Diritto del lavoro ed economia. Il licenziamento per riduzione del personale è un problema di costi o di valori? 1. La competizione, il licenziamento per riduzione di personale ed il cosiddetto “firing cost” nel diritto italiano. 2. L’organizzazione ed il licenziamento per riduzione di personale. 3. Il licenziamento per riduzione di personale, i costi e la buona fede. 4. Il licenziamento per riduzione di personale fra costi e valori. 5. Il sindacato del giudice sulla legittimità del licenziamento ed il caso del cosiddetto licenziamento per incremento dei profitti. 6. Il diritto del lavoro fra tutela della persona e ragioni dell’economia. 1. La competizione, il licenziamento per riduzione di personale ed il cosiddetto “firing cost” nel diritto italiano. L’accentuarsi della competizione fra imprese, anche in ambito sopranazionale, fa risaltare il problema dei licenziamenti per riduzione di personale, in particolare nel diritto italiano, sulla base dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 in tema di giustificato motivo oggettivo e della legge n. 223 del 1991, sui licenziamenti collettivi. Comunque, i licenziamenti per riduzione di personale conferiscono una nuova dimensione alla struttura produttiva, per ragioni connesse alla presenza sul mercato ed alle strategie relative, in contrapposizione con quelle dei concorrenti (v. Carnelutti 1911, 377 ss.; di recente, v. M. G. Garofalo – Chieco 2001, 2 ss.). Il tema della trasformazione dell’assetto aziendale si impone per le sue originarie connotazioni economiche; non a caso, il rischio di cattivo esito dell’iniziativa è connaturato alla stessa nozione di impresa, anche nella logica costituzionale. Non si può accettare l’economia di mercato senza ammettere il possibile, se non frequente, insuccesso degli sforzi degli operatori e, più in generale, senza una disciplina della riduzione di personale (v. M. G. Garofalo 1985, 375 ss.). Il diritto del lavoro cerca di distribuire in modo razionale i sacrifici fra tutti i prestatori di opere e, a tale fine, si impongono le ragioni sia delle persone occupate e desiderose di restarlo, sia di quelle inoccupate e protese a trovare una soddisfacente collocazione professionale (per una forte valorizzazione delle ragioni degli inoccupati, quale monito al legislatore a considerare tutti gli interessi coinvolti dal diritto del lavoro, v. P. Ichino 1996, 37 ss.; A. Ichino – P. Ichino 1994, 487 ss.). Per la complessiva conciliazione di tali interessi possono essere immaginate molte soluzioni, con vari, plausibili modelli. Però, in una economia capitalistica, il concetto di riduzione di personale è imposto alla stessa legge dalla struttura del sistema economico e, al limite, trova spiegazione nei criteri costituzionali (v. Napoli 1996, 281 ss.; De Simone 2002, 25 ss.). Il ruolo del diritto del lavoro non è secondario rispetto alle più articolate dinamiche del mercato ed alle decisioni dei suoi protagonisti. Infatti, in un contesto di frenetica competizione, l’esistenza delle imprese e le loro possibilità di azione sono influenzate dalla disciplina della riduzione di personale (v. Del Punta 1998, 703 ss.). Questa dialettica non può essere sciolta in nome di astratte contrapposizioni fra mercato e tutela del lavoro, poiché spetta al diritto positivo definire un modello di licenziamento, per comporre le esigenze diverse. Di recente, nell’ordinamento italiano, l’intera questione è stata considerata in termini di determinazione del costo di licenziamento. Si dubita della ragionevolezza della “imposizione all’imprenditore della prosecuzione di un rapporto di lavoro in perdita; per quanto limitata questa sia, sarebbe incompatibile con la regola costituzionale che esclude la possibilità di imposizione di obblighi assistenziali a un soggetto privato” (v. P. Ichino 2002, 475 ss.). Si dice: “l’unica risposta a questa obiezione che io sia riuscito a trovare consiste nel contenuto assicurativo del rapporto di lavoro subordinato” (v. P. Ichino 2002, 475 ss.; cfr. anche Stolfa 2004, 627 ss.). Non è quello il punto, ammesso che il rapporto abbia una simile natura; in realtà, non si può parlare né di un rapporto in perdita, né di uno in utile, pena cadere in una inaccettabile mercificazione (invece, v. Grandi 1997, 557 ss.) ed in forzature sulla valutazione dell’apporto individuale. Il lavoratore ed il suo contributo produttivo non sono né in utile, né in perdita e simili nozioni non possono essere riferite alla prestazione, poiché, in tale ambito, non hanno alcun significato. Mentre questi concetti descrivono l’andamento dell’impresa, non è possibile riportarli alla condizione di ciascun dipendente, il quale è parte del disegno organizzativo, ma, come collaboratore, non è “in perdita”. Affinché possa stabilire l’assetto dell’impresa, utilizzando la categoria conoscitiva dell’organizzazione, il datore di lavoro deve mettere in relazione il destino del dipendente con quello del complesso aziendale. Pertanto, l’estinzione di un rapporto presuppone un ragionamento inerente all’intera 2 struttura e, così, non esiste il problema della prosecuzione di un “rapporto in perdita”. Il punto è stabilire quale controllo abbia il giudice sulla decisione di licenziare. Si osserva che “la distinzione tra damnun vitandum e lucrum captandum non ha alcun significato, se riferita ai profitti o perdite derivanti alle imprese dai singoli rapporti”, così che “il criterio di valutazione del singolo licenziamento non può (...) essere quello del saldo attivo o passivo del bilancio aziendale complessivamente inteso” (v. Ichino 2002, 478 ss.). Però, tale affermazione implica che si possa stabilire nell’ambito del singolo rapporto l’esistenza di un “saldo attivo o passivo”, mentre ciò non è persuasivo. La prestazione non è suscettibile di una valutazione aziendale, se essa non è collegata con il contesto dell’organizzazione. Si afferma che la conservazione di un lavoratore “inutile” comporterebbe un “costo – opportunità” e “la sopravvivenza dell’impresa dipende (...) proprio dalla sua capacità di individuare costantemente i costi – opportunità e perseguire le opzioni che ne riducono al minimo l’entità” (v. P. Ichino 2002, 478 ss.). Tuttavia, non ogni condotta che migliora l’efficienza è legittima, anche a volere ammettere che si possa