CORTE DEI CONTI Questioni di giurisdizione nella novella del

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CORTE
DEI CONTI
Consiglio di Presidenza
Corso di formazione e aggiornamento
Roma, 6-7 ottobre 2009
Questioni di giurisdizione
nella novella del codice di rito civile
v.p.g. Sergio Auriemma
Roma,
7 ottobre 2009
SOMMARIO
1. Le novità normative.
2. La translatio iudicii e il giusto processo.
3. Il monito recepito dal legislatore.
4. Due “direzioni” nella trasmigrazione del processo.
5. Problematiche in evidenza.
6. Prime applicazioni nei processi contabili.
APPENDICE DI GIURISPRUDENZA
1
Questioni di giurisdizione nella novella del codice di rito civile
1. Le novità normative.
Alcuni tra gli interventi riformatori realizzati tramite la legge omnibus n.
69 del 2009 1, di rilievo anche nel processo contabile, pensionistico e di
responsabilità, dal punto di vista sistematico orbitano nell’area del riparto di
giurisdizione tra giudice ordinario e speciale.
Una prima innovazione rivestente il cennato carattere è quella che,
attraverso la rivisitazione del ricorso per cassazione, è finalizzata a velocizzare i
processi avviati nell’ultima istanza di legittimità ed a rafforzare la funzione di
nomofilachia svolta dalla Suprema Corte.
La legge ha espunto l’art. 366-bis c.p.c., che prevedeva l’obbligatorietà
della formulazione del quesito di diritto, valevole per i ricorsi cassatori proposti,
per motivi di giurisdizione, avverso le decisioni della Corte dei conti ed ai sensi
dell’art. 111, ultimo comma, Cost. e dell’art. 362, comma 2, c.p.c.
Si tratta, con tutta evidenza, di abrogazione che interessa l’attività
redazionale di ricorsi o controricorsi a firma del Procuratore Generale, quando
sia adita, in forma impugnatoria, la sede regolativa della giurisdizione.
L’impatto della novità è circoscritto alle attività processuali svolte da un
unico settore giudiziario della Corte dei conti: ciò esime dal doverne esaminare
le implicazioni.
Di interesse più ampio, invece, è la disposizione di cui all’art. 59 della
legge n. 69/2009, in tema di trasmigrazione dei processi tra i diversi giudici,
ordinari e speciali.
Va data subito contezza dell’accoglienza, non certo entusiastica, che la
nuova disposizione ha ricevuto nei commenti degli operatori professionali.
Durante un seminario organizzato nello scorso mese di luglio dal Consiglio
Nazionale Forense, è emersa una posizione preoccupata e critica sulla nuova
norma, fino al punto di indurre ad affermare: “L’articolo 59 della legge
meriterebbe la riscrittura, visto che è ambiguo sul punto se il passaggio sia una
vera traslazione o raffiguri una riproposizione della domanda davanti al giudice
competente, dunque dia inizio a un nuovo processo. Se è traslazione, come alcuni
elementi interpretativi propendono, allora ci sarà sopravvivenza delle prove e
delle tutele cautelari già erogate dal giudice in difetto di giurisdizione”. 2
La trattazione illustrativa che sarà sviluppata nel presente scritto intende
analizzare il portato applicativo della norma, tra l’altro per constatare
La legge 18 giugno 2009, n. 69 recante "Disposizioni per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile" ha realizzato l’ennesima
mini-novellazione del codice di procedura civile.
2
Relazione tenuta da Claudio Consolo, ordinario di diritto processuale civile dell’Università di
Padova, durante il Seminario organizzato dal Consiglio Nazionale Forense a Roma, presso il
complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia. Dello stesso autore e sullo stesso tema si
veda: Consolo C., “La legge di riforma 18 giugno 2009, n. 69: altri profili significativi a prima
lettura”, in Corriere Giuridico, n. 7/2009, 885 ss. Altri commenti con posizioni perplesse sul
drafting normativo: Ferri C. e Finocchiaro G., Sezioni Unite vincolanti sulla giurisdizione e
Caruso G., Il collegio non competente indica la strada, entrambi in “Guida al Diritto”, 2009, n.
28, 82 e ss.
1
2
l’effettività o meno di imperfezioni nel drafting addebitabili al legislatore e di
altre ambiguità disciplinatrici.
Qualora se ne dovesse verificare la sussistenza, si dovrebbe
conseguentemente ammettere che il legislatore, lasciando agli interpreti il
compito di superarle, avrebbe posto le premesse per variabilità emeneutiche
che in fase iniziale, sino al sedimentarsi delle pronunce ed al formarsi di uno
ius
receptum,
potrebbero
maturare
nelle
concrete
applicazioni
giurisprudenziali.
Un’osservazione introduttiva si incentra sulla collocazione sistematica
della
norma,
dalla
dottrina
icasticamente
definita
“vagante”
e
3
“extracodicistica”.
Gli appellativi adoperati sono utili per sottolineare la circostanza che la
disposizione non è stata inclusa, come pure ci si poteva attendere, nel codice
del rito civile, semmai di seguito all’art. 41 che disciplina il regolamento
preventivo di giurisdizione.
Essa, invece, resta esterna all’ordito codicistico, come statuizione a sé
stante contenuta nella legge n. 69/2009.
Le ragioni della scelta allocativa non risultano esplicitate nel corso dei
lavori parlamentari.
Si può soltanto presumere che l’opzione redazionale abbia tenuto presente
il fatto che la norma è suscettibile di applicazione presso tutti i giudici, senza
distinzioni.
Orbene, è da notare che nell’ipotesi in cui fosse stata scelta l’allocazione
codicistica, l’applicabilità generalizzata della norma avrebbe reso necessario
prevederne uno specifico richiamo o rinvio nelle leggi settoriali valide per
ciascun processo.
Il problema non si sarebbe posto per il processo contabile, considerato che
l’art. 26 del reg. n. 1038/1933 già contiene un rinvio di tipo dinamico al codice
del rito civile.
Così stando le cose, la prima critica dottrinaria
- fortunatamente velata
e appena abbozzata - sembra essere piuttosto fragile.
E’ forse utile aggiungere una riflessione, specifica per la Corte dei conti.
Se si pensa, in prospettiva de iure condendo, al dibattito sulla riforma del
regolamento di procedura per il processo contabile (il R.D. n. 1038/1933), è
agevole constatare che la soppressione del rinvio dinamico di cui all’articolo 26,
da taluni talvolta troppo disinvoltamente auspicata, al cospetto di un articolo
59 che fosse stato collocato nel codice del rito civile imporrebbe, per ciò stesso,
ulteriori ed autonome prescrizioni sulla translatio.
Proprio in quanto collocata al di fuori del codice di procedura civile,
inoltre, la disposizione sulla translatio si sottrae al regime temporale transitorio
stabilito dell’art. 58 della stessa legge n. 69.
Ne deriva la sua immediata applicabilità a tutti i processi in corso e
pendenti, alla data del 4 luglio, in ogni grado e stato del giudizio.
Va infine ricordato che il principio della trasmigrazione del processo era
stato già in precedenza affermato dalla giurisprudenza della Corte di
Cassazione e della Corte costituzionale.
Pertanto, se ne doveva fare applicazione prima del 4 luglio 2009,
attraverso letture costituzionalmente orientate delle disposizioni processuali
previgenti.
3
Consolo C., cit. pag. 886
3
Il testo normativo da prendere in esame è il seguente:
Legge 18 giugno 2009, n. 69
"Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché
in materia di processo civile"
Art. 59
(Decisione delle questioni di giurisdizione)
1. Il giudice che, in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o di giudici
speciali, dichiara il proprio difetto di giurisdizione indica altresì, se esistente, il
giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. La pronuncia sulla
giurisdizione resa dalle sezioni unite della Corte di cassazione è vincolante per ogni
giudice e per le parti anche in altro processo.
2. Se, entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della
pronuncia di cui al comma 1, la domanda è riproposta al giudice ivi indicato, nel
successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli
effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui
è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall'instaurazione del primo
giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. Ai fini del
presente comma la domanda si ripropone con le modalità e secondo le forme
previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile.
3. Se sulla questione di giurisdizione non si sono già pronunciate, nel processo, le
sezioni unite della Corte di cassazione, il giudice davanti al quale la causa è
riassunta può sollevare d'ufficio, con ordinanza, tale questione davanti alle
medesime sezioni unite della Corte di cassazione, fino alla prima udienza fissata
per la trattazione del merito. Restano ferme le disposizioni sul regolamento
preventivo di giurisdizione.
4. L'inosservanza dei termini fissati ai sensi del presente articolo per la
riassunzione o per la prosecuzione del giudizio comporta l'estinzione del processo,
che è dichiarata anche d'ufficio alla prima udienza, e impedisce la conservazione
degli effetti sostanziali e processuali della domanda.
5. In ogni caso di riproposizione della domanda davanti al giudice di cui al comma
1, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono
essere valutate come argomenti di prova.
2. La translatio iudicii e il giusto processo.
Serve precisare, a scanso di equivoci, che tra i numerosi significati dalla
teoria processualistica assegnati al vocabolo “giurisdizione”, quello
convenzionalmente assunto nel presente scritto si riferisce al perimetro di
appartenenza della potestas iudicandi a ciascuno dei vari rami in cui, nel
nostro ordinamento, si articola l’erogazione della tutela giurisdizionale.
In altre parole, si intende fare riferimento ai limiti cosiddetti “esterni”
delle sfere decisionali intestate ai vari plessi giurisdizionali presenti
nell’ordinamento italiano, unitariamente inteso.
La norma-base in proposito è dettata dall’art. 37 del codice di procedura
civile, costituente per certi versi la lex generalis del processo, che individua tre
tipologie di rapporti, nel cui ambito si risolve il problema dei limiti di esercizio
della giurisdizione da parte di qualsiasi giudice italiano:
a) rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali (segnatamente:
amministrativo e contabile)
4
b) rapporti tra giudice, ordinario o speciale, e Pubbliche Amministrazioni (che
possono dar luogo al cd. difetto di attribuzione)
c) rapporti tra giudice italiano e giudici stranieri.
Allo stesso art. 37 c.p.c. va ricondotto il concetto del cd. difetto assoluto di
giurisdizione.
Consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione ravvisa ed identifica
il difetto assoluto nei casi in cui manchi nell'ordinamento una norma di diritto
astrattamente idonea a tutelare l'interesse dedotto in giudizio, sì che non
possa individuarsi alcun giudice titolare del potere di decidere, mentre attiene
soltanto al merito della controversia
ogni questione sull'idoneità di una
norma di diritto a tutelare il concreto interesse affermato dalla parte in
giudizio. 4
A fronte delle tipologie summenzionate, tradizionalmente è stata ritenuta
la separatezza e incomunicabilità tra i vari ordini giurisdizionali.
La rigida compartimentazione aveva indotto la Corte di Cassazione,
quando chiamata a regolare, in sede preventiva oppure impugnatoria, i
rapporti tra il giudice contabile ed altro giudice (ordinario/amministrativo), a
cassare senza rinvio la sentenza che avesse erroneamente ritenuto la
giurisdizione.
L’unica possibilità di trasmigrazione del processo da un giudice all’altro,
pertanto, per lunghissimo tempo è stata quella prevista, con riferimento al
plesso giurisdizionale ordinario ed a proposito della sola “competenza”,
dall’articolo 50 c.p.c.
L’ipotesi interessa, tuttora, le tre forme della competenza: per materia, per
valore e per territorio.
L’indirizzo della Suprema Corte è rimasto monolitico finché, sul finire degli
anni ’90, il legislatore ordinario ha deciso di intervenire in misura molto
incisiva sul riparto di giurisdizione tra i vari ordini giudiziari, specie tra il
giudice ordinario e il giudice amministrativo.
Confortato dai consensi di una parte della dottrina, il legislatore ha
intrapreso un criterio diverso da quello enunciato in Costituzione, divenuto poi
noto sotto il nome di riparto “per blocchi di materie”.
L’inversione concettuale e l’utilizzo di un diverso criterio nel riparto della
giurisdizione, operati, a Costituzione invariata, dalla legislazione “Bassanini”
(in particolare: dal decreto legislativo n. 80/1998), hanno suscitato questioni di
diritto più volte giunte al vaglio della Corte di Cassazione e della Corte
costituzionale, sino alla nota e pluricommentata sentenza n. 204 del 2004, che
ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di varie disposizioni presenti nel
citato decreto n. 80/1998 ed ha ridimensionato drasticamente talune tendenze
espansive nel frattempo manifestate dai giudici amministrativi.
Tutto ciò ha creato non pochi problemi per numerosissime pretese di
tutela che erano state azionate giudizialmente.
Queste, nel succedersi degli altalenanti indirizzi innescatisi sui criteri di
riparto della giurisdizione, hanno corso il rischio, spesso irrimediabilmente
concretizzatosi, di rimanere insoddisfatte tutte le volte in cui l’attore avesse
erroneamente individuato il giudice munito della giurisdizione.
Costituisce un esempio eclatante della stagione delle incertezze quanto è
accaduto in tema di rapporti lavorativi di pubblico impiego oppure di procedure
concorsuali a regime pubblicistico.
4
Per tutte vedi: Cass. SS.UU. ord. n. 17954 del 24.8.2007.
5
Quello descritto è, quindi, da considerare l’antecedente storico entro cui
sono maturate le decisioni n. 4109/2007 della Corte di Cassazione e n.
77/2007 della Corte costituzionale, intervenute ad appena diciotto giorni di
distanza l’una dall’altra.
Entrambe le decisioni, sia pure attraverso argomentazioni motivazionali
diverse e con tratti di distinzione tra di loro, sono giunte in sostanza ad
affermare la necessità che il processo, una volta iniziato e quando si imbatta in
questioni di giurisdizione, similmente a ciò che accade per le questioni di
competenza possa essere trasferito da un giudice all’altro.
La pluralità dei giudici
- pur se confermata dalla Costituzione del 1948
e da essa garantita in ossequio al principio di “specialità” dei giudici stessi non può essere intesa nel senso della totale “separatezza” tra i vari ordini
giudiziari, così diventando un ostacolo o impedimento al rispetto dei principi,
altrettanto presidiati nella Carta costituzionale, dell’effettività della tutela
giudiziaria richiesta dai cittadini e della ragionevole durata del processo.
Il vulnus irragionevole e non giustificabile, del resto, può avvenire tramite
un uso rigido e non costituzionalmente orientato di regole e meccanismi
meramente processuali.
L’uso delle regole rituali, in tal modo, finisce con l’andare ben oltre
l’ambito precettivo delle disposizioni applicate dal giudicante (si ribadisce:
disposizioni meramente processuali) e provoca consistenti limitazioni o
compressioni della tutela sostanziale dei diritti e degli interessi.
Come sovente accade quando intervengono arresti giurisprudenziali che
segnano svolte ermeneutiche di particolare rilievo ordinamentale, il tema della
translatio iudicii ha avuto larga eco nella letteratura specializzata. 5
Più che leggere le due sentenze del 2007 (come pure è accaduto) quali
sintomi indicatori o termometri dello stato del dialogo o della “guerra” tra le
due Corti (Cassazione e Corte costituzionale), ai fini del presente lavoro sembra
utile tornare soffermare l’attenzione su di un elemento oggettivo e non
opinabile, di cui si è fatto cenno.
Si possono citare, tra i molti: Adamo G., La recente giurisprudenza sulla translatio iudicii,
ovvero la determinazione della rotta nell’insufficienza dei punti cospicui, intervento svolto
nell’incontro di studio su La translatio iudicii dopo le recenti pronunce della Corte
Costituzionale e della Cassazione tenutosi a Bari, presso il TAR Puglia, il 20 aprile 2007;
Cipriani F., Riparto di giurisdizione e’ translatio iudicii’, Riv. trim. dir. proc. civ. 2005, 729 ss;
Consolo C. e De Cristofaro M., Evoluzioni processuali fra translatio iudicii e riduzione della
proliferazione dei riti e dei ritualismi, in Corriere giuridico, 2007, 6, 745 ss; Ciaramella A.,
Translatio iudicii, conseguenti attività processuali del PM contabile e possibile ampliamento della
legittimazione ad agire di quest’ultimo, nota a Cass. SS.UU. n. 7446 del 20.3.2008, in Rivista
Corte dei conti, 2008, 2, 317 ss; De Cristofaro M., La giurisdizione e la translatio iudicii, voce
“Giurisdizione civile (Questioni)”, in Il Diritto – Enciclopedia Giuridica, Vol. 7, 77 ss; Giordano
R., Translatio iudicii c.d. orizzontale un tema di giurisdizione: considerazioni de iure condito e de
iure condendo, nota a Trib. Saluzzo 11 novembre 2008, in Giurisprudenza di merito, 2009, 4,
913 ss; Lipari, M. La translatio del processo nel disegno di legge governativo approvato dalla
Camera dei deputati (as-1082): certezze e dubbi, in www.federalismi.it; Meale A. Incompetenza
e translatio iudicii, nota a Cons. Stato n. 3969/2008, in Urbanistica e Appalti, 2009, 1, 85 ss;
Oriani R., Sulla translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice speciale (e viceversa), in Foro it.,
2004, V, 9 ss; Romboli R., Translatio iudicii tra Corte costituzionale e Corte di cassazione: due
sentenze "storiche" sono meglio di una?, in Quaderni costituzionali, 2008, 1, 129 ss; Sandulli
A.M., I recenti interventi della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione sulla traslatio
iudicii, nota alle sentenze n. 4109 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e n. 77 della
Vaccarella R.,
Rilevabilità del difetto di
Corte costituzionale, in www.federalismi.it;
Vittoria P., “Translatio iudicii' e
giurisdizione e translatio iudicii, in www.federalismi.it;
giurisdizione cautelare, in Il giusto processo civile, 2009, 2, 447 ss.
5
6
Fino alla prima metà del 2007 la Cassazione, nella qualità di giudice
regolatore della giurisdizione e quando correggeva le sentenze erroneamente
pronunciatesi in tema di riparto di giurisdizione tra giudici ordinari e speciali,
le cassava senza rinvio.
Di conseguenza l’azione (cioè la richiesta di tutela giudiziaria),
erroneamente attivata davanti ad un giudice sfornito di giurisdizione, crollava
ab initio e restavano inesorabilmente travolte, perché inutiliter datae, tutte le
attività, spesso defatiganti e dispendiose, svolte fino al momento della
pronuncia cassatoria.
E’ arduo il non riscontrare, in siffatta situazione, la stessa fenomenica
patologica che aveva spinto il Chiovenda, molti lustri addietro, ad affermare
che la pluralità delle giurisdizioni non deve mai risolversi in una minore
effettività o addirittura nella vanificazione della tutela giurisdizionale e che,
quindi, dovrebbero essere scongiurate le ritorsioni sull’utenza (il processo “a
danno di chi ha ragione”) degli effetti di un Sistema giurisdizionale che, pur se
saggiamente, ha inteso conservare la pluralità e la distinzione dei giudici.
L’ammonimento dell’antica dottrina era stato lucidamente recepito e
ribadito dalla Corte costituzionale, molti anni prima della novellazione dell’art.
