LA VALUTAzIONE DEI CESPITI NEL BILANCIO CIVILISTICO

Renato Rodorf*
La valutazione dei cespiti nel bilancio
civilistico
Sommario: 1. Premessa – 2. Il criterio del costo nell’iscrizione delle immobilizzazioni – 3.
Casi particolari di acquisto: a) simulazione del prezzo; b) permuta; c) conferimento; d)
acquisto a titolo gratuito – 4. Gli ammortamenti – 5. La svalutazione delle immobilizzazioni – 6. Beni in leasing – 7. Partecipazioni, strumenti finanziari ed azioni proprie, attività in valuta – 8. Immobilizzazioni immateriali: oneri pluriennali ed avviamento – 9. Le
rimanenze: merci, attrezzature e materie prime, lavori in corso – 10. Crediti e debiti
1. Premessa
Il bilancio d’esercizio è un insieme ordinato e ragionato di dati, che in parte semplicemente rispecchiano la realtà storica delle operazioni compiute dalla
società nel corso del periodo considerato e la situazione che ne risulta, in altra
parte sono espressione di valutazioni compiute dal redattore del bilancio, ed in
altra parte ancora di previsioni del medesimo redattore in ordine ad eventi o
prospettive a venire.
L’aspetto valutativo e previsionale costituisce, come è agevole comprendere, la
parte più delicata della redazione di un bilancio e, soprattutto, quella più esposta
a scelte soggettive o, magari opinabili, quella che perciò maggiormente si presta
ad un uso strumentale della contabilità d’impresa: non unicamente finalizzata,
come dovrebbe, a fornire una rappresentazione il più possibile chiara, veridica
e corretta della realtà patrimoniale, economica e finanziaria della società, ma
talvolta invece piegata alla realizzazione di scopi contingenti, ossia, come si suol
dire, alla realizzazione di una “politica di bilancio”.
La preoccupazione di evitare che siffatti rischi si concretizzino e determinino
la conseguente inattitudine del bilancio a fornire ai soci ed al mercato quelle informazioni attendibili e comparabili delle quali sia gli uni che l’altro necessitano,
ha indotto il legislatore – tanto in ambito europeo quanto in ambito nazionale
– a dettare una serie di disposizioni di natura imperativa. Queste disposizioni
hanno anzitutto lo scopo di assicurare al bilancio il massimo possibile di trasparenza e di leggibilità, prescrivendo obblighi di motivazione (che soprattutto
si riflettono nella nota integrativa e nella relazione degli amministratori), tanto
più essenziali quanto maggiore è il tasso di discrezionalità tecnica da cui sia
accompagnata l’iscrizione di una determinata posta in bilancio. Altre disposizioni cogenti, pur lasciando spesso aperte non poche opzioni al proprio interno,
concernono direttamente i criteri di valutazione al fine di garantirne una certa
(almeno relativa) omogeneità.
Tali ultime regole – che si collocano, per così dire, nel cono d’ombra dei
principi e dei criteri generali di redazione, al cui rispetto esse appaiono al tempo
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stesso subordinate e funzionali – sono espresse dagli articoli da 31 a 42 della
Quarta direttiva Cee (direttiva n. 78/660, recentemente modificata dalle direttive
n. 2001/65, n. 2003/51 e n. 2003/38), cui è stata data attuazione con il d.lgs n.
127 del 1991, che ha rimaneggiato il testo originario degli arte. 2423 e segg.
c.c., poi in parte ancora modificati dal d.lgs. n. 6 del 2003 e dal d.lgs n. 394
del 2003.
Occorre peraltro avvertire che il panorama della regolamentazione legale dei
bilanci di società, anche con specifico riguardo alle norme in tema di valutazione, è assai più frastagliato di quanto il solo riferimento ai citati articoli
del codice potrebbe far supporre. Non mi riferisco solo ai bilanci consolidati,
anch’essi disciplinati in Italia dal d.lgs n. 127 del 1991, ma allo stesso bilancio
d’esercizio, che, per diverse società svolgenti particolari attività, è soggetto a disposizioni di leggi speciali (il d.lgs. n. 87 del 1992, per le società bancarie, cui
sono a questo fine equiparate quelle che gestiscono fondi comuni d’investimento,
le società finanziarie poste a capo di gruppi creditizi, le società di intermediazione mobiliare, le società di factoríng, gli intermediari, le società ed enti che
svolgono attività finanziaria; il d.lgs. n. 173 del 1997, per le imprese di assicurazione; il dl. n. 545 del 1996, convertito con modificazioni nella l. n. 650 del
1996, che ha introdotto alcune norme disciplinanti i bilanci delle società che
operano in campo editoriale, della radiofonia e dell’emissione televisiva, ecc.).
V’è poi da tener conto, per l’intero comparto delle società quotate, delle importanti novità introdotte dal Regolamento Cee n. 1606 del 2002, in base alle quali
è stata prescritta dall’art. 25 della l. n. 306 del 2003, a partire dall’anno 2005,
l’adozione dei principi contabili internazionali nella reazione dei bilanci d’esercizio (e consolidati) di dette società. Obbligo esteso anche a tutte le società con
titoli diffusi tra il pubblico, alle banche ed agli intermediari finanziari; mentre
per le restanti società non quotate (eccezion fatta per quelle cui è consentita
la redazione del bilancio in forma abbreviata) l’adozione dei principi contabili
internazionali sarà meramente facoltativa.
La presente relazione avrà peraltro ad oggetto unicamente i criteri legali di
valutazione delle poste di bilancio quali stabiliti dal codice civile, perché l’ampliamento alla legislazione speciale ed ai principi contabili internazionali rischierebbe di eccedere ogni ragionevole limite di tempo e di spazio.
2. Il criterio del costo nell’iscrizione delle immobilizzazioni
Quando finalmente, con il citato d.lgs. n. 127 del 1991, il legislatore italiano
si è deciso a dare attuazione alla Quarta direttiva comunitaria sui conti annuali
delle società, emanata ben tredici anni prima, la scelta di fondo in tema di valutazione legale dei cespiti da iscrivere in bilancio è stata di segno sostanzialmente
conservatore. L’art. 33 della direttiva apriva, in verità, la possibilità d’introdurre
un sistema di valutazioni improntato ai principi della contabilità da inflazione
(a quel tempo – si ricordi – ancora assai elevata) o comunque tale da consentire
la rivalutazione delle immobilizzazioni materiali e finanziarie o di attualizzare il
valore delle scorte tenendo conto del prezzo di sostituzione. La stessa direttiva,
peraltro, prospettava siffatte possibilità in termini di eccezione, o comunque di
deroga ad una regola generale che, in via dì principio, restava per la maggior
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parte dei cespiti quella della valutazione in base al costo storico. Da questa via
maestra il nostro legislatore non ritenne opportuno allontanarsi e perciò non si
avvalse affatto, allora, delle pur timide aperture che la direttiva lasciava intravedere in direzione diversa.
