Persona_e_stato_nel_pensiero_di_Hobbes

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Persona e stato nel pensiero di Hobbes, di Luigi Negri.
Milano, Jaca Book1987 – Cap. IV
L’aporia libertà/struttura politica:
il suo superamento nella ripresa di una antropologia metafisico-religiosa
La rilettura «critica» dell’episodio hobbesiano si impone non soltanto come termine di una ricognizione di carattere storico
e speculativo ma, in senso più profondo e
radicale, come tentativo di mettere in luce le linee del suo messaggio per l’oggi
della nostra esistenza personale e sociale.
I problemi con cui Hobbes si è misurato
(primo fra tutti il problema della pace
come convivenza ordinata degli uomini e
dei popoli nella verità e nella libertà) sono anche i problemi dell’oggi. Se il cammino teorico, etico e politico di Hobbes
fosse corretto e la soluzione proposta fosse adeguata - cioè oggettivamente rispondente alle esigenze della persona e
della vita sociale - il suo sarebbe un pensiero senza possibilità di sviluppo.
Se come invece riteniamo, il suo tentativo
conclude ad aporie ben più gravi di
quelle che hanno «provocato» il suo
cammino, incombe su di noi la responsabilità «storica» di ben altri approcci e di
ben altro movimento di pensiero.
Come Bobbio ci ha permanentemente
insegnato, la posizione di Hobbes è
l’inevitabile
punto
di
riferimento
dell’intero arco della speculazione eticopolitica contemporanea1: nella varietà
delle posizioni antropologiche ed etiche
e delle progettazioni etico-politiche di
questi ultimi due secoli, si porta alle conseguenze estreme un impatto teorico ed
etico che in Hobbes appare già lucidamente e profeticamente compiuto, senza alcun disagio o perplessità nei confronti delle conseguenze più drammatiche, Belohradsky direbbe senza alcuno
«scrupolo»2. Non possiamo non sentire su
di noi il «peso» culturale della rivolta che
l’uomo della fine del secolo XX vive nei
confronti dell’impostazione e delle con-
seguenze etico-antropologiche della posizione hobbesiana. Come il Concilio Ecumenico Vaticano II ha lucidamente
definito, l’uomo di oggi in balìa dei grandi sistemi ideologico-politici, rischia di essere ridotto o a «pezzo di materia» o «a
cittadino anonimo della città terrena»: la
gravità di questa sconfitta dell’uomo è insomma il segno della sconfitta di quelle
formazioni di pensiero che lo hanno condotto fino a questo punto, teorico e pratico-sociale3.
«Le tragiche vicende di questo secolo,
che
hanno
insanguinato
il
suolo
dell’Europa in spaventosi conflitti fratricidi,
l’ascesa di regimi autoritari e totalitari
che hanno negato e negano la libertà
ed i diritti fondamentali dell’uomo: i dubbi e le riserve che pesano su un progresso
che, mentre manipola i beni dell’universo
per accrescere l’opulenza ed il benessere, non solo intacca l’habitat dell’uomo,
ma costruisce anche tremendi ordigni di
distruzione, l’epilogo fatale delle correnti
filosofico-culturali e dei movimenti di liberazione chiusi alla Trascendenza; tutto
questo ha finito per disincantare l’uomo
europeo, spingendolo verso lo scetticismo, il relativismo, se non ancora facendolo piombare nel nichilismo, nella insignificatezza e nella angoscia esistenziale»4.
Il peso di questa angoscia esistenziale
guida la nostra riflessione critica: se la cultura è, come è, il tentativo di dare voce e
dignità razionale all’esperienza della persona e dei popoli, e non un movimento di
pensiero che costruisce sistemi - anche
«ideologicamente» corretti - ma sovrapposti alle autentiche esigenze della persona e che conducono inevitabilmente
alla negazione di tali esigenze e, quindi,
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conseguentemente,
alla
negazione
dell’uomo, della sua responsabilità morale e della sua creatività storico-sociale5.
Né può bastare una filologia che annoti i
dati della vicenda, ma non si assuma la
responsabilità «etica» (implicita in ogni discorso) di parlare all’uomo e di indicargli
la possibilità di una autentica umanizzazione.
Questo è il contesto in cui ci muoviamo: non l’abbiamo fissato noi, ma semplicemente ritrovato - dimenticare anche uno
solo dei dati di questa «tensione» etica
ed umana, che caratterizza la nostra epoca, sarebbe un tradimento insopportabile. Non abbiamo riletto Hobbes (come molti prima di noi) nell’ottica di un
progressismo scientifico-tecnologico ed
etico-politico che sembrava irresistibilmente invincibile e caratterizzato, quindi,
da ottimismo, come se la società perfetta
fosse ormai quasi a portata di mano: abbiamo riletto e rileggiamo Hobbes nel vivo di una tragedia umana che proprio
Hobbes ha profeticamente teorizzato e
storicamente preparato, storia di una totalizzazione della vita sociale «annunciata», potremmo dire.
«Il
messianesimo
millenarista
dell’ideologia tardo illuminista, assunto il
potere nelle proprie mani, cominciò a
sacrificare all’idolo di un radioso avvenire
milioni di propri compatrioti. E mentre il
mondo batteva le mani ai giganteschi
sforzi illuministici, le popolazioni, irrigidite
nella loro incapacità di accogliere la
grande ideologia di salvezza, intridevano
del
proprio
sangue
il
suolo
dell’Arcipelago.
Tuttavia il volontarismo tardo-illuminista
non riuscì a costringere gli uomini, ad edificare il proprio mondo interiore secondo
la sua immagine e non creò una nuova
antropologia, ma riuscì solo ad ottenebrare
la
coscienza
popolare
in
un’atmosfera di sinistro terrore..., al nostro
fianco vivono generazioni mute. Esse attraversano in silenzio la vita, portando
con sé nella tomba un grido inespresso.
E sopra il mondo, preso dall’angoscia,
come un fungo atomico, è sorto il fantasma nebbioso del socialismo. E noi che
viviamo all’ombra di questi spaventosi
avvenimenti ci apriamo il varco dal
mondo degli spettri socialisti verso la realtà e la storia»6.
Siamo di fronte ad un fondamentale irrealismo nella considerazione dell’uomo.
Nella versione «ideologica» della mentalità moderno-contemporanea l’approccio
alla realtà umana è condotto secondo
una linea fondamentalmente astratta
che non si sottopone mai, ad onta di tanta conclamata rigorosità scientifica, a
nessuna verifica «critica».
