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Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
DALLE FIGURE DELITTUOSE ASSOCIATIVE ALLA
NOZIONE DI CRIMINALITÀ ORGANIZZATA
Salvatore Aleo
Professore ordinario di Diritto penale nell’Università di Catania
ABSTRACT: La materia che noi qualifichiamo della criminalità organizzata è stata oggetto nella storia della
codificazione delle figure delittuose autonome associative ed è stata considerata, così come sempre la categoria
del reato politico, difforme rispetto ai principi definiti generali ordinari del diritto e della responsabilità penale:
in ragione, l’una, della particolare pericolosità costituita dalla forma associativa, l’altra, della particolare
entità dei beni tutelati esposti a rischio. La qualificazione di criminalità organizzata risale agli anni settanta del
secolo da poco trascorso, sia per la diffusione ed entità dei fenomeni sia per l’affermazione e la diffusione della
teoria e delle nozioni generali dell’organizzazione.
La materia dei delitti associativi, della responsabilità penale a titolo associativo, tradizionalmente considerata
carente di tassatività e determinatezza, viene riempita di contenuti e di significati, della definizione, della prova
e dell’argomentazione, quindi della motivazione dei provvedimenti, dall’attraversamento della teoria generale
dell’organizzazione, e quindi dalla epistemologia della complessità. L’organizzazione è peculiare, invero
costituisce la peculiarità, della stessa categoria del reato politico, che viene parimenti arricchita e pure
ridefinita dalla teoria dell’organizzazione
Oggi si pone il problema di un approccio di carattere (il più possibile) generale e sistematico, dal punto di vista
penalistico, alle forme e ai fenomeni di criminalità organizzata, sia comune che politica: un approccio che
consenta il dialogo tra i vari sistemi giuridici e istituzionali, dei diversi Stati, differenti in modo particolare in
queste materie. Questo approccio presuppone il collegamento delle nozioni generali dell’organizzazione (diffuse
nei più diversi ambiti e settori scientifici) con le nozioni penalistiche ordinarie, le une e le altre comuni e fruibili
fra le diverse culture
PAROLE CHIAVE: Criminalità organizzata transnazionale; Convenzione di Palermo
1. Le figure delittuose associative nella nostra cultura giuridica. Matrici,
costruzioni, giustificazioni e obiezioni
La problematica che oggi viene definita della criminalità organizzata è oggetto nella
codificazione delle figure delittuose autonome associative.
L’autonomia delle figure delittuose associative, di questa responsabilità penale rispetto
a quella dei delitti oggetto e scopo dell’associazione, ha avuto sempre giustificazione nella
funzione di anticipazione, ovvero retrocessione, della soglia della risposta e della
responsabilità penale, in confronto a quella ordinaria dei delitti, in considerazione della
particolare pericolosità sociale costituita dall’associazione, diretta verso finalità delittuose. In
questa giustificazione è implicita la deroga del principio generale di non punibilità del mero
accordo (di commettere un delitto) per la particolare pericolosità dell’accordo associativo.
Un’altra difformità del delitto associativo, rispetto ai principi generali del diritto e della
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responsabilità penale, riguarda le carenze di determinatezza (e quindi di tassatività) di tali
nozioni di responsabilità: che fanno ritenere le medesime inaccettabili negli ordinamenti
inglese e statunitense.
In fondo questa giustificazione è parallela di quella dei criteri di punibilità dei delitti
politici, in termini di deroga dei principi generali del diritto e della responsabilità penale
(punibilità dell’istigazione, dell’accordo e dell’associazione, carenze di determinatezza delle
nozioni del reato politico), in considerazione della particolare entità dei beni tutelati ed esposti
a rischio nella categoria dei delitti politici.
La problematica dei delitti associativi è fortemente intrecciata con quella dei delitti
politici: in primo luogo perché nella categoria dei delitti politici sono molte le figure
delittuose associative; in secondo luogo, perché le stesse nozioni di ordine pubblico, di pace
pubblica, di pubblica tranquillità, per indicare l’oggetto della tutela e dell’offesa nei delitti di
associazione per delinquere, riguardano l’insieme della società, la stessa dimensione del
contratto sociale, fino al punto che l’associazione mafiosa è considerata come un delitto
politico (che contraddice le condizioni d’ordine e di sicurezza della “polis”, ovvero quale
“istituzione” antistatale) e che nel nuovo codice penale francese l’associazione di malfattori è
stata inserita fra i «crimini e delitti contro la nazione, lo Stato e la pace pubblica».
Lungo la storia, nella codificazione, delle figure delittuose associative1, possono essere
fatte rilevare due tendenze diverse, contraddittorie.
Una tendenza, che possiamo definire di tipo sociologico, è quella di rilevazione e
definizione della figura delittuosa con riferimento diretto a un fenomeno di delittuosità
appreso nella sua dimensione sociale e storica concreta. Già l’associazione di malfattori fu
prevista nel codice napoleonico con riferimento diretto al fenomeno del banditismo, delle
bande armate e violente (degli chauffeurs) che aggredivano e depredavano i passeggeri. Si
pensi poi al modo in cui sono sorte nel nostro ordinamento le figure delittuose delle
associazioni sovversive (nel codice del 1930, con riferimento diretto e dichiarato ai
movimenti comunisti, socialisti ed anarchici), di associazione contrabbandiera (1896), di
associazione per la fabbricazione clandestina di spirito (1933), di ricostituzione del partito
1
Ho sviluppato questa analisi nel volume Sistema penale e criminalità organizzata. Le figure delittuose
associative, Milano, 1999, 3ª ed..
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fascista e di banda fascista e monarchica (1947), di associazione razzistica (1975), di
associazione per delinquere relativa ai delitti sugli stupefacenti (1975) e poi associazione
finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope (1990), di associazione terroristica
(1979-80) poi anche internazionale (2001, dopo le Torri Gemelle), di associazione di tipo
mafioso (1982), di associazioni segrete (1982, nella legge di scioglimento della loggia
massonica P2), di associazione per delinquere diretta a commettere i delitti di schiavitù e
tratta di persone (2003).
Siamo oltre la semplice, banale, osservazione che qualsiasi nozione giuridica esprime
un dato rilevato nella realtà sociale e storica concreta, perché qui le figure corrispondono alla
emersione e dimensione di un fenomeno sociale aggregato, in atto e in via di svolgimento (e
cioè non solo di una determinata tipologia, astratta, di singoli eventi): fenomeno che va
contrastato; donde la logica emergenziale.
Una diversa tendenza, che possiamo definire di tipo tecnico-giuridico, è stata quella alla
progressiva astrazione e generalizzazione, dall’originaria figura dell’associazione di malfattori
alla figura dell’associazione per delinquere nella sua dimensione attuale.
Nel codice penale napoleonico (1810)2, fra i «Crimini, e Delitti contro la pace
pubblica», e nella medesima sezione con i delitti di vagabondaggio e di mendicità, fu previsto
il crimine di «Associazione di malfattori». Art. 265: «Ogni associazione di malfattori, diretta
contro le persone o le proprietà, è un crimine contro la pace pubblica». Art. 266: Questo
crimine esiste col solo fatto dell’organizzazione delle bande o di corrispondenza fra esse ed i
loro capi o comandanti, o di convenzioni tendenti a render conto, o a distribuire o dividere il
prodotto dei misfatti». Art. 267: «Quando questo crimine non fosse stato accompagnato né
susseguito da alcun altro, gli autori, i direttori dell’associazione, ed i comandanti in capo o
sottocomandanti di queste bande, saranno puniti coi lavori forzati a tempo». Art. 268:
«Saranno punite colla reclusione tutte le altre persone incaricate di un servizio qualunque in
queste bande, e quelle che avranno scientemente e volontariamente somministrato alle bande
o alle loro divisioni delle armi, munizioni, istromenti atti al crimine, alloggio, ritirata o luogo
di unione».
2
Riporto dall’Edizione ufficiale del Codice dei delitti e delle pene pel Regno d’Italia, Milano, 1810.
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Nel codice napoleonico, fra i «Crimini contro la sicurezza interna dello Stato», vi erano
quelli di attentato, cospirazione, bande armate.
Nel codice penale toscano (1853)3 non furono previste le bande armate e nel titolo «Dei
delitti contro gli averi altrui» fu posta la previsione dell’art. 421: «§ 1. Quando tre o più
persone hanno formato una società, per commettere delitti di furto, di estorsione, di pirateria,
di truffa, di baratteria marittima, o di frode, benché non ne abbiano ancora determinata la
specie, od incominciata l’esecuzione; gl’istigatori e i direttori son puniti con la carcere da tre
mesi a tre anni, e gli altri partecipanti soggiacciono alla medesima pena da un mese ad un
anno». «§ 2. E se i membri della detta società hanno, in sequela di essa, tentato o consumato
un delitto; la pena di questo concorre con quella stabilita dal § precedente, secondo le norme
degli art. 72 e seguenti». «§ 3. In tutti i casi, contemplati dai precedenti §§ 1 e 2, si applica
ancora la pena accessoria della sottoposizione alla vigilanza della polizia».
