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34 472/12
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta da
Ernesto Lupo
- Presidente -
Ord. n. sez. 9
Guido De Maio
CC - 19/04/2012
Claudia Squassoni
R.G.N. 43905/2011
Nicola Milo
- Relatore
Gennaro Marasca
Vincenzo Romis
Giovanni Conti
Franco Fiandanese
Margherita Cassano
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso proposto da
Ercolano Salvatore, nato a Catania il 12/01/1950
avverso l'ordinanza dei 13/09/2011 del Tribunale di Spoleto
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Nicola Milo;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona dei Sostituto Procuratore
generale Giuseppe Volpe, che ha concluso chiedendo l'annullamento senza rinvio
dell'ordinanza impugnata e la sostituzione della pena dell'ergastolo inflitta a
Salvatore Ercolano con sentenza della Corte di assise di appello di Catania in
data 10 luglio 2001, irrevocabile il 14 novembre 2003, con quella della reclusione
per anni trenta.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 18 luglio 1998 della Corte di assise di Catania,
Salvatore Ercolano era stato condannato alla pena dell'ergastolo con isolamento
diurno, perché dichiarato colpevole di due omicidi volontari e della connessa
violazione della normativa sulle armi.
Tale decisione era intervenuta in un momento nel quale non era consentito
l'accesso al giudizio abbreviato per i reati punibili con la pena dell'ergastolo: il
testo originario dell'art. 442, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen., che
pur prevedeva l'accesso al rito alternativo per tali reati, era stato, infatti,
dichiarato incostituzionale, per eccesso di delega, con sentenza n. 176 del 1991
della Corte costituzionale.
Nel corso del successivo giudizio d'appello, era entrata in vigore (2 gennaio
2000) la legge 16 dicembre 1999, n. 479, il cui art. 30, comma 1, lett. b), aveva
aggiunto, dopo il primo periodo del comma 2 dell'art. 442 cod. proc. pen., il
seguente: «Alla pena dell'ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni
trenta», reintroducendo così la possibilità per il soggetto imputato di reati
punibili con la pena perpetua di accedere al rito abbreviato.
L'Ercolano, avvalendosi della riapertura dei termini, disposta dall'ad 4-ter
della legge 5 giugno 2000, n. 144, di conversione del dl. 7 aprile 2000 n. 82,
alla udienza del 12 giugno 2000, prima udienza utile successiva alla data di
entrata in vigore (8 giugno 2000) della richiamata legge di conversione, aveva
chiesto procedersi con il rito alternativo, per effetto del quale, a quella data, la
pena dell'ergastolo, con o senza isolamento diurno, andava sostituita con quella
di anni trenta di reclusione.
Prima della conclusione del giudizio d'appello, però, era entrato in vigore il
d.l. 24 novembre 2000, n. 341 (convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4), il
cui art. 7, nel dichiarato intento di dare una interpretazione autentica ai secondo
periodo del comma 2 dell'art. 442 cod. proc. pen., disponeva che l'espressione
«pena dell'ergastolo» ivi adoperata doveva intendersi riferita all'ergastolo senza
isolamento diurna ed inseriva all'interno della stessa disposizione un terzo
periodo, secondo il quale «Alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, in caso
di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell'ergastolo».
La Corte di assise di appello di Catania, con sentenza del 10 luglio 2001
(irrevocabile il 14 novembre 2003), in applicazione di quanto previsto dal citato
art. 7 di. n. 341 del 2000, infliggeva all'Ercolano la pena dell'ergastolo.
2. Il Tribunale di Spoleto, quale giudice dell'esecuzione, con ordinanza del
13 settembre 2011, rigettava l'istanza del condannato finalizzata, ai sensi degli
2
artt. 666 e 670 cod. proc. peri., alla sostituzione della pena dell'ergastolo con
quella temporanea di trenta anni di reclusione.
Il condannato, a sostegno della propria istanza, dopo avere sottolineato che,
al momento della richiesta di giudizio abbreviato (12 giugno 2000), il testo
vigente dell'art. 442, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen., introdotto
dalla legge n. 479 del 1999, prevedeva la pena temporanea in luogo
dell'ergastolo (con o senza isolamento diurno), evocava i principi affermati con la
sentenza della Corte EDU 17/09/2009, Scoppola c. Italia, vale a dire la natura
sostanziale, con riferimento alla previsione del trattamento sanzionatorio, della
richiamata norma, l'illegittimità dell'applicazione retroattiva della sanzione più
severa prevista dal d.l. n. 341 del 2000, entrato in vigore il 24 novembre 2000,
la violazione del principio di legalità di cui all'art. 7 della Convezione europea dei
diritti dell'uomo e del diritto a un processo equo di cui al precedente art. 6 della
stessa Convenzione, per inferirne che era «necessario assicurare omogeneità e
coerenza nell'ambito dell'ordinamento costituito dal sistema multilivello del quale
il sistema convenzionale europeo fa parte insieme a quello degli Stati nazionali»
e che, conseguentemente, non doveva ritenersi precluso il potere del giudice
dell'esecuzione di modificare la pena irrogata dal giudice della cognizione,
dovendosi la sentenza della Corte di Strasburgo equiparare alla declaratoria
d'incostituzionalità sopravvenuta alla formazione del giudicato
e,
quindi,
rilevante anche in executivis.
Il Tribunale di Spoleto, nel disattendere tale istanza, si limitava a rilevare
che nessuna violazione del principio di legalità di cui all'art. 7 della CEDU era
stata accertata, nel caso specifico, dalla Corte EDU, sicché non era sopravvenuto
all'esecutività della condanna alcun fatto nuovo.
3. Ha proposto ricorso per cassazione, tramite i propri due difensori di
fiducia, l'Ercolano, denunciando la violazione della legge penale, con riferimento
agli artt. 6, 7 CEDU e 442 cod. proc. pen., nonché la mancanza, la
contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, per non avere il
giudice a quo dato risposta agli argomenti sottoposti alla sua attenzione, e
sollecitando, sulla base degli stessi argomenti, l'annullamento del provvedimento
impugnato.
4. Il Consigliere delegato dal Primo Presidente per l'esame preliminare dei
ricorsi pervenuti alla Prima Sezione penale, con nota dei 1° marzo 2012, ha
segnalato l'opportunità di assegnare il ricorso alle Sezioni Unite penali, stante la
speciale importanza delle questioni implicate.
