STORIA DELLE FILOSOFIE, STORIA DELL`UOMO

STORIA DELLE FILOSOFIE, STORIA DELL’UOMO
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Introduzione sull’argomento: la ragione
Socrate e l’uso critico della ragione
La ragione nella filosofia di Aristotele
Il razionalismo
L’empirismo
Il criticismo
Hegel e la ragione
La filosofia come specchio della vita
Fanciullezza
Adolescenza
Maturità
Morte
La ragione è un filo conduttore che accomuna tutte le filosofie dai tempi più lontani fino ai
giorni nostri: questo è infatti uno degli argomenti più discussi nella storia, che ha
contrapposto, talvolta, i vari filosofi.
Quello in cui stiamo per inoltrarci è un percorso che passerà in rassegna i significati
molteplici che la ragione ha avuto nelle filosofie dei diversi pensatori, partendo da Aristotele
per giungere ad Hegel, passando per Cartesio e Kant. Tutti loro in particolare hanno dedicato
le loro energie per indagare questo argomento in particolare, che tutti riconoscevano come
fondamentale per la filosofia, ma anche per la vita in genere, la ragione, interpretandola
variamente, a volte anche in modi incompatibili.
Il termine ragione, proveniente dal latino “ratio”, a sua volta derivato dalla traduzione del
greco “logos”, contiene in sé un duplice significato: può essere infatti intesa come la facoltà
propria del nostro intelletto di comprendere la realtà o come il significato vero della realtà, il
“logos” appunto.
Molti studiosi della filosofia ritengono che Socrate sia stato il pensatore che ha consentito
la nascita e lo sviluppo della riflessione razionale. Secondo lui il vero filosofo non è l’uomo
più saccente sulla faccia della terra, così come i sofisti facevano, ma piuttosto colui che,
consapevole della sua ignoranza, ha sete di conoscere, e si muove al fine di esaudire questo
desiderio di conoscenza. “La vera saggezza sta in colui che sa di non sapere! Perché io so di
sapere più di te, che pensi di sapere.” affermava Socrate. Platone ci racconta, nell’opera
“Apologia di Socrate”, come il suo maestro abbia compreso questo verità a partire da un
episodio davvero singolare: Cherofonte, suo caro amico, aveva chiesto alla sacerdotessa di
Apollo a Delfi, chi fosse l’uomo più sapiente sulla faccia della terra e questa aveva affermato
essere Socrate; tuttavia egli in cuor suo sapeva di non essere il più sapiente e, così,
volenteroso di dimostrare che l’oracolo si era sbagliato, cominciò a dialogare con i personaggi
che erano ritenuti essere i più sapienti. Ma alla fine del confronto col loro, dopo che il filosofo
li aveva messi di fronte alle loro contraddizioni e ai loro errori, provarono stupore: in verità,
altro non erano che uomini presuntuosi ma in fondo ignoranti. Fu allora che si rese conto che
il suo sapere di essere ignorante era la condizione che lo rendeva l’uomo più sapiente del
mondo; così, con i suoi celebri dialoghi, egli girava per le vie della città, ammonendo gli
uomini ad usare la ragione in modo critico, senza avere la presunzione di essere già dotti, ma
anzi, partire da questa condizione di ignoranza per giungere alla conoscenza.
Il secondo personaggio che incontriamo in questo nostro percorso è Aristotele da Stagira.