Rispetto alla previsione del codice napoleonico della “banda” dei “malfattori”, qui si
previde molto più astrattamente la “società” formata da “tre o più persone” per commettere i
delitti “contro gli averi altrui”, altresì ponendone in evidenza la dimensione preparatoria e
stabilendone pene assai modeste. Nel codice napoleonico era poi prevista precipuamente la
reclusione per “tutte le altre persone incaricate di un servizio qualunque in queste bande, e
quelle che avranno scientemente e volontariamente somministrato alle bande o alle loro
divisioni delle armi, munizioni, istromenti atti al crimine, alloggio, ritirata o luogo di unione”.
CARRARA, che – come vedremo – fu contrario ai delitti di bande armate, tracciò questa
teoria dell’associazione delittuosa, in funzione di anticipazione, della soglia della risposta e
della responsabilità penale, in deroga del principio di non punibilità del mero accordo di
commettere un delitto, in considerazione della particolare pericolosità sociale costituita
dall’associazione, diretta verso finalità delittuose; e definì (isolò) e richiese la prova del «fatto
dello associarsi».
Sottolineando le profonde differenze della previsione del codice toscano rispetto
all’associazione di malfattori dei codici napoleonico, parmense e sardo, CARRARA (nel 1884,
nella fase di elaborazione del codice ZANARDELLI) distinse proprio la nozione di
3
Codice penale pel Granducato di Toscana, Firenze, 1853.
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responsabilità per il «fatto della associazione»: «Sta bene che in tutte queste legislazioni il
solo fatto della associazione abbia una pena sua propria. Sta bene che si abbia sempre un
delitto in sé perfetto consumato col solo associarsi anche prima di qualunque altra lesione di
diritto. Sta bene che per ciascuno dei membri della associazione i quali commettano delitti
speciali, debba infliggersi la pena propria dello associarsi, oltre le pene speciali per gli altri
delitti ai quali abbia ciascuno di loro preso parte. Fin qui la somiglianza tra figura e figura può
illudere. Ma la illusione bisogna che si dilegui quando si vegga che a parallelo della pena del
carcere minacciata tra noi contro i capi, da tre mesi a tre anni, si trova nelle altre legislazioni
la galera fino a venti anni»4.
Dopo avere rilevato che «noi nella nostra Provincia non abbiamo tradizioni né di
briganti, né di bande, né di guerille, né di conventicole», CARRARA osservava che «Nella
figura dell’art. 421 [del codice toscano] la forza fisica oggettiva del malefizio tutta si
estrinseca nel vincolare a noi la volontà di altre due persone le quali hanno stipulato a favor
nostro un patto di commettere usurpazioni sulla proprietà altrui; di commetterle in beneficio
comune e di parteciparne il lucro con noi. Qui tutto finisce. La forza fisica oggettiva del reato
toscano di associazione a delinquere tutta si esaurisce in un effetto morale. Nessuno
abbandona il domicilio paterno. Non vi è provvista di armi; non vi è riunione di uomini in
attitudine minacciosa. È una società in partecipazione nella quale ciascuno opera
isolatamente, salvo le facilitazioni e i sussidi che l’occasione potrà richiedere. [...] È una
associazione che vuole essere punita eccezionalmente perchè la sua costituzione aggredirà i
diritti, possibilmente, di tutti i consociati, e non limitativamente i diritti di alcuni determinati
cittadini come nell’accordo ad un delitto determinato». (...) «Nelle bande, al contrario, vi è
ben altro apparato di forza fisica oggettiva. Si procede uniti in attitudine da soverchiare
chiunque s’incontra, da soverchiare qualunque resistenza; ed è questa la forza fisica oggettiva
del malefizio che lo denatura e lo rende enormemente più grave e più pauroso»5.
CARRARA, L’associazione a delinquere secondo l’abolito codice toscano, in MANCINI (dir.),Enciclopedia
giuridica italiana, Milano, 1884, p. 1117.
5
Ivi, pp. 1117-1118.
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In questa rappresentazione, la banda è costituita dalla effettività dell’attività sia
organizzativa che delittuosa, l’associazione dalla dimensione (organizzativa) meramente
intellettuale dello accordo (con una dimensione e almeno una proiezione di stabilità).
«Debbo dunque rettificare – continua CARRARA – ciò che dissi in critica dello illustre
PICCIONI al § 2094 del mio Programma. Il PICCIONI aveva scritto che il reato previsto dal
nostro art. 421 non era contemplato né dal codice francese, né dagli altri codici italiani; ed io
per un precipitato giudizio dissi equivocata questa opinione del mio maestro, perchè fui illuso
dalla somiglianza dei nomi. Migliori studi mi hanno disingannato. E dico ancora io col
venerato maestro che il delitto di associazione a delinquere è un delitto di creazione toscana,
e che quello che altrove (Francia, Parma, Sardegna) corre sotto il titolo di associazione di
malfattori è un titolo sostanzialmente differente nelle forze che lo costituiscono; è un titolo di
antichissima data, ma che non ha ragione d’esistere come titolo speciale bastando all’uopo i
titoli di violenza pubblica, di furto violento, ed altri derivanti dalla specialità dei diritti
aggrediti i quali vengono per tal guisa a rientrare tutti nelle rispettive nozioni scientifiche
aggravabili per le circostanze tutte soggettive od oggettive che ricorrono nei singoli casi». In
conclusione, secondo CARRARA, «La società civile ha la sua ragione di esistere nella necessità
della difesa dei diritti di tutti. Una società che nel suo seno voglia costituirsi col fine
determinato di offendere i diritti di tutti, è in perfetto antagonismo con la società civile, e
legittimamente questa ne decreta la repressione, perché nel fatto solo della sua costituzione
trova una forza fisica oggettiva sufficiente a renderne legittima la repressione. [...] Il codice
toscano [...] in quegli atti preparatori non ha già punito un tentativo, ma ha punito un delitto
consumato e perfetto»6.
Sembra utile riportare le considerazioni con cui CARRARA aveva contestato la
costruzione del delitto autonomo “politico” di banda armata, in seno alla Commissione del
1876 per l’elaborazione del codice penale dell’Italia unita: «Non possiamo consentire nelle
disposizioni che si riferiscono alle bande. Il codice penale francese, per quanto è a nostra
memoria, fu il primo a farne una speciale figura di delitto politico, staccandola senza bisogno
dal genere suo nel quale era naturalmente compresa. Ma l’Italia non è Francia né ha la Vandea
6
Ivi, p. 1118.
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dalla quale guardarsi. E se per avventura si rivolta il pensiero alle provincie meridionali e
sicule non fu esatto il giudizio. Il brigantaggio in quelle provincie si metta pure la maschera
che crede possa più giovare all’equivoco. Non è un reato politico. Sotto la maschera del
brigante vi è l’uomo, e l’uomo brigante è un volgare malfattore. Del resto anche le
associazioni dei briganti in quanto volessero e potessero preordinarsi a scopo politico
necessariamente rientrerebbero nella nozione generale dell’attentato e ne esaurirebbero gli
estremi»7.
È noto, altresì, come CARRARA abbia omesso di illustrare, nel suo Programma del corso
di diritto criminale, la categoria dei delitti politici, in quanto non riducibili alla «tela di
principii assoluti e costanti, attorno ai quali come carne sulle ossa si avvolge la dottrina del
giure punitivo», e definiti, piuttosto che dalle «verità filosofiche», appunto razionali assolute e
universali, dalla «prevalenza dei partiti e delle forze», ovvero anche dalle «sorti di una
battaglia», cioè dalla contingenza e mutevolezza della storia e delle vicende politiche. «Perchè
non espongo questa classe» è proprio il titolo di quest’ultimo capitolo del Programma8.
CARLO FIORE, nel riferire le posizioni di CARRARA in tema di delitti politici ed
associativi, ha osservato che «In effetti, sia nella previsione delle varie ipotesi della
cospirazione politica, sia nell’incriminazione della condotta degli associati per delinquere, lo
Stato liberale operava in via di deroga ad un altro dei sacri principi del diritto penale
ottocentesco [oltre a quello, cioè, di «tassatività» della previsione legale], vale a dire la regola
per cui è assoggettabile a pena solo quell’atto che costituisce un “principio di esecuzione” del
reato, e non un mero atto di preparazione»9.
Il «commencement d’exécution», va ricordato, fu il criterio adottato nella definizione del
tentativo del codice napoleonico, poi seguito negli altri codici, e da cui nacque la distinzione
tradizionale fra atti esecutivi punibili e atti preparatori in generale non punibili. Questa
impostazione, e questo criterio, vanno considerati prefigurati alla condotta del singolo
individuo, che in generale nella fase esecutiva diventa riconoscibile nella direzione delittuosa
7
CARRARA, Osservazioni e proposte delle sottocommissioni, Roma, 1877, pp. 9-10, riportato da INSOLERA,
L’associazione per delinquere, Padova, 1983, pp. 22-23.
