Il Patto di Stabilità e Crescita: Aspetti Economici e Istituzionali Giancarlo Marini Dipartimento di Economia e Istituzioni Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” E-mail: [email protected] Alessandro Piergallini Dipartimento di Economia e Istituzioni Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” E-mail: [email protected] marzo 2005 Sommario: 1. Introduzione 2. Il ruolo della politica fiscale nelle unioni monetarie 3. Fondamenti teorici delle regole di politica fiscale 4. Dal Trattato di Maastricht al Patto di Stabilità e Crescita 5. L’esperienza recente e la credibilità delle sanzioni del Patto 6. Il dibattito sui criteri e la riforma del Patto 6. Conclusioni. 1 Introduzione L’analisi dei fondamenti teorici e delle conseguenze economiche connesse al Patto di Stabilità e Crescita (psc) costituisce una delle tematiche recentemente più dibattute dagli economisti e dai policy makers. Il presente lavoro si pone come obiettivo principale quello di esaminare le linee portanti del dibattito, assumendo come ottica privilegiata il riferimento costante alla teoria economica. Il completamento dell’Unione Economia e Monetaria (uem) si è fondato essenzialmente su due caratteristiche ben definite: la centralizzazione della politica monetaria da un lato e il decentramento della politica fiscale dall’altro. L’avvento della moneta unica ha comportato il trasferimento della sovranità monetaria dagli organismi nazionali al Sistema Europeo di Banche Centrali (sebc), composto dalla Banca Centrale Europea (bce) e dalle 15 Banche Centrali Nazionali (bcn).1 Conformemente al Trattato che istituisce la Comunità Europea e allo Statuto del sebc e della bce, l’obiettivo primario del sebc è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Quest’ultima viene definita come un aumento sui 12 mesi dell’Indice Armonizzato dei Prezzi al Consumo (iapc) per l’area euro inferiore al 2 per cento. Lo stesso passaggio alla moneta unica e l’adozione dell’euro si sono fondati 1 Si citano alcuni riferimenti essenziali al Trattato che attengono al mandato dell’Eurosistema: Articolo 105 (1) L’obiettivo principale del sebc è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il sebc sostiene le politiche economiche generali nella Comunità al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi della Comunità definiti nell’articolo 2. Articolo 2 La Comunità ha il compito di promuovere (. . . ) uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità, una crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l’ambiente, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri. Articolo 3a Ai fini enunciati all’articolo 2, l’azione degli Stati membri e della Comunità comprende (. . . ) la definizione e la conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche, che abbiano l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche economiche generali nella Comunità. 1 sul completamento del processo di convergenza verso bassi tassi di inflazione in tutti i paesi partecipanti, in aderenza ai parametri fissati dal Trattato di Maastricht, adottati per verificare l’ammissibilità dei paesi alla moneta unica. Fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il sebc si pone l’obiettivo di sostenere le politiche economiche generali della Comunità conformemente ai principi di un’economia di mercato aperta. Al fine di adempiere al mantenimento della stabilità dei prezzi, il Trattato attribuisce al sebc una completa indipendenza istituzionale. L’esistenza di una banca centrale indipendente viene comunemente riconosciuta come condizione preliminare sia per il perseguimento dell’obiettivo primario della stabilità dei prezzi sia per il raggiungimento degli obiettivi più ampi dell’Unione Europea. In aderenza con la teoria economica, tale indipendenza istituzionale costituisce altresı̀ un requisito indispensabile al fine di garantire in modo significativo la credibilità della politica monetaria. In effetti, come avremo modo di sottolineare anche in seguito, la politica monetaria raggiunge la sua massima efficacia quando è credibile, ossia quando il pubblico ha piena fiducia sul fatto che essa sia interamente finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo della stabilità dei prezzi e sia attuata in modo da raggiungere efficacemente tale obiettivo. La strategia di politica monetaria annunciata dalla bce poggia sostanzialmente su due pilastri. Senza entrare nel dettaglio, con il primo pilastro la bce si preoccupa che il tasso di crescita dell’aggregato monetario m3 cresca nel medio periodo ad un certo saggio costante. Tale pilastro trae origine e fondamento dal convincimento che l’inflazione risulti essere, quantomeno nel lungo periodo, un fenomeno monetario.2 Il secondo pilastro consiste in una valutazione che attiene all’andamento temporale di una serie di indicatori che vengono comunemente ritenuti i principali stimatori dell’inflazione: tasso di cambio, prezzi dei titoli, tasso di crescita dei salari nominali, dinamica dei prezzi internazionali, indicatori di politica fiscale, ecc. Risulta opportuno evidenziare come il monitoraggio dell’evoluzione delle variabili fiscali rappresenti parte integrante del secondo pilastro della strategia della bce. Uno degli obiettivi rilevanti dell’articolo è quello di analizzare le ragioni rilevanti conformemente alle quali politiche fiscali sostenibili comportano benefici per la conduzione di una politica monetaria prevalentemente orientata al perseguimento della stabilità dei prezzi. A fronte di una politica 2 Cfr. G.T. McCandless e W. Weber “Some Monetary Facts”, Federal Reserve Bank of Minneapo- lis, Quarterly Review 19 (1995), 2-11. 2 monetaria unica determinata al livello dell’area dell’euro nel suo complesso e completamente finalizzata al raggiungimento della stabilità dei prezzi, la politica fiscale rimane sotto la diretta responsabilità dei singoli stati membri. Da qui deriva la questione cruciale che investe il disegno di ogni forma di unione monetaria, vale a dire se assicurare piena discrezionalità alle singole autorità di politica fiscale, ovvero, come nel caso dell’uem, predisporre specifici vincoli che ne limitino l’operato. Con il presente lavoro si intende fornire una spiegazione quanto più possibile esaustiva a tale questione, tentando di identificare le principali motivazioni teoriche che risultano coerenti con l’imposizione del psc. Lo schema del presente articolo è il seguente. Il paragrafo 2 contiene una breve discussione connessa alle argomentazioni teoriche avanzate per sostenere un ruolo attivo della politica fiscale nell’ambito delle unioni monetarie. L’obiettivo del paragrafo 3 è quello di delineare i fondamenti teorici sottostanti l’imposizione di regole fiscali all’interno delle unioni monetarie. L’illustrazione delle principali caratteristiche del psc costituisce l’oggetto del paragrafo 4. Il paragrafo 5 esamina il problema della credibilità del contenuto sanzionatorio del psc, anche in relazione all’esperienza recente. Le principali conclusioni vengono riassunte nell’ultimo paragrafo. 2 Il ruolo della politica fiscale nelle unioni monetarie I sostenitori della piena discrezionalità delle politiche del bilancio pubblico all’interno di un’unione monetaria generalmente sviluppano le loro argomentazioni assumendo come termine di riferimento teorico la cosiddetta teoria delle aree monetarie ottimali.3 Tale teoria trae origine dal fatto che la formazione di un’unione monetaria implica la perdita da parte dei singoli stati membri della possibilità di utilizzare il tasso di cambio e, più in generale, gli strumenti di politica monetaria come meccanismi di aggiustamento economico nel caso in cui le variabili economiche assunte come rilevanti, in particolare i tassi di inflazione e di disoccupazione, tendano a divergere dai valori fissati come obiettivo. La 3 Cfr. R. Mundell, “A Theory of Optimum Currency Area”, American Economic Review, 51 (1961), 657-675; R. McKinnon, “Optimum Currency Areas”, American Economic Review, 53 (1963), 717-725; P. Kenen,“The Optimum Currency Area: An Eclectic View”, Monetary Problems of the International Economy, R. Mundell and A. Swoboda (eds.), University of Chicago Press 1969. 3 politica monetaria viene condotta a livello centralizzato e di conseguenza è plausibile assumere che sia finalizzata alla stabilizzazione delle variabili medie all’interno dell’intera area monetaria. In tale contesto, uno degli obiettivi principali della teoria delle aree monetarie ottimali è quello di identificare i criteri in presenza dei quali risulta possibile l’aggiustamento economico in seguito a shock asimmetrici (ossia eventi che interessano un determinato paese) senza che si renda necessario il ricorso agli strumenti della politica monetaria ed in particolare a variazioni del tasso di cambio. Un primo criterio identificato dalla letteratura4 riguarda l’apertura dei mercati ed in particolare la creazione di un mercato comune. La logica di tale criterio è direttamente connessa alla convinzione che un elevato grado di apertura implichi che i prezzi dei beni commerciati internazionalmente vengano determinati sui mercati a livello dell’intera area monetaria, riducendo la capacità del tasso di cambio di alterare in maniera significativa i prezzi relativi. Un secondo criterio fa riferimento all’omogeneità delle singole economie che hanno intrapreso il processo di integrazione monetaria, in particolare relativamente alla composizione del pil, ai partner commerciali e all’esistenza di un basso grado di divergenza dei tassi di crescita del prodotto e dell’occupazione in caso di shock simmetrici (che interessano la totalità degli Stati membri). Se i singoli paesi membri di un’unione monetaria sono essenzialmente simili, è più probabile che il verificarsi di shock simmetrici richieda la stessa risposta in termini di politica monetaria tramite variazioni del tasso di interesse e del tasso di cambio. Un terzo criterio è costituito dalla mobilità dei fattori produttivi, in particolar modo del lavoro. Un’elevata mobilità del lavoro permette all’interno di un’unione monetaria di controbilanciare gli effetti degli shock asimmetrici attraverso la migrazione dei disoccupati, riducendo in tal modo la necessità di un aggiustamento attraverso modificazioni del tasso di cambio. In altri termini, un declino della domanda aggregata in uno Stato membro di un’unione monetaria non comporta l’aumento della disoccupazione se i lavoratori sono geograficamente mobili e si spostano nei paesi in espansione. L’ultimo criterio teorizzato dagli economisti attiene alla flessibilità dei salari e dei prezzi. Se all’interno di un’unione monetaria i salari e i prezzi si caratterizzano per un alto grado di flessibilità, è plausibile prevedere come il verificarsi di uno shock asimme4 Cfr. C. Wyplosz, “EMU: Why and How It Might Happen”, Journal of Economic Perspectives 11 (1997), 3-21. 