stabilire se l’apporto individuale sia un “costo inutile”. In nessun modo l’ordinamento postula che il criterio di soluzione dei conflitti in tema di licenziamenti per riduzione di personale sia dato dalla valorizzazione massima dell’efficienza. Poi, si riconosce che occorre verificare “la sincerità della dichiarazione dell’imprenditore circa la perdita attesa” (v. Ichino 2002, 496 ss.) e, a tale fine, il giudice dovrebbe stabilire il cosiddetto “firing cost”, vale a dire liquidare un importo da versare al prestatore di opere, a fronte del sacrificio richiesto e quale corrispettivo del vantaggio ottenuto con la riduzione dell’organico. L’idea potrebbe essere di grande risalto se fosse modificata l’attuale disciplina processuale, ma, allo stato, resta solo una provocazione. Si dice che, “quando possano escludersi i motivi illeciti, il giudice nel corso del tentativo di conciliazione indica quella che egli ritiene essere la soglia, ovvero la perdita (o «copertura assicurativa») massima che può essere imposta all’impresa; se l’imprenditore è disposto a pagare altrettanto al lavoratore, questo significa che la perdita da lui attesa è superiore e che quindi il licenziamento è giustificato” (v. Ichino 2002, 496 ss.). 3 Nessun giudice può quantificare il cosiddetto “firing cost”. Se la decisione di assumere impedisce che il datore di lavoro possa licenziare a sua discrezione, allora la soluzione non spetta agli strumenti processuali, ma al controllo analitico del motivo giustificativo. Libero di perseguire il suo progetto soggettivo di coordinamento dei fattori della produzione, il datore di lavoro incontra un sindacato del giudice basato su parametri di socialità. Ciò accade in qualunque ordinamento nazionale ed il problema è di stabilire come quello italiano componga il conflitto. Se si deve cercare il limite entro il quale “l’impresa deve farsi carico della prosecuzione del rapporto anche in perdita” (v. Ichino 2002, 477 ss.), per un verso non si può riflettere sul singolo rapporto, ma si deve guardare all’intera azienda e, per altro verso, non basta un ragionamento sui costi, ma se ne uno impone sui comportamenti e, quindi, sui valori espressi dai protagonisti dell’azione economica. L’impresa è proiettata al miglioramento dell’efficienza, come è tipico di una economia di capitalismo maturo, con le sue crescenti tensioni concorrenziali. Se mai, vi è da chiarire come, a fronte dei limiti imposti dal diritto del lavoro, l’impresa possa rafforzare la sua posizione sul mercato. Il giudice deve considerare l’intera evoluzione aziendale, perché “la distinzione tra «scelta sottostante», di cui si pretende l’insindacabilità, e scelta (sindacabile) di licenziare un determinato lavoratore è (...) contraddetta dagli orientamenti giurisprudenziali (...) concernenti l’obbligo del repechage, o l’applicazione di un criterio ragionevole nella scelta del lavoratore da licenziare: quando il giudice valuta la possibilità (...) dello spostamento di un lavoratore da una posizione all’altra in seno all’azienda (...), egli interviene proprio sull’organizzazione” (v. M. T. Carinci 2006, 117 ss.). Il controllo sulla decisione non riguarda il “costo” ed il relativo “utile”, se non altro perché, pure avendo un costo, il rapporto è utile solo se inserito in un più articolato contesto aziendale, nelle sue dinamiche e nelle sue prospettive. Se si passa dalla sorte del dipendente all’organizzazione si può spiegare perché abbia luogo il licenziamento. Se si stabilisce il suo motivo ci si può poi chiedere quali regole presiedano alla sua legittimità e, cioè, come il diritto italiano componga il conflitto, nella distribuzione dei sacrifici. Prima di domandarsi come abbia luogo questa valutazione dei comportamenti, occorre verificare che cosa sia l’organizzazione. 4 2. L’organizzazione ed il licenziamento per riduzione di personale. Nonostante, a più riprese, si neghi il possibile sindacato del giudice sulla cosiddetta discrezionalità dell’impresa e, quindi, sull’opportunità delle sue scelte, in tema di licenziamenti per riduzione di personale è ristretto lo spazio non invaso dall’intervento del giudice (v. Napoli 1980, 153 ss.). Infatti, il datore di lavoro deve dimostrare le ragioni alla base della sua opzione e queste devono essere reali e, quindi, oggetto di prova. Inoltre, deve essere impossibile il recupero dell’attività del lavoratore seppure in mansioni differenti, con un prevalere dell’interesse alla prosecuzione del rapporto su quello alla variazione dell’assetto aziendale. Il punto di fondo è capire come il potere unilaterale del datore di lavoro possa riguardare la riduzione di personale e come le decisioni sulla sorte dell’azienda possano interferire con la sorte dei dipendenti. Infatti, la crisi o, in generale, le difficoltà dell’impresa si impongono come premessa ad un atto di licenziamento sia nei recessi collettivi, sia in quelli individuali (v. Napoli 1980, 17 ss., per il quale “«giustificato motivo» è un’espressione sintetica idonea a designare quei fatti al verificarsi dei quali l’esercizio del potere di recesso è conforme al modello di riferimento fissato dalla legge”, in dichiarata contrapposizione a Prosperetti 1967, 141 ss.). Il problema organizzativo è oggetto di un giudizio, sintetico e critico. Infatti, il concetto di questione organizzativa può essere scisso in due versanti. Alcuni fatti non sono mai considerati dubbi e sono ritenuti pacifici sia dall’impresa, sia dal lavoratore e dalle sue rappresentanze. Il contesto generale, la situazione di mercato, le risultanze dei bilanci sono una sorta di sfondo ad analisi più delicate, e su tali temi si registra spesso un diffuso consenso. A dire il vero, questa concordanza di vedute può essere talora il frutto di una certa ingenuità delle associazioni sindacali e dei prestatori di opere o, all’opposto, di abili strategie aziendali di comunicazione. Nonostante i numerosi obblighi di informazione fissati sia nei testi normativi, sia nei contratti collettivi, la consapevolezza sulla situazione dell’impresa è talora più apparente che reale e, in specie in strutture complesse e con rilevanti ramificazioni territoriali, la percezione sull’effettivo andamento 5 economico può essere fuorviata da consapevoli sforzi del datore di lavoro volti a fornire