I raggi Catodici Alla fine del secolo scorso erano molto “di moda” esperimenti di conduzione in atmosfere di gas rarefatti. In adeguate condizioni di pressione e potenziale applicato a due elettrodi inseriti in un’ampolla riempita di gas, si osservava la presenza di una scarica elettrica che dava luogo all’emissione di luce. Era noto che le caratteristiche della scarica dipendevano in modo evidente dalla pressione interna al tubo. L’emissione di luce, in realtà coinvolge una serie complicata di fenomeni, primo fra tutti la ionizzazione degli atomi del gas e lo spettro emesso era popolato da un considerevole numero di righe peculiari della particolare specie atomica che popolava l’ampolla. Se la pressione dentro il tubo viene abbassata al di sotto di qualche decimo di mm di mercurio si osserva lo spegnersi della scarica, tuttavia con un amperometro è facile verificare anche che la corrente continua a fluire all’interno del tubo. Inoltre sulla parete del tubo è possibile osservare una macchia la cui posizione e dimensione lasciano pensare essere dovuta a raggi di qualche natura che lasciano uno degli elettrodi. Inoltre, immergendo il tubo in un forte campo magnetico o elettrico si osserva una variazione della posizione della macchia, cosa che indica che questi raggi sono dovuti a particelle cariche. Inoltre, studiando come si sposta la macchia sul tubo al variare del campo esterno, si può affermare che queste particelle sono cariche negativamente. Questi raggi vennero chiamati “raggi catodici” e il tubo che li produce “tubo a raggi catodici”. Oggi è ben noto che i raggi catodici sono elettroni che lasciano il catodo a causa del bombardamento dovuto agli ioni positivi accelerati dal campo elettrico applicato agli elettrodi del tubo. 1 2 Esperimento di Thomson Nel 1897 Thomson realizzò un esperimento molto accurato per la misura del rapporto e/m delle particelle cariche che costituiscono i raggi catodici. A tale scopo venne realizzato un particolare tubo a raggi catodici equipaggiato con un sistema di focalizzazione della macchia (una pin hole) e due “placchette di deflessione” che intercettano il fascio dei raggi prodotti dal catodo e li deflettono a causa di un campo elettrico esterno ad esse applicato. Una particella carica attraversa le due placchette, poste a distanza d, per un tratto di traiettoria lungo l. Applicando un potenziale V alle due placchette si produrrà una forza F=eV/d che agisce sulla particella spingendola verso la placchetta a potenziale positivo. Ne deriva una accelerazione a=(e/m)(V/d). La forza agisce per un tempo t=l/v durante il quale la particella attraversa i due piatti, quindi alla fine del percorso la particella avrà subito una deflessione : 1 2 1 eV l at 2 2 md v 2 Questa deflessione viene amplificata di un fattore 2L/l essendo L la distanza dal centro di piatti alla fine del tubo. Quindi la deflessione totale è: L eV l S1S 2 l md v 2 3 Per determinare la velocità v Thomson fece una misura indipendente utilizzando un campo magnetico H applicato nella direzione ortogonale al piano della figura. Con una corretta orientazione del campo magnetico si può annullare la deviazione dovuta la campo elettrico. In queste condizioni, quindi si deve fare in modo che la forza elettrostatica dovuta la campo esterno V sia uguale ed opposta alla forza di Lorentz dovuta la campo magnetico; si ottiene: eV Hev d c Con questo esperimento Thomson trovò e 5.27 X 1017 esu / g 1.76 X 108 Coulomb / g m I risultati dell’esperimento risultarono indipendenti dal particolare materiale di cui è costituito il catodo o la natura del gas residuo contenuto nel tubo. Inoltre la quantità misurata è molto più grande di quella ottenuta in esperimenti di elettrolisi. In quest’ultimo caso, utilizzando atomi di idrogeno si ottiene un valore 1836 volte più piccolo. Thomson fece l’ipotesi che le particelle dei raggi catodici avessero esattamente la stessa carica degli atomi di idrogeno ma massa molto più piccola. Questa unità venne chiamata carica elettrica e le particelle elettroni. 