4 trico che colpisca un determinato Stato membro determini un immediato aggiustamento del livello dei salari e dei prezzi tale da mantenere il pieno impiego dei fattori produttivi, senza che si configuri come necessario attuare un cambiamento nel tasso di cambio o nei tassi di interesse. Una questione preliminare consiste pertanto nell’esaminare se l’area dell’euro possa ritenersi conforme ai criteri che definiscono un’area monetaria come ottimale. Da questo punto di vista, risulta agevole argomentare come l’area dell’euro si caratterizzi per un alto grado di apertura dei mercati. Tale apertura viene favorita dall’adozione di moneta unica e dal completamento del mercato unico europeo, il quale assicura l’esistenza un’elevata mobilità dei beni, dei servizi e dei capitali. Tuttavia, già in riferimento al secondo criterio, l’omogeneità delle singole economie, viene comunemente ritenuta l’esistenza di differenze sostanziali tra i paesi dell’area dell’euro. A causa di differenze nella composizione del pil e nei partner commerciali, gli shock della domanda che possono affliggere la Germania o la Finlandia sono probabilmente molto differenti dagli shock della domanda che possono affliggere la Spagna o il Portogallo.5 Inoltre, appare rilevante la posizione di quanti ritengono che la combinazione di barriere commerciali ridotte e di tassi di cambio irrevocabilmente fissi stimoli nell’uem una maggiore specializzazione e concentrazione regionale delle attività industriali, al fine di amplificare le economie di scala, con il risultato di rendere più elevata l’eterogeneità fra i paesi. In tal caso, si configura l’eventualità che shock di uno specifico settore possano direttamente convertirsi in shock di un paese specifico.6 In riferimento al terzo e al quarto criterio, è opinione diffusa che l’area dell’euro si caratterizza per un basso grado di mobilità del lavoro e di flessibilità dei prezzi e salari. Sebbene le barriere legali alla mobilità del lavoro nell’Unione Europea siano state eliminate, linguaggi, costumi e culture profondamente differenti impediscono un’elevata mobilità geografica, sia temporanea che a lungo termine.7 Per quanto attiene al grado 5 Cfr. M.S. Feldstein, “The Political Economy of the European Economic and Monetary Union: Political Sources of an Economic Liability”, Journal of Economic Perspectives, 11 (1997), 23-42. 6 Cfr. P. Krugman, Geography and Trade, Cambridge, Mit Press 1991. 7 Da questo punto di vista rilevante appare la differenza con gli Stati Uniti, dove, in virtù di un elevato grado di integrazione politica, linguistica e culturale, si verificano ampi movimenti migratori dalle regioni in recessione verso quelle in espansione. Tali movimenti riducono la disoccupazione ed evitano pressioni deflazionistiche nelle regioni in recessione e aumentano l’occupazione evitando pressioni inflazionistiche 5 di flessibilità dei salari, dall’analisi del livello di disoccupazione strutturale esistente in Europa, tanto quanto dall’osservazione diretta, si evince agevolmente che i salari nell’area dell’euro sono ancora troppo rigidi per controbilanciare gli shock della domanda.8 Inoltre, è rilevante sottolineare l’assenza all’interno dell’Unione di un sistema fiscale centralizzato, con estesi poteri di spesa, che si riveli in grado di assorbire gli shock asimmetrici attraverso la redistribuzione del reddito comunitario.9 La differenziazione delle singole economie, un basso livello di mobilità del lavoro e di flessibilità dei prezzi e salari inducono a ritenere che l’area dell’euro non costituisca un’area monetaria ottimale. In tal caso, in un contesto caratterizzato dalla vischiosità dei prezzi e dei salari e dalla scarsa mobilità del lavoro, politiche di bilancio discrezionali condotte a livello decentrato hanno il vantaggio di poter contribuire al raggiungimento della stabilità macroeconomica in seguito a shock asimmetrici. Conformemente alla teoria economica tradizionale10 , la politica fiscale rappresenta infatti lo strumento di politica economica più rapido ed efficace per contrastare tendenze recessive, specialmente in presenza di mercati imperfetti e non sufficientemente flessibili. Ciò può avvenire sia tramite le classiche politiche discrezionali del deficit spending (riduzioni delle tasse, aumenti della spesa pubblica e dei trasferimenti alle famiglie) finalizzate a incidere positivamente sulla domanda aggregata, sia tramite l’operare dei cosiddetti stabilizzatori automatici (imposte e sussidi alla disoccupazione).11 Di conseguenza, qualora i singoli paesi fossero colpiti nelle regioni in espansione. 8 Di contro, negli Stati Uniti la flessibilità salariale è molto più elevata e quindi capace di attenuare le conseguenze del manifestarsi di shock asimmetrici. 9 Al contrario, gli Stati Uniti si caratterizzano per la presenza di un bilancio unificato capace di attuare rilevanti trasferimenti fiscali a favore delle regioni temporaneamente in recessione. 10 Cfr. J.M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest, and Money, New York, Macmillan 1936. 11 Si definiscono “stabilizzatori automatici” tutti quei meccanismi che, operando all’interno di un sistema economico, tendono a ridurre le fluttuazioni del prodotto nazionale conseguenti alla variabilità delle componenti autonome della domanda aggregata. Due esempi di stabilizzatori automatici sono appunto costituiti dal sistema fiscale e dai sussidi di disoccupazione. In effetti, eventuali shocks recessivi della domanda aggregata vengono in parte attenuati sia tramite l’automatica riduzione del prelievo fiscale (per effetto della recessione della produzione) sia tramite l’aumento dei sussidi di disoccupazione (per effetto della riduzione dell’occupazione). 6 da shock negativi dovrebbe essere consentito loro di lasciare crescere in modo flessibile il disavanzo. Ma allora perchè vincolare i governi nella determinazione delle politiche del demand management come previsto nel psc? Si è enfatizzato come conformemente all’approccio teorizzato nella teoria delle aree monetarie ottimali è possibile argomentare come, con l’imposizione di vincoli che riguardano la gestione decentrata delle politiche di bilancio, le economie dell’area dell’euro abbiano di fatto perso tutti i gradi libertà della politica economica nazionale. Esistono evidentemente delle ragioni profonde coerenti con l’imposizione di precise regole di comportamento e non direttamente riconducibili al paradigma teorico delle aree monetarie ottimali. Oggetto dei prossimi due paragrafi sarà quello di sviluppare le argomentazioni teoriche conformemente alle quali la solidità delle finanze pubbliche costituisce un prerequisito indispensabile per la stabilità macroeconomica ed enucleare quindi le caratteristiche principali del psc. 3 Fondamenti teorici delle regole di politica fiscale Il presente paragrafo intende fornire una spiegazione quanto più possibile esaustiva dei fondamenti teorici che giustificano l’enfasi posta nel disegno dell’uem riguardo la previsione di specifici criteri di disciplina fiscale. E’ opportuno sottolineare come sia possibile identificare sia motivazioni di carattere generale che attengono a problemi legati alle interazioni tra politica monetaria e fiscale sia motivazioni specifiche connesse a problemi di coordinamento tra i paesi che compongono un’unione monetaria. A. Politiche Fiscali e Sostenibilità delle Finanze Pubbliche. Nel paragrafo 2 si è argomentato come all’interno di un’unione monetaria che non aderisca a criteri di ottimalità garantire spazio per l’applicazione di politiche fiscali discrezionali può rivestire un ruolo di primaria importanza al fine di contrastare eventuali shock asimmetrici. Tuttavia, occorre in primo luogo enfatizzare come le proprietà virtuose di politiche fiscali espansive per fronteggiare il verificarsi di shock asimmetrici recessivi abbiano una rilevante validità teorica in un contesto prettamente statico. Un punto fondamentale è direttamente connesso al fatto che politiche fiscali eccessivamente accomodanti nel breve periodo inevitabilmente generano dei costi in 7 termini di peggioramento dei parametri di sostenibilità fiscale nel lungo periodo. Al fine di comprendere il problema della sostenibilità delle politiche di bilancio, è sufficiente pensare come una dinamica esplosiva del debito