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PEARL JAM – BACKSPACER (2009)
ANTOLOGIA DI RECENSIONI
Riccardo Bertoncelli
http://delrock.it
17/09/2009
Questo disco è una carezza per chi crede (e come potrebbe essere altrimenti?) che i Pearl Jam siano
la più bella band della loro generazione, i soli reduci grunge ad aver raggiunto vivi e forti la matura
età. Un album di bella energia, intenso inquieto, che smentisce con i fatti certe dichiarazioni soft
rilasciate da Vedder nelle settimane scorse, quando aveva detto basta alla musica politica e tessuto
l'elogio di una tranquilla vita in famiglia. "A volte le canzoni sono come bambini, sono puri ma poi
crescono e diventano difficili da controllare, ostinati e insolenti." Può essere andata così. I PJ sono
entrati in studio con l'idea di un morbido disco da quarantenni e poi si son lasciati trascinare da
quello che han trovato, dai germogli di idea lanciati da Vedder e dal produttore, il primo mentore
Brendan O'Brien. Eddie V sembra confermare. "Backspacer non è nato come un progetto
scientifico, piuttosto come un fiore che sboccia."
Di solito diffido di O'Brien, produttore con un marchio forte che tende a prevalere e a omologare.
Qui però è tutta un'altra storia, perchè la banda Vedder ha un segno altrettanto forte e quel che viene
non è mai banale o prevedibile; i Pearl Jam sono puro mercurio, sfuggono alle facili sottolineature,
alle delimitazioni, ai luoghi comuni, con una energia nervosa che scuote, avvince e sa proiettarsi nel
passato rock anche prima, molto prima, del grunge, fino ai giorni di certa acidula new wave.
Bel chiaroscuro chitarre/voce, il perno dell'album, più antipatiche certe convenzionali tastiere. I
brani si chiamano Supersonic, Velocità del suono, Forza della natura, per rendere l'idea di elettrico
dinamismo; ma se volete catturare dieci minuti di pura magia e brividi, lasciate quelle vie trafficate
e prendete due "strade blu" come Just Breathe e The End. Lì, nell'intimità di un voce/chitarra
appena screziato da altri suoni, l'Eddie Vedder più emozionante e nudo, e la migliore conferma di
quel che dicevamo all'inizio sulla vita e longevità dei Pearl Jam.
[4/5]
Ernesto Assante
http://www.repubblica.it
22/09/2009
Tornano i Pearl Jam, e non ci sono grandi novità da sottolineare. Il che, se posso permettermi, non è
una cattiva notizia. Nel senso che i Pearl Jam sono ormai a tutti gli effetti una band di “classic rock”
(sempre che la definizione sia comprensibile e abbia senso alle vostre orecchie) e nel genere le
variazioni non solo sono inutili ma sono addirittura prive di significato, anzi, controproducenti.
Attenzione, però, perchè il Pearl Jam non sono certamente una band di maniera, che sfugge al
contatto con la realtà, che non si immerge nelle cose del mondo, anzi questo continuo contatto che
la formazione americana ha con la realtà e il mondo è il fuoco che tiene vivo il motore della band e
che consente al gruppo di produrre dischi come questo nuovissimo “Backspacer”.
11 brani, 37 minuti in tutto, senza fronzoli o “riempitivi”, un lavoro compatto, essenziale, che mette
insieme il lato più fragile e personale di Eddie Vedder e l’elettricità tesa della band, in un insieme
che risulta estremamente vario e affascinante, brani acustici che sembrano uscire da “In to the wild”
e canzoni in perfetto stile Seattle. Produce Brendan Benson, levigando dove serve il suono rude del
gruppo. Il disco è bello e conferma che i Pearl Jam sono tra i pochi gruppi che in America sa ancora
cosa sia il rock.
John Vignola
http://www.ilmucchio.it
Sempre riconoscibili, i Pearl Jam: fin dalle prime note di Amongst The Waves, che Eddie Vedder
affronta di petto, per poi lanciarsi nel consueto coagulo elettrico ad alto voltaggio che caratterizza
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una buona metà di Bakcspacer. Addio alla Sony, bentornato a Brendan O’Brien, coinvolto anche
nella ristampa ad alta definizione di Ten, esordio mai dimenticato. Le energie vengono spese quasi
subito, per esempio nella trascinante Gonna See My Friends, che replica all’infinito il modulo del
rock-and-roll contemporaneo. I Pearl Jam, del resto, questo sono: un incrocio pesante e pensante fra
le origini, il punk e quanto ha capovolto l’idea di hard nei Novanta.
Un suono da strada principale e non secondaria, comunque, dove nella maggior parte dei casi è la
velocità a dettare legge: lo dimostrano il sussiego di Got Some, tanto per fare un esempio, oppure il
martello percussivo di Force Of Nature che avanza all’unisono con le chitarre. Che poi in tutto
questo siano le melodie (da quelle di Johnny Guitar alle armonie country-pop di Speed Of Sound,
fino alla canzone più rotonda, una The End toccante senza retorica) a dettare legge non deve né può
stupire: anche alle origini i Pearl Jam le hanno curate, pur nello stravolgimento strategico dei
canoni. Ora che sono pure loro un canone, come affrontare questo ennesimo disco? Da fan, con
sicura devozione; da critico - e scusate l’espressione, ma questo si cerca di essere, ogni tanto - con
l’apprezzamento per la tenuta del lavoro nel suo complesso, di molte delle singole tracce, e con una
discreta perplessità da comunicare. Nella loro intransigenza Vedder e soci raccontano storie
direttamente al cuore di chi li segue: i riferimenti sono sempre più inestricabilmente interni e le rotte
sonore rimangono, necessariamente, limitate.
Questo non riduce, ovviamente, molte delle emozioni del disco, che riesce ad avvicinarsi a quanto
di meglio la band di Seattle abbia fatto negli ultimi quindici anni: semplicemente, non lascia
margini allo stupore, sentimento importante per riuscire a volare davvero.
[3/5]
Marco Denti
Il Buscadero
09/2009
La ristampa di Ten e l’enorme successo che ha riscosso sembrano aver influito non poco sulla
natura di Backspacer. I Pearl Jam devono essersi accorti, come del resto mezzo mondo, che, piaccia
o meno, ormai sono dei classici e in quanto tali più vicini agli Who che ai Black Flag. Ciò vuol dire,
più di tutto, che sono durati nel tempo, un traguardo raggiunto con una formazione integra nella sua
identità (con Matt Cameron ormai protagonista alla batteria) e soprattutto nei propri ideali (anche
Backspacer è frutto di una lunga battaglia che ha portato i Pearl Jam all’indipendenza discografica)
perseguiti con una coerenza più unica che rara. Una resistenza umana e artistica che comporta anche
l’assestarsi sulle proprie posizioni, se non proprio il ripetersi, ma ripetersi a questi livelli ha
tutt’altro che un’accezione negativa, anzi. Vuol dire reggere le pressioni, le tentazioni, le incognite e
rimanere fedeli prima di tutto a se stessi, visto che per essere dei classici serve una storia e quella
dei Pearl Jam è lì da vedere. Per cui Backspacer fugge il disordine sperimentale dei dischi più
spigolosi (No Code su tutti) e anche le giuste asperità di Riot Act e si rivolge ad un sound più
lineare, diretto e molto attento allo sviluppo delle canzoni (e alla bellissima voce di Eddie Vedder,
sempre in risalto). Con questo, i Pearl Jam non hanno tirato il freno a mano perché a parte due
canzoni essenzialmente acustiche (la splendida Just Breathe e The End), Backspacer è il disco di
una rock’n’roll band e delle sue chitarre (elettriche) che vengono modulate nei crescendo di
Unthought Known e di Amongst The Waves, nei riff di Got Some, di The Fixer e di Gonna See My
Friend. Il lavoro di Brendan O’Brien, a parte qualche minimo ritocco strumentale, sembra sia stato
quello di mettere i Pearl Jam nelle condizioni migliori e infatti il suono di Backspacer è molto
“live”, energico e compatto e lo rende un disco solido e immediato che già al primo ascolto dispiega
con convinzione una linea, che è poi sempre quella dei Pearl Jam. Forse per comprensibilissime
ragioni chimiche, Brendan O’Brien ha riportato nella classicità dei Pearl Jam anche qualcosa di
quella springsteeniana, che nella sua migliore versione si traduce in un rock’n’roll sfrenato
(Supersonic) e in quella meno ispirata nell’unica canzone di Backspacer (Force Of Nature) che
confonde il classico con lo standard e sfiora le logiche e i suoni del maistream. Comunque sia,
sempre a distanza da sicurezza dei dischi inventati da sei produttori, quaranta tecnici del suono e
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creati sul nulla per il nulla: Backspacer è il presente di una rock’n’roll band che, a vent’anni dagli
esordi, è ancora una solida realtà. Potrà sembrare anche un disco “normale”, ma se si guarda agli
annali del rock’n’roll si capisce che è parte di una storia speciale. Dei gruppi che esordirono negli
anni Sessanta, sono rimasti soltanto i più grandi, i Rolling Stones (e metà degli Who). Dei
debuttanti negli anni Settanta sono rimasti mille veterani, altrettanti necrologi e Bruce. Di tutti gli
anni Ottanta sono rimasti i R.E.M. (con grande dignità) e gli U2 (non senza qualche fatica). Degli
anni Novanta, i Pearl Jam. Magari manca qualche nome, ma non sono molti quelli che, fermo
restando le dimensioni e le condizioni, possono ancora fare un disco come Backspacer.
[4/5]
Giulio Brusati
http://xl.repubblica.it
15/09/2009
Se la coerenza è una virtù, nessun’altra band suona così fedele ai suoi ideali (e alle sue
contraddizioni).
Non è difficile capire perché The Real Me degli Who sia una delle canzoni che i Pearl Jam amano
reintepretare. Quel ritornello - «Riuscite a vedere il vero me stesso, chi sono io veramente?» sembra cucito addosso a una band che da sempre lotta per "keep it real", restare con i piedi per terra
e mantenere una dimensione umana, reale, lontana da quella finta delle rockstar.
In quasi vent'anni di carriera, hanno sempre difeso coi denti i loro ideali. Nel 1994 hanno fatto
causa (perdendola) a Ticketmaster, la potente corporation che regola la vendita dei biglietti dei
concerti. Dal Binaural Tour del 2000 in poi hanno deciso di offrire ai fan dei "bootleg ufficiali" per
combattere chi speculava sulle registrazioni dei concerti. Da sempre lottano per imporre le proprie
idee, anche se possono sembrare «suicidi commerciali». Ora, liberi dal contratto con le etichette
Epic e J della Sony, hanno deciso di scegliersi i partner coi quali distribuire negli Usa il nuovo
album Backspacer (come la Target, una catena di supermercati), lasciando il compito, in Europa,
alla Universal. È il paradosso di un gruppo che vende milioni di dischi ma considera l'usuale
macchina promozionale (clip, ospitate in radio e in tv) come l'espressione della maligna "Corporate
America".
Ed è la stessa contraddizione incarnata da Eddie Vedder, un miliardario che veste camicie di
flanella, t-shirt di sconosciuti gruppi punk, jeans slavati e scarpe da montanaro. Più vero lui o
Madonna firmata Dior e Jean-Paul Gaultier? Più coerente Vedder o "Santo" Bono che, per
sfuggire al fisco irlandese, nasconde i soldi degli U2 in Olanda? A questa continua ricerca di
integrità contribuisce ora Backspacer, un album immediato, a quanto pare registrato di fretta, alla
"buona la prima", con un'urgenza e una concisione (neanche 37 minuti di durata) che ribadiscono
uno dei cardini del Vedder-pensiero: i dischi sono solo una scusa per andare in tour e suonare dal
vivo. Nell'epoca dell'iPhone e del multi-touch, il titolo di questo nono album registrato in studio
fa riferimento al "backspace", il tasto di ritorno che nelle vecchie macchine per scrivere riportava
indietro il carrello, senza cancellare alcun carattere, come avviene oggi con il computer. Anche il
lettering rimanda a quei tasti obsoleti su cui Vedder batte ancora, per comporre i testi delle canzoni
ma pure per scrivere lettere private. La grafica è opera di un fumettista molto apprezzato negli
ambienti radicali americani, un amico di Vedder, Tom Tomorrow (nome d'arte di Dan Perkins), che
ha diviso la copertina in nove quadri surreali e onirici (ovvio: l'effetto è maggiore nell'edizione in
vinile). Come concetto, Backspacer è anche una buona metafora per la ricerca dei tempi andati,
magari quelli di Ten, il disco d'esordio, composto e inciso nel '91, quando la fama mondiale non
aveva ancora travolto la band di Seattle. E non è un caso che la produzione sia stata affidata a
Brendan O'Brien che aveva lavorato con loro dal primo album fino a Yield nel '98. La sua mano - le
parti di pianoforte e tastiere, le orchestrazioni - si avverte nitida nei brani più rock (Gonna See My
Friend, Got Some), meno intrusiva e - diranno i detrattori - più confusa in quelli simil-pop
(The Fixer, Speed Of Sound), comunque brillante nelle ballate dominate da chitarre acustiche e
archi (Just Breathe, The End).
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I brani più emozionati di Backspacer sono influenzati, e non poteva essere altrimenti, dalla colonna
sonora di Into The Wild che ha fatto vincere a Vedder un Golden Globe, oltre ad essere stata
nominata ai Grammy Awards. La ballata Just Breathe è nata sviluppando un brano strumentale di
quella soundtrack. Unthought Known, Speed Of Sound e The End sono state eseguite con
voce/chitarra acustica in diversi concerti di Eddie da solo, nell'ultimo anno o giù di lì. Nelle versioni
registrate dalla band al completo acquistano quel senso di movimento e quelle dinamiche che
mancano ai brani di Into The Wild. Sembra che Vedder & compagni abbiano voluto soffiare la vita
in brani immobili come il paesaggio innevato dell'ultima parte del film di Sean Penn.
D'altra parte, avendo provato le nuove canzoni per diverso tempo prima di entrare in studio di
registrazione (ad Atlanta ma soprattutto a Los Angeles, lontano dal "nido" di Seattle), si avverte la
rapidità delle esecuzioni e la confidenza con il materiale. L'uno-due iniziale di Gonna See My
Friend e Got Some mette al tappeto e dà il tono all'intero album. Tono che si addolcisce con The
Fixer, il singolo pop che non ti aspetti. L'uso smodato di «yeah yeah yeah yeah» (uno in più dei
Beatles di She Loves You) viene controbilanciato dalle chitarre elettriche di Stone Gossard e Mike
McCready, abili a districarsi con arpeggi e accordi. In mano a un produttore pop vero e proprio,
però, una gemma del genere sarebbe diventata la Losing My Religion dei Pearl Jam. Meglio il rock
epico di Johnny Guitar (curioso il riferimento a un film western anni Cinquanta) e il romanticismo
di Just Breathe (ma è davvero una canzone d'amore questa che si chiude con «ci vediamo dall'altra
parte»?). Amongst The Waves celebra il mare («Andiamo a nuotare, stanotte, amor mio/ tu ed io/ e
nient'altro/ tra le onde»); Supersonic (non c'entrano gli Oasis) guarda al punk di New York anni
Settanta, con un uso più drammatico dello «yeah»; mentre Force Of Nature riprende il rock
viscerale semi-grunge di Neil Young metà anni Novanta. Il vertice di Backspacer è The End, il
brano di chiusura. Siamo lontani dalla fine del primo disco dei Doors (nessun incesto né parricidio,
qui) quanto dall'ultimo brano che i Beatles hanno inciso insieme e che sigilla la suite di Abbey
Road.
Se avete qualche dubbio sull'autenticità dei sentimenti di Eddie, non avete che da ascoltare questa
grande canzone americana che si inserisce di diritto nella tradizione che va da Hank Williams a
Bruce Springsteen, passando per Johnny Cash e Neil Young. Non importa se Vedder canti del suo
divorzio o di chissà quale altra separazione; parla un linguaggio universale, e questo basta. «Che ne
è dei sogni che abbiamo condiviso anni fa?/ Che ne è dei piani che avevamo ideato?/ Sono
solo un essere umano/ Aiutami a vedere me stesso/ perché non distinguo più le cose/ guardando in
su, dal fondo di un pozzo/ È l'inferno, io grido ma nessuno mi sente/ Prima che sparisca, sussurrami
all'orecchio/ dammi qualcosa che echeggi nel mio futuro incerto/ La fine si avvicina/ io sono qui/
ma non per molto ancora».
Massimo Cotto
Max
Settembre 2009
La prova del nove. I Pearl Jam si presentano al difficile esercizio del nono album con una nuova
etichetta e un vecchio produttore che con loro ha scritto pagine d’eccellenza: Brendan O’Brien, da
cui avevano separato le strade dopo Yield, 11 anni fa. «Ha portato un approccio diverso alla musica,
ma anche noi siamo diversi, stavolta pronti ad ascoltarlo se suggerisce un cambio di direzione».
Merito di Springsteen ammette Eddie Vedder. «Se Brendan può permettersi di dire al Boss che una
canzone gli piace, ma che forse sarebbe meglio tentare una chiave diversa e Bruce è disposto a
seguirlo, allora possiamo farlo anche noi». Beh, a giudicare dalle ultime canzoni di Springsteen, non
ne sarei tanto sicuro.
Backspacer ha un titolo al tritolo (e anche un po’ alla Michael Stipe, ma tutto è molto più semplice
di quel che sembra: Backspacer è il nome di una tartaruga marina che la band ha adottato e la cui
specie si cerca di preservare) e una serie di correnti che cambiano il vento sulla strada maestra: un
po’ di pop in più, per cominciare.
Meno dannazioni, meno grunge, meno politica e più rock a tutto tondo. Registrato in due settimane
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a Los Angeles («ci ha fatto bene allontanarci da casa e da quella che chiamiamo la comfort zone»),
missato ad Atlanta, in Georgia, il nuovo Pearl Jam è un vaso a due manici: per valutarlo dipende
quale impugni. Ma poco importa: Eddie Vedder è tornato dal suo viaggio into the wild e questo fa
bene al cuore. Vecchio amico che ha storie da raccontare, per chi vuole ascoltare.
Federico Zamboni
Secolo d'Italia
27 settembre 2009
La giovinezza se n’è andata anche per i Pearl Jam. Ma non è solo una questione anagrafica: è un
fatto esistenziale. Se esci vivo dall’adolescenza (vivo: non semplicemente sopravvissuto) è più che
probabile che qualche tipo di equilibrio sia arrivato a prendere il posto della rabbia e
dell’inquietudine. La rabbia che ti accendeva. L’inquietudine che ti consumava. Le emozioni così
forti, così incontrollabili, da essere sempre lì lì per ritorcersi su se stesse e diventare autodistruttive.
I Pearl Jam, e in particolare il loro “cantautore” Eddie Vedder, ne avevano accumulata una riserva
smisurata. Un’immensa distesa d’acqua profonda e oscura, di cui non si vedevano i limiti e di cui
non si poteva sapere con esattezza fino a quali abissi si spingesse. Si osservavano le onde e si
facevano ipotesi. E non era certo il caso di sottovalutare quelle che apparivano più lievi. Seattle è
città di nuvole e di pioggia: il cielo sgombro è solo una pausa – o un prologo. Il grunge è terra (e
mappa) di domande e di insofferenza: una canzone accattivante è solo una piccola radura che si apre
tra le rocce e ti sorprende – ma che non ti deve illudere. Seattle ha l’oceano davanti e le montagne
alle spalle. Forze che aleggiano anche quando non ci si pensa. Non siamo noi a comandarle. Non
comandiamo quasi nulla, in effetti.