Egli distingueva tra ragione, che chiamava dianoia, e intelletto, il nous. Aristotele attribuiva al
“nous” la capacità di leggere dentro: l’intelletto infatti secondo lui riesce a penetrare
nell'interiorità, a cogliere ciò che ha l’essere in proprio, cioè la sostanza, quel sostrato che
rimane sempre unico e identico a se stesso, prescindendo dalle particolarità esteriori. In
effetti, intelletto deriva dal verbo latino intelligere, composto da intus e legere, che significa
propriamente “leggere dentro”, esattamente come egli aveva capito. Al “nous”, Aristotele
contrapponeva la “dianoia”, o ragione, che coincide con la conoscenza scientifica basata
sulla deduzione; la razionalità logica però è in grado soltanto di effettuare deduzioni corrette
dal punto di vista formale, ma senza garantire la veridicità dei contenuti: se il ragionamento
infatti partisse da premesse false, anche il risultato risulterebbe essere falso. Per questo, è
compito dell’intelletto verificare la veridicità delle premesse, attraverso la “noesis”, processo
nel quale i sensi fanno attivare un primo movimento del pensiero ancora
latente, altrimenti detto "intelletto potenziale"; in seguito a vari passaggi, si ha infine
l'intervento di un "intelletto attivo", dotato cioè di conoscenza in atto, capace di "astrarre" le
forme universali dagli oggetti. L'intelletto si colloca così al vertice più alto della conoscenza:
« I possessi sempre veraci sono la scienza e l'intuizione, e non sussiste altro genere di
conoscenza superiore alla scienza, all'infuori dell'intuizione. Ciò posto, e dato che i princìpi
primi risultano più evidenti delle dimostrazioni, e che, d'altro canto, ogni scienza si presenta
congiunta alla ragione discorsiva, in tal caso i princìpi non saranno oggetto di scienza; e
poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l'intuizione, sarà invece
l'intuizione ad avere come oggetto i princìpi. » Tale superiorità sarà ribadita in età ellenistica
con il neoplatonismo, quando Plotino assegnerà all'ipostasi dell'Anima il livello di conoscenza
di tipo mediato proprio della ragione, inferiore a quello immediato dell'Intelletto proprio
dell'intuizione. Questa distinzione tra intelletto e ragione, o tra “nous” e “dianoia”, resterà
valida per moltissimo tempo, sulla convinzione che, perché vi sia scienza, la ragione da sola
non basta: è attraverso un’intuizione intellettiva che si può arrivare alla verità dei concetti
primi.
E’ con l’avvento dell’età moderna che la ragione assumerà un ruolo di primaria importanza
nella produzione di una vera scienza, grazie al razionalismo, il cui padre è ritenuto essere
Cartesio.
Cartesio infatti, nel “discorso sul metodo”, dopo aver messo in discussione la perfezione
dei sensi, dopo aver dubitato dei ragionamenti, giudicando falsi tutti quelli che aveva accolto
in precedenza come dimostrazioni, e aver considerato che i pensieri che l’uomo ha quando è
sveglio, potrebbero giungere all’intelletto anche quando sta dormendo , ritenendo così ogni
realtà accolta dalla sua mente come una pura illusione prodotta da un sogno, si rese conto che,
nello stesso momento in cui stava dubitando di qualunque cosa, era necessario che egli stesso
fosse una qualche cosa, che, cioè, stesse pensando. Giunse allora a questa verità: “io penso,
dunque sono”, o nella sua forma latina “cogito, ergo sum”. Dunque egli, attraverso
un’intuizione arrivò ad affermare che era una sostanza la cui natura non consisteva in altro se
non nel pensare, e che questa essenza non aveva bisogno di nessun luogo per essere, non
dipendeva da nient’altro. Ancor più potentemente affermò che l’anima che lo rendeva una
“res cogitans”, una sostanza pensante, era distinta dal corpo e che, anzi, senza questo non
avrebbe cessato affatto di essere tale. L’io, quindi, cioè l’anima, la “res cogitans”, si distingue
della “res extensa”, ovvero il corpo: l’esistenza dell’anima è dunque la verità prima, mentre
quella del corpo deve essere dimostrata. Ma dunque la realtà che mi circonda non esiste?
Cartesio, dopo aver dimostrato l’esistenza di Dio attraverso un prova a posteriori, ed una
ontologica o a priori, pone nell’essere perfetto il fondamento ultimo della sua regola
dell’evidenza(“è vero tutto ciò che noi percepiamo come chiaro e distinto”): le nostre idee
devono infatti avere un qualche fondamento di verità, perché è impossibile che Dio, il quale è
l’essere assolutamente perfetto, le abbia messe in noi senza un tal fondamento. Per questo si
può dire che chi non ammette l’esistenza di Dio non può mai uscire dal dubbio. Cartesio fu
accusato di essere caduto in una sorta di “circolo vizioso”: egli infatti ha dimostrato
l’esistenza di Dio tramite il pensiero, il quale però è garantito da Dio stesso. Nonostante
questo comunque, la grandezza del pensiero di Cartesio è stata quella di tagliare i ponti con la
tradizione filosofica rinascimentale: l’esistenza dell’io è il grado primo di verità, mediante il
quale si può provare l’esistenza di Dio, che è il garante a sua volta dell’esistenza del mondo
all’infuori dell’essere; si conosce l’io attraverso un’intuizione, Dio tramite una deduzione, e il
mondo grazie ai sensi, partendo dal grado di conoscenza più elevato, fino ad arrivare a quello
più basso.