8
CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, vol. VII, 1871, 4ª Prato, 1883, pp. 639 ss.
9
FIORE, Il controllo della criminalità organizzata nello Stato liberale: strumenti legislativi e atteggiamenti della
cultura giuridica, in Studi storici, 1988, p. 423.
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e altresì è più scarsamente suscettibile del cambiamento della destinazione. La diversa
impostazione, e i diversi criteri di definizione, del tentativo del codice ROCCO vanno
considerati anche alla stregua della condotta plurisoggettiva: che dalla pluralità e sinergia
delle diverse condotte è più facilmente riconoscibile anche prima della fase esecutiva ed è più
scarsamente suscettibile del mutamento della destinazione. Difatti, solo nel codice ROCCO è la
previsione, dell’art. 115, di esclusione della punibilità per il mero fatto intellettuale
dell’accordo di commettere un reato: come limite formale inferiore, cioè, alla punibilità
definita a titolo di tentativo.
Al contrario, in confronto alla costruzione del tentativo secondo il criterio di “principio
di esecuzione” si è posto poi il problema di costruire la disciplina del complotto e della
cospirazione: il complotto e la cospirazione10 dei delitti politici nei codici francese, tedesco,
sardo-italiano e ZANARDELLI, il complotto di omicidio nel codice tedesco, la conspiracy dei
reati di maggiore gravità nel sistema anglosassone.
Merita di essere ricordato come nella Riforma della legislazione criminale toscana del
1876 il granduca Pietro Leopoldo, di fronte alla vaghezza dei delitti di lesa maestà, e
nell’impossibilità di definire questa categoria con sufficiente determinatezza, avesse deciso
radicalmente di abolirla. La disposizione dell’art. LXII della riforma leopoldina era appunto:
«Ordiniamo che siano tolte e cassate tutte le leggi che con abusiva estensione hanno costituito
e moltiplicato i delitti di lesa maestà come provenienti la maggior parte dal dispotismo
dell’Impero Romano, e non tollerabili in veruna ben regolata società. Ed a togliere un tale
abuso, abolito ogni special titolo di delitto di così detta lesa maestà, abolite come già si è
prescritto generalmente di sopra all’art. XXVII tutte le prove privilegiate anco in materia di
simili delitti ed abolita affatto la criminalità in tutte quelle azioni, che in sé non delittuose, lo
sono diventate in questa materia solo per la legge, tutte le altre dovranno considerarsi come
delitti ordinari nella loro classe rispettiva, più o meno qualificati secondo le circostanze, cioè
Sono termini corrispondenti: il termine complot del codice napoleonico fu tradotto cospirazione nell’edizione
ufficiale per il Regno d’Italia, cit., e così sono rimasti rispettivamente nella cultura francese e nella nostra.
Komplott è il termine del codice tedesco.
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furti, violenze, ecc. e come tali castigarsi non considerata la gravezza maggiore aggiuntavi
dalla legge col pretesto di lesa maestà»11. Questa esperienza è rimasta unica.
La tendenza alla generalizzazione della figura dell’associazione per delinquere ebbe un
passaggio fondamentale, di carattere sistematico, nel codice ZANARDELLI. La previsione
«Dell’associazione per delinquere» fu collocata nel titolo «Dei delitti contro l’ordine
pubblico».
Secondo la formulazione dell’art. 248, comma primo, «Quando cinque o più persone si
associano per commettere delitti contro l’amministrazione della giustizia, o la fede pubblica, o
l’incolumità pubblica, o il buon costume e l’ordine delle famiglie, o contro la persona o la
proprietà, ciascuna di esse è punita, per il solo fatto dell’associazione, con la reclusione da
uno a cinque anni».
Erano così indicati tutti i titoli del libro secondo del codice, nell’ordine in cui erano
previsti nel codice (compresi i delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie); tranne:
a) i delitti contro la sicurezza dello Stato, per i quali erano previste le figure associative
specifiche, corrispondenti alle nostre attuali di cospirazione politica e di banda armata, fra le
disposizioni comuni a quel titolo; b) i delitti contro la pubblica amministrazione (perché già
allora i legislatori ritenevano che i pubblici amministratori non possano costituire
un’associazione per delinquere, ovvero siano esenti dalla configurazione di tale delitto?); c)
gli stessi contro l’ordine pubblico, per i quali era prevista una figura delittuosa associativa
specifica (art. 251), da cui poi ha tratto origine la figura delle associazioni sovversive dell’art.
270 del codice ROCCO.
Secondo gli altri commi dell’art. 248, «Se gli associati scorrano le campagne o le
pubbliche vie, e se due o più di essi portino armi o le tengano in luogo di deposito, la pena è
della reclusione da tre a dieci anni». «Se vi siano promotori o capi dell’associazione, la pena
per essi è della reclusione da tre a otto anni, nel caso indicato nella prima parte del presente
articolo, e da cinque a dodici anni, nel caso indicato nel precedente capoverso». «Alle pene
stabilite nel presente articolo è sempre aggiunta la sottoposizione alla vigilanza speciale
dell’Autorità di pubblica sicurezza».
11
Il testo di questa disposizione è riportato da PADOVANI, Bene giuridico e delitti politici. Contributo alla critica
ed alla riforma del titolo I, libro II, c.p., in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, p. 7.
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La previsione dell’art. 249 era che «Chiunque, fuori dei casi preveduti nell’articolo 64
[la disciplina generale «Del concorso di più persone in uno stesso reato», e dunque fuori dei
casi che definiamo di concorso eventuale o esterno], dà rifugio o assistenza, o somministra
vettovaglie agli associati, o ad alcuno tra essi, è punito con la reclusione sino ad un anno».
«Va esente da pena colui che somministri vitto o dia rifugio ad un prossimo congiunto».
Nell’art. 250 era prevista la circostanza aggravante che «Per i delitti commessi dagli
associati, o da alcuno di essi, nel tempo o per occasione dell’associazione, la pena risultante
dall’applicazione dell’articolo 77 [cumulo materiale per le ipotesi di concorso materiale,
anche nei casi della nostra continuazione] è aumentata da un sesto ad un terzo».
Questa circostanza aggravante era stata aggiunta nel codice sardo alla disciplina
dell’associazione di malfattori del codice napoleonico.
Va fatto rilevare, in proposito, come nella storia delle figure delittuose associative le
circostanze aggravanti dei delitti commessi da persone che fanno parte dell’associazione
delittuosa o conformemente alle finalità di questa siano state ripetutamente inserite ed
eliminate, a dimostrazione della difficoltà, e problematicità, della definizione dei contenuti, e
dei limiti, delle relative nozioni di responsabilità.
La tendenza alla astrazione e generalizzazione della figura dell’associazione per
delinquere ebbe compimento (termine) nella previsione dell’art. 416 del codice Rocco,
secondo cui «tre o più persone si associano per commettere più delitti», dunque di qualsiasi
tipo.
Secondo MANZINI (che fu fra i compilatori del codice), «“Più delitti” sono anche due
soli» ed «anche quando, dato il modo come gli associati concertarono o eseguirono i fatti, si
debba applicare la norma sul reato continuato (art. 81 capov.). Non così allorché un delitto è
considerato elemento costitutivo o circostanza aggravante d’altro delitto (reato complesso: art.
84), perché in tal caso la unificazione giuridica corrisponde all’unità di fatto. Perciò, se, ad
es., un’associazione si propone di commettere una sola estorsione, sarebbe evidentemente
assurdo ammettere che il suo scopo sia stato di commettere più delitti solo perché
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nell’estorsione (art. 629) è compresa, come elemento costitutivo, la violenza privata (art.
610)»12.
Da un canto, può rilevarsi come la figura (di parte speciale) dell’associazione per
delinquere abbia carattere generalissimo: riguarda i delitti (cosiddetti “scopo”) di qualsiasi
possibile tipologia ed entità.
Dal punto di vista tecnico, va fatto rilevare, anche, come nei codici ZANARDELLI e
ROCCO le figure di cospirazione politica e di banda armata siano state previste fra le
disposizioni generali e comuni al titolo dei delitti contro lo Stato.
D’altro canto, può pure osservarsi che quando fu compiuto tale processo (che abbiamo
definito di tipo tecnico-giuridico) di astrazione e generalizzazione della figura
dell’associazione per delinquere, ha avuto anche inizio la legislazione speciale, ovvero la
frammentazione legislativa, in questa materia: per la ovvia esigenza di articolazione e
differenziazione della materia in relazione alle tipologie dei fenomeni e dei delitti; perché
nella stessa unica figura dell’associazione per delinquere è difficile ricomprendere puramente
e semplicemente tanto i ladri di autoradio quanto i grandi mafiosi o trafficanti di droga.