Nell’impostazione del codice (pur con le sopravvenute attenuazioni di cui poi
si dirà) il criterio del costo continua, quindi, a fungere da base per gran parte
delle valutazioni di bilancio, ed in specie per le immobilizzazioni, sul presupposto che esso sia il più adatto a fornire, se non un indicatore attendibile del valore
che il mercato riconosce ad un bene considerato, quanto meno un parametro
sufficientemente riconoscibile ed uniforme, come tale perciò meno suscettibile di
arbitrarie manipolazioni soggettive. Anche se, occorre aggiungere, il costo funziona più come limite che come vero e proprio criterio fisso, perché – come poi
meglio si vedrà – è pur sempre fatto obbligo agli amministratori d’iscrivere in
bilancio le immobilizzazioni per un ammontare minore ogni qual volta (e fino
a quando) il relativo valore di mercato risulti durevolmente inferiore al costo.
Il costo rappresenta, dunque, come espressamente indica l’art. 2426, n. 1,
c.c., la misura di riferimento cui anzitutto occorre guardare nella valutazione
in bilancio delle immobilizzazioni. Ed è quasi superfluo precisare che, per immobilizzazioni, non si intendono qui i beni immobili, come definiti dall’art. 812
c.c., bensì ogni elemento patrimoniale destinato ad essere utilizzato durevolmente
(art. 2424-bis, primo comma, c.c.), ivi compresi, perciò, sia le immobilizzazioni
materiali, sia quelle immateriali, che quelle finanziarie, come indicato nella lett.
B della struttura dello stato patrimoniale descritta nell’art. 2424, primo comma.
cc.
Sulle immobilizzazioni immateriali si dovrà poi tornare; quanto a quelle finanziarie, è il caso di ricordare che in tale nozione – condizionata, lo si ripete,
alla funzione che un determinato bene è destinato ad assolvere nell’impresa e
non alla sua intrinseca natura – possono rientrare sia le partecipazioni (azionarie e non) in qualsiasi altro tipo di ente, sia i titoli obbligazionari e del debito
pubblico, sia altri strumenti finanziari (anche derivati), nonché attività ìn valuta.
Della valutazione delle partecipazioni e degli strumenti finanziari si dirà a parte;
qui giova solo aggiungere che il costo delle immobilizzazioni in valuta, per le
quali ovviamente sorge l’ulteriore variante del tasso di cambio, va computato,
per espressa disposizione del neo introdotto art. 2426, n. 8-bis, c.c., con riferimento al tasso corrente al momento dell’acquisto, oppure a quello di chiusura
dell’esercizio se risulti inferiore e se la riduzione appaia durevole.
Ma conviene ora tornare alla citata disposizione dell’art. 2426, n. 1, la quale,
con riferimento alle immobilizzazioni in generale, enuncia la regola dell’iscrizione al costo di acquisto o di produzione. Ciò significa che il criterio di valutazione in esame non si applica soltanto ai beni che la società si sia procurata sul
mercato acquistandoli a titolo oneroso, ma anche a quelli che essa stessa abbia
prodotto sopportando un costo.
In entrambi i casi, però, la nozione stessa di costo richiede qualche ulteriore chiarimento. La norma aggiunge, infatti, che nel costo di acquisto sono da
comprendere, accanto al corrispettivo vero e proprio, anche gli eventuali oneri
accessori, mentre il costo di produzione include tutti gli oneri direttamente imputabili al prodotto.
Nel primo caso, appare relativamente agevole individuare gli eventuali costi
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accessori: si pensi alle commissioni, agli oneri notarili, alle imposte specificamente gravanti sull’atto di acquisto, alle spese di collaudo o a quelle di trasporto a
carico dell’acquirente, e simili. Deve comunque trattarsi di spese che abbiano con
il bene acquistato un legame diretto e ben dimostrabile. Si suole farvi rientrare
anche gli oneri successivi all’entrata del bene nel patrimonio della società, se
necessari ad inserirlo nel ciclo economico dell’impresa o a protrarne nel tempo
l’utilizzabilità. Sotto quest’ultimo profilo, pertanto, vanno incluse tra i costi addizionabili al valore patrimoniale attivo del bene (c.d. “costi capitalizzati”) anche
le spese incrementative successive (non, ovviamente, quelle di semplice manutenzione), a condizione che siano tali da prolungarne la vita utile.
Nel secondo caso, può risultare talvolta più problematico stabilire quali siano
i costi imputabili alla produzione di un determinato bene. La disposizione citata,
nella sua prima parte fa espresso riferimento ai costi direttamente imputabili al
prodotto: dunque a quelli che nella realizzazione del prodotto medesimo, e solo in essa, abbiano esaurito tutta la loro utilità (si pensi, a titolo d’esempio, al
prezzo di acquisto dei materiali impiegati nella fabbricazione del bene). Ma la
medesima disposizione prosegue aggiungendo che possono essere presi in considerazione anche altri costi, per la quota ragionevolmente imputabile al prodotto,
purché relativi al periodo di fabbricazione; periodo che si conclude nel momento
in cui il bene può essere utilizzato. Si tratta, dunque, di costi che questa volta
sono solo indirettamente imputabili a quel prodotto, ma che pur sempre devono
avere con esso un qualche legame, tale da far ritenere che, nel periodo dato,
una parte di quei costi sia servita alla realizzazione (anche) di quel bene, consentendo così una ragionevole e proporzionale imputazione. Si può far l’esempio
dei costi di progettazione generale, di quelli necessari per l’illuminazione e la
custodia dei locali in cui la produzione si svolge, dei costi per la remunerazione della mano d’opera addetta alla produzione di una pluralità di beni, ecc.
Costi la cui imputazione, proprio perché retta da un giudizio di ragionevolezza
e perché comunque implica la determinazione di una misura proporzionale, è
però sempre accompagnata da un certo grado di discrezionalità tecnica da parte
del redattore del bilancio. Il che, secondo la preferibile dottrina, vale a spiegare
come mai il legislatore abbia formulato la previsione d’imputazione al prodotto
dei costi indiretti in termini di mera possibilità (“Può comprendere ...”), fermi
però sempre restando i limiti temporali cui s’è fatto già cenno, per i quali i costi
indiretti imputabili debbono restare all’interno del periodo di produzione, che
si conclude non già nel momento in cui il bene viene effettivamente utilizzato,
bensì quando è in grado di esserlo.