Poco dopo anche Spinoza parlerà dei diversi gradi di conoscenza: nel “Ethica ordine
geometrico demonstrata” o “Etica dimostrata secondo il metodo geometrico”, egli distingue
tra opinione, ragione e intelletto o conoscenza intuitiva. La prima forma di conoscenza
consiste nella percezione visibile, ma è inadeguata e fallace, poiché genera idee confuse,
rappresentando le cose come contingenti ma non necessarie. La ragione è il sapere proprio
della scienza, cioè di matematica e fisica: questa consente una conoscenza adeguata,
cogliendo la causa prima delle cose; fa vedere le cose non come contingenti, ma come
necessarie, “sub quadam aeternitatis specie”, come in una specie di eternità, come fossero
eterne. Infine, la conoscenza intuitiva corrisponde al grado di conoscenza più chiaro e
distinto, perché coglie, in modo perfetto, la necessità delle cose, “sub specie aeternitatis”, dal
punto di vista stesso dell’eternità.
Alla concezione razionalistica di Cartesio e Spinoza si contrappone quella empiristica, cioè
basata sull’esperienza, di Berkeley, Locke e Hume, secondo i quali la ragione non è da
intendere come la facoltà universale contrapposta agli organi di senso, ma ha semplicemente
la funzione di studiare e rielaborare i dati dell’esperienza, da cui infatti non si può
prescindere.
Durante l’illuminismo si affermò l’importanza della ragione come mezzo di critica valido
in tutti i campi: etica, estetica, scienza, ecc..
Grazie alla ragione i pensatori del periodo illuminista si proposero di mettere al vaglio ogni
verità ritenuta imposta da un’autorità superiore, da un dogma, rifiutando con ogni potere il
principio di autorità, ben spiegabile con la locuzione latina “Ipse dixit”, coniata da Pitagora.
Così scriveva Immanuel Kant: “L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che
egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la
guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da
difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio
intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua
propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo. Pigrizia e viltà sono le cause per cui
tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dall'altrui guida,
rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a
loro tutori. E' così comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore
spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non ho certo
bisogno di sforzarmi da me.”, e ancora “A questo rischiaramento, invece, non occorre altro
che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico
uso della propria ragione in tutti i campi. Ma sento gridare da ogni lato: non
ragionate! L'ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L'intendente di finanza:
non ragionate, pagate! L'ecclesiastico: non ragionate, credete! (Un unico signore al mondo
dice: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete, ma obbedite!) Qui c'è restrizione alla
libertà dappertutto. Ma quale restrizione è d'ostacolo all'illuminismo, e quale invece non lo è,
piuttosto lo favorisce? Io rispondo: il pubblico uso della propria ragione deve essere libero in
ogni tempo, ed esso solo può realizzare il rischiaramento tra gli uomini.”
Kant fu tra l’altro autore di due opere fondamentali: la “critica della ragion pura”, in cui si
occupa di gnoseologia e metafisica, e la “critica della ragion pratica”, in cui invece si occupa
di etica. Nella prima opera egli si chiede su quali giudizi si fondano le scienze, arrivando alla
conclusione che queste si fondano sui giudizi sintetici a priori(è vero come è vero che 5
aggiunto a 7 faccia 12), in quanto portatori di verità universali, necessarie e feconde. Lo scopo
primo dell’opera è però quello di indagare limiti e possibilità della conoscenza umana, scopo
proprio dello stesso criticismo. Secondo lui la ragione si pone dei problemi per la sua natura,
ma che non possono essere spiegati a causa della ristrettezza del potere della ragione stessa:
da sempre infatti l’uomo si chiede chi sia, se ci sia una divinità, e se all’infuori di sé esista un
mondo, ma tuttavia non riesce a darsi delle risposte a causa del potere ristretto della ragione;
la ragione è perciò per Kant la facoltà attraverso la quale cerchiamo una spiegazione
complessiva della realtà, andando oltre l’esperienza. Per questo, egli distingue tra fenomeno e
noumeno: il fenomeno è ciò che si presenta ai nostri sensi attraverso l’intuizione, mentre il
noumeno è l’essenza in sé, ossia fuori dalla nostra mente. La conoscenza fenomenica è
sempre possibile entro i limiti dell’esperienza, mentre il noumeno, pur essendo pensabile non
è conoscibile perché al di là dei limiti dell’esperienza umana.
