frequenza gli errori congeniti del metabolismo (tra cui soprattutto il morbo di Byler, la mucoviscidosi, la sindrome
di Crigler-Najjar tipo II, la malattia da accumulo di colesterolo e la tirosinemia), la cirrosi postepatitica soprattutto
HCV-relata, le neoplasie epatiche (tra cui l’epatoblastoma) e la sindrome di Alagille (malattia colestatica della seconda infanzia caratterizzata da ipoplasia dei dotti biliari intraepatici, stenosi dell’arteria polmonare e anomalie
ossee). Una piccola percentuale di bambini va infine incontro a trapianto di fegato per epatite fulminante (5% dei
casi nell’esperienza italiana)7.
I migliori risultati a lungo termine sono ottenuti nelle malattie colestatiche e negli errori congeniti del metabolismo.
Risultati meno lusinghieri sono riportati nelle cirrosi e nelle neoplasie soprattutto a causa della recidiva della malattia
di base. Tuttavia, come già detto nell’adulto, i peggiori risultati si osservano nei casi di trapianto di fegato per epatite fulminante con sopravvivenze a 5 anni < 40% e decessi prevalentemente registrati entro i primi 6 mesi dal
trapianto5,7.
gato moderatamente steatosico. Ci sono evidenze che il fegato di un donatore anziano non predisponga di per sé ad
una prognosi peggiore del trapianto. L’uso di fegati da donatori affetti da epatite cronica virale è da prendere in considerazione in pazienti che giungono al trapianto per cirrosi post-virale ad eziologia analoga a quella del donatore. Infine, se una steatosi severa (coinvolgente più del 30%
dell’organo) è associata ad un alto rischio di PNF, accettabili sembrano essere i risultati ottenuti con fegati con steatosi moderata (compresa tra il 10 e il 30%)97.
Un altro tentativo di risposta alla carenza di organi è rappresentato dal trapianto da donatore vivente, di recente autorizzato in numerosi centri italiani di trapianto di fegato. Va premesso che questo tipo di tecnica pone notevoli problematiche etiche sia riguardo al rischio chirurgico
sia alla verifica delle motivazioni del donatore e che comunque i pazienti non candidabili a trapianto da cadavere non sono candidabili a trapianto da donatore vivente.
Questa tecnica offre peraltro il vantaggio di azzerare il tempo di attesa in lista per trapianto da cadavere e di poter programmare l’intervento prima che le condizioni del ricevente siano eccessivamente deteriorate. Solitamente i donatori sono parenti prossimi, ma possono occasionalmente essere coniugi o amici. Tutti i possibili donatori, che
devono ovviamente avere gruppo sanguigno e caratteristiche somatiche compatibili con il ricevente, devono essere accuratamente valutati per escludere l’esistenza di controindicazioni assolute di tipo medico (malattie croniche
cardiorespiratorie, epatopatie croniche, storia clinica di
neoplasia o abuso alcolico, diabete od obesità, infezione da
HIV) o psicologico (la donazione deve essere assolutamente
spontanea). Sono necessarie una valutazione radiologica per
escludere alterazioni vascolari o biliari del donatore e una
biopsia epatica per quantificare la quota di steatosi. Se il
ricevente è adulto si procede quindi generalmente ad emiepatectomia destra, se è pediatrico o è un adulto di piccola
taglia ad emiepatectomia sinistra. La prevalenza di complicanze per il donatore è pari al 5-10% e le più comuni sono: sanguinamento addominale, complicanze a carico delle vie biliari, laparocele della parete addominale, trombosi venosa profonda e embolia polmonare98-100. Negli Stati
Uniti il rischio di morte intra o perioperatoria del donatore è stato quantificato intorno allo 0.5% mentre i risultati
di sopravvivenza sono confortanti (circa 80-85% di sopravvivenza a 1 anno)98,101 e risultano sovrapponibili a quelli ricavati dalle casistiche orientali.
Cause di morte
In Italia la causa più frequente di morte negli adulti trapiantati di fegato è rappresentata dalla sepsi (42% del totale). Altre più comuni cause di decesso sono, in ordine
di frequenza, le complicanze cardiovascolari, la ricorrenza di malattia e la PNF6. Anche nella popolazione pediatrica le complicanze infettive rappresentano la principale causa di morte insieme alla PNF; seguono gli accidenti cerebrovascolari, l’insufficienza pluriorganica e
l’insufficienza cardiaca7.
Problematiche emergenti
Un problema rilevante nella pratica dei trapianti di fegato rimane la relativa carenza di organi. Negli Stati Uniti
vi sono oltre 15 000 pazienti in lista d’attesa per trapianto di fegato ma ogni anno vengono eseguiti non più di 4500
trapianti e circa il 25% dei pazienti in lista d’attesa decede prima del trapianto (fonte UNOS). Una sproporzione
simile è presente anche in Italia, dove i pazienti in lista d’attesa al 31 dicembre 2001 erano 1362 a fronte di 818 trapianti eseguiti nel corso del 2001 (fonte del Centro
Nazionale Trapianti).
Nel tentativo di aumentare il pool di fegati trapiantabili si è assistito all’utilizzo di fegati in precedenza non
presi in considerazione perché provenienti da donatori
subottimali o marginali. Con questo termine si intendono
donatori anziani (> 75 anni), con epatite HCV- o HBVrelata (purché esenti da fibrosi severa e/o cirrosi) o con fe-
Riassunto
Il trapianto di fegato rappresenta il trattamento di scelta per pazienti affetti da epatite acuta fulminante e per pazienti con malattia epatica cronica in fase di scompenso
32
Maurizio Pompili et al.
funzionale avanzato e irreversibile. I pazienti in lista di trapianto sono classificati in base alla gravità delle condizioni
cliniche (valutate utilizzando sistemi di stadiazione prevalentemente basati su parametri ematochimici di funzionalità epatica). Questo criterio, oltre alla compatibilità
di gruppo sanguigno e di caratteristiche somatiche, rimane il principale criterio di assegnazione degli organi. Le
principali indicazioni al trapianto sono la cirrosi (soprattutto HCV-, HBV- e alcol-relata) e l’epatocarcinoma
complicante la cirrosi nei pazienti adulti, l’atresia delle vie
biliari ed alcuni errori congeniti del metabolismo nei pazienti pediatrici. Negli adulti la sopravvivenza globale a
5 anni oscilla su valori compresi tra il 60 e il 70% sia nelle casistiche statunitensi che in quelle europee. Risultati
anche migliori sono ottenuti nei bambini: infatti, nelle principali casistiche pubblicate la sopravvivenza a 5 anni è
compresa tra il 70 e l’80%. In questo lavoro vengono
analizzate le principali problematiche di interesse medico relative al trapianto di fegato come il trattamento immunosoppressivo, l’insorgenza di rigetto acuto e cronico,
le complicanze infettive, la recidiva della malattia di base e le complicanze cardiovascolari e dismetaboliche.
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Manoscritto ricevuto il 7.4.2003, accettato il 26.9.2003.
Per la corrispondenza:
Dr. Maurizio Pompili, Istituto di Medicina Interna e Geriatria, Università Cattolica del Sacro Cuore, Policlinico A. Gemelli, Largo A. Gemelli
8, 00168 Roma. E-mail: [email protected]
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