Un cenno a parte merita il tema della capitalizzazione degli oneri finanziari,
che l’ultima parte della norma in esame sembra voler equiparare, quanto a disciplina, al già descritto regime dei costi di produzione indiretti. Si noti, però,
che il legislatore fa menzione dei soli oneri finanziari relativi alla fabbricazione
del bene, non importa se ad opera della stessa società o presso terzi, e non anche agli eventuali oneri finanziari sopportati per l’acquisto da terzi di beni già
esistenti. Parrebbe doversene dedurre – benché sul punto non vi sia accordo in
dottrina – che tali oneri possono concorrere a formare, nei termini di cui s’è
detto, il costo di produzione, ma in nessun caso possono concorrere anche al
costo d’acquisto.
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3. Casi particolari di acquisto: a) simulazione del prezzo; b) permuta; e) conferimento; d) acquisto a titolo gratuito.
Restano da esaminare alcuni problemi che non trovano nel testo della norma
una risposta immediata: il caso di divergenza tra costo di acquisto dichiarato e
costo effettivo, il caso della permuta, quello del conferimento in società e quello
dell’acquisto a titolo gratuito.
Il primo problema è di agevole soluzione. Non possono esservi soverchi dubbi sul fatto che, ove sia dimostrato che il prezzo indicato nel contratto è frutto
di simulazione, è il prezzo realmente corrisposto al venditore a dover fungere
da parametro per l’iscrizione in bilancio (in tal senso Cass. 13 febbraio 1969 n.
484, Foro it 1969, I, 1158).
In caso di permuta alla pari, l’alternativa è se il bene acquisito debba esser
iscritto ad un valore corrispondente a quello al quale già figurava iscritto il bene
permutato o all’eventuale diverso valore di mercato attribuibile al bene acquisito. La prima soluzione sembra in verità la più corretta, almeno nel caso in
cui la permuta non abbia lo scopo di realizzare un ricavo, ma solo di rimpiazzare un’immobilizzazione destinata alla produzione (in tal senso si esprimono i
principi contabili nazionali). Il medesimo criterio dovrà applicarsi, ovviamente
in misura proporzionale, in caso di permuta parziale.
Il costo di un bene conferito deve esser commisurato al valore delle azioni
(o quote) assegnate al socio conferente. La stima operata dall’esperto a tal fine
designato ne segnerà, perciò, il limite superiore.
Quanto infine alle immobilizazioni, acquisite a titolo gratuito (o a prezzo meramente simbolico), appare scarsamente ragionevole ammettere la loro iscrizione
in bilancio a valore nullo, volta che esse pur sempre concorrano alla ricchezza
ed alla produttività dell’impresa; sicché è giocoforza fare riferimento ad un prezzo, per così dire, virtuale, che inevitabilmente dovrà esser fatto coincidere con il
valore di mercato del ben così acquisito (il costo che si sarebbe sopportato se
quel bene lo si fosse acquistato a titolo oneroso). Maggior cautela è però forse
da raccomandare in caso d’immobilizzazioni immateriali acquistate o prodotte
senza costo – come si vedrà successivamente al paragrafo 8 – in considerazione della naturale maggiore evanescenza del loro valore e della correlativa assai
maggiore difficoltà di individuarlo in assenza di un prezzo o di un costo storicamente riscontrabile.
4. Gli ammortamenti
Le immobilizzazioni materiali ed immateriali (non anche le finanziarie), nella misura in cui la loro utilizzazione sia limitata nel tempo, sono soggette ad
ammortamento, come espressamente prescrive l’art. 2426, n. 2, c.c.
Gli ammortamenti, a differenza, di quanto disponeva la normativa antecedente all’emanazione del d.lgs. n. 27 del 1991, non trovano collocazione autonoma
nella colonna del passivo dello stato patrimoniale, ma vengono portati direttamente in detrazione dal valore attivo dei beni cui si riferiscono. L’ammortamento – cui debbono essere sempre assoggettate le immobilizzazioni materiali
anche se non strumentali all’esercizio dell’impresa (App. Milano 18 aprile 2000,
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Società, 2000, 958) – non va però determinato soltanto valutando la quota di
deperimento e consumo del bene imputabile all’esercizio trascorso, ma dev’essere
commisurato, in base ad una valutazione sistematica, alla residua possibilità di
utilizzazione futura del cespite da ammortizzare. Ne consegue che occorre a tal
riguardo tener conto non solo del naturale deperimento fisico cui un determinato bene sia soggetto, ma anche del suo eventuale deperimento tecnologico o
commerciale, ogni qual volta l’evoluzione della tecnica o i mutati indirizzi del
mercato incidano negativamente sulla concreta possibilità di utilizzazione futura
di quel bene nel ciclo produttivo dell’impresa. Viceversa, sarebbe sicuramente
illegittimo l’ammortamento integrale, dopo alcuni anni, di un bene che sia ancora in grado di rivestire utilità per la società. L’ammortamento, infatti, ha anche
la funzione di ripartire il costo sostenuto per procurarsi un bene strumentale
all’esercizio dell’impresa nell’arco dell’intero periodo di tempo durante il quale
quel bene effettivamente concorre alla produzione del reddito dell’impresa medesima. Contribuisce perciò a rendere effettivo il principio di competenza, ed è
proprio in questa funzione che – come si vedrà – viene richiamato, anche con
riferimento a determinate immobilizzazioni immateriali, oltre che per ripartire il
disaggio sui prestiti (da iscrivere a tal fine all’attivo) nei diversi esercizi durante
i quali il prestito è in vigore (art. 2426, n. 7, c.c.).
Specie nella prima delle due accezioni sopra considerate, l’ammortamento
implica, com’è evidente, una valutazione in larga parte previsionale, nella quale
è insita una forte dose di discrezionalità tecnica, non sindacabile da parte del
giudice se non in quanto manifestamente irragionevole o priva di adeguata motivazione (cfr. Cass. 18 marzo 1986 n. 1839, Foro it., 1987, 1, 1232; Giust. civ.
1987, I, 926; App. Milano 5 novembre 1993, Società, 1994, 230; Trib. Milano 16
giugno 1988, ivi, 1988, 1144; Trib. Milano 12 gennaio 1984, Giur. comm., 1984,
II, 276; Trib. Milano 2 dicembre 1982, Banca, borsa, tit. cred. 1983, II, 331).
Una valutazione, peraltro, che dal punto di vista civilistico mal tollera l’astratta predeterminazione di coefficienti fissi, dovendosi invece pur sempre in concreto :valutare la residua possibilità di utilizzazione del bene. Se dunque non può
escludersi che l’applicazione dei coefficienti di ammortamento fiscale si riveli
adeguata anche dal punto di vista civilistico, occorre nondimeno che ciò sia di
volta in volta verificato dai redattori del bilancio e che ne sia data adeguata
spiegazione (cfr. App. Milano 5 novembre 1993, cit.).