111 della Costituzione avvenuta nel 2001, tramite la considerazione che “Il
giusto processo civile vien celebrato non già per sfociare in pronunce procedurali
che non coinvolgono i rapporti sostanziali delle parti che vi partecipano - siano
esse attori o convenuti - ma per rendere pronuncia di merito rescrivendo chi ha
ragione e chi ha torto: il processo civile deve avere per oggetto la verifica della
sussistenza dell'azione in senso sostanziale di chiovendiana memoria, né deve,
nei limiti del possibile, esaurirsi nella discettazione sui presupposti processuali, e
per evitare che ciò si verifichi si deve adoperare il giudice”. 6
Quella surriferita è tra le intuizioni che meglio colgono l’essenza del
concetto del giusto processo, sempre che, ovviamente, di detto concetto,
valevole anche nei giudizi contabili, si intenda praticare una visione
sostanzialistica e non abbagliata da proclamazioni sterili e puramente teoriche.
Ritornando ai profili tecnico-processuali riguardanti la trasmigrabilità del
processo, l’applicazione della regola della translatio, dapprima elaborata solo
per via pretoria ed oggi disciplinata da una norma esplicita, comporta una
tendenziale assimilazione tra due fenomeni processuali - i vizi di competenza
e i difetti di giurisdizione - che per lungo tempo sono stati invece caratterizzati
da due regimi processuali diversi.
D’ora in avanti, quando in virtù di translatio il processo continua davanti
al giudice munito di giurisdizione, come accade per gli spostamenti dovuti al
riparto della competenza restano in ogni caso salvi “gli effetti formali e
sostanziali” dell’atto introduttivo e il giudice neo-adito a seguito della sentenza
declinatoria resta parzialmente vincolato alla statuizione del giudice
dismettente, a meno che non risollevi egli stesso e d’ufficio, sempre che lo
possa fare, la questione di giurisdizione.
Si potrebbe ventilare la tesi che la nuova disciplina abbia segnato un
passo avanti sulla strada dell’unificazione delle giurisdizioni, facendo tornare
di attualità il notorio e molto contrastato confronto svoltosi nel 1947 e
nell’Assemblea Costituente.
6
Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 220 del 16 ottobre 1986.
7
La tesi, in verità, supera di molto i confini del tema di cui deve occuparsi
la presente relazione e meriterebbe approfondimenti di teoria generale non
effettuabili in questa sede.
Viceversa, sembra essere non confutabile la constatazione, avente una
portata istituzionale meno impegnativa, che con l’entrata in vigore dell’art. 59
della legge n. 69/2009 si assiste ad una dequotazione o, se si preferisce, ad un
parziale tramonto:
• del rigore del principio secondo il quale ogni giudice è giudice della propria
giurisdizione (principio della cd. “kompetenz-kompetenz”, espressivo del fatto
che ciascun giudice decide liberamente sui presupposti processuali attinenti al
processo instaurato dinanzi a lui e le relative decisioni non possono in alcun
modo vincolare gli altri giudici dinanzi ai quali sia instaurato un nuovo identico
processo), dovendosi invece seguire l’opposto principio del codice di procedura
civile (art. 44) stabilito in materia di difetto di competenza;
• della severa compartimentazione tra le giurisdizioni (ordinaria e speciali),
le quali invece divengono non più incomunicabili come per il passato;
• della netta contrapposizione tra il regime processuale concernente la
“declinatoria di competenza” e quello concernente la “declinatoria di
giurisdizione”, i quali invece produrranno d’ora in avanti conseguenze simili
tra di loro, anche se non identiche.
3. Il monito recepito dal legislatore.
Tra gli antecedenti storici della nuova norma, come accennato, figura
l’avvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 30 della legge 6
dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali),
nella parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti
dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito
di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice
munito di giurisdizione.
La sentenza Corte cost. n. 77/2007 che ha pronunziato la declaratoria pur affermando, in ossequio al self-restraint solitamente seguito nelle decisioni
della Consulta, che “Il rispetto dei confini del proprio ruolo nell'ordinamento
impone a questa Corte di limitarsi a dichiarare l'illegittimità costituzionale della
norma censurata nella parte in cui non prevede la conservazione degli effetti
della domanda nel processo proseguito, a seguito di declinatoria di giurisdizione,
davanti al giudice munito di giurisdizione, ispirandosi essa, viceversa, al
principio per cui la declinatoria della giurisdizione comporta l'esigenza di
instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti sostanziali e processuali
prodotti dalla domanda originariamente proposta si conservino nel nuovo
giudizio; principio questo che, non formulato espressamente in una o più
disposizioni di legge ma presupposto dall'intero sistema dei rapporti tra giudice
ordinario e giudici speciali e tra i giudici speciali, deve essere espunto, come tale,
dall'ordinamento - ha lanciato un chiarissimo invito o monito rivolto al
legislatore ordinario. 7
Sui “moniti” tramite i quali la Corte costituzionale dà suggerimenti al legislatore circa il
modo di disciplinare una determinata materia in conformità alla Costituzione si vedano:
Martines T., Dirtto Costituzionale, Giuffrè, Milano, 1988, p. 596; Paladin L., Diritto
costituzionale, Cedam, Padova, 1998, pp. 776 ss.
7
8
Infatti, in un passo della pronuncia significativamente si legge: “La
disciplina legislativa che, con l'urgenza richiesta dall'esigenza di colmare una
lacuna dell'ordinamento processuale, verrà emanata, sarà vincolata solo nel
senso che essa dovrà dare attuazione al principio della conservazione degli
effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo
di giurisdizione nel giudizio ritualmente riattivato – a seguito di declinatoria di
giurisdizione – davanti al giudice che ne è munito”.
L’invito della Consulta, pressante e vincolante esclusivamente circa la
regolazione normativa da conferire al meccanismo di conservazione degli effetti
della domanda nel “giudizio riattivato”, a distanza di due anni viene accolto
dalla legge n. 69/2009 attraverso l’art. 59 in esame.
E’ possibile valutare fino a che punto il legislatore abbia voluto e saputo
accogliere l’invito, traducendolo in disciplina normativa capace di rispettare il
vincolo di mandato ricevuto dal Giudice delle leggi.
Si può cominciare con il notare che il principio di conservazione degli
effetti sostanziali e processuali della domanda introduttiva proposta
erroneamente al giudice sfornito di giurisdizione risulta essere stato dettato
dalla norma, attraverso un’apposita ed espressa clausola di salvezza (nel
comma 2).
Sennonché, immediatamente dopo avere enunciato la salvaguardia, il
legislatore ha aggiunto un periodo che recita: “ferme restando le preclusioni e
le decadenze intervenute”.
Proseguendo nel periodare, ha statuito che “la domanda si ripropone con le
modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in
relazione al rito applicabile”.
Infine, nel terzo comma, il legislatore ha sancito che, quando sulla
giurisdizione non si siano già pronunciate le Sezioni Unite :
• il giudice ricevente può sollevare d’ufficio, con ordinanza, un regolamento di
giurisdizione
• restano ferme le disposizioni sul regolamento preventivo di giurisdizione.
Queste frasi ed espressioni testuali sono quelle che hanno destato le più
forti perplessità tra i primi commentatori, suscitando il sospetto che l’art. 59
abbia adoperato un lessico impreciso e fuorviante.
Il testo sarebbe capace di alimentare equivoci, incertezze ed oscillazioni
nell’applicazione giurisprudenziale, lasciando di fatto tradita la finalità
ordinamentale che è alla base della trasmigrazione dei processi, sia quanto
alla durata ragionevole, sia quanto all’effettività ed efficienza della tutela da
garantire al cittadino che domandi giustizia.
Nel prosieguo della trattazione saranno messi in risalto gli aspetti cruciali
della nuova disciplina, affinché ciascuno abbia occasione di verificare, in piena
autonomia valutativa, sino a che punto i sospetti insorti nella letteratura
specializzata possano dirsi basati su argomentazioni convincenti e condivisibili
in punto di diritto.
4. Due “direzioni” nella trasmigrazione del processo.
L’impianto strutturale dell’articolo 59, per quanto possa reputarsi
impreciso e perfettibile, indiscutibilmente permette di identificare due distinte
9
“direzioni” o sensi di marcia secondo cui può avvenire la traslazione del
processo.
In una prima ipotesi
- che per comodità illustrativa propongo di
denominare translatio “attiva” o “in uscita” - il processo, pendente
innanzi ad un qualsiasi giudice, ordinario o speciale, si sposta a seguito di una
decisione assunta dal giudice stesso, che si reputa erroneamente adito in
quanto privo di giurisdizione.
In questo caso, come già accadeva in passato, il giudice erroneamente
adito declina in negativo la propria giurisdizione, con sentenza, anche solo
parziale (art. 279, n. 1 c.p.c.).
La vera novità consiste nel fatto che, nella sentenza declinatoria, il giudice
ha ora l’obbligo di indicare in positivo, se esistente, il diverso giudice che egli
ritiene munito di giurisdizione.
L’innovazione valorizza fortemente la funzione giudicante, anche se le
attribuisce l’onere di una statuizione esigente particolare ponderazione.
E’ notorio che la giurisdizione si determina in base al cd. petitum
sostanziale, il quale prescinde dalla formale prospettazione delle parti.
La sentenza declinatoria, una volta che sia acclarato con esattezza il
petitum sostanziale, dovrà farsi carico di individuare ed indicare il giudice che
l’ordinamento giuridico chiama a pronunciarsi sulla richiesta di tutela.
In questa prospettiva, la sentenza declinatoria assume i caratteri di una
decisione determinativa o affermativa della giurisdizione intestata ad altro
giudice.
Qualora, invece, mancasse del tutto nell’ordinamento un giudice munito
di potestà cognitiva esercitabile sulla domanda azionata in giudizio, la
decisione dovrà accertare e pronunciare l’esistenza del difetto assoluto di
giurisdizione. Il che la renderà eventualmente ricorribile per Cassazione.
Il giudice dismettente, nel contempo, non deve in alcun modo
pronunciarsi sulle modalità e sui termini della riassunzione, né sugli effetti “di
conservazione”, in quanto profili sanciti e regolati per legge.
Non sarà più consentito al giudice, piuttosto, a fronte di una domanda
giudiziale per la quale difetti la propria giurisdizione, adottare semplicistiche e
generiche declaratorie di
“inammissibilità” o di
“irricevibilità” della
domanda stessa.
La seconda ipotesi da esaminare può essere denominata translatio
“passiva” o “in ingresso”.
In questo caso, l’attenzione esegetica deve spostarsi sul giudice per così
dire “ricevente”.
La norma stabilisce che, entro tre mesi dal passaggio in giudicato della
sentenza declinatoria, le parti devono riproporre la domanda al giudice
individuato come munito di giurisdizione, a pena di estinzione del processo.
Il giudice ricevente si troverà, perciò, al cospetto:
• di una sentenza emessa da altro giudice, che lo ha individuato quale
autorità munita della giurisdizione
• di una domanda riproposta dalla parte che, all’origine, aveva erroneamente
adito il giudice privo di giurisdizione
• di una documentazione processuale, con corredo probatorio eventualmente
già assunto nel giudizio poi arrestatosi per difettosità della giurisdizione
Naturalmente occorre tenere a mente che si iscrive nell’ipotesi della
translatio in ingresso anche il caso della pronuncia resa dalla Corte di
Cassazione in sede di regolamento preventivo o di impugnazione, quando la
10
potestà cognitiva venga dalla Suprema Corte accertata come spettante a
giudice diverso e, dunque, venga “spostata” da un giudice all’altro.
Concentrando l’attenzione sulla situazione processuale che appare al
cospetto del giudice ricevente, si può notare in generale quanto segue.
Relativamente alla sentenza, il giudice ricevente resta definitivamente
vincolato all’individuazione della giurisdizione :
• quando si tratti di una sentenza resa dalla Corte di Cassazione su questione
di giurisdizione ed a Sezioni Unite
• quando, in assenza di una precedente pronuncia della Cassazione sulla
giurisdizione con efficacia pan-processuale, egli stesso non ritenga di sollevare
d’ufficio, con ordinanza ed entro e non oltre l’udienza di trattazione, un
regolamento di giurisdizione innanzi le Sezioni Unite della Cassazione.
Questa seconda evenienza è molto simile a ciò che accade nel caso del
conflitto di competenza.
In sostanza, la decisione sulla giurisdizione presa dal giudice dismettente
può dirsi solo parzialmente vincolante per il giudice ricevente, perché questi
conserva, nella propria autonomia decidente e con un solo limite (la
preesistenza di regolazione con effetti pan-processuali), la facoltà di
promuovere un regolamento d’ufficio sulla giurisdizione.
Relativamente alla domanda di parte, il giudice ricevente dovrà prima di
tutto constatare che sia stato rispettato il termine per la riassunzione.
A tal proposito, la legge stabilisce il termine perentorio per riassumere (tre
mesi), che decorre dal passaggio in giudicato della sentenza che ha determinato
la translatio (art. 59, comma 2, legge n. 69/2009).
Inoltre, il giudice ricevente dovrà verificare:
• che la domanda in riassunzione sia stata riproposta “con le modalità e
secondo le forme” previste per il giudizio innanzi a sé
• che non siano già intervenute “preclusioni o decadenze”
Se la verifica avrà esito positivo, potranno dirsi fatti salvi “gli effetti
sostanziali e processuali della domanda” iniziale e le prove raccolte nel processo
svoltosi innanzi al giudice privo di giurisdizione potranno essere valutate
“come argomenti di prova”.
5. Problematiche in evidenza.
Senza dover ripetere le previsioni testuali di legge, tutte esposte nel
precedente paragrafo, è possibile analizzare alcune problematiche che la
disciplina normativa mette in risalto.
Nel fare ciò, sia ben chiaro, occorre considerare che la statuizione di legge,
come sempre e per sua natura, è schematica ed astratta e si limita a stabilire le
coordinate disciplinatrici di fondo dell’istituto processuale.
Nell’applicazione concreta, perciò, in ciascun processo potrà insorgere una
varietà di situazioni e di questioni non tutte prevedibili a priori, ciascuna delle
quali non potrà che essere affrontata e risolta dal giudice ricevente o “ad
quem”.
In primo luogo, a proposito del termine per la riassunzione, sembra
essere chiara la natura perentoria del medesimo, fissato dalla legge a pena di
estinzione del processo.
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Una parte della dottrina ha manifestato dubbi in ordine al dies a quo,
osservando che il termine di tre mesi vien fatto decorrere dal passaggio in
giudicato della sentenza determinativa della giurisdizione, il che lascerebbe
immaginare l’impossibilità di riassumere il processo prima di tale momento.
In realtà, nulla nel testo di legge autorizza ad accedere a siffatta tesi.
Né si comprende per quale ragione oppure in virtù di quale altra
disposizione una riassunzione per così dire “prematura” o precoce dovrebbe
considerarsi impedita.
Piuttosto, è da notare che nel caso di trasmigrazione del processo a
seguito di pronuncia regolatrice della Corte di Cassazione, il termine dovrà
necessariamente essere computato dalla “comunicazione” della sentenza (ai
sensi dell’art. 367, comma 2, c.p.c.), piuttosto che dal passaggio in giudicato
della medesima.
Diverso problema è quello degli effetti del “passaggio in giudicato” della
sentenza declinatoria: di ciò si discuterà in prosieguo, a proposito della
problematica concernente
l’esperibilità di un regolamento preventivo di
giurisdizione.
Altro dubbio dottrinario investe la composizione della Cassazione (a
Sezioni Unite), indicata dalla norma a proposito di sentenza già pronunciatasi
sulla questione di giurisdizione.
Orbene, la sentenza regolatrice di giurisdizione resa dalla Cassazione
assume notoriamente l’efficacia “panprocessuale” o “extraprocessuale”, quale
effetto confermato dall’art. 59 in esame, che le attribuisce carattere vincolante
per il giudice ricevente.
Il dubbio si basa sulla circostanza, a dire dei critici, che la Cassazione può
pronunciarsi sulla giurisdizione anche a Sezioni semplici.
Ebbene, la pronuncia a Sezioni semplici riguarda i casi previsti dall’art.
360, n. 1, c.p.c., mentre la translatio riguarda i rapporti tra giudici ordinari e
giudici speciali (segnatamente: Consiglio di Stato e Corte dei conti).
Quanto alle decisioni sulla giurisdizione dei giudici speciali, l’art. 374,
comma 1, c.p.c., come novellato dal d. lgs. 2 febbraio 1996, n. 40, statuisce che
la pronuncia regolatrice di giurisdizione, dotata di efficacia panprocessuale,
viene sempre e solo assunta a Sezioni Unite.
Circa la forma che deve rivestire la domanda in riassunzione, la legge 69
ha precisato che essa debba essere formulata “con le modalità e secondo le
forme” previste per il giudizio che si svolge innanzi al giudice ricevente.
La precisazione, quanto mai opportuna, consente di risolvere taluni dubbi
che si erano affacciati per il processo contabile.
Pertanto, la domanda azionata innanzi la Corte dei conti a seguito di
translatio dovrà essere:
• una citazione ad iniziativa del Pubblico Ministero
• preceduta dall’invito a dedurre e dall’audizione personale (ove richiesta dal
presunto responsabile)
• depositata in Sezione e notificata in uno con il decreto di fissazione
dell’udienza
La ristrettezza dei tempi (tre mesi, entro i quali va emesso l’invito a
dedurre, con concessione di trenta giorni per le deduzioni, e va depositata la
citazione), sicuramente inferiori a quelli ordinari (citazione da depositare
entro 120 giorni dalla scadenza del termine concesso per le giustificazioni) può
essere annotata
come difficoltà operativa che meritava forse migliore
attenzione da parte del legislatore, ma non può certo essere invocata come
12
ragione giustificatrice di inosservanze del termine, perentorio e sanzionato
pesantemente con l’estinzione del processo.
Circa le preclusioni, sembra evidente che debba trattarsi di ipotesi
concernenti il regime processuale previsto per il giudizio “di destinazione” e in
prosecuzione, non per quello di provenienza.
Sotto questo angolo di visuale, la dottrina forse è giustamente critica
circa l’uso del vocabolo “preclusioni”, il quale solitamente riguarda le
preclusioni cosiddette endo-processuali e, quindi, attiene a ciascun processo
secondo il regime suo proprio.
le quali
Più chiaro e pacifico è il discorso
circa le decadenze,
ineriscono alla domanda giudiziale e, quindi, riguardano direttamente ed
unicamente il processo “di destinazione” o in prosecuzione, nel quale dovrà
essere fornita la tutela giudiziale chiesta tramite detta domanda.
Nel caso di un processo amministrativo di tipo impugnatorio, ad esempio,
non sarà possibile ottenere la tutela dal giudice amministrativo adito in
translatio quando la domanda iniziale, presentata al giudice privo di
giurisdizione, a suo tempo sia stata proposta tardivamente, cioè oltre il termine
di decadenza di cui all’articolo 21 della legge TAR, con atto notificato nei
sessanta giorni dalla conoscenza del provvedimento impugnato.
La ratio della menzionata regola sembra evidente : evitare che, attraverso
la translatio, restino surrettiziamente aggirati o elusi i termini per ricorrere al
giudice effettivamente munito di giurisdizione.
Relativamente al corredo probatorio eventualmente già allestito nel
processo di provenienza, sembra essere più che ragionevole la previsione di
legge, la quale attribuisce al materiale processuale assunto nel processo di
provenienza il solo valore, nell’ambito del processo di destinazione, assentibile
agli “argomenti di prova” e non quello delle prove in senso stretto e ad ogni
effetto.