Oggi abbiamo numerosissime figure delittuose associative autonome, distinte dai
singoli delitti che costituiscono l’attività delle associazioni, nonché le circostanze aggravanti
di tali delitti realizzati conformemente alle finalità dell’associazione. Si pone, ovviamente, un
problema di sistemazione, di sistematizzazione, e necessariamente di semplificazione.
Dietro la contraddizione fin qui rilevata sta il fatto che la problematica
dell’associazione, ovvero dell’organizzazione, delittuosa, ha una dimensione di carattere
generale, e che può quindi essere costruita come di parte generale del diritto penale, ed una di
carattere speciale (secondo il tipo di fenomeni e di delitti) ovvero comunque di parte speciale
del diritto penale.
Quella appena formulata può essere considerata un’indicazione per la definizione
penalistica della problematica della criminalità organizzata, e quindi per la sua
sistematizzazione.
12
MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. VI, Torino, 1946, p. 176.
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Quando fu introdotta nel nostro ordinamento la figura dell’art. 416 bis c.p.,
dell’associazione di tipo mafioso, da un canto, vennero rivolte due obiezioni: che la mafia è
una nozione sociologica e non è una nozione giuridica; che il giudice non deve lottare contro
nessuno, deve applicare la legge. D’altro canto, venne pure ritenuto, tanto dai fautori che dai
detrattori, che la figura serviva anche a superare ovvero semplificare problemi probatori
(aveva e poteva avere, cioè, una funzione di semplificazione probatoria) in confronto alla
figura dell’art. 416 c.p., cioè della comune associazione per delinquere.
Quest’ultima osservazione dev’essere contraddetta, sia in linea di principio che come
indicazione interpretativa. La figura dell’associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis
c.p. è in rapporto di specialità con quella dell’art. 416 c.p., nel senso che ogni associazione di
tipo mafioso è un’associazione per delinquere, mentre non è vero il contrario, un’associazione
per delinquere può bene non essere di tipo mafioso. Elemento di specialità è il metodo
mafioso, che qualifica e anzi presuppone l’attività delittuosa dell’associazione13. In generale,
sembra difficilmente contestabile che la prova e l’argomentazione dell’associazione di tipo
mafioso richiedano un complesso di elementi più corposo in confronto all’associazione per
delinquere. Il fatto che in concreto si possa dimostrare l’associazione mafiosa a prescindere
dalla correlazione con un’attività delittuosa mi pare in ogni caso contrario al sistema.
La mafia è certamente una nozione sociologica, ed è anche una nozione giuridica,
secondo la definizione contenuta nel terzo comma dell’art. 416 bis c.p. Sarebbe, a mio avviso,
superficiale, e non servirebbe a contraddire l’obiezione riferita sopra, la considerazione che
ogni nozione giuridica diventa tale in quanto sia stata precedentemente rilevata nella società.
La figura dell’associazione di tipo mafioso è descritta, infatti, in relazione al fenomeno
mafioso nella sua dimensione sociale e storica concreta: come dice anche la precisazione
dell’ultimo comma dell’art. 416 bis, che «Le disposizioni del presente articolo si applicano
L’utilizzazione del metodo mafioso per controllare l’economia ovvero le competizioni elettorali (anziché cioè
per commettere delitti, della formula definitoria dell’art. 416 bis comma terzo c.p.), da un canto, costituisce e
quindi qualifica ulteriormente la realizzazione delle figure delittuose di estorsione (consumata o tentata), d’altro
canto, presuppone la storia delittuosa (intrinseca) dell’associazione, costituita da delitti. L’associazione, in
funzione di un programma delittuoso, di soggetti aventi storie criminali proprie anteriori, in concreto, non
potrebbe costituire la forza di intimidazione adatta al controllo del territorio; costituirebbe la figura della comune
associazione per delinquere; costituirebbe la figura dell’associazione di tipo mafioso solo nella effettività dello
avvalersi della forza di intimidazione, e dunque nella realizzazione di delitti.
13
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anche alla camorra, alla ’ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente
denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo
perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso». Il riferimento
alle associazioni straniere è stato aggiunto con l’art. 11 lett. b-bis n. 4 d.l. 23.5.2008 n. 92,
conv. con modif. in l. 24.7.2008 n. 125; quello alla ’ndrangheta è stato aggiunto con l’art. 6
d.l. 4.2.2010 n. 4, conv. con modif. in l. 31.3.2010 n. 50.
Può dirsi che la nozione di organizzazione sia una nozione eminentemente sociologica,
perché riguarda una dinamica, un processo sociale in corso, nel corso del suo svolgimento. E
queste figure servono a cogliere la relazione del singolo con la dimensione organizzativa
dell’associazione delittuosa. In tal senso, può dirsi anche, sono figure senza (la descrizione
della) “fattispecie”: il modello normativo si riduce alla (necessaria ricostruzione della)
relazione, eminentemente di “partecipazione”, del singolo con la struttura dell’associazione.
Come abbiamo visto, tutte e comunque la stragrande maggioranza delle figure
delittuose associative hanno una dimensione marcatamente sociologica, a cominciare
dall’associazione di malfattori del codice napoleonico.
Vedremo come sia parallela e connessa a questa la problematica della “lotta” ovvero del
“contrasto” contro le forme e i fenomeni di criminalità organizzata: nel mentre le leggi stesse
sono state vieppiù intitolate, appunto, con i riferimenti alla lotta ovvero al contrasto contro le
organizzazioni criminali e le forme e i fenomeni di criminalità organizzata.
Vanno attraversate le osservazioni di FERRAJOLI su i «Lineamenti del diritto penale
speciale o d’eccezione» e «La mutazione sostanzialistica del modello di legalità penale»: «La
prima e più rilevante alterazione del modello classico di legalità penale nei processi
dell’emergenza consiste nella mutazione sostanzialistica – indotta dal paradigma del
“nemico” – di tutti e tre i momenti della tecnica punitiva» (vale a dire la definizione del
delitto, il processo, l’esecuzione della pena). «Questa mutazione colpisce innanzitutto la
configurazione della fattispecie punibile. E si esprime in un’accentuata personalizzazione del
diritto penale dell’emergenza, che è assai più un diritto penale del reo che un diritto penale del
reato. Le figure di qualificazione penale che hanno consentito questa personalizzazione sono
molte e svariate: i delitti associativi – banda armata, associazione sovversiva, insurrezione
armata contro i poteri dello stato, associazione di stampo mafioso o camorristico –, la
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categoria del concorso morale e l’aggravante della “finalità di terrorismo” quale disvalore
soggettivo dell’attività delittuosa: formule elastiche e polisense che si sono prestate, per la
loro indeterminatezza empirica e le loro connotazioni soggettivistiche e valutative, ad essere
usate come scatole vuote e a dare corpo a ipotesi sociologiche o a teoremi politicostoriografici, elaborati a partire dalla personalità degli imputati o da interpretazioni
dietrologiche e complottistiche del fenomeno terroristico o mafioso. Il fatto, in queste figure
normative, sfuma nel percorso di vita o nella collocazione politica o ambientale dell’imputato,
ed è come tale tanto poco verificabile dall’accusa quanto poco confutabile dalla difesa. E si
configura tendenzialmente come un reato di status, più che come un reato di azione e di
evento, identificabile, anziché con prove, con valutazioni riferite alla soggettività eversiva o
sostanzialmente antigiuridica del suo autore. Ne è risultato un modello di antigiuridicità
sostanziale anziché formale o convenzionale, che sollecita indagini sui rei anziché sui reati, e
che corrisponde a una vecchia e mai spenta tentazione totalitaria: la concezione ontologica –
etica o naturalistica – del reato come male quiapeccatum e non solo quiaprohibitum, e l’idea
che si debba punire non per quel che si è fatto ma per quel che si è»14.
Il collegamento di FERRAJOLI dei delitti associativi, e segnatamente di quello di
associazione mafiosa, alla categoria del delitto politico può essere considerato simmetrico
della qualificazione dei fatti di mafia, di camorra e delle altre organizzazioni similari quali
«fatti eversivi dell’ordine costituzionale», nella legge istitutiva della Commissione
parlamentare antimafia della XII legislatura (art. 3, comma secondo, l. 30.6.1994 n. 430),
quella presieduta da Violante.
«Il delitto politico, come stabilì due secoli fa l’art. 62 del codice penale di PIETRO
LEOPOLDO, ove non equivalga a un delitto comune, non si giustifica come speciale figura
criminosa. Ho già detto [...] della possibilità di sopprimere o al più di ricondurre a delitti
comuni, commessi o tentati, molti degli attuali delitti contro la personalità dello stato: i
vilipendi, gli attentati, i delitti associativi e di cospirazione. Aggiungo ora che non c’è ragione
per non includere tra i delitti comuni gli altri pochi delitti politici che, al pari dei peculati o
delle corruzioni, ledono concreti beni giuridici di carattere pubblico: come il sabotaggio, lo
14
FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 1989, 2ª ed., 1990, pp. 858-859.