Ma il legislatore prescrive che l’ammortamento debba essere operato “sistematicamente”. Quindi occorre che siano sin da principio formulati dei piani di
ammortamento relativi ad ogni immobilizzazione affinché l’ammortamento possa
poi essere calcolato per quote tendenzialmente costanti, applicate di anno in anno, indicando per ciascuna nella nota integrativa (e nella relazione sulla gestione)
“i movimenti” delle immobilizzazioni, secondo quanto richiesto dall’art. 2427 n.
2 c.c. (in tal senso, Trib. Reggio Emilia 19 gennaio 1999, Società, 1999, 1465).
Non sembra, tuttavia, si possa a priori escludere anche la legittimità di piani
di ammortamento per quote annuali decrescenti (anziché costanti), ogni qual
volta la particolare caratteristica del bene o le peculiarità del suo inserimento
nel processo produttivo dell’impresa giustifichino l’ipotesi di un utilizzo via via
meno intenso con il passare degli anni.
È comunque possibile, ovviamente, che si rendano necessarie nel corso del
tempo modifiche al piano originario di ammortamento di un determinato bene,
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tali da riflettersi sui coefficienti annuali fino ad allora applicati. Anche in tal caso
è però indispensabile fornirne adeguata spiegazione nella nota integrativa.
I cosiddetti ammortamenti anticipati non sono in contrasto con le regole
civilistiche di redazione del bilancio, purché si tenga presente che, in realtà, si
tratta di null’altro che della costituzione di apposite riserve di utili, piuttosto
che di veri e propri ammortamenti, e sempre con l’indispensabile corollario
dell’adeguata motivazione.
5. La svalutazione delle immobilizzazioni
Il n. 3 dell’art. 2426 c.c. prescrive che, in caso di durevole riduzione del valore
delle immobilizzazioni, rispetto a quello desumibile dall’applicazione del criterio
del costo (con relativi ammortamenti) cui sopra s’è fatto cenno, l’immobilizzazione deve esser iscritta a tale minor valore. Il criterio originario riprenderà vigore
non appena siano venute meno le ragioni della riduzione.
Si tratta di eventi di carattere straordinario e di entità tale da non potersi
tradurre in una semplice modifica dei piani di ammortamento del bene cui essi
si riferiscono; eventi in presenza dei quali la perdita del valore utile che l’immobilizzazione è destinata a rivestire per l’impresa, benché non necessariamente
irreversibile, appare tuttavia non transitoria, bensì durevole: come, ad esempio,
in caso di invenzioni che rivoluzionino la tecnica produttiva in un determinato
settore e rendano perciò improvvisamente obsoleto un impianto, o in caso di
danneggiamenti non facilmente né immediatamente riparabili.
Situazioni, queste, nelle quali la svalutazione è obbligatoria, pur se l’entità
ne resta inevitabilmente affidata alla discrezionalità tecnica del redattore del
bilancio; così come è obbligatorio il ripristino del valore precedente, se e quando la ragione della svalutazione sia venuta meno. È superfluo aggiungere che
anche i piani di ammortamento originariamente formulati dovranno, in simili
casi, essere riveduti.
6. Beni in leasing
L’iscrizione in bilancio dei beni utilizzati in leasing, in assenza di precise
indicazioni del legislatore, ha dato luogo in passato a molte incertezze: in particolare nel caso del cosiddetto leasing finanziario, o traslativo, in cui l’utilizzatore
assume immediatamente i rischi ed i benefici tipicamente connessi alla proprietà del bene, la durata della vita utile di quest’ultimo presumibilmente eccede il
periodo di locazione ed il prezzo previsto per il riscatto è relativamente esiguo.
La possibilità che i beni così acquisiti siano iscritti nell’attivo dello stato patrimoniale dell’utilizzatore (equiparato al reale proprietario), anziché in quello del
concedente che ne serba la titolarità formale, con i conseguenti differenti riflessi
che una simile scelta produce sul modo di contabilizzare nel conto economico
i risvolti obbligatori dell’operazione, ha a lungo diviso i fautori del cosiddetto
metodo patrimoniale da quelli del cosiddetto metodo finanziario.
I primi erano propensi ad escludere la possibilità d’iscrizione del bene all’attivo dell’utilizzatore, per il valore dei canoni corrispondenti al costo della futura
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acquisizione, perché sottolineavano trattarsi di un bene di cui l’utilizzatore non
ha ancora acquistato 1a formale proprietà ed affermavano che non è consentita
l’iscrizione in bilancio di diritti personali dì godimento. I secondi, invece, si dicevano favorevoli all’opposta soluzione, sostenendo che sono iscrivibili all’attivo
del bilancio non solo i diritti reali e che l’esercizio del riscatto – da cui deriva
l’acquisto formale della proprietà sul bene in leasing – è un diritto potestativo
dell’utilizzatore, sul quale grava anche di regola il rischio del perimento, sicché
il permanere dell’intestazione formale del bene in capo al concedente assolve
essenzialmente a funzioni di mera garanzia.
In occasione della recente riforma del diritto societario, attuata con il già
citato d.lgs. n. 6 del 2003 (e successive modificazioni), il legislatore ha fornito
indicazioni non del tutto univoche, che richiedono qualche chiarimento.
L’introduzione nell’art. 2423-bis, n. 1, c.c. di un ulteriore principio di redazione – quello per cui si deve tener conto “della funzione economica dell’elemento
dell’attivo e del passivo considerato” – potrebbe far pensare (anche alla luce di
quanto si legge nella relazione) che il legislatore della riforma abbia inteso prendere posizione in favore dell’adozione del metodo finanziario, riconoscendo la sostanziale funzione immediatamente traslativa dell’operazione che meglio sembra
rispondere al suddetto principio, se interpretato come espressione di prevalenza
della sostanza economica sulla forma giuridica degli atti.
Non sembra però che sia davvero così. Mentre infatti, nel caso di contratti
di compravendita con obbligo di retrocessione a termine, quel principio sembra
aver trovato espressione nel disposto del successivo art. 2424-bis, comma 5, che
impone di lasciare iscritti nell’attivo dello stato patrimoniale del venditore i beni che abbiano formato oggetto di tali contratti, sull’implicito presupposto che
essi restino sostanzialmente di proprietà del medesimo venditore con diritto alla
retrocessione (e l’art. 2325-bis, comma 3, ne regola i profili economici), nulla
del genere è stabilito per il leasing traslativo. Anzi, l’art. 2427, n. 22, c.c., nel
disciplinare il contenuto della nota integrativa, prescrive che in quel documento
si proceda a verificare gli effetti che avrebbe avuto sul bilancio l’adozione del
metodo finanziario, ma ciò evidentemente solo a fini informativi e di raffronto
con i risultati del metodo patrimoniale, che resta perciò quello secondo il quale
l’operazione di locazione finanziaria dev’essere registrata nello stato patrimoniale
e nel conto economico delle imprese interessate.