Domina, per esempio, di volta in volta, o
un ottimismo sulla originaria perfezione
dell’uomo (ottenuto in base alla rimozione della presenza di Dio avvertita come
minacciante
l’originaria
autonomia
dell’uomo, con la conseguente negazione del dogma cattolico del peccato originale) oppure un radicale pessimismo
sull’uomo e sulla capacità di comprensione e di amore: ma questi approcci
hanno la funzione di opzioni fondamentali «previe», non si deducono da alcuna
cosciente analisi dell’esperienza fondamentale dell’uomo. Il peso «acritico» di
questi a priori avrà conseguenze gravi
nello svolgersi di quella «antropologia
fondamentale» che sottende le varie ideologie
di
carattere
modernocontemporaneo.
Abbiamo visto che l’antropologia hobbesiana (tematizzata in funzione della riduzione etico-politica dell’antropologia
stessa) è di carattere materialistico biologico. Tale biologismo materialistico offre,
per altro, il materiale di base teorico alla
riduzione socio-politica dell’uomo.
Hobbes condivide (come tanta parte
dell’antropologia di carattere umanistico) il presupposto dell’assolutezza originaria dell’io colto nella sua puntuale individualità:
tale
assolutezza
consiste
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nell’originario diritto di possesso su tutta la
realtà. Notiamo per inciso, che assai significativamente il diritto dell’uomo è un
diritto non al riconoscimento della verità,
del senso della realtà e, quindi, ad un uso
adeguato di essa: ma è originariamente,
un diritto al possesso della realtà stessa.
L’orizzonte qui è già sintomaticamente
modificato in senso moderno: alla categoria della verità come espressione della
potenzialità teoretica ed etica dell’uomo
si è sostituita definitivamente la categoria
del potere (come capacità di autoespressione dell’originaria e definitiva attualità dell’uomo).
Ma proprio perché tale diritto possa essere autenticamente tematizzato ed adeguatamente attuato (per non autodistruggersi nell’inevitabile guerra dell’uno
contro tutti) si esige, logicamente, il trasferimento
irrevocabile
dei
diritti
dell’individuo alla realtà super-individuale
dello
Stato
(animale
artificiale
sì
quest’ultimo, ma l’unico effettivamente
«reale», nel quale si realizzano cioè obiettivamente e senza lacerazioni, le caratteristiche dei singoli individui).
Siamo già al cuore di quel «rovinoso» passaggio che caratterizza in modo drammatico gran parte dell’antropologia,
dell’etica e della politica modernocontemporanea: l’uomo da soggetto libero e creativo (tanto più enfaticamente
libero e creativo quanto più ha attuato la
rimozione di Dio) si trova - per lo stesso
movimento di pensiero che ha rimarcato
in modo così determinante la soggettività
- a divenire «oggetto» essenzialmente
manipolabile da parte di sistemi di carattere materialistico e politico. Nell’episodio
del pensiero hobbesiano si compie, con
una immediatezza lucidamente profetica, quel graduale e secolare passaggio
dell’uomo da soggetto della storia ad
oggetto di sistemi ideologico-politici totalizzanti, che è il dramma fondamentale
del nostro tempo7. Nel linguaggio hobbesiano risulta quasi impossibile recuperare
la fondamentale sostanza etica della
persona. La persona non è più il luogo
del dramma quotidiano della libertà (pro
o contro l’Essere), e quindi soggetto di
quella responsabilità irriducibile a qualsiasi contesto o condizionamento (luogo di
quella fondamentale trascendenza sul
mondo e sulla storia per cui la persona è
costituita come interlocutrice unica ed irrepetibile di Dio). Ciò che resta della
grandezza della persona (la cui tematizzazione
adeguata
avviene
esclusivamente nell’ottica metafisico-religiosa)
è
quella
individualità
puntuale
(l’individuo, appunto: un grumo di reattività individuale, in un clima di massificata
intercambiabilità) che deve il più rapidamente possibile essere funzionalizzata
alla vita della società ed alla sua struttura
istituzionale: lo «Stato», appunto.
La persona allora (o meglio l’individuo) è
tale nella misura in cui si «nega» (ed anche questo è un ben tragico paradosso)
come realtà che trascende l’ordine politico e nella misura in cui accetta di coincidere obiettivamente e definitivamente
con la struttura socio-politica.
Hobbes (anche in questo antesignano di
tanto statalismo ideologico di questi secoli) concede all’individuo tutta e solo
quella libertà che non «disturba» il potere
dello Stato e lo svolgersi di quel diritto statale che è originario ed inalienabile. La
coscienza, come categoria o dimensione
fondamentale della persona, deve nel
suo aspetto «pubblico» (quello appunto
che ha rilievo nella società) coincidere
con la logica o la ragione dello Stato.
Nel suo aspetto «privato» può anche non
coincidere: tale libertà di coscienza come possibilità di non coincidenza della
coscienza individuale con quella collettiva è appunto «tollerata» dallo Stato, nella
misura in cui accetta di essere e di rimanere «privata», cioè programmaticamente non incidente nella struttura dei rapporti sociali.
La versione moderno-contemporanea
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dello Stato (pur nella varietà delle tematizzazioni e delle formulazioni) ha teso
sempre, programmaticamente, alla «separazione» dello Stato dalla Chiesa.
Un’indagine storica, condotta al sicuro
da precomprensioni faziose, non potrebbe non appurare che l’elemento dinamico della formula in questione è proprio la
progressiva riduzione nell’ambito del privato della dimensione della realtà storica
della religiosità, e, conseguentemente,
della occupazione da parte dello Stato
di tutta la realtà etica della persona e di
tutti i suoi rapporti sociali.
Appare, a questo punto, in tutta la sua
oggettiva determinazione la aporia etico-politica dell’antropologia ideologica
moderno-contemporanea. Essa si configura come una impossibile riconciliazione
fra la persona - colta nella sua ultima individualità e quindi nella sua libertà e responsabilità etica - ed un ordine politico
(e la sua struttura funzionale: lo Stato)
che tende, per logica interna del discorso, ad inglobare la dimensione della persona e la sua irriducibilità etica.
L’abbandono progressivo della tradizione
metafisico-religiosa renderà il riferimento
alla persona ed alla sua consistenza ontologica ultima «infondato», di tipo sostanzialmente esigenziale; in ogni caso
teoreticamente ed eticamente non costruttivo. E di fronte al riferimento alla persona (o meglio all’individuo, come pura
esigenza di valore) si troverà progressivamente uno Stato «scientificamente»
determinato, che tenderà ad inglobare
l’individuo. Per Hobbes la moltitudine degli individui serve esclusivamente a formare l’unico individuo artificiale che ha
piena legittimità di esistere nella storia: lo
Stato.
Hobbes non nega l’artificiosità della
compagine statuale né per certi aspetti,
nonostante sconcertanti enfatizzazioni,
una certa mostruosità: resta, comunque,
l’osservazione che lo Stato è l’unica realtà umana e politica reale, cioè esistente
con piena legittimazione logica ed etica.