Ma c’è un’alternativa al comando: la comprensione. La capacità di dedicarsi alle cose, e alle
persone, e a noi stessi, senza pretendere di controllare tutto e di asservire tutto ai nostri desideri. «In
questi anni – ha dichiarato recentemente Vedder, in una bella intervista realizzata da Giuseppe
Videtti e pubblicata su Repubblica – ho capito che la vita è preziosa. Non voglio più perdere
d'occhio il privilegio che mi deriva dalla mia esperienza di rocker e la magnificenza di quel che ci
circonda, la bellezza di una conchiglia che trovi nella sabbia, di una nuvola che si forma nel cielo,
delle gocce di pioggia che si rincorrono in una pozzanghera. Siamo così tormentati dalle cattive
notizie, strangolati da mille paure che non riusciamo più a vedere le meraviglie che il pianeta ci
regala.»
Backspacer, il nuovo album che arriva a tre anni dal precedente Pearl Jam (altrimenti noto come
Avocado, per l’immagine del frutto che campeggiava in copertina), è questo sguardo ripulito e
fiducioso che si alza sul mondo e si apre alla speranza. Quello che non hai capito oggi potresti
capirlo domani, o tra un attimo. O chissà quando; mentre nel frattempo, però, innumerevoli altre
domande e risposte ti avranno attraversato, e riempito, la vita. “Resta con me e respira soltanto”,
dice/consiglia/supplica la splendida Just Breathe che trasforma in una grande canzone un brano solo
strumentale contenuto della colonna sonora, composta dallo stesso Vedder, dell’altrettanto grande
Into the Wild. Backspacer corre via veloce, anche troppo. Appena 37 minuti di durata complessiva,
che si snodano all’insegna dell’immediatezza e del desiderio di lasciare da parte tutto ciò che
tardava a prendere forma. Si sa come va a finire: più ci pensi su e più ti chiedi se è giusto. Più te lo
chiedi e meno lo capisci. Come ha scritto Stephen King (che la sa lunga e, bontà sua, ce l’ha svelata
nell’imperdibile On Writing) “Ricordate che la regola fondamentale del vocabolario è: usate la
prima parola che vi viene in mente, se è appropriata e colorita. Se esitate e vi mettete a riflettere, vi
verrà in mente un’altra parola, è ovvio, perché c'è sempre un’altra parola, ma probabilmente non
sarà buona come la prima o altrettanto significativa.” I Pearl Jam di Backspacer sottoscriverebbero
di slancio. «Nessuna di queste canzoni – spiega ancora Vedder – è diventata un compito a casa.
Quelle che lo erano non sono finite nel disco». «Se una canzone o una traccia non si sviluppava nel
modo giusto – aggiunge Stone Gossard, chitarrista e fondatore – allora ci dicevamo
“sbarazziamocene”. Abbiamo lavorato nel modo giusto su questi pezzi, sono freschi e up-tempo e
senza troppi ripensamenti.»
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Loro erano determinati. Brendan O’Brien, il produttore che torna al loro fianco a undici anni da
Yield, li ha aiutati a non deviare dalle buone intenzioni. O’Brien, che da allora ad oggi ha curato
molti altri artisti e in particolare Bruce Springsteen (con risultati ottimi in The Rising e via via meno
convincenti in Magic e in Working On A Dream), si è dimostrato all’altezza del compito: se quello
che si desiderava era una maggiore freschezza, che potesse avvicinare ai Pearl Jam anche una parte
di quelli che non li hanno seguiti finora, l’obiettivo è stato senz’altro raggiunto. Backspacer non si
arruffiana nessuno, ma allo stesso tempo non tiene nessuno a distanza. Nei brani più veloci è
sempre godibile e spesso trascinante: la vecchia e ben nota passione per il rock elettrico e scandito,
che abbraccia il grande repertorio degli anni Settanta e dei primi Ottanta e che ha due stelle fisse
negli Who e nei Ramones, emerge più viva e riconoscibile che mai. A non sapere che l’album è
appena uscito la sua collocazione temporale resterebbe un enigma. Per limitarsi a una sola citazione,
l’apertura di Gonna See My Friend, definita da Billboard “una furiosa esplosione garage alla
Stooges”, è molto più dalle parti dell’hard rock che non del metal. Quanto ai brani lenti, va da sé, la
seduzione è ancora più facile, essendo meno legata ai codici di partenza, e di appartenenza: non c’è
bisogno di amare i Metallica per lasciarsi catturare da Nothing Else Matters; non c’è bisogno di
amare i Pearl Jam per cedere al fascino della succitata Just Breathe e della conclusiva The End:
basta il loro incedere limpido e commovente, con quella semplicità di arrangiamento che evoca la
confessione tra amanti, o tra amici veri, e che fa bene al cuore.
Backspacer non è un capolavoro assoluto – come ha sottolineato John Vignola sul Mucchio, “non
lascia margini allo stupore, sentimento importante per volare davvero” – ma è un album come
dovrebbero uscirne assai di più di quanto accada. Una manciata di perle (non una “marmellata”,
come recita il nome del gruppo) che rotolano con leggerezza dalle mani dei musicisti e si spandono
tutt’intorno. Bello vederle saltellare, o scivolare fino a fermarsi. Bello raccoglierle tutte insieme e
rovesciarle daccapo.
Luigi Ferraro
http://www.freakout-online.com
30/09/2009
In realtà non dovrei recensire i Pearl Jam. Troppi ricordi, troppo di parte,. Perchè lo faccio? Il fan è
il miglior critico, se mosso da coerenza. Coerenza che i Pearl Jam non hanno abbandonato, e lo
confermano con Backspacer: ciao ciao major (in Europa è solo distribuito dalla Universal, negli
USA hanno raggiunto degli accordi commerciali con etichette indipendenti) e ritorno alle sonorità
classic-rock con l'ausilio dello storico produttore Brendan 'O Brien (da Yield, annus 1998).
Trentasette minuti di musica intensa, rabbiosa e punkeggiante, come in Supersonic (scheggia
impazzita) e Gonna See My Friends (opening-track con riff alla Sex Pistols e sviluppo aggressivo),
struggente (Just Breathe, ballatona post Into The Wild), pop nella forma (il singolo The Fixer),
grunge nell'anima (Amongst The Waves, classico mid-tempo), consolatoria, sognante (Unthought
Known, uno dei più belli), definitiva (The End, che non è un addio, speriamo). L'artwork
dell'album, notevole, è affidato ai disegni surreali e coloratissimi dell'artista americano Tom
Tomorrow, le tematiche di Backspacer (tasto della macchina da scrivere, che Vedder usa ancora per
i suoi testi) si allontanano dalla querelle politica contro Bush e il sistema americano, e zoomano sui
sogni, le paure, le fragilità. Certo è un Vedder ritemprato dal un nuovo amore e un figlio, e si sente.
Le prime recensioni si spaccano a metà: chi li critica, accusa Vedder & co., di non evolversi, di
insistere sugli stessi “trucchi del mestiere”.
Beh!, Pearl Jam hanno alle spalle una carriera ventennale (come dimostra l'edizione speciale di
Ten), fatta di album capolavoro (Ten, Versus, Vitalogy), spiazzanti (No Code), rock'and roll
(Yield), cupi (Riot Act, Pearl Jam), ma in fin dei conti, chi ha chiesto loro di cambiare?
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Tiziano Toniutti
Kataweb musica
09/2009
Non è un mistero che i fan di quella che è indubitabilmente la migliore live band del mondo fossero
rimasti un po' delusi dalle ultime prove in studio. Ma i Pearl Jam sono come un'onda dell'oceano,
che arriva al picco e poi si abbassa fino a riva, per poi risalire a sorpresa e portare chi la cavalca
verso altezze inattese.
Succede proprio così con Backspacer, nono album della band, successore del 'self-titled' con
l'avogado in copertina, che a onore del vero conteneva almeno cinque ottime canzoni.
Ma quello che cercano i fan in un disco della band di Seattle è altro: è l'innocenza di Ten, il
realismo di Versus e i demoni di Vitalogy, e Backspacer da questi tre album mutua un po' del suo
Dna, senza dimenticare la scintilla di Yield. Ma la realtà è che Backspacer è un album che riesce a
restituire alla band la capacità di creare il suono del tempo presente. E se il tempo presente ha
bisogno di rock, quello che non si sentiva da un po', tanto classico quanto necessario, arrivano i
Pearl Jam con il singolo riparatore The Fixer, una meravigliosa mazzata nel ventre molle delle
scalette radiofoniche di oggi. Impossibile non urlare gli Yeah-yeah di Vedder chiusi in macchina,
nel traffico, immobili.
Backspacer è pieno di impulsi adrenalinici, come Got Some, un rocker d'altri tempi in cui il basso e
la scrittura di Jeff Ament si fanno sentire, e Vedder che ulula "Se ti serve, ne ho un po', prendilo
prima che finisca". L'apertura di Going to see my friends è spiazzante, rauca e livida, con un testo
che invece è d'apertura. Con un drumming alla Keith Moon e chitarre alla Townshend, ma Vedder
che urla livore come mai gli Who hanno fatto, Gonna See my friends è una perfetta apertura per i
nuovi concerti.
La bile comunque si stempera più avanti in Supersonic, puro, ironico e divertito rolling rock che
piacerebbe a Bob Mould. Anche nei brani in apparenza minori come Johnny Guitar c'è un
eccellente lavoro ritmico che apparentemente intrappola la furia della band ma in realtà la veicola,
trasformandola in un'opportunità per raccontare una storia. Anche una storia personale come in
Amongst the Waves, che qualcuno potrebbe definire l'ideale seguito di Alive, e che però sembra
rimandare ai momenti più limpidi di Yield come Given to Fly, di cui il brano mantiene il respiro
non risparmiandosi un po' di malinconia.
Le ballate di Backspacer riportano invece alla colonna sonora di Into the Wild, curata da Vedder in
solitaria contemplazione. Ma una linea più profonda le unisce alle tracce più interiori di Riot Act. E
così per una Just Breathe che prende il meglio dalle ispirazioni delle terre selvagge, c'è una
incantevole Speed of sound che dei Coldplay non ha niente e che invece fiorisce sulle spine di
Thumbing My way e All or None. Sull'album il brano compare in una versione più strutturata
rispetto al demo voce+chitarra in giro sul web da un po'.
Alla fine del disco c'è The End, uno dei momenti più alti della scrittura della band, un tesoro in
fondo al lago che mette insieme i Beatles e Victoria Williams a cui Vedder e soci hanno
storicamente reso omaggi sinceri.
E poi ci sono le perle. Quali siano in un album i brani da pelle d'oca è sempre a discrezione di ogni
ascoltatore, ma è facile individuare in Backspacer quei pezzi indiscutibili che riporteranno la band
nel cuore di chi l'aveva persa. E si chiamano Unthought Known e Force of nature.
La prima è una canzone d'amore infinito e universale che richiama Love Boat Captain, ma la
trasforma in una scheggia di bellezza pop che dal vivo farà venire i brividi e alzare i cori. La
seconda una battaglia epica in cui ancora una volta l'amore è protagonista e luce salvifica, con gli
interrogativi che diventano certezze e unico percorso possibile da seguire.
Backspacer è il disco che nessuno si aspettava dai Pearl Jam, visti ormai come rock band di mezza
età che fa album con l'unico scopo di suonarli dal vivo. E invece si rivela un lavoro eccellente,
incardinato sui tormenti dell'anima e della carne e sui sistemi per conviverci e magari renderli parte
viva e necessaria di sé stessi.
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Simone Coacci
http://www.ondarock.it
21/09/2009
I Pearl Jam sono un gruppo vecchio. Anzi, per vecchi. Come direbbe Cormac McCarthy. Vecchi
ragazzi (degli anni 90), s'intende. Ma pur sempre invecchiati. E mica tanto bene. Neppure male.
Così così, diciamo. Anche per questo, oltre che per un fisiologico calo dell'ispirazione dopo quasi
vent'anni di militanza, i loro ultimi lavori palesano uno standard abbastanza immobilistico,
manierato, conservatore. Perché hanno principalmente due motivi d'essere: ospitare i vecchi fan
alloggiandoli in sonorità datate e rassicuranti e immettere nuovo carburante da incendiare nel
motore inesausto delle loro tournée mondiali, dimensione nella quale il gruppo riesce ancora a dare
il meglio di se, giustificando nel tempo la propria costanza e linearità.
"Backspacer", infatti, denota una certa continuità rispetto all'approccio teso, ruvido e diretto del
predecessore (l'omonimo con l'avocado in copertina) ma, smaltita per loro stessa ammissione la
sbornia d'indignazione civile contro l'amministrazione Bush, i toni si fanno meno accesi e vibranti,
le gradazioni più soft, l'umore generale più disteso ed edonista. Rock classico con qualche
escrudescenza punk, qualche anabolizzazione hard, la solita innata predisposizione al pathos e alla
melodia, qualche episodio cantautorale, questo suonano i Pearl Jam ormai da tanto, troppo tempo.
E così suona anche "Backspacer" che ha di apprezzabile i pochi fronzoli del formato (dall'altro lato
del vetro insonorizzato torna Brendan O'Brien), la velocità d'esecuzione, l'entusiasmo forse un po'
ingenuo ma genuino di Vedder & soci, ma che, al di là del grande mestiere e di qualche scampolo
d'innegabile pregio, fa decisamente rimpiangere sia il sopracitato "Pearl Jam" (2006), un album che
non ha messo d'accordo pubblico e critica sebbene, a insindacabile giudizio di chi scrive, resti
l'unico, in questo decennio, a laurearsi con un'abbondante sufficienza, sia il riuscitissimo intermezzo
solista del front-man col pluripremiato "Into The Wild" (2007).
L'opener "Gonna See My Friends" con quel riff stentoreo e familiare, che fa molto Chuck Berry via
Sex Pistols, è una botta street-rock, magari un po' triviale ma piacevolmente adrenalinica. La voglia
c'è anche se il passo non è più quello d'una volta e persino l'inattaccabile voce di Vedder qua e là
annaspa. Poi anche "Got Some", "Johnny Guitar" e "Supersonic" insistono e sviluppano, con
risultati non proprio esaltanti, quest'ebbrezza rock'n'roll un po' da "American graffiti". Sempre
meglio di "The Fixer", comunque, spuntatissimo singolo di punta con non meglio identificate (e
ancor peggio assimilate) fregole sintetiche vagamente new wave (!?).
La scrittura si risolleva quando la palla torna di nuovo tra le mani di Vedder che pennella due
acquerelli acustici (voce, chitarra e archi appena palpabili che germogliano in sottofondo) niente
male - la bucolica "Just Breathe" e la sofferta "The End", che risentono non poco dell'ispirazione di
"Into The Wild" (e inducono maliziosamente a pensare: no, davvero, se le cose stanno così, chi ha
bisogno degli altri quattro?) - e in quelle di McCready con la fluente vena soft-rock di "Force Of
Nature". Per il resto, niente di nuovo sul fronte occidentale: "Amongst The Waves" e "Unthought"
sono strade che gli abbiamo già visto percorrere e che difficilmente li porteranno da qualche altra
parte, mentre "Speed Of Sound", un accorato mid-tempo col piano e l'organo in evidenza e le
chitarre in sordina, punta (quasi) tutto sullo charme dolente e carezzevole del cantato.
E ora che si sono tolti questo peso, tutti in sella agli strumenti per il tour che li vedrà protagonisti a
partire da ottobre. Sperando che, nel 2010, si ricordino anche di noi vecchi ragazzi del paese per
vecchi per eccellenza e facciano un salto a trovarci
[5,5/10].
Junio C. Murgia
http://www.storiadellamusica.it
Un vecchio treno che sbuffa e macina chilometri: i Pearl Jam sono ancora in giro. Come i
moschettieri di Dumas, vent’anni dopo l’epopea di Gossard e Ament nei Mother Love Bone e i
pieni di benzina di Eddie Vedder sulla via del surf a San Diego. Per chi li ama è la conferma della
solidità di un progetto capace di resistere anche alla fine della Golden age di Seattle ( unici coi
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Mudhoney, sedute spiritiche degli Alice in Chains a parte) e di confermare il proprio status di
infallibile macchina da tour. Per chi li detesta, è solo un residuato bellico tenuto in piedi da una
ineffabile aurea mediocritatis in un rock mainstream privo di nuove icone credibili.
L’ennesima fatica dei nipoti di nonna Pearl non cambierà di un millimetro le posizioni dei due
schieramenti. La carriera di un gruppo che da quasi una decade ormai ha smesso di rischiare si
sposta di un’altra tacca, grazie anche all’astuto ripescaggio del mestiere di Brendan O’Brien in
cabina di regia.
“Backspacer” e’ difatti il solito, altanenante disco dei Pearl Jam maturi, fatto di chiaroscuri che
spaziano dai consueti rock and roll all’arma bianca, da qualche impennata folk lisergica dalle
velleità sempre meno sperimentali e dal rinnovato, virile intimismo acustico di Eddie Vedder,
apprezzato anche da parecchi storici detrattori recentemente via Sean Penn.
Proprio il carismatico vocalist apre le ostilità, firmando di suo pugno l’arrembante “Gonna see my
friend”, che reporta ai tempi delle scorribande con Neil Young, subito doppiata dalla vibrante “Got
some”. Peccato che i suddetti siano gli unici pezzi riusciti in tal senso: “The Fixer”, “Johnny
Guitar” e “Supersonic” presentano inquietanti tinte da radio FM più che la freschezza power-pop
cui vorrebbero anelare. E pure i fragori vagamente AOR degli intrecci chitarristici targati GossardMcCready di “Force of nature” risultano onestamente prescindibili.
Nel cuore dell’album alberga “Amongst the waves”: la classica, solenne composizione di Stone
Gossard, che in coppia con “Unthought Known” evoca brandelli mitici del passato tipo “Garden ” o
“Present tense” generando al massimo un gradevole effetto amarcord per i nostalgici della flanella.
Assai meglio il mid tempo di “Speed of Sound”, che approda nelle magioni di Tom Petty trainata da
pennellate d’organo particolarmente insidiose.
Sorte alterna, infine, per i momenti in zona Into the Wild: “Just breathe” appare alquanto piaciona e
involuta, avvitandosi subito in un cliche’. Splendido invece il mantrico crepuscolo di “The End”,
che risplovera un Vedder deluxe, col respiro delle storie epiche d’annata dal sapore vagamente
springsteeniano. E un’interpretazione sublime, librata come il fogliame reso terso dalla brina
irrorata da un soffice arrangiamento d’archi.
[3/5]
Riccardo Renda
http://www.italianotizie.it
10 settembre 2009
Alla vigilia della lavorazione del nuovo album dei Pearl Jam, Eddie Vedder – frontman del gruppo
– dichiarò “basta politica, abbiamo bisogno di un break. Sono stato per decenni schiavo del R&R
(…) poi sono diventato padre e ho dovuto fare un passo indietro”. Parole che hanno generato una
certa apprensione tra i fan, timorosi di un ammorbidimento, di un mutamento di stile sulla scorta del
recente lavoro solista del cantante del gruppo (la colonna sonora del film “Into the wild”).