di sé e dei suoi obbiettivi una immagine apposita, non sempre fedele. Tuttavia, di rado il conflitto sulla legittimità del licenziamento si spinge fino alla contestazione dei giudizi, di natura descrittiva, che, con affermazioni sintetiche, delineano il problema di fondo il quale, poi, conduce al recesso. Le tensioni sono maggiori quando si passa dallo sfondo alla specifica questione in discussione. Anche in tale ottica più ristretta (e più significativa per il sindacato del giudice), la valutazione dell’organizzazione e dei suoi problemi resta oggetto della conoscenza, con una descrizione più puntuale della struttura e delle ragioni della riduzione del personale. Se dalla crisi si deduce l’esistenza di una produzione eccessiva o se dalla competizione internazionale si ricava l’opportunità di un potenziamento tecnologico, con l’uso di macchinari più moderni, non si pone alcun “nesso di causalità” e, oltre tutto, non si passa ancora sul terreno della decisione. Si rimane nell’area di dominio della conoscenza, se mai con il transito da affermazioni descrittive (o come tali percepite) ad altre con un più intenso contenuto critico e, quindi, più discutibili (sulla contrapposizione fra conoscenza critica e storica, v. Pugliatti 1957, 225 ss.; Meloncelli 1983, 59 ss.). Il giudizio tipico del processo intellettivo passa dalla semplice ricostruzione del fatto alla sua critica (v. Carnelutti 1951, 364 ss.; Giampiccolo 1959, 143 ss.). Ciò vale in particolare qualora oggetto della conoscenza sia lo stato dell’azienda, perché l’informazione si sofferma su più elementi connessi in un intreccio, cioè la descrizione della struttura, la valutazione dello stato del mercato, la verifica delle potenzialità tecnologiche, la riflessione sui bisogni dei clienti, le ipotesi sulle scelte dei competitori e sui condizionamenti dati dalle discipline di settore, l’interrogarsi sulle dinamiche macroeconomiche presenti e future. L’organizzazione è un metodo di valutazione delle situazioni. In quanto chiave di comprensione di ciò che succede in azienda, l’organizzazione non è in natura rerum e non è neppure regolata in modo diretto dal diritto positivo, ma è la strada della razionale rielaborazione e dell’inquadramento degli eventi incidenti sulla decisione di licenziare. In sostanza, l’organizzazione è prima di tutto nei piani dell’imprenditore; proprio perché il licenziamento provoca una trasformazione dell’assetto produttivo, l’organizzazione non consiste solo nella 6 descrizione statica, ma nell’analisi critica funzionale al cambiamento. In fondo, nella categoria dell’organizzazione si concentrano sia la sistemazione dei fatti sottoposti a giudizi descrittivi, sia una prognosi, volta a prevedere lo svilupparsi del mercato, dell’attività, della concorrenza. Si resta nell’ambito della conoscenza, ma questa riguarda una realtà in modificazione, da comprendere nelle sue trasformazioni. Nella sua interazione con gli altri protagonisti del contesto economico, l’azienda può essere valutata solo se si fa ricorso al concetto di organizzazione. Esso collega in un approccio unitario tutti i fatti che afferiscono all’andamento dell’impresa ed alla posizione dei prestatori di opere (v. Persiani 1966, 35 ss.; Marazza 2002, 145 ss.; sul nesso fra l’organizzazione aziendale e le obbligazioni del prestatore di opere, v. Mengoni 1965, 498 ss.). L’organizzazione è un meccanismo concettuale di inquadramento delle riflessioni dell’imprenditore, il quale, nel suo dialogo con la realtà, ha molteplici impulsi, sull’attività dei suoi collaboratori, sulla natura dei prodotti, sui comportamenti dei competitori, sull’evolversi del mercato, sui risultati patrimoniali, sulle rivendicazioni sindacali, sull’andamento della legislazione di settore, su molti altri aspetti che condizionano l’iniziativa economica, in una società di capitalismo maturo. Tali profili devono essere collegati in un disegno unitario, perché dall’intrecciarsi delle analisi e dei programmi provenga una considerazione conclusiva (sull’impatto della competizione sul rapporto di lavoro, v. Persiani 2000, 5 ss.). L’organizzazione non è oggettiva, perché il disegno dell’azienda è nella mente, cioè nel giudizio critico dell’imprenditore, se non si vuole spacciare per reale un piano solo pensato e corretto di momento in momento, con adattamenti, variazioni, innovazioni, indotti dalle modificazioni del contesto e dal sopraggiungere di ulteriori stimoli. Quanto più sono rapide l’evoluzione della società e quella di ciascuna azienda, tanto più si svela la natura soggettiva del progetto, con aggiornamenti costanti, perché sia possibile reggere le sfide provocate dalle decisioni non meno frenetiche dei concorrenti. A fronte di una serrata competizione, la quale determina una protratta tensione verso maggiori livelli di efficienza (reale o solo sperata), l’organizzazione è il nesso razionale fra i diversi fattori della produzione o, se si vuole, fra le articolazioni dell’azienda. Tuttavia, la categoria dell’organizzazione deve essere riportata alla conoscenza, 7 come criterio di spiegazione di un mutevole progetto, in affinamento progressivo ed in relazione dialettica con gli impulsi che, a loro volta, arrivano senza interruzione. Con le sue analisi, l’impresa trae a sintesi notizie disorganiche. Così si enuncia il problema che conduce alla riduzione del personale. In particolare, tale ragionamento sfrutta la categoria dell’organizzazione, la quale mette in connessione quanto si apprende sul presente rispetto alle prospettive del mercato. L’intensità delle trasformazioni e la loro celerità rendono sempre più sfuggente quella organizzazione alla quale, invece, si vorrebbe dare una sostanza oggettiva. Se mai, una simile idea sarebbe stata allettante nel passato, quando l’immagine dell’azienda era improntata alla stabilità ed alla solidità, più che alla ricerca della massima duttilità, nell’inseguire le sfide del mercato. Il rapporto di lavoro non può comprendere un impegno dell’imprenditore a conservare un determinato assetto della struttura da lui creata. Quindi, per organizzazione non si può intendere lo status quo, cioè il modello consolidato di interrelazione fra i vari dipendenti, escluso dall’oggetto delle reciproche obbligazioni. Infatti, il diritto del lavoro non