Persona, coscienza personale, dimensione etica dell’esistenza, libertà di scelta,
espressione sociale della libertà personale e cioè libertà religiosa e sociale: tutti
questi valori, che indicano la irriducibilità
ontologica ed etica della persona, trovano nella struttura dello Stato un fattore
fondamentale non di opposizione ma,
più drammaticamente, di legittimazione.
Così la vita sociale non è l’ambito
dell’espressione della persona impegnata ad attuare il suo destino trascendente,
ma è il campo «esclusivo» della vicenda
personale. L’individuo «è» se accetta di
coincidere totalmente con la struttura
della vita sociale (lo Stato).
Il tentativo di assorbimento della realtà
della persona (e quindi della sua obiettiva responsabilità di carattere etico e di
creatività storica) nella realtà dei rapporti
sociali, o più precisamente nella struttura
della società statuale, esige ovviamente
la riduzione dell’intera vita sociale alla
realtà dello Stato.
Questo tentativo su cui si è esercitato per
secoli il pensiero etico-politico di indirizzo
laicistico (i tratti salienti di questo assorbimento saranno, senza dubbio, da un lato il pensiero hegeliano, dall’altro il complesso movimento di pensiero marxleninistico) è ottenuto da Hobbes con la
dottrina della inevitabilità del passaggio
dallo stato di natura allo Stato civile.
Il quale Stato civile - giova ripeterlo - è
per Hobbes uno Stato teoreticamente e
praticamente assoluto, al di fuori del quale non deve esistere nulla8.
La logica dell’assorbimento dell’individuo
nella struttura dello Stato non si ferma per
Hobbes di fronte a nessuna conseguenza: la più paradossale - e drammatica ad
un tempo - è contenuta nella identificazione della libertà personale con
l’obbedienza totalmente passiva alle
leggi dello Stato.
Le vicende dei regimi totalitari di questo
XX secolo hanno tragicamente reso at-
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tuale l’esperienza di individui totalmente
spogliati di qualsiasi libertà di scelta che
sono stati condizionati dal contesto ideologico dominante a porre la loro libertà e
la loro responsabilità nella obbedienza
passiva ai voleri dell’ideologia statale.
Siamo ad un tragico paradosso (peraltro
sofferto da milioni di individui, e insieme
da nazioni e da popoli) per cui si è teorizzato che la libertà consisteva esattamente nella sua negazione; e così lo stesso
movimento di pensiero ideologico che
aveva enfatizzato la libertà come sostanziale irriducibilità dell’individuo a qualsiasi
altra realtà (prima fra tutte la realtà della
divinità trascendente), ha finito per affermare la libertà dell’individuo attraverso
la negazione della medesima.
Resta il fatto che il pensiero ideologico
dell’occidente laicistico9 tenta di risolvere
l’aporia in questione semplicemente con
la negazione di uno dei due fattori in opposizione: la negazione della libertà e
della responsabilità personale. Rimane,
oggi, comunque l’inconsistenza ultima
dell’uomo: un individuo disposto alla manipolazione di carattere biologico e/o
politico. Se la cultura dell’occidente laicistico ha come conseguenza logica, ancor prima e più profondamente che fattuale, la riduzione dell’uomo a pezzo di
materia (oggetto passivo della manipolazione
di
carattere
scientificotecnologico) o a cittadino anonimo della
città terrena (oggetto della manipolazione di carattere ideologico-politico) ci
troviamo di fronte ad un «caso serio». È
necessario chiedersi se non sia legittimo
rimuovere l’opzione di fondo di carattere
antiteistico che condiziona tutto il movimento di pensiero laicistico e chiedersi se
non sia realistico un altro approccio, ben
più
radicalmente
coerente,
con
l’esperienza fondamentale che l’uomo
compie di sé, e porsi come adeguato obiettivo del movimento di pensiero esattamente il perseguimento della individuazione
dell’autentico
destino
dell’uomo (la conoscenza vera della
propria natura e la attuazione nella storia
di tale personalità)10.
«Se le nostre statistiche umane, le catalogazioni, gli umani sistemi politici, economici e sociali, le semplici umane possibilità, non riescono ad assicurare
all’uomo che egli possa nascere, esistere
ed operare come unico ed irripetibile, allora tutto questo glielo assicura Dio. Per
Lui e di fronte a Lui, l’uomo è sempre unico ed irripetibile: qualcuno chiamato e
denominato con il suo proprio nome»11.
Hobbes ha radicalmente formulato la
questione fondamentale dell’occidente
moderno-contemporaneo: la riduzione
scientifica
(biologico-materialistica)
dell’individuo in funzione della creazione
di una società, di uno Stato assoluto,
condizione unica per la pace. Antropologia, etica, politica al servizio di un progetto di totale rinnovamento dell’uomo e
della società. Tale movimento di pensiero
e tale progetto hanno caratterizzato l’età
moderno-contemporanea.
Il progetto «illuministico» dell’uomo e della società ha comunque «disteso» negli
ultimi due secoli il progetto hobbesiano
senza essere consapevole di dovere pagare al pensatore inglese un tributo rilevante. Il movimento per la creazione
dell’uomo e della società (senza alcuna
identificazione religiosa, perché la religione è sempre fonte di divisione e fanatismo) fu assunto dalla intellighenzia illuministica dell’occidente continentale e
attuato secondo una linea di gradualità
e di intelligente strategia, che è certo
uno dei vanti intellettuali fondamentali di
questo movimento di pensiero. Hobbes fu
presto dimenticato, in ogni caso la sua
lezione non richiamata esplicitamente.
Ma alla nostra generazione, cui è possibile rileggere, simultaneamente, l’episodio
hobbesiano e lo sviluppo laicistico e assolutistico
della
società
modernocontemporanea, non può sfuggire questo rimando reciproco ed il riferimento
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all’episodio hobbesiano risulta così la linea di comprensione più adeguata e
conclusiva della vicenda etico-politica,
della cultura e della società modernocontemporanee.
L’illuminismo rappresenta dal punto di vista teorico (e successivamente dal punto
di vista della dinamica attuativa sociopolitica) il fattore che si è fatto carico di
chiarire le linee teoriche fondamentali e
l’attuazione del progetto modernocontemporaneo sull’uomo e sulla società.
Un progetto antropologico, etico e sociopolitico in rottura radicale con la tradizione metafisico-religiosa dell’occidente cristiano e quindi in inevitabile ed esplicita
polemica con la presenza della realtà
della Chiesa cattolica, come soggetto
che tale posizione metafisico-religiosa custodisce, difende e a cui tende per informare la propria espressione culturale e
sociale.