4 Esperimento di Millikan L’esperimento di Millikan (1909) consiste nell’osservare il moto di minuscole particelle d’olio polverizzate fra le due armature di un condensatore a facce piane e parallele. A causa dell’attrito con l’aria, in conseguenza della polverizzazione, l’olio si carica per strofinio. Esisterà quindi un potenziale che, applicato alle placche del condensatore, è in grado di mantenere sospese le goccioline d’olio nonostante la gravità. In questo caso si può scrivere: V Una particella sferica di raggio a che si muove in un fluido viscoso q mg (aria) è soggetta ad un moto accelerato finché non raggiunge una d “velocità limite”. mg 6 av 4 3 m a 3 4 3 a g 6av 3 2 2 v a g 9 La velocità v si può misurare con l’aiuto di un microscopio osservando la particella cadere sotto l’effetto della gravità quando la sua velocità è costante. Nota che sia v è possibile determinare q, dopo un numero grande di misure si ottiene: e 4.80 X 1010 esu 1.60 X 1019 coulombs 5 Effetto fotoelettrico Scoperta Hertz 1887 Teoria Einstein 1905 Soglia nella lunghezza d’onda. Emissione istantanea che non dipende dall’intensità luminosa. Potenziale di bloccaggio indipendente dall’intensità luminosa. Misure Lennard 1899-1902 FOTONI: h 6 Fissata la differenza di potenziale positiva nel dispositivo utilizzato, Lenard variò l’intensità della luce e scoprì che la corrente massima di saturazione era direttamente proporzionale all'intensità della luce incidente. Ci si aspettava l'esistenza di una soglia sulla base dell'ipotesi che era necessario un certo valore finito del flusso di energia luminosa per fare uscire un elettrone dal metallo. Per l'effetto fotoelettrico non fu mai rivelata una soglia dell'intensità: se la luce incidente è in grado di produrre l'effetto, alcuni elettroni vengono sempre emessi, indipendentemente da quanto la luce sia debole. Se Lenard non osservò alcuna soglia nel valore dell'intensità luminosa, tuttavia l'effetto fotoelettrico avveniva solo se la frequenza della luce incidente sul catodo era maggiore di un certo valore, chiamato frequenza di soglia, caratteristico del metallo di cui è composto il catodo. Sotto questo valore l'effetto non avveniva qualunque fosse l'intensità della luce incidente. All'aumentare della differenza di potenziale ritardante essa diminuisce più o meno in modo lineare, raggiungendo lo zero ad una differenza di potenziale dell'ordine di qualche volt. Il valore della differenza di potenziale a cui la corrente viene interrotta è chiamato potenziale di arresto. Ciò è comprensibile solo se esiste un valore massimo dell'energia cinetica corrispondente agli elettroni più veloci prodotti. Lenard osservò che il valore di tale differenza di potenziale, e quindi l'energia cinetica degli elettroni emessi, non dipendeva dalla intensità della luce incidente: infatti egli variò l'intensità della luce più di un fattore mille, tenendo costante ogni altra grandezza, senza osservare alcuna modifica significativa del potenziale di arresto. Ma esso veniva modificato solo quando si usava un diverso tipo di sorgente luminosa (o quando veniva cambiato il metallo dell'elettrodo M), per cui l'energia cinetica degli elettroni dipendeva dalla frequenza della luce incidente. 