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spionaggio, l’usurpazione o l’impedimento di pubbliche funzioni. Quanto ai rimanenti delitti
politici, nella misura in cui hanno per oggetto ambigue ed astratte entità come “la personalità”
o l’“interesse politico” dello stato, non sono cosa diversa dagli antichi delitti di lesa maestà e
non se ne giustifica, ma ne va anzi esclusa, la punizione. Questa inconsistenza e vaghezza del
loro oggetto giuridico rimanda infatti inevitabilmente alla figura del tipo d’autore. E
comporta, come l’esperienza insegna, una distorsione sostanzialistica e soggettivistica delle
fattispecie, una perversione inquisitoria del processo penale e una connotazione del reo come
nemico che deve restare assolutamente estranea allo stato di diritto».
«Ne consegue che per il diritto non devono esistere delinquenti politici ma solo
delinquenti comuni: nel duplice senso che nessun fatto non contemplato come delitto comune
dev’essere penalizzato in ragione esclusiva del suo carattere “oggettivamente politico”, e
nessun delitto dev’essere trattato diversamente dagli altri in ragione del carattere
“soggettivamente politico” delle sue motivazioni. Sotto il primo profilo, ogni penalizzazione a
titolo di delitto “politico” si risolve nella tutela eccessivamente anticipata di figure di pericolo
astratto o presunto in contrasto con il principio di offensività, o anche, come accade nei delitti
associativi, in una duplicazione della responsabilità penale già fatta valere per delitti comuni,
come la detenzione o il porto di armi, gli atti di violenza commessi o tentati oppure il
concorso nella loro commissione o progettazione. Sotto il secondo profilo è ingiustificata e
pericolosamente arbitraria qualunque forma di discriminazione sulla base del tipo d’autore o
delle motivazioni del fatto. Ciò non vuol dire, ovviamente, che la personalità dell’autore e le
sue motivazioni politiche non debbano avere rilevanza sul piano dell’equità, cioè ai fini della
comprensione della specificità del fatto e della valutazione della sua gravità. E neppure
esclude che alle motivazioni politiche del delitto sia data rilevanza ai fini del divieto di
estradizione o di quei provvedimenti per loro natura straordinari che sono le amnistie e gli
indulti. Ciò che si esclude è solo che la natura “politica” del delitto possa giustificare la
configurazione di fattispecie penali speciali, o alterazioni legali della misura della pena o
peggio procedure speciali o eccezionali.
Lo stesso discorso vale ovviamente anche per le altre figure di delitti e di delinquenti
speciali, parimenti riconducibili a complessive fenomenologie criminali – il brigantaggio, la
mafia, la camorra – e per di più neppure caratterizzate da una specificità in astratto dei beni
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protetti. Anche l’espulsione dal diritto penale di simili tipologie d’autore risponde a una
garanzia di certezza contro le perversioni sostanzialistiche e inquisitorie, nonché ad
un’elementare esigenza di uguaglianza. Si tratta infatti di figure informate al paradigma
costitutivo, e quindi contrarie al carattere esclusivamente regolativo che devono avere le
norme penali. Naturalmente, anche in questi casi la natura mafiosa o camorristica di un delitto
può essere considerata come un connotato particolarmente grave in sede di comprensione e di
valutazione equitativa del fatto. Ma neppure in questi casi si giustificano figure di reato
speciale, come è tipicamente, nel nostro ordinamento, l’associazione di tipo mafioso prevista
dall’art. 416 bis del codice penale in luogo della normale associazione a delinquere. Anche la
mafia, come il terrorismo, deve e può ben essere fronteggiata con i mezzi penali ordinari»15.
2. I diversi profili funzionali concreti delle figure delittuose associative
La giustificazione tradizionale della funzione delle figure delittuose associative e la
corrispondente ricostruzione del contenuto autonomo di questa forma di responsabilità penale
nell’anticipazione della soglia della risposta e responsabilità penale, in confronto a quella
ordinaria
dei
delitti,
in
considerazione
della
particolare
pericolosità
costituita
dall’associazione, diretta verso finalità di tipo delittuoso, lascia perplessi, appare in buona
misura contraddetta dalla realtà, ovvero abbastanza marginale in confronto alla realtà, sia
processuale, sia criminologia.
In concreto, infatti, per lo più, le associazioni delittuose vengono dedotte, anzi, ex post,
dalla ricostruzione del complesso di un’attività delittuosa, di una pluralità di delitti, e dal
collegamento di questi con un insieme di persone che ne è considerato – e che ne deve essere
dimostrato – struttura organizzativa. Anche per ciò che riguarda la posizione del singolo
nell’associazione, questa viene ricostruita e argomentata, pure indipendentemente da
comportamenti in sé delittuosi, comunque in correlazione con il complesso dell’attività
delittuosa dell’associazione, sia pregressa sia in via di svolgimento.
15
Ivi, pp. 871-872.
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L’obiezione precedente ha natura eminentemente processuale. Ma una teoria penalistica
che non regge il confronto con la dimensione concreta processuale non può essere certo
condivisa e accettata.
L’identica obiezione vale, però, sul piano criminologico. In concreto, infatti, le
associazioni delittuose nascono proprio attraverso (durante e mediante) le attività delittuose,
nella, e dalla, realizzazione dei delitti, in concorso di persone, delle stesse persone, dalla
divisione ed eventuale riutilizzazione dei proventi dei delitti, dalla affermazione di figure
personali di vertice, dal coinvolgimento di soggetti con esperienza di attività delittuose.
È estremamente improbabile che un’associazione delittuosa nasca dall’accordo fra
soggetti incensurati per svolgere una futura attività delittuosa: nasce comunque dall’incontro
fra delinquenti in mezzo allo (durante lo) svolgimento di delitti, di attività delittuose, e si
evolve mediante nuovi progetti e il coinvolgimento di nuovi soggetti.
La giustificazione delle figure delittuose autonome associative secondo la funzione
cosiddetta di anticipazione è contraddetta addirittura formalmente dalla definizione
dell’associazione di tipo mafioso, dell’art. 416 bis comma terzo c.p.: «L’associazione è di tipo
mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del
vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per
commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il
controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o
per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od
ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di
consultazioni elettorali».
Nella norma è descritta l’attività tipica delle associazioni di tipo mafioso. Questa attività
non può essere configurata come lo scopo (futuro) dell’associazione, la quale ha dunque
dimensione (delittuosa) autonoma anteriore. Il dato di fatto di avvalersi della forza di
intimidazione e della condizione di assoggettamento e di omertà (il metodo mafioso), che è
definitorio dell’associazione di tipo mafioso, qualifica e anzi presuppone l’attività delittuosa
dell’associazione, con caratteristiche e diffusione tali da aver determinato la condizione di
condizionamento ambientale e di controllo del territorio di cui appunto gli associati si
avvalgono.
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Quando (L’associazione è di tipo mafioso quando...) è avverbio di tempo. Anche
secondo la Corte di cassazione, l’associazione i cui componenti debbano esercitare la forza
d’intimidazione con condotte minacciose per realizzare delitti di estorsione costituisce
un’associazione per delinquere, non un’associazione di tipo mafioso16.
Proprio nel senso precedente, l’associazione di tipo mafioso è stata definita
un’associazione «che delinque»17, il risultato della trasformazione ovvero evoluzione di fatto
della comune associazione per delinquere18. Possiamo dire che l’associazione di tipo mafioso
è nata come associazione per delinquere ed è diventata di tipo mafioso (attraverso l’attività e
la fama criminale). SPAGNOLO ha pure definito, per questo, l’associazione di tipo mafioso
come un delitto associativo a struttura mista o complessa, in confronto ai delitti meramente
associativi o associativi puri19.
L’obiezione qui svolta, all’analisi della funzione di anticipazione delle figure delittuose
associative (ovvero della funzione delle figure delittuose associative come di anticipazione
della soglia della risposta e della responsabilità penale in confronto a quella ordinaria dei
delitti e del diritto penale), incontra un limite, per ciò che riguarda il processo di formazione
reale delle figure di carattere politico: le associazioni di carattere politico nascono infatti da
una dimensione comunque intellettuale; e tuttavia le stesse associazioni di carattere politico
assumono dimensione propriamente criminale, e rilevanza penale concreta, solo nella, e
attraverso la, realizzazione di delitti. Così, addirittura, la nostra obiezione trova conferma.
Non si vuol dire, ovviamente, che l’associazione delittuosa, ovvero la partecipazione
all’associazione delittuosa, non possa consistere nella dimensione meramente intellettuale
dell’accordo. Si vuol dire che questa dimensione non può essere considerata né caratteristica
né prevalente nella realtà concreta. E più avanti si cercherà comunque di definire e affrontare
il problema così indicato in un modo (a nostro avviso) più scientifico: alla stregua della teoria
generale dell’organizzazione.