3
5. Il Primo Presidente, con decreto in pari data, ha assegnato - a norma
dell'art. 610, comma 2, cod. proc. pen. - il ricorso alle Sezioni Unite, fissando
per la trattazione l'odierna udienza camerale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato assegnato alle Sezioni
Unite è la seguente: «Se il giudice dell'esecuzione, in attuazione dei principi
dettati dalla Corte EDU con la sentenza 17/09/2009, Scoppola c. Italia, possa
sostituire la pena dell'ergastolo, inflitta all'esito del giudizio abbreviato, con la
pena di anni trenta di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con
l'applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più
favorevole».
2. Tale quaestio iuris impone, innanzi tutto, di stabilire la rilevanza che
nell'ordinamento interno possono assumere, in deroga anche al giudicato, le
violazioni, accertate dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU), della Convenzione
europea dei diritti dell'uomo (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Ai sensi dell'art. 46 della CEDU, fatto oggetto di interpretazione estensiva da
parte della Corte di Strasburgo, le Alte Parti contraenti si impegnano a
conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte nelle controversie
nelle quali esse sono parti e al Comitato dei Ministri è affidato il compito di
vigilare sulla esecuzione di tali sentenze, con la conseguenza che lo Stato
convenuto ha l'obbligo giuridico di adottare, sotto il controllo del detto Comitato,
le misure generali e/o, se del caso, individuali per porre fine alla violazione
constatata, eliminarne le conseguenze e scongiurare ulteriori violazioni analoghe.
Quando la Corte EDU, alla quale è affidato il compito istituzionale di
interpretare e applicare la Convenzione (art. 32), accerta violazioni della stessa
connesse a problemi sistematici e strutturali dell'ordinamento giuridico nazionale
pone in essere una così detta «procedura di sentenza pilota», che si propone di
aiutare gli Stati contraenti a risolvere a livello nazionale i problemi rilevati, in
modo da riconoscere alle persone interessate, che versano nella stessa
condizione della persona il cui caso è stato già specificamente preso in
considerazione, i diritti e le libertà convenzionali, come dispone l'art. 1, offrendo
loro la riparazione più rapida, in tal modo alleggerendo il carico della Corte
sovranazionale, che, altrimenti, dovrebbe esaminare moltissimi ricorsi
sostanzialmente simili (Corte EDU, G.C., 22/06/2004, Bronlovvski c. Polonia, §§
188-194; 28/09/2005, stesse parti, §§ 34-35).
4
La giurisprudenza della Corte EDU, originariamente finalizzata alla soluzione
di specifiche controversie relative a casi concreti, si è caratterizzata nel tempo
«per una evoluzione improntata alla valorizzazione di una funzione paracostituzionale di tutela dell'interesse generale al rispetto del diritto oggettivo».
Sempre più frequentemente, infatti, le sentenze della Corte, nel rilevare la
contrarietà alla CEDU di situazioni interne di portata generale, danno indicazioni
allo Stato responsabile sui rimedi da adottare per rimuovere la rilevata
disfunzione sistemica nel proprio ordinamento interno.
La tecnica delle c.d. «sentenze pilota», affidata - dapprima - alla prassi in
difetto di una esplicita base normativa, è stata recentemente formalizzata nel
regolamento di procedura della Corte, emendato a tale scopo nel febbraio 2011 e
in vigore, per come modificato, dal 10 aprile 2011.
L'effettività dell'esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo è stata,
inoltre, accresciuta sensibilmente, sul piano internazionale, dall'entrata in vigore,
nel giugno 2010, del Protocollo n. 14 alla CEDU, il quale, modificando l'art. 46
della Convenzione, ha introdotto una procedura di infrazione, che
«giurisdizionalizza il meccanismo di supervisione sull'attuazione delle sentenze
della Corte», meccanismo certamente attivabile anche in caso di mancato
rispetto di «sentenza pilota».
La necessità degli ordinamenti interni di assicurare, anche a prescindere da
un intervento del giudice europeo sul caso concreto, il rispetto degli obblighi
convenzionali, così come già individuati dalla Corte EDU, di porre fine a
persistenti violazioni degli stessi e di prevenire nuove violazioni pone certamente
delicati problemi giuridici sulla tenuta di situazioni già definite con sentenze
passate in giudicato, ma in palese contrasto con i diritti fondamentali tutelati
convenzionalmente.
La Corte Costituzionale, con i principi cristallizzati - dapprima - nelle
storiche sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 e - successivamente - con le
sentenze n. 311 e n. 317 del 2009, n, 80 e n. 113 del 2011, ha chiarito gli effetti
prodotti dalle pronunce del giudice sovranazionale nel nostro ordinamento, nel
senso di una maggiore resistenza delle norme CEDU, nell'interpretazione datane
dalla Corte di Strasburgo, rispetto alle leggi ordinarie interne, che devono essere
interpretate, ove possibile, in maniera conforme alle prime.
Di fronte a pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e
generale, già in precedenza stigmatizzate in sede europea, il mancato
esperimento del rimedio di cui all'art. 34 CEDU (ricorso individuale) e la
conseguente mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte EDU cui
dare esecuzione non possono essere di ostacolo ad un intervento
dell'ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una
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situazione di illegalità convenzionale, anche sacrificando il valore della certezza
del giudicato, da ritenersi recessivo rispetto ad evidenti e pregnanti
compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona. La preclusione,
effetto proprio del giudicato, non può operare allorquando risulti pretermesso,
con effetti negativi perduranti, un diritto fondamentale della persona, quale
certamente è quello che incide sulla libertà: s'impone, pertanto, in questo caso di
emendare «dallo stigma dell'ingiustizia» una tale situazione.
3. La sentenza della Corte EDU, G.C., 17/09/2009, Scoppola c. Italia, che
viene in rilievo nel caso in esame, presenta i connotati sostanziali di una
«sentenza pilota», in quanto, pur astenendosi dal fornire specifiche indicazioni
sulle misure generali da adottare, evidenzia comunque l'esistenza, all'interno
dell'ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale dovuto alla non
conformità rispetto alla CEDU dell'art. 7 del d.l. n. 341 del 2000, nella
interpretazione datane dalla giurisprudenza interna.