pubblico si possa ottenere anche se lo Stato realizzasse in ogni periodo un saldo primario (al netto della spesa per interessi) in pareggio, dopo avere creato inizialmente un disavanzo primario nel bilancio pubblico finanziato con il collocamento del debito stesso sul mercato attraverso l’emissione di titoli. In tali circostanze e in assenza di una politica monetaria accomodante che ricorra all’emissione di moneta come strumento di finanziamento pubblico (coerentemente con le clausole previste dal Trattato), il debito pubblico tenderebbe a crescere ad un tasso pari al tasso di interesse, inoltrandosi su un sentiero potenzialmente esplosivo. Occorre tuttavia tenere in mente che i parametri di sostenibilità contenuti nel psc fanno riferimento al deficit di bilancio e al debito pubblico non in livelli bensı̀ in rapporto al pil. In tal caso, è del tutto intuitivo che la dinamica del rapporto debito/pil tenda a divergere solo nel caso in cui il tasso di interesse sui titoli del debito risulti sistematicamente superiore al tasso di crescita del pil. Gli unici strumenti necessari ad evitare dinamiche esplosive sono la creazione di avanzi di bilancio primari da un lato e finanziamenti tramite emissioni di moneta da parte della Banca Centrale dall’altro. Come avremo modo di sottolineare in seguito, il problema connesso all’eventuale finanziamento attraverso l’emissione di moneta (che giustifica l’obbligo sancito dal Trattato di non monetizzazione del debito pubblico degli Stati membri) è connesso alla sua potenziale incompatibilità con l’obiettivo della stabilità dei prezzi. La presenza di un tale trade off tra breve e lungo periodo, ossia il fatto che la politica fiscale ha effetti benefici nel breve periodo che inevitabilmente possono minare la stabilità macroeconomica nel lungo periodo, costituisce un primo fondamento teorico che giustifica la previsione di alcune forme di vincoli nella gestione della politica fiscale. 8 B. Politiche Fiscali e Stabilità dei Prezzi. Nel corso dell’introduzione si è enfatizzato come il mantenimento della stabilità dei prezzi costituisca l’obiettivo primario della strategia di politica monetaria della bce. Conformemente alla teoria economica, è possibile identificare una pluralità di motivazioni che risultano coerenti con l’adozione di un tale obiettivo nella conduzione della politica monetaria. Prezzi stabili accrescono la trasparenza dei prezzi relativi e facilitano il raggiungimento dell’efficienza nell’allocazione delle risorse.12 Un ambiente economico in cui è plausibile prevedere l’assenza di tendenze altamente inflazionistiche riduce l’incertezza e determina una riduzione dei tassi di interesse a lungo termine, incidendo in tal modo positivamente sul livello degli investimenti privati e di conseguenza sulla crescita economica.13 Un ulteriore vantaggio connesso alla stabilità dei prezzi è direttamente legato alla riduzione del cosiddetto fiscal drag 14 , il quale rappresenta un elemento distorsivo del sistema fiscale connesso all’inflazione.15 Il mantenimento della stabilità dei prezzi consente altresı̀ di arginare gli effetti di redistribuzione del reddito che possono essere generati sia da un contesto di inflazione sia da un contesto di deflazione. Una questione cruciale consiste pertanto nell’esaminare se e in che misura le politiche fiscali generino un effetto sul livello dei prezzi, interagendo in tal modo nella determinazione del fine primo della politica monetaria. Conformemente all’approccio neoclassico l’indipendenza della banca centrale viene teorizzata come condizione necessaria e sufficiente per assicurare la stabilità dei prezzi. All’interno di tale paradigma teorico, un’elevata inflazione può solo essere la conseguenza di alti tassi di crescita dello stock nominale di moneta.16 Una banca centrale conservatrice, ossia che attribuisca un peso rilevante alla stabilizzazione del tasso inflazione relativamente alla stabilizzazione del tasso di disoccu12 Cfr. M. Woodford, Interest an Prices, Princeton University Press 2003. Cfr. R. Barro, Determinants of economic growth, MIT Press 1997. 14 Con il termine fiscal drag si intende quel fenomeno legato all’aumento del carico fiscale generato 13 dall’inflazione, che si verifica in un contesto caratterizzato da un sistema di imposizione progressivo e da redditi monetari almeno parzialmente indicizzati all’inflazione stessa. 15 Cfr. M.S. Feldstein, Costs and benefits of price stability, Chicago University Press 1999. 16 Cfr. M. Friedman, “The Role of Monetary Policy”, American Economic Review 58 (1968), 1-17. 9 pazione, indipendente e vincolata ad adempiere ad uno specifico mandato viene tradizionalmente configurata quale precondizione per il perseguimento della stabilità dei prezzi.17 Tuttavia, è possibile sviluppare una pluralità di argomentazioni economiche da cui si evince come la visione secondo la quale l’esistenza di autorità di politica monetaria intransigenti e indipendenti dal potere politico sia una condizione necessaria e sufficiente per garantire prezzi stabili risulti direttamente subordinata al comportamento delle autorità di politica fiscale. In precedenza si è accennato al problema della sostenibilità della finanza pubblica. In particolare, si è evidenziato come la creazione di disavanzi pubblici sia potenzialmente capace di generare, in assenza di opportune manovre correttive, una situazione in cui il debito pubblico tende ad avvitarsi lungo una spirale esplosiva. L’eventuale presenza di autorità di politica fiscale non finalizzate a garantire il vincolo di solvibilità del settore pubblico configura una situazione di fiscal dominance nell’ambito delle interazioni tra politica monetaria e politica fiscale, in quanto è plausibile prevedere che prima o poi le autorità di politica monetaria abbiano interesse a ricorrere allo strumento dell’emissione di moneta quale strumento di finanziamento dei deficit fiscali, al fine di prevenire il collasso del sistema finanziario. Da questo punto di vista, la Banca Centrale si configura come una sorta di prestatore di ultima istanza. Il punto fondamentale è che, in presenza di agenti economici dotati di aspettative razionali, la previsione di una futura monetizzazione del debito produce un immediato aumento del livello generale dei prezzi. Questo meccanismo, che costituisce il nocciolo della cosiddetta sgradevole aritmetica monetarista 18 , identifica pertanto un legame ben definito tra 17 Cfr. R.J. Barro e D.B. Gordon, “Rules, Discretion and Reputation in a Model of Monetary Policy”, Journal of Monetary Economics 12 (1983), 101-121; K. Rogoff, “The Optimal Degree of Commitment to an Intermediate Target”, Quarterly Journal of Economics 100 (1985), 1169-1190; T. Persson e G. Tabellini, “Designing Institutions for Monetary Stability”, Carnegie-Rochester Conference Series on Public Policy 39 (1993), 53-84; C. Walsh, “Optimal Contracts for Independent Central Bankers”, American Economic Review 85 (1995), 150-167; L. Svensson, “Optimal Inflation Targets, ‘Conservative’ Central Banks, and Linear Inflation Contracts”, American Economic Review 87 (1997), 98-114. 18 Cfr. T.J. Sargent e N. Wallace, “Some Unpleasant Monetarist Arithmetic”, Federal Reserve 10 la politica fiscale e il livello dei prezzi. Un meccanismo alternativo volto a palesare la potenziale incompatibilità di politiche fiscali sistematicamente accomodanti con l’obiettivo della stabilità dei prezzi fa riferimento alla cosiddetta teoria fiscale dei prezzi.19 Tale teoria si spinge oltre la sgradevole aritmetica monetarista e dimostra come in una situazione di fiscal dominance il livello dei prezzi sia unicamente determinato dalle variabili di politica fiscale, indipendentemente dalla quantità nominale di moneta in circolazione (e quindi anche in un contesto in cui la Banca Centrale sia vincolata dall’obbligo di non monetizzazione del debito). L’intuizione economica di fondo è che, in un contesto di potenziale divergenza delle passività del governo, il livello dei prezzi costituisce la variabile economica che si aggiusta in modo flessibile affinché il valore reale del debito pubblico risulti coerente con il vincolo di solvibilità del settore pubblico. Si potrebbe obiettare sia alla “sgradevole aritmetica monetarista” sia alla “teoria fiscale dei prezzi” che presupporre una situazione in cui le autorità di politica fiscale assumano comportamenti del tutto incoerenti con il vincolo di solvibilità del debito pubblico costituisca un’ipotesi irrealistica, almeno per quanto attiene alle economie sviluppate. Tuttavia, anche ammettendo un contesto di monetary dominance, caratterizzato da politiche fiscali orientate a garantire il vincolo intertemporale di solvibilità, è possibile dimostrare come politiche di bilancio eccessivamente espansive interagiscano in modo cruciale nella determinazione del livello dei prezzi. Il motivo economico sottostante è che in un contesto dinamico un aumento del deBank of Minneapolis Quarterly Review 5 (1981), 1-17; R.S. Aiyagari e M. Gertler, “The Backing of Government Bonds and Monetarism”, Journal of Monetary Economics 16 (1985), 19-44. 19 Cfr. E. Leeper, “Equilibria under ‘Active’ and ‘Passive’ Monetary and Fiscal Policies”, Journal of Monetary Economics 27 (1991), 129-147; C. Sims, “A Simple Model for Study of the Determination of the Price Level and the Interactions of Monetary and Fiscal Policy”, Economic Theory 4 (1994), 381399; M. Woodford, “Monetary Policy and Price Level Determinacy in a Cash-in-Advance Economy”, Economic Theory 4 (1994), 345-380; M. Woodford, “Price-Level Determinacy without Control of a Monetary Aggregate”, Carnegie-Rochester Conference Series on Public Policy 53 (1995), 1-46; P.R. Bergin, “Fiscal Solvency and Price Level Determination in a Monetary Union”, Journal of Monetary Economics 45 (2000), 37-53; M. Woodford, “Fiscal Requirements for Price Stability”, Journal of Money, Credit and Banking 33 (2001), 669-728. 