16
Cass. I, ud. 30.1.1990, dep. 21.3.1990, Abbatista, in Cass. pen., 1990, p. 1709, n. 1345.
SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 5ª ed. 1997, p. 51.
18
TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 1995, 2ª ed. aggiorn., 2008, pp. 127-128.
19
SPAGNOLO, op. cit., pp. 64 ss.; e già Dai reati meramente associativi ai reati a struttura mista, in AA.VV.,
Beni e tecniche della tutela penale. Materiali per la riforma del codice, a cura del CRS, con la presentazione di
RAMAT, Milano, 1987, pp. 156 ss..
17
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Non si può contestare che la partecipazione all’associazione delittuosa sia una figura
delittuosa a consumazione anticipata. Ciò che si vuole sottolineare, qui, è che la funzione
concreta prevalente delle figure delittuose autonome associative non può essere indicata come
di anticipazione della risposta penale e della soglia della responsabilità rispetto al compimento
dei delitti.
La spiegazione (qui criticata) nei termini dell’anticipazione, in considerazione della
particolare pericolosità costituita dall’associazione, costituisce, fra l’altro, una giustificazione
della eccezionalità delle pratiche, nonché un alibi del reale abbassamento del livello
probatorio, dell’argomentazione e della motivazione, quindi delle garanzie.
Va fatto rilevare, altresì, come oggi la dimensione del delitto individuale sia divenuta
davvero marginale, dal punto di vista criminologico e della rilevanza ovvero della funzione
penalistica. E così il rapporto fra normale ed eccezionale, nel confronto fra delittuosità
individuale e criminalità organizzata, precipuamente in ordine alla funzione penale, si è
addirittura rovesciato.
Nel sistema anglosassone, abbiamo fatto cenno, è respinta la forma della responsabilità
penale per la partecipazione o appartenenza ad un’associazione ovvero organizzazione, per la
carenza di determinatezza: è considerata dalla Corte suprema statunitense incompatibile con i
principi costituzionali. Può dirsi, per certi versi, che il problema cacciato dalla porta gli rientra
dalla finestra: con la dilatazione ovvero diluizione dei nessi di responsabilità dei delitti
avvenuti nel contesto di una organizzazione a carico dei capi ovvero organizzatori della
stessa, e anche sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori della giustizia.
La figura della conspiracy è (formalmente) alternativa di anticipazione del tentativo, in
relazione a un delitto determinato, di una certa gravità, a dimensione o in un contesto
organizzativo. Concepita e teorizzata in funzione di anticipazione della soglia del tentativo20,
la figura della conspiracy non ha mai avuto in concreto questa funzione nella giurisprudenza
inglese e americana21.
Per questo vale la “proximity rule”, il criterio degli atti pericolosamente prossimi alla consumazione.
Cfr. GRANDE, Accordo criminoso e conspiracy. Tipicità e stretta legalità nell’analisi comparata, Padova,
1993. Ivi, p. 1: «Prestando fede alle descrizioni offerte dai giuristi dell’area di common law, la conspiracy risulta
destinata a punire in via generale il mero accordo per la commissione di un fatto di reato, ma non ha mai svolto
né in Inghilterra né negli Stati Uniti una simile funzione di anticipazione della tutela penale. A dispetto della
20
21
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Configurata, addirittura, unitamente con gli estremi del tentativo, come del consumato,
la conspiracy ha avuto in concreto funzioni affatto diverse: a) di aggravamento della
responsabilità, per i fatti realizzati a dimensione ovvero in contesti organizzativi; b) di
strumento del patteggiamento, di questa configurazione, per ottenere la collaborazione
dell’imputato (il componente di un’organizzazione criminale che può fornire indicazioni sulle
condotte dei capi dell’organizzazione), nel sistema della discrezionalità dell’azione penale; c)
ha consentito di attribuire a ciascun cospiratore la responsabilità penale a titolo di concorso
nel reato per ogni fatto realizzato da ogni altro cospiratore in esecuzione e durante la
permanenza del programma comune; d) ha consentito al giudice di discostarsi dal caso
precedente (ove il fatto era stato ritenuto irrilevante almeno penalmente) e di ritenere la
responsabilità penale per via della dimensione organizzativa del fatto (possono farsi gli
esempi della violazione delle cautele anti-infortunistiche o della violazione fiscale che siano
state concertate fra più persone nell’ambito dell’azienda).
Nei modi così indicati, la conspiracy è stata strumento, soprattutto processuale, di lotta
contro la criminalità organizzata.
Il riferimento alla giurisprudenza inglese e soprattutto americana in materia di
conspiracy va considerato assai significativo, della generale resistenza, nelle prassi
giudiziarie, all’anticipazione della soglia della responsabilità penale rispetto a quella del
tentativo. E costituisce una conferma dell’analisi fin qui svolta in relazione alla funzione reale
delle figure delittuose associative.
Infatti, la funzione qui definita di anticipazione è certo molto più facilmente
ipotizzabile, dal punto di vista criminologico e da quello giudiziario, in relazione a un singolo
delitto (che più persone stanno preparando, e della cui dimensione preparatoria si sia avuta
conoscenza) che in confronto a un’attività delittuosa complessa, costituita da una pluralità,
determinata o indeterminata, di delitti. Eppure, anche in confronto al delitto singolo, la teoria
dell’anticipazione non trova riscontri.
classificazione dogmatica della fattispecie criminosa in discorso in termini di inchoate crime, ossia come reato
“incompiuto”, la concreta applicazione giurisprudenziale dimostra come da sempre la conspiracy abbia assunto
all’interno degli ordinamenti inglese e statunitense un ruolo affatto differente».
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Nei confronti della teoria della (associazione delittuosa – come fatto intellettuale di
accordo – in funzione di) anticipazione (della soglia della risposta e della responsabilità
penale in confronto a quella ordinaria dei delitti e del diritto penale) possono rivolgersi alcune
altre osservazioni.
Una osservazione è che tale funzione dovrebbe restare assorbita e superata dalla
successiva attività di realizzazione dei delitti, c.d. scopo dell’associazione. E invece questo
problema non può porsi.
Secondo la nozione di associazione, come fatto intellettuale di accordo, la
partecipazione è costituita dalla (manifestazione di) adesione della persona e dall’accettazione
da parte (dei membri) dell’associazione.
Da un canto, l’ipotesi del soggetto che abbia manifestato la propria adesione
all’associazione e che poi non sia mai stato disponibile quando c’è stato bisogno delle sue
prestazioni dovrebbe essere suscettibile (ove se ne riscontrino gli estremi) del criterio generale
di non punibilità della desistenza.
D’altro canto, costituisce la partecipazione la relazione stabile di disponibilità, verso le
richieste e i bisogni dell’associazione, del soggetto che pure non abbia mai dato la propria
adesione formale.
Questi problemi si risolvono in termini di teoria dell’organizzazione.
L’ultima osservazione, che mi sembra molto importante, è che nessuno mai penserebbe
di ricostruire la problematica del concorso di persone nel reato con riferimento al momento e
al fatto dell’accordo, mentre pensiamo (pensano) che si possa ricostruire la problematica
molto più complessa dell’organizzazione criminale con riferimento alle manifestazioni
formali di accordo e di disponibilità: la cui prova, peraltro, non è mai disponibile, e viene
sostituita, spesso, da ricostruzioni assai congetturali.
La funzione svolta concretamente dalle figure delittuose associative può essere
considerata e definita, in primo luogo, di generalizzazione: di definizione della responsabilità
per il contributo personale dato alla struttura (quindi all’esistenza) e all’attività
dell’associazione, considerate in generale, e distintamente dalla responsabilità dei singoli
delitti che costituiscono questa attività. Tale funzione è, perciò, di distinzione: della
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responsabilità per il contributo dato in generale all’associazione dalla responsabilità per i
singoli delitti di questa.
La funzione può essere considerata e definita, inoltre, di interdizione, di tipo concreto e
dinamico, dell’esistenza e dell’attività dell’associazione delittuosa, considerata nella sua
dimensione generale, in via di svolgimento, nella fase stessa del suo svolgimento. Questa
funzione può essere considerata difforme rispetto alla funzione considerata ordinaria del
diritto penale, di prevenzione astratta e generale del tipo di fatto mediante la previsione della
pena (di cui sono poi corollari l’applicazione ed esecuzione). Di questa funzione sono
essenziali le misure di premialità della collaborazione con la giustizia e le misure di
prevenzione, personali e patrimoniali (che sono ricorrenti nella storia della prevenzione e
repressione delle forme e dei fenomeni di criminalità organizzata, comune e politica22): le une
e le altre tendono a disarticolare la dimensione generale organizzativa nelle sue risorse,
rispettivamente, personali e materiali.
Le nozioni appena indicate emergono dall’applicazione a questa materia della teoria
dell’organizzazione: entro cui, come vedremo, può essere ricondotta tutta la teoria
dell’associazione; mentre non mi sembra altrettanto vero il contrario.