Al paragrafo 147 la detta pronuncia, infatti, ribadisce quanto testualmente
affermato da Corte EDU, Broniowski, e cioè che «in forza dell'art. 46, le parti si
sono impegnate a rispettare le sentenze definitive della Corte in ogni caso in cui
sono state parti [...]. Da ciò consegue, inter alla, che una sentenza nella quale la
Corte ha individuato una violazione impone allo Stato resistente un obbligo
legale non solo di pagare alle persone indicate dalla Corte le somme da questa
stabilite a titolo di equa soddisfazione ai sensi dell'art. 41, ma anche di
individuare, sotto la supervisione del Comitato dei Ministri, le misure generali e,
se necessario, individuali da adottare nell'ordinamento giuridico interno per porre
fine alla violazione accertata dalla Corte e per eliminare per quanto possibile gli
effetti».
Eventuali effetti ancora perduranti della violazione, determinata da una
illegittima applicazione di una norma interna di diritto penale sostanziale
interpretata in senso non convenzionalmente orientato, devono dunque essere
rimossi anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso a
Strasburgo, si trovano in una situazione identica a quella oggetto della decisione
adottata dal giudice europeo per il caso Scoppola.
4.
Tale pronuncia, in particolare, nel tornare ad occuparsi dell'aspetto
contenutistico dell'art. 7 CEDU, affronta il delicato problema circa l'effettiva
articolazione dei principio ivi sancito, quanto alla successione delle leggi penali
nel tempo: se cioè detto principio ha una portata meramente negativa, quale
divieto cioè di applicazione retroattiva sia della norma incriminatrice sia di un
trattamento sanzionatorio più sfavorevole, ovvero se contiene anche un implicito
6
Cezi
riflesso positivo, costituito dalla esigenza di applicazione della legge
sopravvenuta più favorevole.
La Corte di Strasburgo, innovando la precedente giurisprudenza in senso
restrittivo (decisione della Commissione európea dei diritti dell'uomo,
06/03/1978, X c. Repubblica Federale Tedesca; decisioni della stessa Corte,
05/12/2000, Le Petit c. Regno Unito; 06/03/2003, Zaprianov c. Bulgaria),
delinea più precisamente i confini dello «statuto» della legalità convenzionale in
tema di reati e di pene.
Dopo avere svolto una preliminare ricognizione dell'orientamento
giurisprudenziale formatosi sull'art. 7 CEDU, con riferimento al principio nullum
crimen, nulla poena sine lege e alle nozioni di pena e di prevedibilità della legge
penale, afferma che la detta norma non garantisce soltanto il principio di non
retroattività delle leggi penali più severe, ma impone anche che, nel caso in cui
la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle
successive adottate prima della condanna definitiva siano differenti, il giudice
deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, con l'effetto
che, nell'ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, costituisce violazione
dell'art. 7, § 1, CEDU l'applicazione della pena più sfavorevole al reo.
La garanzia sancita da tale norma convenzionale, quale elemento
sostanziale della preminenza del diritto, assume un rilievo centrale nel sistema di
tutela della CEDU, come può evincersi dal successivo art. 15, che non prevede
alcuna deroga ad essa in tempo di guerra o in caso di altre pubbliche calamità.
A tale conclusione la Corte europea perviene tenendo conto dell'«evoluzione
della situazione nello Stato convenuto e negli Stati contraenti in generale» e
privilegiando, nell'interpretazione della Convenzione, un «approccio dinamico ed
evolutivo», che renda «le garanzie concrete ed effettive, e non teoriche ed
illusorie»; dà atto, peraltro, del «consenso a livello europeo e internazionale per
considerare che l'applicazione della legge penale che prevede una pena meno
severa, anche posteriormente alla commissione del reato, è divenuta un principio
fondamentale dei diritto penale».
La Corte europea, inoltre, ritiene che l'art. 442 cod. proc. pen., nella parte in
cui indica la misura della pena da infliggere in caso di condanna all'esito di
giudizio abbreviato, è norma di diritto penale sostanziale, che soggiace alle
regole sulla retroattività di cui al menzionato art. 7 CEDU. Ne consegue la
violazione di quest'ultima norma nel caso in cui non venga inflitta all'imputato la
pena più mite tra quelle previste dalle diverse leggi succedutesi dal momento del
fatto a quello della sentenza definitiva. Tale ultima precisazione, come
correttamente sottolineato dal Procuratore generale nella sua requisitoria, è
chiaramente riferita all'individuazione del termine entro il quale la modifica
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normativa in mitius del trattamento sanzionatorio deve essere intervenuta,
perché se ne ritenga l'applicabilità, e non certo al limite temporale entro il quale
la violazione della norma convenzionale può essere dedotta dinanzi al giudice
nazionale, non affrontando espressamente la Corte europea il tema della
preclusione del giudicato.
Nel caso esaminato, si sono succedute nel tempo tre diverse disposizioni di
legge: l'art. 442, comma 2, cod. proc. pen,, dopo la declaratoria
d'incostituzionalità nella parte in cui prevedeva la sostituzione dell'ergastolo con
la reclusione di anni trenta (sentenza n. 176 del 1991), precludeva, tra il 1991 e
il 1999, l'accesso al rito abbreviato per gli imputati di delitti punibili con
l'ergastolo; l'art. 30, comma 1, lett, b), della legge n. 479 del 1999, entrata in
vigore il 2 gennaio 2000, reintroduceva la previsione, nel caso di giudizio
abbreviato, della sostituzione della pena dell'ergastolo con quella della reclusione
di anni trenta; l'art. 7 del d.l. n. 341 del 2000, entrato in vigore il 24 novembre
2000 e convertito dalla legge n. 4 del 2001, stabilisce, in via di interpretazione
autentica, che «Nell'articolo 442, comma 2, ultimo periodo, del codice di
procedura penale, l'espressione "pena dell'ergastolo" deve intendersi riferita
all'ergastolo senza isolamento diurno» e aggiunge, in chiusura del comma 2, il
periodo «Alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di
reati e di reato continuato, è sostituita quella dell'ergastolo».
In via transitoria, peraltro, l'art. 8 del richiamato d.l. n. 341 del 2000, così
come sostituito in sede di conversione, consentiva a chi avesse formulato
richiesta di giudizio abbreviato nel vigore della sola legge n. 479 del 1999 di
revocare la richiesta entro un determinato termine, con conseguente
prosecuzione del processo secondo il rito ordinario.