11 bito pubblico, anche se controbilanciato da avanzi primari futuri volti ad assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche, produce nel breve periodo un effetto espansivo sulla domanda aggregata e quindi sul livello dei prezzi. Senza entrare nei dettagli, tale effetto viene generato dal fatto che agenti economici razionali percepiscano i titoli del debito pubblico da loro detenuti come ricchezza netta, in quanto è plausibile prevedere che il peso delle restrizioni fiscali future necessarie ad assicurare la solvibilità del bilancio pubblico gravi almeno in parte sulle generazioni future.20 Tale canale rafforza ulteriormente la necessità di introdurre una ferrea disciplina nella conduzione della politica fiscale. C. Politiche Fiscali e Credibilità della Politica Monetaria. Nell’introduzione si è sottolineato come l’indipendenza istituzionale che il Trattato attribuisce alla bce costituisca un requisito necessario affinché la strategia di politica monetaria orientata al mantenimento della stabilità dei prezzi sia credibile. Il problema della credibilità degli annunci delle autorità di politica monetaria riguardo l’evoluzione delle variabili obiettivo costituisce un elemento centrale e ampiamente dibattuto nell’ambito della moderna teoria monetaria. Quello che ci interessa evidenziare in questa sede è l’argomentazione secondo la quale in presenza di ampi disavanzi e alti livelli di debito pubblico una politica monetaria rigidamente antinflazionistica non è credibile perché temporalmente incoerente 21 , ossia incompatibile con l’incentivo ex post da parte della banca centrale a rinnegare sistematicamente gli annunci generando inflazione a sopresa, con l’obiettivo specifico di erodere il valore reale del debito pubblico.22 Tale incentivo a “barare” deriva direttamente dal fatto che l’erosione del debito in termini reali tramite la cosiddetta tassa da inflazione consente di ridurre l’ammontare delle tasse distorsive necessarie 20 Cfr. B. Annicchiarico e G. Marini, “Fiscal Policy and Price Stability”, CeFiMS Discussion Paper 33 (2003). 21 Per il concetto di incoerenza temporale, cfr. F.E. Kydland e E.C. Prescott, “Rules Rather Than Discretion: The Inconsistency of Optimal Plans”, Journal of Political Economy 85 (1977), 473-491. 22 Cfr. V.V. Chari e P.J. Kehoe, “On the Desiderability of Fiscal Constraints in a Monetary Union”, Federal Reserve Bank of Minneapolis Staff Report 296 (2003); A. Dixit e L. Lambertini, “Interactions of Commitment and Discretion in Monetary and Fiscal Policies”, American Economic Review 93 (2003), 1522-1542. 12 ad assicurare un sentiero convergente per le variabili fiscali.23 E’ possibile identificare almeno due ordini di conseguenze. In primo luogo, a causa del problema dell’incoerenza temporale, agenti razionali internalizzano nelle proprie funzioni obiettivo la “tentazione” (temptation) da parte delle autorità monetarie a porre in essere sorprese inflazionistiche, con il risultato di generare la cosiddetta “distorsione inflazionistica” (inflation bias). Tale distorsione consiste nel fatto che il tasso di inflazione risulta essere in equilibrio permanentemente in eccesso rispetto all’obiettivo prefissato, anche in condizioni “normali” (ossia anche in assenza di shock esogeni). In secondo luogo, le autorità di politica fiscale risultano ulteriormente incentivate ad incorrere in deficit sistematicamente più elevati rispetto ai valori ritenuti socialmente ottimi (deficit bias), nella convinzione che per la banca centrale risulti vantaggioso ex post ricorrere almeno parzialmente allo strumento della monetizzazione del debito pubblico. Alla luce di quanto esposto, sembra avere un solido fondamento teorico l’opinione conformemente alla quale la no bail-out clause prevista dal Trattato non sia credibile in un contesto caratterizzato da disavanzi e passività del settore pubblico particolarmente elevati.24 Da questo punto di vista, emerge in modo inequivocabile la conclusione secondo cui l’imposizione di precise regole di politica fiscale e l’esplicita previsione di sanzioni automatiche in caso di politiche di bilancio poco virtuose contribuiscano a rafforzare la credibilità della politica monetaria nel perseguimento dell’obiettivo della stabilità dei prezzi. D. Politiche Fiscali e Ciclo Politico. Una motivazione plausibile che riguarda l’incentivo da parte dei governi a realizzare politiche fiscali discrezionali sistematicamente espansive e quindi potenzialmente inflazionistiche è strettamente legata a considerazioni di carattere politico che tendono a privilegiare gli aspetti di breve periodo. In effetti, risulta particolarmente attrattivo e benefico per i governi al potere utilizzare strategicamente il debito pubblico come strumento di finanziamento della spesa 23 Cfr. M. Obstfeld, “Dynamic Seignorage Theory: An Exploration”, Macroeconomic Dynamics 3 (1997), 588-614; J. Diaz-Gimenez, G. Giovannetti, R. Marimon e P. Teles, “Nominal Debt as a Burden to Monetary Policy”, mimeo, Universitat Pompeu Fabra (2004). 24 Cfr. P. De Grauwe, Economics of Monetary Union, Oxford University Press 2003. 13 pubblica, lasciando ai potenziali successori il burden connesso al pagamento degli interessi per il servizio del debito stesso.25 In questo senso, è possibile dimostrare che l’uso strategico del debito pubblico, nella misura in cui risulta finalizzato a incidere in maniera rilevante sul consenso politico a breve termine e sulle scelte di politica economica da parte dei potenziali successori al governo, conduce a risultati altamente distorsivi che si amplificano al crescere del grado di polarizzazione dei partiti politici. In altri termini, la caratteristica della temporaneità del mandato elettorale, la quale costituisce un tratto essenziale della totalità dei sistemi democratici, può ragionevolmente introdurre comportamenti miopi nelle scelte di politica fiscale. Tali comportamenti costituiscono una fonte alternativa, rispetto al problema dell’incoerenza temporale della politica monetaria, di ciò che viene comunemente chiamato deficit bias. Assicurare piena discrezionalità nella gestione della politiche fiscali ai governi degli Stati che compongono un’unione monetaria, pur massimizzando la capacità di contrastare l’eventualità shock asimmetrici, amplifica di fatto la possibilità di decidere strategicamente l’ammontare di deficit da lasciare ai potenziali successori al potere politico. In tali circostanze, la presenza di una banca centrale dotata di piena indipendenza istituzionale non si configura come condizione sufficiente a preservare la stabilità dei prezzi. Un ruolo fondamentale del psc, in particolare per quanto attiene al suo contenuto sanzionatorio, consiste proprio nel correggere la distorsione connessa al fatto che governi miopi ed opportunisti non internalizzano le conseguenze inflazionistiche delle loro politiche del debito.26 E’ opportuno 25 Cfr. A. Alesina e G. Tabellini, “A Positive Theory of Fiscal Deficits and Government Debt”, Review of Economic Studies 57 (1990), 403-414; P. Aghion e P. Bolton, “Government Domestic Debt and Risk of Default: A Political-Economic Model of the Strategic Role of Debt”, in R. Dornbusch e M. Draghi (ed.), Capital Markets and Debt Management, Cambridge University Press 1990; G. Tabellini e A. Alesina, “Voting on the Budget Deficit”, American Economic Review 80 (1990), 37-49. 26 Cfr. R.M.W.J. Beetsma e H. Uhlig, “An Analysis of the ‘Stability Pact’”, Working Paper N. 46 (1997), Tilburg University; R.M.W.J. Beetsma e A.L. Bovenberg, “Central Bank Independence and Public Debt Policy”, Journal of Economic Dynamics and Control 21 (1997), 873-894; R.M.W.J. Beetsma e A.L. Bovenberg, “Does Monetary Unification Lead to Excessive Debt Accumulation?”, Journal of Public Economics 74 (1997), 299-325. 14 sottolineare altresı̀ come all’interno di un’unione monetaria la presenza di realtà istituzionali e gradi di conflittualità politica differenti possa contribuire a generare, in assenza di vincoli comuni, politiche del debito non omogenee tra i paesi membri. E. Politiche Fiscali e Crescita Economia. Viene generalmente ritenuto che i mercati dei capitali applicano ai rendimenti dei titoli di Stato un premio per il rischio di insolvenza che, a parità di altre condizioni, aumenta con il crescere del debito pubblico. Di conseguenza, eventuali timori sulla sostenibilità del debito generati da politiche fiscali permanentemente accomodanti tendono a riflettersi negativamente sul livello generale dei tassi di interesse tramite l’innalzamento dei premi per il rischio. Il punto fondamentale è che l’aumento dei tassi di interesse determina uno spiazzamento (crowding out) del livello degli investimenti privati, incidendo in maniera negativa sull’accumulazione di capitale e, conseguentemente, sulla crescita economica e sull’occupazione di lungo periodo. Un canale alternativo attraverso il quale politiche di bilancio espansive possono determinare contrazioni del livello dell’attività economia si manifesta tramite l’operare dei cosiddetti effetti non-keynesiani della politica fiscale.27 L’intuizione di fondo è che, in un contesto economico in cui gli agenti abbiano un orizzonte multiperiodale, politiche di riduzione delle tasse e aumenti della spesa pubblica, nella misura in cui generano aspettative di restrizioni fiscali in futuro atte a preservare la sostenibilità della finanza pubblica, possono provocare uno spiazzamento del livello dei consumi privati. Inoltre, risulta opportuno sottolineare come il finanziamento di politiche fiscali espansive attraverso l’utilizzo di tasse distorsive sui consumi e sul lavoro sia potenzialmente in grado di produrre effetti disincentivanti sulle decisioni che riguardano l’offerta di lavoro, influenzando negativamente il livello dell’occupazione e dell’attività produttiva.28 27 Cfr. F. Giavazzi e M. Pagano, “Can Severe Contractions be Expansionary? Tales of Two Small European Countries”, NBER Macroeconomic Annual 5 (1990), 75-111; Commissione europea, “Can Fiscal Consolidation in EMU be Expansionary?”, Relazione sulle finanze pubbliche nell’UEM, Bruxelles 2003. 