Val solo la pena di ricordare, in aggiunta, che il recentissimo d.lgs. 28 dicembre 2004, n. 310, alludendo al cosiddetto lease-back, ha introdotto nell’ 2425-bis
del codice civile un quarto comma, a tenore del quale “le plusvalenze derivanti
da operazioni di compravendita con locazione finanziaria al venditore sono ripartite in funzione della durata del contratto di locazione”.
7. Partecipazioni, strumenti finanziari ed azioni proprie, attività in valuta
Ai fini dell’iscrizione in bilancio delle partecipazioni, il disposto dell’art. 2426,
nn. 4 e 9, c.c., impone di distinguere, innanzitutto, tra partecipazioni e titoli
destinati ad essere durevolmente utilizzati, che costituiscono immobilizzazioni finanziarie, e partecipazioni e titoli compresi invece nell’attivo circolante. La scelta
se collocare determinati titoli nel comparto di quelli immobilizzati, o invece tra
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quelli suscettibili di prossima cessione, dovrebbe essere compiuta all’atto dell’acquisto ed eventuali successivi spostamenti dall’un comparto all’altro dovrebbero
poter intervenire solo in casi eccezionali e per ragioni ben motivate. È quanto
espressamente prescrive la Banca d’Italia per i bilanci delle aziende di credito
ed è quanto raccomanda la Consob per tutte le società quotate; ma si tratta
di un criterio che appare ragionevole applicare ad ogni tipo di società, perché
altrimenti v’è il rischio che l’immobilizzazione o la smobilizzazione dei titoli
in bilancio, con il diverso criterio di valutazione che ne consegue, sia frutto di
scelte contingenti e mal controllabili che poco hanno a che fare con la reale
destinazione dei titoli medesimi.
La regola è, infatti, che sei titoli e le partecipazioni non costituiscono immobilizzazioni sono da iscrivere in bilancio secondo il criterio stabilito per le
rimanenze di magazzino, cioè – come si vedrà poi – al minore trai valori di
costo e di mercato. Se sono invece immobilizzati, li si deve iscrivere secondo il
criterio del costo, al pari delle altre immobilizzazioni, a meno che, trattandosi
di partecipazioni in imprese controllate o collegate (che si presumono costituire
immobilizzazioni: art. 2424-bis, comma 2, c.c.), gli amministratori non si avvalgano della facoltà, che la legge loro accorda, di sostituire il criterio del costo
con quello, più elastico, del valore di patrimonio netto della partecipata secondo
il suo ultimo bilancio, in coerenza coni principi che ispirano la corrispondente
disciplina del bilancio consolidato. L’esercizio in concreto di tale facoltà, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti (cfr. Trib. Genova 4 marzo 1997,
Società, 1997, 939), è rimesso alla discrezionalità di chi il bilancio redige.
In tutti i casi di valutazione secondo il criterio del costo, occorre però dar
conto nella nota integrativa dei diversi risultati cui condurrebbe l’adozione del
differente criterio del patrimonio netto (art. 2426, n. 3, secondo periodo). Viceversa, se si è optato per quest’ultimo criterio, il fatto che il costo della partecipazione sia risultato eventualmente superiore può avere due spiegazioni: che
la si è pagata troppo, oppure che essa contiene in sé valori latenti non espressi
dal bilancio della partecipata, i quali perciò non emergono dal suo patrimonio
netto. Solo in quest’ultimo caso la differenza può essere considerata come una
vera e propria plusvalenza e giustificare quindi, per i redattori del bilancio della partecipante, l’uso della facoltà prevista dal n. 4 dell’articolo citato, in virtù
della quale detta plusvalenza può essere iscritta all’attivo. Con l’ulteriore precisazione, in tale ultima ipotesi, che la suindicata plusvalenza, sarà soggetta ad
ammortamento nei bilanci della partecipante nella misura in cui i valori latenti
nel patrimonio netto della partecipata dai quali essa deriva si riferiscono a beni
ammortizzabili o all’avviamento.
Il metodo del patrimonio netto espone però al rischio di dover modificare,
negli esercizi successivi, il valore d’iscrizione in bilancio delle partecipazioni, ogni
qual volta ciò sia reso necessario dal variare dei valori di bilancio della società
partecipata. Ne derivano alcuni problemi quanto al modo in cui debbono essere
contabilmente trattati tali mutamenti di valore. Così si è statuito che, se in un
primo tempo una partecipazione sia stata svalutata al di sotto del costo originariamente sopportato per la sua acquisizione e poi, in un esercizio successivo,
venga rivalutata sino a superare il livello originario, tale recupero di valore, fino
al limite del costo originario, dev’essere soltanto iscritto nel conto economico,
mentre, per la parte eccedente, se questa deriva da utili realizzati dalla parteci-
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Renato Rodorf
pata, dovrà esservi accredito a conto economico e, nello stato patrimoniale, accantonamento in apposita riserva non distribuìbile, come espressamente prescrive
la norma in esame (Trib. Bologna 22 dicembre 1999, Società, 2000, 871).
Tra le partecipazioni in portafoglio possono esservi anche azioni proprie della
stessa società. art. 2426 c.c. non dà alcuna specifica indicazione quanto al modo
in cui tali azioni la società debbano essere valutate in bilancio.
In giurisprudenza si è ritenuto che esse possano essere iscritte in bilancio
al prezzo di costo, assimilandole ad immobilizzazioni finanziarie, salvo l’obbligo
d’iscrizione al passivo dell’apposita riserva indisponibile prescritta dall’art. 2357ter, ultimo comma, c.c. (cfr. Trib. Milano 14 luglio 1983, Società, 1984, 35; Giur.
comm., 1986, II, 495; Trib. Vicenza, 18 ottobre 1984, ibidem). Discussa è stata,
però, almeno in passato, la natura di tale posta passiva: da taluni considerata
meramente correttiva dell’attivo, cioè unicamente destinata ad elidere gli effetti
contabili della corrispondente iscrizione tra le attività delle azioni proprie, cui
non potrebbe in realtà riconoscersi valore alcuno fin quando rimangano nella
titolarità della stessa società emittente; da altri definita invece quale riserva vera
e propria, facente parte del patrimonio netto della società.