Sulla base di tale quadro normativo, la Corte di Strasburgo, negando il
carattere di norma interpretativa dell'art. 7 del dl. n. 341 del 2000, ritiene che
Franco Scoppola, essendo stato ammesso al rito abbreviato nel vigore della
legge n. 479 del 1999, avrebbe avuto diritto, ai sensi dell'art. 7 CEDU così come
interpretato, a vedersi infliggere la pena di anni trenta di reclusione, più mite
rispetto sia a quella prevista (ergastolo con isolamento diurno) dall'art. 442 cod.
proc. pen. nel testo vigente al momento della commissione del fatto, sia a
quella prevista (ergastolo senza isolamento diurno) dall'art. 7 del dl. n. 341 del
2000, in vigore al momento del giudizio.
E' indubbio che tale precedente sovranazionale, censurando il meccanismo
processuale col quale si allega efficacia retroattiva all'art. 7, comma 1, del dl. n.
341 del 2000, qualificato come norma d'interpretazione autentica del testo
dell'art. 442 cod. proc. pen. come modificato dalla legge n. 479 dei 1999,
enuncia, in linea di principio, una regola di giudizio di portata generale, che, in
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quanto tale, è astrattamente applicabile a fattispecie identiche a quella
esaminata e, quindi, anche al caso che interessa l'attuale ricorrente, il quale,
avvalendosi della riapertura dei termini, aveva chiesto e ottenuto, nel corso del
giudizio d'appello (udienza 12/06/2000) e nel vigore della lex mitior n. 479 del
1999, l'accesso al giudizio abbreviato, ma la Corte di assise di appello gli aveva
riservato il più rigoroso trattamento sanzionatorio previsto dal d.l. n. 341 del
2000, entrato in vigore prima della conclusione del giudizio.
A conferma della portata di più ampio respiro della decisione della Corte
EDU sul caso Scoppola c. Italia, non è superfluo sottolineare che il Comitato dei
Ministri, nel dichiarare chiusa, con provvedimento de11 18 giugno 2011, la relativa
procedura di sorveglianza sull'esecuzione della sentenza, prendeva atto,
dichiarandosi soddisfatto, della nota con la quale l'Autorità italiana, in ordine alle
misure di carattere generale da adottare per situazioni analoghe, aveva precisato
di ritenere sufficiente la pubblicazione e la diffusione della sentenza ai Tribunali
competenti, in considerazione «degli effetti diretti concessi dai Tribunali italiani
alle sentenze della Corte europea e [...] delle possibilità offerte dalla procedura di
incidente di esecuzione a coloro che si trovino in situazioni uguali a quella del
richiedente nel caso in esame». Il Comitato dei Ministri individuava così con
chiarezza la strada da seguire in situazioni analoghe a quella del caso Scoppola.
5. Se dunque al nuovo e più ampio profilo di tutela del principio di legalità
convenzionale in materia penale enunciato dalla Corte EDU, all'esito
dell'approfondita operazione ermeneutica dell'art. 7 CEDU, deve attribuirsi una
valenza generale e, conseguentemente, un effetto vincolante per la soluzione di
casi identici, è agevole trarre la conclusione che l'avere inflitto al ricorrente
Ercolano, la cui posizione è sostanzialmente sovrapponibile a quella dello
Scoppola, la pena dell'ergastolo, anziché quella di trent'anni di reclusione,
sembra avere violato il suo diritto all'applicazione retroattiva (art. 7 CEDU) della
legge penale più favorevole, violazione che inevitabilmente si riverbera, con
effetti perduranti in fase esecutiva, sul diritto fondamentale della libertà.
Una tale situazione, anche a costo di porre in crisi il «dogma» del giudicato,
non può essere tollerata, perché legittimerebbe l'esecuzione di una pena
ritenuta, oggettivamente e quindi ben al di là della species facti, illegittima
dall'interprete autentico della CEDU e determinerebbe una patente violazione del
principio di parità di trattamento tra condannati che versano in identica
posizione.
Diverso è il caso di una pena rivelatasi illegittima, esclusivamente perché
inflitta all'esito di un giudizio ritenuto dalla Corte EDU non equo, ai sensi dell'art.
6 CEDU: in questa ipotesi, l'apprezzamento, vertendo su eventuali
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errores in
procedendo
e implicando valutazioni strettamente correlate alla fattispecie
specifica, non può che essere compiuto caso per caso, con l'effetto che il
giudicato interno può essere posto in discussione soltanto di fronte a un
vincolante dictum della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie.
Il caso in esame non è dissimile da ogni altra situazione in cui vi sia stata
condanna in forza di una legge penale dichiarata ex post, nella sua parte
precettiva o sanzionatoria, illegittima o comunque inapplicabile, perché in
contrasto con norme di rango superiore alla legge penale medesima.
Numerosi sono gli esempi nei quali la giurisprudenza delle massime Corti
nazionali ha avvertito la necessità di adeguare le pronunce dei giudici di
cognizione alle norme della CEDU nell'interpretazione datane dalla Corte di
Strasburgo e ha ritenuto, pertanto, di potere superare il principio della
intangibilità del giudicato, anche al di fuori delle ipotesi previste dal codice di
rito, tanto da pervenire, con la sentenza n. 113 del 2011 della Corte
Costituzionale, ad una declaratoria d'incostituzionalità dell'art. 630 cod. proc.
pen. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o
del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo,
per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU.
L'applicazione retroattiva nel giudizio di cognizione, celebratosi prima
dell'intervento interpretativo dell'art. 7 CEDU da parte della Corte di Strasburgo,
di una norma penale sostanziale di sfavore produce attualmente, essendo in
esecuzione la pena dell'ergastolo inflitta al ricorrente, una permanente lesione
dei diritti fondamentali di costui e l'ordinamento italiano, lo si ribadisce, non può
sottrarsi al dovere di rimuovere una simile situazione in forza dei principi
affermati da Corte EDU, Scoppola c. Italia, verificando logicamente, come meglio
si preciserà in seguito, la compatibilità con tali principi della normativa interna di
riferimento.
La crisi dell'irrevocabilità del giudicato è riscontrabile nell'art. 2, comma
terzo, cod. pen. (inserito dall'art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 85),
secondo cui la pena detentiva inflitta con condanna definitiva si converte
automaticamente nella corrispondente pena pecuniaria, se la legge posteriore al
giudicato prevede esclusivamente quest'ultima, regola questa che deroga a
quella posta invece dal quarto comma dello stesso art. 2 cod. pen. (primato
della !ex mitior, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile).