garantisce un assetto dell’azienda, ma si sofferma se mai sulle posizioni soggettive dei prestatori di opere e sui poteri dell’imprenditore, in un contesto dinamico. Non si possono fare coincidere la tutela dei lavoratori e la conservazione; invece, occorre accettare, se non incoraggiare il dinamismo. Titolare dei poteri riconosciuti per legge e fondati sul contratto, il datore di lavoro non trova né nella legge, né nella contrattazione collettiva, né nell’accordo individuale il fondamento del suo disegno di collegamento razionale fra i fattori della produzione (v. Mancini 1957, 23 ss.), proprio perché questo disegno è un programma soggettivo, oltre tutto in costante evoluzione. Tale progetto viene prima del diritto e, poi, è realizzato con l’esercizio dei poteri e con l’osservanza dei limiti fondati dal diritto del lavoro. Proprio per questo, il programma nel quale consiste l’organizzazione rientra nel mero dominio della conoscenza, ma ha precisa rilevanza giuridica. Il punto è stabilire quale sia tale rilevanza giuridica e, dunque, come sia disegnato il potere del datore di lavoro. Tuttavia, la rilevanza dell’organizzazione non la rende oggetto del contratto, né di una disciplina specifica. 3. Il licenziamento per riduzione di personale, i costi e la buona fede. 8 Di fronte all’allegazione di un motivo di recesso, il giudice deve muovere nel suo sindacato da due prospettive concomitanti, chiedendosi in primo luogo se quello addotto sia il motivo effettivo e poi se, con i margini di opinabilità tipici di decisioni che facciano seguito a complessi e discutibili giudizi sintetici, il datore di lavoro abbia allegato quel quid novi che è il necessario presupposto di un legittimo licenziamento. Poiché il vero motivo resta chiuso nella psiche del titolare del potere e, comunque, di chi abbia adottato l’atto, il controllo sull’effettività del motivo indicato presuppone una analisi di verosimiglianza del ragionamento (valutativo e decisorio) enunciato a fronte dell’impugnazione del prestatore di opere. Quindi, il giudice deve partire dallo stato di fatto, per stabilire il reale intendimento, per quanto esso si esponga alla cognizione altrui. Dimostrato il sussistere del quid novi e, di conseguenza, chiarite la credibilità del motivo addotto e la veridicità delle situazioni indicate a sostegno, il motivo è giustificato qualora lo scopo sia il frutto coerente di un equilibrato apprezzamento (a prescindere dalla sua esattezza) e l’intera condotta sia conforme a buona fede. Si chiede “che il datore di lavoro non solo usi dei propri poteri conformemente alla lettera delle disposizioni legislative o contrattuali, ma parimenti ne rispetti, per così dire, lo spirito” (v. Ferrante 2004, 40 ss.). Il giudice deve verificare la complessiva buona fede dell’impresa. Per tradizione, il vincolo al recesso è visto nell’inevitabilità, quindi nella razionalità della decisione, nella capacità di motivare il collegamento fra la causa (cioè, il problema organizzativo) e l’effetto (dunque, il licenziamento). Tale impianto argomentativo non è persuasivo ed il canone di valutazione del carattere “giustificato” del motivo si deve situare su un altro piano, diverso dalla ragionevolezza. In difetto, il giudice diventerebbe arbitro dei destini dell’organizzazione e questa sarebbe esaminata dall’esterno secondo apprezzamenti inconciliabili con la natura opinabile delle indagini e delle decisioni connesse. Si renderebbe oggettiva una organizzazione che, all’opposto, è strumento di spiegazione concettuale del progetto dell’impresa, si coinvolgerebbe di fatto il lavoratore nella realizzazione di un piano cui è estraneo e si giudicherebbe soccombente il suo interesse a fronte di una analisi su strategie formulate dall’impresa stessa. 9 L’organizzazione non ha alcuna consistenza autonoma e non vi è un suo interesse che si aggiunga o si distingua da quello dell’imprenditore, oltre tutto nella posizione di governare con libertà le sue scelte ed il quale, quindi, può rivedere, aggiornare e trasformare le sue strategie. L’organizzazione è solo nei progetti dell’impresa e non ha sue ragioni diverse da quelle del datore di lavoro. Quindi, la razionalità intesa (come spesso accade) quale coerenza con l’interesse dell’organizzazione non può dirimere l’aspro conflitto fra datore di lavoro e dipendente. La libertà di iniziativa economica deve trovare un altro contemperamento e questo non può essere reperito in un sindacato del giudice che discrimini a seconda della bontà della scelta. All’impresa si chiede correttezza, quindi prevedibilità delle decisioni. Esse devono rispondere ad un progetto non episodico o sorto in modo apodittico o casuale. Il giudice non deve valutare il singolo problema, ma la vita dell’azienda, per capire se il licenziamento corrisponda ad un impulso momentaneo od abbia fondamenti più solidi. Poiché non si può entrare nell’intimo dell’organizzazione, confinata fuori dalla sfera di controllo dei prestatori di opere e del giudice, il datore di lavoro deve avere un contegno omogeneo, operare secondo gli stessi schemi in contesti simili, enunciare in modo preciso le sue determinazioni, ponderarle ed affrontare con lo stesso approccio situazioni paragonabili. Pertanto, non si può valutare la razionalità, ma, al contrario, si deve guardare all’uso di un metodo equilibrato. Il controllo è di correttezza e, quindi, di conformità a parametri di trasparenza, di prevedibilità, di puntuale spiegazione delle ragioni dell’atto, di rispetto e di considerazione effettiva per le esigenze del lavoratore. Accantonato il sindacato diretto sulla razionalità, si deve considerare il potere nelle modalità di esercizio. Il punto di partenza è la motivazione, che l’impresa deve esternare e la quale condiziona le successive valutazioni del giudice. Fermo l’obbligo di enunciare e di provare il motivo, questo non deve essere esaminato rispetto alle necessità dell’organizzazione, ma, se è ritenuto quello effettivo, deve essere riguardato alla luce del complessivo contegno dell’impresa, della sua presenza sul mercato, del suo modello di iniziativa nel lungo o, almeno, nel medio periodo. Non si può inseguire una astratta idea di buona organizzazione dimenticando gli interessi sostanziali; né si possono considerare misurabili i “costi”, quando l’organizzazione è il semplice riflesso del mutevole progetto del 10 datore di lavoro. Poco importa il miglioramento dell’efficienza in sé (ammesso che ciò possa essere stabilito con sicurezza) qualora l’espulsione di chi abbia competenze superate non sia collegata ad una complessiva condotta leale. Una simile impostazione potrebbe essere tacciata di indeterminatezza, di mancanza di criteri direttivi, di scarsa precisione. Peraltro, le stesse osservazioni dovrebbero essere rivolte alle tesi tradizionali. Solo la convinzione (infondata) dell’oggettività dell’organizzazione dà un preteso fondamento alla ricerca del problema strutturale quale presupposto del licenziamento. La considerazione del comportamento dell’impresa dal punto di vista della correttezza non provoca alcun rinvio a parametri generici. Del resto, il sindacato di correttezza è da sempre patrimonio del nostro ordinamento. La verifica del giudice non può riguardare la necessità della riduzione di personale, ma si deve soffermare sulla buona fede. In sostanza, una analisi di coerenza organizzativa deve essere sostituita da una di compatibilità sociale dell’iniziativa del datore di lavoro. In questa logica si iscrive il noto tema del ripescaggio; sarebbe singolare addossare all’impresa l’onere di spiegare in quale altro “posto” sarebbe stato possibile inserire il lavoratore. Per un verso, questo ragionamento si basa sulla pretesa rilevanza del “posto” quale oggettiva particella dell’organizzazione, con uno schema poco persuasivo. Per altro verso, non si vede perché il recesso intimato debba costringere ad un potenziamento dell’azienda in un altro settore, con un incremento nel numero dei dipendenti impegnati. Sebbene siano da escludere qualsiasi “funzionalizzazione” dell’attività e, quindi, uno sforzo creativo del giudice, fuori dalle previsioni legali, queste ultime devono essere ricostruite in sintonia con la direttiva costituzionale. Ciò permette di vedere nella buona fede la “specifica lealtà che si impone fra due individui legati da un vincolo di natura particolare” (v. Cattaneo 1971, 613 ss.), poiché tale concezione non preclude di ripensare al canone di lealtà in sintonia con le indicazioni costituzionali. Ne deriva uno spettro di doveri che circoscrivono l’esercizio del potere e comportano vincoli in positivo. Le varie componenti ricomprese nella buona fede permettono un incisivo sindacato del giudice, attento al comportamento per controllare il motivo e la sua coerenza sociale. In primo luogo, l’idea della lealtà insita nella buona fede consente di verificare la prevedibilità del licenziamento. Esso non può essere improvviso e deve essere preceduto da quelle avvisaglie indice di uno sforzo serio di 11 riflessione. Proprio perché questa è categoria della conoscenza, la ricognizione del datore di lavoro sullo stato dell’impresa e sulle sue prospettive deve essere percepibile e postula l’approfondimento dei temi significativi. Impregiudicati il progetto dell’impresa e, di conseguenza, le sue opzioni, la decisione di recedere deve seguire ad una complessiva valutazione. Poiché la scelta è comunque traumatica, con il sacrificio estremo dell’interesse del lavoratore, essa deve essere il frutto di un comportamento proporzionato. Tali osservazioni non implicano un invito all’attendismo o al ritardo, poiché, anzi, alcune crisi inducono alla massima celerità. Non ci si deve chiedere quanto tempo il datore di lavoro debba ponderare prima di licenziare e come ciò debba avere luogo. Fra l’altro, ciascuna impresa ha suoi percorsi decisionali, in sintonia con le sue dimensioni, le sue forme di presenza sul mercato, il collegamento fra il vertice e gli altri collaboratori, i metodi di comunicazione interna, la circolazione dell’informazione. Peraltro, il licenziamento deve essere adottato in modo leale. I comportamenti preparatori possono comprendere verifiche sui metodi di lavoro, consultazioni sindacali (anche qualora non siano obbligatorie), l’emanazione di studi circostanziati, colloqui con i lavoratori; spetta al giudice una analisi empirica, senza che questi si debba lasciare condizionare da impostazioni precostituite, ma con la piena accettazione di diverse modalità di azione, purché leali. Tuttavia, in quanto decisione fondata per sua natura su una ricognizione di fatti, il licenziamento non può essere improvviso e, se mai, deve essere la coerente conclusione di un ragionamento. Peraltro, in ossequio ad un fondamentale criterio di lealtà, le avvisaglie del recesso devono essere comprese per tempo; non vi possono essere una crisi che sfugga per intero ai prestatori di opere, né una riorganizzazione a loro ignota, né modificazioni tecnologiche delle quali non siano edotti. In sostanza, lo scopo non può essere sorprendente, poiché ciò contrasterebbe con il carattere dell’obbiettivo perseguito e con il suo rivolgersi al destino economico dell’impresa. Questa può proseguire la sua vita, ma, nella prassi, il cambiamento deve essere percepito. Quindi, oltre a stabilire se il motivo enucleato sia quello effettivo, il giudice deve chiarire se la decisione sia stata adottata in modo leale. Mentre un abile difensore può sempre costruire a posteriori un persuasivo problema organizzativo ragionando a ritroso, la lealtà deve emergere dagli specifici 12 comportamenti, oggetto di prova diretta. Mentre il controllo sulla bontà della decisione sposta la riflessione all’interno del progetto del datore di lavoro e segue la sua descrizione dei problemi, spesso immaginata per la giustificazione della determinazione assunta, la lealtà mette l’accento su fatti storici che qualificano la genesi della decisione. Sotto questo profilo, il motivo non è sottoposto ad un sindacato nel merito, ma per il percorso seguìto. Pertanto, se si utilizza il criterio di lealtà fino alle sue naturali conseguenze, di fronte al giudice si espone non una organizzazione comunque confinata in una conoscenza opinabile, ma un rapporto, con gli eventi che caratterizzano la sua evoluzione. 