L’immagine dell’uomo illuministico è quella di un uomo che, forte della rottura con
la precedente tradizione metafisicoreligiosa, ritiene di acquisire il massimo di
consistenza e di autonomia (consistenza
ed autonomia precisamente minacciate
dalla alienazione «religiosa»). Tale autonomia, intellettuale e morale, tende a
presentarsi come il valore autonomo della persona: è una circolarità «retorica»
che non è assolutamente in grado di esibire in modo criticamente fondato il valore dell’uomo, nella sua irriducibilità ontologica ed etica, e che quindi non è in
grado di difendere l’uomo dalle innumerevoli minacce che seguiranno lo sviluppo ideologico e politico modernocontemporaneo. Ma l’autonomia intellettuale e morale di stampo illuministico
tende ad esprimersi nella capacità di
conoscenza assoluta (che caratterizza
l’enfasi moderna sulla scienza e sulla tecnologia) e tende ad attuarsi nella capacità di manipolare in modo scientificotecnologico tutta la realtà mondana (e-
sterna all’uomo) fino alla realtà sociale.
Così il progetto illuministico è il progetto
per l’instaurazione dello Stato, appunto
«moderno»: come opera di costruzione
storica, quale obiettivo ultimo dell’intera
capacità di comprensione e di manipolazione scientifica della realtà. È un obiettivo che deve essere compiuto dalla intelligenza e dalla volontà umana e che si
contrappone
specularmente
a
quell’ordine sociale tradizionale che faceva riferimento alla dimensione metafisico-religiosa.
«Il secolo dell’illuminismo gli conferì la
forma più radicale. S’incominciò a vedere nello Stato il riassunto e la rappresentazione dell’intera ragione e dell’intero diritto: conclusioni radicali di tutte le reazioni
contro la pretesa di dominio ecclesiastico. Di qui in avanti l’idea dello Stato onnipotente - generalmente nella forma
dello Stato nazionale - domina l’intera
evoluzione della vita fino alla seconda
guerra mondiale. Questa vive nonostante
tutto ancora oggi in gran parte sia nelle
libere democrazie di formazione, sia vecchia come nuova, sia negli Stati totalitari
comunisti.
Tutto il lavoro di ricostruzione che la Chiesa ha sempre cercato di compiere è caratterizzato da questo fatto: lungo tutto il
secolo XIX come compito fondamentale
fa emergere in forma nuova, l’antico impegno della libertas: riconquistare alla
Chiesa,
nello
Stato
indipendente,
l’indipendenza necessaria alla propria libera attività»12.
Siamo giunti a quello che costituisce, secondo noi, il nucleo «duro» della nostra
indagine a carattere etico e sociopolitico del pensiero di Hobbes, nella prospettiva della vicenda etico e sociopolitica moderno-contemporanea.
Tale nucleo «duro» è rappresentato
dall’idea di Stato moderno - come Stato
«assoluto» -. Si tratta di una assolutezza di
tipo teorico ed etico, la concezione cioè
dello Stato come la realtà che definisce
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in modo permanente la personalità
dell’uomo, che informa definitivamente
la struttura sociale e quindi regola il corso
degli avvenimenti storici.
«La coscienza moderna si annuncia con il
sorgere di due nuove discipline che hanno esercitato un’influenza determinante
sulla storia della civiltà occidentale: la
scienza naturale galileiana fondata sulla
matematizzazione del cosmo e la machiavellica scienza dello Stato fondata
sulla riduzione della politica ad una tecnica del potere alla quale è perfettamente indifferente ogni scopo che oltrepassi il problema pratico del successo nel
mantenimento e nello sviluppo del potere stesso.
Ora la politica è soltanto una tecnica del
potere così come la natura è matematica: la natura è un libro scritto in formule
matematiche, mentre lo Stato è un libro
scritto dalla violenza, dalla furbizia,
dall’astuzia, dalla capacità organizzativa
dell’uomo e così via... La parola Stato introdotta da Machiavelli indica il risultato
di un’azione specifica, e cioè della conquista del potere; ciò che interessa Machiavelli sono i vari procedimenti che
mettono capo alla costruzione di un solido Stato, niente altro»13.
Tale immagine dello Stato è quella, peraltro, cui fa riferimento tutta la tradizione
laicistica moderno-contemporanea e
che ha trovato la sua formulazione più
sintetica e più drammaticamente espressiva nella proposizione XXXIX del Sillabo di
Pio IX: «Lo Stato come norma e fonte di
tutti i diritti gode di un diritto che non
ammette confini».
La concezione dello Stato come assoluto
in termini teorici e pratici ha una dimensione che è più profonda e più decisiva
del funzionamento della struttura stessa
del potere.
L’assolutismo come progressivo e programmatico assorbimento nella dimensione socio-politica delle dimensioni fondamentali della persona e del suo agire
sociale e quindi l’organizzazione della vita politica come assorbente l’intero arco
della società, è il filo conduttore fondamentale della riflessione etico-sociopolitica moderna e contemporanea.
La storia della società modernocontemporanea è il progressivo chiarirsi e
programmarsi di questa visione assolutistica della vita politica come vera e propria «religione» che sostituisce l’altra
grande forma di religione, quella cristiana, che è stata messa radicalmente in discussione dalla modernità.
La storia del chiarirsi e del programmarsi
anche a livello socio-politico, dell’idea di
Stato assoluto, si intreccia con la storia di
una progressiva «democratizzazione» della vita politica, cioè con la storia di un
progressivo allargamento della partecipazione al potere e dell’esercizio del potere; è questo uno degli interessi fondamentali dello studio che abbiamo condotto.
Il pensiero e la storiografia laicistica hanno identificato questi due livelli della vicenda, ma tale identificazione è obiettivamente insostenibile.
Lo Stato moderno, in quanto teoricamente ed eticamente assoluto, non riconosce
alcun elemento di trascendenza nei confronti della dimensione socio-politica; è
quindi obiettivamente antidemocratico
perché funzionalizza la persona alla organizzazione del potere politico: per questo è sostanzialmente ed inequivocabilmente contro l’uomo. Può prevedere, e
di fatto prevede e realizza, forme e strutture di attuazione del potere più dinamiche e più tecnicamente democratiche
dello Stato precedente (per es. quello
medievale), ma la sostanza teorica ed etica di questo Stato è programmaticamente contro l’uomo e l’esercizio della
sua libertà.
Lo Stato tradizionale, invece, che riconosceva la priorità della dimensione religiosa e personale sulla stessa struttura di organizzazione del potere, che perciò non
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considerava l’organizzazione del potere
(lo Stato appunto) come l’elemento determinante della vita personale e sociale,
era realmente democratico (cioè preoccupato della persona e del libero esercizio della sua vita, sia a livello personale
come a livello sociale). Questa sostanziale democraticità conviveva con un esercizio «tecnico» del potere obiettivamente
più inevoluto e quindi meno democratico14.
Ci sembra di essere arrivati così al cuore
della dialettica etico-politica che connota gran parte della vicenda del pensiero
moderno-contemporaneo.
