IL PRINCIPIO DELLA RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO SOMMARIO: 1. Il principio della ragionevole durata del processo: il sistema delle fonti. – 2. L’art. 6 della CEDU e l’attività della Corte Europea dei diritti dell’uomo. – 3. La legge 89/2001 dopo le modifiche apportate dalla legge n. 134/2012: presupposti oggettivi e soggettivi e ambito di applicazione. – 4. La determinazione legale del termine di ragionevole durata del processo. – 5. I parametri per la quantificazione dell’indennizzo. – 6. Il procedimento dopo la legge n. 134/20127. – 7. Il procedimento di opposizione (art. 5 -ter ). – Il principio della ragionevole durata nelle pronunce della Corte di Cassazione. 1. Il principio della ragionevole durata del processo: il sistema delle fonti L’esigenza che il processo, qualsiasi tipo di processo, civile, penale, amministrativo, contabile, tributario abbia una “durata ragionevole” è una esigenza avvertita in tutti i sistemi giuridici. Se è vero infatti che la durata del processo rappresenta un aspetto fisiologico del processo, è altresì indiscutibile che ciò che mina la sua effettività è l’eccesiva dilatazione temporale dei giudizi con la conseguenza che una decisione, anche se favorevole, ma resa a distanza di molto tempo dal momento in cui la parte ha adito il giudice rischia di risolversi in un sostanziale diniego di giustizia. Il diritto alla ragionevole durata del processo trova oggi il proprio fondamento in una molteplicità di norme contenute nel nostro ordinamento, o comunque da esso riconosciute, e la sua lesione comporta l’obbligo dello Stato al risarcimento del danno. Già in passato si riteneva che tale principio potesse ritenersi implicito in quello di eguaglianza, espresso a livello internazionale, nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Quest’ultima, infatti, pur senza richiamare espressamente il fattore tempo, pone l’accento su una serie di garanzie. In particolare, l’art. 10 stabilisce che: «Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad essere ascoltato, in corretto e pubblico giudizio, da un tribunale indipendente ed imparziale, cui spetti decidere sulle controversie intorno ai suoi diritti ed obblighi, così come sulla fondatezza di ogni accusa in materia penale mossa e a suo carico». Un riferimento al diritto ad una ragionevole durata del processo è contenuto nell’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, così come approvato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre del 1966 nella parte in cui prevede espressamente che «ogni persona ha diritto ad essere giudicata senza eccessivo ritardo». Un accenno merita altresì la Carta dei diritti dell’Unione Europea, approvata dal Consiglio europeo di Nizza il 7 dicembre 2000 alla quale il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2008, ha successivamente attribuito valore giuridico vincolante, di cui inizialmente era sprovvista (valore corrispondente a quello dei Trattati). In particolare, il riferimento è contenuto all’art. 47 nella parte 1 in cui sancisce «il diritto di ogni individuo a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente e entro un termine ragionevole da un giudice indipendente ed imparziale, precostituito per legge». Ma la disposizione indubbiamente più importante e, con la quale, per la prima volta è stato regolamentato il principio della ragionevole durata è quella contenuta nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali siglata a Roma nel 1950 e ratificata dall’Italia con la legge del 1955. A mente della norma richiamata «Ogni persona ha diritto di farsi ascoltare, in corretto e pubblico giudizio, da un giudice imparziale ed indipendente, costituito per legge, cui spetti decidere in tempo ragionevole, sulle controversie intorno ai suoi diritti ed obblighi di carattere civile, cosi come sul fondamento di ogni accusa mossa a suo carico». Per completare il quadro delle disposizioni che espressamente fanno riferimento alla durata del processo ed alla necessità che tale durata sia contenuta in tempi ragionevoli, è doveroso richiamare la Costituzione italiana. Il pensiero corre all’art. 111 Cost., così come modificato dalla legge costituzionale del 23 novembre 1999, il quale oggi dispone al suo primo comma che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge». A mente poi del novellato 2° comma «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale». L’art. 111 Cost. canonizza il principio del giusto processo ed esplicita i valori ai quali deve ispirarsi il giusto processo, alcuni direttamente discendenti dal principio di uguaglianza, vale a dire la circostanza da un lato che il processo deve essere gestito da un giudice che sia in posizione di terzietà rispetto agli interessi in gioco e dall’altro che in esso deve essere riconosciuta alle parti una parità di ruoli, sia con riferimento al rapporto tra di loro sia nel rapporto tra di loro ed il giudice. Immediatamente dopo l’enunciazione di tali valori, l’ultima parte del 2º comma dell’art. 111 Cost. aggiunge l’affermazione per cui «la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo». Pertanto, a seguito di tali modifiche il principio in esame è entrato a pieno titolo nella nostra Carta. Ciò non significa che, prima degli interventi apportati dalla legge del 1999, la nostra Costituzione non contenesse i principi di cui all’art. 6 della Convenzione. Difatti, non vi è dubbio che il novellato art. 111 enunciando espressamente il principio della ragionevole durata del processo non ha fatto altro che ribadire l’immanenza costituzionale di un principio già desumibile dall’art. 24 Cost. tenuto conto che lo Stato è chiamato non solo ad approntare la tutela giurisdizionale ma, altresì, a fare in modo che questa sia effettiva nel fermo convincimento che la tutela giurisdizionale è effettiva solo se la distensione temporale del procedimento (e quindi lo iato esistente tra il momento della proposizione domanda e quello della decisone) viene contenuta nei limiti strettamente necessari ad assicurare una decisione conforme a giustizia. 2 2. L’art. 6 della CEDU e l’attività della Corte Europea dei diritti dell’uomo. La lettura dei lavori che hanno portato alla novellazione dell’art. 111 Cost. dimostra come, nella redazione della citata disposizione, il legislatore abbia tenuto bene a mente l’art. 6 della Convenzione. Questo, tuttavia, non significa che le due disposizioni sia perfettamente coincidenti avendo, viceversa, una differente portata. Orbene, l’art. 111 Cost., pur recependo un principio già sancito dall’art. 6 della ridetta Convenzione, oltre che desumibile dall’art. 24 Cost., ha comunque una portata innovativa, avendo elevato a rango istituzionale il principio della ragionevole durata del processo. A ben vedere, però, il citato art. 111 non si rivolge ai singoli cittadini, ai quali non viene riconosciuto un diritto soggettivo da far valere nei confronti dello Stato alla ragionevole durata del proprio procedimento, bensì ha come diretto destinatario sia il legislatore, imponendogli di produrre una normativa idonea a consentire il celere svolgimento dei processi sia i giudici della Consulta ai quali attribuisce il potere di dichiarare incostituzionali tutte quelle disposizione da cui conseguano tempi processuali eccessivamente lunghi. Ma, come meglio sarà analizzato successivamente, è norma che si rivolge altresì al giudice chiamato ad interpretare le norme del nostro sistema processuale. Diversa, viceversa, è l’ottica dell’art. 6 della Convenzione ove il diritto alla ragionevole durata del processo è concepito come garanzia soggettiva, nel senso che da esso discende il riconoscimento in capo a ciascun cittadino degli stati firmatari della Convenzione un vero e proprio diritto soggettivo alla ragionevole durata del processo. Difatti, accanto al riconoscimento del diritto all'equo processo la CEDU garantisce un sistema di tutela per il singolo, il quale, in caso di violazione dell'art. 6 (o di ogni altra disposizione CEDU) potrà presentare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo per ottenere una equa riparazione (art. 41 della CEDU). La possibilità di adire la Corte di Strasburgo è però subordinata, ai sensi dell’art. 35 CEDU, ad una condizione di procedibilità, ovvero il previo esaurimento delle vie interne di ricorso (c.d. principio di sussidiarietà). È evidente, allora, che Convenzione obbliga direttamente ciascun Stato firmatario non solo a rispettare le norme in essa contenute ma altresì ad assicurare nell’ordinamento interno di ciascuno Stato l’effettivo godimento, attuazione e la tutela di tali diritti attraverso la predisposizione di rimedi efficaci, accessibili ed adeguati rimedi che, con particolare riferimento al tema in oggetto, garantiscono un processo che abbia una durata ragionevole. L'Italia ratifica la CEDU nel 1955 e, inserendola nell'ordinamento a livello di legge ordinaria, l’ha posta quasi nel dimenticatoio. L'inerzia del legislatore innanzi all'obbligo di risultato imposto con la ratifica della CEDU di adottare rimedi interni efficaci, accessibili ed adeguati affinché il sistema giudiziario renda giustizia in tempi ragionevoli ha, pertanto, determinato come conseguenza una enorme mole di ricorsi presentati a Strasburgo contro lo Stato Italiano per violazione della ragionevole durata. Questo, infatti, l’unico rimedio rimesso al cittadino per denunziare la violazione dell’art. 6 della citata convenzione, stante l’inesistenza di un rimedio interno giurisdizionale che 3 consentisse al singolo cittadino di far valere la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo direttamente innanzi al giudice nazionale. Di qui, dunque, a partire dagli anni 80 (ma la situazione si è aggravata ulteriormente negli anni 90) una valanga di condanne inflitte dalla Corte europea di Strasburgo contro lo stato italiano per eccesiva lentezza dei processi italiani. In particolare, con le quattro decisioni del 1999 (caso Bottazzi, Ferrari, di Mauro, e A.P.), la Corte Europea ha inflitto un duro colpo all’Italia; stante da un lato la perdurante inadempienza dello Stato italiano a munirsi di un rimedio interno per lamentare la violazione dell’art. 6 e, dall’altro, l’accumulazione delle violazioni constate, i giudici di Strasburgo sono giunti ad affermare l’esistenza nel nostro ordinamento di una prassi incompatibile con la convenzione. Tale asserzione, sotto il profilo processuale, si è tradotta oltre che in una forma di presunzione di colpevolezza dello Stato italiano, anche in una inversione dell’onere della prova a carico dello stato convenuto che, a partire da quel momento, avrebbe dovuto dimostrare che non si versava in una situazione riconducibile alla patologia della pratica incompatibile. Una svolta nella giurisprudenza della Corte Europea è rappresentata dalla decisione del 26 ottobre del 2000 sull’affaire Kudla c. Polonia nella quale la Corte, onde evitare di essere sommersa dai ricorsi e di vedere paralizzata la propria attività, ha rimarcato l’obbligo di ciascuno stato di predisporre al suo interno uno specifico rimedio di carattere giurisdizionale per denunciare l’eccesiva durata dei processi, in ossequio al principio di cui all’art. 13 della Convenzione con la conseguenza che, solo dopo all’infruttuoso esperimento dei mezzi interni, come disposto dall’art. 35 della Convenzione, la parte interessata avrebbe potuto adire la Corte. La decisione esaminata ha rivestito un ruolo decisivo rappresentando un invito all’Italia di prevedere un mezzo di ricorso per lamentare la violazione dell’art. 6 Cedu sotto il profilo dell’eccesiva durata dei processi. A fronte delle reiterate condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo inflitte all’Italia per l’irragionevole durata del processo, lo stato italiano è stato costretto ad intervenire varando la legge 24 marzo del 2001, n. 89 rubricata «Previsione di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo» (altrimenti nota come legge Pinto dal nome del senatore che l’ha proposta) contenente misure acceleratorie ma, invero, solo riparatorie contro l’irragionevole durata dei processi. È bene chiarire subito un aspetto al fine di sgomberare il campo da possibili equivoci: la legge Pinto non ha risolto tutti i problemi connessi all’irragionevole durata del processo. Anzi, sotto alcuni profili, ne ha addirittura aggiunti ulteriori. Da molti