Del resto, sono trascorsi tre anni dalla pubblicazione dell’ultimo album dei Pearl Jam. Non è un
arco di tempo elevato, ma in tempi come quelli che viviamo, in cui tutto si consuma in fretta,
soprattutto la musica, è un periodo sufficiente ad originare cambiamenti.
Sono però bastate un paio di esibizioni, tra cui quella al talk show americano The Tonight Show con
Conan O’Brien, in cui i Pearl Jam hanno eseguito la nuova “Got Some” (subito schizzata ai vertici
della classifica dei video più cliccati su You Tube), e il singolo “Fixer”, per capire come il
manifesto programmatico della band sia, ancora una volta, all’insegna del grande rock.
Nulla di nuovo sotto il sole? Tutt’altro: i cambiamenti, come preannunciato, non mancano.
In cabina di regia torna Brendan O’Brien, produttore di ben quattro lavori dei Pearl Jam, compresa
la versione rimasterizzata di “Ten”, lavoro d’esordio e pietra miliare del rock degli anni novanta.
Inoltre, per la prima volta nella storia della band di Seattle, l’album verrà auto-pubblicato, data la
conclusione del contratto con Sony.
Ma le novità non finiscono qui. I Pearl Jam sono sempre stati ritrosi ad ogni forma di promozione
che non fosse legata alla musica (ad esempio, hanno spesso snobbato i videoclip). E’ quindi curioso
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il ricorso ad una caccia al tesoro che vede protagoniste 9 immagini, create dal cartoonist Tom
Tomorrow, sparse per il web. Tali frammenti, una volta riuniti, daranno vita alla copertina del
nuovo album e garantiranno l’accesso ad una traccia inedita (“Speed of Sound” in versione demo).
Anche questo è un segno dei tempi che mutano.
“Backspacer” è il nono album in studio della band di Seattle.
36 minuti sparsi lungo l’arco di 11 brani. Possono sembrare pochi al giorno d’oggi, ma sono
sufficienti a tratteggiare gli elementi salienti di un vero album rock: energia, vigore, epicità
(“Fixer”, “Supersonic” e “Amongst the waves” sono adrenalina pura). Non mancano anche
momenti di maggiore intimità (la bellissima “Just Breathe” dominata dalla calda voce di Vedder e
la finale “The end”) o più inclini ad un certo rock radiofonico.
La durata di ogni brano non supera i 4 minuti, denotando quindi grande attenzione verso la forma
canzone piuttosto che verso l’ampliamento delle sezioni strumentali. Difficile dire se sia un pregio o
un difetto. Sicuramente se qualche pezzo avesse potuto beneficiare di uno sviluppo ulteriore, la cosa
non sarebbe dispiaciuta affatto. Ma l’insieme funziona e, complice proprio la durata ridotta, non
lascia spazio alla noia.
Anche i testi risentono di un cambio di rotta. Se negli ultimi due lavori nel centro del mirino vi era
l’impegno sociale, la critica alla politica di Bush e al sistema America, qui si parla di amore, di vita.
Con un’attenzione tutta nuova alla qualità compositiva, a tratti lirica. In poche parole, nessuna
pretesa di cambiare il mondo e niente fronzoli: solo rock. Un ritorno alle origini, ad un modo di
concepire la musica più giovanile, istintivo e fresco, ma non certo ingenuo o immaturo. Che sia
anche questo un sintomo dell’arrivo di Obama alla Casa Bianca?
In sintesi un album tipicamente rock, che non aggiunge nulla di nuovo, ma evidenzia come la band
sia in piena forma, al riparo da crisi esistenziali e cali creativi. E’ il mezzo con cui i Pearl Jam
lanciano un messaggio alle innumerevoli band che li emulano (Creed, Nickelback), dimostrando
come l’originale sia sempre la scelta migliore.
L’album in una battuta: vigoroso
[5.9/10]
Mauro Adil
http://www.agenziaradicale.com
21/09/2009
In questi giorni Alice In Chains e Pearl Jam, due tra i gruppi più importanti della scena grunge di
Seattle, si apprestano a calcare le scene quasi contemporaneamente con i rispettivi nuovi album. Se
nel caso degli Alice si tratta di un ritorno a lungo atteso e assai travagliato, lo stesso non può dirsi
dei Pearl Jam, giunti al nono lavoro con un disco - Backspacer - registrato in poche settimane e
senza aver subito particolari pressioni.
Nel 2006 il gruppo di Eddie Vedder, "eroe riluttante" della cosiddetta Generazione X insieme al
compianto Kurt Cobain, si è liberato da un opprimente contratto discografico, celebrando la
ritrovata indipendenza con un disco (Pearl Jam) e un tour mondiale di grande successo che ha
toccato l'Italia per ben cinque volte.
Purtroppo l'energia che i nostri hanno sprigionata dal vivo soltanto tre anni fa, almeno su disco,
appare oggi soltanto uno sbiadito ricordo: le canzoni di Backspacer arrancano e la ricomparsa del
produttore Brendan O'Brien undici anni dopo Yield è probabilmente una delle cause che hanno
determinato questa débâcle. O'Brien, dopo Bruce Springsteen e AC/DC, ha fatto con i Pearl Jam
quello che da alcuni anni a questa parte gli riesce meglio: appiattire e smussare il suono degli artisti
con i quali lavora, fino a rendere brani come Amongst the waves e Unthought known tanto
orecchiabili quanto insipidi.
Il primo singolo - The fixer - con i suoi quattro "yeah" ripetuti ad ogni ritornello è quasi
imbarazzante nella sua ingenuità che, spiace dirlo, sconfina abbondantemente nella banalità. I
momenti più vivaci - Got some e Supersonic (quest'ultima un tributo ai Ramones, tanto amati da
Vedder) - fanno rimpiangere anche il passato recente dei Pearl Jam: perfino Life wasted, uno dei
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brani di punta del precedente album, al confronto sembra Whole lotta love! Il disco dura meno di
quaranta minuti, ma questo non dovrebbe costituire un alibi. Qualcuno certamente si emozionerà
con le ballate acustiche à la Into the wild che il magnanimo Vedder ha voluto inserire in Backspacer
(The end e Just breathe), ma in realtà, per quanto abili ed esperti, neanche i Pearl Jam possono
nascondersi impunemente dietro esercizi di stile così leziosi e sperare di farla franca. Rimandati.
Andrea D'Addato
http://www.indie-rock.it
Il nono capitolo della discografia dei Pearl Jam vede anzitutto la squadra fregiarsi del ritorno
all’ovile del mai dimenticato Brendan O’Brien, produttore del poker d’assi 'Vs.' (1993), 'Vitalogy'
(1994), 'No Code' (1996) e 'Yield' (1998), che in poco più di cinque anni ha trasformato il gruppo da
grande promessa del 'Seattle sound' a nuovi paladini del rock n’ roll contemporaneo. Al di là della
pubblicazione di un disco tetro, ma straordinariamente intenso come 'Binaural' (2000), l’ultimo
decennio ha visto la band leggermente adagiata su lavori dalla qualità altalenante (Riot Act, 2002, le
cui gemme sono splendide almeno quanto sono trascurabili i riempitivi) e su rivisitazioni di una
formula sicuramente vincente, ma qua e là prevedibile (il comunque più che buono 'Pearl Jam',
2006). Purtroppo (almeno per chi si aspettava il disco della maturità), nonostante alcuni picchi di
intensità assoluta e una cura per gli arrangiamenti propria dei grandi musicisti quali sono, queste
sono più o meno le stesse coordinate su cui si muove 'Backspacer'.
INGREDIENTI: che lo si voglia o no, i Pearl Jam del 2009 sono una live band. Nel bene e nel male.
Questo perché danno il meglio di sé in concerti incendiari ed emozionanti le cui scalette da un po’
di tempo a questa parte sembrano essere il fine primario delle loro pubblicazioni discografiche. Lo
stesso 'Backspacer' appare perciò lontano dalle scarne abrasioni di 'Vitalogy' o dalla sublime
anarchia compositiva di 'No Code' e, seppur spezzato da due affreschi acustici sontuosi come 'Just
Breathe' e 'The End', suona come una raccolta di inni chitarristici concepiti per far tremare le arene.
Come al solito il valore aggiunto è la straordinaria coesione di cinque fuoriclasse 'domati' da un
accorto Brendan O’Brien che ha saputo valorizzare al meglio gli intrecci delle chitarre, qui assolute
protagoniste più nell’efficacia dei suoni che nella ricerca disperata dell’assolo ad effetto, e gli spunti
del vigoroso drumming di Cameron (si vedano il modo in cui risultano quadrati i controtempi della
saltellante 'Johnny Guitar' o la classe con cui trasporta su un tempo shuffle una ballata mainstream
molto elegante come 'Speed Of Sound'). Su tutto e tutti, come sempre, vola la voce di Eddie
Vedder, capace di calcare le orme di Roger Daltrey in un graffiante brano à la Who ('Gonna See My
Friend'), di far vibrare i muri della vostra camera con le consuete arrampicate in cui si toccano vette
di epicità ('Amongst The Waves') e di tagliare in due lo stomaco con interpretazioni struggenti e
mature ('The End').
DENSITÀ DI QUALITÀ: se c’è una cosa che non si può rimproverare a 'Backspacer' è certamente
la compattezza, almeno nella prima metà del disco. Le fucilate che aprono 'Gonna See My Friend'
non rappresentano certo niente di nuovo o memorabile, ma nel suo non voler essere troppo
pretenzioso il brano colpisce come un pugno in faccia e segue alla lettera la lezione degli Stones: “è
solo rock & roll, ma piace”, soprattutto se suonato così. Come era stato per il precedente 'Pearl
Jam' anche qui l’inizio del disco è affidato a brani elettrici e granitici tra cui fa capolino il criticato
singolo 'The Fixer', a dir la verità ottimo nella sua leggerezza a spezzare il ritmo tra una 'Got Some'
costruita su singulti chitarristici quasi new wave e una 'Johnny Guitar' talmente frizzante e ben
suonata da risultare uno dei pezzi migliori del lotto. 'The Fixer' appare però emblematica nel
mostrare due problemi che pervadono quasi tutto il disco: una scrittura interessante e spesso di
ottimo livello che però non riesce a reggere il confronto con il passato e una propensione, talvolta
esasperata, a ricalcare certi espedienti fin troppo abusati nella discografia del gruppo. Il cambio di
'The Fixer' sa un po’ di già sentito, così come 'Supersonic' (il 'classico pezzo punk-rock à la Pearl
Jam' la cui presenza sembra ormai necessaria in ogni album della band) oppure una 'Unthought
Known' il cui inizio ricorda troppo 'Wishlist' e che vive sulle spalle dei grandi inni del quintetto
senza però riuscire a ripeterne l’efficacia. Per fortuna quando il gruppo punta sulla propria maturità
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artistica le cose cambiano, e non poco: 'Just Breathe' è una sognante ballata acustica da periferia
americana che dà corpo allo scheletro di 'Tuolumne', scritta dal solo Vedder per lo splendido 'Into
The Wild', e qui addirittura ornata da dolcissime aperture melodiche su un tappeto di archi, mentre
'The End' è talmente bella da far dimenticare in fretta 'Force Of Nature' (un brano in cui i nostri
sembrano addirittura giocare a fare gli U2 e si perdono su territori smaccatamente mainstream). La
traccia conclusiva di 'Backspacer' merita davvero una menzione d’onore grazie ad un arrangiamento
minimale (chitarra, voce e archi) che sottolinea una linea vocale assolutamente riuscita e
un’interpretazione da antologia di Vedder, in grado cavalcare le note con una disinvoltura e una
capacità interpretativa disarmanti. Termina così un album che, fra luci e ombre, ha comunque il
pregio di scorrere senza eccessivi intoppi per tutti i suoi 37 minuti, fotografando questi Pearl Jam
come una rock 'n' roll band assolutamente solida che preferisce però giocare facile piuttosto che
mischiare le carte.
VELOCITÀ: il disco suona come un viaggio in macchina a tutta velocità in cui di tanto in tanto si
rallenta per lasciare spazio ai pensieri ('Speed Of Sound'), o addirittura ci si ferma per contemplare
il paesaggio ('Just Breathe', 'The End').
IL TESTO: “Buona sera, won’t be long before we all walk off the fire”, da 'Gonna See My Friend',
assalto sonoro cosmopolita in cui sotto il ponte che unisce la Londra degli Who alla Seattle dei
Pearl Jam si scorge persino l’amore dei nostri per l’Italia…
LA DICHIARAZIONE: Eddie Vedder: “La prova più dura cui la paternità mi ha sottoposto è il
cambiamento radicale del mio stile di vita, Sono stato per decenni schiavo del r&r e di tutto quello
che altri schiavi del r&r hanno fatto, scritto, suonato e cantato. Poi sono diventato padre e ho
dovuto fare un passo indietro. Sarebbe irresponsabile uscire ogni sera, bere, fumare e andare ai
concerti fino all’alba. I bambini pretendono attenzione. Non hai più un mese, ma una settimana o
un giorno per scrivere una canzone.”
[7/10]
Francesco Farabegoli
http://www.vitaminic.it
21 settembre 2009
Il diciottesimo compleanno dei Pearl Jam è anche, brutto a dirsi, il diciottesimo compleanno della
mia passione per il rock. Dai quattordici anni in poi le chitarre iniziarono ad interessarmi
seriamente. Ora ho trentadue anni, una fidanzata, un impiego fisso di quelli che non sogni da
bambino, un po’ di dischi. Non sono diventato una rockstar né un medico né un calciatore famoso,
ma credo siano state scelte mie. O avrei dovuto studiare medicina, imparare a suonare uno
strumento, non smettere di giocare a pallone. Qualunque cosa sia stata la mia vita, comunque, le
chitarre hanno continuato ad esserne la colonna sonora. I Pearl Jam sono più o meno lo stesso: nove
dischi senza contare raccolte/singoli/live/bootleg, e le chitarre sono ancora lì e SUONANO.
La cosa non è propriamente agli onori delle cronache, ma il 2009 è l’anno in cui i PJ hanno chiuso
tutti i conti con il loro passato. La prima cosa è la reissue di una versione remixata (e bellissima) di
Ten, su cui avevano menato il torrone per circa dodici anni, la seconda è che Backspacer è il primo
disco dei Pearl Jam ad uscire senza il marchio Epic in calce. Come suona? Esattamente uguale alla
mia vita. Saliscendi, cose noiose, un paio di buoni numeri, due o tre cose che sono felice di aver
scritto e un sacco di chitarre. Probabilmente potreste buttarlo via per metà del programma, la prima
parte non è all’altezza e il singolo fa vomitare. Ma quando arriva una delle loro pennate ti spacca in
due, e sulla tripletta Just Breathe/Amongst The Waves/Unthought Known ci si commuove
pesantissimamente. Citando Ed Vedder, it’s the craziest life we’ve ever lived. Io e loro. Ora puoi
tornartene in giro con i tuoi amichetti hipster a raccontare quanto i Pearl Jam siano bolliti,
anacronistici, noiosi, patetici e fuori fase a confronto di solo dio sa che nefandezza postqualcosa ma nella tua leggerezza stai cazzeggiando con la mia esistenza, mettendola su una bilancia e
considerando l’idea che qualsiasi Fuck Buttons sia meglio. Beh, vaffanculo. Potrò pure non essere
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obiettivo a fare la recensione della mia vita, ma io le camicie a quadri le portavo anche quando non
le trovavi da H&M.
Enrico Maniero
http://www.rockaction.it
04 Ottobre 2009
Senza fronzoli. L’ultimo lavoro di quella grande band che risponde al nome di Pearl Jam, il tanto
atteso “Backspacer”, ci sembra poter concorrere senza problemi per essere nominato come uno dei
migliori album di questo scialbo 2009.
La formazione statunitense si conferma sui grandi livelli espressi nella sua lunga carriera, armando
un disco assolutamente arrembante e devastante (le sonorità viaggiano a metà strada tra un garage
rock sporco e graffiante e uno stile Punk di vecchio stampo). Si parte a grande velocità (le prime
tracce del lotto sono tra le più godibili, sia dal punto di vista ritmico che compositivo).
Inconfondibilmente Pearl Jam, il suono risulta essere il frutto di un lavoro decisamente minimalista
e profondamente incentrato su una spinta più istintiva che ragionata. Se le sovraincisioni risultano
rarissime, ancor meno utilizzate sono gli elementi di natura tecnologicamente sperimentale (il disco
suona esattamente così come è stato suonato in studio, frutto di un lavoro corale ben oliato e
coordinato).
Oltre alle solite doti compositive (evidenziate nelle chitarre del primo singolo The Fixer, in
rotazione nelle radio da luglio) e alle solite emozioni dovute alla voce maschia e incredibilmente
calda di Vedder, il disco si fa apprezzare anche e soprattutto per i suoi testi romantici e
poeticamente eleganti. Un plauso particolare và dunque fatto anche nei confronti del lato romantico
ed acustico della band, evidenziato nella soave e ipnotica ballata Just Breath.
Siamo nelle mani della vecchia generazione; all’orizzonte, purtroppo, non c’è band che sembra
poter assestarsi su questi livelli.
[8/10]
Giampiero Di Carlo / Gianni Sibilla
http://www.rockol.it
17/09/2009
Avevano bisogno di un po’ di leggerezza, i Pearl Jam, e l’hanno trovata. Dopo anni passati ad
affrontare la rabbia di trovarsi in un paese che non riconoscevano più, e a trasferire questi
sentimenti in musica, hanno provato un’altra via. Anche perché nel frattempo gli Stati Uniti sono
cambiati, non c’è più Bush e c’è Obama. E anche se quest’ultimo ha ormai terminato la sua luna di
miele con il paese, la musica che gira intorno da quelle parti sta lentamente cambiando.
“Backspacer” è il segno dei tempi, è la maturità che non perde l’incanto della giovinezza. Maturità
discografica, innanzitutto, perché è il primo disco di studio totalmente indipendente: autoprodotto,
in Europa è curato da Universal, ma in patria è distribuito con un mix di accordi commerciali che è
molto distante dalla scelta totalmente autonoma dei Radiohead. Se funzionerà, questo mix creerà un
precedente importante per altre band dello stesso calibro.
Ma anche maturità musicale: perché la band ha fatto una scelta molto netta, per “Backspacer”:
brevità e sintesi, innanzitutto: 37 minuti scarsi, canzoni che vanno dritte al punto. E poi una varietà
di suoni, una leggerezza musicale che gli ultimi album non hanno avuto. Così compaiono addirittura
gli archi, in “Just breathe” (un gioiello, figlia diretta della colonna sonora di “Into the wild”) e in
“The end”, le uniche due ballate. Non è un caso che i Pearl Jam abbiano richiamato in servizio
Brendan O’Brien, negli ultimi anni è stato impegnato soprattutto a dare una rispolverata al suono di
Springsteen. O' Brien non lavorava con la band dai tempi di “Yield - probabilmente il disco più
bello della loro discografia “recente”, anche se è ormai del 1998. La sua presenza e la sua mano
sono, come spesso accade, sinonimo di un tocco di ‘classic rock’; per alcuni, quindi, comportano un
effetto normalizzatore, per i più critici rappresentano perfino una sordina; nella fattispecie hanno,
probabilmente, la funzione di cucire l’eredità e lo spirito punk del gruppo con i ‘fondamentali’ del
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rock and roll, regalando all’album quella necessaria coerenza che i vent’anni di carriera della band
reclamano.