Trattasi di una disposizione rispettosa dell’autonomia tra i processi e,
vieppiù, dei diversificati regimi regolativi secondo i quali, presso ciascun
giudice, si compie e si realizza l’ammissibilità dei “mezzi di prova”, nonché
l’acquisizione e la formazione delle “prove”.
D’altronde, se si presta attenzione al processo contabile (e non solo),
anche al di fuori delle ipotesi di translatio ed anche prima della legge n.
69/2009, le prove raccolte in un diverso processo avente ad oggetto gli stessi
fatti potevano essere validamente adoperate quale “argomento” ed utilizzate ai
fini della formazione del libero convincimento del giudice, in virtù del principio
di economia dei mezzi processuali.
Una problematica non frequente, ma pur sempre possibile, riguarda il
caso in cui nel processo di provenienza siano state eventualmente adottate
misure cautelari.
In questo caso, il problema non è tanto quello della conservazione della
misura, che non sembra trovare ostacoli insormontabili nel dettato della legge
n. 69/2009, né quello della natura declinatoria della sentenza (che non ha
respinto la domanda nel merito e, dunque, non ha provocato la caducazione di
efficacia della misura), quanto piuttosto quello della specifica tipologia di
provvedimento interinale eventualmente adottato dal giudice che ha declinato
la sua giurisdizione.
Sarà, infatti, indispensabile a fini conservativi che si tratti di una misura
cautelare normativamente ammessa nel giudizio in prosecuzione, che si svolge
innanzi al giudice ricevente.
13
Quale ultima riflessione, si può soffermare l’attenzione sulla statuizione
dettata al comma 3 dell’art. 59 in esame, lì dove la legge del 2009 enuncia che
“restano ferme le disposizioni sul regolamento preventivo di giurisdizione”.
La frase reca un palese riferimento al regolamento preventivo esperibile
ex art. 41 c.p.c.
Una parte della dottrina 8 ha osservato che detto regolamento, secondo
una giurisprudenza modificatasi nel tempo, ma ormai consolidata della
Suprema Corte, non può essere più promosso quando sia intervenuta una
pronuncia, quale che sia ed anche soltanto in rito, da parte del giudice adito.
In questi casi, l’esistenza di una qualsiasi sentenza (non solo nel merito)
già pronunciata dal giudice adito ha sinora indotto la Cassazione a dichiarare
inammissibile il regolamento preventivo proposto ex art. 41 c.p.c..
La svolta interpretativa della Cassazione cui accenna la dottrina risale,
come è noto, alla decisione delle SS.UU. n. 2466 del 1996, nella quale è stato
affermato che in seguito alla nuova formulazione dell'art. 367 c.p.c., introdotta
dalla legge 26 novembre 1990 n. 353, il disposto della prima parte dell'art. 41
c.p.c. civ. deve essere interpretato nel senso che qualsiasi decisione emanata
dal giudice presso il quale il processo è radicato ha efficacia preclusiva del
regolamento preventivo di giurisdizione; di conseguenza il regolamento non è
proponibile dopo che il giudice del merito abbia emesso una sentenza, anche
soltanto limitata alla giurisdizione o ad altra questione processuale, atteso che
la risoluzione della questione di giurisdizione può essere rimessa al giudice
processualmente sovraordinato, secondo l'ordinario svolgimento del processo.
A fronte della declinatoria di giurisdizione adottata dal giudice ordinario o
amministrativo e che determini la translatio “in ingresso” innanzi la Corte dei
conti, ad esempio, il convenuto, stando alla menzionata giurisprudenza della
Corte di Cassazione, non potrebbe più proporre il regolamento preventivo.
La tesi dottrinaria appare scarsamente convincente.
Non si può ignorare, infatti, che la Corte di Cassazione, fermo restando il
precitato indirizzo interpretativo sulla inammissibilità del regolamento
preventivo quando sia stata pronunciata una qualsiasi sentenza, ha anche
chiarito che la preclusione alla proposizione del regolamento preventivo, dopo
che il giudice di merito abbia emesso una sentenza anche soltanto limitata alla
giurisdizione, opera con esclusivo riferimento al regolamento proposto
nell'ambito del medesimo processo, non anche nel caso in cui esso venga
richiesto nel corso di giudizio successivamente instaurato innanzi a diverso
giudice a seguito di precedente declinatoria di giurisdizione (cfr. SS.UU., ordd.
n. 1141 del 2007 e n. 5917 del 2008).
Passando alla situazione che riguarda il giudice contabile ricevente, egli
sarà sicuramente vincolato all’avvenuta determinazione della giurisdizione da
parte del giudice dismettente, sempre che non proponga il regolamento di
ufficio, con ordinanza.
Ad avviso della già indicata dottrina, la decisione di primo grado assunta
dal giudice ricevente potrebbe essere sempre appellata, deducendosi il difetto
di giurisdizione. Analogamente, la decisione resa in appello e confermativa
della giurisdizione potrebbe essere poi impugnata per Cassazione.
Tutto ciò provocherebbe conseguenze paradossali, allungando a dismisura
i tempi processuali.
8
Consolo C., cit. pag. 888
14
I sospetti dottrinari, che prefigurano situazioni processuali quasi
kafkiane, meritano di essere analizzati facendo riferimento esclusivo al
versante che interessa la Corte dei conti.
Ebbene, una lettura esegetica attenta e rigorosa del testo di legge può sin
d’ora fugare i dubbi sulle conseguenze nefaste summenzionate.
Il comma 2 dell’art. 59 stabilisce che, quando la domanda è riproposta
innanzi al giudice individuato come munito di giurisdizione, le parti “restano
vincolate” a tale individuazione; poco dopo, nello stesso testo dell’art. 59, il
comma 3 mantiene ferma la facoltà di proporre un regolamento preventivo di
giurisdizione.
Dal combinato delle due disposizioni sembra potersi desumere, in via
sistematica che:
• l’attore (il PM contabile), riassumendo innanzi al giudice ad quem e facendo
per ciò stesso acquiescenza alla sentenza declinatoria che ha individuato il
giudice munito di giurisdizione, non avrà un interesse giuridico tutelato ad una
diversa regolazione della giurisdizione
• per il convenuto, il regolamento preventivo di giurisdizione, se non preesiste
una pronuncia regolatrice della Cassazione, sarà sempre ammesso nei casi di
cui all’art. 59, commi 2 e 3, della legge n. 69/2009.
In altre parole, il convenuto vocato in jus innanzi la Corte dei conti a
seguito di translatio o decide, se lo può fare, di proporre il regolamento
preventivo di giurisdizione oppure resterà definitivamente vincolato
all’avvenuta individuazione della Corte dei conti quale giudice munito di
giurisdizione.
L’esplicita disposizione dettata nel terzo comma, ultimo periodo, dell’art.
59 afferma che “restano ferme” le disposizioni sul regolamento preventivo.
A detto richiamo, quindi, non può essere attribuito alcun altro significato
ragionevole che quello della proponibilità del regolamento preventivo
nell’ambito del giudizio in prosecuzione davanti al giudice ricevente, salvo
unicamente il caso che preesista una pronuncia cassatoria fornita di efficacia
panprocessuale.
E’ astrattamente possibile che il convenuto, nei fatti, decida di limitarsi a
contestare nel giudizio in prosecuzione la giurisdizione del giudice ricevente e
ad attendere la sentenza di primo grado, per poi impugnarla deducendo in
gravame il motivo del difetto di giurisdizione.
In questo caso, però, il giudice di appello dovrà applicare la regola del
“giudicato implicito”, già formatosi a seguito della sentenza che ha disposto la
translatio e che è passata in giudicato senza che sia stata posta, tramite un
regolamento preventivo ex art. 59 della legge n. 69/2009, la questione di
giurisdizione.
A mio parere, quella sin qui esposta potrebbe essere la lettura puntuale,
corretta e costituzionalmente orientata della norma.
Siffatta lettura consentirà, ad esempio, al Procuratore Generale di
invocare sia l’inammissibilità di motivo di appello dedotto in punto di
giurisdizione, sia l’inammissibilità di un’impugnazione cassatoria per motivi di
giurisdizione che fosse proposta a distanza di anni e soltanto dopo che sia
stata pronunciata la sentenza definitiva di appello.
15
6. Prime applicazioni nei processi contabili.
Si è già fatto notare che il varo della norma sulla trasmigrazione dei
processi, come accade per quasi tutte le novelle in materia processuale, più
che anticipare una soluzione originale e liberamente concepita in sede politicoparlamentare, il legislatore tiene dietro ad intuizioni innovative già maturate
nella giurisprudenza, le recepisce in tutto o in parte e le codifica.
Conferma di ciò si trae da una circostanza temporale: se ci si limita alla
sola giurisdizione contabile, si può osservare che prima del 4 luglio 2009 (data
di entrata in vigore della norma) risultano pubblicate tre decisioni che hanno
fatto applicazione del principio della translatio già elaborato in sede cassatoria.
Una prima decisione (Cass. SS.UU. n. 7446/2008, rel. Segreto), resa su
regolamento preventivo proposto ex art. 41 c.p.c., ha riguardato un’’azione di
risarcimento per danni nei confronti di un progettista di opera pubblica,
avviata dall’ente locale appaltante innanzi al giudice civile.
La Cassazione ha ritenuto la giurisdizione contabile ed ha rimesso le parti
innanzi al giudice contabile.
La decisione osserva che la translatio opera sia nel caso di ricorso
ordinario ex art. 360 c.p.c., n. 1 (inizialmente previsto per il solo giudizio
ordinario e poi esteso ex art. 111 Cost., a tutte le decisioni, assumendo la veste
di ricorso per contestare innanzi alle sezioni unite la giurisdizione del giudice
che ha emesso la sentenza impugnata), sia nel caso del regolamento preventivo
di giurisdizione proponibile innanzi al giudice ordinario, ma anche innanzi al
giudice amministrativo, contabile o tributario.
In tal modo si consente al processo, iniziato erroneamente davanti ad un
giudice che difetti della giurisdizione, di poter continuare - così com'è iniziato davanti al giudice effettivamente dotato di giurisdizione, onde dar luogo ad una
pronuncia di merito che concluda la controversia processuale, comunque
iniziata, e realizzi pertanto in modo più sollecito ed efficiente il servizio
giustizia, di rilevanza costituzionale.
Una seconda decisione (Cass. SS.UU. n. 22652 del 2008, rel. Toffoli), resa
in sede impugnatoria avverso sentenza di giudice ordinario in appello, ha
riguardato l’azione di risarcimento danni promossa in sede civile da una USL
nei confronti di medico privo di titolo professionale abilitante (cd. medico
putativo).
La Cassazione ha dichiarato la giurisdizione della Corte dei conti, cui ha
rimesso la causa.
La terza sentenza (Corte dei conti, Sez. I, n. 399 del 12 giugno 2009, rel.
Di Passio) integra la diversa ipotesi di una trasmigrazione “in uscita”, disposta
per declinatoria dal giudice erroneamente adito.
La fattispecie sostanziale riguardava un giudizio ad istanza di parte
promosso da banca concessionaria di riscossione, che aveva subito un fermo
amministrativo.
A fronte del difetto di giurisdizione contabile dichiarato in primo grado, la
banca concessionaria aveva appellato e chiesto, in subordine, la translatio e la
rimessione innanzi al giudice competente.
La Prima Sezione centrale della Corte dei conti, rigettando l’appello e
confermando la sentenza di prime cure, ha :
• confermato la declinatoria della giurisdizione contabile
• rimesso la parte privata innanzi al giudice ritenuto munito di
“giurisdizione” (il giudice amministrativo)
16
• determinato, nel contempo, anche il giudice munito di “competenza”
territoriale (il TAR del Lazio).
Tra le statuizioni rese dalla Sezione giudicante desta qualche perplessità,
in stretto punto di diritto, la terza ed ultima.
Alla stregua sia delle pregresse elaborazioni giurisprudenziali concernenti
il principio della translatio, sia e vieppiù della regola ora esplicitamente dettata
dall’art. 59 della legge n. 69/2009, il giudice erroneamente adito e che declini
la propria giurisdizione deve sì dichiarare il difetto della potestà giudicante ed
indicare altresì, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di
giurisdizione.
Tuttavia - a meno di voler superare la distinzione tra il difetto di
giurisdizione e il difetto di competenza, nonché tra la translatio e la regola
dettata dall’art. 382, comma 1, c.p.c. unicamente per le pronunce che rende la
Corte di Cassazione - il giudice ordinario o speciale che dismetta la propria
giurisdizione non può indicare il diverso giudice che egli ritenga essere munito
anche della “competenza”, non essendo a ciò abilitato dalla legge.
17
APPENDICE DI GIURISPRUDENZA
Sezioni Unite , Sentenza n. 4109 del 2007
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE Vincenzo - Presidente aggiunto Dott. CORONA Rafaele - Presidente di sezione Dott. VELLA Antonio - Presidente di sezione Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio - Consigliere Dott. MORELLI Mario Rosario - Consigliere Dott. GRAZIADEI Giulio - Consigliere Dott. TRIFONE Francesco - rel. Consigliere Dott. MERONE Antonio - Consigliere Dott. BONOMO Massimo - Consigliere ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
GOLF VACANZE S.P.A., in persona del Presidente del Consiglio d'amministrazione pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAPRANICA 95, presso lo studio dell'avvocato
MASTELLONI UGO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato MURDOLO GIUSEPPE,
giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrente contro
COMUNE DI OPERA;
- intimato avverso la decisione n. 8083/04 del Consiglio di Stato di ROMA, depositata il 16/12/04;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/06/06 dal Consigliere Dott. Francesco
TRIFONE;
udito l'Avvocato Giuseppe MURDOLO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARTONE Antonio, che ha concluso
per l'accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il comune di Opera, proprietario di un campo da golf con annessa club house, con deliberazione
consiliare all'esito di gara pubblica ne assegnava la gestione per nove anni alla società S. Inter-Sviluppo
Internazionale s.r.l..
La concessione alla scadenza era rinnovata per uguale durata e la società Golf Vacanze s.p.a., nella quale
si era trasformata la società concessionaria, con ricorso notificato il giorno 11 marzo 1997 adiva il
Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia, cui chiedeva che il Comune fosse condannato al
rimborso delle spese sostenute per la manutenzione straordinaria dell'impianto sportivo, cui l'ente
proprietario non aveva provveduto, al risarcimento di danni nonché alla rimozione di un'insegna abusiva
installata sull'edificio adibito a club house.
Il tribunale amministrativo, ritenuta la giurisdizione del giudice amministrativo, accoglieva il ricorso
quanto alla domanda di rimborso delle spese di manutenzione straordinaria e lo rigettava per le pretese
relative al risarcimento dei danni ed alla rimozione dell'insegna.
Il Consiglio di Stato, sull'appello del Comune soccombente, con sentenza pubblicata il 16 dicembre 2004
annullava senza rinvio la decisione di primo grado, ritenendo che la controversia, nella parte relativa al
rimborso delle spese effettuate dal concessionario per la manutenzione straordinaria, comprese quelle
relative all'edificio della club house, rientrava nella giurisdizione del giudice ordinario.
Il giudice d'appello, premesso che d'ufficio avrebbe potuto riesaminare la questione di giurisdizione,
considerava che si trattava di controversia riguardante l'esistenza e l'adempimento di obbligazione
pecuniaria, avente ad oggetto il corrispettivo dei lavori di straordinaria manutenzione eseguiti dalla
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società concessionaria, per cui, in applicazione della disciplina che in tema di concessione-contratto
riserva al giudice ordinario la cognizione delle questioni relative a "canoni, indennità ed altri
corrispettivi", riteneva che essa rientrasse nella giurisdizione del medesimo giudice ordinario.
Rilevava, inoltre, che non poteva essere condivisa la conclusione del giudice di primo grado - secondo cui
l'esame della questione controversa, comportando lo scrutinio del provvedimento concessorio al fine di
desumerne i rispettivi obblighi, spettava al giudice amministrativo - poiché anche nelle liti attinenti a
"canoni, indennità ed altri corrispettivi" deve, comunque, procedersi all'interpretazione dell'atto di
concessione e dell'eventuale disciplinare.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società Golf Vacanze s.p.a., che ha affidato
l'accoglimento dell'impugnazione ad un unico motivo. Non ha svolto difese l'intimato Comune di Opera.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l'unico mezzo d'impugnazione - deducendo la violazione e la falsa applicazione della norma di cui
alla L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 5 e l'erronea dichiarazione del difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 1 e art. 362 c.p.c., comma 1 - la società ricorrente
premette che avverso la sentenza di primo grado dei Tribunale Amministrativo Regionale della
Lombardia, sul punto relativo alla questione di giurisdizione, il comune di Opera non aveva proposto
impugnazione, per cui in ordine alla ritenuta giurisdizione del giudice amministrativo si era formato il
giudicato.
Denuncia, comunque, che la decisione del Consiglio di Stato sulla giurisdizione sarebbe errata, in quanto,
facendo parte gli impianti sportivi del patrimonio indisponibile del Comune e potendosene trasferire la
disponibilità ai privati solo mediante concessione amministrativa (che assume la configurazione dell'atto
complesso della concessione-contratto e non quella della locazione), tutte le controversie insorgenti da
tale rapporto sarebbero devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi della L. n. 1034
del 1971, art. 5, comma 5, pur quando la domanda sia diretta a conseguire la condanna della pubblica
amministrazione concedente al risarcimento dei danni derivati dal mancato adempimento di determinati
obblighi imposti dalla convenzione.
Il motivo è fondato.
È pacifica nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite (da ultimo;Cass., sez. un., n. 7039/2006; Cass.,
sez. un., n. 1327/2000; Cass., sez. un., n. 36/99; Cass., sez. un., n. 850/98) la regola di diritto secondo lei
quale, dal coordinamento dei principi sulla rilevabilità d'ufficio del difetto di giurisdizione con quelli che
disciplinano il sistema delle impugnazioni, deriva che, ove il giudice di primo grado abbia espressamente
statuito sulla giurisdizione, il riesame della questione da parte del giudice di secondo grado postula che
essa sia stata riproposta con il mezzo di gravame, ostandovi, altrimenti, la formazione del giudicato
interno.
È stato, pertanto, espressamente stabilito (Cass., sez. un., n. 411/87) che qualora il tribunale
amministrativo regionale abbia espressamente e positivamente statuito sulla propria giurisdizione,
provvedendo poi sul ricorso, la mancata riproposizione, in sede di appello davanti al Consiglio di Stato,
della relativa questione determina la formazione del giudicato interno sulla giurisdizione. L'inosservanza
di tale preclusione da parte del Consiglio di Stato, che ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo pur in assenza d'impugnazione sulla statuizione del Tribunale Amministrativo Regionale
della Lombardia espressamente affermativa della sua giurisdizione, comporta che, vertendosi in tema di
violazione attinente ai limiti esterni della potestas decidendi (nella specie oggetto di specifico mezzo
d'impugnazione per cassazione, ma, comunque, rilevabile ex officio in questa sede) e ritenuto che sulla
giurisdizione del giudice amministrativo sussiste;il giudicato interno, la impugnata sentenza deve essere
cassata con rinvio per nuovo esame al Consiglio di Stato.