La storia dello Stato moderno è certamente la storia di una progressiva riduzione dell’uomo, della sua personalità, della
sua responsabilità etica e storica alla dimensione politica e quindi allo Stato come organizzazione del potere della vita
sociale e, in questo senso, da un lato è la
storia di una progressiva dimenticanza
della
democrazia
come
ambito
dell’esercizio vivo e libero della persona e
della vita sociale; dall’altro è innegabilmente la storia di forme di esercizio sempre più «democratico» (in modo istituzionalmente più corretto), di un potere assolutistico.
Indubbiamente è la situazione in cui viviamo: quella che ha visto l’affermarsi vigoroso in pieno XX secolo di totalitarismi
di carattere ideologico che compromettono gravemente la possibilità di
un’autentica espressione della libertà
personale e sociale.
Una storiografia ed una riflessione eticopolitica scevra da preconcetti non possono non riconoscere che soltanto la
Chiesa cattolica ha esercitato una funzione di «resistenza» nei confronti
dell’attuazione di questo progetto di assolutizzazione della vita politica e quindi
dello Stato come struttura di organizzazione del potere.
«L’urto fra la rivoluzione francese e la
Chiesa non fu soltanto la conseguenza di
un movimento sociale in lotta contro il sistema feudale. Vi confluirono piuttosto,
come nei movimenti settari del tardo
Medioevo, tendenze politico-sociali e religiose (spesso anticlericali). Ambedue le
correnti hanno questa volta un unico
nome: illuminismo. La rivoluzione francese
fu il risultato logico delle idee illuministiche
quali si erano venute sviluppando in
Francia a partire dal 1750 con Voltaire,
Diderot, Rousseau ed altri, i quali si basavano sul diritto naturale, tendevano alla
uguaglianza generale, ma nutrivano anche un odio dichiarato contro ogni religione rivelata e contro ogni Chiesa gerarchica. Da queste idee nacque a poco
a poco un movimento diretto immediatamente contro la Chiesa che per essa
rappresenta niente di meno che un pericolo di vita: una vera e propria persecuzione la quale con tenacia e sicurezza
mirò al punto nevralgico della Chiesa: al
clero, organizzato nella diocesi nel più
vasto ambito della Chiesa papale»15.
Dalla rivoluzione francese fino alle forme
dello statalismo assoluto del XX secolo
l’elemento fondamentale, direzionale di
questi tentativi è quello di emarginare
dalla vita della società la presenza della
Chiesa. La Chiesa prende coscienza della sua funzione anche sociale: dalla seconda metà del secolo XIX si parla di
dottrina sociale della Chiesa.
Di tale dottrina la preoccupazione fondamentale è quella di difendere la persona umana, i suoi diritti fondamentali di
libertà, la sua irriducibilità alla vita sociale
ed alle sue strutture, la difesa della ricchezza del tessuto sociale nei confronti
dello Stato. La preoccupazione dunque
della dottrina sociale della Chiesa è quella di contrapporre alla riduzione di carattere socio-politico della persona e quindi
alla riduzione della società alla struttura
organizzativa del potere, un progetto di
vita sociale e politica al servizio della persona e che consenta l’espressione adeguata dell’individuo nella sua valenza
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anche sociale. Mentre il progetto laicistico tende con la teoria della separazione
della Chiesa dallo Stato ad un vero e
proprio assorbimento della dimensione
religiosa nella dimensione politica e la riduzione della dimensione politica alla pura struttura statale, a questa separazione
della Chiesa dallo Stato, la Chiesa oppone la riattualizzazione della dottrina tradizionale della distinzione dei due poteri
cioè delle due dimensioni: quella religiosa
e quella politica.
La ripresentazione della distinzione fra vita religiosa e vita politica consentì il determinarsi graduale, a livello anche concettuale, di una concezione autenticamente «laica» dello Stato. Uno Stato quello teorizzato dalla dottrina sociale
della Chiesa - che si concepisce come
determinato dall’obiettivo di favorire al
massimo il bene comune della persona e
delle realtà sociali presenti. A tale Stato
«laico» l’ideologia laicistica contrappone
uno Stato che, in quanto assoluto, cioè
«etico», tende a porsi come il punto di riferimento in ultima istanza di tutte le dimensioni della vita, della persona e della
sua espressività sociale16.
In questa resistenza al progetto di totalitarizzazione della vita personale e sociale
in dimensione politica e quindi in forme di
carattere statuale, la Chiesa cattolica è
stata pressoché l’unica17.
Una verifica sufficientemente significativa
di questo nodo della vicenda etico e socio-politica
moderno-contemporanea,
nel suo progressivo attuarsi, è certamente
rappresentata dal tema oggi drammaticamente attuale dei cosiddetti diritti umani. Il XX secolo è certamente il secolo
delle più solenni e significative affermazioni dei diritti fondamentali dell’uomo
nella dimensione personale come nelle
varie dimensioni sociali. Si tratta comunque di proclamazioni e di affermazioni
che mantengono un notevole alone di
equivocità.
I
diritti
fondamentali
dell’uomo, quando siano pensati ed af-
fermati
senza
riferimento
obiettivo
all’ambito di formazione metafisica ed etico-religiosa,
rimangono
«infondati»:
peggio ancora sottoposti, come di fatto
sono stati e rimangono, ad una autentica
manipolazione di carattere ideologico,
scientifico e tecnologico, così che alle solenni affermazioni di principio fa da contrappunto - e non solo come incoerenza una situazione in cui i diritti fondamentali
dell’uomo vengono obiettivamente traditi.
Soltanto in riferimento alla tradizione religiosa, ed in particolare alla rivelazione
cristiana, che costituisce l’ambito di una
adeguata ed esplicita tematizzazione e
fondazione dei diritti fondamentali
dell’uomo, essi raggiungono il massimo di
chiarezza
teorica
ed
il
massimo
dell’animazione etica e spirituale.
La dottrina sociale della Chiesa, nella vigorosa ripresentazione che il Magistero di
Giovanni Paolo II ne ha fatto18, rappresenta oggi la condizione obiettiva e storicamente rilevante per un discorso autentico sui diritti fondamentali dell’uomo
e per una loro difesa ed adeguata promozione.