Molte canzoni, così, sembrano il “solito” rock alla Pearl Jam (ce ne fossero…). Invece prendono
direzioni strane: aperture pop (“The fixer”), accelerazioni irregolari (“Got some”), un tono epico
alla U2 (“Force of nature”). Pur senza tradire le proprie origini, i Pearl Jam, a questo giro hanno
pescato dal power pop, dalla new wave, insomma i suoni delle band che i membri della band hanno
probabilmente ascoltato da ragazzini… La leggerezza è in parte anche lirica, come dimostra quel
“Yeah, yeah, yeah” di “The fixer”, e come sottolinea l’assenza di accenni alla politica, almeno non
diretti. Questa è una svolta all’insegna della semplificazione per i Pearl Jam: i testi sono rivolti
all’amicizia, alle relazioni e al ‘grunge’ di tutti i giorni (“Got some” ne è un esempio, con i suoi
cenni alla dipendenza dalla droga) anziché ai grandi temi politico-sociali, e Vedder e soci scelgono
di consegnarli con ritmo, rabbia e insolenza invece che con la solennità dei più recenti capitoli. Il
risultato è che “Backspacer” – pur nella ovvia continuità – suona notevolmente diverso dagli ultimi
dischi. Che, diciamolo, hanno fatto fatica a superare la prova del tempo. Certo, negli ultimi 10 anni,
da “Binaural” in poi, i Pearl Jam hanno scritto grandi canzoni, alcune che sono rimaste e
rimarranno. Ma se proprio vogliamo trovare un difetto a “Backspacer” è il dubbio su quanto le
canzoni supereranno la prova del tempo. Alcune (oltre a “The fixer” e “Just breathe”, aggiungiamo
“Amongst the waves”, tipico mid-tempo alla PJ) lasciano sicuramente il segno.
Il disco, nel complesso, è compatto, con un buon andamento, con una bella accelerazione iniziale
seguita da variazioni di ritmo, come nella selvaggia “Supersonic”. E’ un disco coraggioso: potrebbe
attirare ascoltatori prima spaventati dall’aggressività un po’ cupa di certe canzoni, ma anche
alienare parte del seguito ‘core’ del gruppo. “Backspacer” non è spensierato, ma lo sono certamente
i Pearl Jam orfani di Bush che, più o meno consciamente, associano la rinnovata speranza per il loro
paese all’epoca in cui la speranza era per loro un sentimento più naturale, ovvero a un tempo pù
barricadiero per la loro musica, all’inizio di un’avventura in cui per Eddie Vedder un concerto
assomigliava più a una surfata che a una ballata. Essenziale, veloce, pare perfetto per un viaggio in
macchina. Un viaggio breve, si intende. In attesa di capire meglio il posto che occuperà nella
discografia della band.
Paolo Bellipanni
http://www.rockline.it
Gli anni passano, ma evidentemente non per tutti.
Anzi, a volte c'è chi più passano gli anni e più si incazza, più diventa giovane, più mostra
un'irrefrenabile voglia di creare, di divertirsi, di vivere. I Pearl Jam fanno parte di questa categoria e
se l'omonimo del 2006 non era bastato a farlo capire, ecco che arriva come un fulmine a ciel sereno
Backspacer, nono studio album per gli ex-grunger di Seattle ed ennesima riprova delle qualità e
della sempreverde forza di una band assolutamente unica nelle gerarchie del rock moderno.
Per Vedder e compagni, infatti, il glorioso passato da alfieri del grunge sembra ancora rivivere in
reminiscenze cariche non soltanto di nostalgia ma di una perpetua giovinezza espressiva, indelebile
tanto dal tempo quanto dalle - seppur lievi - maturazioni e variazioni stilistiche. Solitamente chi si
fa "vecchio" con gli anni comincia ad ammorbidire la propria musica, a renderla sempre più intima,
pacata e riflessiva come se si volesse fare un sunto (con tutta la sua carovana di malinconici ricordi)
di una carriera gloriosa ormai alle spalle: i Pearl Jam di questo se ne fottono completamente e tirano
un fuori un disco energico, semplice e stranamente ottimista.
Ed è in questo discorso che le parole di Vedder divengono più emblematiche che mai: "Con gli anni
ho sempre cercato di essere ottimista nelle lyrics e penso che adesso tutto questo sia diventato più
semplice". Il riferimento (come noto) è a Barack Obama, neoeletto presidente degli Stati Uniti e
simbolo della tanto auspicata trasformazione politica americana, di quel salto in avanti che pare
aver estremamente giovato alle idee dei Pearl Jam tanto da spingere Vedder e compagni ad
abbandonare definitivamente l'inquietudine e la rabbia che al contrario facevano - spesso e
volentieri - da fili conduttori nei capolavori d'un tempo.
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Sulla scia del precedente full-lenght, Backspacer parte subito in quarta, mostrandoci i Pearl Jam in
una veste estremamente energica per sound e impatto: duro e dinamico ma al contempo spensierato,
il songwriting dell'opener Gonna See My Friend trascina con disarmante semplicità senza cadere
nel banale e nel riciclo melodico, presentandoci piuttosto un riffing massiccio che quasi sfiora l'hard
rock per l'incredibile energia vitale che è in grado di sprigionare. La splendida Got Some, Johnny
Guitar e The Fixer (primo singolo estratto dell'album) alleggeriscono i toni strumentali ma il
risultato rimane invariato: tutt'e tre le canzoni - Got Some per il suo refrain più ombroso, Johnny
Guitar per il mood accattivante, The Fixer per quello più solare - riescono a dare un'immagine
sempre divertente e trascinante del nuovo corso artistico intrapreso dai Pearl Jam. Tutto in
Backspacer sembra perdere le macchie esistenziali, sembra smarrire dolori e angosce
trasformandosi in una piacevole danza rock, che più rock non si può: anche Just Breathe, canzone
più malinconica e toccante del disco (assieme alla conclusiva lovesong The End), risente di questo
stato di cose, imponendo al di sopra della soave cornice strumentale acustica (direttamente uscita
dal Vedder riflessivo di Into The Wild) delle lyrics piene di speranza e amore, oltre che risolvendo i
propri momenti emotivamente più tesi in toccanti aperture atmosferiche.
Da qui in poi, Backspacer comincia a perdere qualche colpo, smarrendo tutt'un tratto (eccezion fatta
per l'esplosiva Supersonic) l'energia che caratterizzava le canzoni in apertura: tanto Speed Of Sound
quanto le più banali Amongst The Waves e Force Of Nature non hanno infatti nulla a che vedere col
groove e l'atmosfera più accattivante delle tracce iniziali, perdendo molto sia nella costruzione
armonica sia in un'ispirazione melodica che lentamente regredisce fino a far dimenticare del tutto i
suoi momenti più piacevoli.
Disco sicuramente meno maturo e impegnato dei precedenti, spensierato e giovanile ma di
conseguenza privo di quella dimensione più sofferta che, non a caso, ha reso grandi i Pearl Jam,
Backspacer è un lavoro che probabilmente farà storcere la bocca ai fan più critici e attenti, ma che
esalterà senz'ombra di dubbio gli ascoltatori più accaniti e "datati". E' d'altra parte ovvio che se
messo a confronto con i grandi capolavori Ten, Vs, Binaural, e Vitalogy, Backspacer risulti un disco
scarno e tralasciabile, più semplice ma privo di qualsiasi fascino, ed è qui che sta l'errore. Gli anni
'90 tutti grunge, inquietudine, jeans rotti e camicie sporche sono ormai uno sbiadito ricordo: i Pearl
Jam, nonostante l'inesorabile avanzare del tempo e il simbolico "cambio di abbigliamento", di
capelli bianchi e stanchezza non ne vogliono sentire parlare, perchè in fondo anche loro sono ancora
incazzati. Col sorriso sulle labbra, ma pur sempre incazzati.
[6,5/10]
Mario Ruggeri
http://www.wuz.it
21 ottobre 2009
Backspacer è un album divino, sotto ogni aspetto. Indaga, affonda le mani nella terra viva degli
Stati Uniti, affronta con una fisicità impressionante il rock, lo media con quella voce lirica, da
soulman bianco di Eddie Vedder.
Le strade si sono divise, curiosamente, proprio all’epoca dell’esplosione del grunge. Coloro i quali,
senza indugi e senza discussioni, avevano inventato il suono grunge, il vero suono grunge, negli
anni ’90, lo abbandonarono quasi immediatamente (precisamente, nell’arco di tre dischi) per
intraprendere una strada che forse, paradossalmente, era la vera essenza del grunge stesso: ovvero
un lungo percorso che riconduceva, quasi irrimediabilmente, alle radici rock americane.
Il termine tecnico è roots rock, ma preferiamo definirlo rock americano, perché in una definizione
più ampia ci sono tantissime sfaccettature, e i Pearl Jam si meritano quantomeno l’amore e
l’attenzione per il dettaglio.
Insomma, è successo che i Pearl Jam che, più dei Nirvana e dei Soundgarden, hanno codificato con
l’album Ten l’assetto grunge rock, se ne sono poi andati per la loro strada distanziandosi
enormemente dallo stesso grunge.
Quindi, chi sono i Pearl Jam di Backspacer? Semplicemente la forma più compiuta di rock
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americano oggi. E allora, la domanda è: cosa intendiamo per rock americano? In ambito “rock”
quella forma estetico-fisica che deriva dalle radici cantautorali, mainstream, tipicamente yankee
(ovvero, dal Boss a Mellencamp, passando per Bob Seger) ma temperate con un chitarrismo
decisamente anni ’90 (altro paradosso: il rock americano si completava nelle band alternative che
negli anni ’90 facevano da contraltare al grunge: dai Cracker ai Soul Asylum, dai Better Than Ezra
ai Counting Crows più spinti).
E in questo, i Pearl Jam firmano uno dei dischi migliori della loro carriera. Dopo circa una ventina
di album. Nientemeno.
Insomma, Backspacer è un album divino, sotto ogni aspetto. Indaga, affonda le mani nella terra
viva degli Stati Uniti, affronta con una fisicità impressionante il rock, lo media con quella voce
lirica, gutturale, da soulman bianco, di Eddie Vedder (per intenderci, uno idolatrato anche dagli U2,
e personale culto di Bono Vox), quella voce che è stata la guida della colonna sonora di Into The
Wild. E non è un caso.
A questo proposito, Backspacer non è così distante da Into The Wild. Quantomeno per concezione.
Ed il paragone ci può ben spiegare la vera natura dei Pearl Jam oggi. Navigatori solitari della
Wilderness di Thoureau, in un mondo ipercinetico e assolutamente asettico.
Gonna See My Friend, Just Breath e Amongst The Waves sono, sempre nella matrice rock, episodici
lirici e romantici, nel senso di seguaci del romanticismo: epici in sottofondo, elettrici in superficie.
Backspacer è un disco tradizionale, ovvero inserito nella tradizione, abbracciato nella tradizione,
assolutamente dedicato alla tradizione. Una tradizione che oggi sembra lontana, passata, quasi
obsoleta, se non vetusta, ma che in realtà è la chiara espressione di un movimento anzi, di una
corrente culturale, che è di fatto la vera ed unica corrente storica che il rock, in America, abbia
ancora.
Un disco bellissimo, non c’è che dire.
Filippo Nembrini
http://www.w2m.it
C'erano una volta le macchine da scrivere e - su quelle in lingua anglosassone - un tasto chiamato
backspacer: schiacciato quello il carrello scattava indietro, all'inizio dell'ultima riga compitata,
permettendo la ribattitura di eventuali errori commessi, previa la classica pennellata di bianchetto.
C'era una volta il grunge, quella musica dura che raccontava il malessere di una generazione, la
solitudine degli adolescenti cresciuti negli anni ottanta, la disperazione di aver spesso, come unica
compagnia e soluzione, quella artificiale della droga... una musica che era sinonimo di
Soundgarden, di Nirvana, di Pearl Jam. Le macchine da scrivere sono ormai pezzi da museo,
Nirvana e Soundgarden un (bel) ricordo... Backspacer è invece il titolo del nono album in studio
registrato dai Pearl Jam in diciannove anni di carriera sulla cresta dell'onda: non un punto a capo,
dunque, ma una sorta di bilancio, di quadratura del cerchio di quanto fatto fino ad oggi. Scomparso
definitivamente - si spera - il loro nemico pubblico numero uno (Bush Jr.), i PJ sembrano volersi
dedicare una parentesi di svago, apparentemente lontana dalle tipiche atmosfere introspettive e dalle
denunce socio-politiche gridate al mondo intero: quasi un omaggio al clima d'ottimismo ed
entusiasmo che l'elezione di Obama sembra aver - almeno inizialmente - regalato alla nazione ed al
mondo intero. E' come se i 5 di Seattle gettassero la maschera pubblica ed impegnata, per invitarci a
vivere una mezz'ora abbondante in casa loro, tra amici. Ed il "buona sera" tutto italiano, che fa da
prologo al ritornello dell'opening track Gonna see my friends, sembra proprio sottolineare questo
clima di convivialità e svago che pervade tutta l'atmosfera del disco. Ma spesso dove c'è festa - si sa
- c'è droga, quindi un piccolo capitolo dedicato alla fuga dalla realtà, tipica della frenesia euforica
dei giorni nostri, appare anche qui: è Got some, il pezzo più fedele alle atmosfere classiche del
gruppo. Subito dopo ecco apparire la canzone simbolo di Backspacer, nonchè primo singolo estratto
dall'album: The fixer, un pezzo pop-rock incalzante ed ammiccante, con tanto di clapping e yeah
yeah yeah a cadenzare i ritornelli, un brano ottimista, spensierato, tanto fatalista da chiudersi con la
frase "I'll dig your grave/we'll dance & sing/what say, could be our last lifetime!". I grandi amori di
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Vedder - la natura, la muscia dei Ramones ed il surf - dominano i testi e le atmosfere di questo
disco: lo testimoniano brani come Just breathe, figlia della parentesi Into the wild del frontman del
gruppo, o la metafora oceanica della vita di Amongst the waves. Lo fanno anche le sonorità punkrock vecchia maniera di Supersonic o la celebrazione della donna come forza della natura di Force
of nature. Un album breve - 37 minuti per 11 brani - che rappresenta un piccolo strappo nella
produzione dei PJ, che avvicinerà al gruppo gli ascoltatori più refrattari alle loro tipiche atmosfere
dure e cupe, allontanando forse parte dei fan più estremi e puristi. Qualcuno potrebbe dire che
Backspacer è per i Pearl Jam quel Load fu per Metallica, una sorta di furbesco strizzare l'occhio al
grande pubblico... era una sciocchezza nel 1996, lo sarebbe anche oggi: i gruppi musicali sono fatti
di persone, che crescono ed evolvono. Solo chi non cambia di una virgola il proprio sound per
trent'anni (mi vengono in mente gli Scorpions) strizza l'occhio al mercato. I PJ sono vivi e vegeti e
nascoste in questo disco ci sono canzoni che continueremo a cantare per anni, prime fra tutte
Unthought known, Force of nature e Just breathe. Do the evolution!!!
Valentina Zardini
http://www.soundmagazine.it
21 Ottobre 2009
I Pearl Jam non hanno i piedi ben piantati a terra, li hanno sepolti sotto chili di cemento armato.
Dopo otto album di indubbio successo, dei tour indimenticabili, che hanno riunito migliaia di
persone in tutto il mondo sotto il sole e la pioggia, e una visibilità mediatica non da poco, sono
rimasti i ragazzi di sempre. Ora sono uomini, certo, però lo spirito non avvizzisce e il magico fluido
che da sempre scorre nelle loro vene c’è ancora e corre a velocità sostenuta.
Umilmente Eddie Vedder ha spiegato che ha potuto dedicare alla stesura dei brani di quest’album
giorni e non mesi, poichè la paternità gli richiede giustamente molto del suo tempo e lui deve saper
gestire entrambe le cose, come un normale padre di famiglia.
Credo che l’umiltà li abbia contraddisti dai loro inizi ad adesso. Avrebbero potuto strafare, storpiare
il loro essere e svendersi, come anche adagiarsi stancamente sui vecchi allori.
Non hanno fatto nè una, nè l’altra cosa. Se è vero che gli ultimi loro lavori sono passati in sordina,
facendoli passare come astuti “conservatori”, con “Backspacer” tornano con energia da vendere. Il
loro sound è un infallibile marchio di fabbrica, ma non si cade mai nella ripetitività. E’ invece un
piccolo fulmine a ciel sereno quest’album, sia per la luce che riesce a produrre, che per la sua
brevità. Effettivamente le canzoni sono abbastanza brevi ma scivolano molto bene, arrivando dritte
al punto senza il bisogno di infarcirle di dettagli superflui. Si respira un senso di leggerezza, da non
confondere con atona spensieratezza. L’umore è visibilmente più disteso, cosa che si nota a prima
vista dai testi. Le parole di Vedder, probabilmente aiutate dalla gioia ed il sollievo post Obama,
fanno intravedere spiragli di luce insperati, come suggerisce tra tutte “The fixer”. La rabbia e la
critica sociale sono state momentaneamente messe nel cassetto, per far emergere una dimensione
più personale, più schietta.
Pearl Jam più buoni? Non credo. L’energia e l’insita incazzatura ci sono ed elettrizzano attraverso i
riff rock accattivanti, alla voce che non perde un colpo, a quella qualità e verve espressiva che solo
loro possono dare. Certo, su undici pezzi qualche brano meno vincente c’è, vedi “Amongst the
waves” e “Unthought Known”, che rimangono più nell’ombra, ma senza certamente svilire l’album.
Sono di parte? Può benissimo essere, ma non riesco a stufarmi di loro e lascio che quell’alchimia
che sanno creare da anni mi abbracci ancora una volta.
Francesco Ruggeri
http://www2.troublezine.it
1 ottobre 2009
E’ con estrema riluttanza e rispetto che ho deciso di recensire il nuovo album dei Pearl Jam. Il
rispetto è ovviamente meritato, essendo i Pearl Jam una delle band più importanti e musicalmente
significative degli ultimi venti anni; la riluttanza invece proviene dal fatto che non sono il loro più
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grande fan, e che ho apprezzato a sprazzi i loro lavori precedenti. Quindi parto dalle premesse:
l’ultimo album, omonimo, aveva risollevato la band da un periodo apatico, che comprende
sicuramente uno dei loro dischi meno riusciti, "Riot Act". Era quindi legittimo aspettarsi che Eddie
Vedder e soci continuassero sulla stessa (buona) strada, ed in parte è stato così.
"Backspacer" inizia in una maniera davvero sorprendente, con Gonna See My Friend, un esplosione
di energia che vede Eddie Vedder vocalmente in grande spolvero. Il disco procede con Got Some,
pezzo che parla della dipendenza dalla droga, ed il singolo The Fixer. Entrambi seguono il filo
conduttore della prima traccia, ovvero la velocità. Il disco dura infatti solo 37 minuti, il che lo rende
il più corto della loro lunga carriera. Ma questa scelta sembra essere azzeccata, in quanto l’intero
album ha un ritmo davvero incalzante e davvero coinvolgente. Il primo sussulto però lo si ha alla
traccia numero cinque: Just Breathe sembra uscita dalla (meravigliosa) colonna sonora di "Into The
Wild", che per chi non lo sapesse è stata composta interamente da Eddie Vedder. Non è
assolutamente un pezzo riempitivo e non abbassa il ritmo serrato del disco, anzi, gli da respiro e una
compattezza che da parecchio non si sentiva nei lavori in studio della band di Seattle.