A tale novità normativa può essere accostato, in via analogica, il novum
dettato dalla Corte EDU in tema di legalità della pena: in entrambi i casi, è
l'esigenza imprescindibile di porre fine agli effetti negativi dell'esecuzione di una
pena contra legem a prevalere sulla tenuta del giudicato, che deve cedere, anche
in executivis, alla «più alta valenza fondativa dello statuto della pena».
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Tale principio, d'altra parte, è stato già affermato da Sez. 1,
n. 977 del
27/10/2011, dep. 13/01/2012, Hauohu, che ha ravvisato il potere del giudice
dell'esecuzione di rideterminare la pena inflitta a chi sia stato condannato per un
delitto aggravato dalla propria condizione di clandestinità ex art. 61 n. 11-bis
cod. pen., in seguito alla dichiarazione di incostituzionalità di tale aggravante
(sent. n. 249 del 2010), con eliminazione della frazione di pena in eccesso, da
considerarsi illegittima e, pertanto, non eseguibile.
In forza dello stesso principio, consolidato è l'orientamento giurisprudenziale
circa la possibilità di emendare, in sede esecutiva, l'illegalità della pena
accessoria inflitta con condanna irrevocabile (ex plurimis, Sez. 1, n. 38245 del
13/10/2010, Di Marco).
6. Le argomentazioni sin qui svolte evidenziano la centrale rilevanza che la
decisione della Corte EDU sul caso Scoppola assume per la valutazione della
posizione di Salvatore Ercolano.
S'impone, quindi, la verifica della compatibilità della normativa interna di
riferimento e, più esattamente, degli artt. 7 e 8 d.l. n. 341 del 2000, convertito
in legge n. 4 del 2001, con il principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7
CEDU, nella interpretazione datane dalla Corte europea.
Le sentenze della Corte di Strasburgo non sono in alcun modo equiparabili a
quelle della Corte di Giustizia del Lussemburgo, adita in via pregiudiziale o nel
contesto di una procedura di infrazione. In sostanza, il giudice ordinario non può
risolvere il contrasto tra legge interna e norma convenzionale evidenziato dalla
Corte di Strasburgo, provvedendo egli stesso a disapplicare la prima,
presupponendo ciò il riconoscimento di un primato delle norme contenute nella
Convenzione e/o delle sentenze della Corte EDU, analogo a quello conferito al
diritto dell'Unione Europea e alle sentenze della Corte di Giustizia, che incidono
direttamente nell'ordinamento nazionale e possono determinare addirittura la
disapplicazione delle norme interne eventualmente contrastanti.
La giurisprudenza costituzionale, a partire dalle richiamate sentenze n. 348
e n. 349 del 2007, è costante nel ritenere che «le norme della CEDU - nel
significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente
istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione (art. 32, § 1, della
Convenzione) - integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale
espresso dall'art.
117, comma primo, Cost., nella parte in cui impone la
conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti
dagli
obblighi
internazionali» (sentenze n. 113 e n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n, 138 del
2010; n. 317 e n. 311 del 2009; n. 39 dei 2008).
11
Il Giudice delle leggi - di fronte a prese di posizioni della giurisdizione
amministrativa circa un asserito inserimento nel diritto dell'Unione europea della
CEDU compiuto dall'art. 6, § 2, del Trattato sull'Unione europea, così come
modificato nel dicembre 2009 a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di
Lisbona del 13 dicembre 2007 (Cons. Stato, n. 1220 dei 02/03/2010; Tar Lazio,
n. 11984 del 18/05/2010) - ha ritenuto la perdurante validità della detta
ricostruzione pur dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
Con la sentenza n. 80 del 2011, infatti, la Corte costituzionale ha posto un
freno alla «fuga in avanti» dei giudici amministrativi, sottolineando che il
riferimento all'art. 6, § 2, T.U.E. è prematuro, nelle more dell'adesione dell'U.E.
alla CEDU, e precisando soprattutto che il richiamo alla CEDU operato dal diritto
dell'Unione viene in rilievo con esclusivo riguardo ai casi in cui il giudice italiano
deve valutare fattispecie che rientrano nell'ambito di applicazione del diritto
dell'Unione.
La Consulta ha anche chiarito (sentenza n. 311 del 2009, richiamata nella
sentenza n. 236 dei 2011) che «l'art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare
l'espressione "obblighi internazionali" in esso contenuta, si riferisce alle norme
internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione
degli artt. 10 e 11 Cost.. Così interpretato, l'art. 117, primo comma, Cost., ha
colmato la lacuna prima esistente rispetto alle norme che a livello costituzionale
garantiscono l'osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è
che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in
particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell'art. 117, primo comma,
Cost.».
Profilandosi un contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU,
però, «il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la
praticabilità di una interpretazione della prima conforme alla norma
convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica»
(sentenze n. 113 del 2011, n. 93 dei 2010, n. 311 e n. 239 del 2009). L'esito
negativo di tale verifica e il contrasto non componibile in via interpretativa
impongono al giudice ordinario - che non può disapplicare la norma interna né
farne applicazione, per il ritenuto contrasto con la CEDU e quindi con la
Costituzione - di sottoporre alla Consulta la questione di legittimità costituzionale
in riferimento all'art. 117, comma primo, Cost. (sentenze n. 113 del 2011, n. 93
del 2010 e n. 311 del 2009), attraverso un rinvio pregiudiziale, con la
conseguenza che l'eventuale operatività della norma convenzionale, così come
interpretata dalla Corte di Strasburgo, deve passare attraverso una declaratoria
d'incostituzionalità della normativa interna di riferimento o, se del caso,
l'adozione di una sentenza interpretativa o additiva.
12
Competerà, inoltre, al Giudice delle leggi, ove accerti il denunciato contrasto
tra norma interna e norma della CEDU, non risolvibile in via interpretativa,
verificare se la seconda, che si colloca pur sempre ad un livello
sub-
costituzionale, si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Carta
fondamentale, ipotesi questa che condurrà ad escludere l'idoneità della norma
convenzionale a integrare il parametro costituzionale considerato (sentenze n.
303 e n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 del 2009, n. 349 e n. 348 del
2007).
7. Tenuto conto che, alla luce di quanto argomentato, sulla decisione del
presente ricorso incide, in maniera determinante, l'applicazione delle norme di
cui agli artt. 7 e 8 d.l. n. 341 dei 2000, s'impone la verifica della compatibilità di
tale normativa interna con il principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7
CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU.