La pronuncia di cassazione con rinvio al giudice amministrativo costituisce statuizione con la quale
queste Sezioni Unite ritengono di dovere modificare il precedente risalente orientamento, secondo cui la
decisione del giudice ordinario o del giudice speciale, con la quale viene dichiarato il difetto di
giurisdizione, non consente che il processo possa continuare dinanzi al giudice fornito di giurisdizione.
L'ius receptum (ex plurimis: Cass., sez. un., n. 7039/2006; Cass., sez. un., n. 19218/2003; Cass., sez. un.,
n. 17934/2003; Cass., sez. un., n. 8089/2002; Cass., sez. un., n. 7099/2002; Cass., sez. un., n. 6041/2002;
Cass., sez. un., n. 2091/2002; Cass., sez. un., n. 14266/2001; Cass., sez. un., n. 1146/2000; Cass., sez. un.,
n. 1166/94; Cass., sez. un., n. 10998/93) sul tema considera che la translatio iudicii dal giudice ordinario
al giudice speciale (e viceversa) presuppone necessariamente l'unicità della giurisdizione, nel cui ambito
il rapporto processuale viene considerato regolarmente costituito sia pure innanzi al giudice incompetente,
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con la conseguenza che, una volta riassunta la causa davanti a quello competente, risultano salvi tutti gli
atti in precedenza proposti. Nel caso, invece, di domanda proposta innanzi ad un giudice privo di
giurisdizione, non è possibile la riassunzione dinanzi al giudice - amministrativo o speciale - fornito di
tale giurisdizione, mentre lo è se il giudice fornito di giurisdizione è il giudice ordinario. La
giustificazione di tale orientamento ha continuato ad essere tratta essenzialmente dalla considerazione
che, nel caso di difetto di giurisdizione, non trova applicazione la norma dell'art. 50 cod. proc. civ.,
riferibile solo alla materia della competenza, e di siffatta conclusione si sostiene che la ulteriore conferma
sarebbe data dalla regola, stabilita dall'articolo 367 c.p.c., che consente la riassunzione del processo, a
seguito del regolamento di giurisdizione, solo quando la Corte di cassazione dichiari la giurisdizione del
giudice ordinario.
Rispetto al suddetto consolidato indirizzo, ostativo alla translatio ed alla conservazione degli effetti degli
atti compiuti innanzi al giudice sfornito di giurisdizione, non erano mancate, tuttavia, decisioni di segno
contrario.
Questo giudice di legittimità, infatti, cassando la sentenza di una commissione tributaria regionale, che
aveva escluso la giurisdizione del giudice tributario affermata, invece, dalla decisione della commissione
provinciale in primo grado, aveva pronunciato sentenza di rinvio al giudice tributario di secondo grado
perché avesse dato "luogo al giudizio di merito" ed avesse provveduto inoltre "alla liquidazione delle
spese" del giudizio di cassazione (Cass., n. 88/2001; Cass., n. 1496/2002). In proposito non va però
trascurata l'istituzione della sezione tributaria presso la Corte di Cassazione, dopo l'abrogazione della
Commissione tributaria centrale, che è divenuta in sede di legittimità giudice naturale del processo
tributario.
In altra precedente statuizione (Cass., n. 5357/87), aveva, altresì, ritenuto, in applicazione analogica
dell'art. 50 cod. proc. civ., che, in tema di responsabilità del vettore relativamente alle merci trasportate,
non si verifica la prevista decadenza per il mancato esercizio dell'azione entro il termine dell'anno quando
la domanda, proposta tempestivamente innanzi al giudice straniero privo di competenza giurisdizionale,
sia tempestivamente riassunta innanzi al giudice nazionale nel termine di sei mesi dalla pronuncia
declinatoria sulla giurisdizione del giudice straniero medesimo. Si era trattato, tuttavia, di decisioni isolate
- o peculiari alla giurisdizione tributaria o basate più sull'evitata decadenza che sulla translatio - che non
solo non avevano avuto successiva ed argomentata conferma, ma che neppure avevano affrontato il
problema in consapevole contrasto con l'esistente consolidata giurisprudenza, per cui ad esse non può
essere assegnata la qualifica di veri e propri precedenti difformi di un indirizzo esegetico tralaticio, di cui
sarebbe stato opportuno verificare l'attuale sua validità anche a seguito del mutato panorama legislativo,
nel quale la questione veniva inevitabilmente a riproporsi.
La dottrina, in prevalenza, a sua volta affermava che ciò che valeva per la competenza non poteva valere
anche per la giurisdizione in mancanza di una norma specifica, parallela a quella posta dall'art. 50 cod.
proc. civ., e ribadiva che l'effetto impeditivo della decadenza (da collegare ad un evento a tal fine idoneo,
non già alla espressione di semplice volontà sostanziale del soggetto agente) non poteva derivare, in
modo ritualmente recettizio, dalla domanda giudiziale a qualsiasi giudice rivolta, ma supponeva la valida
instaurazione del processo davanti al giudice fornito di giurisdizione, sì che ne fosse stato possibile in
prosieguo un esito tale da definire il merito della controversia.
Con allargato riferimento al tema del difetto di giurisdizione del giudice nazionale nei confronti del
giudice straniero, la dottrina, inoltre, decisamente rifiutava la statuizione di Cass., n. 5357/87.
Analogamente considerava che neppure nella Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968
(concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile, resa esecutiva
in Italia con la L. 21 giugno 1971, n. 804) esisteva una norma che consentisse la prosecuzione del
giudizio avanti al giudice straniero relativamente ad un'azione instaurata avanti al giudice nazionale
dichiaratosi privo di competenza giurisdizionale ed escludeva che, nel caso suddetto, potesse farsi luogo
alla translatio iudicii per effetto della disciplina dettata dalla Convenzione medesima al fine di distribuire
la competenza giurisdizionale fra i giudici degli Stati membri nei casi previsti di connessione di cause e di
contemporanea pendenza della medesima causa innanzi a giudici di Stati diversi, giacché la disciplina
sulla connessione e sulla litispendenza riguardava pur sempre ipotesi in cui sussisteva la competenza
giurisdizionale in capo ai diversi giudici nazionali. In tale generale contesto non erano mancate, tuttavia,
autorevoli opinioni contrarie, che, procedendo dal principio fondamentale dei nostri Autori classici
seconde cui il processo deve tendere ad una sentenza di merito, avevano posto in risalto come - anche con
riguardo ai rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale, nell'evidente interesse del litigante di evitare
gli ostacoli inutili ed i danni non necessari della lite e dello Stato di spendere nel migliore dei modi
l'opera dei suoi organi - dovesse essere assicurata, unitamente alla conservazione degli effetti della
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domanda proposta al giudice privo di giurisdizione, la trasmigrabilità della causa al giudice che ne sia
fornito.
Anche il Giudice delle leggi, del resto, aveva avvertito (Corte Cost., 16 ottobre 1986, n. 220) che il giusto
processo è diretto non allo scopo di sfociare in una decisione purchessia, ma di rendere pronuncia di
merito stabilendo chi ha ragione e chi ha torto, onde esso deve avere per oggetto la verifica della
sussistenza dell'azione in senso sostanziale e, nei limiti del possibile, non esaurirsi nella discettazione sui
presupposti processuali.
Più di recente il tema della translatio iudicii nel rapporto tra giudice ordinario e giudice speciale ha
costituito argomento di rinnovato dibattito da parte della dottrina, che, rimproverando l'acritica adesione
del giudice di legittimità ai suoi precedenti, non rivisitati in forza delle sopravvenute modifiche legislative
e del generale principio del giusto processo, ha evidenziato come l'orientamento circa la possibilità di
ricongiungere segmenti processuali diversi solo quando il giudice preventivamente adito sia titolare della
potestas iudicandi interna al medesimo ordine giudiziario, dovrebbe essere abbandonato, perché esso non
realizza esigenze meritevoli di tutela e produce un indubbio spreco di attività processuale.
Le ragioni prospettate a sostegno dell'auspicata introduzione del principio della translatio iudicii vengono
ravvisate, anzitutto, nell'esteso criterio di ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice
speciale sulla base non della diversa situazione di diritto soggettivo o di interesse legittimo dedotta in
giudizio, ma in relazione alla materia, il che, comportando una indubbia situazione di incertezza in ordine
al riparto, rende oggi più difficile stabilire a quale giudice (ordinario o speciale) la parte debba rivolgersi,
specie dopo che sul riparto di giurisdizione per blocchi di materia è intervenuta la sentenza, in parte
modificativa, della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 e successivamente la 191 del 2006.
Altra ragione viene indicata nella esigenza di evitare che la declaratoria di difetto di giurisdizione del
giudice ordinario possa dare luogo, essendo intanto maturato il termine perentorio per la proposizione del
ricorso davanti al giudice speciale, alla definitiva stabilità dell'atto impugnato.
Inoltre, si rappresenta che sulle iniziative dei vari disegni di legge de iure condendo, diretti a stabilire
espressamente la regola della translatio, vi è stata, nelle diverse sedi in cui il problema è stato dibattuto, la
concorde opinione sull'opportunità della introduzione della regola della trasmigrazione del processo in
subiecta materia.
Al dibattito dottrinale in corso non è rimasta estranea neppure la giurisprudenza di merito, la quale, sul
presupposto che in base al diritto vivente (quale risulta dall'interpretazione data da questo giudice di
legittimità) non possa giungersi a sostenere l'ammissibilità della translatio, ha sollecitato l'intervento del
giudice costituzionale, cui ha rimesso la decisione sulla verifica di corrispondenza ai parametri primari
degli articoli 24, 111 e 113 Cost. della norma di cui alla L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 30, nella parte
in cui non consentirebbe al giudice amministrativo, che declini la giurisdizione, di disporre la
continuazione del processo con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda. In tale
generale contesto anche queste Sezioni Unite - nella loro funzione di Corte regolatrice della giurisdizione
in sostituzione dell'originario Tribunale dei Conflitti - ritengono che, in base ad una lettura
costituzionalmente orientata della disciplina della materia, che tenga conto delle argomentazioni
emergenti dalle intervenute modifiche legislative e delle prospettazioni in parte nuove svolte di recente
dalla dottrina sul tema, sussistano le condizioni per potere affermare che è stato dato ingresso
nell'ordinamento processuale al principio della translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice speciale,
e viceversa, in caso di pronuncia sulla giurisdizione.
Premessa indispensabile è la considerazione di carattere generale che, seppure in tema di giurisdizione
non è espressamente stabilita una disciplina improntata a quella prevista per la competenza (articoli 44,
45 e 50 c.p.c.), ammissiva della riassunzione della causa dal giudice incompetente a quello competente,
neppure sussiste la previsione di un espresso divieto della translatio iudicii nei rapporti tra giudice
ordinario e giudice speciale.
Occorre, di conseguenza, indagare da quali elementi della normativa vigente si trae la giustificazione che
il principio della trasmigrazione della causa assiste anche le pronunce sulla questione di giurisdizione.
A tal fine, decisivo argomento è quello rinvenibile dalla disposizione dell'art. 382 cod. proc. civ.,
concernente la decisione da parte della Cassazione delle questioni di giurisdizione. La norma - che, al
primo comma, stabilisce che la Corte, qualora decide una questione di giurisdizione, statuisce su questa,
determinando, quando occorre, il giudice competente e che precisa, al secondo comma, che quando cassa
per violazione delle norme sulla competenza, statuisce su questa - prevede, nella prima parte del suo terzo
comma, che se riconosce che il giudice del quale si impugna il provvedimento e ogni altro giudice
difettano di giurisdizione, cassa senza rinvio, aggiungendo, nella seconda parte, che ugualmente provvede
in ogni altro caso in cui ritiene che la causa non poteva essere proposta o il processo proseguito.
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Orbene - ritenuto che il ricorso per Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione può essere proposto
non solo contro le sentenze del giudice ordinario, ma anche avverso le sentenze del giudice speciale sulla scorta della chiara enunciazione della norma dell'art. 382 c.p.c., comma 3, secondo quel che già la
dottrina da tempo ha evidenziato, deve univocamente ricavarsi che la pronuncia di cassazione senza
rinvio non deve avvenire in tutte le ipotesi in cui questo giudice di legittimità stabilisce che la sentenza
impugnata è stata emessa da un giudice sfornito di giurisdizione, ma solo in quei casi in cui, affermando
che ne' il giudice che detta sentenza ha emesso ne' alcun altro giudice è fornito di giurisdizione, ritiene,
perciò, che ricorre, in relazione alla pretesa avanzata dalla parte, l'ipotesi di improponibilità assoluta della
domanda sia innanzi al giudice ordinario che al giudice speciale.
È stato, infatti, osservato che il riferimento della norma ad "ogni altro giudice", e non invece soltanto al
giudice ordinario, assume significato solo se, di riflesso, si possa ritenere che questa Corte, affermata la
giurisdizione di un giudice speciale invece che quella del giudice ordinario o viceversa, non debba
esaurire il suo compito con la semplice pronuncia di cassazione senza rinvio, ma sia tenuta anche ad
indicare innanzi a quale altro giudice fornito di giurisdizione la causa sia da riassumere.
Il che, del resto, serve anche a dare un più chiaro significato all'espressione del medesimo articolo 382,
comma 1 (nella parte in cui la norma stabilisce che, con la statuizione sulla giurisdizione, la Cassazione
determina, quando occorre, il giudice competente), nel senso che in caso di pronuncia di cassazione della
impugnata sentenza per difetto di giurisdizione questo giudice di legittimità deve individuare pure
l'ufficio giudiziario competente, nell'ambito della giurisdizione ordinaria, innanzi al quale il processo
deve essere riassunto.
E ciò vale non solo nel caso in cui venga cassata per difetto di giurisdizione la sentenza di un giudice
speciale, perché sussiste la giurisdizione del giudice ordinario; ma anche nel caso inverso, in cui sia
cassata la sentenza del giudice ordinario sul diverso presupposto della giurisdizione del giudice speciale.
In sostanza, se la pronuncia dovesse essere sempre di cassazione senza rinvio, non avrebbe senso la
indicazione anche del giudice competente, la quale assume, perciò, rilievo essenziale proprio in vista della
possibilità di prosecuzione del giudizio al fine di pervenire ad una decisione della controversia nel merito
ad opera del giudice fornito di giurisdizione.
Alla suddetta conclusione, a maggior ragione, deve pervenirsi quando (ed è il caso che nella specie viene
all'esame) il giudice speciale in sede di appello abbia dichiarato il difetto di giurisdizione, affermata dal
giudice speciale in primo grado, e questa Corte, invece, stabilisca che la giurisdizione sia del giudice
speciale:alla cassazione della sentenza impugnata non può che seguire la pronuncia di rinvio davanti al
giudice speciale, perché altrimenti si verificherebbe l'inaccettabile conseguenza di un processo, che si
debba concludere con una sentenza che confermi soltanto la giurisdizione del giudice adito senza decidere
sull'esistenza o meno della pretesa.
A fronte degli argomenti suddetti, elementi in contrario non provengono dalla disposizione dell'art. 386
cod. proc. civ., che prevede che la decisione sulla giurisdizione è determinata dall'oggetto della domanda
e, quando prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità
della domanda.
La norma, che stabilisce quale sia la valenza della statuizione sulla giurisdizione qualora il giudizio
prosegua, addirittura può essere utilizzata quale conferma del fatto che la prosecuzione è ammissibile sia
innanzi al giudice ordinario che a quello speciale, una volta che si ritenga che l'inciso "quando prosegue il
giudizio" sia da intendere "quando il giudizio debba proseguire" per il fatto che non si verte in tema di
improponibilità assoluta della domanda. Nè deve indurre a conclusione contraria alla possibilità della
traslatio iudicii la previsione di apparente esclusione dell'art. 367 c.p.c., comma 2, secondo cui "se la
Corte di cassazione dichiara, la giurisdizione del giudice ordinario, le parti debbono riassumere il
processo entro il termine perentorio di sei mesi dalla comunicazione della sentenza".
Della norma in questione, infatti, non può continuarsi a dare una lettura restrittiva, che - se consentita
quando il regolamento di giurisdizione, in base al sistema del codice del 1940, era disciplinato come
proponibile unicamente nei giudizi innanzi al giudice ordinario, sicché la continuazione del processo era
ammessa solo quando la Cassazione dichiarava la giurisdizione del giudice ordinario - deve, allo stato
attuale anche della legislazione, tener conto che il regolamento di giurisdizione è proponibile anche nel
processo innanzi al tribunale amministrativo regionale (L. n. 1034 del 1971, art. 30) ed avanti al giudice
tributario in primo grado (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 3).
Il che significa, anzitutto, che, proposto il regolamento nel giudizio innanzi al giudice amministrativo o a
quello tributario e ritenuta dalla Cassazione la giurisdizione del giudice ordinario, diventa, perciò,
ammissibile, proprio in applicazione dell'art. 367 c.p.c., comma 2, disporre la riassunzione del processo al
giudice ordinario.
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Allo stesso modo, inoltre, a seguito di regolamento di giurisdizione proposto innanzi al giudice ordinario,
del quale venga affermata la giurisdizione, occorre ritenere che la Cassazione deve disporre la
riassunzione della causa innanzi allo stesso giudice speciale: la diversa soluzione, che per l'adozione di
tale pronuncia ravvisasse l'ostacolo derivante dal tenore letterale della norma del predetto articolo 367
c.p.c., comma 2, oltre ad introdurre una grave anomalia nel sistema, finirebbe per premiare iniziative
pretestuose in danno della parte che, pur avendo adito il giudice fornito di giurisdizione, non potrebbe
innanzi ad esso continuare ad esporre le sue ragioni di merito.
In conclusione, sia nel caso di ricorso ordinario ex art. 360 c.p.c., n. 1 - previsto per il solo giudizio
ordinario e poi esteso ex art. 111 Cost. a tutte le decisioni, assumendo la veste di ricorso per contestare
innanzi alle Sezioni Unite la giurisdizione del giudice che ha emesso la sentenza impugnata - sia nel caso
di regolamento preventivo di giurisdizione proponibile innanzi al giudice ordinario, ma anche innanzi al
giudice amministrativo, contabile o tributario, deve poter operare la transito iudicii. In tal modo si
consente al processo, iniziato erroneamente davanti ad un giudice che non ha la giurisdizione indicata, di
poter continuare - così come è iniziata - davanto al giudice effettivamente dotato di giurisdizione, onde
dar luogo ad una pronuncia di merito che conclude la controversia processuale, comunque iniziata,
realizzando in modo più sollecito ed efficiente quel servizio giustizia, costituzionalmente rilevante. Una
volta ritenuto che dopo l'intervento della Cassazione, affinché sia realizzato il principio che il processo
deve avere per oggetto la verifica della sussistenza dell'azione in senso sostanziale, deve farsi luogo alla
translatio iudicii, è il caso di aggiungere, per ragioni di completezza sistematica, che la trasmigrabilità
della causa dal giudice ordinario al giudice speciale, e viceversa, non richiede necessariamente la
pronuncia di queste Sezioni Unite sulla questione di giurisdizione, ma è resa possibile anche nel caso di
sentenza del giudice di merito, che abbia declinato la giurisdizione. Si è sostenuto in dottrina che, seppure
la translatio iudicii è consentita quando sulla giurisdizione sia intervenuta la pronuncia della Cassazione,
perché ad essa possa farsi luogo anche a seguito di pronuncia declinatoria del giudice di merito sulla
giurisdizione occorrerebbe l'intervento della Corte costituzionale diretto ad eliminare l'attuale disciplina
impeditiva, che contrasta con gli articoli 3, 24 e 111 Cost..