Continuando l’ascolto dell’album si ha una bellissima sensazione di rilassatezza e di serenità; infatti
Amongst The Waves ha tutti i canoni di una spensierata surf-song e la successiva Unthought Known
sconfina negli ampissimi meandri del pop-rock. Supersonic riporta il ritmo e l’adrenalina a livelli
altissimi, per poi rallentare di nuovo con la ballata Speed Of Sound che, a parte gli episodi acustici,
è la canzone più lenta dell’album. Nell’ultima traccia, The End, Eddie Vedder imbraccia di nuovo la
sua chitarra acustica e accompagna l’ascoltatore verso la fine di questo disco che, a suo modo, è uno
dei migliori che i Pearl Jam abbiano mai fatto, senza forzare paragoni con dischi profondamente
diversi, sia musicalmente che come contesto nel quale sono stati scritti, come "Ten" e "Yield".
Dopo anni spesi ad impegnarsi politicamente, lottare per la propria identità, e combattere critiche
che comunque non hanno mai intaccato l’integrità della band, i Pearl Jam hanno finalmente
confezionato un disco diretto, veloce ed immediato, dando l’impressione che si siano divertiti a
scriverlo e a suonarlo almeno quanto io ad ascoltarlo.
Riccardo Osti
http://www.kronic.it
20/09/2009
Spogliarsi dell'etichetta di grunge band e mostrarsi come gruppo puramente rock è stato un
imperativo dei Pearl Jam fin dai primi lavori. Questo percorso ha portato alla costituzione di album
dove il sound della band di Seattle si è allontanato progressivamente da elementi (pochi, in verità)
che potessero farla rientrare nella cerchia appartenente a Soundgarden e Nirvana, avvicinandosi,
così, a modelli che il rock "tout-court" l'hanno creato (The Doors e i primi Who su tutti). Anche
Backspacer non sfugge all'evoluzione intrapresa da Eddie Vedder e soci i quali hanno richiamato
alla console Brendan O'Brien e purificato ulteriormente il proprio stile, mantenendone, peraltro, la
personalità maturata in anni di onesta e brillante carriera.
E allora ben vengano brani di impatto come Gonna See My Friend, Get Some, The Fixer (il singolo
apripista) e Supersonic, dove il significato primitivo di "rock" acquisisce una connotazione quasi
scolastica, in forza di una solida costruzione del songwriting e di una produzione che ne esalta la
componente più geniunamente selvatica. Ma Backspacer è pur sempre un album dei Pearl Jam e,
pertanto, fatto anche di parentesi più intime e, oserei dire, drammatiche (nel senso più letterale del
termine), le quali si manifestano sia nelle pieghe country di Just Breathe che nella poetica e
crepuscolare The End. In mezzo s'inseriscono momenti di ordinaria amministrazione rappresentati
da Speed Of Sound e Force Of Nature, che riportano ai tempi di Yield, mentre Amongst The Waves
ha il compito di ricordarci che Ten non è stato relegato al ruolo di "esordio-col-botto" e basta (ci
mancherebbe altro...!)
Nessuna rivoluzione, nessun cambio di rotta. I Pearl Jam proseguono dritti per la loro strada, forti
dello status rilevante che si sino guadagnati in quasi vent'anni di carriera e della consapevolezza di
essere considerati per quello che realmente sono: un gruppo rock. [3,5/5]
19
http://www.soundsblog.it
19/09/2009
Dopo il debutto (e capolavoro) “Ten”, i Pearl Jam hanno iniziato una lunga e lenta evoluzione verso
quello che sono oggi: una un rock senza fronzoli che strizza l’occhio alla tradizione americana.
“Backspacer” non è sicuramente uno di quei dischi destinati a rimanere nella storia, ma
sinceramente, chi è che si aspettava un masterpiece dopo quasi vent’anni di grande carriera?
“Backspacer” è esattamente quello che doveva essere: un album di onesto rock, un album che
scivola via senza problemi (anche se qualche passaggio “skippabile” c’è, vedi “Johnny Guitar”) e
che regala poco più di mezzora di buona musica. Chi si è (giustamente) allarmato dopo aver
ascoltato “The Fixer”, non rimarrà deluso dal resto dell’album che si divide fra brani più tirati
(l’opener “Gonna See My Friend”), classici pezzi alla Pearl Jam e due ballads acustiche che
mettono in evidenza la grande voce di Eddie Vedder: “Just Breathe” (molto bella) che sembra uscita
da Into The Wild e “The End”, che se mai dovesse essere “la fine” (si spera di no, ovviamente)
della band di Seattle, chiuderebbe la carriera nel migliore dei modi.
[6,64/10]
http://www.osservatoriesterni.it
La prima cosa che si pensa dopo aver ascoltato “Backspacer“, il nono disco in studio dei Pearl Jam,
è riascoltarlo. Sì perché è un disco semplice, veloce (solo 37 minuti), immediato. E sembra quasi di
non averlo capito. Ed è una sensazione che ritorna.
Non sono mai stato un grande fan dei dischi in studio di Vedder e soci, perché dopo i primi due
(”Ten” e “Vs“), capolavori assoluti, li ho trovati sempre un po’ piatti. “Alla fine è solo una scusa
per tornare a suonare in giro”. Ed è lì che vengono fuori come una delle più grandi live band del
mondo.
Dopo quasi vent’anni di carriera i PJ hanno deciso di tornare giovani, ma soprattutto spensierati. Per
la prima volta dai tempi di “Vitalogy” (1994) Eddie Vedder è tornato ad essere l’unico compositore
dei testi delle canzoni e ha volutamente abbandonato i toni impegnati e, talvolta, cupi dei dischi
precedenti (soprattutto “Riot Act“, il loro disco più brutto e meno riuscito). Ispirato forse dalla
stagione di svolta e freschezza che gli Stati Uniti vivono da dopo l’elezione di Barack Obama,
Vedder abbandona la politica, l’impegno e la continua voglia di essere contro e ribelli per buttarsi in
romantiche cavalcate in mare (Amongst the waves: “Andiamo a nuotare, stanotte, amor mio/ tu ed
io/ e nient’altro/ tra le onde”) dove sfoga tutta la sua passione per il surf, o racconti di uomini che
sognano di donne viste su copertine di vecchi vinili (”Johnny Guitar“).
Dal punto di vista musicale “Backspacer” è potente e dolce allo stesso tempo. Che poi è sempre
stata una della caratteristiche principali del gruppo di Seattle, che anche in disco di puro grunge
come “Ten” trovava posto per “Black“, una delle più belle e strazianti canzoni d’amore che siano
mai state scritte.
Qui il disco di apre con le chitarre in primo piano per un trittico terribile (”Gonna See My Friend“,
“Got Some” e “The Fixer“, il primo singolo) per poi passare alla dolcezza di “Just Breath“, una
ballata sviluppata dal gruppo a partire da una base strumentale composta da Vedder per la splendida
colonna sonora di “Into The Wild” lo scorso anno. Si sente molto in questo disco il lascito di
quell’esperienza, di quel clima, di quella luce che risplendeva nel film di Sean Penn.
Gli artisti che hanno influenzato in passato sono noti, ma in “Backspacer” sono ancora più marcate:
Neil Young e Springsteen su tutti.
L’album si chiude con “The End“, commovente e sussurrato grido di aiuto per un amore finito.
In ogni caso un buon disco. La cosa che lascia perplessi sui PJ è come possano essere così
profondamente diversi tra disco e live, ma questa è una domanda che ci porteremo dentro ancora
per un po’, almeno fino al prossimo concerto in Italia.
[6,5/10]
20
http://mantaray-music.blogspot.com
21/09/2009
19 anni di attività, 8 album in studio, un the best, una raccolta di B-sides e una vagonata di live e
bootleg: Backspacer, nono album dei Pearl Jam, si aggiunge a questa notevole produzione e con
essa si deve confrontare.
Parlare di quest'album è difficile forse soprattutto per chi, come me, è un fan dei Pearl Jam.
Siccome non so bene da che parte iniziare cerco di cavarmela facendo qualche domanda a Manta
Ray.
Backspacer è un bell'album?
Beh, non è certo brutto. Il che è diverso da dire che è bello.
Chiarissimo! Quindi è un album mediocre?
No, mediocre mi pare eccessivo, stiamo parlando di un grande gruppo, ancora capace di comporre
degli ottimi pezzi.
Vabeh, proviamo a cambiare domanda: che differenze noti rispetto agli album precedenti?
Beh...ad esempio, è cambiato il titolo.
Musicalmente che tipo di evoluzione stanno avendo i Pearl Jam?
Anche la grafica della copertina è cambiata.
Che influenze senti in Backspacer?
Un paio di ballate sembrano uscite da "Into the Wild", il (soporifero) disco solista di Eddie Vedder
nonchè colonna sonora dell'omonimo film. Diciamo che si è auto-influenzato.
E come canta il buon Eddie?
Vedder è sempre un grande, la voce c'è anche se un po' più roca. Nell'interpretare le ballate mostra
la consueta grande classe e nei brani tirati strepita (quasi) come ai vecchi tempi.
Ma quindi il sacro fuoco del rock arde ancora?
La brace non è spenta ma certo non può essere la fiamma di quasi vent'anni fa, la legna si consuma.
Ma non hai detto niente sulle canzoni: come sono?
Le canzoni di Backspacer hanno il difetto di essere prevedibili, come se i Pearl Jam si stessero autocitando. Il livello delle composizioni però è buono, le idee ci sono ancora e il gusto non li tradisce
certo. Basta non aspettarsi il colpo di genio o la melodia fulminante.
Stiamo andando un po' per le lunghe: consigliaci due brani da ascoltare così poi ti salutiamo
Non ho dubbi, Gonna See My Friend è il brano migliore, ha un gran tiro e anche una punta di
originalità rispetto al consueto repertorio. Got Some è molto più legata al sound classico dei Pearl
Jam ma è un ottimo pezzo. Curiosamente sono anche i primi 2 brani dell'album...
Simone Dotto
http://www.kalporz.com
5/10/2009
Ora, tutto sta in quel che è lecito attendersi da una band che la sua maggiore età l’ha bella che
compiuta e che le cartucce migliori le ha sparate agli esordi o giù di lì. Se la risposta è ‘dischi onesti
e nulla più’, l’album omonimo del 2007 – altrimenti noto come “il disco dell’avocado” - batteva la
strada giusta: i Pearl Jam si lasciavano alle spalle la psichedelìa appassita dei capitoli precedenti e
tornavano a fare ciò che da sempre sanno fare meglio, vale a dire rock dalle moderate tinture hard e
dalla forte vocazione melodico-autoriale. Nessuna pretesa, tante buone scritture e benissimo così.
La prima avvisaglia che le cose avrebbero presto assunto un’altra piega stava forse già
nell’annuncio del nome di Brendan O’ Brien quale produttore “associato”, già al lavoro su “Yield”
e da poco tornato al fianco del gruppo per rimettere le mani ai nastri di “Ten”, in occasione del suo
primo decennale. Nel genere “musica da grandi platee” O’ Brien parrebbe addirittura il responsabile
della deriva dell’ultimo Springsteen verso il pop-rock mellifluo e ruffianone di “Working on a
Dream”, da cui le comprensibili preoccupazioni sul nuovo nato. In realtà “Backspacer” non risente
più di tanto delle sue cure, se non in un’eccessiva levigatezza dei suoni. Il danno piuttosto lo fanno
le canzoni e i loro legittimi proprietari, cedendo a ciò che avevano elegantemente evitato solo un
21
paio d’anni fa: la nostalgia canaglia e la logica del “back to the roots” che si annida in tutto l’Lp, fin
dal titolo scelto. Ma nel riguardare da vicino alla propria adolescenza, la band di Seattle la rifà
idealizzata, patinata, affatto diversa, perlomeno da come la ricordavamo noi: “Backspacer” strafà,
mostra i muscoli e mette il testosterone al di sopra delle canzoni, quelle che ai Pj della prima ora
non sono mancate mai. La dicono lunga i titoli in scaletta, roba da ricettacolo delle rock-banalità
(“Speed of Sound”? “Supersonic”?? “Johnny Guitar”???). E se quella della tematica adolescenziale
non è certo una novità nel canzoniere di Vedder, lo è invece parlarne in termini effettivamente
adolescenziali: considerato il complesso di musica e parole, tra l’ascolto di un “Jeremy” e quello di
un “Johnny Guitar” corre la stessa differenza che può passare fra le pagine del “Giovane Holden” e
un bestseller pruriginoso per sedicenni.
Nella mancanza generale di un songwriting incisivo, si fanno perdonare giusto il crescendo di
“Unthought Unknown” e la conclusiva “The End”, guardacaso due grandi performances messe sul
conto del vocalist. Non è mai carino da parte di un rockfan auspicare la messa in proprio del leader
di una band, ma in questo caso - vista anche la qualità della prima prova solista di Eddie Vedder per
la colonna sonora di “Into the Wild” - vien naturale domandarsi se non sia il caso di mandarlo in
licenza un pochettino, il nostro cantante: tanto per riavere indietro il piacere di canzoni della
vecchia caratura. Quel di cui il rock d’autore americano sente il bisogno, ora come ora, sono nuovi
Grandi Vecchi e non altri vecchi che si fingano nuovi…
http://indiependenza.wordpress.com
14 Ottobre 2009
Trentasei minuti esplosivi, graffianti e potenti eppure sempre . Trentasei minuti che testimoniano
quanto il rock n’ roll sia una vocazione più che un passatempo. Con schitarrate ruvide come il
granito e quella elegante attenzione alla melodia di chi considera la musica come la propria lingua
madre, i Pearl Jam sono tornati sulle scene dando in pasto al proprio pubblico Backspacer, nono
album della band che segue la pubblicazione dell’ottimo self-titled avvenuta poco più di 3 anni fa.
Nel corso di questo periodo il mondo, in generale, e gli Stati Uniti, in particolare, sono parecchio
cambiati e, come è ovvio per un gruppo che ha sempre posto particolare attenzione alla società e
alle sue problematiche, il nuovo disco ne ha risentito. I Pearl Jam del 2009, ormai over 40, cantano
l’America di Barack Obama e credono fermamente nel progresso promesso dal vincitore del premio
Nobel per la pace.
Backspacer, lo dicevamo, suona duro e diretto come e più di Vs. o Vitalogy ma gli 11 pezzi che lo
compongono sono intrisi di una speranza nei confronti del futuro che Eddie Vedder e soci
raramente hanno avuto. Gonna See My Friend, Got Some e The Fixer, il primo singolo,
aggrediscono immediatamente l’ascoltatore con tempi stretti e veloci e distorsioni fulminanti ma
nelle note che le compongono – come nella calda voce di Vedder che firma un’altra ottima prova –
c’è gioia e positività. E quando si arriva alla raffinata ma comunque diretta ballata Just Breathe,
sorella di quelle presenti nella colonna sonora di Into The Wild incisa da Eddie per l’amico Sean
Penn nel 2007, diventa chiaro come il sole che ci sono poche band ad avere la classe dei Pearl Jam.
Il resto dell’album, chiuso da un altro splendido lento intitolato The End, non delude le aspettative
grazie alle ottime Amongst The Waves, Speed Of Sound e Supersonic e mantiene costantemente alto
il livello della proposta curata interamente da Brendan O’ Brien che è tornato sulla sedia del
produttore dopo averla occupata per Vs., Vitalogy, No Code e Yield.
[4/5]
Manuel Lieta
http://www.beatbopalula.it
24/09/2009
Mi sono accostato al nuovo lavoro dei Pearl Jam con una buona dose di scetticismo, lo ammetto:
l’ultimo disco, Pearl Jam (2006), mi era parso decisamente il punto più basso della loro intera
produzione. Se poi l’excursus solista di Eddie Vedder per la colonna sonora di Into The Wild (2007)
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non aveva fatto altro che confermarmi che il frontman del gruppo potrebbe benissimo ormai correre
da solo, ci aveva pensato il primo singolo estratto da Backspacer, la alquanto insipida The Fixer, ad
accrescere i timori di trovarsi di fronte a una band in carenza di idee, certo sempre onesta nel
proprio fare musica e conscia forse del fatto di non essere formata da veri geni, ma lontana da quei
Vitalogy (1994) e No Code (1996), tuttora veri zenit creativi per il quintetto americano. Un po’
come se i dischi fossero solo, non dico pretesti, ma quasi, per andare per il mondo a fare concerti,
momento in cui, ancora oggi, la band di Seattle dà non poca paga anche a colleghi assai più giovani.
C’è poi da dire che la scaletta dà adito alle mie perplessità, perché il poker iniziale di Backspacer (il
rock à la Chuck Berry di Gonna See Some Friends, il sussulto innodico di Got Some, la già citata
The Fixer e, in lieve crescendo, Johnny Guitar) è invero assai poco urticante, anzi scorre via
anonimo nonostante un certo piglio da tardi Ramones nell’immediatezza sonora. Le cose
migliorano sensibilmente, come oramai da molto tempo accade nei dischi dei Pearl Jam, quando i
ritmi rallentano e c’è spazio, da un lato per le ballate di Vedder, come Just Breathe, che pare
arrivare dritta dritta dal quaderno di appunti di Into The Wild, e la conclusiva, orchestrale e
struggente The End, e dall’altro per un McCready ispirato in Force Of Nature.
Nella seconda metà del disco ci sono anche due episodi tipicamente Pearl Jam, ovvero Amongst The
Waves e Unthought Known, sempre gradevoli da sentire, ma lontani anni luce anche solo da una In
My Tree. Supersonic, poi, sembra ritornare all’anonimia dei primi quattro brani, mentre il tutto si
risolleva con la accorata Speed Of Sound, ben condotta da intarsi di tastiera.
Insomma, veloce quanto l’ultimo disco dei R.E.M. (poco più di mezz’ora) ma meno diretto e senza
fronzoli (nonché meno irato con l’America di oggi) dell’illustre collega, per il quale furono spese
parole come “rinascita” e “ringiovanimento”, Backspacer è un passetto in avanti nel catalogo dei
Pearl Jam, ma non fuga il sapore di qualcosa cui manca l’urgenza e la necessità dei lavori migliori
della band che l’ha scritto.
Emanuele "Brizz" Brizzante
http://www.indieforbunnies.com
18 settembre 2009
Questo “Backspacer” sembra l’album di quei Pearl Jam che non vogliono invecchiare, come anche
nel precedente lavoro avevano fatto notare. Si pesta ancora tanto, fermandosi ogni tanto per quegli
inserti melodici che in certe band significano ‘vendersi’ ma che sono invece molto spesso sintomo
della maturità che quasi tutti, prima o poi, raggiungono (e infatti il pezzo più lento “Just Breathe”,
non solo è un ottimo brano da viaggio in autostrada, ma presenta anche degli inserti d’archi che
sono più o meno una novità per Vedder e soci).