Seguendo le scansioni metodologiche indicate dai Giudice delle leggi, devesi
preventivamente verificare la praticabilità di una interpretazione
convenzionalmente orientata della normativa interna.
Ritiene la Corte che non vi sono spazi per una interpretazione conforme alla
Convenzione delle disposizioni degli artt. 7 e 8 d.l. n. 341 del 2000, dalla cui
applicazione è derivata e tuttora deriva la violazione del diritto fondamentale del
condannato all'operatività della legge più favorevole (art. 7 CEDU), individuabile,
nel caso specifico, nell'art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999, il solo
in vigore nell'arco temporale 2 gennaio-24 novembre 2000, quando cioè fu
formulata e accolta la richiesta in data 12 giugno 2000 di accesso al rito
abbreviato. Tale violazione ha inciso in termini peggiorativi e con effetti
perduranti sul trattamento sanzionatorio previsto, in caso di rito semplificato, per
i reati punibili con la pena dell'ergastolo.
Il Capo III del d.l. n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 4 del 2001, è intitolato «Interpretazione autentica dell'art. 442 comma 2 del
codice di procedura penale e disposizioni in materia di giudizio abbreviato nei
processi per i reati puniti con l'ergastolo».
L'art. 7, comma
1,
inserito nel detto Capo stabilisce, infatti, che
l'espressione «pena dell'ergastolo», contenuta nell'art. 442, comma 2, ultimo
periodo, cod. proc. pen., «deve intendersi riferita all'ergastolo senza isolamento
diurno»; lo stesso articolo 7, al comma 2, che è in logica coordinazione col
comma 1, stabilisce che la pena dell'ergastolo con isolamento diurno è sostituita
con quella dell'ergastolo.
La chiara intenzione del legislatore si evince dal contenuto della Relazione
governativa al decreto, nella quale si precisa che la disposizione intende
13
risolvere, in via interpretativa, i dubbi circa l'applicabilità della disciplina sul
giudizio abbreviato ai casi in cui, stante il concorso di reati, alla pena
dell'ergastolo debba aggiungersi anche la sanzione dell'isolamento diurno.
Si è di fronte, quindi, ad una legge che il legislatore qualifica come
interpretativa, con l'effetto che la norma interpretante non fa venire meno la
norma interpretata, ma l'una e l'altra si saldano tra loro, dando luogo ad
un
precetto normativo unitario.
La
legge interpretativa,
non
normativamente considerata,
può
sostanzialmente ritenersi posteriore a quella interpretata, ma "coeva" alla
stessa, nel senso che comincia ad esistere ed opera - sempre sotto il profilo
normativo - come se fosse stata emanata congiuntamente alla legge
precedente. Ne consegue che la legge interpretativa, in quanto materialmente
successiva nel tempo a quella interpretata, ha efficacia retroattiva in deroga al
principio di irretroattività della legge in generale, fissato dall'art. 11 delle
preleggi.
La retroattività della legge interpretativa rimane logicamente circoscritta nel
tempo, nel senso che essa non può retroagire oltre «il termine
a qua» della
legge interpretata, ma «rimane ristretta» al tempo di quest'ultima.
E' il caso di sottolineare che, in coerenza con la dichiarata natura
interpretativa della norma di cui all'art, 7 d.l. n. 341 del 2000, il successivo art.
8, come sostituito in sede di conversione, prevede la facoltà per l'imputato, sia in
sede di udienza preliminare che in sede dibattimentale, di revocare la richiesta di
giudizio abbreviato nei casi in cui è applicabile o è stata applicata la pena
dell'ergastolo con isolamento diurno, con l'effetto che, in mancanza di revoca,
saranno applicabili le nuove disposizioni di cui al precedente art. 7, il che
conferma l'efficacia retroattiva attribuita dal legislatore alle medesime.
La natura formalmente interpretativa dei richiamato art. 7, il suo testo
letterale, la disciplina transitoria di cui al successivo art. 8 non legittimano una
interpretazione di tali disposizioni in linea con il principio di legalità
convenzionale: nulla induce a ritenere, infatti, che le stesse, in coerenza con tale
principio, non sarebbero applicabili per il passato e, più esattamente, in tutte
quelle ipotesi in cui, nel vigore della legge n. 479 del 1999, vi sia stata, come
nella specie, richiesta di giudizio abbreviato, nella prospettiva di beneficiare, in
caso di condanna, del più mite trattamento sanzionatorio previsto per i reati
puniti con l'ergastolo.
Effetto proprio della interpretazione autentica è, come è stato osservato, «di
avere un'autorità imperativa e generale», il comando in essa contenuto ha
valenza incondizionata, trattasi di «norma di diritto oggettivo», che, «coincida o
no coll'effettivo contenuto della disposizione a cui si riferisce», obbliga
14
formalmente l'interprete ad adeguarvisi, senza alcuna possibilità d'individuare
spazi ermeneutici ulteriori e alternativi a quelli indicati dal legislatore.
8. L'esito negativo della verifica circa la praticabilità di una interpretazione
della normativa interna conforme all'art. 7 CEDU, nell'interpretazione datane
dalla Corte di Strasburgo, e l'insanabile contrasto tra dette norme a confronto
impongono di sottoporre al Giudice delle leggi, non apparendo manifestamente
infondata, la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e
117, comma primo, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU, degli artt. 7
e 8 d.l. n. 341 del 2000, convertito dalla legge n. 4 del 2001, nella parte in cui
tali disposizioni interne operano retroattivamente e, più specificamente, in
relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio
abbreviato nella vigenza della sola legge n. 479 del 1999, sono stati giudicati
successivamente, quando cioè, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000
(pubblicazione della Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell'art. 2 r.d. n. 1252 del 7
giugno 1923), era entrato in vigore il citato decreto legge, con conseguente
applicazione del più sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto dal
medesimo decreto.
9. Viene in rilievo il problema della distinzione tra legge autenticamente
interpretativa, che si limita a indicare il vero significato dei
verba della legge
preesistente, e legge che, pur dichiarata formalmente interpretativa, si rivela
invece innovativa, perché intacca antinomicamente la
ratio
della legge
interpretata.