“Il vero è l'intero. Ma l'intero è soltanto l'essenza che si completa mediante il suo sviluppo.
Dell'Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò che è in
verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell'essere effettualità, soggetto, o svolgimento
di se stesso.”, è quanto scriveva Hegel nella “Fenomenologia dello spirito” e ancora “tutto ciò
che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale”. In queste due frasi è contenuto tutto
il pensiero filosofico di Hegel. Con la seconda frase egli intende affermare che la razionalità
consiste nel processo attraverso cui la ragione si attua nella storia, cioè che la verità, la storia,
è un prodotto della ragione. Ma che cosa esiste? Cos’è la realtà di cui Hegel parla? Ed eccoci
giunti alla prima frase: per lui la realtà sta nell’intero processo della storia, è movimento, è un
tutto fluente; è inoltre uno scontro: egli nella dialettica distingue in tre momenti, quello
intellettivo o astratto, quello dialettico o negativamente razionale e infine quello speculativo o
positivamente razionale. Il primo momento corrisponde alla tesi, ed è il momento
dell’intelletto, il quale però blocca i concetti e per questo motivo non può essere la verità; il
secondo corrisponde all’antitesi: infatti ogni cosa è sé stessa ed il suo contrario, perciò questo
momento corrisponde alla negazione del concetto prima affermato; infine eccoci giunti alla
verità, la sintesi: è la negazione della negazione, la quale però non corrisponde
all’affermazione. Infatti qualcosa di questa negazione è rimasto, ed è proprio questo qualcosa
che ha inverato la cosa. Hegel lo spiega usando il verbo tedesco “aufheben”, che può essere
tradotto con “togliere e conservare”: e in effetti è esattamente così, la negazione viene tolta,
ma tuttavia qualcosa rimane e viene conservato, il che rende tutto più vero. E il vero arriva
solo ora, alla fine dell’intero processo.
Arrivati a questo punto possiamo capire come la filosofia, con il suo percorso nella storia
degli uomini , altro non è se non lo specchio della vita di ogni singolo individuo. Ed è grazie
al pensiero di ogni filosofo nella storia che ce ne rendiamo conto. Seguendo infatti il percorso
che ha avuto il pensiero riguardante l’argomento della ragione umana, possiamo ripercorrere
la storia della filosofia come fosse la vita di uomo, attraverso le tappe più importanti della sua
esistenza, dalla sua nascita alla sua morte, passando attraverso le tappe intermedie
dell’adolescenza e dell’età adulta.
Immaginiamoci ora di dover chiedere ad un bambino, essere in cui la conoscenza è ai
livelli più elementari, che cosa sia per lui la ragione: egli non ci saprebbe rispondere, non ha
ancora una risposta, perché non se lo è mai chiesto; fino a quel momento non ha avuto
bisogno di pensarci. Infatti come potrebbe essere utile ad un bambino sapere che cosa sia la
ragione? Egli non ha bisogno di questa per compiere delle scelte “ragionate”, poiché altri
compiono le scelte per lui. Ma quando il bambino inizia a crescere, a farsi delle idee proprie
sul mondo in cui vive, deve compiere delle scelte, per quanto facili esse possano essere. E
come conseguenza di questo inizia anche a porsi delle domande. Perciò, dall’alto della sua
“ignoranza”, il bambino comincia a chiedere ai suoi genitori, o più in generale agli adulti,
perché le cose avvengono in un determinato modo; c’è un periodo infatti nella fase della
crescita di un bambino in cui egli comincia a diventare curioso, a fare domande su tutto ciò
che gli capita, sul mondo che lo circonda; tutto per lui è desiderio di conoscenza, fame di
sapere. Proprio come per Socrate: egli infatti si rendeva conto di non conoscere alla
perfezione tutto ciò che lo circondava, eppure, essendo desideroso di giungere alla verità,
poneva domande ai suoi concittadini, in modo di giungere a questa attraverso un dialogo
fecondo.