La resistenza opposta dalla Chiesa cattolica come erede e depositaria della
grande tradizione metafisico-religiosa
dell’occidente, si incontra oggi con una
ripresa innegabile del senso religioso. La
progressiva eliminazione dell’uomo come
soggetto vivo, libero e responsabile della
storia operata dal progetto neoilluministico che ha portato ad attuazione
definitiva
le
indicazioni
eticoantropologiche e socio-politiche di Hobbes, è oggi un avvenimento «scandaloso» per l’intelligenza. La cultura esige oggi di riprendere un contatto diretto con il
vissuto dell’esperienza umana; la questione culturale si pone come ripresa radicale della questione antropologica ed
è in questo che si aprono alla cultura
contemporanea prospettive di riflessione
e di sviluppo che sembravano fino ad ora
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impossibili. Si sta operando un definitivo
superamento della cultura come riflessione astratta dal contesto della esperienza
viva dell’uomo e quindi del suo bisogno
di senso ultimo per la vita, così come si
sta operando un superamento di quella
concezione dell’esperienza umana ridotta ad esperienza sensibile (e quindi programmaticamente riconducibile ad uno
schema di carattere matematico-fisico)
che ha caratterizzato la filosofia moderno-contemporanea fino all’idealismo.
«La crisi del razionalismo europeo è la crisi
dell’escatologia
dell’impersonalità.
L’umanità europea ha cercato il terreno
della universalità nella impersonalità e
cioè nella possibilità di raggiungere un
punto di vista impersonale che sia accettabile per tutti proprio perché impersonale. Husserl dimostra che una tale escatologia conduce alla catastrofe e che pertanto la questione va posta in un modo
completamente opposto; il fondamento
dell’universale comprensibilità e comunicabilità del mondo sta nella struttura
dell’esperienza personale vissuta»19.
La ripresa del senso religioso - cioè la ripresa della struttura naturale dell’uomo
come struttura aperta al mistero, come
tensione al superamento di sé nella individuazione e nel rapporto con un fondamento trascendente che costituisce
l’esperienza dell’uomo nella sua irrepetibilità - rappresenta dunque, il tessuto più
«nervoso» del momento culturale che
stiamo vivendo.
È il luogo infiammato di un nuovo dibattito che non intende più ripiegarsi semplicemente sulla strumentazione o sulla metodologia del pensiero, ma che intende
riaffrontare coraggiosamente il discorso
di una fondazione radicale dell’uomo e
del suo valore.
Sembra essere, dunque, il momento della
metafisica, o meglio, il momento in cui la
metafisica non subisce più una censura
indiscriminata da parte del contesto culturale. La metafisica è la rigorosa fon-
dazione del senso religioso, e per questo,
si assume oggi la responsabilità di dare
contenuto alla fondazione rigorosa e trascendente dell’uomo. Così esso si pone
oggi come l’unico discorso che costituisce l’uomo come valore assoluto, come
irriducibilità di fronte al mistero dell’Essere.
Soltanto la metafisica impedisce teoricamente quella disponibilità dell’uomo
ad essere manipolato biologicamente o
politicamente. Fase terminale questa di
quel processo antimetafisico e scientificotecnologico dell’Occidente europeo negli ultimi secoli che è stato rigorosamente
tematizzato e compiuto nell’episodio di
pensiero hobbesiano.
Soltanto la struttura del discorso metafisico innalza l’uomo di fronte a Dio come
interlocutore libero e responsabile: così
ne impedisce il suo affondamento nel
mondo, la sua riduzione alla mondanità
materiale, biologica o socio-politica, che
è il destino inevitabile di ogni immanentismo. L’immanentismo ha preteso di fondare l’unicità e l’irrepetibilità dell’uomo
proprio facendo leva esclusivamente
sull’auto-immanenza, sull’autosufficienza
dell’uomo, ma tale posizione non ha impedito, anzi, ha rigorosamente condotto
all’autoannullamento dell’uomo, o meglio alla sua autodissoluzione materialistico-biologica o socio-politica.
La metafisica dunque torna ad essere
oggi un’ipotesi credibile, l’ipotesi che
accoglie l’istanza religiosa dell’uomo,
l’istanza di significato e che guida
all’individuazione rigorosa del tema della
libertà, della responsabilità morale e sociale.
Per secoli un presupposto di carattere
teorico-antropologico ha guidato il pensiero moderno-contemporaneo: metafisica o libertà; l’affermazione di un assoluto
trascendente
è
sembrata
all’immanentismo
modernocontemporaneo la negazione stessa della possibilità della libertà dell’uomo, della
sua capacità di autodeterminazione e
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quindi della sua capacità di coinvolgimento libero e responsabile nel contesto
della società.
Oggi questo presupposto esige di essere
rifiutato rigorosamente e si esige che ad
esso sia sostituito una nuova articolazione
di pensiero: metafisica e libertà. La fondazione trascendente dell’uomo è l’unica condizione perché l’uomo sia autenticamente còlto nella sua unicità, nella
sua irrepetibilità, nella sua responsabilità
libera, nella sua capacità di costruzione
storica.
La negazione di Dio risulta essere per il
contesto
ideologico
e
scientificotecnologico del nostro tempo, la negazione
dell’uomo.
Per
ripetere
un’espressione di padre De Lubac, si può
organizzare certamente il mondo contro
Dio, ma il risultato è che il mondo organizzato contro Dio è poi sostanzialmente
un mondo organizzato contro l’uomo20.
La metafisica appare dunque come la
condizione della libertà e quindi come il
fondamento di un’etica della libertà, di
un’etica della personalità e quindi di
un’etica della creatività storica. La metafisica della creazione (occorre protrarre
secondo l’insegnamento bontadiniano, il
discorso metafisico fino alla enucleazione
del teorema della creazione)21 fonda la
metafisica della creatura come personalità strutturalmente in dialogo con il mistero dell’Essere e quindi capace di determinarsi liberamente, responsabilmente di
fronte a questo mistero dell’Essere. Dalla
metafisica, dunque, emerge come prima
articolazione quella di un’antropologia
assolutamente personale; come seconda
articolazione, quella di un’etica della libertà e della responsabilità. L’espressione
di tale etica consiste nell’interiorizzare la
legge fondamentale dell’Essere, che è
condizione per il riconoscimento e
l’attuazione della propria personalità.
La terza articolazione è quella della vita
socio-politica, come ambito di espressione e di verifica della verità della persona;
proprio perché l’uomo è fondato come
valore esclusivamente nel riferimento a
Dio, l’uomo esprime il suo valore trascendente nella società: una società che deve essere organizzata perché questa libertà possa esprimersi nel modo più ampio e più compiuto possibile. Ecco, dunque,
il
superamento
teorico
dell’assolutismo statale. O l’assolutezza è
di Dio, e di fronte ad essa l’uomo riscopre
per partecipazione il proprio valore come
valore assoluto e lo incarna nella responsabilità etica e socio-politica, oppure
l’assolutezza della persona non può che
essere meccanicamente trasferita nella
dimensione socio-politica e quindi alla
sua struttura organizzativa, che è lo Stato.