28 Cfr. E.C. Prescott, “Prosperity and Depression”, American Economic Review 92 (2002), 1-15. 15 I meccanismi descritti in precedenza implicano due ordini di conseguenze. In primo luogo, occorre enfatizzare come una riduzione del tasso di crescita dell’attività economica possa peggiorare ulteriormente i parametri di sostenibilità della finanza pubblica adottati nell’uem, vale a dire i rapporti deficit/pil e debito/pil. In secondo luogo, in un contesto di economie di scala dinamiche 29 , la riduzione dello stock di capitale è potenzialmente capace di contrastare l’operare degli effetti apprendimento legati all’accumulazione della conoscenza, incidendo negativamente sul livello della produttività del lavoro, sul progresso tecnologico e sull’innovazione. F. Politiche Fiscali ed Esternalità tra i Paesi. I costi analizzati in precedenza, che attengono agli effetti delle politiche fiscali discrezionali sulla sostenibilità delle finanze pubbliche, sulla stabilità dei prezzi, sulla credibilità della politica monetaria e sulla crescita economica, costituiscono problematiche condivise da tutti i sistemi economici e quindi non sono specifici delle unioni monetarie. Ciò che realmente contraddistingue un’unione monetaria è l’esistenza di problemi di coordinamento tra le autorità di politica fiscali dei singoli Stati membri. Nel corso del presente lavoro si è più volte enfatizzato che all’interno dell’uem, a fronte di una politica monetaria condotta su base centralizzata, la politica fiscale permane sotto la diretta responsabilità dei singoli Stati membri. Tale caratteristica da origine non solo a problemi che attengono all’interazioni tra la politica monetaria condotta su base unica e le politiche fiscali dell’intera area ma anche a problemi che riguardano direttamente le interazioni tra le politiche di bilancio dei singoli Paesi. Da questo punto di vista, un aspetto cruciale è connesso al fatto che politiche caratterizzate da elevati deficit e alti livelli di debito pubblico in un determinato Stato membro determinano delle esternalità negative (negative spillovers) nel resto degli Stati membri dell’unione, le quali si manifestano soprattutto a causa della perdita della possibilità di manovrare il tasso di cambio. E’ possibile identificare almeno due tipologie di esternalità. La prima esternalità riguarda l’aumento del tasso di inflazione e dei tassi di interesse all’interno dell’intera area monetaria, con implicazioni rilevanti per i parametri di 29 Cfr. P. Romer, “Increasing Returns and Long-Term Growth”, Journal of Political Economy 94 (1986), 1002-1037. 16 sostenibilità e la crescita economica dei restanti Stati membri. Il secondo tipo di esternalità è legato al fatto che politiche fiscali permanentemente espansive in un particolare Paese, nella misura in cui determinano un effetto sul livello dei prezzi presumibilmente più elevato all’interno del Paese stesso, incidono negativamente sulle ragioni di scambio degli altri Stati membri, con conseguenti perdite di benessere.30 Da entrambe le tipologie di esternalità, emerge il cosiddetto problema del free rider, che riguarda la tendenza sistematica da parte di ogni singolo Stato membro a condurre politiche fiscali tese ad “esportare” le problematiche interne a tutto il resto dell’area monetaria. Il punto fondamentale è che nell’equilibrio di Nash (in cui ogni autorità di politica fiscale pone in essere la scelta strategica ottimale data la scelta delle altre autorità) è plausibile che la totalità dei governi sia incentivata a porre in essere politiche espansive in maniera da controbilanciare le esternalità negative, con il risultato inefficiente di generare tassi di inflazione e tassi di interesse sistematicamente in eccesso rispetto agli obiettivi ritenuti coerenti con la stabilità monetaria. Semplici regole comuni di politica fiscale, come quelle prescritte dal psc (che analizziamo in dettaglio nel prossimo paragrafo), hanno il vantaggio di promuovere il coordinamento delle politiche di bilancio e di internalizzare le esternalità negative discusse in precedenza, prevenendo comportamenti irresponsabili e distorsivi. 4 Dal Trattato di Maastricht al Patto di Stabilità e Crescita Il psc, approvato dai paesi dell’Unione Europea nel vertice di Dublino del dicembre 1996 e successivamente riaffermato dal Trattato di Amsterdam del giugno 1997, stabilisce regole di comportamento per la gestione della politica fiscale all’interno dell’uem. Prima di analizzare le caratteristiche principali del Patto, occorre in via preliminare sottolineare come l’esplicita previsione di requisiti per il perseguimento di politiche fiscali 30 Cfr. R.M.W.J. Beetsma e H. Jensen, “Monetary and Fiscal Policy Interactions in a Micro-founded Model of a Monetary Union”, Journal of International Economics (2005), in corso di pubblicazione; J. Gali e T. Monacelli, “Optimal Fiscal Policy in a Monetary Union”, mimeo (2004). 17 solide costituisca un elemento portante del Trattato di Maastricht del febbraio 1992. Tale Trattato, entrato in vigore il 1◦ novembre 1993, ha istituzionalizzato per la Comunità Europea l’obiettivo dell’Unione economica e monetaria. La strategia prevista dal Trattato per il conseguimento di tale obiettivo, peraltro già delineata nel 1988 nel noto “Rapporto Delors”, è incentrata su due principi fondamentali: il principio del gradua-lismo del processo di transizione verso l’uem e la subordinazione dell’ingresso nell’Unione al soddisfacimento ex ante dei cosiddetti criteri di convergenza. In applicazione del principio del gradualismo, il Trattato di Maastricht definisce in modo puntuale l’articolazione dell’attuazione dell’uem in tre fasi. La prima fase, iniziata il 1◦ luglio 1990 e conclusasi il 31 dicembre 1993, ha attuato il principio della libera circolazione dei movimenti di capitale. La seconda fase è iniziata il 1◦ gennaio 1994, con la creazione dell’Istituto Monetario Europeo (ime), a cui è stata attribuita sia la funzione di preparare la creazione della bce sia la funzione di sovrintendere alla verifica sul soddisfacimento dei criteri di convergenza. La terza fase, con il passaggio definitivo all’uem, ha avuto inizio il 1◦ gennaio 1999, con ritardo rispetto al termine inizialmente previsto a Maastricht (vale a dire il 1997), una volta verificate le condizioni di ammissibilità previste per l’ingresso nell’uem. Al fine di verificare l’ammissibilità dei paesi membri dell’Unione Europea alla fase finale dell’uem, il Trattato di Maastricht prevede specificatamente il rispetto di cinque criteri di convergenza, tre di carattere monetario e due relativi ai parametri della finanza pubblica. In particolare, viene imposto che (i) il tasso di inflazione e i tassi di interesse a lungo termine non superino dell’1,5 per cento e del 2 per cento, rispettivamente, la media dei tre paesi più virtuosi; (ii) le valute non subiscano una svalutazione durante i due anni precedenti l’ingresso nell’Unione; (iii) i rapporti debito/pil e deficit/pil risultino contenuti entro il 60 per cento e il 3 per cento, rispettivamente. Da quest’ultimo punto di vista, il superamento di detti limiti viene consentito qualora il rapporto debito/pil diminuisca a una velocità adeguata e il rapporto deficit/pil ecceda il limite di riferimento solo in maniera transitoria e per motivi che rivestano un carattere di eccezionalità. Inoltre, come prescritto dall’art. 3 del Protocollo N. 5 sulla Procedura per i disavanzi eccessivi, l’applicazione delle procedure di bilancio finalizzate ad assicurare il rispetto dei parametri di Maastricht viene lasciata oggetto di decisione delle singole autorità di politica fiscale. Il principio della necessità di mantenere da parte delle singole autorità di politica 18 fiscale bilanci pubblici solidi viene esplicitamente affermato dall’art. 104 del Trattato (nella versione adottata con il Trattato di Amsterdam ed entrata in vigore il 1◦ maggio 1999), il quale prescrive che “gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi”. Il rispetto della solidità delle finanze pubbliche da parte di uno Stato membro viene valutato sulla base dei valori di riferimento che attengono ai due indicatori del rapporto deficit/pil e del rapporto debito /pil. In aderenza con i parametri stabiliti nel Trattato di Maastricht, tali valori di riferimento vengono fissati dall’art. 1 del Protocollo N. 5 sulla Procedura per i disavanzi eccessivi al 3 per cento e al 60 per cento, rispettivamente. Viene altresı̀ riaffermata la necessità della transitorietà e dell’eccezionalità al fine di giustificare eventuali scostamenti dai valori di riferimento. In ogni caso, l’art. 104 prevede che, nel qualificare un bilancio pubblico come “eccessivo”, occorra prendere in considerazione anche ulteriori informazioni quali, ad