definita «disciplina tampone», non vi è dubbio che, con la sua emanazione, il legislatore è intervenuto su uno soltanto dei problemi attinenti all’eccesiva durata del processo, ossia porre un argine ai ricorsi italiani alla Corte di Strasburgo, così deflazionando il contenzioso accumulatosi dinnanzi a quest’ultima. Viceversa, la legge in esame non ha inciso né sulla struttura né sui tempi del processo, limitandosi ad introdurre un rimedio che, tramite la riparazione, tamponasse agli 4 effetti discorsivi provocati da un sistema processuale evidentemente incapace di garantire la ragionevole durata del processo. Trattasi, dunque, di un rimedio di tipo esclusivamente indennitario, inidoneo perciò come tale ad incidere ex ante sull’organizzazione del sistema giustizia, assicurando il rispetto della durata ragionevole del processo secondo i dettami della CEDU. Viceversa, in un’ottica preventiva non esiste attualmente alcun strumento che, in maniera definitiva e radicale, riesca a fare sì che i processi si svolgano in tempi molto rapidi nonostante sia indiscutibile che la migliore soluzione in termini assoluti è, in tutti i campi, la prevenzione. Tanto a differenza di quanto avviene in altri Stati quali l’Austria, la Croazia, la Spagna, la Polonia la Slovacchia che hanno affrontato in modo adeguato la problematica in esame cercando di combinare i due tipi di soluzione, così coordinando misure acceleratorie con strumenti prettamente riparatori. In termini analoghi si è espressa la stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo (Grande Camera, Scordino c. Italia del 29 marzo 2006) la quale, a più riprese, ha evidenziato che «il miglior rimedio in assoluto è la prevenzione” e non il risarcimento dei danni, che può indurre a provocare deliberatamente ulteriori ritardi per conseguire non più una vittoria (ipotetica) nel processo, ma un titolo (certo) per richiedere il risarcimento per il ritardo». Il punto è che la l. Pinto, proprio per il fatto che opera soltanto a posteriori, non è ex se in grado di garantire la risoluzione dell’annoso problema del rispetto del délai raisonnable e – aspetto più grave – non è probabilmente neppure idonea a realizzare un giusto equilibrio tra l’interesse generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo: la qual cosa rappresenta invero un fattore senz’altro ostativo ad una declinazione dell’effettività della tutela giurisdizionale in termini di adeguatezza, svuotando, di fatto, il diritto attribuito. Per di più, la l. Pinto si è mostrata incapace anche sotto l’ulteriore e connesso profilo di arginare il proliferare dei ricorsi a Strasburgo dovuti alla mancata effettività del c.d. rimedio interno. Ed infatti, se in primo momento i giudici di Strasburgo avevano considerato la legge Pinto idonea ad introdurre un rimedio effettivo a disposizione di chi si riteneva vittima di un processo eccessivamente lungo per ottenere una equa riparazione ben presto però l’ottimismo della Corte ha subito una forte diminuzione in quanto la maggior parte dei giudici italiani nel decidere le cause relative agli indennizzi da corrispondere non si uniformava ai principi della Corte di Strasburgo. E così a pochi casi di sintonia si sono susseguite molte decisioni in contrasto con gli orientamenti di detti giudici. Ma è stata soprattutto la Corte di Cassazione a creare un vero e proprio braccio di ferro con la Corte di Strasburgo negando più volte la diretta applicabilità e prevalenza della giurisprudenza della Corte Europea DI Strasburgo . L’esistenza di tale giurisprudenza ha quindi indotto la Corte Europea ad un ripensamento dubitando che il meccanismo introdotto dalla legge pinto avesse le caratteristiche dell’effettività ed efficacia. Eclatante in questo senso è la sentenza Scordino c. Italia (decisione n. 36813/97 del 27 marzo 2003) che ha dichiarato ricevibile il ricorso Scordino c. Italia anche sotto il profilo attinente alla 5 irragionevole durata del processo nonostante che i ricorrenti avessero omesso di impugnare il decreto innanzi alla Corte di Cassazione. In particolare, sotto il profilo del previo esperimento delle vie di ricorso interno da parte dei ricorrenti, la Corte Europea di Strasburgo, dopo aver ribadito che la ragione d’essere della regola del previo sta nel principio di sussidiarietà della giurisdizione internazionale (in base al quale gli stati possono essere chiamati a rispondere dei loro atti dinanzi ad un organismo internazionale solo dopo aver avuto la possibilità di rimediare essi stessi alla presunta violazione), ha chiarito che tale regola non ha carattere assoluto e che il rimedio nazionale deve essere sufficientemente certo e deve mantenere un notevole gradi di accessibilità ed effettività. E quindi i ricorrenti possono considerarsi esonerati dall’onere di preventivo esperimento se i loro reclami sono destinati all’insuccesso in quanto esiste all’interno dello stato una costante giurisprudenza loro sfavorevole. Sempre in quella occasione la Corte Europea di Strasburgo ha evidenziato che non è sufficiente che le autorità nazionali abbiano riconosciuto esplicitamente (o in sostanza) la violazione della convenzione ma è necessario che la vittima abbia ottenuto una riparazione adeguata per il pregiudizio sofferto, con la conseguenza che solo quando queste due condizioni sono soddisfatte la natura sussidiaria del meccanismo di protezione della Convenzione impedisce l’esame da parte della Corte. Ancora, la Corte Europea è stata costretta a intervenire nuovamente per stigmatizzare l'irragionevole durata del tempo necessario alle vittime per ottenere concretamente il versamento delle somme loro riconosciute al termine del procedimento ex l. Pinto. Oggi infatti si assiste al fenomeno della cd. «Pinto sulla Pinto», cioè alla richiesta di risarcimento per il ritardo nella definizione non solo della prima causa, ma anche della causa sul ritardo, in una logica che ingenera abusi processuali. Ne è prova il fatto che le relazione che inaugurano gli ultimi anni giudiziari rilevano come ulteriore motivo di crisi del sistema giustizia il costo economico derivante dal risarcimento dei danni per l’eccessiva durata dei processi, definito di recente dal Presidente della Repubblica «abnorme» e «intollerabile». L’ incremento dei costi derivanti dalla cd. Legge - Pinto continua ad essere esponenziale e allarmante: peraltro, nella maggior parte dei casi, lo Stato non è in grado di adempiere al debito derivante dai provvedimenti di condanna delle varie Corti d’Appello, con la conseguente che cresce il numero delle procedure di pignoramento presso il Ministero della Giustizia. E così, al fine di risolvere taluni dei problemi originati dalla previgente disciplina, il legislatore è intervenuto nel 2012 con la l. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile alle domande proposte a partire dall’11 settembre 2012), con la quale, accogliendo i suggerimenti della dottrina, ha in buona parte riscritto la normativa contenuta nella l. 89/2001, risolvendo, seppure solo in parte, taluni problemi originati dal sistema previgente. 6 3. La legge 89/2001 dopo le modifiche apportate dalla legge n. 134/2012: presupposti oggettivi e soggettivi e ambito di applicazione Innanzitutto, il decreto sviluppo ha lasciato immutati i presupposti per richiedere l’equa riparazione: espressamente richiamati nell’art. 2 rubricato “Diritto all'equa riparazione”. La logica cui si impronta la riforma è la medesima che aveva pervaso la l. 89/2001: introdurre un filtro ai ricorsi diretti alla Corte di Strasburgo, al duplice scopo di dare attuazione all’obbligo di ciascuno degli Stati membri di apprestare, ex art. 13 CEDU, un rimedio interno contro la violazione di uno dei diritti fondamentali contemplati dalla Convenzione e di deflazionare il contenzioso dinanzi alla Corte stessa che, a causa dell’elevato numero di ricorsi italiani pendenti, correva il serio rischio di ingolfarsi. La domanda di equa riparazione resta quindi proponibile alla presenza di due presupposti: 1) l’irragionevole durata del processo: sotto tale profilo, il legislatore italiano mostra di dare rilevanza esclusivamente alla violazione dell’art. 6 della Convenzione, non menzionando né le altre situazioni tutelate dalla CEDU né peraltro l’art. 111 Cost. In definitiva, il legislatore se da un lato riconosce il diritto di ciascun soggetto alla ragionevole durata del processo, dall’altro lato, rimarca l’obbligo dello Stato di organizzare il sistema giudiziario in modo tale da assicurare una durata ragionevole dei procedimenti. Trattasi, in altri termini, di una obbligazione di risultato, nel senso che lo Stato si riconosce responsabile avanti a chiunque delle disfunzioni della macchina giustizia nel suo complesso per ciò che concerne la durata del processi, a prescindere da specifiche violazioni del dovere di diligenza del singolo magistrato. Orbene, con riferimento a tale presupposto, il primo problema affrontato in dottrina come in giurisprudenza è stato quello attinente alla natura del rimedio in esame. In particolare, ci si chiesti se il diritto alla riparazione dei danni riconosciuto dalla legge Pinto possa essere ricondotto nella figura del diritto al risarcimento del danno per fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c. o, se viceversa, debba ricomprendersi nella diversa figura dell’indennizzo da attività illecita tenuto conto l’operatività di tal diritto si ricollega alla durata non ragionevole del processo a prescindere da una condotta dolosa o colposa del giudice o di suoi ausiliari o di altra autorità. Al riguardo, la dottrina dominante, sostenuta da una parte della giurisprudenza (cfr., in particolare, Cass. 8 agosto 2002, n. 11987), discostandosi dall’orientamento adottato al livello europeo dalla Corte di Strasburgo, è dell’avviso che i richiami contenuti nella stessa legge all’«equità» nonché al «limite delle risorse disponibili», oltre che l’ utilizzo dell’espressione «indennizzo» confermino la natura indennitaria della riparazione. Secondo tale orientamento è pertanto esclusa una integrale riparazione dei pregiudizi conseguenti all’eccesiva durata del processo, mirando il rimedio in esame unicamente a fornire una equa riparazione. Difatti, l’equa riparazione nasce dal protrarsi oltre una durata ragionevole della attività giudiziaria che per effetto di tale lentezza non si trasforma in attività illecita, attribuendo viceversa soltanto il diritto in capo al soggetto leso di ottenere una equa riparazione. 7 2) esistenza di un danno, patrimoniale (che, secondo le tradizionali regole probatorie dettate dall’art. 2967 c.c. deve essere provato dall’istante) e non patrimoniale. Prima dell’intervento delle sezioni unite nel 2004, fortemente dibattuta è stata la querelle attinente alla prova del danno non patrimoniale, essendo controverso se il predetto potesse considerarsi in re ipsa. Orbene, almeno inizialmente, la Corte di Cassazione, discostandosi dalla consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, richiedeva la prova del danno non patrimoniale, sia nella sua quantificazione che nella sua esistenza, in quanto «il diritto alla ragionevole durata del processo non era considerato un diritto fondamentale della persona direttamente tutelato da norme costituzionali ma trovava la sa fonte a livello di legge ordinaria» (Cass. 8 agosto 2002, n. 11987). Detto contrasto giurisprudenziale è stato superato con l’intervento delle Sezioni unite che, con quattro sentenze gemelle, hanno ricomposto le divergenze della giurisprudenza nazionale rispetto a quella europea, dando così nuova linfa al rimedio interno (Cass. 26 gennaio 2004 n. 1338, 1339, 1340, 1341) Ritornando sui loro passi e correggendo il loro precedente orientamento, i giudici nazionali hanno precisato che il danno non patrimoniale «è una conseguenza presunta della violazione della ragionevole durata del processo e che quindi esso non necessita di alcun sostegno probatorio relativo al singolo caso ed il giudice deve ritenerlo sussistere ogniqualvolta non ricorrano nel caso concreto le circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente». La novella del 2012 non ha intaccato altresì l’ambito di applicazione di questo rimedio. Sicché, anche all’indomani di detto intervento, il rimedio in esame continua a trovare applicazione con riferimento a tutte le controversie di cui all’art. 6 della Convenzione che a sua volta riconosce il diritto del singolo ad ottenere che la causa sia decisa entro un termine ragionevole in relazione alle controversie che vertano sia sui diritti ed obblighi di natura civile (anche qualora sia interessata la pubblica amministrazione) sia sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti, facendo così chiaro riferimento all’esercizio della funzione giurisdizionale. Tra le controversie non di competenza del giudice ordinario che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte riconosciuto come di carattere civile, e che quindi rientrano ugualmente nell’ambito di applicazione della legge 24 marzo 2001, n. 89, vi sono controversie che il nostro ordinamento attribuisce alla giurisdizione del giudice speciale amministrativo. In particolare, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto natura civile ai procedimenti dinanzi al giudice amministrativo perché essi possono costituire il presupposto per agire dinanzi alla giurisdizione ordinaria civile per il risarcimento dei danni. Ma, addirittura, ha esteso l’applicabilità dell’art. 6 della Convenzione (e quindi indirettamente della legge Pinto) anche ai procedimenti dinanzi ai giudici amministrativi italiani ove si faccia questione di interessi legittimi. Ciò che conta, per i giudici di Strasburgo, è lo sviluppo di una lite, seria e rilevante, contro l’amministrazione, con cui si lamenti la lesione dell’affidamento del soggetto privato sulla possibilità di veder riconosciuto un 8 proprio diritto. Si precisa che con legge n. 133/2008, "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria", è stata prevista come condizione di proponibilità della domanda di equa riparazione, l’istanza di prelievo: trattasi di un atto di parte che il difensore presenta per segnalare la presenza di un fatto sopravvenuto che renda necessario decidere urgentemente il ricorso. L'istanza è effettuata al presidente del T.A.R o della sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato il quale decide discrezionalmente sul suo accoglimento. Per quel che attiene ai procedimenti tributari, il diritto all’equa riparazione in materia di procedimenti tributari può trovare applicazione limitatamente alle controversie attribuite al giudice tributario riferibili alla materia civile nel senso che riguardano pretese che non investono la determinazione del tributo, ma aspetti consequenziali (ad esempio, un credito di imposta non contestato) o alla materia penale, intesa in senso ampio, come comprensiva delle controversie relative all’applicazione di sanzioni tributarie, se commutabili in misure detentive ovvero se, per la loro gravità, siano assimilabili sotto il profilo dell’afflittività ad una sanzione penale (Cass. 15 luglio 2008, n. 19367). La Corte europea dei diritti dell’uomo ha avuto modo di pronunciarsi anche sulla durata dei processi in materia pensionistica attribuiti alla giurisdizione della Corte dei conti. E poiché non è sorta incertezza circa la loro sottoposizione alla regola dell’art. 6, par. 1, della Convenzione, non c’è dubbio che essi, in forza del richiamo operato dall’art. 2, 1° comma, rientrino nell’ambito di applicazione della legge n. 89/2001. L’eccessiva durata può venire ipotizzata pure relativamente ai procedimenti dinanzi ai giudici della Consulta, specie quando abbiano ad oggetto la verifica della legittimità di una norma da applicare in altro procedimento dove è insorto il dubbio circa la sua costituzionalità. Viceversa, non si ritiene invece che possa dar luogo all’equa riparazione di cui alla legge Pinto l’eccessiva durata del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Il ricorso in questione non ha infatti carattere contenzioso ma costituisce un rimedio straordinario di natura amministrativa che può essere coltivato, a discrezione del ricorrente, in alternativa ai canali giurisdizionali. Infine, la legge Pinto non si applica, ovviamente, all’arbitrato, che costituisce una alternativa, normalmente veloce, alla giurisdizione statale. (Cass. 13/02/2014, n. 331; Cass. civ., sez. II, 8 gennaio 2014 n. 143). Per quanto riguarda, invece, il profilo soggettivo, resta fermo che il diritto all’equa riparazione ex art. 2 ss. l. 89/01 possa essere fatto valere solo dai soggetti (persone fisiche od enti collettivi che siano) che abbiano assunto — e con riferimento al periodo di tempo in cui abbiano assunto — la qualità di parte nel procedimento di cui si deduca la irragionevole durata (o, iure successionis, dagli eredi in ragione della quota ereditaria) 4. La determinazione legale del termine di ragionevole durata del processo 9 Se dunque sono rimasti invariati i presupposti, la l. 134/2012 ha tuttavia apportato molteplici novità sul piano della disciplina sostanziale muovendosi essenzialmente in tre direttrici: 1) la rigida determinazione legale del termine di ragionevole durata del processo; 2) i criteri per determinare l’effettiva violazione del délai raisonnable; 3) lo svolgimento del procedimento di equa riparazione. Innanzitutto, il legislatore del 2012 ha fissato dettagliatamente i tempi di durata ragionevole del giudizio, stabilendo all’art. 2, comma 2-bis, un lasso temporale entro il quale il termine di ragionevole durata del processo ex art. 6, par. 1, CEDU può dirsi rispettato, termine differente a seconda che a venire in rilievo sia il processo di cognizione, quello esecutivo oppure quello fallimentare. Difatti, in relazione al processo di cognizione, si considera ragionevole il termine che non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado e di un anno nel giudizio di legittimità (La norma nulla dispone circa la durata dell’eventuale giudizio di rinvio conseguente alla cassazione della sentenza, ma, in linea con la giurisprudenza di Strasburgo, è ragionevole ritenere che, in caso di rinvio, la durata per dirsi ragionevole non debba eccedere il biennio): Oggi, dunque ci ritroviamo davanti ad una rigida fissazione del parametro temporale al di sotto della quale non è possibile configurare una violazione dell’art. 6. In altri termini, la formulazione della disposizione, nel fissare una soglia di durata ragione al di sotto della quale non è possibile configurare una violazione dell’art. 6, impedisce ogni valutazione della peculiarità della causa principale. Quanto al procedimento di esecuzione forzata, cui deve ritenersi assimilabile il giudizio di ottemperanza dinanzi al giudice amministrativo, la durata è fissata in tre anni, ovvero, in sei nell’ipotesi di procedimento concorsuale. Anche a questo proposito, le «soglie» introdotte dal d.l. 83/12 appaiono eccessivamente rigide e non del tutto rispondenti agli orientamenti giurisprudenziali formatisi nel vigore del testo originario della legge Pinto . Quanto al primo aspetto, è indiscussa infatti l’esistenza di procedure esecutive (come, per es., quelle di sfratto per morosità) per le quali non può considerarsi giustificata, in linea di principio, una durata triennale (nel senso che, ai fini dell’applicabilità dell’istituto dell’equa riparazione di cui alla c.d. legge Pinto, la durata ragionevole di un procedimento di esecuzione di sfratto per morosità relativo a un immobile abitativo può valutarsi in mesi otto, v. App. Genova 14 giugno 2006); con riferimento, invece, all’esecuzione di un provvedimento di rilascio per finita locazione, cfr. App. Trento 15 marzo 2005, nel senso che può considerarsi ragionevole un tempo di circa un anno, tenuto conto della necessità di contemperare le contrapposte esigenze di proprietario e conduttore); quanto alle procedure concorsuali, nel previgente assetto normativo, la Corte di cassazione ha individuato in cinque anni la durata ragionevole di una procedura fallimentare di media complessità (elevabile a sette anni nel caso in cui il procedimento risulti particolarmente complesso, in quanto comportante un impegno particolare nell’accertamento del passivo, nella liquidazione dell’attivo e nella gestione 10 del contenzioso, in ragione dell’elevato numero dei soggetti falliti, della grande quantità dei creditori, della natura delle questioni indotte dalla verifica dei crediti, dalla proliferazione di controversie giudiziarie innestatesi nella procedura fallimentare, dell’entità del patrimonio da liquidare e della consistenza delle operazioni di riparto. Il comma 2 bis del novellato art. 2 l. 89/01 specifica poi, recependo quanto elaborato dalla giurisprudenza sul punto, che (a seconda della forma prevista per la proposizione del giudizio), ai fini del computo della durata, il processo presupposto «si considera iniziato con il deposito del ricorso introduttivo del giudizio ovvero con la notificazione dell’atto di citazione». Quanto alla procedura fallimentare, va tuttavia precisato che il dies a quo della durata, mentre per il fallito coincide con la sentenza dichiarativa del fallimento, per i creditori insinuati al passivo è segnato dalla proposizione della relativa domanda di insinuazione. Per quel che riguarda il processo penale, stabilendo che esso «si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari», la nuova disciplina si discosta, ancorché solo in parte, dai criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità: essa, infatti, esclude in radice dall’ambito di valutazione del giudice, ai fini della legge Pinto, la durata delle indagini preliminari, laddove nel precedente assetto normativo, pur dovendosi di regola far coincidere il dies a quo del processo penale con la richiesta di rinvio a giudizio da parte del pubblico ministero, la durata delle indagini preliminari veniva ritenuta computabile per l’indagato, ogniqualvolta egli avesse avuto (e a partire dal momento in cui avesse avuto) concreta notizia della pendenza del procedimento nei suoi confronti (con conseguente applicabilità, in tal caso, della l. 89/01 anche nell’ipotesi di procedimento concluso con un provvedimento di archiviazione). Nuova, rispetto al panorama giurisprudenziale formatosi nell’applicazione del testo originario della l. 89/01, risulta, nella sua assolutezza, anche la regola introdotta dal novellato comma 2 quater dell’art. 2, secondo la quale, ai fini del computo della durata del processo presupposto, «non si tiene conto del tempo in cui il processo è sospeso e di quello intercorso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per proporre l’impugnazione e la proposizione della stessa» .Sembra ovvio, peraltro, che la stessa regola debba valere anche nel caso di interruzione del processo. La disposizione che fissa i parametri aritmetici per la determinazione ragionevole o meno del processo rappresenta tuttavia una norma di carattere generale che deve poi conciliarsi con quella che è stata definita una clausola di chiusura inserita nel comma 2 ter a mente del quale «si considera comunque rispettato il termine ragionevole di durata se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni». Si coglie, così, una ulteriore novità della riforma, perché se nel sistema anteriore la domanda di equa riparazione poteva proporsi anche in pendenza del procedimento che aveva originato la (presunta) violazione del termine di ragionevole durata, attualmente la proponibilità di tale domanda presuppone, viceversa, l’irretrattabilità della decisione: in questo senso depongono sia la 11 nuova formulazione dello stesso art. 4, che non prevede più (a differenza di quella originaria) la possibilità di proporre la domanda di equa riparazione «durante la pendenza del procedimento …» presupposto, sia le disposizioni in base alle quali il giudice deve tenere conto, sotto vari profili, dell’esito del procedimento presupposto, sia ai fini del riconoscimento di un equo indennizzo (comma 2 quinquies del novellato art. 2 l. cit.), sia, comunque, ai fini della sua determinazione in concreto (art. 2 bis l. cit., aggiunto dal d.l. 83/12). La necessità di attendere la conclusione del procedimento presupposto non espone, peraltro, a rischio di estinzione per prescrizione l’eventuale diritto della parte all’equa riparazione per il danno subìto a causa della irragionevole durata del procedimento cui abbia preso parte, atteso l’ormai consolidato orientamento della corte di legittimità circa la impossibilità di far decorrere la prescrizione prima della scadenza del termine semestrale di decadenza di cui all’art. 4 l. 89/01 (Tale orientamento ha trovato recentemente conferma nella sentenza 2 ottobre 2012, n. 16783, resa dalla Corte di cassazione a sezioni unite). Tuttavia, un’interpretazione letterale di quest’ultima disposizione potrebbe condurre al risultato paradossale di dover considerare rispettoso del principio della durata ragionevole anche un processo svoltosi in unico grado che, pur non presentando elementi di complessità, si sia ingiustificatamente protratto ben oltre il termine ordinario di tre anni (purché definito in modo irrevocabile nel volgere di sei anni). In quest’ottica, appare senz’altro preferibile una sua interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata, che ne limiti il campo di applicazione alle ipotesi in cui il processo presupposto si sia articolato in più gradi di merito e di legittimità. Del resto, già prima delle recenti modifiche sia la giurisprudenza europea che quella di cassazione erano ferme nel ritenere che la valutazione della ragionevolezza della durata di un processo va effettuata con riferimento al giudizio nella sua interezza, senza cioè la possibilità di estrapolare da esso sue singole fasi o gradi la cui durata abbia eventualmente superato i parametri elaborati dalla corte di Strasburgo, se il processo sia stato comunque definito in un arco di tempo da reputarsi ragionevole in base a tali parametri. Un diversa interpretazione sarebbe in contrasto con il precedente comma che, al contrario, continua a prevedere termini specifici per i vari gradi di giudizio (Cfr. Cass. 4 luglio 2011, n. 14534, cit.). In altri termini, questa ultima disposizione recepisce formalmente l’indirizzo giurisprudenziale che già prima dell’entrata in vigore delle anzidette modifiche stigmatizzava la frazionabilità del credito all’indennizzo per il ritardo sottolineando la necessità di una valutazione globale ed unitaria del processo articolato in più fasi, un orientamento che, in concreto escludeva quindi l’ammissibilità di istanze dirette a richiedere una volta concluso il processo l’indennizzo per la durata eccesiva di una sua singola fase nonostante il tempo complessivamente impiegato risultasse congruo rispetto ai parametri perché compensato dalla rapidita delle fasi successive. Ed appunto in questo senso si esprime la prima pronunzia di merito che risulta si sia occupata della questione: v. App. Milano, decr. 11 dicembre 2012 inedita, ove si osserva che, considerate «le conseguenze paradossali di un’acritica applicazione letterale del novellato art. 2, comma 2 ter, l. 12 cit., la norma va… interpretata, secondo una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata (oltre che coerente con il consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi sulla questione con riferimento alla previgente disciplina in materia, che il legislatore della riforma sembra avere inteso recepire), nel senso che: a) qualora il giudizio presupposto si sia articolato in più gradi, non si può limitare la domanda né procedere a una valutazione frazionata di ciascun grado, dovendosi invece operare una valutazione unitaria e complessiva dell’intero giudizio; b) la mera violazione del termine di fase non lede il diritto della parte quando il termine ragionevole di durata complessiva del giudizio (che, come si è detto, il legislatore ha oggi fissato in sei anni) risulti comunque rispettato». Cass. civ., sez. VI, 06-11-2014, n. 23745. In tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, l’art. 2, 2º comma ter, l. 24 marzo 2001 n. 89, secondo cui detto termine si considera comunque rispettato se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni, costituisce norma di chiusura che implica una valutazione complessiva del giudizio articolato nei tre gradi, e non opera, perciò, con riguardo ai processi che si esauriscono in unico grado. Sul punto è altresì intervenuta la Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 36 del 2016, in relazione al termine complessivo di sei anni, previsto dall’art. 2, comma 2-ter, ha precisato che il termine di sei anni previsto da tale norma, e che si considera “comunque” ragionevole, esigerebbe che il processo si sia svolto in tre gradi. Con la anzidetta pronuncia, la Corte Costituzionale ha altresì affrontato il problema della ipotetica applicabilità dell’art. 2, comma 2 bis, anche ai procedimenti previsti dalla legge n. 89 del 2001, escludendone l’estensione trattandosi di giudizi articolati su due gradi di giudizio. Nella sentenza, la Corte osserva che nella giurisprudenza europea è consolidato il principio secondo cui “lo Stato è tenuto a concludere il procedimento volto all’equa riparazione del danno da ritardo maturato in altro processo in termini più celeri di quelli consentiti nelle procedure ordinarie”, con la conseguenza che l’art. 6 della CEDU, il cui significato si forma attraverso il reiterato ed uniforme esercizio della giurisprudenza europea sui casi di specie, “preclude al legislatore nazionale, che abbia deciso di disciplinare legalmente i termini di ragionevole durata dei processi ai fini dell’equa riparazione, di consentire una durata complessiva del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 pari a quella tollerata con riguardo agli altri procedimenti civili di cognizione, anziché modellarla sul calco dei più brevi termini indicati dalla stessa Corte di Strasburgo e recepiti dalla giurisprudenza nazionale”. Ancora, in detta occasione, la Corte Costituzionale ha invece ritenuto non fondata l’ulteriore questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in un anno la ragionevole durata del giudizio di legittimità previsto dalla legge n. 89 del 2001, ritenendo che il termine annuale scelto dal legislatore “è conforme alle indicazioni di massima provenienti dalla Corte europea e recepite dalla giurisprudenza nazionale”, e rilevando altresì che “la dichiarazione di illegittimità costituzionale della previsione concernente la durata del processo di 13 primo grado fa sì che la ragionevole durata complessiva di un procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, in concreto articolatosi su due gradi di giudizio, sia inferiore a quella stabilita per gli altri procedimenti ordinari di cognizione, e comunque possa essere contenuta nel tetto di due anni, in conformità agli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost”. Dunque, all’esito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui si applica alla durata del processo di primo grado previsto dalla legge n. 89 del 2001 ed alla luce delle ulteriori precisazioni contenute nella citata sentenza della Corte Costituzionale, la ragionevole durata del giudizio di equa riparazione dovrà ora essere ravvisata nel termine di un anno per l’unico grado di merito ex lege Pinto e di un anno per il giudizio di Cassazione, così per un tempo di durata complessiva di entrambi i gradi di giudizi non superiore a due anni. La decisione di limitare la proponibilità del ricorso ex l. Pinto solo ad un momento successivo all'intervenuta definizione del giudizio presupposto risponde all'esigenza di ridurre il carico delle domande proposte alle Corti d'appello e di evitare altresì la possibilità per il medesimo ricorrente di frazionare in più volte la propria pretesa, con evidente aggravio per le risorse statali destinate all'equa riparazione. Nella stessa ottica si pongono anche altre disposizioni introdotte dal d.l. n. 83 del 2012 che, se da un lato snelliscono la procedura di decisione dei ricorsi, dall'altro prevedono l'introduzione di alcuni paletti che ne rendono indubbiamente più difficile e onerosa la proposizione . Per quanto apprezzabile è l’intento del legislatore, la rigidità della previsione rischia di lasciare scoperte situazioni particolarmente gravi e di porsi soprattutto rottura con lo standard seguito dalla corte di Strasburgo. Ed infatti, a poco meno di un anno dall’entrata in vigore, la Corte di Appello di Bari con provvedimento del 18 marzo 2013, giudice, dott. Gaeta, ha sottoposto alla Corte costituzionale la questione della legittimità del nuovo testo dell'art. 4 della l. Pinto, come risultante dalla sostituzione operata dall'art. 55 comma 1, lett. d). Secondo il giudice a quo il nuovo testo dell'art. 4 si porrebbe innanzitutto in contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto l'indennizzo può essere oggi richiesto solamente da chi lamenti l'eccessiva durata del processo presupposto che sia già terminato, mentre non può agire per l'equa riparazione chi lamenti l'eccesiva durata di un processo che non si sia ancora concluso, malgrado tale durata sia già irragionevole ai sensi della disciplina vigente. Giustamente la Corte d'appello evidenzia come in questo secondo caso «la lesione del diritto alla ragionevole durata risulti ictu oculi più grave». Secondo il giudice remittente risulterebbe altresì violato l'art. 111 Cost., in quanto il diritto ad agire per l'equa riparazione costituirebbe ormai «una forma indiretta del diritto alla ragionevole durata del processo presupposto». Da ultimo, con l'ordinanza è stata altresì dedotta la violazione dell'art. 117, comma 1, Cost. in relazione all'art. 6, paragrafo 1 della CEDU, in quanto il rimedio costituito dalla l. Pinto, pur essendo di tipo esclusivamente indennitario, risulta comunque valutato con favore dalla Corte EDU 14 purché lo stesso sia dotato del carattere dell'effettività e consenta la massima conformazione possibile dei giudici nazionali alla CEDU, come interpretata dalla giurisprudenza di Strasburgo. La questione è stata risolta dalla Corte Costituzionale con sentenza del 25 febbraio 2014, n. 30. Ebbene in questa decisione la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata per due ordini di ragioni. In primo luogo la Corte rileva come l’attuale assetto normativo all’indomani delle modifiche intervenute nel 2012 imponga comunque di attendere la conclusione del giudizio presupposto per poter valutare sia l'an che il quantum dell'indennizzo richiesto dai ricorrenti. Sotto questo primo profilo è necessario rilevare come gran parte delle condizioni ostative al riconoscimento dell'equa riparazione, ovvero conformative dell'ammontare della stessa, non siano in realtà ipotesi che inibiscano a livello europeo la presentazione del ricorso alla Corte EDU o, comunque, il risarcimento “pieno” del danno da durata non ragionevole. In secondo luogo, la Corte ritiene che comunque l'intervento additivo richiesto «non sarebbe a rime obbligate in ragione della pluralità di soluzioni normative configurabili a tutela del principio della ragionevole durata del processo». Lascia invece perplessi, nel caso specifico, l'affermazione secondo cui l'intervento additivo risulterebbe comunque precluso «in quanto vi sarebbero più soluzioni normative configurabili dal legislatore per superare l'illegittimità accertata dalla Corte». Invero, come evidenziato in dottrina, il superamento dell'incostituzionalità difficilmente potrà avvenire tramite un intervento che non preveda, comunque, la possibilità per il ricorrente di agire anche nell'ipotesi in cui il giudizio principale, pur essendo ancora in corso, abbia già superato il limite della durata ragionevole. In conclusione, la pronuncia sembra lasciare aperti troppi problemi rendendo assai concreto il rischio che i cittadini italiani vittime di processi eccessivamente lunghi ma non ancora conclusi (e non sono pochi ...), decidano di rivolgersi nuovamente alla Corte EDU lamentando la mancanza di un rimedio interno efficace. Tale mancanza è oggi peraltro sancita esplicitamente proprio dalla sentenza della Corte costituzionale qui esaminata, che riscontra il vulnus e lamenta la mancanza di un rimedio effettivo. Dopo aver definito “aritmicamente” i tempi di durata ragionevole del processo, l ’art. 2, comma 2 bis della Legge Pinto specifica altresì che il giudice, al fine di accertare la violazione, è tenuto ad esaminare alcuni particolari elementi: - la complessità del caso: come desumibile dall’elaborazione della giurisprudenza europea, la complessità del caso deve essere valutata avuto riguardo sia i fatti della causa sia alle questioni di diritto sollevate. Per quel che attiene queste ultime, occorre valutare quali e quante siano le questioni giuridiche da trattare, la loro complessità, la novità e la mancanza di precedenti, l’esistenza di un testo legislativo oscuro sulla base del quale si sono formati orientamenti contrastanti, eccezioni preliminare eventualmente sollevate, la loro fondatezza e rilevanza la 15 necessità di un giudizio pregiudiziale della Corte Costituzionale o della Corte della giustizia delle comunità europee. Viceversa, con riferimento ai fatti oggetto della causa, è necessario vedere, ad esempio, quante siano le parti concretamente coinvolte nel procedimento, se tutte la parti sono italiane, se si debba procedere a notifiche all’estero con traduzione degli atti, se i fatti siano stati o no contestati. Invero, almeno inizialmente, i giudici nazionali hanno enfatizzato il criterio delle «complessità del caso», utilizzandolo quale salvacondotto per giustificare l’eccesiva durata del processo. A ben vedere però, come chiarito in dottrina, esso non può essere elevato a parametro assoluto, dovendo viceversa, in ogni caso, essere rapportato alle altre vicende processuali. Basti pensare alla richiesta di un rinvio che se in un procedimento relativamente semplice può integrare gli estremi di una condotta incompatibile con le esigenza della ragionevole durata del processo, in un procedimento complicato può, viceversa, essere giustificato da esigenze di approfondimento: si pensi alle cause di stato, di asilo, di famiglia, di separazione; - l’oggetto del procedimento: il criterio relativo all’oggetto del procedimento è di nuovo conio, essendo del tutto assente nella previgente disciplina, e fa evidentemente riferimento alla natura della situazione sostanziale controversa. Il che induce a ritenere che il legislatore abbia inteso richiamare, anche ai fini di una più completa valutazione da parte del giudice nazionale, uno dei criteri di maggiore rilevanza impiegati dalla Corte di Strasburgo nell’apprezzamento della violazione del délai raisonnable, ossia il criterio della c.d. rilevanza della posta in gioco. Difatti, i giudici europei, pur non offrendo una interpretazione univoca al riguardo, hanno evidenziato che, nella valutazione della ragionevole durata del processo, entrino in gioco anche la peculiarità del diritto azionato e l’importanza degli interessi in gioco. In linea generale, tale criterio è stato utilizzato in tutti quei procedimenti aventi ad oggetto diritti personali ed inviolabili dell’individuo (si pensi ai procedimenti riguardanti soggetti sieropositivi contaminati dal virus dell’hiv a seguito di trasfusioni di sangue infetto), nonché nei giudizi riguardanti status personali (in materia di filiazione) e nelle controversie in materia di diritto del lavoro. In tutti questi casi, l’estrema particolarità e delicatezza della situazione giuridica tutelata impongono all’autorità di agire con estrema diligenza ma soprattutto con estrema celerità. Ancora, una altra tipologia di procedimento in cui si può ravvisare il criterio della posta in gioco riguarda, ad esempio, la procedura fallimentare che rientra nell’ambito di applicazione della legge Pinto. Difatti, la dichiarazione di fallimento ha ripercussioni negative non solo sulla sfera personale del fallito, il quale durante la procedura subisce una serie di restrizioni alla sua libertà ed ai suoi diritti, ma anche per gli stessi creditori per ciò che attiene soprattutto alla quantificazione del danno subito che è di natura prevalentemente patrimoniale. - il comportamento del giudicante nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione (art. 2, 2° comma, l. 89/2001). 16 Nell’accertare se via sia stata violazione del termine di durata ragionevole del processo, il giudice dovrà altresì tenere conto del comportamento non soltanto del giudice ma di qualsiasi autorità interessata dal processo, da quella amministrativa (capo dell’ufficio giudiziario, cancellerie) a quella ausiliaria (consulenti tecnici, curatori) e politica (governo, quale rappresentante dello Stato amministrazione qualora non appresti tutte le misure idonee ad adeguare il sistema giustizia alle esigenze della collettività). Dando uno sguardo veloce alla giurisprudenza di legittimità, emerge come in una molteplicità di casi i giudici hanno valutato l’eccesiva durata del processo dando rilievo, ad esempio, a ripetuti e non motivati rinvii delle udienze di trattazione e dell’udienza collegiale disposti a volte per periodi superiori ad un anno. Ancora, si rivengono taluni casi in cui una riserva di decisione è stata sciolta a distanza di ben tre anni. Peraltro, in Cass. 10 gennaio 2005 n. 297, la Corte di Cassazione è giunta ad affermare che, ai fini dell’accertamento della violazione della durata ragionevole del processo, il giudice è altresì tenuto a considerare il periodo di durata del procedimento per la correzione dell’errore materiale della sentenza, nonché quello per la risoluzione dell’incidente di legittimità costituzionale (Cass. 17 gennaio 2006, n. 789). - Comportamento delle parti: in ordine a tale criterio, va detto che, sulla scorta di quanto precisato dalla Corte europea di Strasburgo, la condotta del ricorrente e delle parti in generale deve essere inevitabilmente valutata alla luce del principio di difesa nel senso che nessun addebito potrà essere mosso alle parti che si siano avvalse di tutti gli strumenti previsti dalla legge al fine di esercitare tale diritto. Ciò che, al contrario, diviene addebitabile è evidentemente un eccesivo abuso degli strumenti previsti dal legislatore a garanzia del predetto diritto nonché un loro impiego con finalità prettamente dilatorie. Si pensi, ad esempio, all’audizione di un testimone o l’effettuazione di perizie e consulenze tecniche, richieste di rinvii, che se da un lato ovviamente rappresentano attività idonee ad allungare eccessivamente i tempi del processo, dall’altro costituiscono altresì manifestazione del diritto di difesa e quindi in tale caso non possono ovviamente essere ritenute contrarie al dovere di diligenza. Ma su questo aspetto e cioè sulla valutazione del comportamento delle parti è bene far riferimento ad una ulteriore novità introdotta dalla riforma del 2012 Difatti, l’art. 2, comma 2-quinquies, l. 89/2001 individua determinate ipotesi che, laddove dovessero concretamente verificarsi, fungono da impedimento all’inverarsi del diritto al risarcimento del danno, patrimoniale o non, trattandosi di atteggiamenti processuali reputati contrari al principio della ragionevole durata. In particolare, con riferimento ai giudizi civili: - è stabilito che non si riconosce alcun indennizzo in favore della parte soccombente condannata per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.; - nel caso di condanna alle spese a norma dell’art. 91, 1° comma, secondo periodo, c.p.c., ossia quando, rifiutata nel corso del processo una proposta conciliativa, la parte, benché vittoriosa, sia 17 stata condannata al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta. La formulazione della disposizione appare alquanto discutibile, non comprendendosi per quale ragione il rifiuto della proposta conciliativa possa di per sè ed in ogni caso testimoniare l’assenza di ogni ansia e patema d’animo circa l’esito del processo a prescindere da ogni valutazione sull’oggetto della controversia e sulle circostanze che hanno indotto la parte a rifiutare la proposta stessa - nel caso di cui all’art. 13, 1° comma, primo periodo, del d. l. 4 marzo 2010, n. 28, vale a dire in caso in cui la parte nel corso del procedimento di mediazione rifiuti una proposta poi trasfusa in sentenza; - infine, in ogni altro caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilatazione della durata del processo; - con riferimento al processo penale, nell’ipotesi di il mancato deposito da parte dell’imputato dell’istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento del termine triennale (di durata ragionevole) di cui al precedente articolo. Disposizione questa che, facendo carico all’imputato di assumere l’iniziativa per una celere celebrazione del processo, finisce almeno in parte per elidere la disposizione di cui alla precedente lett. d) (in tema di prescrizione del reato). Dubbi sono sorti in ordine alla possibilità di estendere la legittimazione alla proposizione del rimedio in esame in capo alla parte rimasta contumace nel processo presupposto. Sulla questione è sorto un contrasto creatosi tra la seconda (Cass. 21 febbraio 2013, n. 4474 P<residente Rovelli, Relatore Carratto) e la quinta sezione della Cassazione (24 aprile 2013, n. 10013) e risoltosi con Cass. sezioni unite 14 gennaio 2014 , n. 585 che ha accolto la tesi estensiva estenso il diritto al risarcimento del danno anche in capo al soggetto rimasto contumace nel giudizio presupposto. Secondo le sezioni unite appare arbitrario escludere tale diritto in capo al soggetto rimasto contumace non prevedendo nè l’art 6 nè l’art. 2 della lege Pinto alcuna limitazione in tal senso con la conseguenza che la tutela è apprestata indistintamente a tutti coloro che sono coinvolti in un procedimento giurisdizionale tanto più che nella tradizione giuridica la contumacia è stata sempre configurata come un atteggiamento pienamente legittimo preclusivo della assunzione della qualità di parte ma ragione anzi di specifiche tutele. Contumacia che cmq non e indice univoco di disinteresse all’esito della lite e conseguentemente della sua durata. La decisione potrebbe lasciare apparentemente perplessi perché non è chiaro come posa il contumace dolersi dell’eccesiva durata di un processo a quale non abbia partecipato. A ben vedere però la statuizione si presenta convincente. Innanzitutto, il suddetto orientamento appare conforme ai principi elaborati in materia da questa Corte sui rapporti fra diritto comunitario e diritto interno (Sez. Un. 1338 e 1341 del 2004 e molte altre successive), secondo cui il giudice italiano deve interpretare la L. n. 89 del 2001, in modo conforme a quella data dalla Corte Europea di Strasburgo 18 all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo, vale a dire per come essa vive nella giurisprudenza di detta Corte, dal momento che sia nelle disposizione internazionali che in quelle interne non si inviene alcuna limitazione per il contumace che è pacificamente parte del processo nei cui confronti la sentenza esplica i suoi effetti; quindi deve escludersi ogni incompatibilità tra contumacia e il diritto all’equa riparazione da durata irragionevole del processo; L’estensione della legittimazione anche in capo al contumace e poi conforme con le nuove modiche apportate dal legislatore del 2012 dal momento che le ipotesi di esclusione a priori dell’indennizzo risultano testualmente limitate all’abuso del processo: ed è pacifico (almeno de jure condito) che la contumacia sia un’opzione del tutto neutra, scevra ex positivo jure di connotazioni negative, un comportamento processuale legittimo nei cui confronti il nostro legislatore non ricollega se non in casi eccezionali (cfr. art. 663 c.p.c. in tema di convalida di sfratto in caso di mancata comparizione dell’intimato) conseguenze negative. Tutt’al più, l’atteggiamento inerte della parte rimasta contumace potrebbe ridurre ai minimi il patema d animo sofferto e cosi imporre la liquidazione di un indennizzo il più possibile contenuto, ma non addirittura rappresentare elemento per escludere la sussistenza di detto diritto. 5. I parametri per la quantificazione dell’indennizzo Rilevanti modifiche sono state apportate in tema di liquidazione e determinazione dell’indennizzo traverso l’introduzione dell’art. 2 bis: L’art. 2 bis novellata l. 89/01, confermando il principio che la tutela indennitaria assicurata dalla c.d. legge Pinto va rapportata esclusivamente al lasso di tempo eccedente il termine ragionevole di durata del processo fissa delle regole precise prevedendo che: a) la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore ad euro 750 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a euro 1.000 per quelli successivi, in quanto l’irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un aggravamento del danno (30); b) è possibile liquidare anche somme di importo notevolmente inferiore a quella di euro 1.000, e segnatamente l’importo di euro 500 per ogni anno di ritardo, qualora ciò sia giustificato dalle particolarità del caso, e in particolare in ipotesi di procedimenti dinanzi al giudice amministrativo o al giudice contabile protrattisi per lunghi periodi in assenza di impulso sollecitatorio di parte o nel caso di posta in gioco irrisoria. In ogni caso, precisa l’art. 2 bis la misura dell’indennizzo non è affidata ad automatismi ma comporta una valutazione del giudice operata sulla base di parametri che implicano la conclusione del processo ed esplicitamente la considerazione del suo esito. La norma in discorso specifica che, ai fini della determinazione dell’indennizzo, deve tenersi conto dei seguenti elementi: 19 a) dell’«esito del processo» presupposto: il che significa che bisogna considerare non soltanto se il ricorrente sia stato vittorioso o soccombente, ma, altresì, le modalità di definizione del processo (per es., se questo si sia concluso con la cancellazione e l’estinzione della causa dal ruolo per inattività delle parti; in caso di processo dinanzi al Tar, l’eventuale perenzione del ricorso); b) del «comportamento del giudice e delle parti»: a questo riguardo vengono in rilievo l’eventuale disinteresse dimostrato dalle parti per l’andamento della causa, così come le loro ripetute richieste di differimento; c) della «natura degli interessi coinvolti»: assume, quindi, a tal fine rilevanza il fatto che la controversia riguardi, per es., diritti della persona, la materia della famiglia o dei minori, piuttosto che interessi di carattere prettamente economico; d) del «valore e… rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte». L’ultimo comma dell’art. 2 bis prevede, peraltro, che, anche in deroga agli estremi dell’anzidetta «forbice», «la misura dell’indennizzo… non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice». La norma, per come formulata, sembrerebbe precludere la possibilità di liquidare in una qualche misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo, sia risultata intera-mente soccombente. Ed infatti, a pochi mesi dall’entrata in vigore, con ordinanza del 8 aprile 2013 la Corte di Appello di Reggio Calabria ha rimesso alla Corte Costituzione questione di legittimità costituzionale del comma 3 dell'art. 2-bis della legge 24 marzo 2001, n. 89 (la legge Pinto, per l'appunto) per contrasto con gli artt. 3, 24 e 117 Cost. Ebbene, in detta occasione, la Corte costituzionale ha sí negato l’illegittimità, facendo leva sulla circostanza che la disposizione va intesa come riferita alle sole fattispecie nelle quali sia stata accertata l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio, dovendosi di contro escludere quei casi nei quali il giudice accerti l’inesistenza del diritto dedotto. Sicché, con l’escamotage di una interpretativa di rigetto, la Corte si è ritagliata, in realtà, uno spazio per la concessione di un’equa riparazione anche nell’ipotesi della parte risultata soccombente, offrendo in definitiva una interpretazione dell’art. 2-bis, 3° comma, coerente con la giurisprudenza della Corte Europea consolidata nel ritenere che «la spettanza dell’equa soddisfazione per la lesione del diritto alla durata ragionevole del processo» tocchi «a tutte le parti» e, dunque, anche a quella che sia risultata soccombente. 6. Il procedimento dopo la legge n. 134/2012 La nuova disciplina introdotta dalla legge 134/2012 ha profondamente modificato l’architettura del procedimento per l’equo indennizzo del danno da violazione della ragionevole durata del processo. Per quel che attiene la competenza, la norma è rimasta invariata confermandosi che la domanda si propone dinnanzi alla corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi 20 dell’art. 111 del codice di procedura penale, a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o è estinto relativamente ai gradi di merito, ovvero pende il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata. Nello specifico, la Corte di appello territorialmente competente è individuata attraverso una apposita tabella elaborata secondo i criteri previsti per la competenza territoriale della responsabilità dei magistrati ai sensi del citato art. 11. In sostanza, del giudizio di equa riparazione non se ne occupa la Corte di appello del distretto cui appartiene il Tribunale nel quale si è svolto il processo bensì la corte di appello immediatamente contigua a livello territoriale. La particolare competenza territoriale inderogabile trova la sua ratio nell’esigenza di assicurare l’imparzialità dell’ufficio giudiziario chiamato a decidere su una domanda che potrebbe comunque interessare un magistrato come, ad esempio, nel caso in cui la durata sia dipesa da ritardi imputabili ai giudici. Dubbi sono sorti in ordine all’applicabilità di tale disposizione alle domande di equa riparazione relative a ritardi dei giudizi amministrativi, stante il difetto della “distribuzione distrettuale” di tali organi. Al riguardo, si riteneva, almeno sino ad oggi, che in relazione ai giudizi amministrativi, la domanda di equa riparazione dovesse essere proposta innanzi alla Corte di Appello del luogo in cui è sorta o deve estinguersi l’obbligazione, con riferimento cioè al luogo in cui è stato celebrato il giudizio, ovvero a quello dove va eseguita l’obbligazione, in applicazione della regola generale di cui all’art. 25 c.p.c. Sul punto, però, sono intervenute le Sezioni unite che, con sentenza 16 marzo 2010 n. 6307, hanno rimeditato il precedente orientamento ritenendo che «la regola generale di cui all’art. 3, comma 1, concerne anche i giudizi amministrativi e contabili, non rilevando il riferimento contenuto nella norma ad un termine (distretto), proprio della distribuzione territoriale degli organi della giurisdizione ordinaria». Di interesse è che secondo le Sezioni unite «il dilatarsi del contenzioso innescato dalla legge Pinto, che fa ricadere sul bilancio dello Stato un onere sempre più gravoso a causa del perdurante fenomeno della eccesiva durata del processo, rende a questo punto ragionevole l’interpretazione qui accolta che i giudici ordinari che debbono deciderne non siano prossimi a quelli speciali davanti ai quali il ritardo si manifesta». In relazione poi a giudizi celebrati innanzi ai giudici ordinari, le Sezioni unite hanno inoltre ritenuto che «occorre considerare in modo unitario il giudizio nel quale si è verificata la violazione, individuando quale fattore rilevante della localizzazione, la sede del giudice di merito avanti al quale il giudizio di merito è iniziato» (Cass., sez. un., 16 marzo 2010, n. 6306). Immutate sono rimaste altresì le indicazioni riguardo all’amministrazione statale nei cui confronti la domanda di equa riparazione deve essere proposta, con la conseguenza che la domanda va proposta nei confronti del ministro della giustizia quando venga in rilievo l’eccessiva durata di un procedimento svoltosi dinanzi a giudice ordinario, nei confronti del ministro della difesa quando si tratti di procedimento del giudice militare, e negli altri casi, nei confronti del ministro dell’economia e delle finanze, pena la inammissibilità della domanda ove proposta nei confronti di 21 amministrazione diversa da quella stabilita dall’art. 3 l. 89/01, non potendo trovare applicazione il disposto dell’art. 4 l. 260/58 (v. Cass. 6 maggio 2011, n. 10010, Foro it., Rep. 2011, voce Diritti politici e civili, n. 258; 1° aprile 2005, n. 6917, id., Rep. 2006, voce cit., n. 270) Ciò che è cambiata è la struttura complessiva del procedimento e gli oneri di allegazione e di prova incombenti al ricorrente. In particolare, mentre in precedenza il ricorso per l’equa riparazione (contenente gli elementi di cui all’art. 125 c.p.c.) veniva trattato e deciso in camera di consiglio dalla corte d’appello in composizione collegiale, ai sensi degli art. 737 ss. c.p.c., previa instaurazione del contraddittorio nei confronti del ministero competente, il procedimento ex l. 89/01 (art. 3 ss.), così come novellato dall’art. 55 d.l. 83/12, è un procedimento con struttura bifasica a contradditorio eventuale, modellato su quello di ingiunzione seppure con alcune differenze. In particolare, guardando alla prima fase, secondo il novellato art. 3 la domanda è proposta con ricorso al presidente della corte d'appello, competente ex art. 11 c.p.p. con l'applicazione dell'art. 125 c.p.c. (malgrado la norma non preveda più che il ricorso debba essere sottoscritto da un difensore munito di mandato speciale si ritiene che sussista ancora l’obbligo del patrocinio del difensore). Il presidente designa un magistrato della corte per la trattazione della causa. Mentre nel precedente assetto normativo, ai fini della proponibilità della domanda per equa riparazione, si reputava sufficiente l’allegazione (e la dimostrazione) da parte del ricorrente dei dati relativi alla sua posizione nel processo presupposto (data iniziale, data della sua definizione, eventuale articolazione nei vari gradi), spettando poi al giudice (anche in coerenza con il modello procedimentale, di cui agli art. 737 ss. c.p.c., prescelto dal legislatore) disporre, se del caso, anche su istanza di parte, l’acquisizione di tutti o di alcuni degli atti e documenti del procedimento, al fine di verificare la sussistenza di eventuali cause giustificative della durata del procedimento presupposto; ora il 3° comma del novellato art. 3 l. 89/01 stabilisce che, unitamente il ricorso, deve essere depositata copia autentica degli atti introduttivi, dei verbali di causa e del provvedimento che ha definito il giudizio « ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili». Trattasi di un vero e proprio deterrente abbastanza subdolo ai fini della proposizione della legge Pinto dal momento che, una volta esclusa l’acquisizione di ufficio, il ricorrente parrebbe onerato dal deposito dell’intero contenuto del fascicolo di causa, previsa estrazione peraltro non già della copia semplice attinta dal fascicolo di ufficio ma di quella autenticata. In analogia a quanto previsto nel procedimento monitorio è previsto, attraverso il richiamo ai primi due commi dell'art. 640 c.p.c., che il giudice possa ordinare l'integrazione della documentazione, pena il rigetto della domanda in caso di inottemperanza. Il presidente o il magistrato da lui designato provvede nella forma del decreto motivato, da emettere entro 30 giorni dal deposito del ricorso. 22 Se la domanda è accolta, il decreto ingiuntivo emesso — che dovrà liquidare anche le spese del procedimento — è provvisoriamente esecutivo. In caso di rigetto e anche di accoglimento parziale, la domanda non può essere riproposta, ma è possibile fare opposizione al collegio. Trattasi di un'importante differenza rispetto alla disciplina del decreto ingiuntivo, dettata da evidenti finalità deflattive. Il nuovo art. 5 l. 89/01 stabilisce dettagliatamente gli adempimenti cui è tenuto il ricorrente nel caso in cui la sua domanda sia stata accolta (anche solo in parte) dal presidente della corte d’appello (o suo delegato): l’ingiunzione di pagamento dell’equo indennizzo diventa infatti inefficace (e ciò irrimediabilmente, non potendo la domanda essere riproposta), qualora nel termine di trenta giorni dal deposito in cancelleria del relativo decreto questo non venga notificato, unitamente al ricorso, all’amministrazione intimata, la quale avrà, a sua volta, trenta giorni di tempo dalla notifica (il termine è perentorio, e quindi a pena di decadenza) per proporre opposizione al decreto ingiuntivo notificatole, mediante deposito di apposito ricorso nella cancelleria della stessa corte d’appello (ricorso nel quale, applicandosi l’art. 125 c.p.c., devono essere esposte le ragioni dell’opposizione). Nel caso di accoglimento parziale della domanda, peraltro, come si desume dal complesso degli art. 5, 3° comma, e 3, 6° comma, il ricorrente avrà dinanzi a sé due possibilità : notificare (entro trenta giorni) il decreto di pagamento emesso a suo favore, comportando tale comportamento acquiescenza al provvedimento ottenuto, oppure proporre opposizione ai sensi dell’art. 5 ter (entro il termine perentorio di trenta giorni dalla data in cui il decreto stesso gli è stato comunicato). In altri termini cioè la notificazione preclude al ricorrente la possibilità di fare opposizione nel caso in cui ovviamente la domanda sia stata rigettata o accolta solo in parte , comportando acquiescenza al decreto. Il comma 4, infine, ripete la preesistente disposizione secondo cui «il decreto che accoglie la domanda è altresì comunicato al procuratore generale della Corte dei conti, ai fini dell'eventuale avvio del procedimento di responsabilità, nonché ai titolari dell'azione disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento». 