Ancora
una
volta
il
riferimento
all’episodio hobbesiano è assolutamente
chiarificante: la posizione antimetafisica
e antireligiosa di Hobbes non poteva non
sfociare necessariamente in una assolutizzazione della vita politica, e in particolare di quella struttura organizzativa di essa che è la realtà dello Stato. La ripresa
della metafisica, la possibilità di una fondazione rigorosa della persona come
‘partner’ di Dio, dà invece un fondamentale contributo ad un superamento dell’assolutismo e ad una ripresentazione dello Stato come struttura che consente il perseguimento del bene comune,
cioè l’insieme delle condizioni teoriche e
pratiche che rendono possibile nella storia l’esercizio della libertà singola od organizzata; libertà che è l’espressione obiettiva ed irriducibile del valore trascendente della persona. È evidente che la
metafisica, come metafisica della personalità creata, come metafisica della libertà, e della costruttività storica, dà oggi il suo contributo ad una rigorosa autolimitazione dello Stato. Lo Stato è chiamato ad organizzare una realtà sociale
più vasta di sé, e non può più cedere alla
tentazione «ideologica» di pensarsi come
società ‘tout-court’.
Il destino della persona si gioca dunque
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oggi in una rinnovata dialettica sociale;
la vita della società contiene ed esprime
tutta la creatività della persona, la creatività della famiglia, dei popoli, delle formazioni sociali che nascono nella storia
della dinamica comunicativa ed aggregativa fondamentale, che è la dinamica
di carattere religioso. Occorre riaprire
una dialettica fra società e Stato: dalla
parte della società si pone la persona, la
sua coscienza, la sua libertà, la sua responsabilità, la sua capacità di creazione; dall’altra si pone lo Stato come punto
di riferimento organico e come condizione storica per l’esercizio di questa libertà.
Non è più dunque la dialettica coscienza-Stato, coscienza-autorità cui ci
ha introdotti il pensiero hobbesiano e che
ci ha drammaticamente testimoniato la
linea di pensiero e gli avvenimenti del
mondo secolarizzato. Tale dialettica
sembra risolvibile soltanto nella negazione di uno dei due termini: o un anarchismo esasperato (la hobbesiana guerra
dell’uno contro tutti) o l’ordine di una realtà artificiale che nasce dalla soppressione dei diritti fondamentali del singolo.
Questa contrapposizione frontale che è il
filo rosso degli ultimi secoli di riflessione etico-politica e di esperienza sociale ha
oggi di fronte a sé un’altra possibilità,
quella di una sintesi organica ed ordinata
di due fattori irriducibili: persona e Stato.
La priorità della persona sulla struttura
dello
Stato,
cioè
la
priorità
dell’antropologia personale e sociale
sull’organizzazione del potere apre la
possibilità di una società a misura
d’uomo.
In sostanza oggi la metafisica può e deve
dare un suo contributo fondamentale ad
una nuova qualificazione del termine
democrazia; è finito il tempo di una democrazia puramente formale: è necessario andare al fondo della sostanza religiosa ed etica che qualifica l’ethos della
democrazia. La democrazia è un ethos, è
una possibilità di libera ed ordinata con-
vivenza di realtà personali e di formazioni
sociali, che possono anche avere caratterizzazioni culturali, religiose, sociali molto
diverse, ma delle quali nessuno deve o
può pretendere di coincidere con la forma della società.
Metafisica e libertà: metafisica come
possibilità di fondazione critica di una antropologia della libertà e della responsabilità storica, è oggi la condizione anche
per una democrazia che sia innanzitutto
un ethos, una forma, una caratterizzazione di carattere culturale, sociale ed etico; prima di essere un funzionamento od
un insieme di meccanismi di carattere
socio-politico. Abbiamo parlato di una
convergenza fra la tradizionale difesa
della persona, della sua libertà, della sua
responsabilità, della sua creatività storica
operata come resistenza dal soggetto
ecclesiale lungo il corso dell’età moderno-contemporanea; abbiamo parlato
del risveglio del senso religioso come di
una caratteristica fondamentale e, in
qualche modo stupefacente, dell’attuale
momento culturale; abbiamo parlato
della metafisica come di un necessario
raccordo fra tali due fattori. La metafisica
fornisce alla realtà ecclesiale una sua autentica e rigorosa capacità critica, così
come lo fornisce al senso religioso impedendo la degradazione dell’uno e
dell’altro a fenomeni parziali, ridotti, manipolabili dal contesto ideologico dominante.
La possibilità di incontro, di confronto, di
valorizzazione
e
di
dialogo
fra
l’avvenimento del cattolicesimo come risposta definitiva data dalla realtà di Dio
alla dimensione religiosa dell’uomo, con
le istanze religiose presenti nella società
una volta che sia assicurata una possibilità di rigorizzazione metafisica, tutto
questo costituisce un elemento di novità.
Nella voce e nella testimonianza di un
grande maestro del nostro tempo, si coglie la speranza certa di un «momento
nuovo» dell’uomo e per l’uomo: «La
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Chiesa con il suo cuore, che in sé comprende tutti i cuori umani, chiede allo Spirito Santo la felicità, che solo in Dio ha la
sua completa attuazione: la gioia che
‘nessuno potrà togliere’, la gioia che è
frutto dell’amore.
E, dunque, di Dio che è amore; chiede la
giustizia, la pace e la gioia nello ‘Spirito
Santo’ in cui, secondo S. Paolo, consiste il
Regno di Dio.
Anche la pace è frutto dell’amore: quella
pace interiore, che l’uomo affaticato
cerca nell’intimo del suo essere; quella
pace chiesta dall’umanità, dalla famiglia
umana, dai popoli, dalle nazioni, dai con-
tinenti, con una trepida speranza di ottenerla nella prospettiva del passaggio dal
secondo al terzo millennio cristiano.
Poiché la via della pace passa in definitiva attraverso l’amore e tende a creare la
civiltà dell’amore, la Chiesa fissa lo
sguardo in Colui che è l’amore del Padre
e del Figlio e, nonostante le crescenti minacce, non cessa di avere fiducia, non
cessa di invocare e di servire la pace
dell’uomo sulla terra»22.
A questa speranza certa - sostanziata di
preghiera - ha inteso introdurre il nostro
lavoro.