esempio, il rapporto tra investimenti pubblici e disavanzo. Di particolare importanza per la stabilità macroeconomica connessa alle politiche monetarie e fiscali appaiono le norme che disciplinano le restrizioni al finanziamento pubblico (articoli dal 101 al 103). In particolare, l’enfasi viene posta sui divieti da parte della bce e delle bcn di concedere conti allo scoperto o qualsiasi altra facilitazione creditizia a qualsiasi istituzione pubblica, sia a livello nazionale sia a livello comunitario, e di acquistare direttamente titoli del debito pubblico. Inoltre, l’art. 103 prevede la cosiddetta no bail-out clause, ossia stabilisce il principio secondo il quale la Comunità o gli Stati membri non rispondono nè si fanno carico degli impegni assunti dalle istituzioni pubbliche o dagli altri Stati membri, in particolare nel caso di dichiarata insolvenza. Come verrà enfatizzato nel corso del prossimo paragrafo, la previsione di tali misure risulta direttamente finalizzata a rafforzare la credibilità della politica monetaria. Il psc, teorizzato dal ministro delle finanze tedesco Theo Waigel nel novembre del 1995 e costituito da una Risoluzione del Consiglio europeo approvata ad Amsterdam il 17 giugno 1997 e da due Regolamenti del Consiglio ecofin, rappresenta una legislazione secondaria che racchiude le norme e i principi del Trattato volte a prevedere regole di politica fiscale coerenti con il mantenimento all’interno dell’uem di finanze pubbliche solide. In particolare, obiettivo specifico della Risoluzione del giugno 1997 è quello di precisare gli impegni degli Stati membri, della Commissione europea e del Consiglio europeo. Il 19 Regolamento del Consiglio N. 1467/97 del 7 luglio 1997 definisce le condizioni e i tempi per l’applicazione della procedura per i disavanzi pubblici eccessivi durante la terza fase dell’uem. Il Regolamento del Consiglio N. 1466/97 del 7 luglio 1997 stabilisce le disposizioni che attengono al rafforzamento della sorveglianza dei programmi di stabilità e di convergenza, promuovendo altresı̀ il coordinamento delle politiche economiche. Il principio fondamentale stabilito nella Risoluzione del Consiglio è rappresentato dal vincolo per gli Stati membri a mantenere nel medio termine posizioni di bilancio vicine al pareggio o in avanzo e a porre in essere le misure necessarie di carattere correttivo ogni qualvolta gli Stati stessi dispongano di informazioni che facciano presumere l’esistenza di un divario, effettivo o previsto, rispetto agli obiettivi fissati nei programmi di stabilità e convergenza. In precedenza, si è sottolineato come nel Trattato venga affermata la possibilità per gli Stati membri di superare il limite del 3 per cento del rapporto deficit/pil senza che si configuri una situazione di deficit eccessivo limitatamente a casi che rivestano un carattere di temporaneità ed eccezionalità. In particolare, il psc, nel Regolamento N. 1467/97, qualifica il superamento del valore di riferimento per il disavanzo del bilancio pubblico come eccezionale e temporaneo qualora sia direttamente legato ad eventi inusuali ritenuti al di fuori del controllo dello Stato membro interessato oppure sia determinato da una grave recessione economica. Nel caso in cui il superamento del limite del 3 per cento si configuri come una diretta conseguenza di una grave recessione economica, viene precisato come la situazione di eccezionalità si manifesti solo se, nell’anno in corso, si sia verificata una diminuzione del pil in termini reali almeno del 2 per cento. Contrazioni del pil reale meno pronunciate rispetto alla soglia del 2 per cento sono ammesse solo qualora la recessione si sia verificata secondo modalità improvvise e inattese oppure in ragione della diminuzione cumulata della produzione rispetto alle tendenze passate. In ogni caso, nella valutazione della gravità di una recessione economica lo Stato membro assume come termine di riferimento un declino del pil in termini reali superiore allo 0,75 per cento. Il carattere di temporaneità del superamento del valore di riferimento è strettamente connesso alle proiezioni riguardo l’evoluzione del bilancio pubblico pubblicate dalla Commissione europea, le quali devono risultare coerenti con il rientro del disavanzo entro il limite di riferimento al termine dell’evento eccezionale o della grave recessione economica. 20 L’attuazione del psc è articolata principalmente in due pilastri: la vigilanza multilaterale delle posizioni di bilancio e la procedura dei disavanzi eccessivi. Conformemente al Regolamento del Consiglio N. 1466/97, la vigilanza multilaterale si basa sull’esame svolto dal Consiglio dell’Unione Europea sui programmi di stabilità, presentati dagli Stati che hanno adottato la moneta unica, e dei programmi di convergenza, presentati dagli Stati che non hanno adottato la moneta unica. Entrambe le tipologie di programmi sono presentate annualmente e devono indicare (i) l’obiettivo a medio termine di un saldo di bilancio prossimo al pareggio o in attivo e le modalità per conseguirlo, nonché l’andamento previsto del rapporto debito/pil; (ii) le principali ipotesi sulle prospettive economiche circa le variabili economiche ritenute rilevanti per il principio della solidità delle finanze pubbliche, come gli investimenti pubblici, la crescita del pil in termini reali, l’occupazione e l’inflazione; (iii) la descrizione dei provvedimenti di bilancio e delle altre misure di politica economica attuati o previsti per conseguire gli obiettivi del programma; (iv ) l’analisi delle ripercussioni di eventuali modifiche delle principali ipotesi economiche sulla situazione di bilancio e sul debito. Il fine ultimo di tali informazioni è quello di consentire al Consiglio di valutare in maniera puntuale se (i) l’obiettivo di bilancio a medio termine stabilito nel programma di convergenza sia tale da consentire di evitare un disavanzo eccessivo; (ii ) le ipotesi economiche sulle quali si basa il programma siano realistiche; (iii ) i provvedimenti attuati o previsti siano sufficienti per conseguire l’obiettivo di bilancio a medio termine e al fine di pervenire ad una convergenza duratura. Qualora il Consiglio riscontri l’esistenza di carenze e divergenze del programma rispetto ai contenuti o agli obiettivi di medio termine, può chiedere allo Stato membro in esame una modifica dello stesso. I programmi sono seguiti attentamente dal Consiglio nella loro attuazione, sulla base delle informazioni fornite dagli Stati membri e delle valutazioni effettuate dalla Commissione e dal Comitato economico e finanziario. Nel caso in cui la Commissione ritenga che uno Stato membro sia incorso in un disavanzo eccessivo, quest’ultima redige una relazione e chiede un parere al Consiglio, in tal modo avviando la procedura dei disavanzi eccessivi. Qualora il Consiglio decida che il disavanzo è effettivamente eccessivo, ha il compito di emettere una raccomandazione allo Stato membro in questione. Tale raccomandazione ha il fine di sollecitare lo Stato membro in esame affinché adotti le misure di adeguamento necessarie. Con l’eccezione di 21 circostanze particolari, viene esplicitamente previsto l’obbligo di correggere il disavanzo eccessivo entro l’anno successivo alla sua constatazione. Nei mesi immediatamente successivi alla constatazione, il Consiglio attua operazioni di monitoraggio al fine di verificare che siano attuate delle misure correttive adeguate per il rientro del disavanzo eccessivo all’interno del margine consentito. Nel caso in cui tali misure non vengano ritenute avviate o adeguate, il Consiglio procede ad ulteriori adempimenti, i quali possono culminare nella decisione di imporre le sanzioni conformi all’art. 104 del Trattato. Le sanzioni consistono nella costituzione presso l’Unione Europea di una somma a titolo di deposito infruttifero, formata da un ammontare fisso e da una ammontare variabile. La quota fissa è pari allo 0,2 per cento del pil dello Stato membro in esame, mentre la quota variabile ammonta ad un decimo della differenza tra il rapporto disavanzo/pil ed il valore di riferimento del 3 per cento. In ogni caso, è previsto che il deposito non debba risultare superiore allo 0,5 per cento del pil dello Stato membro in esame. La somma immobilizzata è suscettibile di essere convertita sotto forma di ammenda qualora nell’arco di due anni il rapporto deficit/pil non risulti al di sotto del 3 per cento. La stessa ammenda viene distribuita fra gli Stati membri che risultino in regola in modo proporzionale alle rispettive quote sul pil totale degli stessi Stati che non presentino disavanzi eccessivi. 