7. Il procedimento di opposizione (art. 5 -ter ) Il nuovo art. 5-ter disciplina poi il procedimento di opposizione « contro il decreto che ha deciso sulla domanda di equa riparazione». L'opposizione va proposta, con ricorso, che presenti il contenuto minimo previsto dall'art. 125 c.p.c., che va depositato entro 30 giorni decorrenti, per il ricorrente, dalla comunicazione del provvedimento in tutto o in parte negativo e, per l'amministrazione, nei cui confronti sia emessa ingiunzione in caso di accoglimento della domanda, dalla sua notificazione a cura del ricorrente. 23 L'opposizione deve essere proposta sempre alla corte d'appello, che decide collegialmente, nelle forme del procedimento camerale, senza la partecipazione del giudice che ha emesso il provvedimento. L'opposizione non sospende l'esecuzione, tuttavia il collegio, in presenza di gravi motivi, può sospenderla con ordinanza non impugnabile. Il decreto che decide sull'opposizione, da pronunciarsi nel termine (ordinatorio) di quattro mesi dal deposito del ricorso, è immediatamente esecutivo ed è impugnabile per cassazione. Infine, l'art. 5-quater prevede infine — con l'evidente finalità di reprimere abusi— che con il decreto che provvede negativamente sulla domanda ovvero con il provvedimento che definisce l'opposizione, il giudice possa condannare la parte al pagamento di una sanzione da versarsi alla cassa delle ammende, ma ciò solo nel caso di domanda dichiarata inammissibile o manifestamente infondata. (cfr. Cass. civ., sez. II, 31-10-2014, n. 23302: “ In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, la sanzione processuale di cui all’art. 5 quater l. 24 marzo 2001 n. 89, è applicabile non solo quando la domanda sia dichiarata manifestamente infondata, ma anche quando la stessa sia inammissibile per colpa ascrivibile al ricorrente, come in ipotesi di inosservanza del termine semestrale di proponibilità decorrente dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva (nella specie, desumibile dalla piana applicazione dell’art. 2, all. 3, cod. proc. amm., che ha sancito l’ultrattività della previgente disciplina per la proposizione dell’appello ai soli termini «in corso all’entrata in vigore» del codice del processo amministrativo”. 8. Le recenti modifiche apportate dalla legge n. 208 del 28 dicembre 2015 (Legge di stabilità 2016). All’indomani dei risultati poco soddisfacenti ottenuti per effetto delle modifiche del 2012 (i tempi del processo sono rimasti “irragionevoli” ed i costi pubblici sono ulteriormente lievitati), con la legge n. 208 del 28 dicembre 2015, il legislatore è nuovamente intervenuto sulla c.d. Legge Pinto inserendo rilevanti novità, ispirate, almeno in linea di principio, alla finalità di “razionalizzare i costi conseguenti alla violazione del termine di ragionevole durata dei processi” (così l’incipit dell’art. 1, comma 777, della citata legge n. 208). La novità indubbiamente più eclatante consiste nell’introduzione dei rimedi c.d. preventivi (art. 1 ter), che rendono la domanda di equa riparazione inammissibile se fatta valere da chi non abbia esperito detti rimedi. a) nel processo civile costituisce rimedio preventivo l’introduzione del giudizio nelle forme del procedimento sommario ex art. 702 bis c.p.c.; nelle cause introdotte con citazione costituisce altresì rimedio preventivo formulare richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario a norma dell’art. 183 bis c.p.c.; e, nelle cause nelle quali non si applica il rito sommario, ivi compreso il 24 giudizio di appello, costituisce rimedio preventivo proporre istanza di decisione a seguito di trattazione orale ex art. 281 sexies c.p.c. b) per il processo penale costituisce rimedio preventivo un’apposita istanza di accelerazione che l’imputato e le altre parti del processo penale hanno diritto di depositare, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all’art. 2, comma 2-bis (nuovo art. 1-ter comma 2); c) per il processo amministrativo costituisce rimedio preventivo l’istanza di prelievo con la quale la parte segnala l’urgenza del ricorso, prevista dall’art. 71, comma 2, c.p.a., da presentare almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all’art. 2, comma 2-bis; d) per il processo contabile, pensionistico e di cassazione costituisce rimedio preventivo un’istanza di accelerazione presentata, rispettivamente, almeno 6 e 2 mesi prima della scadenza del termine di ragionevole durata (nuovo art. 1-ter commi 4, 5 e 6). La scelta del legislatore di subordinare l’ammissibilità della domanda di ristoro all’esperimento dei rimedi preventivi di cui al nuovo art. 1 ter, appare poco condivisibile. Ora, in primo luogo, è pacifico che intanto le parti possono utilizzare il procedimento sommario di cui all’art. 702 bis c.p.c. in quanto la controversia non necessiti di una “istruzione non sommaria”, dovendo viceversa utilizzare il procedimento ordinario ex art. 163 ss. c.p.c. Del pari, il passaggio dal rito ordinario al rito sommario ai sensi del nuovo art. 183 bis c.p.c. presuppone che “valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria”, questa la si giudichi semplice e di pronta soluzione, poiché se, al contrario, la controversia non è ne’ semplice ne’ di pronta soluzione, il passaggio al rito sommario non è possibile, e la controversia deve essere trattata e portata a termine con il rito ordinario. Sicchè, come subito evidenziato in dottrina, volendo offrire una lettura costituzionalmente orientata di tale norma, appare ragionevole interpretare il successivo art. 2 della nuova legge Pinto nel senso che la domanda di equa riparazione è inammissibile se, pur sussistendo i presupposti della cognizione sommaria, egualmente la parte non l’abbia utilizzata o richiesta nell’udienza ex art. 183 c.p.c.; al contrario, se il mancato rimedio preventivo è dipeso da complessità della causa, questo non potrà essere impediente di una richiesta di equa riparazione, pena, altrimenti, la completa irragionevolezza della norma. La legge di Stabilità 2016 ha poi ridotto la soglia minima e massima entro cui potrà essere liquidato l’indennizzo: il riformulato art. 2-bis, comma 1, ha infatti indicato nuovi parametri di liquidazione dell’indennizzo fissando un range compreso tra 400 e 800 euro per anno o frazione di anno superiore ai sei mesi di eccedenza sulla durata ragionevole del processo (in precedenza il range era fissato tra 500 e 1500 euro), prevedendo tuttavia correttivi in aumento per i casi in cui il ritardo si sia eccessivamente prolungato, potendo la somma liquidata essere in tali casi aumentata sino al 20 per cento per gli anni successivi al terzo e sino al 40 per cento per gli anni successivi al settimo. A sua volta, il nuovo comma 1-bis dell’art. 2-bis consente riduzioni sino al 20 per cento se le parti del processo presupposto sono più di dieci e fino al 40 per cento se le parti sono più di cinquanta, 25 mentre il nuovo comma 1-ter dell’art. 2-bis prevede la diminuzione “fino a un terzo” della somma liquidabile a titolo di indennizzo nei casi di integrale rigetto delle richieste della parte ricorrente nel giudizio presupposto. Le anzidette soglie appaiono tuttavia nettamente inferiori agli standard determinati dalla Corte di Strasburgo, sicché cresce il rischio di un intervento della Corte europea ai sensi dell’art. 41 CEDU per inadeguatezza del rimedio interno. In sede di riforma, è stato altresì riscritto il vecchio comma dell’art. 2, comma 2-quinquies (introdotto dal d.l. n. 83 del 2012), che, come detto, contemplava una serie di ipotesi in cui è escluso in radice il diritto all’indennizzo. Ai sensi del nuovo art. 2, comma 2-quinquies, infatti, non è riconosciuto alcun indennizzo alla parte condannata, ex art. 96 c.p.c., ai danni per lite temeraria nel processo presupposto ed anche alla parte che, pur in assenza di tale condanna, risulti consapevole dell’infondatezza “originaria o sopravvenuta” della sua posizione (lett. a), nonché nei casi di cui all’art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c. (lett. b) e all’art. 13, comma 1, primo periodo del d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 (lett. c); infine, l’indennizzo è escluso “in ogni altro caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento” (lett. d). Del tutto nuova è, invece, la disposizione di cui al nuovo comma 2 sexies dell’art. 2, il quale inserisce una presunzione di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, superabile dalla prova contraria, per i casi di prescrizione del reato di cui benefici l’imputato (lett. a), di contumacia della parte (lett. b), di estinzione o perenzione del processo civile o amministrativo (lett. c e lett. d), di proposizione di motivi aggiunti al ricorso amministrativo mediante autonomo ricorso (lett. e), nonché di mancata richiesta di riunione ex art. 70 c.p.a. dei ricorsi amministrativi connessi, proposti dalla stessa parte (lett. f); infine, la lettera g) della medesima norma esclude fino, a prova contraria, l’indennizzo in caso di “irrisorietà della pretesa o del valore della causa, valutata anche in relazione alla condizione personale della parte”. Ancora, il nuovo comma 2-septies dell’art. 2, introduce poi una presunzione di insussistenza del danno per la parte che, dall’eccessiva durata del processo, abbia ricevuto vantaggi patrimoniali uguali o maggiori rispetto alla misura dell’indennizzo in astratto ad essa spettante. Con riferimento al procedimento, il legislatore ha ritenuto opportuno modificare il criterio di competenza sui ricorsi Pinto attribuendola ora al presidente della Corte d’Appello nel cui distretto ha sede il giudice che si è occupato in primo grado del processo presupposto. Del pari, il nuovo 4° comma dell’art. 3, esplicita l’incompatibilità del giudice del processo presupposto, di per sé già desumibile dal sistema. Nel nuovo assetto cambiano nettamente le modalità di pagamento dei decreti Pinto di condanna ora disciplinate dal nuovo art. 5-sexies, che impone al creditore il rilascio di dichiarazione di autocertificazione e sostitutiva di notorietà che attesti la mancata riscossione del dovuto e altri dati, avente validità semestrale e rinnovabile a richiesta. L’amministrazione è così autorizzata a 26 richiedere al creditore di attestare un credito già accertato dal giudice, a pena di divieto dell’ordine di pagamento in caso di dichiarazione mancante, irregolare o incompleta (comma 4°), e con preclusione nelle more di ogni atto esecutivo (comma 7°). Va infine precisato che la legge n. 208 del 28 dicembre 2015 introduce anche una disciplina transitoria secondo cui nei processi che, alla data del 31 ottobre 2016, eccedano i termini ragionevoli ovvero siano stati assunti in decisione non è necessario esperire i rimedi preventivi, introdotti con la normativa in commento, ai fini dell’ammissibilità della domanda di equa riparazione. Di contro, in assenza di una specifica disposizione ed applicando i principi generali in materia di successione delle leggi nel tempo, appare ragionevole ritenere che tutte le altre modifiche potranno applicarsi ai procedimenti ex legge Pinto istaurati dopo l’entrata in vigore della legge di stabilità del 2016 (quindi, dopo il primo gennaio 2016). 8. Il principio della ragionevole durata nelle pronunce della Corte di Cassazione Il principio della ragionevole durata del processo ha rappresentato un canone imprescindibile per una lettura costituzionalmente orientata delle norme che regolano il processo civile. Difatti, l’art. 111 Cost. è norma che si rivolge non solo al legislatore ma altresì al giudice che, in qualità di interprete della norma processuale, è chiamato a prediligere tra le varie interpretazioni possibili quella “più costituzionalmente orientata”. È evidente, quindi, che l’introduzione del principio della ragionevole durata del processo ha imposto all’interprete un nuovo approccio interpretativo avversante ogni inutile appesantimento della giudizio, al fine di giungere in tempi celeri alla definizione della controversia Sulla base di tale principio, in questi ultimi dieci anni, la Corte di Cassazione è intervenuta con una serie di pronunce dirette a fornire una lettura costituzionalmente orientate della norme del codice di procedura civile. Un primo filone di pronunce è certamente quello in materia di sospensione del giudizio. Non vi è dubbio, infatti, che se il canone della ragionevole durata del processo impone di giungere alla definizione del processo in tempi celere, l’istituto della sospensione debba essere formalmente delimitato nella sua operatività, in quanto istituto contrario alla natura del processo e tale da incidere sull’esercizio del diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost. In questa ottica, dunque, a seguito della novellazione dell’art. 111 Cost. ed alla luce dei principi del giusto processo e della ragionevole durata del processo, la Corte di Cassazione, a partire dalla sentenza, sez. un. 1º ottobre 2003, n. 14670, ha inaugurato quel filone giurisprudenziale teso da un lato a limitare l’operatività della sospensione del processo (attraverso l’espulsione dal sistema delle ipotesi di sospensione discrezionale) e dall’altro ad ampliare i controlli avverso i provvedimenti dichiarativi della sospensione, così attribuendo all’interessato un rimedio immediato per contestare la correttezza del provvedimento di sospensione. 