Note
Cfr. N. Bobbio, Da Hobbes a Marx, Morano, Napoli, 1965
L’insegnamento di questo giovane filosofo cecoslovacco, espressione lucida del movimento di
pensiero e di azione che ha determinato Charta 77 (manifesto del dissenso «laico» cecoslovacco),
è un punto di riferimento sostanziale per la riflessione che svolgiamo in queste pagine. Cfr. V. Belohradsky, II mondo della vita: un problema politico, Jaca Book, Milano 1981
3 La sollecitudine del Magistero della Chiesa nei confronti dell’uomo nel mondo modernocontemporaneo, che è stato oggetto dell’insegnamento del Concilio, ha trovato il suo sviluppo
coerente nel Magistero di Paolo VI e di Giovanni Paolo II. Il riferimento al Magistero di Papa Wojtyla
ha costituito un elemento essenziale per la nostra riflessione etico-politica. Per questo, cfr. L. Negri,
L’uomo e la cultura nel Magistero di Giovanni Paolo II, CSEO, Bologna 1983
4 Giovanni Paolo II, ai partecipanti al V Simposio del Consiglio delle Conferenze Episcopali
d’Europa, «La Traccia», a. III, p. 1131/IX
5 «L’evidenza è anzitutto un vissuto, un’esperienza personale che mostra una sua struttura universale; la crisi del razionalismo europeo deriva dal fatto che questa esperienza in cui qualche cosa mi
diventa chiaro è stata ‘brevi manu’ identificata con l’evidenza formale di tipo matematico. La nostra civiltà non diventerà mai autenticamente razionale ed universale finché non libererà
l’esperienza dell’evidenza dal suo imprigionamento oggettivistico e non tematizzerà esplicitamente la struttura del mondo della vita dato già sempre in ogni esperienza personale: un tale
compito costituisce il vero tema della vita filosofica, la missione irrinunciabile dell’intellettuale». V.
Belohradsky, op. cit., p. 17
6 AA.VV., Sulle ceneri dell’ideologia, La Casa di Matriona, Milano 1983, pp. 68-69. Consideriamo
questo volume di testimonianza sulla riscoperta della religiosità da parte delle giovani generazioni
russe, arrivato in Occidente nonostante la brutale repressione del potere sovietico, un libro capitale
per la comprensione dell’attuale momento etico e culturale.
7 Cfr. Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, La Liberazione. Istruzioni su: «Alcuni aspetti
della teologia della liberazione» e «Libertà cristiana e liberazione», Documenti n. 6, Litterae Communionis, Milano 1986.
8 In questo momento sembra essere significativa, anche se particolare, la polemica di Hobbes a livello giuridico: in difesa della esclusività del diritto positivo, cioè quello promulgato dallo Stato, nei
confronti di tutte le forme del cosiddetto diritto consuetudinario. Cfr. T. Hobbes, Dialogo fra un filosofo e uno studioso di diritto comune in Inghilterra, in Opere politiche di Thomas Hobbes, a cura di
N. Bobbio, Torino 1948.
9 Intendiamo con il termine laicismo, l’insieme di quegli orientamenti di pensiero in cui l’autonomia
1
2
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dell’uomo e la sua espressività culturale, storica e sociale è sostanzialmente pensata nei termini di
una rottura con il Trascendente.
In questo senso il laicismo è per noi sostanzialmente connesso con una posizione di tipo ateistico.
10 Alcuni autori sono da noi considerati essenziali punti di riferimento per l’articolazione della nostra
osservazione. Citiamo a puro titolo esemplificativo H. De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo,
Morcelliana, Brescia 1978. Cfr. R. Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il Potere, Morcelliana, Brescia 1984. Cfr. J. Lortz, Storia della Chiesa nello sviluppo delle sue idee, Edizioni Paoline, Alba 1967, 2
Voll. Cfr. A. Toynbee, Storia e religione, Rizzoli, Milano 1984. Cfr. U. Galeazzi, Laicità e laicismo, Città
Nuova, Roma 1984. Cfr. N. Bobbio, Stato, governo, società, Einaudi, Torino 1985.
11 Giovanni Paolo II, Messaggio di Natale 1978, in L. Negri, op. cit., p. 85.
12 J. Lortz, op. cit., Vol. II, p. 335.
13 V. Belohradsky, op. cit., pp. 19-21.
14 Osservazioni storicamente determinate, ma con un valore permanente per quanto concerne la
dinamica cristiana persona-struttura sociale, sono rintracciabili in uno studio fondamentale del Rahner. Cfr. H. Rahner, Chiesa e struttura politica nel cristianesimo primitivo, Jaca Book, Milano 1970.
Cfr. J. Höffner, La dottrina sociale cristiana, Edizioni Paoline, Roma 1979. Cfr. P. De Laubier, II pensiero sociale della Chiesa cattolica, Editrice Massimo, Milano 1986. Cfr. A. Fanfani, Capitalismo, socialità, partecipazione, Mursia, Milano 1976. Cfr. O. Giacchi, Lo Stato laico, Vita e Pensiero, Milano 1986
(III ristampa).
15 J. Lortz, op. cit., Vol. II, pp. 353-354.
16 Le linee fondamentali di una concezione autenticamente laica dello Stato sono andate formulandosi nella dottrina sociale della Chiesa dal Magistero di Leone XIII, caratterizzato da un fondamentale ripensamento della tradizione scolastica e si sono andate evolvendo, nella accettazione
delle varie «sfide» ricevute dai vari totalitarismi del XX secolo. Cfr. per questo De Laubier, op. cit..
17 «In questa separazione dello Stato dalla coscienza e dalla responsabilità personale bisogna cercare l’autentica origine del totalitarismo moderno; questo obiettivismo statalista che paralizza ogni
tentativo di una valutazione morale della politica costituzionale costituisce il massimo pericolo
dell’epoca moderna. La matematizzazione della natura e l’irruzione della tecnologia del potere
nella società sono pertanto i prodotti della nuova disciplina del sapere che pervade la vita quotidiana e mobilita tutte le facoltà umane al fine di accrescere il potere; la storia si separa dalla memoria e dalla coscienza religiosa e diventa anzitutto la storia dello Stato». V. Belohradsky, op. cit., p.
21.
Non si può non rilevare, anche se la questione dovrebbe essere ulteriormente analizzata, che in tale resistenza il Protestantesimo ha avuto un ruolo sostanzialmente equivoco. Il Protestantesimo ha
«ripensato» il Cristianesimo in termini «moderni» individualistici, soggettivistici, emozionali, negando
che la religione possa determinare in linea di diritto una autentica visione della realtà: il Protestantesimo non può non avallare in ultima istanza la concezione culturale e sociale. Per questo cfr. Max
Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1965. Cfr. Ernst Troeltsch, Le
dottrine sociali delle Chiese e dei gruppi cristiani, 2 Voll., La Nuova Italia, Firenze 1960. Cfr. Friedrich
Meinecke, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, Sansoni, Firenze 1970. Cfr. R. H. Tawney, La religione e la genesi del capitalismo, Feltrinelli, Milano 1967.
18 A titolo esemplificativo, cfr. Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, n. 17.
19 V. Belohradsky, op. cit., p. 15.
20 Anche a distanza di decenni rimangono determinanti le osservazioni di Padre H. De Lubac. Cfr.
H. De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1978 (ristampa).
21 Cfr. G. Bontadini, Metafisica e deellenizzazione, Vita e Pensiero, Milano 1975, pp. 16-34.
22 Giovanni Paolo II, Dominum et Vivificantem, n. 67.
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