Quest’ultima soluzione appare ora confermata dalla disposizione in tema di
struttura dello stato patrimoniale dettata dall’art. 2424 c.c., con la conseguenza
che la relativa iscrizione non si sottrae alla necessità di valutazione da parte degli
amministratori, e che, più in generale, le azioni proprie in portafoglio, poiché
rappresentano un valore che esiste nel patrimonio della società emittente ed è
suscettibile di essere monetizzato, debbono essere iscritte in bilancio secondo i
criteri di valutazione ed, in genere, secondo le regole stabilite dalla legge per
qualsiasi altro titolo azionario (Cass. 3 settembre 1996 n. 8048, Foro it., 1996,
1, 2686; App. Bologna 4 aprile 1992, Giur. comm., 1993, Il, 621).
Da ultimo, col citato d.lgs. n. 394 del 2003, in attuazione della Direttiva n.
2001/65 CE, il legislatore ha introdotto l’ulteriore obbligo di valutare gli strumenti finanziari derivati – sempre che possibile – anche secondo il criterio del
fair value, che coincide con il loro valore di mercato, o con il valore di mercato
di beni analoghi, o altrimenti con quello eventualmente ricavabile da modelli e
tecniche di valutazione generalmente accettati in base ai principi contabili internazionali. Nel caso di strumenti finanziari costituenti immobilizzazioni (sempre
che non si tratti di partecipazioni in società controllate o collegate o in joint
venture), peraltro, resta ferma la possibilità che l’ordinario criterio d’iscrizione
al costo si riveli superiore al fair value della partecipazione, ma ciò implica un
ulteriore obbligo di motivazione dei redattori del bilancio, tenuti a spiegare la
ragione per la quale non hanno considerato durevole tale riduzione di valore
(art. 2427-bis c.c.).
Una disposizione nuova è stata introdotta nel codice (dal d.lgs. n. 6 del 2003)
anche per quel che riguarda le altre attività (e le passività) in valuta. Se ne é
già fatto cenno a proposito delle immobilizzazioni; qui va aggiunto che quando,
invece, si tratti di attività non costituenti immobilizzazioni (o di passività) l’art.
2426, n. 8-bis, c.c. risolve espressamente i dubbi in precedenza insorti stabilendo
che il valore della loro iscrizione in bilancio deve esser riferito non avendo riguardo al tasso di cambio del momento del loro acquisto, bensì a quello di fine
esercizio. Ovviamente, ne possono derivare delle perdite o degli utili, a seconda
che il tasso di cambio di fine esercizio sia meno o più favorevole di quello del
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Renato Rodorf
giorno dell’acquisto; ma, se di utili si tratta, considerata la naturale variabilità
dei tassi, il legislatore prudenzialmente impone di accantonarli in una riserva
non distribuitile fino all’effettivo realizzo.
8. Immobilizzazioni immateriali: oneri pluriennali ed avviamento
Ancora qualche parola sulle immobilizzazioni immateriali.
Queste, come la stessa espressione suggerisce, sono costituite da quei valori
privi di consistenza fisica, ma nondimeno riscontrabili nell’azienda, che concorrono all’utile svolgimento dell’attività produttiva: brevetti, licenze, marchi, concessioni, software, nonché in generale i cosiddetti diritti di “know-how” (cfr. Cass.
27 febbraio 1985 n. 1699, Foro it., 1985, 1, 2661).
Per quel che attiene ai brevetti ed ai marchi, la formulazione del citato art.
2426, n. 1 – laddove espressamente equipara il costo di produzione a quello di
acquisto – induce a considerare superate le precedenti incertezze circa l’iscrivibilità in bilancio dei marchi prodotti direttamente dalla società e per i quali
non sia stato pagato alcun prezzo di acquisto a terzi. Nel vigore della pregressa normativa, si era comunque sostenuto che fosse lecito iscrivere in bilancio
marchi di fabbrica con valutazione “eguale a zero” quando questi fossero stati
acquistati senza l’esborso di alcun prezzo o non fossero più suscettibili di alcuna
utilizzazione (Cass. 15 marzo 1984 n. 1759, Società, 1984, 992; ed App. Torino
28 maggio 1980, Giur. comm., 1981, 11, 666). La non iscrivibilità in bilancio di
immobilizzazioni immateriali per le quali non sia possibile identificare un qualche riferimento al costo è comunque considerata dalla prevalente dottrina come
la soluzione meglio rispondente al principio di prudenza cui deve attenersi il
redattore del bilancio.
Nel novero delle immobilizzazioni immateriali rientrano pure i cosiddetti
oneri pluriennali, cioè i costi. impianto ed avviamento, di ricerca, sviluppo e
pubblicità aventi utilità pluriennale, espressamente considerati dall’art. 2426, n.
5, c.c. e vi rientra nonché l’avviamento cui si riferisce la disposizione del successivo n. 6.
La capitalizzazione degli oneri pluriennali, vale a dire la loro iscrizione come poste dell’attivo patrimoniale (pur trattandosi, nell’immediato, di spese) ed
il loro assoggettamento a piani di ammortamento secondo le regole prudenziali
dettate dalla citata disposizione del codice; sono ovviamente legati all’utilità futura che quelle spese sono supposte dover produrre nell’arco di più esercizi ed
alla conseguente necessità di ripartirne il carico, mediante un apposito piano
di ammortamento (che non può eccedere il quinquennio), sugli esercizi che ne
beneficeranno. Due precisazioni però s’impongono in proposito.
La prima è che le spese in questione possono essere iscritte nell’attivo dello
stato patrimoniale, sul presupposto della loro utilità pluriennale, solo a condizione che esse non abbiano avuto come contropartita l’incremento dì valore di
specifici beni o diritti anch’essi iscritti all’attivo (cfr. Trib. Milano 27 luglio 1987,
Foro it., 1988, 1, 2709). In tal caso sarà semmai la posta riguardate quegli specifici beni o diritti a dover essere incrementata (come già si è rilevato sopra
al paragrafo 2), ed il relativo ammortamento dovrà seguire i criteri applicabili
all’ammortamento di quei beni o diritti.
