il cinema in mano

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IL CINEMA IN
MANO
Teoria e simbolo delle mani al cinema
a cura di Orio Menoni
L’occhio è sempre stata la parte del
corpo umano necessariamente privilegiata
nel rapporto con l’atto cinematografico.
L’asse occhio-cinepresa-proiettore-occhio
è la trave maestra del cinema. Su quest’asse tra l’occhio dell’autore e quello dello
spettatore è stata fondata un’intera sintagmatica del film. Eppure, la mano è sempre
stata una parte importante del cinema. Sin
dagli esordi, quando per un occhio che guardava attraverso l’obiettivo della cinepresa
v’era una mano che ne girava la manovel-
la rendendo quella ripresa possibile. Fino a
oggi, quando la macchina da presa, diventata videocamera, è passata dal treppiede,
attraverso gru e rotaie, alla spalla, per ritornare a quella unione intima tra mano e
occhio che è la handycam, il punto di massima vicinanza fisica tra l’occhio e la mano.
Dalle cineprese a manovella fino alle videocamere palmari, si può forse dire che un
cerchio s’è chiuso. La mano ha accompagnato l’occhio nell’atto della visione, ma
con movimento ampio, non sempre con la
stessa vicinanza e con le stesse modalità. Il
mosso della camera a mano ha assunto connotazioni stilistiche e comunicative specifiche. Con la computer grafica, che sia animazione o post-produzione, la camera come elemento fisico scompare, implodendo
interamente entro i gesti manuali che comandano i programmi del computer. L’associazione tra mano e protesi visiva è totale e arriva, in alcune situazioni (come il film
d’animazione digitale) a pre-esistere interamente all’occhio.
Le mani sono la premessa concreta di
un film (l’allestimento dei set) e l’altrettanto concreta sua conclusione (le mani che
acquistano i biglietti, quelle della “maschera” che, con gestualità piuttosto violenta, li
strappano per vidimarli). Ma occupano spesso anche il testo del film: al cinema abbiamo mani che uccidono e mani che salvano,
mani che afferrano e mani che lasciano. Mani che invocano, mani che toccano seni, mani che si stringono, mani che comandano,
mani che obbediscono. Mani che danno il
via alla narrazione, come quella di Kane in
Quarto potere: una mano che nel lanciare
la storia muore, e forse non a caso.
Ma il contributo delle mani alla costruzione del testo filmico va molto più in
profondità: le mani spesso collaborano con
l’occhio nella costruzione dello sguardo e
dello spazio cinematografico. Lo sguardo
del cinema non è fatto soltanto di occhi e
di spazio percepito, ma anche di direzioni,
deviazioni, occlusioni, negazioni. Questa dinamicità molteplice dello sguardo è un tratto essenziale e unico dello sguardo cinematografico, e a costruirla intervengono anche oggetti e corpi nella loro attualità, che
attraverso le mani si fa non soltanto meccanica o passiva, ma anche attiva. La mano
infatti può muoversi tra i due opposti del
richiamo (il gesto del saluto che equivale a
un “guardami!”) e della censura (la mano
che copre l’obiettivo), con nel mezzo lo statuto un po’ ambiguo della deissi o indicazione (“ecco dove devi guardare”). Vi sono, insomma, mani che guidano lo sguardo
e mani che lo negano. Mani che indicano
alla camera cosa deve guardare e mani che
coprendo l’obiettivo le impediscono di guardare. Ci sono mani che ingannano, distraggono: le mani del prestidigitatore vogliono
lo sguardo fisso su di sé per distoglierlo da
quello che accade intorno. C’è dunque un
legame tra mani e direzione dello sguardo
ma anche tra mani e attenzione allo sguardo, competenza percettiva: le mani agiscono al di qua e al di là della barriera della
rappresentazione.
Le mani, infine, hanno un linguaggio
proprio, di cui quello deittico è soltanto un
aspetto, sia pur importante. Le mani possono anche comunicare, sia usando codici
simbolici propri (come l’”alt” del vigile o il
dito sulle labbra per comandare il silenzio),
sia facendosi veicolo di segni di altri codici
(la rappresentazione mimetica di numeri e
lettere), sia attraverso un sistema misto (come l’alfabeto dei non udenti, che utilizza sia
la mimesi di numeri e lettere, sia aggregati
simbolici complessi). Le mani possono an-
Dancer in the Dark di Lars Von Trier
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che sostituire il corpo dell’attore, come nel
caso delle ombre cinesi, che ci riportano alla lanterna magica e all’essenza stessa del
cinema come gioco di ombre. E così come
cinema è anche parola, la mano è anche linguaggio. La mano di Kane, di nuovo, che lascia andare la sfera di vetro in Quarto potere è l’equivalente manuale del “C’era una
volta”; simultaneamente, la voce pronuncia
la parola magica: Rosebud. Insieme danno
il via all’azione narrativa. I ruoli non sono
rigidi: la parola può essere assolutamente
opaca, impenetrabile (come Rosebud, appunto), e il gesto manuale può essere del
tutto pieno e folgorante (come il lancio dell’osso in 2001: Odissea nello spazio).
Questo Speciale si muove in diverse
direzioni. È composto di contenuti teorici,
storici, analitici. Ed essendo scritto da persone diverse, presenta anche prospettive e
approcci metodologici differenti. Non è,
d’altronde, uno spazio chiuso, come potrebbe essere un libro, ma è uno spazio che
si apre. Intende essere spunto per ulteriori
approfondimenti più che fornire punti d’approdo. Soprattutto, desidera che alle mani,
alla loro azione, al loro ruolo sia concreto
che metaforico, venga riconosciuta quella
dignità che loro spetta all’interno del cinema. Buona lettura.
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