Soltanto nel primo caso, può allegarsi alla legge interpretativa efficacia
retroattiva nel senso più sopra chiarito, perché si limita ad assegnare alla
disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come
una delle sue possibili letture, con le finalità di chiarire «situazioni di oggettiva
incertezza del dato normativo», di «ristabilire un'interpretazione più aderente
all'originaria volontà del legislatore» e di garantire, quindi, la certezza del diritto
e l'uguaglianza dei cittadini, principi - questi - di preminente interesse
costituzionale, che rendono la legge interpretativa conforme alla Carta
fondamentale (Corte Cost. sentenze n. 78 del 2012; n. 271 e n. 257 del 2011; n.
209 del 2010; n. 311 e n. 24 del 2009).
Nel secondo caso, la legge che, al di là del dato enunciativo, innova la
precedente non può che valere per l'avvenire, opponendosi all'efficacia
retroattiva la tutela di valori fondamentali di civiltà giuridica, quali il rispetto dei
principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre
ingiustificate disparità di trattamento, la tutela dell'affidamento che è
15
connaturato allo Stato di diritto, la coerenza e la certezza dell'ordinamento
giuridico, il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere
giudiziario (Corte Cost. sentenze n. 78 del 2012; n. 209 del 2010).
Ciò posto, ritengono le Sezioni Unite che la c.d. «interpretazione autentica
dell'art. 442 comma 2 del codice di procedura penale», operata dall'art. 7 d.l. n.
341 del 2000, rientra nella seconda categoria di norme.
Non sembra, infatti, che il testo dell'art. 442, comma 2, secondo periodo,
cod. proc. pen., così come introdotto dalla legge n. 479 del 1999, evidenziasse,
nella sua generica formulazione, alcuna ambiguità interpretativa: la pena
dell'ergastolo (con o senza isolamento diurno) doveva essere sostituita, in caso
di giudizio abbreviato, con la reclusione di anni trenta. Non può
conseguentemente allegarsi al contenuto dell'art. 7 d.l. n. 341 del 2000 la mera
valenza di una possibile variante di significato del testo della norma
asseritamente interpretata.
La stessa Relazione governativa al dl.
n.
341 del 2000 riconosce
implicitamente ciò, nei momento stesso in cui sottolinea che il testo normativo
preesistente determinava, in modo del tutto irragionevole, «l'appiattimento verso
il basso della sanzione applicabile in caso di concorso di reati o di reato
continuato» e la conseguente equiparazione del «trattamento sanzionatorio
applicabile ad un solo delitto punito con l'ergastolo rispetto a quello relativo ad
una serie, virtualmente illimitata, di delitti punibili con l'ergastolo».
Il legislatore del 2000, in realtà, come si è osservato in dottrina, ha inteso
porre rimedio a tale insoddisfacente disciplina e, per incidere immediatamente
sui processi in corso aventi ad oggetto gravi fatti omicidiari, ha optato per la
legge interpretativa, anche se non v'era alcun effettivo problema ermeneutico da
risolvere, «ma semplicemente l'esigenza, favorita da fattori politico-emozionali,
di diversificare il trattamento sanzionatorio in relazione alla pluralità o unicità di
imputazioni importanti l'ergastolo».
Il giudice ordinario, però, non può recepire acriticamente la dichiarata
natura interpretativa dell'art. 7 d.l. n. 341 del 2000, il quale, in realtà, innova la
disciplina del giudizio abbreviato per i reati punibili con la pena dell'ergastolo e,
non presentando un carattere polisenso che possa fare dubitare della sua
univoca efficacia retroattiva, non lascia spazio, per le ragioni esposte, ad una
interpretazione adeguatrice, utilizzando i canoni ermeneutici codicistici.
Lo strumento di normazione interpretativa è stato, in generale, ritenuto
legittimo dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 525 del 2000), ma non
è consentito al legislatore di abusare di tale strumento intervenendo
retroattivamente, in maniera autoreferenziale, «su rapporti processuali aventi
diretti riflessi sul trattamento sanzionatorio».
16
Il giudice, tuttavia, chiamato ad applicare una legge di interpretazione
autentica, non può ritenere la violazione dei limiti all'ammissibilità e alla efficacia
retroattiva della stessa, qualificarla come innovativa, circoscriverne
temporalmente, in contrasto con la sua ratio ispiratrice, l'area operativa, finendo
così, in sostanza, per disapplicarla.
L'autorità imperativa e generale della legge impone, come si è detto,
all'interprete di adeguarvisi, il che delinea il confine in presenza del quale ogni
diversa operazione ermeneutica deve cedere il passo al sindacato di legittimità
costituzionale.
10. Non va sottaciuto, per rimanere aderenti alla fattispecie in esame, che
gli aspetti processuali propri del giudizio abbreviato sono strettamente collegati
con aspetti sostanziali, dovendosi tali ritenere quelli relativi alla diminuzione o
alla sostituzione della pena, profilo questo che si risolve indiscutibilmente in un
trattamento penale di favore.
La richiesta di giudizio abbreviato cristallizza il trattamento sanzionatorio
vigente al momento di essa, con l'effetto che una norma sopravvenuta di sfavore
non può retroattivamente deludere e vanificare il legittimo affidamento riposto
dall'interessato nello svolgimento del giudizio secondo le più favorevoli regole in
vigore all'epoca della scelta processuale.
Obbligata, pertanto, è la via dell'incidente di costituzionalità.
La norma di cui all'art. 7 e, di riflesso, quella di cui al successivo art. 8 d.l.
n. 341 del 2000, con la loro efficacia retroattiva, sembrano essere in contrasto,
in primo luogo, con il parametro di cui all'art. 117, comma primo, Cost., nella
parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti
dagli obblighi internazionali, e quindi con la norma interposta di cui all'art. 7
CEDU, che delinea, secondo l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo,
un nuovo profilo di tutela dei principio di legalità convenzionale in materia
penale: non solo la irretroattività della legge penale più severa, principio già
contenuto nell'art. 25, comma secondo, Cost., ma anche, e implicitamente, la
retroattività o l'ultrattività della
lex mitior,
in quanto va ad incidere sulla
configurabilità del reato o sulla specie e sull'entità della pena e, quindi, su diritti
fondamentali della persona.
La citata normativa interna sembra, inoltre, contrastare anche con l'art. 3
Cost., perché, facendo retroagire la disciplina in essa prevista, non rispetterebbe
il canone generale di ragionevolezza delle norme e il principio di eguaglianza.