7 Misura di h Quindi, se il potenziale dell'anodo è minore di zero (VA<0) gli elettroni vengono frenati dal potenziale negativo –VA. Per un certo valore del potenziale negativo applicato all’elettrodo la corrente di fotoelettroni si annulla; il valore di 0 per la corrente lo si ottiene quando: eVa Ekmax h W0 In questa relazione e è la carica dell’elettrone (e=1.6x10-19Coulomb). Quindi se –eVA=EkMax nessun elettrone può raggiungere l’elettrodo, e si può scrivere la relazione: h W0 V0 e e Dove V0 rappresenta il valore del potenziale di anodo per il quale la corrente di fotoelettroni si annulla. Questa è una relazione lineare tra V0 e . Registrando vari valori del potenziale dell'anodo V0, per cui la corrente si annulla, al variare della frequenza dei fotoni incidenti, si può costruire una retta la cui pendenza è h/e, mentre l’intercetta è –W/e. Il metodo consente una stima del valore di h, infatti: W0/e per i metalli alcalini vale circa 1V e pertanto può essere misurata nel visibile (h nel visibile vale circa 1 eVolt). Di seguito un esempio di dati raccolti, utilizzando una lampada a vapori di mercurio: 8 Frequenza (Hz) Potenziale di frenamento (V) 5,19E+14 0,710±0,005 5,49E+14 0,835±0,005 6,88E+14 1,422±0,005 7,41E+14 1,624±0,005 8,22E+14 1,947±0,005 Utilizzando i valori ricavati con il metodo dei minimi quadrati, moltiplicando per il valore tabulato di e (1,602E-19 C), si ottiene h = (6,56±0,03)-34 J s; tale valore, tenuto conto anche del fatto che l'errore sul potenziale di frenamento è sottostimato, è in buon accordo con quello tabulato: 6,626-34 Js 9 Effetto Compton Compton inviò un fascio monocromatico di raggi X di lunghezza d'onda l su un blocco di grafite e misurò, per vari angoli di diffusione, l'intensità dei raggi X in funzione della lunghezza d'onda. Per quanto il fascio incidente abbia una sola lunghezza d'onda l, i raggi X diffusi hanno picchi d'intensità a due lunghezza d'onda; uno di essi corrisponde alla lunghezza d'onda incidente, l'altro alla lunghezza d'onda l' che è superiore alla precedente della quantità Dl. Questo Dl, chiamato spostamento Compton, varia col variare dell'angolo a cui sono osservati i raggi X diffusi. Compton 1922 10 La presenza di un'onda diffusa di lunghezza d'onda l' non può essere spiegata se i raggi X incidenti sono considerati come un'onda elettromagnetica. In questo caso, infatti, l'onda incidente, di frequenza , fa sì che gli elettroni del blocco su cui avviene la diffusione, oscillino alla stessa frequenza. Questi elettroni oscillanti, paragonabili alle cariche che si muovono avanti ed indietro in una minuscola radioantenna, irradiano onde elettromagnetiche della stessa frequenza . Quindi nella descrizione ondulatoria l'onda diffusa dovrebbe avere le stessa frequenza e lunghezza d'onda dell'onda incidente. Compton fu in grado di spiegare i risultati sperimentali da lui ottenuti postulando che il fascio di raggi X incidente non fosse un'onda, ma un insieme di fotoni di energia E=h e che questi urtassero gli elettroni liberi nel blocco su cui avviene la diffusione, proprio come se si trattasse di palle da biliardo. I fotoni di rinculo uscenti dal blocco costituiscono, sotto questo punto di vista, la radiazione diffusa. Dato che il fotone uscente trasferisce un po' della sua energia all'elettrone con cui entra in collisione, il fotone diffuso deve avere un'energia minore E'; pertanto dovrà avere