5 L’esperienza recente e la credibilità delle sanzioni del Patto In riferimento all’esperienza recente, i Paesi membri che hanno superato il limite del 3 per cento per il rapporto disavanzo/pil sono il Portogallo, la Germania e la Francia. Coerentemente con le clausole del Patto, il Portogallo, che nel 2001 ha raggiunto un rapporto deficit/pil pari al 4,1 per cento, è stato invitato dal Consiglio ad adottare tutte le misure necessarie al fine di porre fine alla situazione di disavanzo eccessivo entro il 31 dicembre 2002 e ricondurlo, nel 2003, al di sotto della soglia del 3 per cento. Nel 2002 il disavanzo di bilancio della Germania in rapporto al pil ha raggiunto il 3,8 per cento. In tale circostanza, la Germania ha invocato l’eccezionalità della situazione, attribuendola essenzialmente alla necessità di fronteggiare i danni provocati dall’alluvione della Germania 22 dell’est. La susseguente relazione della Commissione europea ha tuttavia puntualizzato che il limite sarebbe stato comunque superato anche in assenza della calamità naturale, richiedendo altresı̀ al Consiglio di pronunciarsi. Quest’ultimo ha sollecitato il governo tedesco a rientrare dal disavanzo eccessivo entro maggio 2003. Nel 2002, anche in Francia si è registrato un rilevante scostamento tra il disavanzo in rapporto al pil dichiarato come obiettivo (pari all’1,4 per cento) e quello effettivamente realizzato (pari al 2,7 per cento). Per evitare che nel 2003 si toccasse il limite del 3 per cento, la Commissione ha ritenuto opportuno stendere una relazione, richiedendo al Consiglio di formulare delle raccomandazioni a riguardo. I tre Stati membri hanno aggiornato i loro Programmi di Stabilità per aderire alle raccomandazioni formulate dal Consiglio. Tuttavia, mentre il governo portoghese è riuscito a rientrare nel limite consentito nel 2002 e nel 2003, Francia e Germania hanno portato il deficit pubblico in rapporto al pil permanentemente al di sopra della soglia del 3 per cento, in palese violazione delle regole stabilite dal Patto e dei precedenti impegni assunti. Ciò ha dato origine ad ampi dibattiti culminati con la sorprendente decisione del 25 novembre 2003 da parte del Consiglio ecofin di “sospendere” la procedura per deficit eccessivo contro Francia e Germania. In particolare, il Consiglio ha fornito un’interpretazione decisamente estensiva e flessibile delle regole fiscali dell’Unione, consentendo a Francia e Germania di ”concordare” percorsi di rientro nei limiti di disavanzo consentiti alternativi a quelli proposti dalla Commissione europea e precedentemente raccomandati dal Consiglio stesso, secondo procedure diverse da quelle previste sia dal Trattato sia dal psc. E’ opinione diffusa che la decisione da parte del Consiglio di sospensione della procedura abbia di fatto segnato la fine del psc. In questa sede ci interessa puntualizzare che la decisione del novembre 2003 sembra costituire una manifestazione esplicita del problema della credibilità delle sanzioni previste dal psc. La tesi secondo cui l’applicabilità delle sanzioni non sia credibile in una vasta gamma di circostanze si basa principalmente su tre ordini di motivazioni. La prima motivazione è connessa al fatto che, all’interno di un’area monetaria integrata, tende a registrarsi una elevata correlazione positiva sia tra i tassi di crescita sia tra i deficit di bilancio degli Stati membri. In ragione di ciò, è probabile che un rallentamento dell’attività economica e un connesso peggioramento delle finanze pubbliche tale 23 da configurare un deficit eccessivo in uno o più Paesi dell’Unione generi delle esternalità negative, estendendosi almeno in parte anche all’interno degli altri Stati membri. In tali condizioni, i membri del Consiglio, che si trovano a dover votare per l’applicazione delle sanzioni ai danni dello Stato oggetto di esame, internalizzano nelle loro scelte la possibilità che anche gli Stati da loro rappresentati possano in futuro essere oggetto di una procedura per deficit eccessivo. L’esistenza di legami diretti tra i Paesi dell’Unione può pertanto costituire un disincentivo a votare favorevolmente per l’applicazione delle sanzioni. Shock negativi potrebbero ripercuotersi su quasi tutti i Paesi, i quali è probabile si astengano dall’effettuare un autosanzionamento generalizzato. Va altresı̀ sottolineato come, anche qualora shock recessivi interessino un ristretto sottoinsieme dei Paesi, non sia affatto scontato che la procedura sanzionatoria venga messa in atto, per la particolare formalità della procedura di votazione, la quale prevede una maggioranza di due terzi. Dato che sia i Paesi sotto esame sia i non partecipanti all’uem non hanno diritto di voto, le maggioranze necessarie affinché vengano adottati provvedimenti sanzionatori risultano variabili, con la possibilità concreta di costruire con relativa facilità coalizioni di blocco, vale a dire minoranze potenzialmente capaci di impedire l’adozione di provvedimenti sanzionatori. La terza motivazione che inficia la credibilità del contenuto sanzionatorio del Patto trova un fondamento rilevante nell’ambiguità e nell’arbitrarietà delle circostanze in cui un deficit superiore al 3 per cento in rapporto al pil possa essere considerato non eccessivo. In effetti, come prescritto dall’art. 2 del Regolamento del Consiglio N. 1467/97, un rapporto disavanzo/pil in eccesso rispetto al valore di riferimento è suscettibile di essere considerato come eccezionale o temporaneo, e quindi non soggetto a sanzioni, qualora sia conseguenza di un evento “inconsueto non soggetto al controllo dello Stato interessato”, senza che sia necessario una diminuzione del pil superiore al 2 per cento. Si evince come lo spazio per interpretazioni discrezionali sia piuttosto ampio e tale da far ricorso a deroghe in un elevato numero di casi. 24 6 Il dibattito sui criteri e la riforma del Patto Come è emerso dal riferimento alla teoria economica, la necessità di imporre qualche forma di vincolo fiscale per quanto attiene alla gestione delle politiche di bilancio da parte dei Paesi dell’area dell’euro quale precondizione per il mantenimento di un alto grado di stabilità monetaria sembra essere un’opinione consolidata tra gli economisti. In particolare, la fissazione di un limite alla percentuale del disavanzo sul pil ha l’indubbio vantaggio di arginare politiche fiscali non sostenibili e incompatibili con l’obiettivo della stabilità dei prezzi. Il dibattito prende corpo in riferimento a due dimensioni differenti. La prima dimensione riguarda la definizione quantitativa dei limiti dei parametri fiscali adottati nel psc. La seconda dimensione attiene alla definizione della tipologia di parametri fiscali da adottare al fine di verificare il grado di adeguatezza delle politiche fiscali in relazione agli obiettivi più ampi dell’Unione. Cominciamo con l’osservare che le regole di politica fiscale sancite dal psc non configurano un grado di rigidità tale da annullare l’autonomia e la discrezionalità nella gestione della politiche di bilancio. In effetti, uno degli obiettivi del psc è quello di promuovere il rispetto dell’obiettivo di raggiungere nel medio termine posizioni di bilancio prossime al pareggio o in avanzo proprio per consentire l’operare degli stabilizzatori automatici come meccanismi atti a far fronte alle fluttuazioni cicliche di normale ampiezza. Assicurare al bilancio pubblico la possibilità di svolgere il consueto ruolo di ammortizzatore anticiclico costituisce pertanto un obiettivo portante del Patto. Da questo punto di vista, viene comunemente riconosciuta l’importanza di evitare politiche fiscali procicliche, ovvero di mantenere una situazione di bilancio sana in periodi di crescita economica sostenuta per poter utilizzare la leva fiscale a fini espansivi in periodi di depressione.31 La questione cruciale consiste nell’esaminare qualora il limite di mantenere comunque il disavanzo pubblico sotto il valore del 3 per cento in rapporto al pil rappresenti un accettabile margine di sicurezza per contrastare l’eventualità di shock asimmetrici, ovvero costituisca un requi31 Cfr. W.H. Buiter e C. Grafe, “Patching up the Pact: some Suggestions for Enhancing Fiscal Sustainability and Macroeconomic Stability in an Enlarged European Union”, CEPR Discussion Paper N. 3496 (2002); W.H. Buiter, “How to Reform the Stability and Growth Pact”, in Central Banking, Vol. XIII N. 3 (2003), 49-58. 25 sito eccessivamente rigido. Conformemente all’esperienza storica dei Paesi europei, viene ritenuto che, partendo da una situazione di equilibrio del bilancio pubblico, la previsione di un margine di disavanzo del 3 per cento possa ritenersi più che sufficiente al fine di garantire la stabilizzazione dell’economia in presenza di eventi negativi imprevisti.32 Coerentemente con la teoria economica, un ben noto fondamento che giustifica i limiti del 3 per cento per il rapporto disavanzo/pil e del 60 per cento per il rapporto debito/pil è il seguente. Un disavanzo del 3 per cento in rapporto al pil, se combinato con un tasso di crescita del prodotto interno lordo nominale del 5 per cento, risulta coerente con una convergenza del rapporto tra debito pubblico e pil al 60 per cento. Tuttavia, è opportuno osservare come un esame attento della recente performance in termini di crescita economica nell’area dell’euro condurrebbe agevolmente alla conclusione che la soglia prevista del 3 per cento per il rapporto disavanzo/pil costituisca perfino un vincolo piuttosto generoso. In effetti, un tasso di crescita potenziale del pil reale nell’intera area monetaria che sembra attualmente collocarsi intorno all’1,5, combinato con un target di inflazione al 2 per cento, richiederebbe, al fine di stabilizzare nel lungo periodo il rapporto debito/pil al 60 per cento, un limite del 2,1 per cento per quanto attiene al rapporto deficit/pil, ovvero un rafforzamento dei vincoli di natura fiscale. Il punto che ci sembra vada enfatizzato è che, coerentemente con l’esperienza recente, l’esistenza di difficoltà da parte di alcuni Stati membri a mantenere gli impegni affonda le sue radici non nelle politiche di stabilizzazione nei periodi di recessione ma nel rilassamento degli sforzi di aggiustamento nei periodi favorevoli caratterizzati da alta crescita. Pur concordando riguardo la desiderabilità di un quadro di riferimento per l’uem caratterizzato dalla previsione di semplici e trasparenti regole di politica fiscale, esiste una vasta letteratura finalizzata a proporre eventuali modifiche alle caratteristiche di fondo del psc. Una prima critica è connessa alla previsione di vincoli comuni a tutti gli Stati membri in riferimento ai rapporti deficit/pil e debito/pil. In effetti, occorre osservare che i Paesi dell’area dell’euro si caratterizzano per differenti livelli di stock di debito in rapporto al pil, i quali riflettono scelte di politica economica passate. Pertanto, un monitorag32 Cfr. L. Bini Smaghi, L’Euro, il Mulino, Bologna 1999; J. Gali e R. Perotti, “Fiscal Policy and Monetary Integration in Europe”, Economic Policy 37 (2003), 533-572. 26 gio sistematico inerente alla dinamica degli avanzi primari in rapporto al pil potrebbe risultare maggiormente informativo in riferimento all’andamento corrente della politica fiscale durante la terza fase dell’uem. Inoltre, potrebbe rivelarsi opportuno adottare regole sul debito che prevedano un’adeguata diminuzione del rapporto debito/pil per gli Stati membri relativamente più indebitati. In secondo luogo, al fine di qualificare il grado di solidità delle finanze pubbliche, sarebbe opportuno monitorare congiuntamente anche la componente strutturale del disavanzo, ossia quella componente che non risulta affetta dalle condizioni cicliche dell’economia. Sotto questo profilo, appare rilevante la proposta di predisporre un target sul livello del deficit aggiustato per il ciclo, sufficientemente al di sotto del 3 per cento33 Tuttavia, tale proposta si espone alla critica che si riferisce alla difficoltà di misurare oggettivamente il deficit corretto per il ciclo, in quanto è plausibile che i singoli governi siano incentivati ad attribuire la causa di elevati tassi di disoccupazione a insufficienze di domanda, piuttosto che a problemi di natura strutturale. In linea di principio potrebbe avere un fondamento teorico la proposta di consentire livelli di deficit più alti per quei Paesi che intendono realizzare riforme strutturali ritenute compatibili con finanze pubbliche più solide nel lungo periodo. E’ probabile, infatti, che i vantaggi di lungo periodo connessi a tali riforme, come la riforma del mercato del lavoro e la riforma in campo pensionistico, siano associati a costi di breve periodo in termini di maggiore disavanzo. La proposta di modifica probabilmente più dibattuta è direttamente associata alla cosiddetta golden rule.34 Tale regola prevede la sottrazione dal calcolo del disavanzo delle spese per investimenti pubblici, in quanto finalizzate a promuovere la crescita di lungo periodo. Il vantaggio connesso alla regola aurea è legato alla capacità di assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche (tramite la maggiore crescita indotta dall’accumulazione di capitale) congiuntamente con il raggiungimento di un alto grado di equità intergenerazionale. Lo svantaggio riguarda presumibilmente la scarsa applicabilità pratica, in quanto è implausibile pensare che le autorità di politica fiscale non ricorrano a comporta33 Cfr. W.H. Buiter, “How to Reform the Stability and Growth Pact”, in Central Banking, Vol. XIII N. 3 (2003), 49-58. 34 Cfr. O. Blanchard e F. Giavazzi, “Improving the SGP Through a Proper Accounting of Public Investment”, CEPR Discussion Paper N. 4220 (2004). 27 menti opportunistici, ovvero a ingegnerie contabili nel computo della parte del disavanzo dovuta a investimenti pubblici. Al tempo in cui si scrive, è sotto esame la proposta di rendere più flessibile il psc. In particolare, con le modifiche che si intendono apportare, decise il 20 marzo 2005 dal Consiglio ecofin, i Paesi con un debito eccessivo disporranno di tre anni per rientrare sotto la soglia del 3 per cento. In effetti, in caso di “circostanze speciali” potrà essere concesso “un anno in più” rispetto ai due previsti dalle attuali norme. Inoltre, nel caso in cui, durante la procedura di deficit eccessivo, si verifichino “eventi economici avversi e imprevisti” che producano “ampi effetti sfavorevoli sui conti”, la nuova procedura proposta indica che i tempi per rientrare al di sotto del valore di riferimento possano essere “rivisti e allungati”, purché i Paesi abbiano messo in atto misure correttive ritenute adeguate. La nuova riforma propone altresı̀ di considerare “attentamente” un superamento del tetto determinato “da una riforma delle pensioni che introduce un sistema previdenziale a più pilastri”. Per quanto attiene alle riforme strutturali, si delinea un quadro di riferimento in cui verranno considerate “solo le riforme più importanti che hanno un effetto di riduzione dei costi diretti sul lungo periodo in grado di aumentare il potenziale di crescita, e il cui impatto sulla sostenibilità a lungo termine sulle finanze sia positivo e verificabile”. Tra “tutti i fattori rilevanti” al fine di qualificare un deficit come eccessivo, si prevede anche il contributo degli Stati membri “a migliorare la solidarietà internazionale e a raggiungere gli obiettivi della politica europea”. Inoltre, si profila la necessità di prendere in considerazione le “condizioni macroeconomiche” e le “dinamiche del debito”, compresa la tendenza a conseguire “surplus primari a livelli adeguati”. E’ plausibile supporre che tale riforma incida in maniera rilevante sulle interazioni tra politica monetaria e politica fiscale, come risulta evidente dal seguente Comunicato Stampa del Consiglio Direttivo della bce del 21 marzo 2005: “Il Consiglio direttivo della Banca Centrale Europea esprime serie preoccupazioni riguardo alle modifiche al Patto di Stabilità e Crescita proposte. È necessario evitare che i cambiamenti del meccanismo correttivo del Patto ledano la fiducia nel quadro di riferimento per le politiche di bilancio dell’Unione europea e nella sostenibilità delle finanze pubbliche dei paesi dell’area dell’euro. Inoltre, quanto al meccanismo preventivo del Patto, il Consiglio direttivo prende atto di alcune delle modifiche avanzate che sono in linea con un possibile rafforzamento di 28 tale meccanismo. Politiche fiscali solide e una politica monetaria orientata alla stabilità dei prezzi sono essenziali per il successo dell’Unione economica e monetaria e costituiscono i presupposti per la stabilità macroeconomica, la crescita e la coesione nell’area dell’euro. È indispensabile che gli Stati membri, la Commissione europea e il Consiglio dell’Unione europea applichino con rigore e coerenza il quadro di riferimento rivisto in modo da promuovere la conduzione di politiche di bilancio prudenti. Nelle attuali circostanze è quanto mai fondamentale che tutte le parti interessate assolvano le rispettive responsabilità. I cittadini e i mercati possono fare affidamento sul fermo impegno del Consiglio direttivo ad adempiere il suo mandato di mantenere la stabilità dei prezzi”. La recente proposta di riforma, nella misura in cui amplifica ulteriormente l’ambiguità delle circostanze in cui deficit fiscali in eccesso rispetto al valore di riferimento del 3 per cento non debbano comunque essere considerati “eccessivi”, abbandona di fatto il Patto di Stabilità e Crescita, aprendo la strada a possibili disavanzi fiscali sistematicamente più elevati in tutti i Paesi dell’area dell’euro. 7 Conclusioni Il presente articolo ha esaminato le caratteristiche del Patto di Stabilità e Crescita e le relative proposte di modifica, identificando i fondamenti teorici conformi all’applicazione di regole fiscali all’interno di un’unione monetaria. L’analisi relativa all’orientamento delle politiche di bilancio viene considerata nella valutazione e nelle proiezioni macroeconomiche della Banca Centrale Europea, nell’ambito del secondo pilastro della strategia di politica monetaria orientata al mantenimento dell’obiettivo della stabilità dei prezzi. Dal punto di vista della teoria economica, le discussioni riguardo i fondamenti del Patto riecheggiano il più ampio dibattito economico “regole versus discrezionalità”: le regole limitano la flessibilità della politica economica ma migliorano la performance di lungo periodo, limitando comportamenti distorsivi e garantendo un ambiente economico stabile e facilmente prevedibile. Nel caso dell’Unione Monetaria Europea, in cui i singoli Paesi hanno delegato la sovranità monetaria a una banca centrale istituzionalmente indipendente e vincolata da uno specifico mandato, il mantenimento di un adeguato margine di discrezionalità da parte delle singole autorità di politica fiscale viene ritenuto cruciale 29 per poter fronteggiare l’eventualità di shock asimmetrici. Tale esigenza è amplificata all’interno di un area monetaria, come quella dell’uem, che non viene ritenuta conforme a criteri di ottimalità, a causa di rilevanti difformità nelle caratteristiche economiche degli Stati membri, un basso livello di mobilità del fattore lavoro e un basso grado di flessibilità dei prezzi e dei salari. Tuttavia, coerentemente con la teoria economica, si è argomentato come concedere piena discrezionalità nella gestione della politica fiscale possa generare dei costi non trascurabili in riferimento a una pluralità di dimensioni, come il grado di sostenibiltà delle finanze pubbliche nel lungo periodo, l’obiettivo della stabilità dei prezzi, la credibilità della politica monetaria, le distorsioni di carattere politico nei processi decisionali e il propagarsi di esternalità negative. Conformemente all’analisi svolta, riteniamo che il Patto di Stabilità e Crescita, seppure suscettibile di essere migliorato sotto una pluralità di punti di vista, rappresenti un giusto compromesso tra l’esigenza della flessibilità della politica fiscale e l’esigenza di regole di bilancio rigide che contribuiscano a promuovere il coordinamento delle politiche fiscali, ad arginare comportamenti distorsivi e a garantire l’equità intergenerazionale. 30