Interviene, infatti, sull'art. 442, comma 2, ultimo periodo, cod. proc. pen., nella
versione risultante dalla legge n. 479 del 1999, in assenza - come si è detto - di
una situazione di oggettiva incertezza di tale dato normativo di riferimento, al
17
is
quale nettamente deroga, innovandolo rispetto al testo previgente; tradisce il
principio dell'affidamento, connaturato allo Stato di diritto, legittimamente sorto
nel soggetto al momento della scelta del rito alternativo, regolato da norma più
favorevole; determina ingiustificate disparità di trattamento, affidate
casualmente ai variabili tempi processuali, tra soggetti che versano in una
identica posizione sostanziale.
Conclusivamente, è proprio l'applicazione retroattiva in malam partem della
c.d. legge interpretativa a determinare la violazione del diritto del soggetto
interessato all'operatività, invece, della legge più mite tra quelle succedutesi
nell'arco temporale 2 gennaio-24 novembre 2000, in presenza del presupposto
processuale rappresentato dalla richiesta del rito abbreviato effettuata nello
stesso periodo, e a legittimare i dubbi di costituzionalità della medesima legge
interpretativa.
11. La questione di costituzionalità che si solleva con la presente ordinanza
è senza dubbio rilevante, considerato che, come innanzi precisato, la decisione
della vicenda in esame dovrebbe comportare l'applicazione dell'art. 7 dl. n. 341
del 2000 e non potrebbe prescindere dai riflessi che su tale norma spiega anche
quella transitoria di cui al successivo art. 8, come sostituito in sede di
conversione dalla legge n. 4 del 2001. Sussiste, quindi, un rapporto di
strumentalità necessaria tra la risoluzione della questione di costituzionalità e la
definizione dell'attivato incidente di esecuzione.
Anche in questo, infatti, assumono peculiare rilievo i canoni di
ragionevolezza e di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., nonché il principio di
legalità convenzionale di cui all'art. 7 CEDU, quale imprescindibile presidio a
tutela di diritti fondamentali della persona e dato interposto che integra il
parametro costituzionale espresso
dall'art.
117, comma primo, Cost., non
essendo proponibile, come si è precisato, una interpretazione della normativa
nazionale in senso conforme a tale principio.
L'eventuale dichiarazione di incostituzionalità delle norme interne innanzi
citate, avendo una forza invalidante ex tune, la cui portata, già implicita nell'art.
136 Cost., è chiarita dall'art. 30 legge 11 marzo 1953 n. 87, inciderebbe
sull'esecuzione ancora in corso della pena illegittimamente inflitta al ricorrente in
applicazione della più severa norma penale sostanziale, sospettata, nella parte
relativa alla sua efficacia retroattiva, di essere in contrasto con la Carta
fondamentale.
L'art. 30, comma quarto, legge n. 87 del 1953 dispone che, quando in
applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza
irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali. Ne
18
consegue che, nel caso di dichiarazione di incostituzionalità di una norma penale
sostanziale, la tutela della libertà personale si unisce alla forza espansiva della
dichiarazione di incostituzionalità e travolge anche il giudicato, con effetti diretti
sull'esecuzione, ancora in atto, della condanna irrevocabile.
Il richiamato art. 30, comma quarto, legge n. 87 del 1953 ha un campo di
operatività più esteso rispetto a quello dell'art. 673 cod. proc. pen..
Quest'ultima fa riferimento alle sole norme che prevedono specifiche
fattispecie incriminatrici e stabilisce che, in caso di abrogazione o di dichiarazione
di illegittimità costituzionale delle stesse nella loro interezza, il giudice
dell'esecuzione, nel revocare la sentenza di condanna, deve dichiarare che il
fatto non è previsto dalla legge come reato e adottare i conseguenti
provvedimenti. Trattasi, pertanto, di norma non utilizzabile nel caso di specie.
Sembra utilizzabile, invece, l'art. 30, comma quarto, legge n. 87 del 1953,
che ha una portata di più ampio respiro, nel senso che impedisce anche
l'esecuzione della pena o della frazione di pena inflitta in base alla norma
dichiarata costituzionalmente illegittima sul punto, senza coinvolgere il precetto,
e ciò in coerenza con la funzione che la pena, ex art. 27 Cost., deve assolvere
dal momento della sua irrogazione a quello della sua esecuzione (Sez. 1, n. 977
del 27/10/2011, dep. 13/1/2012, Hauohu). Trattasi di disposizione che,
derogando al principio dell'intangibilità del giudicato, va ad incidere su una
situazione esecutiva non ancora esaurita.
Ove la prospettata questione di costituzionalità sia ritenuta fondata, il
principio di retroattività/ultrattività della lex mitior che definisce i reati e le pene,
riconosciuto dall'art. 7 CEDU, non incontrerebbe ostacoli di operatività, anche in
executivis, nell'ordinamento nazionale, che agevolmente si armonizzerebbe con
tale principio, proprio facendo leva sulle disposizioni in materia di successione
nel tempo delle leggi penali sostanziali e sull'art. 30, comma quarto, legge n. 87
del 1953.
Quest'ultima disposizione, infatti, al pari della previsione di cui all'art. 2,
comma 3, cod. pen. (inserito dall'art. 14 legge n. 85 del 2006), si pone come
eccezione alla regola di cui al comma quarto del medesimo art. 2, secondo la
quale si applica al reo la disposizione più favorevole, salvo che sia stata
pronunciata sentenza irrevocabile, e legittima quindi il superamento del giudicato
di fronte alle primarie esigenze, insite nell'intero sistema penale, di tutelare il
diritto fondamentale della persona alla legalità della pena anche in fase esecutiva
e di assicurare parità di trattamento tra i condannati che versano in una identica
situazione.
19
12. Gli atti , pertanto, devono essere trasmessi alla Corte Costituzionale, per
la risoluzione della questione di legittimità costituzionale sollevata, di ufficio, nei
termini innanzi precisati, e il giudizio in corso deve, conseguentemente, essere
sospeso.
La Cancelleria provvederà agli adempimenti in dispositivo precisati.
P.Q.M.
Dichiara, d'ufficio, rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 del decreto-legge 24 novembre 2000,
n. 341, convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, in riferimento agli artt. 3 e
117, comma primo, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU.
Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e
sospende il giudizio in corso.
Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al
ricorrente, al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, al Presidente
del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del
Parlamento.
Così deciso il 19 aprile 2012.
Il Co
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Il Presidente
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Depositato in Cancelleria
il
I O S ET, 2012
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