Le figure delittuose associative sono diventate inoltre, presupposti, della progressiva
differenziazione del sistema penale nei confronti delle forme e dei fenomeni di criminalità
organizzata: in particolare, quelle di associazione terroristica, di associazione mafiosa, di
associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti, presupposti e baricentri di veri e propri
sotto-sistemi penali, con elementi di marcata differenziazione, sotto i profili della definizione
e determinazione della responsabilità penale, del processo (soprattutto dei modi di conduzione
delle indagini e anche di formazione della prova) e della esecuzione della pena detentiva (e
delle alternative alla detenzione).
In concreto, non v’è dubbio che le figure delittuose associative abbiano svolto e
svolgano anche una funzione probatoria, autonoma e specifica rispetto a quella dei singoli
22
Nei codici sono frequenti le misure di premialità della dissociazione e collaborazione degli autori dei delitti di
cospirazione politica, e nel codice napoleonico l’attentato contro la persona del sovrano era punito con la pena di
morte e la confisca dei beni del condannato, per sottrarre alla dimensione organizzativa, necessaria per il
compimento dei delitti politici, le risorse materiali. Il medioevo è una storia di collaboratori e spie nella difficile
distinzione fra il diritto penale, la politica, le lotte feudali e la pratica della guerra.
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delitti avvenuti nel contesto dell’attività. Questa funzione, che corrisponde, in effetti, al
contenuto autonomo (all’autonomia del contenuto) della responsabilità a titolo associativo,
pone tuttavia problemi sotto il profilo generale delle garanzie del cittadino e dell’esercizio del
diritto di difesa in particolare. Il problema si pone in modo precipuo in relazione alle
dichiarazioni e alla funzione dei collaboranti, ma riguarda di per sé il contenuto e
l’argomentazione della responsabilità a titolo associativo.
Le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia che Tizio sia affiliato o vicino al Clan
Tal dei Tali non sono, come tali, controvertibili, cioè a prescindere dalle (concrete e
molteplici) indicazioni circa il ruolo ovvero l’attività svolti da Tizio. Né il problema può
ritenersi risolubile nei termini (principali) della credibilità dei collaboratori. Se diversi
collaboratori dicono che Tizio il giorno x era nel luogo y a svolgere l’attività z, Tizio avrà
modo di dimostrare, eventualmente, il contrario, perché il fatto addotto o è vero o è falso.
Appare molto diversa la problematica della prova circa la relazione di un soggetto con la
struttura di un’associazione delittuosa.
Una
considerazione
riguarda
la
rilevanza
progressivamente
crescente
della
responsabilità penale a titolo associativo: si sono moltiplicate, come abbiamo visto, le figure
delittuose autonome associative; è aumentata a dismisura la pena di queste. Si considerino, da
un canto, la pena dell’art. 421 del codice penale toscano del 1853 e le considerazioni in
proposito di CARRARA, sopra riportate, e d’altro canto, in modo precipuo, gli aumenti
avvenuti delle pene dell’associazione mafiosa e dell’associazione per gli stupefacenti dal
momento della introduzione di queste figure a oggi.
Queste figure, e queste pene, vanno riempite, necessariamente, di prove, e di
argomentazioni. In tal senso, soccorre la teoria dell’argomentazione. Anzi, può dirsi pure che
l’aumento delle pene dei delitti associativi, nonché delle stesse figure delittuose associative,
(come del resto, si vedrà, la stessa diffusione della nozione di criminalità organizzata)
corrisponde non solo alla crescente dimensione organizzativa delle attività delittuose (come di
tutte le attività umane) ma anche allo sviluppo e alla diffusione della teoria
dell’organizzazione, cioè della consapevolezza della problematica dell’organizzazione.
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3. Epistemologia della complessità, teoria dei sistemi e analisi
funzionalistica. Limiti della causalità, teoria dell’organizzazione e diritto
penale
Le carenze di tassatività e determinatezza delle nozioni di responsabilità dei delitti
associativi, come dei delitti politici, possono essere considerate corollari della complessità dei
dati oggetto della considerazione, della rappresentazione normativa e, concretamente, oggetto
di necessaria ricostruzione.
Per ciò che riguarda i delitti politici, si pensi alle nozioni di (compiere atti per)
sovvertire l’ordinamento costituito dello stato o sottoporre lo stato alle dipendenze di uno
stato straniero. La rilevanza della relazione del singolo non può essere concepita in generale
come causale (senza la quale l’evento non si sarebbe verificato nonché di per sé adeguata al
verificarsi dell’evento) e tuttavia, malgrado le ripetute giustificate obiezioni, queste nozioni
sono presenti in tutti gli ordinamenti.
Per ciò che riguarda i delitti associativi, da una parte, la prova della adesione formale
all’associazione non è frequentemente disponibile (e, peraltro, abbiamo visto, neppure può
essere considerata risolutiva), d’altra parte, la prova e l’argomentazione in concreto della
partecipazione, peggio del concorso esterno, sono state spesso assai discutibili, invero
insufficienti. Anche di queste nozioni, tuttavia, non si riesce a fare a meno.
Problema di carattere generale è che tutte le attività umane, e quelle delittuose, sono
realizzate a dimensione vieppiù complessa e organizzata. In tale dimensione i nessi causali
sbiadiscono fino a diventare non significativi. E tuttavia i singoli contributi sono, e vanno
considerati, rilevanti.
Per rappresentare la situazione del diritto penale oggi, e in confronto alla teoria moderna
della responsabilità, possiamo dire che quando vi siano più di un autore o più di una vittima,
già, la causalità (l’analisi di tipo causale) diventa insufficiente. Si pensi, così, rispettivamente,
alle problematiche della criminalità organizzata e dell’inquinamento, sotto i profili della
molteplicità degli imput e degli output.
La nozione di complessità è stata usata per la prima volta, ad esprimere l’analisi (e i
risultati dell’analisi) di tipo multifattoriale e contestuale, dal matematico americano WARREN
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WEAVER nel 194823. Ed è stata distinta in complessità organizzata e complessità non
organizzata, ad esprimere, rispettivamente, la problematica e la teoria dell’organizzazione e
l’analisi dei flussi. È stata ripresa, in tali termini dal biologo austriaco LUDWIG VON
BERTALANFFY, del Circolo di Vienna, che ha elaborato la teoria dei sistemi, con riferimento
eminentemente ai sistemi viventi24. Parallelamente, il sociologo tedesco NIKLAS LUHMANN ha
applicato il metodo funzionalistico e ha sviluppato la teoria dei sistemi in relazione ai sistemi
sociali, cominciando col riflettere in modo particolare sulla crisi della categoria, e dello stesso
pensiero, causale25. Grande studioso della complessità è stato ILYA PRIGOGINE, chimico e
fisico russo naturalizzato belga, vincitore del premio Nobel per la chimica nel 1977 per i suoi
studi sulla termodinamica dei sistemi complessi e in particolare per la sua teoria sulle
strutture dissipative (i vortici)26.
Il sociologo MARTINOTTI ha scritto che «l’organizzazione» «è la vera grande scoperta
della specie umana nel XX secolo»27. Io aggiungerei che la teoria e le nozioni
dell’organizzazione sono fra i dati culturali generali più importanti nel corso degli ultimi
quarant’anni.
La misura di quanto le nozioni della complessità e precipuamente dell’organizzazione
siano assolutamente trasversali, nonché fondamentali, delle scienze e della cultura mondiali
più recenti si coglie bene nel fatto che le voci Ordine/disordine, Organizzazione e Sistema
dell’Enciclopedia Einaudi siano state redatte proprio dal fisico-chimico PRIGOGINE, insieme
23
WEAVER, Science and Complexity, in American Scientist, 1948, n. 36, pp. 536 ss.
VON BERTALANFFY, Il sistema uomo. La psicologia nel mondo moderno, 1967, Milano, 1971; Teoria generale
dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, 1968, trad. it., Istituto Librario Internazionale, Milano, 1971.
25
LUHMANN, Funzione e causalità, 1962, e Metodo funzionale e teoria dei sistemi, 1964, in Illuminismo
sociologico, 1970, trad. it., Milano, 1983, dove vedi la bella introduzione di ZOLO, Funzione, senso, complessità.
I presupposti epistemologici del funzionalismo sistemico. V. poi LUHMANN, Sistemi sociali. Fondamenti di una
teoria generale, 1984, Bologna, 1990, e Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, 1983, Milano, 1995,
entrambe le edizioni italiane a cura di FEBBRAIO.
26
NICOLIS e PRIGOGINE, La complessità. Esplorazioni nei nuovi campi della scienza, 1987, Torino, 1991;
PRIGOGINE - STENGERS, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, 1979, Torino, 1981, 1993, 1999;
PRIGOGINE, Le leggi del caos (da un ciclo di lezioni tenute all’Università Statale di Milano presso la cattedra di
Filosofia della scienza del prof. GIORELLO), Roma-Bari, 1993, 2006.
