Samuel Beckett e il Teatro dell’Assurdo, ovvero l’idea di teatro del secondo Novecento Il teatro dell’Assurdo nasce come un’idea di teatro d’avanguardia in opposizione al vecchio teatro naturalistico e borghese del Novecento europeo. L’irlandese Beckett (Dublino 1906 – Parigi 1989) assieme al romeno Ionesco, furono i massimi esponenti di questa avanguardia storica che, nella Parigi degli anni cinquanta, portarono alle estreme conseguenze la crisi del teatro tradizionale a partire da una nuova concezione della drammaturgia. Il teatro dell’assurdo non espone tesi, non discute di impostazioni ideologiche, non cerca di rappresentare le avventure dei suoi personaggi, ma il suo fine è quello di presentare il «vuoto esistenziale» dell’individuo. La conversazione si svolge come un vuoto conversare, un succedersi di frasi, spesso illogiche, per ingannare l’attesa. In sostanza una commedia del teatro dell’Assurdo è la proiezione di un’insieme di immagini poetiche destinate a riflettere il mondo personale dell’autore. Tutta l’opera di Beckett è percorsa dall’idea di una condizione umana segnata dalla sofferenza e dall’assenza di senso della vita stessa. Dunque, se da un lato c’è la consapevolezza della «infinita vanità del tutto», dall’altro c’è la persuasione che la vita è una punizione per la colpa originaria di essere nati. Per i personaggi di Beckett «la morte si sconta vivendo». Aspettando Godot, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp, Giorni Felici rappresentano il contributo più originale della letteratura drammatica europea della seconda metà del Novecento, senza le quali la nostra idea di teatro non sarebbe la stessa. Beckett ci ha saputo dare una delle testimonianze più alte della riflessione sulla condizione umana della cultura europea del Novecento, e in più, una delle esperienze decisive sulla possibilità della forma drammatica. Finale di partita, o della tragedia dell’uomo nella società post-industriale. La regia di Finale di partita , pur rimanendo fedele allo spirito e al contenuto di verità poetica di Beckett, ha come presupposto di descrivere la realtà attuale in un modo non naturalistico, perché il naturalismo del teatro borghese italiano, vecchio, noioso e privo di qualità poetica e storica - da tempo immemore - non è più in grado di cogliere l’essenza stessa della realtà. Dunque la nostra regia - la tremenda responsabilità della regia come lavoro artistico - vuole sottolineare sia i momenti metateatrali dello spettacolo cioè i momenti in cui la finzione teatrale si svela come finzione - sia il gioco creato dall’attore, fitto di gags che discendono direttamente dalla commedia dell’Arte, dal teatro di varietà e dalle comiche del cinema muto. Tuttavia è una comicità che assume connotati grotteschi e che si innesta sulla tragicità della situazione. E poiché nulla è più grottesco del tragico, poco importa se il pubblico ride. Infatti, Nell, personaggio di Finale di partita, dichiara che «niente è più comico dell’infelicità». Dunque, se da un lato la nostra regia punta sulla teatralità del gioco, con i suoi ritmi e la sua musicalità, dall’altro si avvale di valenze metaforiche, simboliche, magiche che non possono essere ignorate; cosicché, allo spettacolo stesso, vengono conferite una ricchezza di implicazioni che vanno ben al di là del dato di partenza. L’assurdo, che è la cifra dello spettacolo, evidenzia come questa categoria coincida con la scomparsa del significato del linguaggio. Se la conversazione si rivela un inganno è perché gli individui non possono comunicare conversando. Noi abbiamo scelto questo testo perché lo abbiamo ritenuto necessario. Dico necessario perché pensiamo che il teatro che si fa, debba essere sempre necessario, per l’uomo, per la società e il suo tempo. Dunque, necessità etica e responsabilità artistica vanno verso il contenuto di verità di un’opera, che deve risultare comprensibile all’uomo di oggi, che deve arricchirlo, farlo pensare e vivere più intensamente. Il valore della negatività di Beckett, costituisce un antidoto contro il cinismo, il materialismo, l’avidità della nostra epoca. In un mondo preoccupato unicamente del denaro e del successo a qualunque costo, desideroso soltanto di essere confermato nelle proprie volgarità ed egoistiche certezze, la negazione beckettiana ci costringe in qualche modo a ripartire da zero, a ripensare al senso del mondo in cui viviamo, alla luce della sua laica spiritualità. Il Regista Sebastiano Salvato Sebastiano Salvato – Regista Laureato in Storia dell’ Arte e Scenografia a Palermo, Salvato inizia l’attività teatrale al Teatro Rajatabla di Caracas fondato dal più grande regista latinoamericano, Carlos Giménez che fu allievo di Strehler. Come assistente di Giménez, partecipa alle numerose tournée internazionali nel continente Americano ed Europeo, nonché all’organizzazione dei Festivals Internazionali di Teatro di Caracas. E’ membro fondatore del “Centro de Directores para el Nuevo Teatro” e lì debutta come regista. Studia musica al Conservatorio italiano di Caracas. Collabora con il Teatro dell’Opera “Teresa Carreño”, in principio come regista assistente di José Ignacio Cabrujas e di Roman Chalbeau, nonché come docente di arte scenica per il “Centro de Capacitación Operística” dello stesso Teatro. Dunque allestisce diverse opere come regista titolare. Insieme alla direttrice d’orchestra Isabel Palacios fonda la “Compañia de Opera de Cámara de la Camerata de Caracas” . Inaugura il Festival Goldoni con “I due gemelli veneziani” in occasione dell’apertura del Teatro Rómulo Gallegos e con la stessa opera partecipa al Festival di Manizales in Colombia. Nel 1990 ottiene il premio Nazionale di Teatro “Juana Sujo” per la regia “Ifigenia in Aulide” di Euripide. Ha messo in scena più di trenta spettacoli di prosa e di lirica, in Venezuela, Italia, Russia, Cipro, Turchia, Grecia, Uzbekistan. Nei suoi lavori di maggiore proiezione internazionale citiamo le tre edizioni russe di “Arlecchino, servitore di due padroni” di Goldoni, messi in scena nei principali palcoscenici di Kiev, Tashkent, San Pietroburgo, per i quali ottiene premi e riconoscimenti. Oltremodo, ottiene dalla Municipalità di Tashkent il premio come migliore regista straniero e per aver realizzato nei paesi dell’ex URSS la prima assoluta in lingua russa de “I Giganti della Montagna “ di Pirandello, per il Teatro Maxime Gorkij di Tashkent, in Uzbekistan. A Cipro, mette inscena vari spettacoli, nel quadro del programma “peacekeeping” promosso dall’Ambasciata d’Italia, l’Unione Europea, e la Nazioni Unite. Sul versante lirico è stato assistente del regista Vittorio Rossi per le opere “Aida” e “Nabucco” all’Arena di Verona e al Palazzo dello Sport di Parigi Bercy. Ha dato conferenze sul teatro latinoamericano, italiano e operistico nelle Università straniere. Nel 2004 fonda a Roma il “Centro Euro-latinoamericano di Cultura”, realtà viva e operante,che ha come scopo la promozione del Teatro Latinoamericano in Italia. Ha messo in scena testi di Moliere, Machiavelli, Aristofane, Euripide, Goldoni, Pirandello, Brecht, Beaumarchais, Bruckner, José A. Rial, Cervantes, Tabucchi. Sul versante lirico, ha allestito opere di Verdi, Puccini, Rossini, Donizetti, Scarlatti.