4. Il licenziamento per riduzione di personale fra costi e valori. L’elaborazione del motivo di recesso deve essere l’esito di una condotta complessiva rispettosa delle ragioni del lavoratore e, se lo scopo in sé sfugge al sindacato del giudice, invece il comportamento dell’impresa soggiace alla sua cognizione, poiché il giudice stesso si deve occupare del “farsi” della determinazione, non con riguardo al contenuto, ma alla formazione della volontà. Qualora la riduzione di personale trovi le sue premesse in una crisi dell’apparato produttivo od in una svolta tecnologica, è agevole spiegare i prodromi di tali eventi, che, per loro natura, non possono essere improvvisi e, se mai, riportano a situazioni note. Ciò non significa invitare l’impresa alla lentezza, poiché la lealtà si può combinare con la massima celerità. Peraltro, chi è parte di una struttura deve capire quale sia il destino suo, dei colleghi e dell’organismo intero. Se tale trasparenza non è garantita, non si rispetta il criterio di buona fede. Quindi, il sindacato del giudice passa dall’atto in sé all’esercizio del potere e, pertanto, al comportamento. Poi, il principio di buona fede implica quello di autoresponsabilità sociale. Poiché la scelta di assumere è libera, il licenziamento non corrisponde a criteri solidaristici qualora l’estinzione del rapporto rimedi ad un mero errore strategico del datore di lavoro. Salvo il caso di una crisi aziendale, che comporta il sacrificio della pretesa del dipendente, questi deve vedere prevalere le sue ragioni qualora il recesso sia solo il frutto del pentimento dell’impresa per la sua assunzione. L’autoresponsabilità sociale impedisce di eliminare le conseguenze sfavorevoli di una decisione libera dell’impresa ai danni del prestatore di opere. 13 Tale linea di confine non può essere tracciata con una valutazione di costi, ma deve essere definita con una considerazione dei comportamenti alla stregua di parametri assiologici, sia pure codificati, come quelli del principio di buona fede. Infatti, per lo stato di soggezione economica del prestatore di opere, la responsabilità connessa alla scelta di assumere ricade per intero nella sfera dell’impresa. Pertanto, in relazione ad un eventuale, successivo licenziamento, si può parlare di autoresponsabilità sociale in quanto il soggetto deve riparare da sé (e non a pregiudizio del lavoratore) alle conseguenze dannose dell’originaria assunzione. Il riconoscimento della libertà del datore di lavoro nel progettare e nel realizzare la sua organizzazione non lascia disarmato il prestatore di opere, perché, a fronte della libertà di stipulare il contratto individuale, opera una autoresponsabilità che contempera la libertà di iniziativa economica con esigenze di socialità. Non a caso, il sussistere del giustificato motivo oggettivo presuppone un quid novi. Se esso manca e se le condizioni sono le stesse del momento della stipulazione del contratto individuale, allora l’impresa non può pretendere di cambiare il suo pensiero ed estinguere il rapporto creato per sua scelta. Ad esempio, la giurisprudenza ricorda il noto tema dei cosiddetti licenziamenti tecnologici, quindi dovuti al ricorso a moderne risorse. A tale riguardo, non emergono soverchi problemi a proposito dell’osservanza del principio di lealtà; infatti, il cambiare delle tecniche presuppone una modificazione stabile e percepibile, ed è agevole riconoscere le implicazioni sull’attività di tutti i dipendenti. Poiché, nel caso di recessi per l’ammodernamento tecnologico, il quid novi è di ovvia consistenza materiale ed è il risultato di una variazione degli impianti, non è in discussione la trasparenza del recesso, che fa seguito non solo ad una valutazione su un evento certo, ma ad un ragionevole periodo di ponderazione. Si dice che il giudice dovrebbe stabilire il nesso di causalità fra l’innovazione ed il recesso, e così si intende che il licenziamento deve riguardare solo dipendenti la cui attività sia stata coinvolta nell’articolazione interna sottoposta alla modificazione tecnologica. Se mai, emerge un problema di effettività del motivo addotto. Infatti, l’eterogeneità fra le mansioni eseguite e l’innovazione tecnica rende irrilevante il motivo enunciato, poiché, a tacere di 14 ogni altra considerazione, esso non può essere ritenuto quello vero, a seguito di un esame in concreto. In sostanza, non occorre fare ricorso a nozioni ambigue, come quella del nesso di causalità, per dimostrare che il motivo deve attenere ai lavoratori interessati alla trasformazione tecnica. Se mai, si deve controllare che, con repentine modificazioni dei compiti assegnati non spiegabili altrimenti, il datore di lavoro non abbia creato in modo artefatto i presupposti per il licenziamento. Sul diverso piano della componente solidaristica del principio di buona fede, il ragionamento diventa più articolato. Non è nemmeno il caso di insistere sulla centralità delle trasformazioni tecnologiche e sulla corrispondente competizione serrata, basata in primo luogo sull’aggiornamento del patrimonio tecnico. Pertanto, sarebbe singolare se il criterio di solidarietà impedisse di migliorare il livello tecnico dell’azienda. Simili innovazioni comportano spesso la riduzione del personale, come conseguenza dell’economia capitalistica moderna, al limite con la riqualificazione delle competenze dei dipendenti rimasti. Anzi, se si guarda al futuro dell’azienda nel medio periodo e si accantona l’approccio un po’ miope per il quale la tutela dei lavoratori coinciderebbe con la conservazione dell’assetto preesistente, con una sorta di generale timore per qualsiasi cambiamento, gli stessi dipendenti dovrebbero accettare non i recessi, ma almeno le svolte tecnologiche come parte inevitabile del loro destino professionale. Se questi eventi pongono gravi difficoltà alle persone allontanate, essi riservano ragionevoli prospettive agli altri, per la corrispondente revisione dell’azienda, che vuole rimanere nel mercato, senza cedimenti di fronte ai competitori. Quindi, se il motivo di recesso deve essere esaminato alla stregua della buona fede, i licenziamenti tecnologici sono leciti e, anzi, restano strumento doloroso, ma ragionevole, poiché migliorano l’efficienza, visto il nesso costante fra acquisizioni tecnologiche, competizione ed attività produttiva, come è tipico di una società di capitalismo maturo. Pertanto, se il datore di lavoro può innalzare il livello tecnico della sua struttura, a fronte di questa constatazione il giudice si deve arrestare. Nonostante vi sia un netto divario concettuale fra il concepire il licenziamento per riduzione di personale come un problema di costi e non una questione di valori in conflitto, da considerare alla stregua del parametro di buona 15 fede, nell’ipotesi delle trasformazione tecnologiche le conclusioni non divergono sulla base delle differenti tesi. Infatti, sono comunque necessari i licenziamenti. Lo stesso non si può dire in altre ipotesi, in primo luogo qualora il datore di lavoro voglia allontanare un dipendente assunto sulla base di una scelta sbagliata e chiamato ad espletare una attività rivelatasi un inutile appesantimento. In tale contesto, più frequente di quanto si possa pensare, se il licenziamento è un problema di costi, esso è legittimo, se si esaminano i valori, si deve giungere alla conclusione opposta. 5. Il sindacato del giudice sulla legittimità del licenziamento ed il caso del cosiddetto licenziamento per incremento dei profitti. Di solito, la giurisprudenza attribuisce scarsa tutela al lavoratore coinvolto in processi di riorganizzazione che migliorino l’efficienza senza l’incombere della crisi, per la sola volontà di aumentare i profitti. Se l’intera riflessione della giurisprudenza ha luogo all’interno dello schema organizzativo, hanno minima influenza gli obbiettivi ultimi del recesso ed all’impresa basta identificare un preteso problema collegato alla soppressione del “posto”, se mai mettendo in luce l’impossibilità del ripescaggio. Proprio in queste situazioni le tesi abituali mostrano le loro più evidenti difficoltà; l’idea dell’organizzazione non può mettere a raffronto le ragioni del datore di lavoro e quelle dei prestatori di opere, perché l’interesse dell’organizzazione coincide sempre con quello dell’imprenditore e, se questo è egoistico e, comunque, indirizzato al solo aumento dei guadagni, il recesso è lo stesso giustificato. In sostanza, l’uso della categoria dell’organizzazione comporta il riferimento ad un sistema di giudizio di carattere egoistico, e non solidaristico. Se il fine dell’impresa è ricostruito nella sua complessità, appunto come obbiettivo ultimo dell’iniziativa, si può distinguere quando il licenziamento sia preordinato a ridurre od eliminare uno stato di crisi o, all’opposto, quando si voglia selezionare il personale per incrementare il margine economico. In entrambi i casi si cerca di rimediare ad una precedente scelta errata o superata, poiché l’assunzione del collaboratore era superflua o tale si è rivelata, anche se a distanza di tempo. 16 Però, il motivo non è giustificato in quanto l’errore iniziale o, almeno, la sopravvenuta inadeguatezza della decisione di assumere devono fare gravare le conseguenze negative sull’autore, che ha creato il costo – opportunità (v. Ichino 2002, 496 ss.). Il licenziamento non risponde al principio di autoresponsabilità sociale se l’eliminazione del costo – opportunità è compiuta dall’autore dell’errore a scapito del dipendente, proprio perché chi sbaglia è vincolato alle sue determinazioni in nome di criteri di socialità, che limitano il potere di recesso. Il valore solidaristico prevale su quello del miglioramento dell’efficienza, perché il diritto del lavoro deve contemperare gli interessi in conflitto e l’errore non può essere superato in nome del semplice aumento del guadagno, ai danni del prestatore di opere. Se così fosse, il diritto del lavoro non realizzerebbe la sua funzione tipica. Differente è il tentativo dell’impresa di rimediare ad una condizione patrimoniale avviata sulla pericolosa china del dissesto. In queste ipotesi, viene in risalto la salvezza dell’intera impresa e, quindi, non l’inesistente interesse dell’organizzazione, ma le vere e note aspettative degli altri lavoratori occupati e, al limite, di quelli inoccupati, per i quali la scomparsa dell’azienda eliminerebbe una futura occasione di collocazione professionale. Invece, qualora il recesso ambisca al mero ripristino di una astratta efficienza, la piena libertà negoziale nell’assumere determina una corrispondente autoresponsabilità sociale. Se la decisione di stipulare si è rivelata inadeguata, le implicazioni gravano sullo stesso imprenditore. Non si dica che questa concezione provocherebbe una scarsa capacità di competizione ed una pericolosa stasi. Se la differenza fra il lecito e l’illecito grava sul motivo di licenziamento e se questo è da qualificare alla stregua della buona fede, è illegittimo addebitare al collaboratore l’esito negativo di una assunzione rivelatasi inopportuna, e nessuna responsabilità vi è per il prestatore di opere, non solo per la sua debolezza sociale, ma perché l’organizzazione è il disegno opinabile ed insindacabile del datore di lavoro. Non vi può essere alcuna riprovazione per l’impresa che abbia assunto in eccesso; però, in tali condizioni, se non è a rischio il persistere stesso dell’azienda, il rapporto può essere risolto solo in via consensuale, se mai con opportune forme di incentivazione. Infatti, fra i due interessi in conflitto deve prevalere quello del lavoratore, e non quello dell’impresa, che ha comunque creato il problema, aumentando l’organico. 17 Tale impostazione non disincentiva le assunzioni. Se mai si volesse utilizzare l’istituto dei recessi quale strumento di intervento sul mercato del lavoro (e tale argomento meriterebbe una apposita considerazione, qui sovrabbondante; v. F. Carinci 2003, 35 ss.; Liebman 2002b, 378 ss.; Liso 2002, 169 ss.), non si dovrebbe comunque considerare il regime di validità sostanziale dell’atto, ma, al limite, quello sanzionatorio. Il licenziamento non è giustificato se mira al semplice incremento del profitto. L’idea consueta del giustificato motivo quale portato dell’organizzazione vuole in larga misura aiutare l’impresa proprio in queste situazioni. Invece, non si può allontanare senza spesa chi sia stato assunto per una opzione superata dagli eventi, peraltro fuori dalla crisi. Infatti, il preteso interesse dell’organizzazione non può occultare le ragioni profonde del licenziamento, che sono anche le più semplici. Un recesso per la salvezza dell’azienda ed uno per l’incremento del guadagno sono spesso accostati. Invece, le due fattispecie devono essere contrapposte, e l’una è legittima, l’altro no. 6. Il diritto del lavoro fra tutela della persona e ragioni dell’economia. Il