Ma non è necessario sollecitare sul punto l'intervento del Giudice delle leggi (cfr. T.A.R. Liguria
21.11.2005, n. 148), potendosi a tale conclusione pervenire ancora in sede interpretativa. Seppure la
sentenza del giudice di merito - sia esso ordinario che amministrativo, tributario o contabile declinatoria
della giurisdizione, a differenza di quella delle Sezioni Unite della Cassazione, non imponga, al giudice
del quale è stata affermata la giurisdizione, di adeguarsi a tale pronuncia, onde il giudice ad quem, innanzi
al quale la causa fosse riassunta, potrebbe a sua volta dichiarare il proprio difetto di giurisdizione, occorre
considerare che, in tal caso, alle parti, per la soluzione del conflitto negativo di giurisdizione, è dato il
ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 362 c.p.c., comma 2, sicché il previsto meccanismo correttivo della
denunciata situazione di stallo, nel rispetto del principio che ogni giudice è giudice della propria
giurisdizione, consente, nella soluzione del conflitto, di pervenire alla decisione della questione di
giurisdizione con effetti vincolanti nei confronti del giudice dichiarato fornito di giurisdizione, innanzi al
quale è resa praticabile la translatio iudicii. Il problema giuridico che esula dalla presente controversia
merita di essere ulteriormente approfondito.
Qui giova precisare che l'apparente antinomia della suddetta conclusione con la disposizione della L. 6
dicembre 1971, n. 1034, art. 34, comma 1, laddove si prevede l'annullamento senza rinvio della decisione
del tribunale amministrativo regionale da parte del Consiglio di Stato quando l'organo di secondo grado
riconosca il difetto di giurisdizione del giudice di primo grado, si compone nel rilievo che il difetto di
giurisdizione considerato dalla norma concerne anch'esso le sole ipotesi in cui non è configurabile una
prosecuzione del processo ne' innanzi al giudice speciale, ne' innanzi al giudice ordinario, in parallelo alla
disposizione dell'art. 382 c.p.c., comma 3.
Per la particolarità della fattispecie esaminata sussistono giusti motivi (art. 92 cod. proc. civ.) per
compensare interamente tra le parti le spese del presente giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite accoglie il ricorso; dichiara la giurisdizione del giudice
amministrativo; annulla la sentenza impugnata e rimette le parti innanzi al Consiglio di Stato perché dia
luogo al giudizio di merito. Compensa interamente tra le parti le spese del presente giudizio di
Cassazione.
Così deciso in Roma, il 8 giugno 2006.
Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2007
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SENTENZA N. 77 - ANNO 2007
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 30 legge del 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei
tribunali amministrativi regionali), promosso con ordinanza del 21 novembre 2005 dal Tribunale
amministrativo regionale della Liguria sul ricorso promosso da Totò Pizzeria s.r.l. ed altro contro Comune
di Genova ed altri iscritta al n. 148 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell'anno 2006.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 2007 il Giudice relatore Romano Vaccarella.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata il 21 novembre 2005 il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria ha
sollevato, in riferimento agli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell'art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella
parte in cui non consente al giudice amministrativo, che declini la giurisdizione, di disporre la
continuazione del processo con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda.
1.1.– Il dubbio è stato prospettato nel corso di un giudizio intentato da una società al fine di ottenere
l'accertamento della responsabilità e la conseguente condanna del Comune di Genova e dell'Azienda
Multiservizi e d'Igiene Urbana s.p.a. (AMIU), al ripristino dello stato dei luoghi e al risarcimento dei
danni causati dalla collocazione di una serie di «cassonetti a cascata», destinati alla raccolta e allo
smaltimento dei rifiuti solidi urbani, nelle immediate vicinanze dei locali, da essa occupati, adibiti ad
attività di ristorazione.
La società attrice lamentava che, ottenuto dal comune un permesso di occupazione permanente del suolo
pubblico antistante l'esercizio commerciale, se l'era visto, in parte, rioccupare dall'ente che, «senza
comunicare l'avvio del procedimento», aveva iniziato lavori edili interessanti lo spazio oggetto di
concessione ed aveva collocato, a pochi metri di distanza dall'entrata del locale, una sorta di impianto per
la raccolta dei rifiuti solidi urbani.
La società, dopo avere infruttuosamente inoltrato segnalazioni e diffide all'amministrazione, aveva agito
sia in via possessoria sia ex art. 700 del codice di procedura civile innanzi al tribunale civile al fine di
ottenere il ristoro dei danni, la reintegrazione nel godimento dei beni e l'adozione di misure atte a
scongiurare la lesione del diritto alla salute.
Il giudice ordinario adito aveva, però, dichiarato il proprio difetto di giurisdizione a decidere la
controversia, per essere la stessa devoluta, in quanto involgente la materia urbanistica ed edilizia, alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 34, del decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 80, come modificato dall'art. 7, legge 21 luglio 2000 n. 205.
Proposto ricorso innanzi al TAR, questo rilevava che l'intervento della sentenza della Corte costituzionale
n. 204 del 2004 – dichiarativa della parziale illegittimità degli artt. 33, commi 1 e 2, e 34, comma 1, del
d.lgs. 31 marzo n. 80 del 1998 –, aveva fatto venir meno la giurisdizione del giudice amministrativo,
come eccepito dai convenuti.
1.2.– Il giudice a quo osserva, in ordine alla rilevanza della questione, che l'art. 30 legge 6 dicembre
1971, n. 1034, impone al giudice amministrativo la mera declaratoria di difetto di giurisdizione, da
adottare anche d'ufficio, precludendogli l'adozione di ogni altra pronuncia volta ad assicurare la
possibilità di riassumere il processo davanti al giudice fornito di giurisdizione, con conseguente salvezza
degli «effetti sostanziali e processuali» della domanda, laddove la translatio iudicii consentirebbe di non
vanificare l'attività processuale svolta e impedirebbe alla parte di subire gli effetti della decadenza «nel
frattempo maturata», segnatamente di quella dalle azioni possessorie, da promuoversi nel termine
annuale.
1.3.– In ordine alla non manifesta infondatezza del dubbio, l'inutile «palleggio di giudizi» tra giudici
appartenenti a giurisdizioni diverse, ma non separate, con gli inevitabili effetti distorsivi costituiti dal
dispendio di energie processuali e di risorse economiche e dalla incolpevole perdita del diritto alle azioni
possessorie, sarebbe, a giudizio del rimettente, in contrasto col principio costituzionale della ragionevole
durata del processo e del diritto all'attuazione della legge, e cioè con gli artt. 24, 111 e 113 Cost.
Precisa anche il rimettente che, per scongiurare siffatte evenienze, non solo non sarebbe percorribile la via
dell'interpretazione estensiva dell'art. 5 cod. proc. civ., perché il diritto vivente nega la praticabilità della
perpetuatio iurisdictionis allorché la norma attributiva della giurisdizione venga dichiarata
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costituzionalmente illegittima, ma neppure sarebbe evocabile l'istituto dell'errore scusabile, comunque
inidoneo a surrogare il meccanismo processuale della translatio iudicii, essendo il relativo riconoscimento
pur sempre rimesso ad una valutazione del giudice.
2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura Generale dello Stato, che ha chiesto alla Corte di dichiarare inammissibile o
manifestamente infondata la proposta questione, per carente descrizione della fattispecie oggetto del
giudizio a quo.
Secondo la difesa erariale, infatti, la circostanza che nulla il rimettente espliciti in ordine al concreto
svolgimento del processo e, in particolare, in ordine alle eventuali acquisizioni probatorie (assunte nel
primo giudizio civile o in quello successivo, davanti al giudice amministrativo) da assicurare
nell'instaurando processo innanzi al giudice ordinario, nonché in ordine alla data in cui si sarebbe
verificata la lamentata lesione del possesso, all'epoca della proposizione della prima domanda e del
successivo ricorso innanzi al TAR, si tradurrebbe in una inemendabile mancanza di elementi la cui
conoscenza sarebbe invece assolutamente indispensabile ai fini della valutazione della rilevanza della
prospettata questione rispetto al giudizio in corso.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale della Liguria dubita, in riferimento agli artt. 24, 111 e 113 della
Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione
dei tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui non consente al giudice amministrativo che
declini la giurisdizione di disporre la continuazione del processo con salvezza degli effetti sostanziali e
processuali della domanda.
2.– La questione è fondata nei sensi di seguito precisati.
3.– Il Tribunale rimettente pone, in termini di legittimità costituzionale, il problema – in ordine al quale la
dottrina ha da tempo e ripetutamente preso posizione – dell'estensione al difetto di giurisdizione del
principio della conservazione degli effetti della domanda che, con il codice di procedura civile del 1942, è
stato introdotto limitatamente al caso del difetto di competenza; estensione che, nei più organici progetti
di riforma del processo civile, era prevista in puntuali disposizioni dei relativi disegni di legge delega.
3.1.– Sollevando la questione in esame, il giudice rimettente si fa interprete del diffuso disagio, per i gravi
(e, non di rado, irreparabili) inconvenienti provocati da una disciplina che, in sostanza, parte dal
presupposto che l'atto introduttivo del giudizio rivolto ad un giudice privo di giurisdizione sia affetto da
un vizio che lo rende radicalmente inidoneo a produrre gli effetti, sia sostanziali che processuali, che la
legge collega ad un atto introduttivo che violi le regole sul riparto di competenza.
Tale disagio è accresciuto, in primo luogo, dalla circostanza che una così rigorosa disciplina concerne un
vizio dell'atto introduttivo che scaturisce da una estremamente articolata e complessa regolamentazione
del riparto di giurisdizione: sicché non solo è tutt'altro che agevole il compito della parte attrice, ma
altrettanto disagevole è quello del giudice il cui eventuale errore, tuttavia, ricade interamente sulla parte
(si pensi al caso del giudice che erroneamente declini la propria giurisdizione con nuova proposizione
della domanda al giudice indicato come munito di giurisdizione, il quale, a sua volta, la declini: la
domanda riproposta al primo giudice non potrebbe “ancorarsi” alla prima e far risalire ad essa gli effetti
sostanziali e processuali).
Questa Corte è consapevole che il fenomeno appena illustrato ha assunto proporzioni ancor più vistose a
seguito di una propria recente pronuncia dichiarativa dell'illegittimità costituzionale di talune norme che,
secondo il criterio dei «blocchi di materie», ripartivano la giurisdizione tra autorità giudiziaria ordinaria e
giudice amministrativo: l'inapplicabilità, secondo la giurisprudenza assolutamente dominante, all'ipotesi
di sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale del principio della perpetuatio iurisdictionis
codificato nell'art. 5 cod. proc. civ. ha certamente acuito la diffusa sensazione della sostanziale ingiustizia
della disciplina vigente in quanto, nonostante la domanda fosse stata rivolta al giudice munito di
giurisdizione secondo la legge vigente al momento della sua proposizione, la sopravvenuta carenza di
giurisdizione ne impediva o pregiudicava la tutela giurisdizionale.
Peraltro, l'orientamento del Consiglio di Stato, di gran lunga prevalente, fondato sul potere di rilevare
d'ufficio il difetto di giurisdizione anche quando, essendosi su di essa esplicitamente pronunciato il TAR,
contro tale capo della pronuncia non sia stata proposta impugnazione, fa sì (ed ha fatto sì in numerosi casi
interessati dalla citata sentenza di questa Corte) che il giudizio debba essere proposto ex novo davanti al
giudice ordinario perfino dopo che sulla sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo si sia
formato il giudicato.
3.2.– La dottrina, a sua volta, è pressoché unanime nel sollecitare una riforma legislativa che preveda
meccanismi idonei – come accade per l'ipotesi di difetto di competenza – ad assicurare, con la
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trasmigrazione del giudizio davanti al giudice munito di giurisdizione, la conservazione degli effetti che
la legge collega alla proposizione della domanda giudiziale.
Una parte della dottrina, poi, ha sostenuto che alle pronunzie emesse dalla Corte di cassazione in tema di
giurisdizione potrebbe conseguire – in base al combinato disposto degli artt. 50, 367 e 382 cod. proc. civ.
– la translatio iudicii con conservazione degli effetti della domanda giungendo, recentemente, a desumere
da tale conclusione che – non potendosi imporre alle parti, affinché operi il meccanismo della translatio
iudicii, di adire necessariamente la Suprema Corte a sezioni unite – analogo risultato sarebbe
conseguibile, de iure condito, nel caso di declinatoria di giurisdizione da parte di un giudice di merito.
3.3.– Recentemente, nel tentativo di risolvere con strumenti ermeneutici l'annoso e grave problema, la
Corte di cassazione (Sezioni unite 22 febbraio 2007, n. 4109) ha affermato - nel rinviare al Consiglio di
Stato, per violazione del giudicato interno,una controversia definita dal medesimo Consiglio con una
pronuncia declinatoria della giurisdizione - che tale rinvio costituiva modifica del proprio «precedente,
risalente orientamento, secondo cui la decisione del giudice ordinario o del giudice speciale, con la quale
viene dichiarato il difetto di giurisdizione, non consente che il processo possa continuare dinanzi al
giudice fornito di giurisdizione».
Ricordato che tale tralaticio orientamento si fondava sulla circostanza che l'art. 50 cod. proc. civ. prevede
la riassunzione del processo solo nel caso di difetto di competenza, e non anche di giurisdizione, e che
l'art. 367 prevede la riassunzione, a seguito di regolamento di giurisdizione, solo davanti al giudice
ordinario, e fatto proprio il «principio fondamentale dei nostri Autori classici secondo cui il processo deve
tendere ad una sentenza di merito», le Sezioni unite «ritengono che, in base ad una lettura
costituzionalmente orientata della disciplina della materia, che tenga conto delle argomentazioni
emergenti dalle intervenute modifiche legislative e delle prospettazioni in parte nuove svolte di recente
dalla dottrina sul tema, sussistono le condizioni per potere affermare che è stato dato ingresso
nell'ordinamento processuale al principio della translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice speciale,
e viceversa, in caso di pronuncia sulla giurisdizione».
«Premessa indispensabile è la considerazione di carattere generale» che, se è assente per la giurisdizione
la disciplina prevista per la competenza, «neppure sussiste la previsione di un espresso divieto della
translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale». Rilevato, poi, che la cassazione
senza rinvio è possibile, a norma dell'art. 382, comma terzo, cod. proc. civ., in caso di difetto assoluto di
giurisdizione, dovendosi in ogni altro caso cassare con rinvio al giudice munito di giurisdizione, la Corte
di cassazione osserva, da un lato, che la norma che esclude l'incidenza sul merito della pronuncia sulla
giurisdizione (art. 386) è indice della “proseguibilità” del giudizio e, dall'altro lato, che l'estensione
legislativa del regolamento di giurisdizione al processo amministrativo e a quello tributario impone di
interpretare estensivamente l'art. 367, comma secondo, cod. proc. civ., ammettendo la riassunzione anche
davanti al giudice speciale.
Ne consegue che, a seguito sia di ricorso ordinario ex art. 360, n. 1, cod. proc. civ., sia di regolamento di
giurisdizione, sarebbe sempre ammessa la riassunzione del processo davanti al giudice (ordinario o
speciale) munito di giurisdizione e tale riassunzione sarebbe possibile – aggiunge la Corte «per ragioni di
completezza sistematica» – «anche nel caso di sentenza del giudice di merito, che abbia declinato la
giurisdizione».
Respinta la tesi secondo la quale tale risultato richiederebbe l'intervento della Corte costituzionale
(sollecitato, ricorda la Corte di cassazione, dall'ordinanza di rimessione qui in esame), le Sezioni unite
osservano che il giudice indicato, come munito di giurisdizione, dalla pronuncia declinatoria può, «a sua
volta, dichiarare il proprio difetto di giurisdizione» ma che in tal caso, «nel rispetto del principio che ogni
giudice è giudice della propria giurisdizione», il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 362, secondo
comma, cod. proc. civ. risolve, con il conflitto negativo, la «situazione di stallo»; anche se – conclude la
Corte – «il problema giuridico che esula dalla presente controversia merita di essere ulteriormente
approfondito».
4.– La circostanza che la Corte di cassazione abbia diffusamente trattato la questione – più volte
ricordandola – oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale impone a questa Corte, per
l'autorevolezza delle Sezioni unite, di dedicare attenta considerazione alle argomentazioni che si sono
appena riferite benché le Sezioni unite – decidendo su un error in procedendo, sia pure avente ad oggetto
la giurisdizione – abbiano affrontato la questione risolvendo un caso di conferma della giurisdizione del
giudice a quo e si siano occupate della declinatoria di giurisdizione da parte del giudice di merito solo
«per ragioni di completezza sistematica».
Malgrado ciò, questa Corte non può non considerare attentamente quanto sostengono le Sezioni unite nel
pervenire alla conclusione che, essendo la questione oggetto del presente giudizio risolvibile de iure
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condito, «non è necessario sollecitare sul punto l'intervento del Giudice delle leggi». È evidente, infatti,
che, ove fossero condivisibili gli argomenti che hanno indotto le Sezioni unite ad esprimere tale opinione,
questa Corte dovrebbe dichiarare inammissibile la questione in esame per non avere il giudice a quo
nemmeno tentato di dare una lettura costituzionalmente orientata della norma censurata.
4.1.– Pur nella consapevolezza dell'intento ispiratore della sentenza n. 4109 del 2007, si deve anzitutto
escludere che – come le Sezioni unite affermano a «premessa indispensabile» del loro argomentare –
manchi nell'ordinamento «un espresso divieto della translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e
giudice speciale».
È sufficiente rilevare, in proposito, che l'espressa previsione della translatio con esplicito ed esclusivo
riferimento alla «competenza» – ciò che costituiva una novità del codice del 1942, auspicata (ma
limitatamente alla incompetenza) fin dal cosiddetto progetto Chiovenda, non a caso resa possibile da una
articolata disciplina (artt. 42-50) totalmente assente per la «giurisdizione» – non altro può significare se
non divieto di applicare alla giurisdizione quanto previsto, esplicitamente ed esclusivamente, per la
competenza; il che avrebbe reso superfluo, nell'asciutta essenzialità delle norme codicistiche, l'«espresso
divieto» di applicare alla giurisdizione le molte norme esplicitamente dedicate (sia nelle rubriche che nel
testo) alla sola competenza.
In secondo luogo, riguardo all'argomento che le Sezioni unite desumono dal ricorso per cassazione ex art.
362, comma secondo, cod. proc. civ., occorre considerare che – a differenza di quanto l'art. 362, comma
primo, prevede (richiamando il termine di cui all'art. 325, comma secondo) per l'impugnazione di
sentenze di giudici speciali «per motivi attinenti alla giurisdizione» – la «denuncia» di conflitti negativi di
giurisdizione è possibile «in ogni tempo»: ed ai fini qui rilevanti è sufficiente osservare che la funzione di
«rendere praticabile la translatio», con la conservazione degli effetti della domanda proposta al giudice
(che risulta essere) privo di giurisdizione, non può ritenersi affidata ad un ricorso proponibile «in ogni
tempo» (e, quindi, anche anni dopo il manifestarsi del conflitto).
4.2.– Ciò detto dei due argomenti in base ai quali le Sezioni unite ritengono risolvibile de iure condito la
questione pendente dinanzi a questa Corte – questione della quale non può, conseguentemente, dichiararsi
l'inammissibilità per non aver il giudice rimettente valutato la praticabilità di una interpretazione
costituzionalmente corretta – va rilevato che il giudice a quo sollecita l'intervento di questa Corte non già
lamentando l'assenza di un meccanismo processuale che consenta la trasmigrazione del processo ad altro
giudice fornito di giurisdizione, bensì l'impossibilità che, a seguito della declinatoria della giurisdizione,
siano conservati gli effetti prodotti dalla domanda proposta davanti ad un giudice privo di giurisdizione.
Tale modo di impostare la questione è corretto, essendo evidente che l'esistenza nel codice di procedura
civile di una norma che disciplina in generale l'istituto della riassunzione della causa (art. 125 disp. att.)
non risolve affatto il problema sollevato dal giudice a quo: la possibilità – esplicitamente prevista dalla
legge ovvero desumibile attraverso una sistematica «ricucitura» delle norme – di riassumere il processo
non implica di per sé che la domanda proposta in riassunzione conservi gli effetti prodotti da quella
originaria.
La trasmigrabilità del processo è strumento necessario, ma non sufficiente perché il giudice ad quem
possa giudicare della domanda dinanzi a lui riassunta come se essa fosse stata proposta davanti a lui nel
momento in cui lo fu al giudice privo di giurisdizione.
5.– Il principio della incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi – comprensibile in altri
momenti storici quale retaggio della concezione cosiddetta patrimoniale del potere giurisdizionale e quale
frutto della progressiva vanificazione dell'aspirazione del neo-costituito Stato unitario (legge
sull'abolizione del contenzioso amministrativo) all'unità della giurisdizione, determinata dall'emergere di
organi che si conquistavano competenze giurisdizionali – è certamente incompatibile, nel momento
attuale, con fondamentali valori costituzionali.
Se è vero, infatti, che la Carta costituzionale ha recepito, quanto alla pluralità dei giudici, la situazione
all'epoca esistente, è anche vero che la medesima Carta ha, fin dalle origini, assegnato con l'art. 24
(ribadendolo con l'art. 111) all'intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso
il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.
Questa essendo la essenziale ragion d'essere dei giudici, ordinari e speciali, la loro pluralità non può
risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale: ciò che
indubbiamente avviene quando la disciplina dei loro rapporti – per giunta innervantesi su un riparto delle
loro competenze complesso ed articolato – è tale per cui l'erronea individuazione del giudice munito di
giurisdizione (o l'errore del giudice in tema di giurisdizione) può risolversi in un pregiudizio irreparabile
della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale.
Una disciplina siffatta, in quanto potenzialmente lesiva del diritto alla tutela giurisdizionale e comunque
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tale da incidere sulla sua effettività, è incompatibile con un principio fondamentale dell'ordinamento, il
quale riconosce bensì la esistenza di una pluralità di giudici, ma la riconosce affinché venga assicurata,
sulla base di distinte competenze, una più adeguata risposta alla domanda di giustizia, e non già affinché
sia compromessa la possibilità stessa che a tale domanda venga data risposta.
Al principio per cui le disposizioni processuali non sono fine a se stesse, ma funzionali alla miglior
qualità della decisione di merito, si ispira pressoché costantemente – nel regolare questioni di rito – il
vigente codice di procedura civile, ed in particolare vi si ispira la disciplina che all'individuazione del
giudice competente – volta ad assicurare, da un lato, il rispetto della garanzia costituzionale del giudice
naturale e, dall'altro lato, l'idoneità (nella valutazione del legislatore) a rendere la migliore decisione di
merito – non sacrifica il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al
“bene della vita” oggetto della loro contesa.
Al medesimo principio gli artt. 24 e 111 Cost. impongono che si ispiri la disciplina dei rapporti tra giudici
appartenenti ad ordini diversi allorché una causa, instaurata presso un giudice, debba essere decisa, a
seguito di declinatoria della giurisdizione, da altro giudice.
6.– Il rispetto dei confini del proprio ruolo nell'ordinamento impone a questa Corte di limitarsi a
dichiarare l'illegittimità costituzionale della norma censurata nella parte in cui non prevede la
conservazione degli effetti della domanda nel processo proseguito, a seguito di declinatoria di
giurisdizione, davanti al giudice munito di giurisdizione, ispirandosi essa, viceversa, al principio per cui
la declinatoria della giurisdizione comporta l'esigenza di instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti
sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente proposta si conservino nel nuovo
giudizio; principio questo che, non formulato espressamente in una o più disposizioni di legge ma
presupposto dall'intero sistema dei rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali e tra i giudici speciali,
deve essere espunto, come tale, dall'ordinamento.
7.– La disciplina legislativa che, con l'urgenza richiesta dall'esigenza di colmare una lacuna
dell'ordinamento processuale, verrà emanata, sarà vincolata solo nel senso che essa dovrà dare attuazione
al principio della conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a
giudice privo di giurisdizione nel giudizio ritualmente riattivato – a seguito di declinatoria di
giurisdizione – davanti al giudice che ne è munito.
Ciò posto, è evidente che – contrariamente a quanto sembra sostenere l'ordinanza di rimessione – la
conservazione degli effetti prodotti dalla domanda originaria discende non già da una dichiarazione del
giudice che declina la propria giurisdizione, ma direttamente dall'ordinamento, interpretato alla luce della
Costituzione; ed anzi deve escludersi che la decisione sulla giurisdizione, da qualsiasi giudice emessa,
possa interferire con il merito (al quale appartengono anche gli effetti della domanda) demandato al
giudice munito di giurisdizione.
La conferma di ciò è nella circostanza che perfino il supremo organo regolatore della giurisdizione, la
Corte di cassazione, con la sua pronuncia può soltanto, a norma dell'art. 111, comma ottavo, Cost.,
vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma
certamente non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale
decisione; e ad analogo principio, conforme a Costituzione, si ispira l'art. 386 cod. proc. civ. (applicabile
anche ai ricorsi proposti a norma dell'art. 362, comma primo, cod. proc. civ.) disponendo che «la
decisione sulla giurisdizione è determinata dall'oggetto della domanda e, quando prosegue il giudizio, non
pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda».
8.– Nel rispetto di tali limiti costituzionali, il legislatore ordinario – ferma l'esigenza di disporre che ogni
giudice, nel declinare la propria giurisdizione, deve indicare quello che, a suo avviso, ne è munito – è
libero di disciplinare nel modo ritenuto più opportuno il meccanismo della riassunzione (forma dell'atto,
termine di decadenza, modalità di notifica e/o di deposito, eventuale integrazione del contributo unificato,
ecc.) sulla base di una scelta di fondo a lui soltanto demandata: stabilire, cioè, se mantenere in vita il
principio per cui ogni giudice è giudice della propria giurisdizione ovvero adottare l'opposto principio
seguito dal codice di procedura civile (art. 44) per la competenza.
9.– È superfluo sottolineare che, laddove possibile utilizzando gli strumenti ermeneutici (come, nel caso
oggetto del giudizio a quo, dopo la declinatoria di giurisdizione), i giudici ben potranno dare attuazione al
principio della conservazione degli effetti della domanda nel processo riassunto.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei
tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali,
prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di
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giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 marzo 2007.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Romano VACCARELLA, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2007.
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ORDINANZA N. 363 - ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546
(Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della
legge 30 dicembre 1991, n. 413), promosso con ordinanza del 4 luglio 2007 dalla Commissione tributaria
provinciale di Roma nel giudizio vertente tra Sergio Santoro e l’Agenzia delle entrate, ufficio di Roma 1,
iscritta al n. 90 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15,
prima serie speciale, dell’anno 2008.
Visti l’atto di costituzione di Sergio Santoro e l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2008 il Giudice relatore Franco Gallo;
udito l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che, nel corso di un giudizio, promosso da un contribuente, avente ad oggetto l’impugnazione
sia di una cartella di pagamento emessa a séguito di controllo sulla dichiarazione dei redditi per l’anno
d’imposta 2000, sia della relativa iscrizione di ipoteca effettuata ai sensi dell’art. 77 del decreto del
Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul
reddito), la Commissione tributaria provinciale di Roma, con ordinanza depositata il 4 luglio 2007, ha
sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546
(Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della
legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui «non consente al giudice tributario che declini la
giurisdizione di disporre la continuazione del processo con salvezza degli effetti sostanziali e processuali
della domanda»;
che la Commissione rimettente premette, in punto di fatto, che: a) il ricorrente ha impugnato la cartella di
pagamento, sulla cui base era stata iscritta dal concessionario per la riscossione la predetta ipoteca,
allegando l’inesistenza della notifica della cartella medesima e la decadenza dell’ufficio dal potere di
procedere alla riscossione in relazione all’anno d’imposta 2000; b) il ricorrente aveva avuto notizia di
detta cartella solo a séguito della ricezione dell’avviso di iscrizione dell’ipoteca di cui all’art. 77 del
d.P.R. n. 602 del 1973, in quanto in detto avviso era fatta menzione della cartella de qua; c) resistono in
giudizio, chiedendo la reiezione del ricorso, sia l’Agenzia delle entrate, ufficio di Roma 1, sia il
concessionario per la riscossione, quest’ultimo eccependo anche il difetto di giurisdizione del giudice
adíto;
che il giudice a quo premette altresí, in punto di diritto, che: a) la giurisdizione del giudice tributario in
ordine alle controversie relative all’iscrizione delle ipoteche effettuate a garanzia di crediti tributari è stata
disposta, successivamente all’instaurazione del giudizio, dall’art. 35, comma 26-quinquies, del decretolegge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e
la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto
all’evasione fiscale), convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248,
che ha a tal fine modificato, con effetto dal 12 agosto 2006, l’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992; b) tale
norma attributiva di giurisdizione non può trovare applicazione nel giudizio principale, perché
quest’ultimo è stato instaurato, appunto, anteriormente all’entrata in vigore della norma; c) in forza
dell’art. 3 del d.lgs. n. 546 del 1992, la Commissione adíta deve dunque limitarsi, nella specie, a declinare
la propria giurisdizione, senza disporre la translatio iudicii della causa innanzi al giudice dotato di
giurisdizione e, di conseguenza, senza «salvare gli effetti sostanziali e processuali della domanda»;
che, quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente afferma che la disposizione
denunciata – non prevedendo che il giudice tributario, nel dichiarare il proprio difetto di giurisdizione,
disponga la translatio iudicii innanzi al giudice dotato di giurisdizione – víola gli artt. 24, 111 e 113 della
Costituzione;
che, quanto alla violazione degli artt. 24 e 113 Cost., il giudice a quo afferma che la mancata previsione
della translatio iudicii nel caso di declinatoria della giurisdizione – escludendo la conservazione degli
effetti sostanziali e processuali della domanda tempestivamente proposta davanti al giudice tributario –
comporterebbe «di fatto», in caso di successiva proposizione della stessa domanda innanzi al giudice
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giurisdizionalmente competente, il decorso medio tempore del termine decadenziale di sessanta giorni
dalla data di notificazione dell’atto impugnato fissato dall’art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992 per la
proposizione del ricorso dinnanzi al giudice tributario;
che, quanto invece alla violazione dell’art. 111 Cost., il rimettente ritiene che la disposizione censurata –
nella parte in cui non prevede la translatio iudicii – víola il principio della ragionevole durata del
processo, perché «vanificherebbe l’attività processuale svolta» davanti al giudice privo di giurisdizione e,
quindi, risulterebbe «collidente con il diritto costituzionale alla durata ragionevole del processo che metta
capo ad una pronuncia sul merito»;
che, sulla rilevanza delle sollevate questioni, il giudice rimettente, richiamando le proprie premesse in
punto di diritto, afferma di essere privo di giurisdizione, ratione temporis, in ordine alla controversia
sull’iscrizione ipotecaria oggetto del giudizio principale e di non poter disporre la translatio iudicii;
che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è
ritualmente intervenuto in giudizio, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate;
che, secondo la difesa erariale, in primo luogo la rimettente Commissione tributaria non ha considerato
che, nella fattispecie, essa ha giurisdizione a conoscere della causa, alla luce del prevalente orientamento
di legittimità secondo cui l’art. 5 del codice di procedura civile – nello stabilire in generale il principio
della perpetuatio iurisdictionis – non si applica qualora un sopravvenuto mutamento legislativo comporti
l’attribuzione della giurisdizione al giudice che, al momento della domanda, ne era privo;
che pertanto, conclude la difesa erariale, tali questioni sono inammissibili, in quanto fondate su un
erroneo presupposto interpretativo;
che, in secondo luogo, dette questioni sono inammissibili – sempre secondo l’Avvocatura generale –
perché il diritto vivente già riconosce la possibilità che, a séguito della pronuncia declinatoria della
giurisdizione, le parti proseguano la causa dinnanzi al giudice fornito di giurisdizione «con salvezza dei
diritti acquisiti» e, perciò, il risultato perseguíto dal giudice rimettente è già raggiungibile in via
ermeneutica;
che infine, per la difesa erariale, un ulteriore profilo di inammissibilità deriva dal fatto che le questioni,
come sollevate, sono prive di rilevanza nel giudizio a quo, in quanto «la sede in cui avrebbe potuto
assumere rilievo l’eventuale incostituzionalità di una normativa che non riconoscesse la translatio iudicii
sarebbe soltanto il giudizio di prosecuzione»;
che il contribuente si è costituito con un atto depositato fuori termine.
Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Roma dubita, in riferimento agli artt. 24, 111 e
113 della Costituzione, della legittimità dell’art. 3 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546
(Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della
legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui detta disposizione – nel disporre che «Il difetto di
giurisdizione delle commissioni tributarie è rilevato, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo»
(comma 1) e che «È ammesso il regolamento preventivo di giurisdizione previsto dall’art. 41, primo
comma, del codice di procedura civile» (comma 2) – «non consente al giudice tributario che declini la
giurisdizione di disporre la continuazione del processo con salvezza degli effetti sostanziali e processuali
della domanda»;
che, secondo la Commissione rimettente, la norma denunciata – non prevedendo, nel caso di declinatoria
della giurisdizione, la translatio iudicii innanzi al giudice giurisdizionalmente competente, con salvezza
degli effetti sostanziali e processuali della domanda – víola: a) gli artt. 24 e 113 Cost., perché determina
«la decadenza dal diritto di proporre ricorso nel termine perentorio di sessanta giorni dalla data di
notificazione dell’atto impugnato, ex art. 21, comma primo del citato d.lgs. n. 546 del 1992» e,
conseguentemente, «la perdita del diritto alla tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive»; b)
l’art. 111 Cost., perché «vanific[a] l’attività processuale svolta» davanti al giudice privo di giurisdizione
e, quindi, risulta «collidente con il diritto costituzionale alla durata ragionevole del processo che metta
capo ad una pronuncia sul merito»;
che, quanto alla rilevanza, il giudice rimettente, dopo aver riferito che il giudizio principale ha ad oggetto
due diverse controversie – riguardanti, rispettivamente, una cartella di pagamento e l’iscrizione ipotecaria
effettuata a garanzia dei crediti indicati nella cartella medesima –, afferma di essere privo di giurisdizione,
ratione temporis, in ordine alla controversia sull’iscrizione ipotecaria e di dover emettere, pertanto, una
pronuncia di declinatoria della giurisdizione, senza poter disporre la translatio iudicii;
che le questioni sollevate sono manifestamente inammissibili per una pluralità di motivi;
che, in primo luogo, il giudice rimettente fonda la rilevanza delle sollevate questioni muovendo da
interpretazioni della normativa in tema di perpetuatio iurisdictionis e di translatio iudicii che sono non
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solo immotivatamente difformi da quelle accolte dal diritto vivente, ma anche non conformi a
Costituzione;
che, in particolare, il rimettente ritiene: a) in base agli artt. 5 del codice di procedura civile, nonché 2, 3 e
19 del d.lgs. n. 546 del 1992, di non aver giurisdizione, ratione temporis, in ordine alla controversia –
costituente uno degli oggetti del giudizio principale – riguardante l’iscrizione di ipoteca effettuata a
garanzia di crediti tributari; b) in base al citato art. 3 del d.lgs. n. 546 del 1992, di non poter disporre la
translatio iudicii a séguito della declinatoria della propria giurisdizione;
che, quanto al presupposto interpretativo sub a), il medesimo giudice correttamente rileva che solo
successivamente alla proposizione del ricorso è entrato in vigore l’art. 35, comma 26-quinquies, del
decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il
contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di
contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 agosto
2006, n. 248, il quale, modificando l’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, ha attribuito alla giurisdizione del
giudice tributario, a partire dal 12 agosto 2006, la cognizione delle controversie relative all’iscrizione
delle predette ipoteche;
che da tale corretto rilievo il giudice a quo giunge, tuttavia, alla non consequenziale conclusione che il
menzionato ius superveniens costituito dall’art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge n. 223 del
2006 non ha l’effetto di attribuire la giurisdizione tributaria anche in ordine alle controversie, concernenti
le iscrizioni ipotecarie effettuate a garanzia di crediti tributari, instaurate davanti al giudice tributario
(come nella specie) anteriormente al 12 agosto 2006;
che, il rimettente, infatti, omette di considerare che, in base al diritto vivente, l’art. 5 cod. proc. civ. –
secondo cui «La giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato
di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i
successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo» – va interpretato in conformità alla sua ratio,
che è quella di favorire e non di impedire la perpetuatio iurisdictionis, con la conseguenza che il giudice
originariamente privo di giurisdizione (o competenza) non può, per ragioni di economia processuale,
dichiarare la propria carenza di giurisdizione (o competenza), ove nel corso del giudizio sia sopravvenuta
una legge idonea ad attribuirgli la giurisdizione (o competenza) medesima (ex plurimis, le pronunce della
Corte di cassazione, sezioni unite: ordinanza n. 857 del 2008; sentenze n. 16289 del 2007, n. 20322 del
2006, n. 18126 del 2005, n. 4820 del 2005, n. 3877 del 2004);
che, pertanto – in base alla regola della “competenza sopravvenuta” desumibile da tale consolidata
interpretazione dell’art. 5 cod. proc. civ. –, il citato art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge n. 223
del 2006, è idoneo a radicare, nella controversia relativa all’iscrizione ipotecaria oggetto del giudizio
principale, la giurisdizione del giudice tributario a quo, adíto anteriormente al 12 agosto 2006, quando era
ancora privo di giurisdizione al riguardo;
che, quanto al presupposto interpretativo sub b) – per cui, in base alla disposizione denunciata, il giudice
non potrebbe disporre la translatio iudicii a séguito della declinatoria della propria giurisdizione – il
rimettente omette di considerare sia che, a séguito della pronuncia di questa Corte n. 77 del 2007
(anteriore all’ordinanza di rimessione), la normativa in materia deve interpretarsi nel senso che va
«espunto dall’ordinamento» il «principio per cui la declinatoria della giurisdizione comporta
l’esigenza di instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti sostanziali e processuali prodotti
dalla domanda originariamente proposta si conservino nel nuovo giudizio»; sia che, ancor prima di
detta pronuncia, la giurisprudenza di legittimità, in via interpretativa, aveva ammesso la translatio iudicii
tra giudici speciali e giudice ordinario (Cassazione, sezioni unite civili, sentenze n. 5431 del 2008 e n.