una frequenza inferiore ' che implica una lunghezza d'onda più elevata l'. E’ possibile descrivere il processo di urto pensando che l'elettrone sia a riposo ed essenzialmente libero, cioè non legato agli atomi del diffusore. Applichiamo a questa collisione la legge della conservazione dell'energia. Siccome gli elettroni di rinculo possono avere una velocità v paragonabile a quella della luce dobbiamo usare l'espressione relativistica dell'energia cinetica dell'elettrone. Sfruttando l'espressione E=h ed il fatto che il calcolo dell'energia cinetica deve tener presente che la massa varia con la velocità, possiamo scrivere: h h 'm m0 c 2 in cui il secondo termine del secondo membro rappresenta l'espressione relativistica dell'energia cinetica dell'elettrone di rinculo, dove m è la massa relativistica ed m0 la massa a riposo dell'elettrone 11 Ricordando che : mv m0 v2 1 2 c Sostituendo c/l a e c/l' a ' si può scrivere : hc hc 1 2 m0 c 1 2 l l' 1 c Applichiamo ora la legge di conservazione della quantità di moto alla collisione. Per prima cosa ci occorre un'espressione dell'impulso del fotone. Se un oggetto assorbe totalmente un'energia U da un fascio parallelo di luce che incide su di esso, il fascio luminoso, secondo la teoria ondulatoria della luce, trasferisce simultaneamente all'oggetto un impulso dato da U/c. Nella descrizione “a fotoni” immaginiamo che questo impulso venga trasportato dai singoli fotoni, ognuno dei quali trasporta un impulso in quantità p=h/c, dove h è l'energia del fotone. Così, se sostituiamo l a c/, possiamo scrivere: p E h h c c l D’altra parte per un elettrone possiamo scrivere un’espressione relativistica per la quantità di moto: pe m0 v v 1 c 2 12 Nell’ipotesi che inizialmente l’elettrone possa essere considerato fermo, per la conservazione della componente x della quantità di moto possiamo scrivere: h l h cos( ) l' m0 v v 1 c 2 cos( ) E per la componente y : 0 h sin( ) l' m0 v v 1 c 2 sin( ) È possibile eliminare due dei cinque parametri (l, l', v, , q) che compaiono nelle ultime equazioni scritte. Eliminiamo v e q che riguardano soltanto l'elettrone. Dl h 1 cos( ) m0c lc h m0 c Così lo spostamento Compton Dl dipende solo dall'angolo di diffusione e non dalla lunghezza d'onda iniziale l. Inoltre Dl varia da zero (per =0, che corrisponde ad una collisione "di striscio") a 2h/m0c (per =180°, che corrisponde ad una collisione "frontale" ove il fotone incidente rimbalza all'indietro). La quantità che precede il termine fra parentesi è detta “lunghezza d’onda di Compton” 13 Derivazione della formula di Compton. Quadrando la componente x della quantità di moto si ottiene: h h ' cos( ) c c m0 v v 1 c 2 cos( ) 2 2 m 20 v 2 2h 2 ' h h ' 2 2 cos( ) cos cos 2 2 c c c v 1 c Quadrando la componente y della quantità di moto si ottiene: h 0 sin( ) l' v 1 c m02 v 2 h ' 2 2 sin ( ) sin ( ) 2 c v 1 c 2 m0 v 2 sin( ) Sommando membro a membro si trova: h 2 2 h 2 2 '2h 2 ' cos( ) 2 2 m 20 v 2 2h 2 ' h h ' cos( ) 2 c2 c c v 1 m 20 v 2 c 2 c v 1 c 2 Dalla conservazione dell’energia si ottiene: m0c 2 h ' m0 c 2 h h 'm m0 c 2 1 v 2 c2 Quadrando ambo i membri si trova : m02 c 4 h ' 2 ' 2h 'm0 c m c v2 1 2 2 2 2 m v c c 2 2 2 2 2 2 2 2 h h '2h ' cos( ) Ma avevamo trovato che : Sottraendo la seconda dalla prima si ottiene: 2 2 0 4 0 v 1 c 2 m02c 4 m02 v 2c 4 2h ' 1 cos m c 2h 'm0c v2 v2 1 2 1 2 c c 2 2 4 0 2 m02c 4 m02v 2c 4 1 2 4 2h ' 1 cos 2h 'm0c m c m02c 4 m02v 2c 4 m02c 4 m02v 2c 4 0 0 2 2 2 v v v 1 2 1 2 1 2 c c c 2 2 15 Quindi: h 2 2 ' 1 cos 2hm0 c 2 ' 0 c 1 1 lc ' Dl lc 1 cos 1 cos 16