L’album si apre con un pezzo veloce, simile a molti altri successi del passato tra cui il singolo “Do
The Evolution”. Si tratta di “Gonna See My Friend”, strofa e ritornello alternati in una
composizione semplice quanto ben funzionante. Azzeccata. Si capisce subito che i riff di questo
disco funzionano, anche se sono comunque la rielaborazione più o meno originale di quanto già è
stato prodotto nella loro più che decennale carriera. Lo scopriamo in “The Fixer”, brano che scivola
via veloce per la struttura prevalentemente ‘da chart’. E’ questo il tiro del disco. E uno dei singoli
estratti “Supersonic” ne è la conferma, forse l’episodio meglio riuscito di questo Backspacer, con
riff taglienti al punto giusto per scatenare anche un po’ di pogo ai concerti. In “Amongst The
Waves” si passa a quel post-grunge di band come Nickelback, Creed e primi Alter Bridge, per
quanto riguarda la musica, ma il brano è comunque riportato allo stile PJ dalla voce di Vedder e
dall’assolone centrale, che quasi strizza l’occhio a Slash. Vale lo stesso per la successiva
“Unthought Known”.
Sonorità più ‘british’ rispetto al grungettone a cui hanno abituati aprono “Got Some”, che diventa
poi comunque il classico pezzo alla Pearl Jam, e anche in “Johnny Guitar”, in verità uno dei pezzi
migliori del disco, per l’impatto che la sua scontatezza ha anche al primo ascolto. Nell’ottica di un
disco che “deve vendere” funziona senz’altro. Un po’ di melodia anche per un titolo rubato ai
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Coldplay, “Speed of Sound”, in realtà una canzone completamente diversa, anche se i toni un po’
“malinconici” ricordano un po’ alcuni pezzi del gruppo inglese.
La band è ancora in forma, sforna riff che si memorizzano facilmente e lancia ancora qualche
occhiata al passato da band grunge uscita dal fortunato panorama di Seattle, seppur l’attenzione a
delle soluzioni più ‘universali’ nel sound e nella composizione dei brani siano evidenti. La voce di
Vedder è sempre all’altezza e, insieme al chitarrista solista Michael David McCready, rimane il
migliore in formazione (anche come originalità). La produzione, nei suoni, è in linea con tutti i loro
lavori, soprattutto gli ultimi due o tre album, e non presente particolari novità.
Per concludere, “Backspacer” è un album che soffre forse della mancanza di quella freschezza che
contraddistingueva in particolare alcuni CD precedentemente sfornati dalla band (non solo lo
storico “Ten”), ma che dimostra come ci sia chi, superata la quarantina, continua ad avere
comunque qualcosa da dare al panorama rock. Mainstream si intende. Perché il grunge, si sa, ormai
è morto. E non per colpa di Kurt Cobain.
http://www.ilpotereelagloria.com
14 ottobre 2009
Noi i Pearl Jam li avevamo già recensiti qualche anno fa, e visto che non è nostra abitudine parlare
più volte degli stessi gruppi (anche perché recensiamo talmente poca roba che ci pare il caso di
differenziare e spostare l'attenzione sul maggior numero possibile di realtà) credevamo d'essere a
posto. L'uscita di 'Backspacer', il nuovo album di inediti della band di Seattle, ci ha però portati a
riconsiderare le nostre idee e a valutare un momentaneo, anche se non isolato, strappo alla regola. Il
nuovo cd di Eddie Vedder e soci, infatti, non può essere sicuramente giudicato il capolavoro della
band, ma dopo alcune uscite un po' incolore riporta decisamente il gruppo sui livelli degli anni '90.
Dopo una partenza a tutta birra orchestrata dalle prime quattro tracce, tutte di buona fattura, si arriva
al primo picco, a una 'Just breathe' che strappa più di qualche emozione, una ballata classica e forse
non originalissima in cui però la voce di Vedder si esprime al meglio. Un breve intermezzo ed
eccoci all'altro punto forte, 'Unthought known', che fa da contraltare a 'Just breathe': se la prima è la
ballata ispirata e sofferta, la seconda è il rock che emerge dalle viscere, cresce pian piano e poi
esplode in tutta la sua potenza. È qui il punto focale dell'album, in questo veloce passaggio
dall'intenso al potente, contornato, prima e dopo, da pezzi buoni e da solo un paio di riempitivi, tra i
quali emerge il conclusivo 'The end', che riprende le tonalità di 'Just breathe'.
Un disco che non entrerà nella storia del rock, quindi, destino comune alle canzoni che lo
compongono, ma un album comunque di buona fattura, che tiene alto il nome di una band i cui
membri hanno ormai passato ampiamente i 40 anni d'età, cosa sempre più rara.
[8/10]
http://percarpiano.splinder.com
22 settembre 2009
Il grunge è morto (da un bel pezzo, peraltro...) ma il rock è vivo - e lotta insieme a noi. Noi che
siamo ormai non più giovanissimi, almeno a sentire l'anagrafe e a guardare nello specchio qualche
lieve arrotondamento (!) promanare del nostro ventre che ancora ricordiamo, se non tartarugato,
almeno piatto. Per questo continuiamo ad ascoltare con piacere dischi di personaggi che, come noi,
continuano a vestire come si faceva vent'anni fa. Magari non mettiamo proprio le stesse cose, ma il
giubbotto di jeans ha ancora il suo perchè, il chiodo fa sempre la sua porca figura e gli anfibi...
come affrontare un inverno senza? E allora che rock (e R'n'R') sia! Backspacer è lontano 18 anni - e
mille miglia musicali - da Ten, un disco d'esordio che fece sentire a giovani e meno giovani d'allora
l'altra faccia del grunge (diversa da quella dei Nirvana, più rock e meno punk, eppure insieme
Giano bifronte della rivoluzione di Seattle), lasciandoli a bocca aperta. Ma veniamo a Backspacer.
Le ballate i momenti più riusciti ("Just Breathe" e "The end"), splendide e sofferte, con la voce di
Vedder in gran risalto e con venature da brivido (qualsiasi donna, ne sono convinto, vorrebbe
sentirsi dire "stay with me / let's just breathe..." con quella voce!), soprattutto nella consapevolezza
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che (appunto) il tempo è passato, e con esso alcuni sogni, alcune speranze ("What were all those
dreams we shared those many years ago / What were all those plans we made, now left beside the
road./ Behind us in the road").
Ma l'incipit è vigoroso ("Gonna see my friend", "Got some"); nella prima c'è ancora aria di addio
("I'm gonna shake this day / I wanna shake this day before I retire"), ma Vedder sembra voler dire
che di energia da spendere ce n'è ancora tanta, anche se la voce nei brani più tirati sembra incrinarsi.
Peccato che la stessa cosa non valga per le idee, che risultano lievemente confuse in episodi - non
me ne voglia il mio amico Amish - quasi imbarazzanti ("The fixer" e soprattutto "Supersonic", che
sembra presa dal peggior disco dei REM). Insomma un disco a luci alterne, dove le cose migliori
sono quelle "da solista" di Vedder, modello "Into the wild" (ascoltato, gran bel disco...), più
intimiste e riflessive. Preludio ad un addio?
Riccardo Marra
http://www.step1.it
17 settembre 2009
A Seattle la pioggia è continua. Non smette mai. Pizzica come migliaia di scorpioni volanti e mette
di cattivo umore se non ci si fa il callo. Proprio come George W. e il capannello dei suoi
“Bushleaguer”: un prurito per molti americani e un incubo per i Pearl Jam fino all’elezione di
Obama. Eddie Vedder e soci hanno dedicato a questa fetta di storia americana quasi dieci anni di
carriera, muovendosi di umori neri, lividi, portando in mano la protesta come una saetta. Tradendo
forse anche un certo loro antico spirito, sì combattivo, ma sempre al di sopra delle parti, da
romanzieri del misfatto, malati di poesia. Ora il “thief” (citando Thom Yorke) non c’è più. Ora
Springsteen canta di sogni e speranze. Ora l’America pare rialzarsi anche dalla crisi finanziaria che
l’ha messa in ginocchio. E allora anche i Pearl Jam si scrollano di dosso pioggia e un peso
fastidiosissimo: dover “usare” la musica per protestare, quando questa invece dovrebbe essere forno
di sentimenti, dolore, passione con la politica relegata in panchina.
Backspacer, settembre 2009, è questo. E' la rivincita dei Pearl Jam sul tempo speso a urlare, è la
riscoperta della musica come cantuccio di emozioni. E' suonare veloci, poi melodiosi, riaccelerare,
divertirsi, gracchiare una risata e concedersi anche dei languori. Lo stesso titolo è un omaggio di
Eddie al piacere della scrittura creativa, con il “backspacer” che era uno dei tasti delle vecchie
macchine da scrivere. I Pearl Jam con il nuovo disco, dunque, suonano distesi e recuperano il gusto
di fare musica di nuovo “grunge”, passionale. Sono veloci, velocissimi (37 minuti in tutto), sono
coinvolti e spaccano la tracklist in due parti: da un lato il rock rapido, giocherellone e pop della
punkeggiante Gonna See My Friend, del singolo di lancio The Fixer e di Got Some e Johnny
Guitar. Dall’altro brani più lavorati e compatti oltre a pezzi che, si sente, sembrano venir fuori dalle
session vedderiane di “Into The Wild”. Just Breathe ad esempio, che si srotola della chitarra di
Eddie, della sua voce, e di archi struggenti. “Non voglio soffrire - canta Vedder - c’è così tanto in
questo mondo da farmi credere”. Ma anche Unthought Known con un incedere appassionante:
“Senti il dolore di ogni giorno, che strada hai preso? Respirando forte, facendo il fieno, si, questo è
il vivere”. Della seconda parte superano “la prova del nuovo” anche Amongst The Waves e Speed
Of Sound che mostrano Gossard, Ament e gli altri alle prese anche con pianoforti e con una gestione
sonora sempre molto consapevole.
Sì certo, album come “Ten” o “Vitalogy” profumano di capolavoro nella loro interezza, e non è il
caso di “Backspacer”. Ma ci sono anche album, come questo, che sfoggiano canzoni tanto efficaci
da sfuggire alla prigionia di una tracklist. The End che chiude “Backspacer” è una di queste.
Violini, arpeggio di acustica, apertura vocale di Ed e una frase: “Dammi qualcosa che echeggi nel
mio futuro incerto, lo sai, mia cara, la fine, è vicina. Sono qui, ma ancora non per molto”. La
musica si interrompe bruscamente, la fine del disco è arrivata e con lei anche un brutto
presentimento...
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Simone Tricomi
http://www.musicalnews.com
18/10/2009
Ci sono band che fanno della continua sperimentazione e delle mutazioni camaleontiche il loro
punto di forza, il loro tratto distintivo.
C’è una seconda categoria di artisti che preferisce battere la strada più sicura e commercialmente
redditizia, e ripropongono lo stesso disco e la stessa canzone anno dopo anno.
Infine ci sono gruppi come i Pearl Jam. Non si può dire al quintetto di Seattle di aver fatto
rivoluzioni epocali in ambito musicale, né per questo si può imputare alla band di Eddie Vedder
scarsa ispirazione o ripetitività. L’obbiettivo dei Pearl Jam è sempre stato quello di esplorare le
possibilità di quello che può essere definito un rock’n roll onesto, coerente e senza fronzoli.
Figli di band come Who, Rolling Stones e Ramones, più che del grunge vero e proprio, la loro
credibilità è cresciuta grazie alla qualità dei loro brani e a dischi fra i più importanti nell’ambito
rock degli ultimi vent’anni (“Ten” e “Vs.” su tutti). I Jam si sono alternati dopo la prima, più
importante, fase della loro carriera, fra opere più a fuoco e centrate (“Yield” e “Rioct Act”) ed altre
più complicate e meno ispirate, come “No code” e “Binaural”, sempre e comunque al di fuori di un
circuito commerciale imperante, anzi spesso brillando per onestà ed impegno.
Ed eccoci arrivati a “Backspacer”. E’ un piacere sentire quanto suoni fresco questo disco.
In alcuni tratti, come nel potente trittico rock iniziale, sembrerebbe di sentire una qualsiasi garage
band di ventenni che si diverte nella sua scalcinata sala prove nei sobborghi di Seattle!
Ed è proprio questo che fa di Backspacer un buon disco… la rabbia, la voglia di divertirsi, di
suonare nudi e puri oltre ad una capacità di comporre ancora dell’ottimo rock’n roll e delle canzoni
che suonino credibili.
Inutile dire quanto la voce ed il talento di Eddie Vedder emerga una spanna sopra rispetto a quello
dei compagni d’avventura. Sono da brividi i toni caldi che sfodera nei pezzi acustici come la
conclusiva “The End” e la meravigliosa e romantica “Just breathe”. Ed anche quando deve spingere
e sfoderare tutta la gamma emotiva di quella che è la più bella voce rock in circolazione, Eddie non
delude, facendo risplendere composizioni come “Unthought known”. Tutta la band è sugli scudi,
invece, nella beatlesiana “Speed of sound”, con un’inaspettata e piacevole virata pop, ed in quello
che è forse il pezzo più convincente e solido dell’intero disco, “Force of nature”.
Quello dei Pearl Jam è in generale un ritorno convincente, anche nei testi, dove vengono
accantonate le tematiche barricadere un po’ abusate negli ultimi dischi e viene riscoperto il piacere
dell’intimità.
Nessuno si accosti a questo disco pensando di trovarci un altro capolavoro generazionale come
“Ten” però. Mettete da parte le vostre camicie a scacchi ed i capelli al vento, i Pearl Jam oggi sono
solo una grande rock’n roll band. Forse gli unici, veri, eredi degli Who.
A loro va bene così, ed anche a me.
Simone Vairo
http://www.music-on-tnt.com
05/10/2009
Partiamo dal presupposto che tutte le band possono commettere degli errori. L’unico ostacolo a
questa teoria è che, ultimamente, si vedono troppe “patacche” e pochi capolavori.
L’occasione si è presentata in contemporanea con l’uscita dal buio di molte band che hanno voluto
mantenere alto il nome delle loro formazioni per dimostrare al grande pubblico che erano ancora
vivi: è il caso dei Metallica o dei Depeche Mode o, ancora peggio, dei Guns N’ Roses (con il
tremendo e, non della ex-band, “Chinese Democracy”). In entrambi i casi l’alternativa sarebbe stata
quella di rinchiuderli nello studio ancora per un pò finchè non avessero partorito qualcosa di
migliore. Gli unici, invece, che hanno avuto il coraggio di riemergere, tenendo alto il loro nome,
altri non sono stati che i Megadeth che, con il loro “Endgame”, hanno saputo regalare ai loro fan
minuti e minuti di buona musica metal che riporta la mente agli anni 80.
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Si spera, quando si vedono più i disastri che le vittorie, che le altre band imparino dagli errori altrui
e, nel caso ci fossero delle “pecche” nel loro lavoro, di correggersi per non suscitare la noia nei loro
ascoltatori. Ma tutto questo ragionamento dipende anche da cantante a cantante. Eddie Vedder, il
quale sa cosa vuol dire saper creare una canzone e un disco, ha incantato milioni di fans con la sua
voce baritonale non solo grazie all’ultimo lavoro solista (la colonna sonora per il film “Into The
Wild” con la quale, per la canzone “Guaranteed”, vinse un Golden Globe), ma anche grazie a quella
meravigliosa combinazione tra Seattle e testi densi di verità, lotta sociale, depressione, storie di
cronaca nera: ovvero i Pearl Jam.
La band nacque dalle ceneri dei Mother Love Bone e ebbe solida formazione soltanto con l’entrata
di Eddie Vedder come cantante e autore di alcune delle pietre miliari della band (“Alive” e “Black”).
Col passare del tempo i Pearl Jam, tra proteste per la vendita dei biglietti dei loro concerti contro la
Ticketmaster che prendeva delle percentuali (in nero) sulle vendite e incidenti ai loro concerti
(l’incidente di Roskilde, in cui 9 fans della band furono schiacciati e soffocati da tutta la folla
urlante che era andata a vedere il concerto), registrarono innumerevoli cd che li fecero allontanare
dalla prima definizione grunge che si era dato loro per farli avvicinare al rock a volte melodico
(Riot Act), a volte garage (No Code), che, in non poche occasioni, ha lasciato amareggiati i fans.
Oggi si ripresentano, dopo ben tre anni dall’ultimo album d’inediti, con “Back Spacer” che,
nonostante l’averlo risentito più volte, non si capisce da quale mente sia stato partorito o se davvero
i Pearl Jam c’abbiano lavorato per tirare fuori non si sa bene cosa.
Esaminiamo il caso con molta calma: l’intero album non sembra assolutamente un lavoro targato
Pearl Jam (tranne per il fatto che Vedder è difficile non riconoscerlo), per il semplice fatto, come
primo elemento, che sono presenti troppi colori sulla copertina. Questo, però, può essere una
minaccia come anche una speranza per i fans: l’ultima copertina così colorata portava il nome della
band come titolo dell’album e quel lavoro era stato considerato come un ritorno alle origini delle
vecchie sonorità del gruppo di Seattle, quindi, nonostante, l’eccessiva colorazione i testi
mantenevano lo stile “vedderiano”. In questo caso si tratta proprio di una minaccia che,
fortunatamente, sembra confermare un vero e proprio alone di serenità che ruota intorno alla band.
Purtroppo, però, altrettanta lucidità non è mantenuta in ambito musical e di testi.
“Back Spacer” sembra dare l’impressione di un raduno dei Pearl Jam in un pub con il loro pubblico,
per raccontarsi qualche storia non tanto importante e poi andare via per concedersi delle piccole
soddisfazioni personali e pensare alla propria condizione esistenziale. Ma, solo all’ultimo, ci si
ricorda di non aver dato l’ultimo messaggio e allora si ritorna nel locale per dare la restante perla di
saggezza alla folla. L’ambiente, anche solo l’idea, è dato dal video del primo singolo scelto: “The
Fixer”, canzone che pretende di parlare su come rendere migliore ogni cosa. Partiamo, comunque,
dall’inizio: “Gonna See My Friend”, l’incontro, la spensieratezza che ne deriva, la voglia di parlare;
una canzone senza troppe pretese, ma che sembra non distaccarsi di tanto dai Pearl Jam, anche se un
po’ di differenza si sente. Il tutto continua su “Got Some”, espressione del fatto che i Pearl Jam sono
i detentori della buona musica, ma prima di fare tali affermazioni bisognerebbe aspettare, poiché
con “The Fixer” e con la successiva “Johnny Guitar” si cade in qualcosa che, l’ascoltatore medio
dei Pearl Jam, farà difficoltà a sentire per quel senso altalenante tra la sorpresa e il disgusto,
facilmente tramutabile in delusione e amarezza. Da qui in poi, la band di Seattle, si muoverà tra il
pop spicciolo (Unthought Know) e il rock (Supersonic), ovvero tutto tranne il voler sembrare il
gruppo che tutti conosciamo. Oltre a questo, però, sembra che ci siano degli echi di un qualcosa
proveniente dal passato: ebbene il richiamo, purtroppo, non viene dalle origini (ad eccezione per
“Among The Waves”, ovviamente un richiamo a “Oceans” presente nell’album d’esordio “Ten” che
racconta la passione di Vedder per il surf), ma dal recente passato ovvero l’avventura di Vedder con
il film “Into The Wild”. Infatti, possiamo ritrovare quello stile intimistico in una canzone
completamente scritta da lui: “Just Breathe”, brano, per molti, versi indirizzato alla vita
matrimoniale e alla fortuna di avere qualcuno accanto. Le uniche canzoni dell’album che sembrano
portare il marchio di Vedder, nel vero senso del termine (rivolta, critica alla società, ecc.) sembrano
essere “Speed Of Sound”, la quale indica la velocità con cui le cose intorno a noi sembrano
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cambiare e “The End”, l’ultima cosa da dire prima di chiudere l’album che, più o meno, riassume i
concetti del brano precedente.