4109 del 2007);
che, dunque, il giudice rimettente non ha neppure tentato di attribuire alle disposizioni in tema di
perpetuatio iurisdictionis e di translatio iudicii interpretazioni diverse da quelle da lui prospettate e tali da
escludere l’illegittimità costituzionale della disposizione denunciata: tanto più che, nel caso di specie, tali
interpretazioni conformi alla Costituzione non solo sono possibili, ma sono state recepite dalla
giurisprudenza di legittimità o da questa stessa Corte (con la citata sentenza n. 77 del 2007);
che la mancata utilizzazione dei poteri interpretativi che la legge riconosce, in via esclusiva, al giudice
rimettente e la mancata esplorazione di diverse soluzioni ermeneutiche al fine di far fronte al dubbio di
costituzionalità ipotizzato integrano omissioni tali da rendere manifestamente inammissibili le sollevate
questioni di legittimità costituzionale (ex plurimis: ordinanze n. 85 del 2007; n. 32 del 2007; n. 299 del
2006; n. 315 del 2002);
32
che, in secondo luogo, le motivazioni addotte in ordine alla non manifesta infondatezza delle sollevate
questioni si pongono in insanabile contrasto con le stesse premesse da cui muove il rimettente, con
conseguente manifesta inammissibilità delle questioni medesime;
che, in particolare, il giudice a quo riferisce che il giudizio principale, ai sensi del terzo periodo del
comma 3 dell’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 (secondo cui «la mancata notificazione di atti
autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione
unitamente a quest’ultimo»), ha ad oggetto l’impugnazione: a) di una cartella di pagamento concernente
crediti tributari, in relazione alla quale il contribuente deduce come unico motivo di invalidità
l’inesistenza della sua notificazione, con conseguente decadenza dell’amministrazione finanziaria dal
potere di procedere alla riscossione; b) dell’avviso, regolarmente notificato, dell’iscrizione ipotecaria
effettuata a garanzia dei crediti tributari indicati nella suddetta cartella, in relazione al quale il
contribuente deduce, come unico motivo di invalidità, l’inesistenza della notificazione dell’atto
presupposto costituito dalla citata cartella;
che, pertanto, la definizione nel merito della controversia sub a) (relativa alla omessa notificazione della
cartella di pagamento ed agli effetti, conseguenti a tale omissione, sul potere di procedere alla riscossione
del credito tributario) è logicamente e giuridicamente pregiudiziale rispetto alla definizione nel merito
della controversia sub b) (relativa alla invalidità dell’iscrizione ipotecaria, derivante dall’asserita
inesistenza della notificazione della predetta cartella), nel senso che l’accoglimento od il rigetto del
ricorso relativo alla cartella di pagamento comporta necessariamente l’accoglimento od il rigetto del
ricorso relativo all’avviso di iscrizione ipotecaria: e ciò indipendentemente dall’individuazione dei giudici
giurisdizionalmente competenti a decidere ciascuna delle due controversie;
che, in ordine alla menzionata controversia sub a), relativa alla cartella di pagamento, lo stesso giudice
tributario a quo esattamente ritiene sussistere la propria giurisdizione in forza del combinato disposto
degli artt. 2, comma 1, e 19, comma 1, lettera d), del citato d.lgs. n. 546 del 1992;
che, per l’effetto, la sua decisione su detta controversia non potrebbe mai comportare, nella specie, la
paventata «perdita del diritto alla tutela delle […] situazioni giuridiche soggettive» del contribuente; e ciò
neppure nel caso (peraltro insussistente, come sopra rilevato) in cui il giudice tributario difettasse di
giurisdizione in ordine all’altra controversia oggetto del giudizio principale, relativa all’iscrizione
ipotecaria, e non fosse consentita la translatio iudicii al giudice ordinario;
che, infatti, il giudice tributario rimettente non si avvede che la pronuncia che egli deve emettere sulla
validità della cartella di pagamento (in esito ad una controversia in ordine alla quale non deve declinare la
giurisdizione) non risulterebbe affatto “vanificata” dalla pronuncia di declinatoria di giurisdizione in
ordine alla diversa e consequenziale controversia sull’iscrizione ipotecaria, perché il giudice ordinario –
anche se adíto ex novo (senza, cioè, translatio iudicii) in ordine a tale ultima controversia – dovrebbe
comunque sostanzialmente conformarsi, nel merito, al decisum del giudice tributario sulla controversia
pregiudiziale relativa alla cartella di pagamento, né potrebbe applicare, in quanto giudice ordinario (come
già rilevato in precedenza), termini di decadenza previsti dalla legge esclusivamente per il ricorso davanti
al giudice tributario;
che dunque, anche sotto tale profilo, le questioni sono manifestamente inammissibili per illogicità, perché
le censure prospettate dal giudice a quo presuppongono necessariamente la carenza di giurisdizione del
giudice tributario anche in ordine alla controversia sulla cartella di pagamento: carenza di giurisdizione
che, però, è negata dallo stesso giudice.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto
legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al
Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevate, in riferimento agli artt.
24, 111 e 113 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Roma con l’ordinanza
indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il
3 novembre 2008. Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2008.
33
ORDINANZA N. 257 - ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art 37 del codice di procedura civile promosso dalla Corte
d’appello di Genova, nel procedimento vertente tra l’Istituto Tartarini RX s.r.l. e l’I.N.P.S. ed altra, con
ordinanza del 20 giugno 2008, iscritta al n. 1 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di costituzione dell’Istituto Tartarini RX s.r.l. e dell’I.N.P.S., nonché l’atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 giugno 2009 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.
Ritenuto che la Corte di appello di Genova, sezione controversie di lavoro, con ordinanza del 20 giugno
2008, ha sollevato, in riferimento agli articoli 24 e 113 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 37 del codice di procedura civile;
che, come il rimettente riferisce, il giudizio a quo ha per oggetto l’opposizione proposta dall’Istituto
Tartarini RX s.r.l. avverso una cartella di pagamento, emessa dalla San Paolo Riscossioni di Genova s.p.a.
su istanza dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (d’ora in avanti, INPS), per il recupero di
contribuzione dovuta al Servizio sanitario nazionale, della quale è stato accertato l’omesso pagamento
con verbale ispettivo del 10 giugno 1996;
che l’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo
tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n.
413), come sostituito dall’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2002), demanda le
controversie aventi ad oggetto il contributo per il Servizio sanitario nazionale alla giurisdizione delle
commissioni tributarie;
che l’art. 37 cod. proc. civ., mentre impone al giudice ordinario di rilevare, anche d’ufficio, il proprio
difetto di giurisdizione nei confronti dei giudici speciali, «nulla statuisce in ordine alla conservazione
degli effetti della domanda, nel nuovo processo che la parte è onerata di promuovere davanti al giudice
munito di giurisdizione»;
che qualora, nel corso del giudizio, si consumino i termini di legge per agire davanti al detto giudice, si
verifica una lesione del diritto costituzionale alla tutela giurisdizionale;
che la questione di legittimità costituzionale è – ad avviso del rimettente – non manifestamente infondata,
in relazione ai principi espressi da questa Corte con la sentenza n. 77 del 2007, peraltro con riguardo a
diversa norma di legge (art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 – Istituzione dei tribunali
amministrativi regionali);
che, inoltre, la questione è detta rilevante, in quanto è interamente decorso il termine di legge affinché la
parte possa rivolgersi al giudice tributario competente in materia (art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992);
che nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito l’Istituto Tartarini RX s.r.l., chiedendo che sia
dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 37 cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede che gli
effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda, proposta al giudice ordinario privo di
giurisdizione, si conservino – a seguito di pronuncia declinatoria della giurisdizione – nel processo
proseguito davanti al giudice di essa munito, nel termine indicato dal primo giudice;
che, ad avviso della parte privata, in base al tenore letterale dell’art. 37 cod. proc. civ., il giudice
rimettente avrebbe dovuto limitarsi a declinare la propria giurisdizione, senza fissare alcun termine per la
riassunzione, non essendo prevista la translatio iudicii, con conseguente venir meno degli effetti
sostanziali e processuali della precedente domanda dal medesimo Istituto formulata, sicché questo non
avrebbe alcuna possibilità di far valere i propri diritti, essendo scaduti i termini per proporre opposizione
alla cartella;
che anche l’art. 367 cod. proc. civ. prevede la riassunzione del processo soltanto per l’ipotesi in cui la
Corte di cassazione dichiari la giurisdizione del giudice ordinario e non quando essa sia riconosciuta
appartenente al giudice speciale, mentre, nell’ipotesi di difetto di competenza, l’art. 50 cod. proc. civ.
prevede la prosecuzione del processo, se riassunto davanti al giudice competente, nel termine fissato dal
giudice a quo e, in mancanza, in quello di sei mesi;
che tale differenza di trattamento è stata sottoposta a critica, sia dalla dottrina, sia dalla giurisprudenza
(Cass., SS.UU. civili, sentenza n. 4109 del 2007), mentre questa Corte, con sentenza n. 77 del 2007, pur
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mostrando di non condividere la citata decisione del giudice di legittimità, ha tuttavia dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge n. 1034 del 1971, nella parte in cui non prevede che
gli effetti sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si
conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti a giudice che di
essa è munito;
che la suddetta sentenza n. 77 del 2007 – aggiunge la parte costituita – è pervenuta a tale conclusione sia
in forza degli artt. 24 e 111 Cost., i quali hanno assegnato all’intero sistema giurisdizionale la funzione di
assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi, sia rilevando che
l’esistenza di una pluralità di giudici (ordinari e speciali) non può risolversi in una vanificazione della
tutela giurisdizionale;
che, pertanto, nel caso di specie, sarebbe necessario un intervento chiarificatore di questa Corte, unico
organo deputato a suggerire, con il proprio intervento interpretativo, la corretta lettura delle norme alla
luce del contenuto della Costituzione, o a dichiararne l’illegittimità costituzionale a fronte del loro tenore
letterale;
che, nel presente giudizio, si è costituito anche l’INPS, chiedendo che questa Corte dichiari inammissibile
o manifestamente infondata la questione sollevata dalla Corte genovese, sia per insufficiente descrizione
della fattispecie, sia per assenza di qualsiasi riferimento alle ragioni poste a base della non manifesta
infondatezza, oggetto soltanto di un richiamo per relationem alla sentenza di questa Corte n. 77 del 2007,
con la conseguenza che l’ordinanza del giudice a quo non sarebbe autosufficiente;
che ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, ed ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente
infondata, rilevando che analoga questione è stata già esaminata da questa Corte con la menzionata
sentenza n. 77 del 2007 e che anche la giurisprudenza di legittimità (Cass., SS.UU. civili, sentenza n.
4109 del 2007) si è pronunciata in punto di translatio iudicii e di conservazione degli effetti della
domanda;
che, in prossimità della camera di consiglio, l’Istituto Tartarini RX s.r.l. ha depositato una memoria
illustrativa, con la quale ha ripreso gli argomenti già svolti nell’atto di costituzione ed ha contestato le
eccezioni sollevate dall’INPS e dal Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato che la Corte di appello di Genova, sezione controversie di lavoro, con l’ordinanza indicata in
epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 24 e 113 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 37 del codice di procedura civile, osservando che detta norma, «mentre
impone al giudice ordinario di rilevare, anche d’ufficio, il proprio difetto di giurisdizione nei confronti dei
giudici speciali, in qualunque stato e grado del processo, nulla statuisce in ordine alla conservazione degli
effetti della domanda, nel nuovo processo che la parte è onerata di promuovere davanti al giudice munito
di giurisdizione», con la conseguenza che, «qualora, nel corso del giudizio, si consumino i termini di
legge per agire dinanzi alla giurisdizione competente, si determina una lesione del diritto costituzionale
alla tutela giurisdizionale»;
che la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile;
che questa Corte, con sentenza n. 77 del 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della
legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui non
prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di
giurisdizione, si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al
giudice di questa munito;
che, a fondamento di tale pronuncia, questa Corte ha posto (tra gli altri) i seguenti rilievi di carattere
generale: a) il principio della incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi, comprensibile in
altri momenti storici, «è certamente incompatibile, nel momento attuale, con fondamentali valori
costituzionali»; b) la Costituzione, fin dalle origini, ha assegnato con l’art. 24 (ribadendolo con l’art. 111)
all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti
soggettivi e degli interessi legittimi; c) questa essendo l’essenziale ragion d’essere dei giudici, ordinari e
speciali, la loro pluralità non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione
della tutela giurisdizionale: ciò che avviene quando la disciplina dei loro rapporti è tale per cui l’erronea
individuazione del giudice munito di giurisdizione (o l’errore del giudice in tema di giurisdizione) può
risolversi nel pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di
tutela giurisdizionale; d) una disciplina siffatta, in quanto potenzialmente lesiva del diritto alla tutela
giurisdizionale e, comunque, tale da incidere sulla sua effettività, è incompatibile con il principio
fondamentale dell’ordinamento, il quale riconosce bensì l’esistenza di una pluralità di giudici, ma la
riconosce affinché venga assicurata, sulla base di distinte competenze, una più adeguata risposta alla
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domanda di giustizia, non già affinché sia compromessa la possibilità stessa che a tale domanda venga
data risposta; e) al principio per cui le disposizioni processuali non sono fini a se stesse, ma funzionali
alla miglior qualità della decisione di merito, si ispira pressoché costantemente il vigente codice di
procedura civile, ed in particolare vi si ispira la disciplina che all’individuazione del giudice competente
non sacrifica il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al “bene della
vita” oggetto della loro contesa; f) al medesimo principio gli artt. 24 e 111 Cost. impongono che si ispiri
la disciplina dei rapporti tra giudici appartenenti ad ordini diversi, allorché una causa, instaurata presso un
giudice, debba essere decisa, a seguito di declinatoria della giurisdizione, da altro giudice;
che i principi ora riassunti sono stati ribaditi da questa Corte con ordinanza n. 363 del 2008;
che anche la giurisprudenza di legittimità (Cass., SS.UU. civili., sentenze n. 2871 del 2009, n. 13048 e n.
4109 del 2007) ha ammesso la translatio iudicii tra giudice ordinario e giudici speciali;
che, pertanto, in base ai principi affermati da questa Corte e al diritto vivente formatosi nella
giurisprudenza di legittimità, devono ormai ritenersi presenti nel vigente sistema del diritto processuale
civile, sia il principio di prosecuzione del processo davanti al giudice munito di giurisdizione, in caso di
pronuncia declinatoria della giurisdizione da parte del giudice inizialmente adito, sia il principio di
conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, della domanda proposta a giudice privo di
giurisdizione, restando affidata al giudice della controversia l’individuazione degli strumenti processuali
per renderli operanti (con riguardo alla disciplina che regola l’istituto della riassunzione della causa);
che i suddetti principi sono stati recepiti anche dall’art. 59 della recentissima legge 18 giugno 2009, n. 69
(Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di
processo civile) che, per quanto non applicabile alla fattispecie in esame ratione temporis (art. 58), rivela
la volontà del legislatore di dare ad essi continuità;
che il giudice a quo, pur non ignorando la citata sentenza di questa Corte n. 77 del 2007, non si è fatto
carico d’individuare, alla luce delle statuizioni della giurisprudenza costituzionale e di legittimità sopra
richiamate, un’interpretazione della norma censurata idonea a superare i dubbi di costituzionalità, in
ossequio al principio secondo cui una disposizione di legge può essere dichiarata costituzionalmente
illegittima solo quando non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme a Costituzione;
che, per giurisprudenza costante di questa Corte, la mancata utilizzazione dei poteri interpretativi, che la
legge riconosce al giudice rimettente, e la mancata esplorazione di diverse soluzioni ermeneutiche, al fine
di far fronte al dubbio di costituzionalità ipotizzato, integrano omissioni tali da rendere manifestamente
inammissibile la sollevata questione di legittimità costituzionale (ex plurimis, ordinanze n. 363, n. 341, n.
268, n. 205 del 2008 nonché n. 85 del 2007);
che ogni altro profilo d’inammissibilità resta assorbito.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 37 del codice di
procedura civile, sollevata, in riferimento agli articoli 24 e 113 della Costituzione, dalla Corte di appello
di Genova, sezione controversie del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 luglio 2009.
Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2009.
36
Sez. U, Ordinanza n. 7446 del 2008 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE Vincenzo - Primo Presidente Dott. CORONA Rafaele - Presidente di sezione Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio - Consigliere Dott. VITRONE Ugo - Consigliere Dott. VIDIRI Guido - Consigliere Dott. SETTIMJ Giovanni - Consigliere Dott. FINOCCHIARO Mario - Consigliere Dott. SALMÈ Giuseppe - Consigliere Dott. SEGRETO Antonio - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COCCIMIGLIO LUIGI, DEL BUONO GIULIANA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SEBINO
11, presso lo studio dell'avvocato FRANCESCO A. CAPUTO, rappresentati e difesi dall'avvocato
BARBA Gregorio, giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrenti contro
COMUNE DI SERRA D'AIELLO, COCCIMIGLIO CESARE & C. S.N.C., MUSÌ RODOLFO;
- intimati per regolamento preventivo di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 126/05 del Tribunale di
PAOLA;
udito l'avvocato Gregorio BARBA;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio il 04/03/08 dal Consigliere Dott. Antonio
SEGRETO;
lette le conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo GAMBARDELLA, il quale
chiede che le Sezioni Unite della Corte, in Camera di consiglio, vogliano dichiarare la giurisdizione della
Corte dei conti in relazione alla domanda proposta dal Comune di Serra d'Aiello nei confronti del
Coccimiglio e della Del Buono quale direttore dei lavori, e dichiari la giurisdizione del giudice ordinario
in relazione alla domanda proposta nei confronti della Del Buono a titolo di progettista, con le
conseguenze di legge.
PREMESSO IN FATTO
Il Comune di Serra D'Aiello con atto di citazione notificato il 22.2.2005 conveniva davanti al Tribunale di
Paola la s.n.c. Coccimiglio Cesare & C, appaltatrice di lavori pubblici; l'arch. Luigi Coccimiglio, ing.
Capo dei lavori appaltati, l'Arch. Giuliana Del Buono, progettista e direttore dei lavori ed il Dr. Musi
Rodolfo, geologo, per sentire dichiarare il loro inadempimento nelle rispettive prestazioni con condanna
degli stessi alla restituzione delle somme loro versate, con interessi e rivalutazione. Radicatosi il
contraddIttorio, i convenuti architetti Coccimiglio e Del Buono eccepivano il difetto di giurisdizione del
giudice adito. Nella pendenza del giudizio di primo grado i predetti proponevano regolamento preventivo
di giurisdizione, sostenendo che sussisteva la giurisdizione della Corte dei Conti. I ricorrenti hanno anche
presentato memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Sostengono i ricorrenti che la giurisdizione si appartiene alla sez. giurisdizionale della Corte dei Conti
per la regione Calabria, ai sensi del R.D. n. 1214 del 1934, art. 52, comma 1, L. n. 142 del 1990, art. 58,
D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 93, L. n. 20 del 1994, art. 1, nel testo modif. dal D.L. n. 543 del 1996, art. 3,
comma 1, lett. A), e L. n. 109 del 1994, sul rilievo che si verte in tema di responsabilità patrimoniale per
danno erariale ascritta a professionisti in rapporto di servizio con l'ente pubblico appaltante nella rivestita
qualità rispettivamente di ingegnere capo (il Coccimiglio) e progettista - direttore dei lavori (la Del
Buono). Sostengono in particolare i ricorrenti che non può farsi distinzione, quanto alla Del Buono, tra le
funzioni di progettista e quelle di direttore dei lavori, trattandosi dello stesso professionista.