111
Renato Rodorf
La seconda precisazione serve a sottolineare che la futura utilità pluriennale
che giustifica la capitalizzazione di detti oneri – come di recente chiarito dalla
cassazione – deve identificarsi in un
ricavo d’impresa non solo in qualche modo collegato, bensì direttamente dipendente dal costo sostenuto in un precedente esercizio e tale da manifestarsi,
in termini di utilità economica generata appunto dal costo, anche in anni successivi. Donde la conseguenza che non può esser ricondotto alla categoria dei
costi di ampliamento pluriennali anche l’esborso sopportato da una società per
la risoluzione anticipata di un contratto, ritenuto ostativo alla realizzazione di
un programma di ampliamento aziendale, essendo da escludere che il costo di
tale risoluzione, pur rappresentando la condizione per l’effettuazione di un successivo ampliamento della rete commerciale della società, sia tale da porsi, in
relazione a detto ampliamento, in rapporto di causa ad effetto (Cass. 28 agosto
2004, n. 17210, Foro it., 2004, 1, 2986).
Nel caso, però, di spese effettivamente dotate di utilità pluriennale, la loro
capitalizzazione ed il loro progressivo ammortamento appaiono scelte doverose
per il redattore del bilancio; fermo, comunque, l’indeclinabile obbligo di dare
motivazione adeguata anche in ordine a tali scelte (cfr. Cass. 8 agosto 1997, n.
7398, Società 1997, 1401).
Quanto al valore dell’avviamento aziendale, il legislatore ne ha inteso vietare
l’iscrizione in bilancio se si tratta dì avviamento “autoprodotto” dalla società;
ha consentito invece che sia iscritto l’avviamento “derivato”, ossia quello per il
quale sia stato pagato un prezzo in occasione di un acquisto a titolo oneroso:
prezzo il cui ammontare costituisce perciò anche il limite entro cui l’avviamento
può essere iscritto, e che può consistere, in caso di fusione per incorporazione,
nel maggior valore al quale i beni patrimoniali della società incorporate vengano iscritti nel bilancio dell’incorporante, rispetto a quello risultante dai rispettivi
bilanci pregressi, a meno che non vi siano elementi per ritenere che tale eccedenza debba essere diversamente imputata (Cass. 16 giugno 2003, n. 9592; 13
dicembre 2001, n. 15732; 22 novembre 2000, n. 15093; 13 novembre 2000, n.
14687; 24 luglio 2000, n. 9666, Foro it., 2001, 1, 150).
9. Le rimanenze: merci, attrezzature e materie prime, lavori in corso
Per le merci, casi come per le partecipazioni ed i titoli che non costituiscono
immobilizzazioni, la regola è quella dell’iscrizione in bilancio al minor valore
tra costo e prezzo di mercato, secondo un rapporto che va comunque verificato
anno per anno (art. 2426, n. 9, c.c.). Le rimanenze così valutate possono peraltro
essere ulteriormente svalutate, con l’iscrizione al passivo di un fondo svalutazione
magazzino, se ciò è connesso alla particolare natura del mercato in cui opera
la società, soggetto agli effetti di continui superamenti tecnologici dei prodotti e
se tale connessione risulta dalla relazione degli amministratori (cfr. App. Milano
5 novembre 1993, Società, 1994, 230).
Il costo si calcola secondo le medesime regole valevoli per le immobilizzazioni, con la sola precisazione che non può esservi incluso anche il costo di
distribuzione. Ulteriori, importanti specificazioni – ove si tratti di beni fungibili
– sono però contenute nella disposizione del successivo n. 10 dell’articolo cita-
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Renato Rodorf
to. La rilevazione del costo di tali beni, non essendo agevole distinguere quelli
acquistati in momenti diversi, cui possono corrispondere prezzi differenti, ha
sempre creato difficoltà, per risolvere le quali la scienza aziendale ha elaborato
nel tempo tecniche varie, la cui concreta applicazione alle valutazioni dei bilanci
societari ha destato in passato non poche discussioni. Il recepimento nell’ordinamento italiano della IV direttiva Cee, ha comportato l’espresso riconoscimento
legale delle più diffuse tra tali tecniche: la media ponderata, che tiene conto delle
diverse quantità di merce acquistate nel periodo considerato e della media dei
prezzi registrati in detto periodo; il sistema del “primo entrato primo uscito”
(first in, first out, ovvero fi-fo), che dà rilievo ai prezzi degli acquisti più recenti
sul presupposto che le merci rimaste in magazzino siano quelle acquistate da
ultimo; il metodo dello “ultimo entrato primo uscito” (last in, first out, ovvero
li-fo), che si rifà al prezzo più vecchio perché muove dall’opposta presunzione.
Posta in questi termini l’alternativa dallo stesso legislatore, sembra arduo poter ammettere la legittimità di sistemi ulteriori, non riconducibili a nessuno di
quelli sopra indicati (a meno che i risultati non siano analoghi: cfr. Trib. Como
26 marzo 1997, Società 1997, 1074). Anche così. peraltro, è innegabile che la
scelta tra l’uno o l’altro dei menzionati sistemi di rilevazione del costo delle rimanenze, delle partecipazioni e dei titoli non costituenti immobilizzazioni possa
condurre a risultati sensibilmente diversi. Tanto più quando, come pur si ritiene
possibile, il metodo fi-fo o (più di frequente, il li-fo) venga applicato “a scatti”,
ossia per scaglioni, nella cui concreta composizione può ulteriormente esplicarsi
un certo grado di discrezionalità tecnica. Il che ovviamente impone al redattore
di bilancio di fornire adeguata spiegazione delle proprie scelte in proposito (si
vedano, in argomento, Cass. 18 marzo 1986, n. 1839, cit.; Cass. 27 febbraio 1985,
n. 1699, cit.; App. Roma 14 ottobre 1991, Società, 1992, 336; Trib. Bologna 17
gennaio 1995, ivi, 1995, 1316).
Una regola particolare è dettata dall’art. 2426, n. 11, c.c. per le rimanenze
costituite da beni esistenti nel patrimonio della società, ma ancora in corso di
lavorazione per conto di terzi committenti. Beni che, sia in considerazione della
loro futura destinazione, sia per consentire l’imputazione dei ricavi al medesimo
periodo contabile in cui sono stati sopportati i costi corrispondenti, possono esser già iscritti in bilancio sulla base del prezzo pattuito con il committente, ma
nella misura in cui questo sia da ritenersi già maturato con ragionevole certezza: cioè in proporzione al grado di avanzamento dell’opera. Secondo la migliore
dottrina si tratterebbe di un vero e proprio obbligo, discrezionale essendo solo
la valutazione del grado di ragionevole certezza con cui può dirsi già maturata
quella determinata quota di corrispettivo.