L’album non è brutto, ma, molto semplicemente, non è dei Pearl Jam. Poteva essere fatto da
qualsiasi altro cantante, anche un Bruce Springsteen andava benissimo. L’unica cosa vera è che
questo cd è la conferma che le vere band, quelle che ancora hanno voglia di mettersi in gioco, non
esistono più, ma emergono solo quelle che sembrano non voler dedicare molto tempo al loro lavoro.
Se Kurt Cobain fosse ancora vivo, avrebbe ragione di prendersela con i Pearl Jam come ha fatto in
passato.
Marcello Moi
http://www.mpnews.it
20.12.2009
Facciamo un passo indietro. Gli anni ‘00 sono stati segnati dall'ingombrante presidenza di George
W. Bush, al quale i Pearl Jam si sono opposti con veemenza sia con gli ultimi due album, “Pearl
Jam” del 2006 e “Riot Act” (letteralmente “atto di rivolta”) del 2002, sia con altri mezzucci tra i
quali le innumerevoli esecuzioni di “Bu$hleaguer” durante le quali Eddie Vedder indossava una
maschera dell'ex presidente americano. Ora che l'avvento di Obama ha cambiato le carte in tavola, i
Pearl Jam si devono essere sentiti come Willy il Coyote che finalmente riesce a catturare Bip-Bip: e
adesso che si fa? La risposta è nel titolo dell'album, “Backspacer”, dal nome del tasto della
macchina da scrivere che sposta il rullo della carta: una sana botta di classic rock da utilizzare
come scusa per poter andare di nuovo in tour. Mentre nel computer il tasto Backspace cancella,
nella macchina da scrivere quello che abbiamo scritto rimane impresso sul foglio; il passato, quindi
rimane, e dopo ben undici anni ecco tornare in veste di produttore Brendan O'Brien, assente dal
quinto album “Yield” e recentemente impegnato a dare un po' di brio al suono di Bruce Springsteen.
La sua presenza si sente parecchio a livello di stile, ma fortunatamente non al punto da imprimere al
disco l'effetto omologante degli ultimi due album del Boss (d'altronde stavolta O'Brien non si trova
davanti a un rocker sessantenne un po' sbiadito, ma a un Eddie Vedder nel pieno della sua carriera
e osannato dalla critica per l'eccezionale colonna sonora del film “Into the Wild”).
L'album è composto da dieci tracce, per un totale di trentasette minuti. “Supersonic”, o se preferite
“Speed of sound” come recitano i titoli di due canzoni, che nasce dall'esigenza di suonare per la
gente che da sempre ha contraddistinto i Pearl Jam. Anche i temi dei testi sono immediati:
abbandonato l'impegno sociale e la politica si passa dall'amore per la musica alla passione per il surf
(“Amongst the waves”), attraversando l'amicizia (“Gonna see my friend”) e arrivando perfino
all'amore. Già, perchè Pearl Jam non avevano mai scritto una canzone d'amore prima d'ora; non
proprio inaspettatamente è Eddie Vedder che con la sua chitarra e la sua voce calda come l'ultimo
spiraglio di sole al tramonto dipinge due delicate ballate acustiche che lasciano il segno. “Just
breathe”, figlia legittima di “Into the Wild”, è stata definita dallo stesso Vedder “[...] la cosa più
vicina ad una canzone d'amore che io abbia mai scritto”, mentre “The end” è l'altra faccia
dell'amore, quello tragico e che ormai è finito.
Certamente un buon disco, ideale per un (breve) viaggio in macchina, che però non rimarrà nella
storia della musica. Il vero punto di forza sono le due canzoni acustiche, tanto che alla fine
dell'ascolto ci si può chiedere legittimamente che cosa ci stiano a fare gli altri cinque in sala di
registrazione. La risposta è che ci sono degli artisti con un tale carisma e una tale magia dentro di
loro che riuscirebbero ad emozionare una folla anche cantando sotto la doccia, e Eddie Vedder è
sicuramente uno di quei pochi eletti.
[6,5]
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Marco Zarfati
http://www.loccidentale.it
26 Settembre 2009
Dopo la sostituzione del batterista che segnò il definitivo cambiamento di sound nel ’98, adesso,
dopo più di dieci anni, si spiega la strada che i cinque hanno intrapreso, ed è una strada fantastica.
Era dai tempi di Yield, quinto album del gruppo, che la band non aggiungeva veramente qualcosa
alla musica contemporanea. L’unico tentativo era stato fatto con Rioct Act nel 2002 ma il risultato
era stato un album difficile e infatti incompreso. E tutti gli altri dischi in questi dieci anni sono stati
pubblicati musicalmente “in difesa”.
Non è questo il caso di Back Spacer, disco che, nonostante i mix di tre stili diversi che non possono
coesistere in un lavoro solo, è principalmente pop rock. Un pop rock d’autore.
Gli altri due stili sono il rock puro dei primi quattro pezzi e dell’ottavo, Supersonic, fatta eccezione
per il singolo, The Fixer, che, a parte alcune schitarrate e il testo molto rock (Fight to get it back
again dice il ritornello), è anch’esso soprattutto pop, con gli Yeh Yeh Yeh Yeh (solo uno in più
della famigerata She Loves You dei Beatles!) del ritornello e le tastiere di Brendan O’Brien
(produttore e musicista, che ha ripreso il gruppo dopo averlo lasciato, guarda caso, dopo il quinto
album), e le due parentesi acustiche di Just Breathe e The End, figlie dell’esperienza solista di Eddie
Vedder nel film di Sean Penn, Into The Wild, per il quale ha curato appunto la colonna sonora.
I quattro pezzi mancanti, Amongst The Waves, Unthought Known, Speed Of Sound e soprattutto
Force Of Nature, sono quattro perle di bellezza rara: basi pop con tastiere o giri di chitarra non
troppo veloci, strumenti che aumentano strofa dopo strofa, voce di Eddie che si fa sempre più
intensa, fino alle grida, e il grande momento dell’assolo, che parte sempre come una liberazione e,
finalmente, torna a far volare chi lo ascolta, continuando a suonare anche durante l’ultima strofa.
Come ai vecchi tempi.
Il titolo Back Spacer fa riferimento al "backspace", il tasto di ritorno delle vecchie macchine da
scrivere che riporta indietro il carrello, ma è anche interpretabile come “colui che torna dallo
spazio”, e questa ambivalenza tra passato e futuro spiega benissimo l’intero album.
Anche il concept è finalmente innovativo: disegnato dal fumettista Tom Tomorrow completamente
a colori, sia in copertina che nel booklet (i disegni, fino a No Code escluso, album dal quale hanno
preso piede le foto, erano stati una costante negli album dei Pearl Jam, ma sempre in bianco e nero),
è composto da nove quadri surreali sulla facciata e uno centrale quando si apre la custodia. Più
alcuni particolari degli stessi ripresi nel booklet.
Insomma, i Pearl Jam sono tornati, e lo hanno fatto alla grande, ma non alla grandissima. Ma per
questo c’è tempo, l’importante è aver ritrovato la strada da percorrere. E, ascoltare per credere, loro
l’hanno ritrovata e come.
http://www.grigiotorino.it
Ormai ci siamo. Manca pochissimo alla pubblicazione ufficiale di “Backspacer”, nono album in
studio per il mitico quintetto di Seattle capitanato dal grandissimo Eddie Vedder, cantante,
chitarrista, frontman, compositore e chi più ne ha più ne metta… un personaggio che col tempo, un
passo alla volta, ha saputo conquistare il cuore delle sterminate platee di fans della band, nonchè
prendere il timone di una formazione all’interno della quale non mancano certo forti personalità e
musicisti di prim’ordine.
Lo stesso Stone Gossard (chitarrista e fondatore) ha dichiarato con una bella metafora che i Pearl
Jam sono come un gruppo di persone che viaggia d’amore e d’accordo sulla stessa automobile, con
Eddie che però tiene entrambe le mani sul volante!
Nonostante tutto ciò, alla fine è sorprendente come, nonostante la netta preponderanza del cantante
a livello compositivo, i Pearl Jam riescano sempre a venire fuori con dei lavori che hanno
quell’incofondibile sapore di opere “corali”, di album a cui tutti hanno contribuito con i loro
personalissimi imput, non ultimo l’ottimo produttore e amico della band Brendan O’Brien, che
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ritorna ufficialmente in cabina di regia dopo una pausa che durava fin dal 1989, con l’album
“Yield”.
E proprio il produttore mi sembra un ottimo punto di partenza per analizzare questo album che, dal
mio punto di vista di “die-hard fan” dei 5 di Seattle, è assolutamente e pienamente soddisfacente, a
dispetto dei suoi 11 brani per poco meno di 37 minuti, in assoluta controtendenza rispetto agli
standard attuali dell’industria discografica, cosa che sicuramente avrà fatto spuntare un ghigno di
soddisfazione sulle facce dei nostri, da sempre parecchio restii a piegarsi a voleri di chicchessia.
Ma dicevamo di Mr. O’Brien… ancora una volta il suo è un apporto fondamentale, con dei suoni
che finalmente escono PROPRIO COME DOVREBBERO, chiari, puliti e cristallini, dove tutto e
perfettamente udibile e comprensibile fino all’ultima nota, e dove viene reso perfettamente quel
feeling “live” che tanto si addice ad un vero e proprio ROCK album come “Backspacer”, con
chitarre potenti e definite, basso e batteria che escono gagliardi con un suono spontaneo e non
artefatto.
Per chi ha familiarità con le grandi rock band del passato il nome degli WHO (per Vedder tra gli
idoli di sempre!) è il primo che salta alla mente, specialmente nell’opener “Gonna See My Friends”,
il cui impatto potente e dinamico mette subito le cose in chiaro.
Non che immediatamente dopo la band si calmi e si rilassi, anzi…”Got Some” (musica del bassista
Jeff Ament) segue a ruota e, nonostante sia già stato presentato in anteprima al Tonight Show di
Conan O’Brien a giugno, il brano continua a sorprendermi con il suo geniale ed aggressivo
arrangiamento, con la tensione che cresce esponenzialmente e poi si libera nel cantato nevrotico ed
aspro di Eddie… magnifica!
Più particolari e meno immediate le seguenti “The Fixer” (scelta come singolo/promo video) e
“Johnny Guitar”, con la seconda (firmata nelle musiche da Stone Gossard e dal grandissimo
batterista Matt Cameron) che si pone subito tra i capolavori dell’intero album, con il suo finto
incedere “classic rock”, che quando credi di aver capito dove andrà a parare ti sorprende con guizzi
e deviazioni improvvise, e il cui eroico finale viene subito sfumato lasciandotela immaginare in
devastanti versioni live.
A seguire c’è il tempo di prendere fiato con “Just Breathe”, figlia legittima e dichiarata di quanto
scritto da Vedder per l’ottima colonna sonora di “Into The Wild”: atmosfere rilassate e quasi
“bucoliche”, un quadretto delizioso valorizzato al massimo in sede di produzione dall’aggiunta
degli arrangiamenti orchestrali di Brendan O’Brien che, lungi dal renderla stucchevole, ne fanno
una piccola e brillante perla preziosa.
Ancora Gossard autore delle musiche per la seguente “Amongst The Waves”, incedere solenne e
potente, di nuovo il benigno fantasma degli Who che fa capolino. Anche il chitarrista dimostra la
sua versatilità firmando pure “Supersonic”, una delle vigorose e furibonde scorribande rock’n'roll ai
confini col punk a cui la band di Seattle ci ha abituato nel corso degli anni, mentre Vedder risponde
con “Unthought Known” e “Speed Of Sound”, con la prima che si piazza anch’essa fra i capolavori
di “Backspacer” con il suo impatto emotivo in crescendo davvero struggente, mentre la seconda si
aggiudica la palma di brano più complesso del lavoro con il suo soffuso andamento pseudoblueseggiante punteggiato di soluzioni tutt’altro che scontate.
Ancora rock nel senso classico del termine per la penultima “Force Of Nature” a firma dell’ottimo
Mike McCready, il chitarrista solista della band che mette il suo sigillo a quello che forse è il brano
più “tipico” per i Pearl Jam, una song che comunque è già pronta ad essere valorizzata in sede live
da un arrangiamento magari leggermente più robusto, pratica questa assai usuale per questi cinque
magnifici “animali da palcoscenico”.
Finito così? Nossignore, c’è ancora il tempo per gustare “The End”, acustica ballata tipica del
Vedder più riflessivo, anche questa splendidamente resa dal discreto (nel senso di “non invadente”!)
arrangiamento per archi ad opera del produttore, che rende ancora più chiaro il concetto: i Pearl Jam
e Brendan O’Brien “si appartengono” e, pur non condannando la legittima voglia di sperimentare
nuove soluzioni che spesso ha guidato Vedder, Gossard e compagnia, bisogna riconoscere che
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QUESTO è l’assetto perfetto per far si che ogni album dei Pearl Jam sia ciò che dovrebbe essere:
quanto di più vicino ad un capolavoro sia umanamente possibile.
Non resta che augurarsi che non sia “solo” la sterminata miriade di fans della band a rendere il
doveroso tributo a questo grande lavoro, ma che “Backspacer” venga apprezzato su più larga scala,
nella speranza che possa ripetersi un qualcosa di meraviglioso come durante il tour del 2006, con
CINQUE esauritissime date nel nostro paese e addirittura un dvd live “dedicato” (”Immagine In
Cornice”) a celebrare l’evento, un qualcosa che possa sancire una volta di più l’amore
incondizionato che lega i Pearl Jam all’Italia.
Luca Praino
Doublethinkmagazine.blobspot.com
3 dicembre 2009
"Se la coerenza è una virtù nessun'altra band suona così fedele ai suoi ideali." Ho voluto iniziare
questa recensione con una citazione presa in prestito da un giornale, perchè non c'è nulla di meglio
che queste parole a riassumere la carriera, il presente, il futuro e il credo dell'intera vita musicale dei
Pearl Jam.
Dopo quasi 20 anni passati sulla cresta dell'onda, gli unici sopravvissuti del movimento "Grunge"
danno alle stampe un nuovo album che, se vogliamo, sorprende per la sua estrema compattezza e
qualità, merito anche dell'eccellente ritorno di Brendan O'Brien alla produzione.
Un disco immediato e senza fronzoli (il più breve come durata dell'intera carriera del gruppo di
Seattle) che colpisce per una buona varietà di stili, grazie anche alla comparsa di strumenti che
raramente facevano la loro comparsa nelle passate produzioni del quintetto americano.
Si passa dall'inizio energico di "Gonna See My Friend" e "Got Some" (quest'ultima con un incedere
del basso di Jeff Ament molto new-wave) che marcano un pò la direzione dell'intero album, per
arrivare a quello che è stato scelto come il singolo per il lancio mondiale dello stesso: "The Fixer" è
un pezzo piuttosto anomalo nel catalogo dei Pearl Jam che ad un ascolto iniziale può sembrare
anche piuttosto banale ma che in un secondo momento colpisce per la sua semplicità e gioiosità,
merito soprattutto delle sue atipiche venature pop.
Si prosegue con "Johnny Guitar", titolo che può trarre in inganno. Ci si aspetta una canzone con
citazioni ai Ramones e invece si ascolta un buon brano di rock classico con accordi iniziali che
possono ricordare i Rolling Stones. Da sottolineare l'ottima prova vocale di Vedder (standard che
mantiene in tutto il disco: una sicurezza) e il sempre chirurgico Matt Cameron, batterista d'altri
tempi.
Si arriva al primo capolavoro del disco. "Just Breathe" è di una bellezza disarmante, ricca di
dolcezza, pathos e tenerezza sottolineata dalla presenza di una sezione d'archi che, con la chitarra e
la voce di Vedder, "dipingono" un quadro a dir poco emozionante. Da notare come si percepisca in
maniera forte l'influenza della passata esperienza del cantante nella colonna sonora di "Into the
Wild". Non poteva mancare il tributo di Eddie Vedder al mare in "Amongst the Waves", canzone
che sembra un tributo ai R.E.M. (d'altronde tutto il nuovo lavoro della band sembra un intero tributo
alla musica da loro amata in gioventù). Brano buono ma forse il più debole della compagnia.
Le successiva "Unthought Known" è un ottimo brano, strumentalmente semplice ma piuttosto
trascinante, grazie anche al crescendo che porta ad un intermezzo potente, dove si può apprezzare la
presenza di Brendan O'Brien, che contribuisce al pezzo con un superlativo apporto al pianoforte.
"Supersonic" è la canzone selvaggia che in un disco dei Pearl Jam non può mai mancare. Questa sì
è un tributo ai Ramones (era quasi nell'aria), ma che sorprendentemente è ad opera di Stone Gossard
e non di Vedder come ci si poteva aspettare. Il chitarrista fa sempre il suo con diligenza e
precisione.
Il momento adrenalinico è spezzato da "Speed of Sound", buona ballata rock come solo i Pearl Jam
sanno fare oramai, ma che si apprezza di più nella versione "demo", spogliata di tutti gli strumenti e
interpretata da Eddie Vedder con la sola chitarra acustica e qualche sovraincisione di slide-guitar e
controcanto. Il rock classico torna a far capolino nella successiva "Force of Nature" ad opera di
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Mike McCready, chitarrista solista che dà sempre i suoi ottimi contributi ai lavori del gruppo e che
sembra quasi l'alter-ego scatenato del più compassato Stone Gossard. In questo brano si possono
apprezzare reminiscenze del miglior Neil Young, con cui i Jam in passato hanno anche collaborato.
E si arriva così alla degna conclusione del disco, altro capolavoro del Vedder solista. "The End" è
un pezzo che è quasi un pugno allo stomaco. Ma non come ci si potrebbe aspettare. Questo brano
colpisce per la sua atmosfera pacata e "drammatica", con il cantante che è protagonista di
un'interpretazione meravigliosa e struggente, riuscendo a spingere la voce quasi ai limiti del
possibile. Anche qui sono presenti solo gli archi a far da cornice alla sola chitarra acustica. Da
spendere una parola per il testo che è davvero pura poesia. Molto toccante.
Per concludere, i problemi se vogliamo sono sempre gli stessi. Molta gente rimarrà perplessa
all'ascolto. Riecheggiano ancora nella mente dei più nostalgici le urla sfrenate di Vedder dei primi
tempi, difficili da scordare. Ma chi è dotato di un pò di coscienza capirà che i tempi passano e il
corpo ne risente. Ma l'anima dei Pearl Jam è sempre lì ed è una delle poche certezze rimaste nel
panorama rock attuale. Chi si vuole abbandonare ai ricordi Ten è sempre lì sullo scaffale, chi vuole
maturare ed appassionarsi assieme a loro stringa un pò i cd già in possesso e lasci un pò di spazio al
futuro.
"Everything has changed, absolutely nothing change!"