2. L'istanza di regolamento preventivo di giurisdizione è fondata. Con l'atto introduttivo del giudizio il
Comune ha chiesto, per il preteso inadempimento dei convenuti, il risarcimento dei danni costituito dalla
37
somma versata ai predetti professionisti in relazione alla loro qualità di ingegnere capo, direttore dei
lavori e progettista dell'opera pubblica realizzata.
In relazione al petitum sostanziale fatto valere con tale domanda sussiste pacificamente la giurisdizione
della Corte dei Conti, in relazione alla domanda proposta dal Comune nei confronti del Coccimiglio e
della Del Buono, relativamente alla prestazione di quest'ultima quale direttrice dei lavori.
Come questa Corte ha da tempo chiarito, il direttore dei lavori per la realizzazione di un'opera pubblica,
appaltata da un'amministrazione comunale, in considerazione dei compiti e delle funzioni che gli sono
devoluti, che comportano l'esercizio di poteri autoritativi nei confronti dell'appaltatore e l'assunzione della
veste di agente, deve ritenersi funzionalmente e temporaneamente inserito nell'apparato organizzativo
della Pubblica Amministrazione che gli ha conferito l'incarico, quale organo tecnico e straordinario della
stessa
(Cass.
S.U.
23.3.2004,
n.
5781;
Cass.
N.
340
del
2003;
Cass.
S.U.
5
aprile
1993,
n.
4060;
Cass.
11
aprile
1994,
n.
3358;
Cass. 24 luglio 2000, n. 515, ex plurimis).
3. Il discorso è identico per l'ingegnere capo, attesi i poteri autoritativi allo stesso facenti capo e
l'imputabilità in via diretta ed immediata alla p.a. della sua attività con rilevanza esterna, ai sensi del R.D.
n. 350 del 1895, art. 1 e segg., e succ. mod.
Con riferimento alla responsabilità per danni cagionati nella esecuzione dell'incarico, i predetti soggetti
sono, dunque, sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti, ai sensi del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214,
art. 52, comma 1 (recante il T.U. delle leggi sull'ordinamento della Corte dei Conti), che a tale
giurisdizione sottopone i funzionari, impiegati ed agenti, civili e militari, quando essi cagionino danno
allo Stato o ad altra Amministrazione, dalla quale dipendono. Questa norma, infatti, con l'entrata in vigore
della L. 8 giugno 1990, n. 142, recante ordinamento sulle autonomie locali, è divenuta applicabile agli
amministratori ed al personale degli enti locali, avendo la L. n. 142 del 1990, art. 58, esteso ad essi le
disposizioni vigenti in materia di responsabilità degli impiegati civili dello Stato. Resta così superata la
distinzione (prima regolata dalle disposizioni del R.D. 3 marzo 1934, n. 383, art. 251 e segg., abrogate
dalla L. n. 142 del 1990, art. 64, comma 1, lett. c)), fra responsabilità formale e responsabilità
amministrativa, già devolute alla giurisdizione contabile e, rispettivamente, a quella ordinaria (cfr. Cass.
26 marzo 1999, n. 188 e Cass. 26 gennaio 2001, n. 24).
4.1. Il problema si pone in relazione alla domanda proposta nei confronti della Del Buono, quale
progettista dell'opera pubblica appaltata.
Si afferma costantemente la giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla domanda di risarcimento
del danno nei confronti del progettista di un'opera pubblica, in quanto non è ravvisabile un rapporto di
servizio tra la stazione appaltante e tale progettista, il cui elaborato deve essere fatto proprio
dall'amministrazione mediante specifica approvazione (Cass. S.U. 23.3.2004, n. 5781; Cass. n. 340 del
2003; Corte dei Conti, 23 giugno 1999, n. 182). Il rapporto tra il progettista (o il calcolatore) e
l'amministrazione conferente è di natura meramente privatistica e deriva da un contratto d'opera
professionale, che non importa l'inserimento del soggetto nell'organizzazione della amministrazione (cfr.
Cass. 188/99).
4.2. Il principio suddetto è certamente condivisibile allorché la domanda risarcitoria è proposta
dall'amministrazione nei confronti di un soggetto che abbia svolto la sola funzione di progettista.
Allorché, invece la domanda è proposta nei confronti di un soggetto investito sia dell'incarico di
progettista che di quello di direttore dei lavori, non può giungersi alla scissione delle giurisdizioni,
affermandosi quella del giudice ordinario per il danno causato nella qualità di progettista e quella del
giudice contabile per il danno causato nella qualità di direttore dei lavori.
A parte il rilievo che tale soluzione urta contro il trend normativo favorevole all'omogeneizzazione della
giurisdizione, allorché si tratti di fatti collegati in un unitario rapporto, va osservato che il cumulo dei due
incarichi professionali di progettista e di direttore dei lavori nello stesso soggetto da luogo ad una
complessiva attività professionale, nella quale l'attività di progettazione si pone solo come elemento
prodromico di quella successiva, - allorché il danno lamentato è prospettato come derivante dal
complesso di tale attività (così nella fattispecie). I doveri di verifica del progetto, propri del direttore dei
lavori (R.D. n. 350 del 1985, art. 5), sussistono già durante la progettazione, che così continua ad avere
una sua autonomia solo ideale ed astratta dalla direzione dei lavori, mentre i doveri di quest'ultima
assorbono anche quelli del progettista, allorché si tratti dello stesso soggetto che cumula i due incarichi e
la domanda risarcitoria dell'amministrazione investa la complessiva attività posta in essere dall'unico
professionista incaricato. Nella fattispecie, quindi, poiché l'architetto Giuliana Del Buono ha svolto tanto
l'incarico di progettista che di direttore dei lavori e la domanda risarcitoria è relativa al complesso
dell'attività professionale svolta, va affermata la giurisdizione della Corte dei Conti relativamente alla
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complessiva domanda risarcitoria posta nei suoi confronti dal Comune sia come direttrice dei lavori che
di progettista.
5. In conclusione deve essere dichiarata la giurisdizione della Corte dei conti in relazione alla domanda
proposta nei confronti del Coccimiglio Luigi, quale ingegnere Capo e nei confronti di Del Buono
Giuliana, quale progettista e direttore dei lavori. 6. Affermata la giurisdizione del giudice contabile
davanti allo stesso va rimessa la causa proposta dall'attore nei confronti dell'ing. Capo e del progettista direttore dei lavori. La "translatio iudicii" opera sia in caso di ricorso ordinario ex art. 360 c.p.c., n. 1
(inizialmente previsto per il solo giudizio ordinario e poi esteso ex art. 111 Cost., a tutte le decisioni,
assumendo la veste di ricorso per contestare innanzi alle sezioni unite la giurisdizione del giudice che ha
emesso la sentenza impugnata) sia nel caso di regolamento preventivo di giurisdizione proponibile
innanzi al giudice ordinario, ma anche innanzi al giudice amministrativo, contabile o tributario. In tal
modo si consente al processo, iniziato erroneamente davanti ad un giudice che difetti della giurisdizione
indicata, di poter continuare - così com'è iniziato - davanti al giudice effettivamente dotato di
giurisdizione, onde dar luogo ad una pronuncia di merito che concluda la controversia processuale,
comunque iniziata, e realizzi pertanto in modo più sollecito ed efficiente il servizio giustizia, di rilevanza
costituzionale (Cass. S.U. 22/02/2007, n. 4109).
Sussistono giusti motivi (segnatamente la novità della questione relativamente alla giurisdizione del
giudice contabile sulla responsabilità del progettista-direttore dei lavori) per disporre tra le parti la
compensazione delle spese del giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
La Corte dichiara la giurisdizione della Corte dei Conti sulla domanda proposta dal Comune di Serra
D'Aiello nei confronti di Coccimiglio Luigi e di Del Buono Giuliana e rimette la relativa causa al giudice
contabile territorialmente competente, per la decisione. Compensa le spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 4 marzo 2008. Depositato in
Cancelleria il 20 marzo 2008
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Sentenza n. 399/2009
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE PRIMA CENTRALE DI APPELLO
composta dai seguenti magistrati:
dott. Giuseppe DAVID
Presidente
dott. Rocco DI PASSIO
Consigliere relatore
d.ssa Piera MAGGI
Consigliere
d.ssa Rita LORETO
Consigliere
dott. Piergiorgio DELLA VENTURA
Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
nel giudizio di appello, iscritto al n. 30661 del registro di segreteria, proposto da BANCA MONTE DEI
PASCHI DI SIENA S.P.A., in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore dott.
Giuseppe Mussari, rappresentata e difesa dall'avv. Prof. Bruno CAPPONI, presso il cui studio è
elettivamente domiciliata - 00196 Roma, via Donatello n. 75;
avverso
la sentenza della Sezione Giurisdizionale per la Regione LAZIO della Corte dei Conti n. 582/2007 del 18
aprile 2007 e nei confronti dell’AGENZIA DELLE ENTRATE – Direzione centrale e Ufficio di Roma 1,
rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso cui è domiciliata, in persona dell’avv.
Maria Luisa SPINA;
Visti gli atti di causa;
Uditi, nella pubblica udienza del 19 maggio 2009, il consigliere relatore, il difensore dell’appellante e il
P. M. di udienza dott. Sergio AURIEMMA;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza appellata, è stato dichiarato inammissibile, per difetto di giurisdizione della Corte
dei conti, il ricorso del Monte dei Paschi di Siena s.p.a, avverso il decreto di fermo amministrativo, e per
intervenuta decadenza dell’azione lo stesso ricorso prodotto, nella qualità di concessionaria del servizio
di riscossione tributi per Roma e Provincia, avverso i decreti di diniego di discarico emessi dalla Agenzia
delle entrate - Ufficio di Roma 1, in data 30 settembre 2005, relativo a 46 domande di discarico per quote
d’imposta inesigibili per € 501.237,55.
Le domande di discarico sono state rigettate con decreti notificati dall’agenzia delle Entrate dal
14 febbraio 2003 al 31 luglio 2003, non impugnati dal concessionario nei termini di cui all’art. 52 del
R.D. n. 1214 del 12 luglio 1934 e, pertanto, divenuti definitivi.
Con la sentenza impugnata, pertanto, oltre al difetto di giurisdizione della Corte dei conti in sede
giurisdizionale in relazione al provvedimento di fermo amministrativo, è stata dichiarata l’inammissibilità
del ricorso inerenti al rapporto giuridico sottostante (quote inesigibili), per intervenuta decadenza
dall’azione, non essendo stato proposto tempestivo ricorso avverso i provvedimenti negativi entro
novanta giorni dalla loro notifica (cit. art. 52 R.D. n. 1214/1934).
La decisione del concessionario di non impugnarli in via giurisdizionale risulta confermata dall’avvenuta
definizione extragiudiziale, ai sensi dell’art. 20 comma 4 del decreto legislativo 13 aprile 1999 n. 112,
alternativa al ricorso giurisdizionale.
Avverso la decisione, l’appellante deduce:
1.- violazione e falsa applicazione degli artt. 56 R.D. 12 luglio 1934 n. 1214, 52-54 R.D. 13 agosto 1933
n. 1038, 69 R.D. 18 novembre 1923, per errata declinatoria della giurisdizione da parte del giudice di
primo grado; in caso di conferma del difetto di giurisdizione, chiede che, per il principio della traslatio
iudicii, sia permessa la riassunzione del giudizio dinanzi all’Autorità munita di giurisdizione, ai sensi
dell’art. 50 c.p.c., fermi gli effetti processuali e sostanziali della domanda giudiziale;
2. violazione e falsa applicazione dell’art. 69 del R.D. 18 novembre 1923 n. 2440, per difetto dei
presupposti soggettivi, per assenza di trilateralità nel rapporto di debito-credito;
3. illegittimità del provvedimento impugnato per insussistenza del presunto credito.
In conclusione, chiede, in riforma della sentenza appellata: in via principale, dichiarazione
dell'illegittimità o nullità o inefficacia del provvedimento impugnato e, comunque, accertare e dichiarare
l'insussistenza di qualsivoglia ragione di debito del Concessionario nei confronti dell'Agenzia resistente,
in relazione ai decreti di rigetto richiamati nel provvedimento impugnato; in subordine, nell’ipotesi di
conferma della decisione appellata, chiede la rimessione al Giudice dotato di giurisdizione, con salvezza
degli effetti sostanziali e processuali della domanda giudiziale, secondo il meccanismo della translatio
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iudicii (art. 50 c.p.c.), secondo quanto deciso dalla sentenza additiva della Corte Cost. 12 marzo 2007 n.
77 e quanto ritenuto dalla conforme giurisprudenza di legittimità, regolatrice della giurisdizione.
L’Avvocatura generale dello Stato, con memoria depositata il 20.4.2009, ritiene non condivisibile
l’assunto di parte ricorrente, poiché, con il provvedimento di fermo, l’Amministrazione ha la possibilità di
compensare o bloccare, in via provvisoria, un debito liquido ed esigibile a tutela di una eventuale
compensazione legale di detto debito con un credito, anche non immediatamente liquido ed esigibile, che
essa pretende di avere nei confronti del suo creditore.
La non impugnazione dei decreti di rigetto delle istanze di discarico e il richiesto e intervenuto condono,
rendono definitiva la situazione, che ne impedisce l’azionabilità in sede giudiziaria.
In conclusione, chiede il rigetto dell’appello.
Il Procuratore generale, nelle conclusioni depositate il 28.4.2009, ribadisce, con più ampie
argomentazioni e ulteriori riferimenti, le argomentazioni esposte dall’Avvocatura generale dello Stato,
concludendo per il rigetto dell’appello.
Allegata alle conclusioni, la Procura generale ha depositato la nota n. 2007/83086 datata 8
novembre 2007, indirizzata alla stessa Procura generale, con cui l’Agenzia delle Entrate - Direzione
Regionale del Lazio, ha fatto conoscere le proprie considerazioni in ordine alle censure sollevate
dall’appellante avverso la sentenza.
Nell’udienza di discussione, l’appellante e il P. M. di udienza si sono riportati agli atti scritti,
ulteriormente esplicitandone le argomentazioni e le richieste.
MOTIVAZIONE
Come rilevato dal primo Giudice, il fermo amministrativo è un mezzo di autotutela privilegiata, di
carattere cautelare, preordinata alla compensazione legale tra crediti e debiti delle varie amministrazioni
statali (Corte cost., 19.4.1972 n. 67), non ammissibile fra soggetti amministrativi diversi dallo Stato
(Cons. St., sez. VI, 6.4.1976 n. 163), e non utilizzabile da parte di altre amministrazioni pubbliche
(Cassaz., 29.7.1998 n. 7414); ha carattere provvisorio per cui, a differenza della compensazione
ordinaria, non è richiesto che il credito sia liquido ed esigibile, essendo sufficiente una mera ragione del
credito che, però, deve essere certa, probante e ragionevole, sotto il profilo della presumibile fondatezza
della domanda (fumus boni juris – Consiglio St., sez. VI, 8.4.2002 n. 1989), mentre la liquidità è richiesta
in sede di compensazione definitiva, ai sensi dell’art. 1243 c.c.; è utilizzabile anche per le indebite
percezioni di contributi comunitari (TAR Lazio, sez. II-ter, 8.6.2005 n. 4662).
E’ disposto con provvedimento amministrativo soggetto alla giurisdizione amministrativa (C.
conti, Sez. I centrale 21.1.2004 n. 19), senza pregiudizio della piena cognizione del giudice ordinario ai
fini dell’accertamento e liquidazione del credito vantato dall’amministrazione, se convenuta in giudizio
per l’adempimento del proprio debito (Cassaz., SS.UU. 21.5.2003 n. 7945, sez. I, 12.7.2004 n. 13808,
19.1.1979 n. 391; Cons. St., sez. VI, 8.3.1996 n. 375, 7.12.2001 n. 6179).
Pertanto l’appello, sul punto, non merita accoglimento, spettando al giudice amministrativo,
segnatamente al T.A.R. Lazio, la giurisdizione al riguardo, al quale compete vagliare la sussistenza delle
condizioni dell’azione e pronunciarsi sugli effetti processuali e sostanziali della domanda giudiziale, ivi
compresa la sussistenza del credito.
Il c. d. rapporto sottostante, concernente il discarico delle quote inesigibili, di competenza di
questa Corte, nella specie è improponibile, in quanto non azionato tempestivamente; i provvedimenti di
diniego di rimborso di quote d’imposta inesigibili, risalenti a periodi temporali compresi tra il febbraio e
il luglio 2003, non risultano impugnati entro il termine decadenziale di novanta giorni dalla notificazione
dei relativi provvedimenti, ai sensi dell’art. 20 comma 4, del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112.
Tale disposizione prevede, infatti, che nel termine di novanta giorni dalla notificazione del
provvedimento di cui al precedente comma 3 (provvedimento di discarico), il concessionario possa
definire la controversia con il pagamento di metà dell'importo dovuto ai sensi del medesimo comma 3
ovvero, se non procede alla definizione agevolata, può ricorrere nello stesso termine alla Corte dei conti.
La stessa Banca appellante ha dichiarato, in relazione ai provvedimenti negativi emanati
dall'Amministrazione finanziaria, di essersi avvalsa della facoltà prevista dall'articolo 20 comma 4 del
decreto legislativo 13 aprile 1999 n. 112 e poi anche dell'articolo 12 della legge 27 dicembre 2002 n. 289.
Poiché l'esercizio della facoltà di cui all'articolo 20 comma 4 del citato decreto legislativo da
parte della banca concessionaria è modalità alternativa alla produzione del ricorso dinanzi alla Corte, la
sentenza impugnata ha correttamente ravvisato nel comportamento della Banca un’ulteriore conferma
dell'avvenuto decorso del termine decadenziale per proporre l’azione dinanzi alla Corte dei conti, che,
come affermato dal primo Giudice, tale termine non “può essere riattivato con l'impugnativa del decreto
cautelare di fermo amministrativo che, ancorché connesso con la contestata modalità di definizione
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agevolata del debito, non può incidere sull'inoppugnabilità dei decreti reiettivi delle istanze di rimborso di
quote inesigibili”.
Pertanto, anche in ordine a tale punto, la sentenza impugnata appare immune dalle censure
evidenziate dall’appellante.
Sussistono giusti motivi per ritenere compensate le spese di difesa .
Le spese di giudizio seguono la soccombenza.
P.Q.M.
la Corte dei conti - Sezione prima giurisdizionale centrale di appello, rigetta l’appello indicato in epigrafe
e, per l’effetto, dichiara il difetto di giurisdizione della Corte dei conti e la giurisdizione del giudice
amministrativo, segnatamente T.A.R. Lazio; compensa le spese legali. Spese di giudizio liquidate in €
105,24 (Centocinque/24). Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 19 maggio 2009.
Depositata in segreteria il 12/06/2009
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