Qui sta il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza: ora l’adolescente è giunto ad una
prima verità, è convinto di questa, crede di avere il mondo in pugno, si sente forte del suo
pensiero e delle sue idee. Ma forse non ha scavato a fondo, forse le sue convinzioni hanno un
fondamento debole. Così, si cade nell’errore di cui parlava Aristotele, si cade in un falso
sillogismo(A: tutti gli uomini hanno due gambe. B: tutti i canguri hanno due gambe. C: i
canguri sono uomini.). Infatti il metodo che si usa per compiere un’indagine scientifica può
anche essere corretto e lineare come lo è quello dei sillogismi, eppure il ragionamento può
risultare del tutto scorretto. È soltanto attraverso l’intelletto, dunque tramite un’intuizione, che
si ha conoscenza completa e vera; la deduzione invece può portarci a risultati fallaci, sia
qualora le basi da cui si parte siano errate, sia qualora il ragionamento sia corretto, così come
le basi, ma il sillogismo ci ha portato ad un risultato del tutto errato.
Le nostre convinzioni sono allora cadute, ci sentiamo affranti, crescendo comprendiamo
che tutto può essere confutato; eppure una cosa è innegabile: dal fatto stesso che stiamo
confutando la realtà, ci rendiamo conto di dover essere qualcosa, di avere una personalità, un
“io”. Ed è proprio così che fece Cartesio! Egli rimosse tutte le convinzioni che si era creato
con l’esperienza, assunse una morale provvisoria che consisteva nell’accettare come vere
soltanto affermazioni chiare e distinte, in modo di giungere poi a conclusioni innegabili. Così
comprese che il mondo all’infuori di sé poteva essere negato, ma non poteva essere negata la
sua presenza come “res cogitans”, sostanza pensante. Questa è davvero la nostra sicurezza,
che si può raggiungere nella fase della maturità, quando si comprende chi siamo davvero, e su
questa sicurezza dobbiamo costruiamo il nostro futuro. Ora siamo soli, con tutto il mondo di
fronte e nessuno a proteggerci: dobbiamo combattere, farci forza, senza aver paura di
scontrarci con le opinioni degli altri, anche nel caso in cui la nostra opinione fosse quella della
minoranza. Da qui il senso di quel “sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua
intelligenza”: non bisogna mai infatti seguire un “diktat”, la moda, soltanto perché è
l’opinione della maggioranza; se siamo sicuri delle nostre idee dobbiamo seguirle fin dove ci
portano, ascoltando i consigli e le critiche formative, magari apportando delle piccole
modifiche, ma senza aver paura di esprimere le nostre opinioni solo per paura di non essere
ascoltati!
Siamo giunti alla fine dunque di questo nostro discorso che ha ripercorso le tappe della
nostra vita che non sono altro se non le tappe della storia che, come ci insegna Hegel, è un
continuo avvicendarsi di idee, di uomini, di popoli, ognuno rappresentante la massima
espressione di quel preciso periodo. Ma il presente non può essere slegato dal passato, anzi, si
potrebbe affermare che il presente è il risultato di ciò che è avvenuto nel passato. Così è la
vita di un uomo: giunto al termine della sua esistenza non è altro se non le azioni che ha
compiuto, i gesti che fatto, le imprese portate a termine. Egli non è altro che l’intero percorso
dalla sua nascita sino a quell’istante. Ma la verità, arriva soltanto con la sua morte, l’estremo
momento della sua vita. In quel momento l’uomo sarà davvero completo, soltanto in quel
momento egli è divenuto il risultato dell’intero processo e, esattamente come la filosofia,
ritenuta da Hegel come la “nottola di minerva che leva il suo volo sul far del crepuscolo”(vale
a dire che la filosofia arriva sempre al termine di tutto, o troppo tardi come direbbe lui, per
giudicare quel che è stato e comprendere una condizione solo quando essa è già trascorsa),
così un giudizio di valore sulla vita di un uomo deve giungere solo ora, alla fine di tutto,
perché soltanto ora si può comprendere chi era davvero quell’uomo.
La storia della filosofia, dunque, non è altro se non la storia dell’uomo.
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IMMANUEL KANT, Critica della ragion pratica
GEORGE WILHELM FRIEDRICH HEGEL, Fenomenologia dello spirito
GEORGE WILHELM FRIEDRICH HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto