Il Patto di Stabilit`a e Crescita: Aspetti Economici e Istituzionali

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Il Patto di Stabilità e Crescita: Aspetti
Economici e Istituzionali
Giancarlo Marini
Dipartimento di Economia e Istituzioni
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
E-mail: [email protected]
Alessandro Piergallini
Dipartimento di Economia e Istituzioni
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
E-mail: [email protected]
marzo 2005
Sommario: 1. Introduzione 2. Il ruolo della politica fiscale nelle unioni monetarie 3.
Fondamenti teorici delle regole di politica fiscale 4. Dal Trattato di Maastricht al Patto
di Stabilità e Crescita 5. L’esperienza recente e la credibilità delle sanzioni del Patto 6.
Il dibattito sui criteri e la riforma del Patto 6. Conclusioni.
1
Introduzione
L’analisi dei fondamenti teorici e delle conseguenze economiche connesse al Patto di Stabilità e Crescita (psc) costituisce una delle tematiche recentemente più dibattute dagli
economisti e dai policy makers. Il presente lavoro si pone come obiettivo principale quello
di esaminare le linee portanti del dibattito, assumendo come ottica privilegiata il riferimento costante alla teoria economica.
Il completamento dell’Unione Economia e Monetaria (uem) si è fondato essenzialmente su due caratteristiche ben definite: la centralizzazione della politica monetaria da
un lato e il decentramento della politica fiscale dall’altro. L’avvento della moneta unica
ha comportato il trasferimento della sovranità monetaria dagli organismi nazionali al Sistema Europeo di Banche Centrali (sebc), composto dalla Banca Centrale Europea (bce)
e dalle 15 Banche Centrali Nazionali (bcn).1 Conformemente al Trattato che istituisce la
Comunità Europea e allo Statuto del sebc e della bce, l’obiettivo primario del sebc è il
mantenimento della stabilità dei prezzi. Quest’ultima viene definita come un aumento sui
12 mesi dell’Indice Armonizzato dei Prezzi al Consumo (iapc) per l’area euro inferiore al
2 per cento. Lo stesso passaggio alla moneta unica e l’adozione dell’euro si sono fondati
1
Si citano alcuni riferimenti essenziali al Trattato che attengono al mandato dell’Eurosistema:
Articolo 105 (1)
L’obiettivo principale del sebc è il mantenimento della stabilità dei prezzi.
Fatto salvo
l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il sebc sostiene le politiche economiche generali nella Comunità al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi della Comunità definiti nell’articolo
2.
Articolo 2
La Comunità ha il compito di promuovere (. . . ) uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle
attività economiche nell’insieme della Comunità, una crescita sostenibile, non inflazionistica e
che rispetti l’ambiente, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello
di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la
coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri.
Articolo 3a
Ai fini enunciati all’articolo 2, l’azione degli Stati membri e della Comunità comprende (. . . )
la definizione e la conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche, che
abbiano l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto salvo questo obiettivo,
di sostenere le politiche economiche generali nella Comunità.
1
sul completamento del processo di convergenza verso bassi tassi di inflazione in tutti i
paesi partecipanti, in aderenza ai parametri fissati dal Trattato di Maastricht, adottati
per verificare l’ammissibilità dei paesi alla moneta unica. Fatto salvo l’obiettivo della
stabilità dei prezzi, il sebc si pone l’obiettivo di sostenere le politiche economiche generali della Comunità conformemente ai principi di un’economia di mercato aperta. Al fine
di adempiere al mantenimento della stabilità dei prezzi, il Trattato attribuisce al sebc
una completa indipendenza istituzionale. L’esistenza di una banca centrale indipendente
viene comunemente riconosciuta come condizione preliminare sia per il perseguimento
dell’obiettivo primario della stabilità dei prezzi sia per il raggiungimento degli obiettivi
più ampi dell’Unione Europea. In aderenza con la teoria economica, tale indipendenza
istituzionale costituisce altresı̀ un requisito indispensabile al fine di garantire in modo
significativo la credibilità della politica monetaria. In effetti, come avremo modo di sottolineare anche in seguito, la politica monetaria raggiunge la sua massima efficacia quando
è credibile, ossia quando il pubblico ha piena fiducia sul fatto che essa sia interamente
finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo della stabilità dei prezzi e sia attuata in modo
da raggiungere efficacemente tale obiettivo. La strategia di politica monetaria annunciata
dalla bce poggia sostanzialmente su due pilastri. Senza entrare nel dettaglio, con il primo
pilastro la bce si preoccupa che il tasso di crescita dell’aggregato monetario m3 cresca nel
medio periodo ad un certo saggio costante. Tale pilastro trae origine e fondamento dal
convincimento che l’inflazione risulti essere, quantomeno nel lungo periodo, un fenomeno
monetario.2 Il secondo pilastro consiste in una valutazione che attiene all’andamento
temporale di una serie di indicatori che vengono comunemente ritenuti i principali stimatori dell’inflazione: tasso di cambio, prezzi dei titoli, tasso di crescita dei salari nominali,
dinamica dei prezzi internazionali, indicatori di politica fiscale, ecc. Risulta opportuno
evidenziare come il monitoraggio dell’evoluzione delle variabili fiscali rappresenti parte
integrante del secondo pilastro della strategia della bce. Uno degli obiettivi rilevanti
dell’articolo è quello di analizzare le ragioni rilevanti conformemente alle quali politiche
fiscali sostenibili comportano benefici per la conduzione di una politica monetaria prevalentemente orientata al perseguimento della stabilità dei prezzi. A fronte di una politica
2
Cfr. G.T. McCandless e W. Weber “Some Monetary Facts”, Federal Reserve Bank of Minneapo-
lis, Quarterly Review 19 (1995), 2-11.
2
monetaria unica determinata al livello dell’area dell’euro nel suo complesso e completamente finalizzata al raggiungimento della stabilità dei prezzi, la politica fiscale rimane
sotto la diretta responsabilità dei singoli stati membri. Da qui deriva la questione cruciale
che investe il disegno di ogni forma di unione monetaria, vale a dire se assicurare piena
discrezionalità alle singole autorità di politica fiscale, ovvero, come nel caso dell’uem, predisporre specifici vincoli che ne limitino l’operato. Con il presente lavoro si intende fornire
una spiegazione quanto più possibile esaustiva a tale questione, tentando di identificare
le principali motivazioni teoriche che risultano coerenti con l’imposizione del psc.
Lo schema del presente articolo è il seguente. Il paragrafo 2 contiene una breve
discussione connessa alle argomentazioni teoriche avanzate per sostenere un ruolo attivo
della politica fiscale nell’ambito delle unioni monetarie. L’obiettivo del paragrafo 3 è
quello di delineare i fondamenti teorici sottostanti l’imposizione di regole fiscali all’interno
delle unioni monetarie. L’illustrazione delle principali caratteristiche del psc costituisce
l’oggetto del paragrafo 4. Il paragrafo 5 esamina il problema della credibilità del
contenuto sanzionatorio del psc, anche in relazione all’esperienza recente. Le principali
conclusioni vengono riassunte nell’ultimo paragrafo.
2
Il ruolo della politica fiscale nelle unioni monetarie
I sostenitori della piena discrezionalità delle politiche del bilancio pubblico all’interno di
un’unione monetaria generalmente sviluppano le loro argomentazioni assumendo come
termine di riferimento teorico la cosiddetta teoria delle aree monetarie ottimali.3 Tale
teoria trae origine dal fatto che la formazione di un’unione monetaria implica la perdita
da parte dei singoli stati membri della possibilità di utilizzare il tasso di cambio e, più in
generale, gli strumenti di politica monetaria come meccanismi di aggiustamento economico
nel caso in cui le variabili economiche assunte come rilevanti, in particolare i tassi di
inflazione e di disoccupazione, tendano a divergere dai valori fissati come obiettivo. La
3
Cfr. R. Mundell, “A Theory of Optimum Currency Area”, American Economic Review, 51 (1961),
657-675; R. McKinnon, “Optimum Currency Areas”, American Economic Review, 53 (1963), 717-725;
P. Kenen,“The Optimum Currency Area: An Eclectic View”, Monetary Problems of the International
Economy, R. Mundell and A. Swoboda (eds.), University of Chicago Press 1969.
3
politica monetaria viene condotta a livello centralizzato e di conseguenza è plausibile
assumere che sia finalizzata alla stabilizzazione delle variabili medie all’interno dell’intera
area monetaria. In tale contesto, uno degli obiettivi principali della teoria delle aree
monetarie ottimali è quello di identificare i criteri in presenza dei quali risulta possibile
l’aggiustamento economico in seguito a shock asimmetrici (ossia eventi che interessano
un determinato paese) senza che si renda necessario il ricorso agli strumenti della politica
monetaria ed in particolare a variazioni del tasso di cambio.
Un primo criterio identificato dalla letteratura4 riguarda l’apertura dei mercati ed in
particolare la creazione di un mercato comune. La logica di tale criterio è direttamente
connessa alla convinzione che un elevato grado di apertura implichi che i prezzi dei beni
commerciati internazionalmente vengano determinati sui mercati a livello dell’intera area
monetaria, riducendo la capacità del tasso di cambio di alterare in maniera significativa
i prezzi relativi. Un secondo criterio fa riferimento all’omogeneità delle singole economie
che hanno intrapreso il processo di integrazione monetaria, in particolare relativamente
alla composizione del pil, ai partner commerciali e all’esistenza di un basso grado di divergenza dei tassi di crescita del prodotto e dell’occupazione in caso di shock simmetrici
(che interessano la totalità degli Stati membri). Se i singoli paesi membri di un’unione
monetaria sono essenzialmente simili, è più probabile che il verificarsi di shock simmetrici
richieda la stessa risposta in termini di politica monetaria tramite variazioni del tasso di
interesse e del tasso di cambio. Un terzo criterio è costituito dalla mobilità dei fattori produttivi, in particolar modo del lavoro. Un’elevata mobilità del lavoro permette all’interno
di un’unione monetaria di controbilanciare gli effetti degli shock asimmetrici attraverso
la migrazione dei disoccupati, riducendo in tal modo la necessità di un aggiustamento
attraverso modificazioni del tasso di cambio. In altri termini, un declino della domanda
aggregata in uno Stato membro di un’unione monetaria non comporta l’aumento della
disoccupazione se i lavoratori sono geograficamente mobili e si spostano nei paesi in espansione. L’ultimo criterio teorizzato dagli economisti attiene alla flessibilità dei salari e
dei prezzi. Se all’interno di un’unione monetaria i salari e i prezzi si caratterizzano per un
alto grado di flessibilità, è plausibile prevedere come il verificarsi di uno shock asimme4
Cfr. C. Wyplosz, “EMU: Why and How It Might Happen”, Journal of Economic Perspectives 11
(1997), 3-21.
4
trico che colpisca un determinato Stato membro determini un immediato aggiustamento
del livello dei salari e dei prezzi tale da mantenere il pieno impiego dei fattori produttivi,
senza che si configuri come necessario attuare un cambiamento nel tasso di cambio o nei
tassi di interesse.
Una questione preliminare consiste pertanto nell’esaminare se l’area dell’euro possa
ritenersi conforme ai criteri che definiscono un’area monetaria come ottimale. Da questo
punto di vista, risulta agevole argomentare come l’area dell’euro si caratterizzi per un alto
grado di apertura dei mercati. Tale apertura viene favorita dall’adozione di moneta unica
e dal completamento del mercato unico europeo, il quale assicura l’esistenza un’elevata
mobilità dei beni, dei servizi e dei capitali. Tuttavia, già in riferimento al secondo criterio,
l’omogeneità delle singole economie, viene comunemente ritenuta l’esistenza di differenze
sostanziali tra i paesi dell’area dell’euro. A causa di differenze nella composizione del pil
e nei partner commerciali, gli shock della domanda che possono affliggere la Germania
o la Finlandia sono probabilmente molto differenti dagli shock della domanda che possono affliggere la Spagna o il Portogallo.5 Inoltre, appare rilevante la posizione di quanti
ritengono che la combinazione di barriere commerciali ridotte e di tassi di cambio irrevocabilmente fissi stimoli nell’uem una maggiore specializzazione e concentrazione regionale
delle attività industriali, al fine di amplificare le economie di scala, con il risultato di
rendere più elevata l’eterogeneità fra i paesi. In tal caso, si configura l’eventualità che
shock di uno specifico settore possano direttamente convertirsi in shock di un paese specifico.6 In riferimento al terzo e al quarto criterio, è opinione diffusa che l’area dell’euro
si caratterizza per un basso grado di mobilità del lavoro e di flessibilità dei prezzi e
salari. Sebbene le barriere legali alla mobilità del lavoro nell’Unione Europea siano state
eliminate, linguaggi, costumi e culture profondamente differenti impediscono un’elevata
mobilità geografica, sia temporanea che a lungo termine.7 Per quanto attiene al grado
5
Cfr. M.S. Feldstein, “The Political Economy of the European Economic and Monetary Union:
Political Sources of an Economic Liability”, Journal of Economic Perspectives, 11 (1997), 23-42.
6
Cfr. P. Krugman, Geography and Trade, Cambridge, Mit Press 1991.
7
Da questo punto di vista rilevante appare la differenza con gli Stati Uniti, dove, in virtù di un elevato
grado di integrazione politica, linguistica e culturale, si verificano ampi movimenti migratori dalle regioni
in recessione verso quelle in espansione. Tali movimenti riducono la disoccupazione ed evitano pressioni
deflazionistiche nelle regioni in recessione e aumentano l’occupazione evitando pressioni inflazionistiche
5
di flessibilità dei salari, dall’analisi del livello di disoccupazione strutturale esistente in
Europa, tanto quanto dall’osservazione diretta, si evince agevolmente che i salari nell’area
dell’euro sono ancora troppo rigidi per controbilanciare gli shock della domanda.8 Inoltre,
è rilevante sottolineare l’assenza all’interno dell’Unione di un sistema fiscale centralizzato,
con estesi poteri di spesa, che si riveli in grado di assorbire gli shock asimmetrici attraverso
la redistribuzione del reddito comunitario.9
La differenziazione delle singole economie, un basso livello di mobilità del lavoro e
di flessibilità dei prezzi e salari inducono a ritenere che l’area dell’euro non costituisca
un’area monetaria ottimale. In tal caso, in un contesto caratterizzato dalla vischiosità
dei prezzi e dei salari e dalla scarsa mobilità del lavoro, politiche di bilancio discrezionali
condotte a livello decentrato hanno il vantaggio di poter contribuire al raggiungimento
della stabilità macroeconomica in seguito a shock asimmetrici. Conformemente alla teoria
economica tradizionale10 , la politica fiscale rappresenta infatti lo strumento di politica economica più rapido ed efficace per contrastare tendenze recessive, specialmente in presenza
di mercati imperfetti e non sufficientemente flessibili. Ciò può avvenire sia tramite le classiche politiche discrezionali del deficit spending (riduzioni delle tasse, aumenti della spesa
pubblica e dei trasferimenti alle famiglie) finalizzate a incidere positivamente sulla domanda aggregata, sia tramite l’operare dei cosiddetti stabilizzatori automatici (imposte
e sussidi alla disoccupazione).11 Di conseguenza, qualora i singoli paesi fossero colpiti
nelle regioni in espansione.
8
Di contro, negli Stati Uniti la flessibilità salariale è molto più elevata e quindi capace di attenuare le
conseguenze del manifestarsi di shock asimmetrici.
9
Al contrario, gli Stati Uniti si caratterizzano per la presenza di un bilancio unificato capace di attuare
rilevanti trasferimenti fiscali a favore delle regioni temporaneamente in recessione.
10
Cfr. J.M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest, and Money, New York, Macmillan
1936.
11
Si definiscono “stabilizzatori automatici” tutti quei meccanismi che, operando all’interno di un sistema
economico, tendono a ridurre le fluttuazioni del prodotto nazionale conseguenti alla variabilità delle
componenti autonome della domanda aggregata. Due esempi di stabilizzatori automatici sono appunto
costituiti dal sistema fiscale e dai sussidi di disoccupazione. In effetti, eventuali shocks recessivi della
domanda aggregata vengono in parte attenuati sia tramite l’automatica riduzione del prelievo fiscale (per
effetto della recessione della produzione) sia tramite l’aumento dei sussidi di disoccupazione (per effetto
della riduzione dell’occupazione).
6
da shock negativi dovrebbe essere consentito loro di lasciare crescere in modo flessibile
il disavanzo. Ma allora perchè vincolare i governi nella determinazione delle politiche
del demand management come previsto nel psc? Si è enfatizzato come conformemente
all’approccio teorizzato nella teoria delle aree monetarie ottimali è possibile argomentare
come, con l’imposizione di vincoli che riguardano la gestione decentrata delle politiche
di bilancio, le economie dell’area dell’euro abbiano di fatto perso tutti i gradi libertà
della politica economica nazionale. Esistono evidentemente delle ragioni profonde coerenti con l’imposizione di precise regole di comportamento e non direttamente riconducibili
al paradigma teorico delle aree monetarie ottimali. Oggetto dei prossimi due paragrafi
sarà quello di sviluppare le argomentazioni teoriche conformemente alle quali la solidità
delle finanze pubbliche costituisce un prerequisito indispensabile per la stabilità macroeconomica ed enucleare quindi le caratteristiche principali del psc.
3
Fondamenti teorici delle regole di politica fiscale
Il presente paragrafo intende fornire una spiegazione quanto più possibile esaustiva dei
fondamenti teorici che giustificano l’enfasi posta nel disegno dell’uem riguardo la previsione di specifici criteri di disciplina fiscale. E’ opportuno sottolineare come sia possibile
identificare sia motivazioni di carattere generale che attengono a problemi legati alle interazioni tra politica monetaria e fiscale sia motivazioni specifiche connesse a problemi di
coordinamento tra i paesi che compongono un’unione monetaria.
A. Politiche Fiscali e Sostenibilità delle Finanze Pubbliche. Nel paragrafo 2
si è argomentato come all’interno di un’unione monetaria che non aderisca a criteri di ottimalità garantire spazio per l’applicazione di politiche fiscali discrezionali
può rivestire un ruolo di primaria importanza al fine di contrastare eventuali shock
asimmetrici. Tuttavia, occorre in primo luogo enfatizzare come le proprietà virtuose di politiche fiscali espansive per fronteggiare il verificarsi di shock asimmetrici
recessivi abbiano una rilevante validità teorica in un contesto prettamente statico.
Un punto fondamentale è direttamente connesso al fatto che politiche fiscali eccessivamente accomodanti nel breve periodo inevitabilmente generano dei costi in
7
termini di peggioramento dei parametri di sostenibilità fiscale nel lungo periodo.
Al fine di comprendere il problema della sostenibilità delle politiche di bilancio, è
sufficiente pensare come una dinamica esplosiva del debito pubblico si possa ottenere anche se lo Stato realizzasse in ogni periodo un saldo primario (al netto
della spesa per interessi) in pareggio, dopo avere creato inizialmente un disavanzo
primario nel bilancio pubblico finanziato con il collocamento del debito stesso sul
mercato attraverso l’emissione di titoli. In tali circostanze e in assenza di una politica monetaria accomodante che ricorra all’emissione di moneta come strumento di
finanziamento pubblico (coerentemente con le clausole previste dal Trattato), il debito pubblico tenderebbe a crescere ad un tasso pari al tasso di interesse, inoltrandosi
su un sentiero potenzialmente esplosivo.
Occorre tuttavia tenere in mente che i parametri di sostenibilità contenuti nel psc
fanno riferimento al deficit di bilancio e al debito pubblico non in livelli bensı̀ in
rapporto al pil. In tal caso, è del tutto intuitivo che la dinamica del rapporto debito/pil tenda a divergere solo nel caso in cui il tasso di interesse sui titoli del debito
risulti sistematicamente superiore al tasso di crescita del pil. Gli unici strumenti
necessari ad evitare dinamiche esplosive sono la creazione di avanzi di bilancio primari da un lato e finanziamenti tramite emissioni di moneta da parte della Banca
Centrale dall’altro. Come avremo modo di sottolineare in seguito, il problema connesso all’eventuale finanziamento attraverso l’emissione di moneta (che giustifica
l’obbligo sancito dal Trattato di non monetizzazione del debito pubblico degli Stati
membri) è connesso alla sua potenziale incompatibilità con l’obiettivo della stabilità
dei prezzi.
La presenza di un tale trade off tra breve e lungo periodo, ossia il fatto che la politica
fiscale ha effetti benefici nel breve periodo che inevitabilmente possono minare la
stabilità macroeconomica nel lungo periodo, costituisce un primo fondamento teorico
che giustifica la previsione di alcune forme di vincoli nella gestione della politica
fiscale.
8
B. Politiche Fiscali e Stabilità dei Prezzi. Nel corso dell’introduzione si è enfatizzato come il mantenimento della stabilità dei prezzi costituisca l’obiettivo primario
della strategia di politica monetaria della bce. Conformemente alla teoria economica, è possibile identificare una pluralità di motivazioni che risultano coerenti con
l’adozione di un tale obiettivo nella conduzione della politica monetaria. Prezzi
stabili accrescono la trasparenza dei prezzi relativi e facilitano il raggiungimento
dell’efficienza nell’allocazione delle risorse.12 Un ambiente economico in cui è plausibile prevedere l’assenza di tendenze altamente inflazionistiche riduce l’incertezza e
determina una riduzione dei tassi di interesse a lungo termine, incidendo in tal modo
positivamente sul livello degli investimenti privati e di conseguenza sulla crescita economica.13 Un ulteriore vantaggio connesso alla stabilità dei prezzi è direttamente
legato alla riduzione del cosiddetto fiscal drag 14 , il quale rappresenta un elemento
distorsivo del sistema fiscale connesso all’inflazione.15 Il mantenimento della stabilità dei prezzi consente altresı̀ di arginare gli effetti di redistribuzione del reddito
che possono essere generati sia da un contesto di inflazione sia da un contesto di
deflazione.
Una questione cruciale consiste pertanto nell’esaminare se e in che misura le politiche
fiscali generino un effetto sul livello dei prezzi, interagendo in tal modo nella determinazione del fine primo della politica monetaria.
Conformemente all’approccio neoclassico l’indipendenza della banca centrale viene
teorizzata come condizione necessaria e sufficiente per assicurare la stabilità dei
prezzi. All’interno di tale paradigma teorico, un’elevata inflazione può solo essere la conseguenza di alti tassi di crescita dello stock nominale di moneta.16 Una
banca centrale conservatrice, ossia che attribuisca un peso rilevante alla stabilizzazione del tasso inflazione relativamente alla stabilizzazione del tasso di disoccu12
Cfr. M. Woodford, Interest an Prices, Princeton University Press 2003.
Cfr. R. Barro, Determinants of economic growth, MIT Press 1997.
14
Con il termine fiscal drag si intende quel fenomeno legato all’aumento del carico fiscale generato
13
dall’inflazione, che si verifica in un contesto caratterizzato da un sistema di imposizione progressivo e da
redditi monetari almeno parzialmente indicizzati all’inflazione stessa.
15
Cfr. M.S. Feldstein, Costs and benefits of price stability, Chicago University Press 1999.
16
Cfr. M. Friedman, “The Role of Monetary Policy”, American Economic Review 58 (1968), 1-17.
9
pazione, indipendente e vincolata ad adempiere ad uno specifico mandato viene
tradizionalmente configurata quale precondizione per il perseguimento della stabilità dei prezzi.17
Tuttavia, è possibile sviluppare una pluralità di argomentazioni economiche da cui
si evince come la visione secondo la quale l’esistenza di autorità di politica monetaria intransigenti e indipendenti dal potere politico sia una condizione necessaria
e sufficiente per garantire prezzi stabili risulti direttamente subordinata al comportamento delle autorità di politica fiscale. In precedenza si è accennato al problema
della sostenibilità della finanza pubblica. In particolare, si è evidenziato come la
creazione di disavanzi pubblici sia potenzialmente capace di generare, in assenza
di opportune manovre correttive, una situazione in cui il debito pubblico tende ad
avvitarsi lungo una spirale esplosiva. L’eventuale presenza di autorità di politica fiscale non finalizzate a garantire il vincolo di solvibilità del settore pubblico configura
una situazione di fiscal dominance nell’ambito delle interazioni tra politica monetaria e politica fiscale, in quanto è plausibile prevedere che prima o poi le autorità
di politica monetaria abbiano interesse a ricorrere allo strumento dell’emissione di
moneta quale strumento di finanziamento dei deficit fiscali, al fine di prevenire il
collasso del sistema finanziario. Da questo punto di vista, la Banca Centrale si
configura come una sorta di prestatore di ultima istanza. Il punto fondamentale è
che, in presenza di agenti economici dotati di aspettative razionali, la previsione
di una futura monetizzazione del debito produce un immediato aumento del livello
generale dei prezzi. Questo meccanismo, che costituisce il nocciolo della cosiddetta
sgradevole aritmetica monetarista 18 , identifica pertanto un legame ben definito tra
17
Cfr. R.J. Barro e D.B. Gordon, “Rules, Discretion and Reputation in a Model of Monetary
Policy”, Journal of Monetary Economics 12 (1983), 101-121; K. Rogoff, “The Optimal Degree of
Commitment to an Intermediate Target”, Quarterly Journal of Economics 100 (1985), 1169-1190; T.
Persson e G. Tabellini, “Designing Institutions for Monetary Stability”, Carnegie-Rochester Conference Series on Public Policy 39 (1993), 53-84; C. Walsh, “Optimal Contracts for Independent Central
Bankers”, American Economic Review 85 (1995), 150-167; L. Svensson, “Optimal Inflation Targets,
‘Conservative’ Central Banks, and Linear Inflation Contracts”, American Economic Review 87 (1997),
98-114.
18
Cfr. T.J. Sargent e N. Wallace, “Some Unpleasant Monetarist Arithmetic”, Federal Reserve
10
la politica fiscale e il livello dei prezzi.
Un meccanismo alternativo volto a palesare la potenziale incompatibilità di politiche
fiscali sistematicamente accomodanti con l’obiettivo della stabilità dei prezzi fa riferimento alla cosiddetta teoria fiscale dei prezzi.19 Tale teoria si spinge oltre la
sgradevole aritmetica monetarista e dimostra come in una situazione di fiscal dominance il livello dei prezzi sia unicamente determinato dalle variabili di politica fiscale, indipendentemente dalla quantità nominale di moneta in circolazione (e quindi
anche in un contesto in cui la Banca Centrale sia vincolata dall’obbligo di non monetizzazione del debito). L’intuizione economica di fondo è che, in un contesto di
potenziale divergenza delle passività del governo, il livello dei prezzi costituisce la
variabile economica che si aggiusta in modo flessibile affinché il valore reale del
debito pubblico risulti coerente con il vincolo di solvibilità del settore pubblico.
Si potrebbe obiettare sia alla “sgradevole aritmetica monetarista” sia alla “teoria
fiscale dei prezzi” che presupporre una situazione in cui le autorità di politica fiscale assumano comportamenti del tutto incoerenti con il vincolo di solvibilità del
debito pubblico costituisca un’ipotesi irrealistica, almeno per quanto attiene alle
economie sviluppate. Tuttavia, anche ammettendo un contesto di monetary dominance, caratterizzato da politiche fiscali orientate a garantire il vincolo intertemporale di solvibilità, è possibile dimostrare come politiche di bilancio eccessivamente
espansive interagiscano in modo cruciale nella determinazione del livello dei prezzi.
Il motivo economico sottostante è che in un contesto dinamico un aumento del deBank of Minneapolis Quarterly Review 5 (1981), 1-17; R.S. Aiyagari e M. Gertler, “The Backing of
Government Bonds and Monetarism”, Journal of Monetary Economics 16 (1985), 19-44.
19
Cfr. E. Leeper, “Equilibria under ‘Active’ and ‘Passive’ Monetary and Fiscal Policies”, Journal of
Monetary Economics 27 (1991), 129-147; C. Sims, “A Simple Model for Study of the Determination of
the Price Level and the Interactions of Monetary and Fiscal Policy”, Economic Theory 4 (1994), 381399; M. Woodford, “Monetary Policy and Price Level Determinacy in a Cash-in-Advance Economy”,
Economic Theory 4 (1994), 345-380; M. Woodford, “Price-Level Determinacy without Control of a
Monetary Aggregate”, Carnegie-Rochester Conference Series on Public Policy 53 (1995), 1-46; P.R.
Bergin, “Fiscal Solvency and Price Level Determination in a Monetary Union”, Journal of Monetary
Economics 45 (2000), 37-53; M. Woodford, “Fiscal Requirements for Price Stability”, Journal of
Money, Credit and Banking 33 (2001), 669-728.
11
bito pubblico, anche se controbilanciato da avanzi primari futuri volti ad assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche, produce nel breve periodo un effetto
espansivo sulla domanda aggregata e quindi sul livello dei prezzi. Senza entrare nei
dettagli, tale effetto viene generato dal fatto che agenti economici razionali percepiscano i titoli del debito pubblico da loro detenuti come ricchezza netta, in quanto è
plausibile prevedere che il peso delle restrizioni fiscali future necessarie ad assicurare
la solvibilità del bilancio pubblico gravi almeno in parte sulle generazioni future.20
Tale canale rafforza ulteriormente la necessità di introdurre una ferrea disciplina
nella conduzione della politica fiscale.
C. Politiche Fiscali e Credibilità della Politica Monetaria. Nell’introduzione
si è sottolineato come l’indipendenza istituzionale che il Trattato attribuisce alla
bce costituisca un requisito necessario affinché la strategia di politica monetaria
orientata al mantenimento della stabilità dei prezzi sia credibile. Il problema della
credibilità degli annunci delle autorità di politica monetaria riguardo l’evoluzione
delle variabili obiettivo costituisce un elemento centrale e ampiamente dibattuto
nell’ambito della moderna teoria monetaria.
Quello che ci interessa evidenziare in questa sede è l’argomentazione secondo la quale
in presenza di ampi disavanzi e alti livelli di debito pubblico una politica monetaria
rigidamente antinflazionistica non è credibile perché temporalmente incoerente 21 , ossia incompatibile con l’incentivo ex post da parte della banca centrale a rinnegare
sistematicamente gli annunci generando inflazione a sopresa, con l’obiettivo specifico di erodere il valore reale del debito pubblico.22 Tale incentivo a “barare” deriva
direttamente dal fatto che l’erosione del debito in termini reali tramite la cosiddetta
tassa da inflazione consente di ridurre l’ammontare delle tasse distorsive necessarie
20
Cfr. B. Annicchiarico e G. Marini, “Fiscal Policy and Price Stability”, CeFiMS Discussion Paper
33 (2003).
21
Per il concetto di incoerenza temporale, cfr. F.E. Kydland e E.C. Prescott, “Rules Rather Than
Discretion: The Inconsistency of Optimal Plans”, Journal of Political Economy 85 (1977), 473-491.
22
Cfr. V.V. Chari e P.J. Kehoe, “On the Desiderability of Fiscal Constraints in a Monetary Union”,
Federal Reserve Bank of Minneapolis Staff Report 296 (2003); A. Dixit e L. Lambertini, “Interactions
of Commitment and Discretion in Monetary and Fiscal Policies”, American Economic Review 93 (2003),
1522-1542.
12
ad assicurare un sentiero convergente per le variabili fiscali.23 E’ possibile identificare almeno due ordini di conseguenze. In primo luogo, a causa del problema
dell’incoerenza temporale, agenti razionali internalizzano nelle proprie funzioni obiettivo la “tentazione” (temptation) da parte delle autorità monetarie a porre in
essere sorprese inflazionistiche, con il risultato di generare la cosiddetta “distorsione
inflazionistica” (inflation bias). Tale distorsione consiste nel fatto che il tasso di inflazione risulta essere in equilibrio permanentemente in eccesso rispetto all’obiettivo
prefissato, anche in condizioni “normali” (ossia anche in assenza di shock esogeni).
In secondo luogo, le autorità di politica fiscale risultano ulteriormente incentivate ad
incorrere in deficit sistematicamente più elevati rispetto ai valori ritenuti socialmente
ottimi (deficit bias), nella convinzione che per la banca centrale risulti vantaggioso
ex post ricorrere almeno parzialmente allo strumento della monetizzazione del debito
pubblico.
Alla luce di quanto esposto, sembra avere un solido fondamento teorico l’opinione
conformemente alla quale la no bail-out clause prevista dal Trattato non sia credibile
in un contesto caratterizzato da disavanzi e passività del settore pubblico particolarmente elevati.24 Da questo punto di vista, emerge in modo inequivocabile la
conclusione secondo cui l’imposizione di precise regole di politica fiscale e l’esplicita
previsione di sanzioni automatiche in caso di politiche di bilancio poco virtuose
contribuiscano a rafforzare la credibilità della politica monetaria nel perseguimento
dell’obiettivo della stabilità dei prezzi.
D. Politiche Fiscali e Ciclo Politico. Una motivazione plausibile che riguarda l’incentivo
da parte dei governi a realizzare politiche fiscali discrezionali sistematicamente espansive e quindi potenzialmente inflazionistiche è strettamente legata a considerazioni di carattere politico che tendono a privilegiare gli aspetti di breve periodo.
In effetti, risulta particolarmente attrattivo e benefico per i governi al potere utilizzare strategicamente il debito pubblico come strumento di finanziamento della spesa
23
Cfr. M. Obstfeld, “Dynamic Seignorage Theory: An Exploration”, Macroeconomic Dynamics 3
(1997), 588-614; J. Diaz-Gimenez, G. Giovannetti, R. Marimon e P. Teles, “Nominal Debt as a
Burden to Monetary Policy”, mimeo, Universitat Pompeu Fabra (2004).
24
Cfr. P. De Grauwe, Economics of Monetary Union, Oxford University Press 2003.
13
pubblica, lasciando ai potenziali successori il burden connesso al pagamento degli
interessi per il servizio del debito stesso.25 In questo senso, è possibile dimostrare
che l’uso strategico del debito pubblico, nella misura in cui risulta finalizzato a incidere in maniera rilevante sul consenso politico a breve termine e sulle scelte di
politica economica da parte dei potenziali successori al governo, conduce a risultati
altamente distorsivi che si amplificano al crescere del grado di polarizzazione dei
partiti politici.
In altri termini, la caratteristica della temporaneità del mandato elettorale, la quale
costituisce un tratto essenziale della totalità dei sistemi democratici, può ragionevolmente introdurre comportamenti miopi nelle scelte di politica fiscale. Tali comportamenti costituiscono una fonte alternativa, rispetto al problema dell’incoerenza
temporale della politica monetaria, di ciò che viene comunemente chiamato deficit
bias. Assicurare piena discrezionalità nella gestione della politiche fiscali ai governi
degli Stati che compongono un’unione monetaria, pur massimizzando la capacità
di contrastare l’eventualità shock asimmetrici, amplifica di fatto la possibilità di
decidere strategicamente l’ammontare di deficit da lasciare ai potenziali successori
al potere politico. In tali circostanze, la presenza di una banca centrale dotata
di piena indipendenza istituzionale non si configura come condizione sufficiente a
preservare la stabilità dei prezzi. Un ruolo fondamentale del psc, in particolare
per quanto attiene al suo contenuto sanzionatorio, consiste proprio nel correggere
la distorsione connessa al fatto che governi miopi ed opportunisti non internalizzano le conseguenze inflazionistiche delle loro politiche del debito.26 E’ opportuno
25
Cfr. A. Alesina e G. Tabellini, “A Positive Theory of Fiscal Deficits and Government Debt”,
Review of Economic Studies 57 (1990), 403-414; P. Aghion e P. Bolton, “Government Domestic Debt
and Risk of Default: A Political-Economic Model of the Strategic Role of Debt”, in R. Dornbusch e M.
Draghi (ed.), Capital Markets and Debt Management, Cambridge University Press 1990; G. Tabellini
e A. Alesina, “Voting on the Budget Deficit”, American Economic Review 80 (1990), 37-49.
26
Cfr. R.M.W.J. Beetsma e H. Uhlig, “An Analysis of the ‘Stability Pact’”, Working Paper N.
46 (1997), Tilburg University; R.M.W.J. Beetsma e A.L. Bovenberg, “Central Bank Independence
and Public Debt Policy”, Journal of Economic Dynamics and Control 21 (1997), 873-894; R.M.W.J.
Beetsma e A.L. Bovenberg, “Does Monetary Unification Lead to Excessive Debt Accumulation?”,
Journal of Public Economics 74 (1997), 299-325.
14
sottolineare altresı̀ come all’interno di un’unione monetaria la presenza di realtà
istituzionali e gradi di conflittualità politica differenti possa contribuire a generare,
in assenza di vincoli comuni, politiche del debito non omogenee tra i paesi membri.
E. Politiche Fiscali e Crescita Economia. Viene generalmente ritenuto che i mercati dei capitali applicano ai rendimenti dei titoli di Stato un premio per il rischio
di insolvenza che, a parità di altre condizioni, aumenta con il crescere del debito
pubblico. Di conseguenza, eventuali timori sulla sostenibilità del debito generati
da politiche fiscali permanentemente accomodanti tendono a riflettersi negativamente sul livello generale dei tassi di interesse tramite l’innalzamento dei premi per
il rischio. Il punto fondamentale è che l’aumento dei tassi di interesse determina
uno spiazzamento (crowding out) del livello degli investimenti privati, incidendo in
maniera negativa sull’accumulazione di capitale e, conseguentemente, sulla crescita
economica e sull’occupazione di lungo periodo.
Un canale alternativo attraverso il quale politiche di bilancio espansive possono determinare contrazioni del livello dell’attività economia si manifesta tramite l’operare
dei cosiddetti effetti non-keynesiani della politica fiscale.27 L’intuizione di fondo è
che, in un contesto economico in cui gli agenti abbiano un orizzonte multiperiodale,
politiche di riduzione delle tasse e aumenti della spesa pubblica, nella misura in cui
generano aspettative di restrizioni fiscali in futuro atte a preservare la sostenibilità
della finanza pubblica, possono provocare uno spiazzamento del livello dei consumi
privati.
Inoltre, risulta opportuno sottolineare come il finanziamento di politiche fiscali espansive attraverso l’utilizzo di tasse distorsive sui consumi e sul lavoro sia potenzialmente in grado di produrre effetti disincentivanti sulle decisioni che riguardano
l’offerta di lavoro, influenzando negativamente il livello dell’occupazione e dell’attività
produttiva.28
27
Cfr. F. Giavazzi e M. Pagano, “Can Severe Contractions be Expansionary? Tales of Two Small
European Countries”, NBER Macroeconomic Annual 5 (1990), 75-111; Commissione europea, “Can
Fiscal Consolidation in EMU be Expansionary?”, Relazione sulle finanze pubbliche nell’UEM, Bruxelles
2003.
28
Cfr. E.C. Prescott, “Prosperity and Depression”, American Economic Review 92 (2002), 1-15.
15
I meccanismi descritti in precedenza implicano due ordini di conseguenze. In primo
luogo, occorre enfatizzare come una riduzione del tasso di crescita dell’attività economica possa peggiorare ulteriormente i parametri di sostenibilità della finanza pubblica adottati nell’uem, vale a dire i rapporti deficit/pil e debito/pil. In secondo
luogo, in un contesto di economie di scala dinamiche 29 , la riduzione dello stock di
capitale è potenzialmente capace di contrastare l’operare degli effetti apprendimento
legati all’accumulazione della conoscenza, incidendo negativamente sul livello della
produttività del lavoro, sul progresso tecnologico e sull’innovazione.
F. Politiche Fiscali ed Esternalità tra i Paesi. I costi analizzati in precedenza,
che attengono agli effetti delle politiche fiscali discrezionali sulla sostenibilità delle
finanze pubbliche, sulla stabilità dei prezzi, sulla credibilità della politica monetaria
e sulla crescita economica, costituiscono problematiche condivise da tutti i sistemi
economici e quindi non sono specifici delle unioni monetarie. Ciò che realmente contraddistingue un’unione monetaria è l’esistenza di problemi di coordinamento tra le
autorità di politica fiscali dei singoli Stati membri. Nel corso del presente lavoro si
è più volte enfatizzato che all’interno dell’uem, a fronte di una politica monetaria
condotta su base centralizzata, la politica fiscale permane sotto la diretta responsabilità dei singoli Stati membri. Tale caratteristica da origine non solo a problemi
che attengono all’interazioni tra la politica monetaria condotta su base unica e le
politiche fiscali dell’intera area ma anche a problemi che riguardano direttamente le
interazioni tra le politiche di bilancio dei singoli Paesi. Da questo punto di vista,
un aspetto cruciale è connesso al fatto che politiche caratterizzate da elevati deficit
e alti livelli di debito pubblico in un determinato Stato membro determinano delle
esternalità negative (negative spillovers) nel resto degli Stati membri dell’unione, le
quali si manifestano soprattutto a causa della perdita della possibilità di manovrare
il tasso di cambio. E’ possibile identificare almeno due tipologie di esternalità. La
prima esternalità riguarda l’aumento del tasso di inflazione e dei tassi di interesse
all’interno dell’intera area monetaria, con implicazioni rilevanti per i parametri di
29
Cfr. P. Romer, “Increasing Returns and Long-Term Growth”, Journal of Political Economy 94
(1986), 1002-1037.
16
sostenibilità e la crescita economica dei restanti Stati membri. Il secondo tipo di
esternalità è legato al fatto che politiche fiscali permanentemente espansive in un
particolare Paese, nella misura in cui determinano un effetto sul livello dei prezzi presumibilmente più elevato all’interno del Paese stesso, incidono negativamente sulle
ragioni di scambio degli altri Stati membri, con conseguenti perdite di benessere.30
Da entrambe le tipologie di esternalità, emerge il cosiddetto problema del free rider,
che riguarda la tendenza sistematica da parte di ogni singolo Stato membro a condurre politiche fiscali tese ad “esportare” le problematiche interne a tutto il resto
dell’area monetaria. Il punto fondamentale è che nell’equilibrio di Nash (in cui ogni
autorità di politica fiscale pone in essere la scelta strategica ottimale data la scelta
delle altre autorità) è plausibile che la totalità dei governi sia incentivata a porre in
essere politiche espansive in maniera da controbilanciare le esternalità negative, con
il risultato inefficiente di generare tassi di inflazione e tassi di interesse sistematicamente in eccesso rispetto agli obiettivi ritenuti coerenti con la stabilità monetaria.
Semplici regole comuni di politica fiscale, come quelle prescritte dal psc (che analizziamo in dettaglio nel prossimo paragrafo), hanno il vantaggio di promuovere
il coordinamento delle politiche di bilancio e di internalizzare le esternalità negative
discusse in precedenza, prevenendo comportamenti irresponsabili e distorsivi.
4
Dal Trattato di Maastricht al Patto di Stabilità e
Crescita
Il psc, approvato dai paesi dell’Unione Europea nel vertice di Dublino del dicembre 1996 e
successivamente riaffermato dal Trattato di Amsterdam del giugno 1997, stabilisce regole
di comportamento per la gestione della politica fiscale all’interno dell’uem.
Prima di analizzare le caratteristiche principali del Patto, occorre in via preliminare
sottolineare come l’esplicita previsione di requisiti per il perseguimento di politiche fiscali
30
Cfr. R.M.W.J. Beetsma e H. Jensen, “Monetary and Fiscal Policy Interactions in a Micro-founded
Model of a Monetary Union”, Journal of International Economics (2005), in corso di pubblicazione; J.
Gali e T. Monacelli, “Optimal Fiscal Policy in a Monetary Union”, mimeo (2004).
17
solide costituisca un elemento portante del Trattato di Maastricht del febbraio 1992. Tale
Trattato, entrato in vigore il 1◦ novembre 1993, ha istituzionalizzato per la Comunità Europea l’obiettivo dell’Unione economica e monetaria. La strategia prevista dal Trattato
per il conseguimento di tale obiettivo, peraltro già delineata nel 1988 nel noto “Rapporto Delors”, è incentrata su due principi fondamentali: il principio del gradua-lismo
del processo di transizione verso l’uem e la subordinazione dell’ingresso nell’Unione al
soddisfacimento ex ante dei cosiddetti criteri di convergenza. In applicazione del principio del gradualismo, il Trattato di Maastricht definisce in modo puntuale l’articolazione
dell’attuazione dell’uem in tre fasi. La prima fase, iniziata il 1◦ luglio 1990 e conclusasi il
31 dicembre 1993, ha attuato il principio della libera circolazione dei movimenti di capitale. La seconda fase è iniziata il 1◦ gennaio 1994, con la creazione dell’Istituto Monetario
Europeo (ime), a cui è stata attribuita sia la funzione di preparare la creazione della bce
sia la funzione di sovrintendere alla verifica sul soddisfacimento dei criteri di convergenza.
La terza fase, con il passaggio definitivo all’uem, ha avuto inizio il 1◦ gennaio 1999, con
ritardo rispetto al termine inizialmente previsto a Maastricht (vale a dire il 1997), una
volta verificate le condizioni di ammissibilità previste per l’ingresso nell’uem. Al fine di
verificare l’ammissibilità dei paesi membri dell’Unione Europea alla fase finale dell’uem,
il Trattato di Maastricht prevede specificatamente il rispetto di cinque criteri di convergenza, tre di carattere monetario e due relativi ai parametri della finanza pubblica. In
particolare, viene imposto che (i) il tasso di inflazione e i tassi di interesse a lungo termine
non superino dell’1,5 per cento e del 2 per cento, rispettivamente, la media dei tre paesi
più virtuosi; (ii) le valute non subiscano una svalutazione durante i due anni precedenti
l’ingresso nell’Unione; (iii) i rapporti debito/pil e deficit/pil risultino contenuti entro il
60 per cento e il 3 per cento, rispettivamente. Da quest’ultimo punto di vista, il superamento di detti limiti viene consentito qualora il rapporto debito/pil diminuisca a una
velocità adeguata e il rapporto deficit/pil ecceda il limite di riferimento solo in maniera
transitoria e per motivi che rivestano un carattere di eccezionalità. Inoltre, come prescritto
dall’art. 3 del Protocollo N. 5 sulla Procedura per i disavanzi eccessivi, l’applicazione delle
procedure di bilancio finalizzate ad assicurare il rispetto dei parametri di Maastricht viene
lasciata oggetto di decisione delle singole autorità di politica fiscale.
Il principio della necessità di mantenere da parte delle singole autorità di politica
18
fiscale bilanci pubblici solidi viene esplicitamente affermato dall’art. 104 del Trattato
(nella versione adottata con il Trattato di Amsterdam ed entrata in vigore il 1◦ maggio
1999), il quale prescrive che “gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi”.
Il rispetto della solidità delle finanze pubbliche da parte di uno Stato membro viene
valutato sulla base dei valori di riferimento che attengono ai due indicatori del rapporto
deficit/pil e del rapporto debito /pil. In aderenza con i parametri stabiliti nel Trattato
di Maastricht, tali valori di riferimento vengono fissati dall’art. 1 del Protocollo N. 5 sulla
Procedura per i disavanzi eccessivi al 3 per cento e al 60 per cento, rispettivamente. Viene
altresı̀ riaffermata la necessità della transitorietà e dell’eccezionalità al fine di giustificare
eventuali scostamenti dai valori di riferimento. In ogni caso, l’art. 104 prevede che,
nel qualificare un bilancio pubblico come “eccessivo”, occorra prendere in considerazione
anche ulteriori informazioni quali, ad esempio, il rapporto tra investimenti pubblici e
disavanzo.
Di particolare importanza per la stabilità macroeconomica connessa alle politiche monetarie e fiscali appaiono le norme che disciplinano le restrizioni al finanziamento pubblico
(articoli dal 101 al 103). In particolare, l’enfasi viene posta sui divieti da parte della bce
e delle bcn di concedere conti allo scoperto o qualsiasi altra facilitazione creditizia a qualsiasi istituzione pubblica, sia a livello nazionale sia a livello comunitario, e di acquistare
direttamente titoli del debito pubblico. Inoltre, l’art. 103 prevede la cosiddetta no bail-out
clause, ossia stabilisce il principio secondo il quale la Comunità o gli Stati membri non
rispondono nè si fanno carico degli impegni assunti dalle istituzioni pubbliche o dagli altri
Stati membri, in particolare nel caso di dichiarata insolvenza. Come verrà enfatizzato nel
corso del prossimo paragrafo, la previsione di tali misure risulta direttamente finalizzata
a rafforzare la credibilità della politica monetaria.
Il psc, teorizzato dal ministro delle finanze tedesco Theo Waigel nel novembre del
1995 e costituito da una Risoluzione del Consiglio europeo approvata ad Amsterdam il
17 giugno 1997 e da due Regolamenti del Consiglio ecofin, rappresenta una legislazione
secondaria che racchiude le norme e i principi del Trattato volte a prevedere regole di politica fiscale coerenti con il mantenimento all’interno dell’uem di finanze pubbliche solide.
In particolare, obiettivo specifico della Risoluzione del giugno 1997 è quello di precisare
gli impegni degli Stati membri, della Commissione europea e del Consiglio europeo. Il
19
Regolamento del Consiglio N. 1467/97 del 7 luglio 1997 definisce le condizioni e i tempi
per l’applicazione della procedura per i disavanzi pubblici eccessivi durante la terza fase
dell’uem. Il Regolamento del Consiglio N. 1466/97 del 7 luglio 1997 stabilisce le disposizioni che attengono al rafforzamento della sorveglianza dei programmi di stabilità e di
convergenza, promuovendo altresı̀ il coordinamento delle politiche economiche.
Il principio fondamentale stabilito nella Risoluzione del Consiglio è rappresentato dal
vincolo per gli Stati membri a mantenere nel medio termine posizioni di bilancio vicine
al pareggio o in avanzo e a porre in essere le misure necessarie di carattere correttivo ogni
qualvolta gli Stati stessi dispongano di informazioni che facciano presumere l’esistenza di
un divario, effettivo o previsto, rispetto agli obiettivi fissati nei programmi di stabilità
e convergenza. In precedenza, si è sottolineato come nel Trattato venga affermata la
possibilità per gli Stati membri di superare il limite del 3 per cento del rapporto deficit/pil
senza che si configuri una situazione di deficit eccessivo limitatamente a casi che rivestano
un carattere di temporaneità ed eccezionalità. In particolare, il psc, nel Regolamento N.
1467/97, qualifica il superamento del valore di riferimento per il disavanzo del bilancio
pubblico come eccezionale e temporaneo qualora sia direttamente legato ad eventi inusuali
ritenuti al di fuori del controllo dello Stato membro interessato oppure sia determinato
da una grave recessione economica. Nel caso in cui il superamento del limite del 3 per
cento si configuri come una diretta conseguenza di una grave recessione economica, viene
precisato come la situazione di eccezionalità si manifesti solo se, nell’anno in corso, si sia
verificata una diminuzione del pil in termini reali almeno del 2 per cento. Contrazioni
del pil reale meno pronunciate rispetto alla soglia del 2 per cento sono ammesse solo
qualora la recessione si sia verificata secondo modalità improvvise e inattese oppure in
ragione della diminuzione cumulata della produzione rispetto alle tendenze passate. In
ogni caso, nella valutazione della gravità di una recessione economica lo Stato membro
assume come termine di riferimento un declino del pil in termini reali superiore allo
0,75 per cento. Il carattere di temporaneità del superamento del valore di riferimento è
strettamente connesso alle proiezioni riguardo l’evoluzione del bilancio pubblico pubblicate
dalla Commissione europea, le quali devono risultare coerenti con il rientro del disavanzo
entro il limite di riferimento al termine dell’evento eccezionale o della grave recessione
economica.
20
L’attuazione del psc è articolata principalmente in due pilastri: la vigilanza multilaterale delle posizioni di bilancio e la procedura dei disavanzi eccessivi. Conformemente al
Regolamento del Consiglio N. 1466/97, la vigilanza multilaterale si basa sull’esame svolto
dal Consiglio dell’Unione Europea sui programmi di stabilità, presentati dagli Stati che
hanno adottato la moneta unica, e dei programmi di convergenza, presentati dagli Stati
che non hanno adottato la moneta unica. Entrambe le tipologie di programmi sono presentate annualmente e devono indicare (i) l’obiettivo a medio termine di un saldo di bilancio
prossimo al pareggio o in attivo e le modalità per conseguirlo, nonché l’andamento previsto del rapporto debito/pil; (ii) le principali ipotesi sulle prospettive economiche circa
le variabili economiche ritenute rilevanti per il principio della solidità delle finanze pubbliche, come gli investimenti pubblici, la crescita del pil in termini reali, l’occupazione e
l’inflazione; (iii) la descrizione dei provvedimenti di bilancio e delle altre misure di politica
economica attuati o previsti per conseguire gli obiettivi del programma; (iv ) l’analisi delle
ripercussioni di eventuali modifiche delle principali ipotesi economiche sulla situazione di
bilancio e sul debito. Il fine ultimo di tali informazioni è quello di consentire al Consiglio
di valutare in maniera puntuale se (i) l’obiettivo di bilancio a medio termine stabilito nel
programma di convergenza sia tale da consentire di evitare un disavanzo eccessivo; (ii ) le
ipotesi economiche sulle quali si basa il programma siano realistiche; (iii ) i provvedimenti
attuati o previsti siano sufficienti per conseguire l’obiettivo di bilancio a medio termine e
al fine di pervenire ad una convergenza duratura. Qualora il Consiglio riscontri l’esistenza
di carenze e divergenze del programma rispetto ai contenuti o agli obiettivi di medio termine, può chiedere allo Stato membro in esame una modifica dello stesso. I programmi
sono seguiti attentamente dal Consiglio nella loro attuazione, sulla base delle informazioni
fornite dagli Stati membri e delle valutazioni effettuate dalla Commissione e dal Comitato
economico e finanziario.
Nel caso in cui la Commissione ritenga che uno Stato membro sia incorso in un disavanzo eccessivo, quest’ultima redige una relazione e chiede un parere al Consiglio, in
tal modo avviando la procedura dei disavanzi eccessivi. Qualora il Consiglio decida che
il disavanzo è effettivamente eccessivo, ha il compito di emettere una raccomandazione
allo Stato membro in questione. Tale raccomandazione ha il fine di sollecitare lo Stato
membro in esame affinché adotti le misure di adeguamento necessarie. Con l’eccezione di
21
circostanze particolari, viene esplicitamente previsto l’obbligo di correggere il disavanzo
eccessivo entro l’anno successivo alla sua constatazione. Nei mesi immediatamente successivi alla constatazione, il Consiglio attua operazioni di monitoraggio al fine di verificare
che siano attuate delle misure correttive adeguate per il rientro del disavanzo eccessivo
all’interno del margine consentito. Nel caso in cui tali misure non vengano ritenute avviate o adeguate, il Consiglio procede ad ulteriori adempimenti, i quali possono culminare
nella decisione di imporre le sanzioni conformi all’art. 104 del Trattato.
Le sanzioni consistono nella costituzione presso l’Unione Europea di una somma a
titolo di deposito infruttifero, formata da un ammontare fisso e da una ammontare variabile. La quota fissa è pari allo 0,2 per cento del pil dello Stato membro in esame, mentre
la quota variabile ammonta ad un decimo della differenza tra il rapporto disavanzo/pil ed
il valore di riferimento del 3 per cento. In ogni caso, è previsto che il deposito non debba
risultare superiore allo 0,5 per cento del pil dello Stato membro in esame. La somma immobilizzata è suscettibile di essere convertita sotto forma di ammenda qualora nell’arco di
due anni il rapporto deficit/pil non risulti al di sotto del 3 per cento. La stessa ammenda
viene distribuita fra gli Stati membri che risultino in regola in modo proporzionale alle
rispettive quote sul pil totale degli stessi Stati che non presentino disavanzi eccessivi.
5
L’esperienza recente e la credibilità delle sanzioni
del Patto
In riferimento all’esperienza recente, i Paesi membri che hanno superato il limite del 3 per
cento per il rapporto disavanzo/pil sono il Portogallo, la Germania e la Francia. Coerentemente con le clausole del Patto, il Portogallo, che nel 2001 ha raggiunto un rapporto
deficit/pil pari al 4,1 per cento, è stato invitato dal Consiglio ad adottare tutte le misure
necessarie al fine di porre fine alla situazione di disavanzo eccessivo entro il 31 dicembre
2002 e ricondurlo, nel 2003, al di sotto della soglia del 3 per cento. Nel 2002 il disavanzo di bilancio della Germania in rapporto al pil ha raggiunto il 3,8 per cento. In tale
circostanza, la Germania ha invocato l’eccezionalità della situazione, attribuendola essenzialmente alla necessità di fronteggiare i danni provocati dall’alluvione della Germania
22
dell’est. La susseguente relazione della Commissione europea ha tuttavia puntualizzato
che il limite sarebbe stato comunque superato anche in assenza della calamità naturale,
richiedendo altresı̀ al Consiglio di pronunciarsi. Quest’ultimo ha sollecitato il governo
tedesco a rientrare dal disavanzo eccessivo entro maggio 2003. Nel 2002, anche in Francia si è registrato un rilevante scostamento tra il disavanzo in rapporto al pil dichiarato
come obiettivo (pari all’1,4 per cento) e quello effettivamente realizzato (pari al 2,7 per
cento). Per evitare che nel 2003 si toccasse il limite del 3 per cento, la Commissione
ha ritenuto opportuno stendere una relazione, richiedendo al Consiglio di formulare delle
raccomandazioni a riguardo.
I tre Stati membri hanno aggiornato i loro Programmi di Stabilità per aderire alle raccomandazioni formulate dal Consiglio. Tuttavia, mentre il governo portoghese è riuscito
a rientrare nel limite consentito nel 2002 e nel 2003, Francia e Germania hanno portato il
deficit pubblico in rapporto al pil permanentemente al di sopra della soglia del 3 per cento,
in palese violazione delle regole stabilite dal Patto e dei precedenti impegni assunti. Ciò
ha dato origine ad ampi dibattiti culminati con la sorprendente decisione del 25 novembre
2003 da parte del Consiglio ecofin di “sospendere” la procedura per deficit eccessivo
contro Francia e Germania. In particolare, il Consiglio ha fornito un’interpretazione decisamente estensiva e flessibile delle regole fiscali dell’Unione, consentendo a Francia e
Germania di ”concordare” percorsi di rientro nei limiti di disavanzo consentiti alternativi
a quelli proposti dalla Commissione europea e precedentemente raccomandati dal Consiglio stesso, secondo procedure diverse da quelle previste sia dal Trattato sia dal psc.
E’ opinione diffusa che la decisione da parte del Consiglio di sospensione della procedura abbia di fatto segnato la fine del psc. In questa sede ci interessa puntualizzare che la
decisione del novembre 2003 sembra costituire una manifestazione esplicita del problema
della credibilità delle sanzioni previste dal psc. La tesi secondo cui l’applicabilità delle
sanzioni non sia credibile in una vasta gamma di circostanze si basa principalmente su tre
ordini di motivazioni.
La prima motivazione è connessa al fatto che, all’interno di un’area monetaria integrata, tende a registrarsi una elevata correlazione positiva sia tra i tassi di crescita sia
tra i deficit di bilancio degli Stati membri. In ragione di ciò, è probabile che un rallentamento dell’attività economica e un connesso peggioramento delle finanze pubbliche tale
23
da configurare un deficit eccessivo in uno o più Paesi dell’Unione generi delle esternalità negative, estendendosi almeno in parte anche all’interno degli altri Stati membri. In
tali condizioni, i membri del Consiglio, che si trovano a dover votare per l’applicazione
delle sanzioni ai danni dello Stato oggetto di esame, internalizzano nelle loro scelte la
possibilità che anche gli Stati da loro rappresentati possano in futuro essere oggetto di
una procedura per deficit eccessivo. L’esistenza di legami diretti tra i Paesi dell’Unione
può pertanto costituire un disincentivo a votare favorevolmente per l’applicazione delle
sanzioni. Shock negativi potrebbero ripercuotersi su quasi tutti i Paesi, i quali è probabile
si astengano dall’effettuare un autosanzionamento generalizzato.
Va altresı̀ sottolineato come, anche qualora shock recessivi interessino un ristretto sottoinsieme dei Paesi, non sia affatto scontato che la procedura sanzionatoria venga messa in
atto, per la particolare formalità della procedura di votazione, la quale prevede una maggioranza di due terzi. Dato che sia i Paesi sotto esame sia i non partecipanti all’uem non
hanno diritto di voto, le maggioranze necessarie affinché vengano adottati provvedimenti
sanzionatori risultano variabili, con la possibilità concreta di costruire con relativa facilità
coalizioni di blocco, vale a dire minoranze potenzialmente capaci di impedire l’adozione
di provvedimenti sanzionatori.
La terza motivazione che inficia la credibilità del contenuto sanzionatorio del Patto
trova un fondamento rilevante nell’ambiguità e nell’arbitrarietà delle circostanze in cui un
deficit superiore al 3 per cento in rapporto al pil possa essere considerato non eccessivo. In
effetti, come prescritto dall’art. 2 del Regolamento del Consiglio N. 1467/97, un rapporto
disavanzo/pil in eccesso rispetto al valore di riferimento è suscettibile di essere considerato
come eccezionale o temporaneo, e quindi non soggetto a sanzioni, qualora sia conseguenza
di un evento “inconsueto non soggetto al controllo dello Stato interessato”, senza che sia
necessario una diminuzione del pil superiore al 2 per cento. Si evince come lo spazio
per interpretazioni discrezionali sia piuttosto ampio e tale da far ricorso a deroghe in un
elevato numero di casi.
24
6
Il dibattito sui criteri e la riforma del Patto
Come è emerso dal riferimento alla teoria economica, la necessità di imporre qualche forma
di vincolo fiscale per quanto attiene alla gestione delle politiche di bilancio da parte dei
Paesi dell’area dell’euro quale precondizione per il mantenimento di un alto grado di stabilità monetaria sembra essere un’opinione consolidata tra gli economisti. In particolare,
la fissazione di un limite alla percentuale del disavanzo sul pil ha l’indubbio vantaggio
di arginare politiche fiscali non sostenibili e incompatibili con l’obiettivo della stabilità
dei prezzi. Il dibattito prende corpo in riferimento a due dimensioni differenti. La prima
dimensione riguarda la definizione quantitativa dei limiti dei parametri fiscali adottati nel
psc. La seconda dimensione attiene alla definizione della tipologia di parametri fiscali da
adottare al fine di verificare il grado di adeguatezza delle politiche fiscali in relazione agli
obiettivi più ampi dell’Unione.
Cominciamo con l’osservare che le regole di politica fiscale sancite dal psc non configurano un grado di rigidità tale da annullare l’autonomia e la discrezionalità nella gestione
della politiche di bilancio. In effetti, uno degli obiettivi del psc è quello di promuovere il
rispetto dell’obiettivo di raggiungere nel medio termine posizioni di bilancio prossime al
pareggio o in avanzo proprio per consentire l’operare degli stabilizzatori automatici come
meccanismi atti a far fronte alle fluttuazioni cicliche di normale ampiezza. Assicurare al
bilancio pubblico la possibilità di svolgere il consueto ruolo di ammortizzatore anticiclico
costituisce pertanto un obiettivo portante del Patto. Da questo punto di vista, viene
comunemente riconosciuta l’importanza di evitare politiche fiscali procicliche, ovvero di
mantenere una situazione di bilancio sana in periodi di crescita economica sostenuta per
poter utilizzare la leva fiscale a fini espansivi in periodi di depressione.31 La questione
cruciale consiste nell’esaminare qualora il limite di mantenere comunque il disavanzo pubblico sotto il valore del 3 per cento in rapporto al pil rappresenti un accettabile margine di
sicurezza per contrastare l’eventualità di shock asimmetrici, ovvero costituisca un requi31
Cfr. W.H. Buiter e C. Grafe, “Patching up the Pact: some Suggestions for Enhancing Fiscal
Sustainability and Macroeconomic Stability in an Enlarged European Union”, CEPR Discussion Paper
N. 3496 (2002); W.H. Buiter, “How to Reform the Stability and Growth Pact”, in Central Banking,
Vol. XIII N. 3 (2003), 49-58.
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sito eccessivamente rigido. Conformemente all’esperienza storica dei Paesi europei, viene
ritenuto che, partendo da una situazione di equilibrio del bilancio pubblico, la previsione
di un margine di disavanzo del 3 per cento possa ritenersi più che sufficiente al fine di
garantire la stabilizzazione dell’economia in presenza di eventi negativi imprevisti.32
Coerentemente con la teoria economica, un ben noto fondamento che giustifica i limiti
del 3 per cento per il rapporto disavanzo/pil e del 60 per cento per il rapporto debito/pil
è il seguente. Un disavanzo del 3 per cento in rapporto al pil, se combinato con un
tasso di crescita del prodotto interno lordo nominale del 5 per cento, risulta coerente
con una convergenza del rapporto tra debito pubblico e pil al 60 per cento. Tuttavia,
è opportuno osservare come un esame attento della recente performance in termini di
crescita economica nell’area dell’euro condurrebbe agevolmente alla conclusione che la
soglia prevista del 3 per cento per il rapporto disavanzo/pil costituisca perfino un vincolo
piuttosto generoso. In effetti, un tasso di crescita potenziale del pil reale nell’intera area
monetaria che sembra attualmente collocarsi intorno all’1,5, combinato con un target di
inflazione al 2 per cento, richiederebbe, al fine di stabilizzare nel lungo periodo il rapporto
debito/pil al 60 per cento, un limite del 2,1 per cento per quanto attiene al rapporto
deficit/pil, ovvero un rafforzamento dei vincoli di natura fiscale. Il punto che ci sembra
vada enfatizzato è che, coerentemente con l’esperienza recente, l’esistenza di difficoltà
da parte di alcuni Stati membri a mantenere gli impegni affonda le sue radici non nelle
politiche di stabilizzazione nei periodi di recessione ma nel rilassamento degli sforzi di
aggiustamento nei periodi favorevoli caratterizzati da alta crescita.
Pur concordando riguardo la desiderabilità di un quadro di riferimento per l’uem
caratterizzato dalla previsione di semplici e trasparenti regole di politica fiscale, esiste
una vasta letteratura finalizzata a proporre eventuali modifiche alle caratteristiche di
fondo del psc.
Una prima critica è connessa alla previsione di vincoli comuni a tutti gli Stati membri
in riferimento ai rapporti deficit/pil e debito/pil. In effetti, occorre osservare che i Paesi
dell’area dell’euro si caratterizzano per differenti livelli di stock di debito in rapporto
al pil, i quali riflettono scelte di politica economica passate. Pertanto, un monitorag32
Cfr. L. Bini Smaghi, L’Euro, il Mulino, Bologna 1999; J. Gali e R. Perotti, “Fiscal Policy and
Monetary Integration in Europe”, Economic Policy 37 (2003), 533-572.
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gio sistematico inerente alla dinamica degli avanzi primari in rapporto al pil potrebbe
risultare maggiormente informativo in riferimento all’andamento corrente della politica
fiscale durante la terza fase dell’uem. Inoltre, potrebbe rivelarsi opportuno adottare regole sul debito che prevedano un’adeguata diminuzione del rapporto debito/pil per gli
Stati membri relativamente più indebitati.
In secondo luogo, al fine di qualificare il grado di solidità delle finanze pubbliche,
sarebbe opportuno monitorare congiuntamente anche la componente strutturale del disavanzo, ossia quella componente che non risulta affetta dalle condizioni cicliche dell’economia.
Sotto questo profilo, appare rilevante la proposta di predisporre un target sul livello del
deficit aggiustato per il ciclo, sufficientemente al di sotto del 3 per cento33 Tuttavia, tale
proposta si espone alla critica che si riferisce alla difficoltà di misurare oggettivamente il
deficit corretto per il ciclo, in quanto è plausibile che i singoli governi siano incentivati ad
attribuire la causa di elevati tassi di disoccupazione a insufficienze di domanda, piuttosto
che a problemi di natura strutturale. In linea di principio potrebbe avere un fondamento
teorico la proposta di consentire livelli di deficit più alti per quei Paesi che intendono realizzare riforme strutturali ritenute compatibili con finanze pubbliche più solide nel lungo
periodo. E’ probabile, infatti, che i vantaggi di lungo periodo connessi a tali riforme, come
la riforma del mercato del lavoro e la riforma in campo pensionistico, siano associati a
costi di breve periodo in termini di maggiore disavanzo.
La proposta di modifica probabilmente più dibattuta è direttamente associata alla
cosiddetta golden rule.34 Tale regola prevede la sottrazione dal calcolo del disavanzo delle
spese per investimenti pubblici, in quanto finalizzate a promuovere la crescita di lungo periodo. Il vantaggio connesso alla regola aurea è legato alla capacità di assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche (tramite la maggiore crescita indotta dall’accumulazione
di capitale) congiuntamente con il raggiungimento di un alto grado di equità intergenerazionale. Lo svantaggio riguarda presumibilmente la scarsa applicabilità pratica, in
quanto è implausibile pensare che le autorità di politica fiscale non ricorrano a comporta33
Cfr. W.H. Buiter, “How to Reform the Stability and Growth Pact”, in Central Banking, Vol. XIII
N. 3 (2003), 49-58.
34
Cfr. O. Blanchard e F. Giavazzi, “Improving the SGP Through a Proper Accounting of Public
Investment”, CEPR Discussion Paper N. 4220 (2004).
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menti opportunistici, ovvero a ingegnerie contabili nel computo della parte del disavanzo
dovuta a investimenti pubblici.
Al tempo in cui si scrive, è sotto esame la proposta di rendere più flessibile il psc.
In particolare, con le modifiche che si intendono apportare, decise il 20 marzo 2005 dal
Consiglio ecofin, i Paesi con un debito eccessivo disporranno di tre anni per rientrare
sotto la soglia del 3 per cento. In effetti, in caso di “circostanze speciali” potrà essere
concesso “un anno in più” rispetto ai due previsti dalle attuali norme. Inoltre, nel caso in
cui, durante la procedura di deficit eccessivo, si verifichino “eventi economici avversi e imprevisti” che producano “ampi effetti sfavorevoli sui conti”, la nuova procedura proposta
indica che i tempi per rientrare al di sotto del valore di riferimento possano essere “rivisti
e allungati”, purché i Paesi abbiano messo in atto misure correttive ritenute adeguate.
La nuova riforma propone altresı̀ di considerare “attentamente” un superamento del tetto
determinato “da una riforma delle pensioni che introduce un sistema previdenziale a più
pilastri”. Per quanto attiene alle riforme strutturali, si delinea un quadro di riferimento in
cui verranno considerate “solo le riforme più importanti che hanno un effetto di riduzione
dei costi diretti sul lungo periodo in grado di aumentare il potenziale di crescita, e il cui
impatto sulla sostenibilità a lungo termine sulle finanze sia positivo e verificabile”. Tra
“tutti i fattori rilevanti” al fine di qualificare un deficit come eccessivo, si prevede anche
il contributo degli Stati membri “a migliorare la solidarietà internazionale e a raggiungere gli obiettivi della politica europea”. Inoltre, si profila la necessità di prendere in
considerazione le “condizioni macroeconomiche” e le “dinamiche del debito”, compresa la
tendenza a conseguire “surplus primari a livelli adeguati”.
E’ plausibile supporre che tale riforma incida in maniera rilevante sulle interazioni
tra politica monetaria e politica fiscale, come risulta evidente dal seguente Comunicato
Stampa del Consiglio Direttivo della bce del 21 marzo 2005: “Il Consiglio direttivo della
Banca Centrale Europea esprime serie preoccupazioni riguardo alle modifiche al Patto
di Stabilità e Crescita proposte. È necessario evitare che i cambiamenti del meccanismo
correttivo del Patto ledano la fiducia nel quadro di riferimento per le politiche di bilancio dell’Unione europea e nella sostenibilità delle finanze pubbliche dei paesi dell’area
dell’euro. Inoltre, quanto al meccanismo preventivo del Patto, il Consiglio direttivo prende
atto di alcune delle modifiche avanzate che sono in linea con un possibile rafforzamento di
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tale meccanismo. Politiche fiscali solide e una politica monetaria orientata alla stabilità
dei prezzi sono essenziali per il successo dell’Unione economica e monetaria e costituiscono
i presupposti per la stabilità macroeconomica, la crescita e la coesione nell’area dell’euro.
È indispensabile che gli Stati membri, la Commissione europea e il Consiglio dell’Unione
europea applichino con rigore e coerenza il quadro di riferimento rivisto in modo da promuovere la conduzione di politiche di bilancio prudenti. Nelle attuali circostanze è quanto
mai fondamentale che tutte le parti interessate assolvano le rispettive responsabilità. I
cittadini e i mercati possono fare affidamento sul fermo impegno del Consiglio direttivo
ad adempiere il suo mandato di mantenere la stabilità dei prezzi”.
La recente proposta di riforma, nella misura in cui amplifica ulteriormente l’ambiguità
delle circostanze in cui deficit fiscali in eccesso rispetto al valore di riferimento del 3 per
cento non debbano comunque essere considerati “eccessivi”, abbandona di fatto il Patto
di Stabilità e Crescita, aprendo la strada a possibili disavanzi fiscali sistematicamente più
elevati in tutti i Paesi dell’area dell’euro.
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Conclusioni
Il presente articolo ha esaminato le caratteristiche del Patto di Stabilità e Crescita e le
relative proposte di modifica, identificando i fondamenti teorici conformi all’applicazione
di regole fiscali all’interno di un’unione monetaria. L’analisi relativa all’orientamento delle
politiche di bilancio viene considerata nella valutazione e nelle proiezioni macroeconomiche
della Banca Centrale Europea, nell’ambito del secondo pilastro della strategia di politica
monetaria orientata al mantenimento dell’obiettivo della stabilità dei prezzi.
Dal punto di vista della teoria economica, le discussioni riguardo i fondamenti del
Patto riecheggiano il più ampio dibattito economico “regole versus discrezionalità”: le
regole limitano la flessibilità della politica economica ma migliorano la performance di
lungo periodo, limitando comportamenti distorsivi e garantendo un ambiente economico
stabile e facilmente prevedibile. Nel caso dell’Unione Monetaria Europea, in cui i singoli
Paesi hanno delegato la sovranità monetaria a una banca centrale istituzionalmente indipendente e vincolata da uno specifico mandato, il mantenimento di un adeguato margine
di discrezionalità da parte delle singole autorità di politica fiscale viene ritenuto cruciale
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per poter fronteggiare l’eventualità di shock asimmetrici. Tale esigenza è amplificata
all’interno di un area monetaria, come quella dell’uem, che non viene ritenuta conforme
a criteri di ottimalità, a causa di rilevanti difformità nelle caratteristiche economiche degli
Stati membri, un basso livello di mobilità del fattore lavoro e un basso grado di flessibilità
dei prezzi e dei salari. Tuttavia, coerentemente con la teoria economica, si è argomentato
come concedere piena discrezionalità nella gestione della politica fiscale possa generare
dei costi non trascurabili in riferimento a una pluralità di dimensioni, come il grado di
sostenibiltà delle finanze pubbliche nel lungo periodo, l’obiettivo della stabilità dei prezzi,
la credibilità della politica monetaria, le distorsioni di carattere politico nei processi decisionali e il propagarsi di esternalità negative.
Conformemente all’analisi svolta, riteniamo che il Patto di Stabilità e Crescita, seppure
suscettibile di essere migliorato sotto una pluralità di punti di vista, rappresenti un giusto
compromesso tra l’esigenza della flessibilità della politica fiscale e l’esigenza di regole di
bilancio rigide che contribuiscano a promuovere il coordinamento delle politiche fiscali, ad
arginare comportamenti distorsivi e a garantire l’equità intergenerazionale.
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