problema del sindacato sul motivo di licenziamento per riduzione di personale si inserisce in un più delicato confronto fra le ragioni del diritto del lavoro e quelle dell’economia, secondo linee di studio proprie del dibattito recente (v. Del Punta 2001, 4 ss.; Loi 1999, 547 ss.), non sempre con esiti persuasivi. In realtà, la crisi del diritto del lavoro trova spiegazione più nella trasformazione delle modalità organizzative aziendali che nell’obsolescenza teorica degli schemi tradizionali. Il cambiare dell’azienda e dei suoi metodi può imporre una revisione anche profonda del sistema di regolazione, ma tali variazioni dipendono da una causa esterna, quindi dalle trasformazioni della società e dei comportamenti dei protagonisti. In tale orizzonte, è opinabile parlare di crisi del diritto del lavoro, come se le sue allegate difficoltà si collegassero a fattori interni. In fondo, come ricorda Graziano, il diritto postula sempre un incontro fra le idee del legislatore (e, comunque, delle disposizioni positive) e le condotte umane regolate, i “mores”, i quali devono trovare una sintesi accettabile con l’impostazione giuridica, salvo assistere al loro finale, inevitabile prevalere. 18 Nella fase storica attuale, non si percepisce un ripensamento sui fondamenti del diritto del lavoro, ma, se mai, un suo spiazzamento progressivo (valutato in modo diverso quanto all’ampiezza ed all’intensità) ad opera dei ”mores” degli imprenditori. Pertanto, le tensioni nella sintesi fra diritto ed economia trovano la loro motivazione nelle modificazioni subìte dalle tecniche di produzione. Troppo spesso si levano toni da “autocritica” sugli obbiettivi e sulla struttura degli istituti del diritto del lavoro, mentre, all’opposto, con maggiore senso storico, si dovrebbe ridefinire la regolazione affinché essa sia resa più adatta, se del caso, alle strategie delle imprese. A dire il vero, queste difficoltà riguardano nello specifico alcune impostazioni, in particolare quelle che vogliono rendere il diritto del lavoro un metodo di condizionamento delle iniziative imprenditoriali. Non è mancata la tentazione di trasformare i vincoli opposti al datore di lavoro per la protezione del prestatore di opere in strumenti di limitazione del potere dell’impresa, con la corrispondente costruzione di un contropotere delle associazioni sindacali e del giudice, che condividerebbero la responsabilità dell’esercizio della libertà di iniziativa economica. Tali analisi si sono concentrate proprio nella ricostruzione del recesso per riduzione di personale, in ordine al quale si cerca spesso di spingere la valutazione del giudice fino all’intima essenza dell’organizzazione, come se il giudice potesse stabilire se l’estinzione dell’uno o dell’altro rapporto corrisponda all’interesse dell’organizzazione stessa. Questa interpretazione non può essere condivisa, perché, a tacere di altro, confonde la sfera della conoscenza con quella della volontà. Lo scopo del diritto del lavoro non è di rendere ragionevoli le strategie imprenditoriali, ma di porre vincoli a presidio di prevalenti interessi del prestatore di opere. Ciò non toglie nulla alla natura contrattuale del rapporto e al fatto che sull’accordo si basano il potere direttivo e la stessa subordinazione (v. Simitis 2001, 61 ss.). Peraltro, i fini aziendali non sono né oggetto del contratto, né condizionati dalla subordinazione, né, ancora, resi razionali dal diritto del lavoro. In particolare, in tema di riduzione del personale, il sindacato del giudice non deve stabilire quando sia ragionevole licenziare, ma se il comportamento dell’impresa sia coerente con parametri di correttezza. 19 Ne derivano due conclusioni correlate. In primo luogo, un ridimensionamento delle funzioni del diritto del lavoro rende più agevole una sintesi delle sue ragioni con quelle dell’economia; l’intervento dall’esterno sui poteri del datore di lavoro comporta la rinuncia ad una razionalizzazione delle prassi presenti nella vita dell’azienda e, soprattutto, lascia l’impresa arbitra del suo destino, come deve essere in una moderna economia di mercato, condizionata da una piena competizione a livello sopranazionale. Di fronte alle sue sfide, il potere è del datore di lavoro, come accade per la responsabilità relativa, e né l’uno, né l’altro possono essere condivisi con i soggetti collettivi o con il giudice. Altro è impedire che l’imprenditore possa nuocere con le sue scelte a valori prevalenti e per questo tutelati. Però, a tale fine, la discussione si sposta sulla buona fede nell’intimazione del licenziamento, non sulla razionalità (v. Oppo 2001, 421 ss.). In secondo luogo, se si ridimensionano le funzioni attribuite al diritto del lavoro, questo le può perseguire in modo più agevole. Se rinuncia ad essere strumento di riconduzione a razionalità delle iniziative dei datori di lavoro e si arresta alla soglia dello spazio di decisione libera dell’impresa, esercitando in pieno il suo compito di impedire i comportamenti in mala fede, il diritto del lavoro subisce in grado inferiore l’effetto delle trasformazioni costanti della società, proprio perché è contenuta l’interferenza fra il sistema giuridico e quello economico ed il primo riguarda il secondo dall’esterno. Questo ridimensionamento delle ambizioni del diritto del lavoro non implica una riduzione dell’effettività delle sue previsioni; anzi, la valutazione in termini di buona fede (e non di razionalità) delle decisioni dovrebbe consentire una distinzione più agevole dei comportamenti riprovevoli da quelli accettabili, e dovrebbe facilitare il sindacato del giudice, con esiti più prevedibili. Il diritto del lavoro non considera la costruzione delle strategie aziendali, ma ne esamina le conseguenze. A. Accornero (1999), L’ultimo tabù. Lavorare con meno vincoli e più responsabilità, Roma - Bari; P. G. Alleva (2000), I licenziamenti collettivi in prospettiva europea, in Lav. giur., 608 ss.; M. V. Ballestrero (1975), I licenziamenti, Milano; 20 S. Brun (2002), Giustificato motivo oggettivo di licenziamento e sindacato giudiziale, in Quad. dir. lav. e rel. ind., n. 26, 134 ss.; F. Carinci (2003), Discutendo intorno all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav., I, 35 ss.; F. 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