Dario Ballabio
http://luckyshoppingdemo.myblog.it
26/10/2009
A differenza dei loro conterranei Soundgarden e Nirvana, i Pearl Jam non hanno mai sviluppato un
sound veramente personale. Pur tenendo alcuni cardini fissi nella composizione (suoni ruvidi, una
ritmica in bilico tra la ballata ed il punk primordiale, una certa ricerca melodica nelle linee vocali), i
PJ hanno sempre evitato di focalizzarsi su uno stile preciso e troppo riconoscibile.
Indipendentemente dal fatto che questo sia frutto di una scelta precisa o di un limite della band, la
cosa ha dato modo al gruppo di sfornare una serie di album di buona (Vitalogy, No Code, Yeld) e
ottima fattura (Ten e Vs) che non si assomigliano troppo tra di loro, permettendo così di tenere alta
l'attenzione di fan[s] e critica. Tuttavia, quando con Binaural la vena compositiva ha cominciato a
mostrare il fiato corto, la mancanza di uno stile ben definito ha impedito al gruppo di operare un
taglio netto col passato, di virare nettamente verso nuovi lidi musicali. I PJ, ad un certo punto della
loro carriera, non hanno saputo fare quello di cui sono stati capaci ad esempio gli U2 con Achtung
Baby, o i Radiohead con Kid A.
Da Binaural in poi l'aria è quella del già sentito, con qualche sprazzo di vitalità, ma sempre un po'
appiattito sul noioso. Quest'ultimo lavoro, pur mostrando qualche passo in avanti rispetto a Riot Act
e all'omonimo Pearl Jam, non si discosta da questo andazzo. L'ascolto rimane pur sempre gradevole,
alcuni pezzi fanno prevedere un certo successo in un contesto Live, ma nel complesso è un lavoro
che non lascia con la voglia di essere ascoltato e riascoltato. I momenti migliori sono sicuramente
quelli in cui Eddie Vedder prende il pallino della situazione (The End, Just Breathe, Speed Of
Sound), mostrando un timido distacco dalle soluzioni classiche della band; decisamente meno
riusciti quelli in cui sono le chitarre a farla da padrona: qui è sempre il solito suonare a base di riffsimil-anni-70.
I PJ sono uno dei pochi (grandi) gruppi che dal vivo riesce ancora ad emozionare pienamente, e
questo grazie anche al loro approccio basato sulla musica interamente suonata live (senza basi e
sequencer), al largo impiego dell'improvvisazione, ad un repertorio da cui attingono a piene mani
senza indugiare troppo sui cavalli di battaglia. Da studio la band ha ormai da tempo perso l'antico
smalto. Che per i PJ sia arrivata "The End"?
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http://www.dedioste.net
28 ottobre 2009
Diciamolo subito: “Backspacer” è un gran bel disco, i Pearl Jam invecchiano bene a anche a 18 anni
da Ten hanno ancora parecchio da dire.
Backspacer è un altro passo nel vagabondare musicale dei PJ: disco disomogeneo, con canzoni a
pattern, ma una coerenza di fondo data da un suono pulito, niente orrori di equalizzazione e testi
chiari, armonici.
Il primo terzo del disco è pieno di canzoni con ritmo incazzato e molto tiro, con la voce di Eddie
tenuta a freno e molto spazio alle chitarre e ai riff duri. “Gotta see my friends”, “Got some”, “The
Fixer” e “Johnny Guitar” sono quattro pezzi rock che messi tutti in fila non si vedevano da un bel
po’ in un disco dei PJ. La cosa bella è che suonano completamente naturali: volevano fare pezzacci
rock e quelli hanno fatto. Diretti, duri, con ritmo.
“Just Breathe”, peraltro primo singolo, è una canzone di “Into the wild” che è finita in questo disco.
Chitarre acustiche, Eddie che inizia a usare la voce, ritmo tranquillo.
“Amongst the waves” e “Unthought known” sono due dei miei tre pezzi preferiti dell’album e sono
puro stile: ritmo deciso ma non troppo veloce, ritmiche millimetriche, la voce di Vedder che spicca
sulle chitarre completandole e completandosi.
Il duo “Supersonic”/”Speed of sound” gioca sugli opposti concordi: Dove una è veloce e
riffatissima, l’altra è languida e soffice.
“Force of nature” è il terzo pezzo capolavoro dell’album: quando, dopo un bel crescendo, Vedder
attacca il bridge con: “One man stands the edge of the ocean - A beacon on dry land”
porta a casa tutti gli ascoltatori senza problemi. Questa dal vivo dovrebbe riservare emozioni
incredibili. Per intenderci, siamo dalle parti di “Wishlist”.
Il disco finisce con “The End”, voce chitarre e poco altro a chiudere il disco con calma e riflessione:
”My dear - The End - Comes near - I’m here - But not much longer”
Sono 36 minuti di album, ma che 36 minuti, cari lettori.
Nota a margine: questo album è stato il mio primo acquisto su iTunes. Avrei preferito (e dai PJ un
po’ me lo sarei aspettato) trovarlo disponibile nella sezione ecommerce del sito ma alla fine l’ho
comprato da lì.
Devo dire che l’esperienza è davvero positiva: AAC a 280kbps, qualità audio ottima, costo totale
9.99€, veloce, file ascoltabili ovunque (tranquillamente drag’n'drop su Rhythmbox e sul mio HTC
Magic, niente ricodifiche o artifici).
Se questo è il futuro della musica, ben venga.
Guerrilla Radio
Corriere.it
Due le premesse. Ho ascoltato il disco 2-3 volte e la mia passione per Eddie e soci è cosa di
lunghissima data (sono uno dei pochissimi fortunati ad averli visti anche nella loro prima uscita
italiana al "Sorpasso" di Milano - mi pare fosse il febbraio del '92 - una vita fa...).
Ne aggiungo una terza: sono stato accusato dal Solito di non aver citato i titoli delle canzoni nel mio
post sul disco nuovo dei Muse. Qui li troverete, così magari a 'sto giro avrà meno da ridire. Magari.
Il disco, dunque. Diciamo subito che non è un capolavoro, ma alla fine alzi la mano chi se lo
aspettava. E' un buon disco di sano rock (una quarantina di minuti in tutto) con una prima parte
piuttosto tirata, una centrale più riflessiva (la migliore a mio parere) e una finale invece poco
riuscita. I pezzi più veloci sono decisamente senza fronzoli e qua e là si fa sentire forte l'eco dei
Ramones (soprattutto in "Supersonic").
Il brano di apertura - "Gonna see my friend" - è senza infamia e senza lode, ma è seguito dalla
canzone veloce migliore del lavoro: "Got some".
Poi l'uno-due peggiore del disco: "The fixer" e "Johnny guitar" si somigliano parecchio. Purtroppo.
Qui la breve durata della canzoni viene sicuramente in aiuto.
Per fortuna arrivano una dopo l'altra le tre migliori canzoni di tutto il cd: "Just breathe", "Amongst
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the waves" e il bellissimo crescendo di "Unthought known".
Di "Supersonic" si è già detto. "Speed of sound" è la canzone meno Pearl Jam del disco. Non ho
ancora capito se mi piace. Di sicuro è quella con l'incedere più strano.
Gli ultimi due brani sono da dimenticare: "Force of nature" ha un riff che sembra rubato a un brutto
gruppo pop-rock anni 80. "The end" invece è molto pretenziosa, vede la presenza di archi che però
"intralciano" la voce di Vedder senza dare sostegno alla melodia. L'impressione è che se non ci
fossero sarebbe meglio.
Se dovessi dare un voto direi 6,5 o - con un po' di manica larga - dal 6 al 7.
Un po' meglio dell'ultimo disco, un lavoro più che dignitoso e che nella media del panorama
odierno fa la sua porchissima figura. Ma sono i PJ, mi aspetto sempre qualcosa in più da loro. Dal
vivo però sono tra il meglio che c'è in circolazione. E l'impressione è che almeno un paio tra le
canzoni che su cd non convincono più di tanto possano guadagnare parecchi punti nella loro
versione live.
http://asroma1927.forumcommunity.net
11/10/2009
Nel 1994, il Grunge, genere musicale nato dalla geniale fusione di Hard Rock e Punk, muore
definitivamente. Nello stesso anno in cui il suo più grande promotore, Kurt Cobain, lascia questo
mondo: non si tratta affatto di una strana coincidenza. Kurt trascina con se tutte le band che in
qualche modo avevano tentato di mantenere in vita il rock agli inizi degli anni ’90, dove ormai il
rap la faceva da padrone. Gli Alice in Chains spariscono, così come i Suondgarden e nel frattempo,
nasce forse il genere che dà la mazzata finale al mondo del rock: il new metal. In questo desolante
panorama, i Pear Jam decidono di andare avanti, ma stranamente, dopo l’uscita di Vitalogy (proprio
nel 1994), decidono di cambiare progressivamente strada. Da tutti i lavori successivi si evince che
questa non è più la stessa band che un tempo spalleggiava i Red Hot Chili Peppers esaltando le
masse con la loro energia; insomma: non intendevano più cambiare la musica come una volta. Man
mano, l’originalità si assopisce lasciando il posto alla voglia di creare pezzi di poco spessore,
movimentati, adatti alle classifiche, alla World Wide Suicide, diciamo. Ma non impressioneranno
mai come i cari bei vecchi tempi di Jeremy, di Alive e compagnia bella.
Ed è proprio la strada su cui continuano con il loro ultimo lavoro, Backspacer. Reduce da un lavoro
acustico solista (Into The Wild, colonna sonora dell’omonimo film), Vedder è ancora molto
ispirato. Ispirazione che gli darà disinvoltura e coraggio, coraggio di sperimentare nuovamente
qualche lavoro da solista voce e chitarra anche in questo nuovo album dei Pearl Jam, come a dire
<<a cosa mi servono gli altri cinque ora che ho trovato una nuova forma di musica?>>.
L’album parte con Gonna See My Friends, un pezzo veloce e divertente ma senza spessore. Nulla di
nuovo: da dieci anni a questa parte è ormai usanza da parte dei Pearl Jam, aprire un album in questa
maniera.Ed è infatti da da dieci anni che la band si diploma a stento con la sufficienza. Il prologo
dice tutto: ci troviamo dinanzi all’ennesimo album primo di nuovi spunti –se si tolgono gli
esperimenti da solista del frontman-. Il brano si fa ascoltare ma non rimane in testa, una hit mancata
che se non altro si fa apprezzare per la velocità di esecuzione. Si continua sempre sulla stessa strada
con Got Some, un pezzo più accattivante rispetto al precedente, dove i Pearl Jam riprendono a
parlare di temi sociali e di dipendenza da sostanze stupefacenti, come ai vecchi tempi, ma Vedder e
compagni, ormai in pace con loro stessi, lo fanno con meno voglia, e si sente. Qualcosa del genere
te lo aspetti dai Foo Fighters, un pezzo scorrevole senza pretese, non dai Pearl Jam. Quindi, fin qui,
nulla di nuovo: mentre ascolto questo pezzo sono ormai convinto che questa band ripropone sempre
lo stesso album da anni, con qualche variazione di tema. Si continua ancora con The Fixer, un pezzo
sempre sulla falsa riga dei precedenti ma almeno più elaborato, vagamente new wave ma non
propio riuscito. L’atmosfera inizia a calmarsi ed assumere toni più impegnativi con Johnny Guitar,
ma è un pezzo senza né testa né coda, inutile insomma. Giunti quasi a metà disco, arriva
l’esperimento acustico di Vedder accennato prima, a conferma di come la struttura dell’album è
sempre la stessa da circa dieci anni. Just Breathe, un pezzo voce e chitarra accompagnato da un
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sottile flauto che fa da ricamo, è forse l’esperimento più riuscito dell’album. Un crescendo tutto
acustico dove Eddie pare particolarmente a suo agio. Non a caso, è un pezzo scritto dal leader dei
Pearl Jam per rievocare le atmosfere sottili create con il suo lavoro solista di qualche anno fa. Non
può essere una coincidenza il fatto che il pezzo da solista, sia il lavoro meglio riuscito. Forse il
destino dei vecchi spiriti rocker è mostrare maturità. Il pezzo seguente, Amongst The Waves, è una
ballata rock allegra e spensierata che seppur non ci regala nulla di nuovo, è molto orecchiabile e
rimane subito in testa, mentre Unthought Know è un mid tempo accompagnato dal piano che fa da
tappeto, un brano pop rock che evoca atmosfere di fraternità e libertà, un brano da pub, da ascoltare
fra amici al termine una serata trascorsa in piacevole compagnia; un ottima linea vocale del
frontman – a dire il vero, una delle poche note positive dell’album è il ritrovato Vedder che sembra
particolarmente coinvolto- guida un pezzo orecchiabile che però, tutto sommato non propone nulla
di nuovo: il mondo del pop rock è praticamente pieno di pezzi del genere, siamo sempre lì,
insomma: poca originalità. Si ritorna poi alle atmosfere di apertura disco con Supersonic: velocità
ma più aggressività e se non altro, questa volta il brano rimane davvero in testa. Qui si rivelano le
capacità esecutive della band nel suo complesso, che in brani del genere può spaziare molto
facilmente, un brano diretto e piacevole condito da un assolo di chitarra pregevole. L’atmosfera si
calma nuovamente con Speed Of Sound, un mid tempo questa volta swingato, dove riappare il
piano, anche se meno in evidenza. Un ottimo Vedder guida questo brano malinconico e riflessivo,
quasi folk rock, dove le schitarrate spensierate vengono messe momentaneamente da parte,
rimanendo in secondo piano, lasciando spazio a strumenti prettamente acustici che creano atmosfere
caratteristiche: un brano particolare ed evocativo, un qualcosa che non ti aspetti dai Pearl Jam ma
che in fondo, è un esperimento ben riuscito, a conferma che forse la strada da seguire è un’altra e
forse, prima o poi, il frontman della band di Seattle se ne renderà conto. Force Of Nature è invece
l’ennesimo pezzo pop rock radio-friendly, questa volta molto ispirato –forse troppo- dagli u2,
purtroppo dagli ultimi u2, brano che si lascia ascoltare ma con il quale si cade troppo facilmente
nella banalità, in linea con gran parte dell’intera opera insomma. L’unica differenza strutturare che
distingue quest’album dai suoi simili predecessori, è il brano di chiusura, The End. Non si tratta
della solita ballata o di uno smielato mid tempo ma, a sorpresa, di un nuovo pezzo acustico voce e
chitarra di Vedder, ancora molto influenzato dal suo lavoro solista; la conferma che deve essere
questa la via da seguire per il vecchio ragazzo che un tempo era uno dei manifesti del grunge.
L’Atmosfera si fa triste e nuovamente malinconica, un crescendo di archi e di strumenti orchestrali
che fanno da accompagnamento ad una chitarra acustica usata sapientemente. Ancora una volta,
Eddie si trova molto a suo agio e sembra cavarsela benissimo in questo genere.
In conclusione, si può affermare che quei scatenati ragazzi americani che volevano scuotere il
mondo sono maturati. È maturato il loro saper scrivere musica, è maturato il loro modo di eseguirla.
Ma i tempi sono cambiati e lo star system non concede eccezioni: per sfondare, devi vendere. I
Pearl Jam si sono adattati a questo stile di vita, proponendo da dieci anni lavori che non propongono
nulla di eccezionale ed originale. E Backspacer è un album concepito per essere ascoltato in
momenti di svago, in cui non si ha bisogno di prestare particolare attenzione a ciò che si ascolta, un
album da sottofondo. Potrebbe anche semplicemente essere però, che la creatività dei Pearl Jam
come gruppo, si sia esaurita circa dieci anni fa e che forse è arrivato il momento di dividersi per un
po', per esplorare nuovi territori e magari tornare un giorno, ma come ai vecchi tempi.
Una nota molto positiva è offerta da Eddie Vedder, che si trova in stato di grazia e che ha da poco
scoperto una nuova strada: quella acustica. Strada che tra l’altro, riesce a percorrere benissimo
anche da solo, come un veterano del genere, e chissà se presto non ci regalerà nuovi lavori solisti.
Insomma, se avete apprezzato gli ultimi lavori dei Pearl Jam, di sicuro gradirete anche Backspacer.
Se invece siete rimasti ancorati ai capolavori che furono, come Ten, restatene alla larga.
[5,7/10]
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Renato Ferreri
http://www.outune.net
19/09/2009
Sono passati tre anni dall'ultima release dei Pearl Jam, quell'album azzurro omonimo che trasudava
rabbia e rassegnazione, tre anni in cui molte cose sono cambiate, il volto dell'America si è tinto di
nero, si fatica ma si cerca di uscire dalla crisi finanziaria e mentre un certo Bruce “The Boss”
Springsteen ci ha fatto sapere di 'star lavorando al sogno' Vedder e soci, già compagni nel Vote for
Change, non sono stati da meno.
“Backspacer” è un disco breve, 37 minuti di musica più o meno, ma è altrettanto vero che la botte
piccola riserva sempre il vino migliore. La copertina ricorda quel mitico disco che fu “No code” e
forse qualcosa di quei suoni riecheggia anche in questo lavoro, intanto il produttore è lo stesso di
allora: Brendan O'Brien, che aveva lasciato i Nostri dopo “Yield”. I cambiamenti politici, di
etichetta, forse un ritrovato ottimismo per il futuro, si rispecchiano tutti in “Backspacer” che suona
tasti musicalmente più vicini al rock e al pop.
E' chiaro subito dall'apertura con “Gonna see my friend”, brano sorretto da un bel riff rock/grunge
sparato dove nel ritornello Eddie ci saluta con un 'buona sera' urlato. A seguire l'incalzante “Got
Some”, una classica Pearl Jam song dedicata al problema della droga. Il singolo apripista “The
Fixer” è un power pop con tanto di cori che nel contesto del disco non sfigura per niente, anzi ne
descrive bene l'atmosfera di fondo. Il messaggio è chiaro: se c'è qualcosa che non va voglio tornare
indietro e correggerlo, perché ci potrebbe essere una luce là in fondo da raggiungere.
Altro rock divertente e che vuole divertire con “Johnny guitar” mentre “Just Breathe” regala il
primo momento di pausa per un brano che avremmo potuto tranquillamente ascoltare in “Into the
wild”. Questa è poesia in musica, Vedder parla della morte e dell'amore con una delicatezza e una
profondità da brividi.
“Amongst the waves” ricorda musicalmente un po' “Given to fly” così come la successiva
“Unthought known” non può non far pensare a “Wishlist” almeno all'inizio, anche se poi il pezzo si
sviluppa per conto suo e inserisce nell'impianto strumentale anche il pianoforte.
“Supersonic” come dice il titolo è una corsa rock a 200 all'ora, mentre torna la riflessione in “Speed
of sound”; i Pearl Jam invecchiano e non vogliono dimenticare nulla del passato ma stavolta forse
c'è una speranza, un sussurro che dalle tenebre risponde a domande profonde su eventi che sono
troppo veloci da ricordare.
In chiusura troviamo “Force of nature” un brano cadenzato, dal ritornello melodico e “The end”,
dove la voce leggera di Vedder porta all'orecchio ancora una riflessione su temi pesanti, ma
affrontati con la cruda consapevolezza di far parte del bagaglio di tutti gli esseri umani.
“Backspacer” è sicuramente un disco più solare rispetto ad altri lavori dei PJ ed è anche una cartina
da tornasole della maturità a cui questa band è arrivata. Questa ricerca continua di un equilibrio
d'intenti, con tutto il suo bagaglio di sofferenza, regala oggi alla musica un piccolo grande gioiello.