27 In quest’ultimo filone si inserisce la sentenza, sez. un. del 2008, n. 21931 con la quale, sia pure attraverso una lettura un po’ forzata dell’art. 46 (che esclude l’applicabilità dell’art. 42 e, quindi delle norme sul regolamento di competenza, nei procedimenti dinnanzi al giudice di pace), la Corte Suprema di Cassazione ha esteso il regolamento di competenza anche avverso i provvedimenti del giudice di pace dichiarativi della sospensione, cosi garantendo alla parte lesa uno strumento idoneo ad assicurare la sollecita ripresa delle attività processuali ed impedendo la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo. In altre ipotesi, viceversa, il richiamo alla ragionevole durata del processo ha rappresentato l’occasione per rivedere orientamenti più risalenti ed ormai ritenuti non più costituzionalmente orientati. Balza subito all’attenzione, la copiosa giurisprudenza in materia di notificazioni, di impugnazioni e di termini. In particolare, con sentenza, sez. un., 15 dicembre 2008, n. 29290, la Corte di Cassazione ha statuito che la notificazione dell’atto di impugnazione eseguita presso il procuratore costituito per più parti, mediante consegna di una sola copia (o comunque di un numero inferiore) è valida ed efficace, dovendosi, al contrario, superare il vecchio orientamento che imponeva, in caso di consegna di una sola copia, «la rinnovazione della notificazione …… mero formalismo non imposto dalla norma ed in contrasto con le esigenze di effettività e semplificazione che impongono di privilegiare le interpretazioni coerenti con l’esigenza di rendere giustizia in tempi celeri e ragionevole, in virtù della generale applicazione del principio della ragionevole durata del processo». Rileva poi la sent., sez. un., 3 novembre 2008, n. 26373 con la quale la Suprema Corte partendo dal presupposto che «il rispetto del fondamentale diritto a una durata ragionevole del processo impone, in concreto, al giudice di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo a una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di energie processuali», ha sancito il principio secondo cui nel processo in cui vi sia una pluralità di soggetti che hanno diritto a ricevere la notifica dell’impugnazione, non può non ritenersi superflua e, quindi, da evitare, al fine di definire con maggior celerità il giudizio, la concessione di un termine per la notifica dell’impugnazione alla parte totalmente vittoriosa nei cui confronti sia stata omessa, quando il giudice ritiene di dover dichiarare l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’impugnazione. Il principio della ragionevole durata del processo ha altresì rappresentato il canone ispiratore delle disposizioni nelle quali si scandiscono i tempi del processo. Innanzitutto, ritroviamo nella giurisprudenza della Corte di cassazione enunciazioni di carattere generale intese essenzialmente a far emergere come il sistema delle preclusioni, letto alla luce del principio della ragionevole durata del processo, soddisfi una esigenza di carattere generale. In particolare, in Cass., sez un., 15 dicembre 2008, n. 29290 la Cassazione sottolinea l’importanza 28 del dovere di collaborazione anche in capo alle parti affinché nel processo sia tempestivamente circoscritti i fatti effettivamente controversi. Destano sicuramente più interesse quelle pronunce che si occupano in modo specifico degli aspetti problematici alle preclusioni istruttorie. Al riguardo, è d’obbligo menzionare due importanti filoni giurisprudenziali. In particolare, si segnala Cass. sez. un., 20 aprile 2003, n. 8203 e n. 8202. Con tale pronuncia, le sezioni unite, risolvendo definitivamente il contrasto relativo ai limiti di ammissibilità di nuove prove in appello, giunge ad affermare che «il regime di preclusioni in appello riguarda sia le prove costituende sia le prove precostituite (i documenti)», soluzione questa in linea con il principio della durata ragionevole del processo che impone di eliminare ogni inutile prolungamento delle attività processuali. Ancora, Cass. 28 luglio 2007, n. 15787, nella quale la Corte, nell’affrontare il problema dei limiti ai poteri istruttori del terzo interveniente, afferma che l’intervento del terzo è ammesso sino alla udienza di precisazione delle conclusioni, quand’anche sia ispirato il termine di cui all’art. 183 ma, in virtù di quanto previsto dal secondo comma dell’art. 268 c.p.c. il terzo non può compiere atti che sono ormai preclusi alle altre parti e quindi gli è preclusa ogni attività di allegazione e di prova. Questa, dunque, una interpretazione della norma che la corte ritiene in linea con i principi del giusto processo «considerato che un processo giusto è anche un processo celere in seno al quale non siano consentite manovre dilatorie o vicende funzionali volte a prolungare immotivatamente i tempi di celebrazione». In molte altre ipotesi, la Corte di cassazione, motivando in punto di principi costituzionali e in particolar modo invocando il principio della ragionevole durata del processo, è giunta a conclusioni in contrasto con il tenore letterale della norma. Si inseriscono in questo filone giurisprudenziale due recenti sentenze. In particolare, Cass. 9 ottobre 2008 n. 24883 (seguita da Cass. 30 ottobre 2008, n. 2601)con la quale la suprema Corte, in netto contrasto con la lettera dell’art. 37 c.p.c. , ha statuito che il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti o rilevato di ufficio dal giudice solo sino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado, altrimenti la questione di giurisdizione resta assorbita dalla mancata impugnazione della sentenza. Ancora una volta, le conclusioni cui perviene la Cassazione trovano il loro sostegno principale proprio nel principio della ragionevole durata del processo. In altri termini, le sezioni unite, facendo leva su detto principio, ritengono che proprio a seguito del suo avvento nel sistema costituzionale, il principio di economia processuale non può non produrre i suoi effetti anche in relazione ai tempi concessi per il consolidamento della giurisdizione. La riduzione degli spazi applicativi dell’art. 37 c.p.c. è simmetrica alla portata espansiva del nuovo dettato costituzionale. Attraverso una sentenza molto elaborata la Cassazione disapplica l’art. 37 c.p.c. affermando che esso «non realizza un corretto bilanciamento dei valori costituzionali e produce una ingiustificata 29 violazione del principio della ragionevole durata del processo e dell’effettività della tutela, in quanto comporta la regressione del processo allo stato iniziale, la vanificazione di due pronunce di merito e l’allontanamento sine die di una valida pronuncia nel merito». Qualche eccesso nel calcare la mano sul canone della ragionevole durata del processo, quale principio ispiratore per una lettura costituzionalmente orientate delle norme processuali, emerge anche in Cass., 23 febbraio 2010, n. 4309. Disapplicando totalmente l’art. 269 c.p.c., in materia di chiamata in causa del terzo tempestivamente proposta dal convenuto (che, come è noto, non è soggetta ad autorizzazione da parte del giudice, dovendo quest’ultimo, previa richiesta, fissare entro cinque giorni, la data della nuova udienza), la Cassazione, in virtù del principio della ragionevole durata del processo che impone al giudice di evitare ed impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, ha statuito che «il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo nel processo chiesta tempestivamente dal convenuto ai sensi dell’art. 269 c.p.c., al di fuori delle ipotesi di litisconsorte necessario, è discrezionale, potendo il giudice rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo per ragioni di economia processuale e per motivi di ragionevole durata del processo». È evidente allora come il metodo utilizzato dalla Cassazione, almeno in queste ultime due pronunce, non può essere condiviso. E difatti se è vero che l’art. 111 Cost. è una norma costituzionale programmatica che impone al legislatore di dettare leggi finalizzate ad accelerare i tempi del processo, questo però non significa che il giudice possa utilizzare il parametro della ragionevole durata del processo per riscrivere le norme del codice di procedura civile, specie quando il precetto della norma (v. art. 37 c.p.c., art. 269 c.p.c.) è chiaro ed è espressione fedele e coerente di un giudizio di valore del legislatore di senso diametralmente opposto. In questo caso, il giudice non può stravolgere il contenuto della norma processuale. Tanto perché i giudizi di valore legislativo possono essere disattesi nel nostro ordinamento solo attraverso l’intervento dello stesso legislatore o rimettendo la questione di legittimità costituzionale direttamente dinnanzi alla Corte costituzionale. In caso contrario, come sostenuto in dottrina, «ne deriverebbe una violazione palese anche del principio della legalità e lo stesso codice di procedura civile non servirebbe più a nulla. In questa ottica, dunque, il principio della ragionevole durata del processo costituirebbe non solo la perdita della preconoscenza delle regole processuali, tenuto conto che il cittadino deve conoscere le modalità in cui viene e deve essere esercitata la funzione giurisdizionale ma dall’altro conto il giudice acquisirebbe un potere assoluto di determinazione delle modalità di svolgimento del rito in deroga al principio di legalità». Ad ultimo, l’art. 111 Cost. è una norma che si rivolge al legislatore il quale per dare effettiva attuazione al principio di ragionevole durata dovrebbe operare da un lato sugli aspetti organizzativi e strutturali (assicurando un rapporto adeguato tra il numero complessivo delle 30 controversie ed il numero dei magistrato togati ed onorari addetti alla loro trattazione, aumentandola la competenza dei giudici di pace, revisione delle circoscrizioni) e dall’altro sul piano strettamente processuale, approntando normative idonee a garantire il celere svolgimento dei processi. Dobbiamo tuttavia constatare che, se è vero che negli ultimi dieci anni non c’è stata legge di riforma del processo civile nella quale il legislatore non abbia affermato quale sua fonte ispiratrice l’esigenza di attuare una giustizia più celere ed efficace (v. da ultimo, la recente riforma del processo civile attuata con legge n. 69/2009 finalizzata a contenere i tempi del processo), nulla è stato fatto in riferimento alla modernizzazione e al rafforzamento degli apparati e degli strumenti organizzativi. Tanto a differenza di quanto accaduto negli altri paesi esteri (si pensi alla Spagna ed al Portogallo) che, anziché risolvere il problema della ragionevole durata del processo solo attraverso l’introduzione di una norma ad hoc a ristoro dei danni derivanti dalla violazione dell’art. 6 della convenzione, hanno altresì privilegiato l’intervento strutturale teso alla accelerazione complessiva dei tempi del processo ed al rafforzamento delle garanzie interne e dell’apparato giudiziario. Una conclusione quest’ultima condivisa anche dalla Corte Europea di Strasburgo che ha sottolineato come “il miglior rimedio in assoluto è la prevenzione” e non il risarcimento dei danni, che può indurre a provocare deliberatamente ulteriori ritardi per conseguire non più una vittoria (ipotetica) nel processo, ma un titolo (certo) per richiedere il risarcimento per il ritardo (Grande Camera, Scordino c. Italia del 29 marzo 2006) . 31