Non è invece affatto necessaria una rilevazione specifica e puntuale del costo delle attrezzature e delle materie prime costantemente rinnovate, se la loro
importanza è complessivamente modesta e se esse non siano destinate a variare
sensibilmente di anno in anno, potendosi senz’altro procedere alla loro iscrizione
in bilancio per valori costanti (art. 2426, n. 12, c.c.). Alcuni commentatori hanno scorto in tale disposizione il manifestarsi di un più generale – principio di
rilevanza” (materiality) insito nella normativa che regge i criteri di valutazione
del bilancio, dai quali ci si potrebbe perciò discostare ogni qual volta non siano
in gioco valori di una qualche dimensione. Opinione, questa, di cui però non
è agevole trovare il sicuro fondamento – men che mai nella citata disposizione
113
Renato Rodorf
in tema di attrezzature e materie prime, la quale presenta evidente carattere di
singolarità – e che, soprattutto, espone ad un rischio di arbitrarietà non facilmente controllabile.
10. Crediti e debiti
Anche i crediti possono talvolta ricadere tra le immobilizzazioni, come nel
caso dei diritti pluriennali alle prestazioni professionali dei calciatori (il c.d.
“parco calciatori”) di una società di calcio, che si è ritenuto appunto debbano
essere iscritti nel bilancio di detta società non in base al presunto loro valore
di realizzo, bensì al costo, alla stregua di immobilizzazioni da ammortizzare per
il periodo di durata del contratto (Trib. Napoli 10 giugno 1994, Foro it., 1995,
I, 3328).
Al di fuori di tali casi, da considerare piuttosto eccezionali, i crediti fanno
però parte dell’attivo circolante e la loro iscrizione in bilancio resta ancorata al
prudente apprezzamento che gli amministratori esprimano in merito alla prospettiva di effettiva riscossione (art. 2426, n. 8, c.c.).
Vale anche qui la regola dell’insindacabilità, da parte del giudice, del modo
in cui il suddetto potere discrezionale è esercitato, a condizione che non venga
superato il limite della ragionevolezza e non si sconfini perciò nell’arbitrio, e
fermo comunque l’obbligo di dar conto con adeguata motivazione del criterio
seguito (cfr. App. Milano 13 settembre 1988, Società, 1992, 336; Trib. Napoli
24 febbraio 2000, ivi, 2000, 1474; Trib. Napoli 31 ottobre 1991, ivi, 1992, 679;
Trib. Milano 10 ottobre 1991, ivi, 1992, 665; Trib. Milano 6 dicembre 1990, ivi,
1991, 663; Trib. Milano 20 febbraio 1985, Foro it., 1986, 1, 1090; Trib. Bologna
13 settembre 1984, Giur. comm., 1985, II, 354; Trib. Milano 5 febbraio 1981,
ivi, 1981, 11, 796).
Anche in caso di debitore soggetto a procedura concorsuale è necessario valutare in concreto se ed in qual misura il credito sia ancora realizzabile: onde,
in certi casi, si è negato che dovesse essere svalutato un credito vantato nei
confronti di un cliente ammesso alla procedura di amministrazione controllata
nell’esercizio successivo a quello dell’iscrizione in bilancio, perché detta procedura tende al risanamento dell’impresa e quindi all’integrale pagamento dei debiti
(vedi Cass. 29 aprile 1994, n. 4177, Società 1994, 1201).
La regola dell’iscrizione dei crediti secondo il loro presumibile valore di realizzazione, però, implica che in bilancio possano essere iscritti anche i crediti
semplicemente sperati. Infatti. presupposto essenziale per l’iscrizione di un credito in bilancio è la sua sicura esistenza, non potendo invece essere iscritti crediti
meramente eventuali dipendenti da pretese risarcitone contestate (Cass. 11 dicembre 2000, n. 15592, Foro it., 2001, I, 3274). La natura contenziosa del credito
non comporta necessariamente, tuttavia, la sua inesigibilità ai fini dell’iscrizione
in bilancio; né il fatto che il credito sia stato successivamente pagato basta a
dimostrare l’illegittimità della svalutazione operata ex ante sul presupposto della
sua dubbia esigibilità (Trib. Milano 3 settembre 2003, Società, 2004, 1016).
A differenza che per i crediti, la legge non detta alcun criterio di valutazione per l’iscrizione in bilancio dei debiti, i quali, perciò, vanno sempre iscritti al
loro valore nominale.
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Renato Rodorf
Vanno comunque iscritti in bilancio solo i debiti per obbligazioni già esistenti (Trib. Milano 5 gennaio 1981, Giur. comm., 1981, 11, 458), ma la natura
controversa di un debito afferente per competenza ad un determinato esercizio
non basta, da sola, a giustificare l’omessa menzione di quel debito nel relativo
bilancio o almeno l’istituzione di un apposito fondo destinato a fronteggiare il
rischio di una futura escussione (cfr. Trib. Genova 13 luglio 1992, Società, 1993,
501; Trib. Milano 3 dicembre 1984, ivi, 1985, 409). Perciò si è giudicata illegittima la mancata contabilizzazione di un debito risarcitorio, sub iudíce, ma praticamente certo e stimabile in somma ingente; e si è stimato che tale illegittimità
non sia eliminata neppure dall’esistenza di un generico “fondo rischi diversi”,
se questo appaia inadeguato all’entità del debito e sia illustrato nella relazione
degli amministratori in modo vago e reticente (App. Milano 27 settembre 1991,
Società, 1992, 53).
Si è però anche sostenuto che i rischi derivanti da liti passive non possono
trovare posto nel c.d. “sistema principale” di bilancio, bensì in uno di quei sistemi supplementari dei quali fanno parte i conti d’ordine (in tal senso Trib. Napoli
24 febbraio 2000, ivi, 2000, 1474). E si è affermato che l’esistenza di controversie
in corso con ex dipendenti che abbiano impugnato il licenziamento non è motivo
sufficiente per appostare in bilancio debiti futuri quando la soccombenza della
società, con esborsi di eventuali somme, non sia prevedibile quale conclusione
fisiologica della controversia Cass. 29 aprile 1994, n. 4177, cit.).
Sì consìderi, comunque, che per i debiti di esistenza soltanto probabile, o
dei quali siano ancora indeterminati l’ammontare o la data di scadenza, l’art.
2424-bis, terzo comma, cc. prevede espressamente l’iscrizione in bilancio di un
apposito fondo di accantonamento.
Con particolare riferimento ai debiti derivanti da mutui ipotecari – ma il
principio affermato parrebbe estensibile ad ogni genere di debito – la giurisprudenza ha puntualizzato che non è illegittima l’iscrizione del debito per il solo
ammontare del capitale residuo, e non anche per interessi futuri, giacché il debito per interessi matura anno per anno (App. Milano 5 novembre 1993, cit; e
Trib. Milano 10 ottobre 1991, Società, 1992, 665).
Del criterio di iscrizione del debiti in valuta estera si è già detto, incidentalmente, parlando delle attività in valuta.
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