27
G. MARTINOTTI, Prefazione a CASTELLS, La nascita della società in rete, 1996, 2000, Milano, 2002, p. XXVI.
24
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con ISABELLE STENGERS, studiosa belga laureata in chimica che insegna filosofia della
scienza28.
La nozione di criminalità organizzata ha cominciato a essere usata in Italia solo a
partire dalla metà degli anni settanta, in relazione ai fenomeni dei sequestri di persona e di
diffusione degli stupefacenti ed ai primi gruppi terroristici. Negli Stati Uniti l’Organized
Crime Control Act(OCCA) del 1970 ha avuto riferimento ai reati tipici dei settori in cui
agiscono le organizzazioni criminali.
La diffusione progressiva della nozione di criminalità organizzata ha una spiegazione
sia reale sia culturale: va correlata, da un canto, alla dimensione organizzativa crescente delle
attività di tipo delittuoso, come di tutte le attività umane, e allo sviluppo delle dimensioni e
del livello di pericolosità delle organizzazioni criminali, d’altro canto, allo sviluppo e alla
diffusione della cultura, della teoria e delle nozioni dell’organizzazione, come abbiamo detto,
in tutti i settori della scienza e della cultura.
Torniamo alla epistemologia della complessità. Abbiamo detto che si tratta dell’analisi,
della metodologia e dei risultati dell’analisi, multifattoriale e contestuale: una molteplicità di
elementi sono analizzati nelle correlazioni (interazioni) reciproche e in un ambito sia spaziale
che temporale, quindi in modo dinamico e contestuale.
In generale possiamo definire sistema un insieme di elementi considerati nelle relazioni
reciproche e alla stregua di un ambiente. Una differenza di carattere culturale è che nelle
scienze della natura le nozioni di sistema e di organizzazione tendono ad essere
sovrapponibili, mentre nelle scienze umane e sociali la nozione di organizzazione implica
ulteriormente la libertà di scelta dell’individuo.
Secondo COASE, economista premio Nobel nel 1991 con studi di teoria
dell’organizzazione, l’organizzazione è caratterizzata dalla sostituzione nell’impresa delle
transazioni tipiche del mercato, ed è costituita da «isole di potere cosciente», cioè soggetti
liberi di scelte, a differenza di un organismo (come anche il sistema economico del mercato)
che «funziona da solo»29.
PRIGOGINE ed STENGERS, voci Ordine/disordine, Organizzazione e Sistema dell’Enciclopedia Einaudi, Torino,
rispettivamente, vol. X, 1980, pp. 87 ss. e 178 ss., vol. XII, 1981, pp. 993 ss.
29
COASE, La natura dell’impresa, 1937, in Impresa, mercato e diritto, Bologna, 1995, 2006, pp. 74-75.
28
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In effetti, concetto chiave posto in evidenza da PRIGOGINE (che tende così a definire in
modo unitario questa problematica) è quello di biforcazione, cioè di equiprobabilità di
verificarsi di eventi diversi al verificarsi di un dato evento. E in natura non c’è biforcazione
più sicura e semplice della libertà di scelta dell’individuo.
L’organizzazione può essere definita come la coordinazione dell’agire in vista di una
determinata finalità ed è costituita, fra una pluralità di persone, dall’insieme delle convenzioni
di carattere generale che tengono luogo degli accordi caso per caso.
Sono elementi dell’organizzazione coloro che si fanno garanti (e comunque si sono resi
tali, per effetto dei loro reiterati comportamenti) delle loro prestazioni, sulle quali, quindi, gli
altri, interni ed esterni all’organizzazione, possono fare legittimo affidamento, e fanno
affidamento. Questa correlazione fra garanzia e affidamento circa le prestazioni dei soggetti è
costitutiva di per sé dell’organizzazione. Che soggetti facciano affidamento sulle prestazioni
altrui è dato di per sé significativo dell’esistenza dell’organizzazione.
L’organizzazione
va
distinta
dall’organigramma.
Questo
consiste
nella
rappresentazione formale dei ruoli in una qualsiasi struttura organizzativa. L’organizzazione è
costituita dalla effettività del complesso delle relazioni funzionali, in una data struttura
(sistema) e in un dato contesto spazio-temporale (ambiente). In tal senso, ho già detto sopra, è
una nozione di carattere sociologico. L’organizzazione è un processo, un fenomeno, una
dinamica (contestualizzata).
L’organizzazione è caratterizzata dalla stabilità, della struttura e dell’analisi; è l’effetto
dell’analisi di una struttura in termini di stabilità, in un contesto (spazio-temporale).
Nella maggior parte dei casi le relazioni di disponibilità, fra la struttura e i soggetti che
la costituiscono, sono l’effetto di accordi di carattere formale. Ma le stesse possono dipendere
anche dalla reiterazione dei comportamenti, che per questo diventano oggetto dell’altrui
affidamento. Una caratteristica della problematica dell’organizzazione è la ricorsività, delle
relazioni e delle condotte.
In tal senso, abbiamo detto anche, la teoria dell’associazione può essere ricuperata
dentro la teoria dell’organizzazione (mentre non può dirsi il reciproco). Partecipazione è la
relazione funzionale stabile della persona con la struttura e l’attività dell’associazione. Questa
relazione dipende normalmente da un’adesione formale, ma poi diviene nella effettività delle
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reciproche disponibilità e condotte: tale, appunto, che vi sia (e si sia creato, di fatto) un
reciproco affidamento.
Degli amici che si vedono ogni sabato pomeriggio, per giocare a carte, ovvero ogni
domenica pomeriggio, per assistere alle partite alla televisione, sono una struttura organizzata.
Ciò normalmente avviene per la reiterazione nel tempo di determinati comportamenti,
essenziali di quella dimensione organizzativa.
Le persone che si conoscono normalmente si salutano, e quando una non saluta l’altra
questa si stupisce, s’interroga, s’indispettisce, si offende, ecc. Questo è un dato che dimostra,
e costituisce, la dimensione organizzativa della società. Ma gli uomini, e quelle persone in
concreto quando si sono conosciute (quando sono state presentate), non si sono messi
formalmente d’accordo che si devono salutare, e che si sarebbero salutati, ogni volta che si
sarebbero incontrati.
Il contratto sociale di ROUSSEAU è una finzione letteraria che esprime la dimensione
organizzativa, e normativa, della società: nessuno di noi l’ha mai sottoscritto formalmente,
eppure ne facciamo parte.
L’organizzazione, il processo di organizzazione, organizzativo, può dipendere da (dalle
direttive di) uno o più soggetti principali (organizzatori) o avvenire in modo spontaneo dal
basso: auto-organizzazione.
La differenza fra la partecipazione (o appartenenza) all’associazione delittuosa e il
concorso eventuale o esterno nel delitto associativo è costituita dal fatto che la partecipazione
è data dalla relazione funzionale stabile con la struttura organizzativa e (quindi) con l’attività
dell’associazione, il concorso esterno è dato dal contributo ovvero relazione personale
funzionale con effetti di stabilità sulla struttura e attività dell’associazione considerate in
termini generali.
Il contributo è caratterizzato dalla funzionalità, sia per la struttura organizzativa che per
l’attività di questa.
Il contributo dell’estraneo (che non riguarda le convenzioni di carattere generale
costitutive della dimensione organizzativa) deve essere (singolarmente) negoziato fra la
struttura dell’organizzazione e il soggetto che lo deve arrecare.
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Il contributo è funzionale per la struttura organizzativa e per l’attività dell’associazione
in quanto (pur non essendo caratterizzato dalla sua stabilità, comunque) ha effetti di stabilità
su tale struttura ed attività, considerate in termini generali. Altrimenti può essere (costitutivo
di) concorso in un singolo reato, o favoreggiamento.
Nell’analisi
sistemica
(quindi
della
complessità,
delle
condotte
plurime,
dell’organizzazione) le relazioni sono apprezzabili in generale come funzionali.
Funzione è un concetto più debole di causa, in quanto non è “determinante”, ma è
espressione di un’analisi molto più ricca, appunto multifattoriale e dinamica.
La causalità è una relazione binaria fra eventi (espressione della logica formale binaria,
che presuppone la predefinizione formale delle tipologie degli eventi, cioè del tipo dell’uno e
dell’altro), nei termini della riproducibilità-evitabilità della successione (è espressione di un
pensiero normativo: è la spiegazione di un evento difforme rispetto al corso che può essere
considerato normale degli eventi, presuppone la ricerca delle leggi di natura, il confronto con
le leggi universali che governano il mondo, ed esprime l’aspirazione e l’idea circa la
possibilità di riprodurre o evitare l’evento); è esplicativa (tende a rispondere alla domanda
perché?).
Funzione è la relazione di co-variazione fra grandezze (non tra eventi): quindi è la
relazione fra grandezze numeriche, variabili (alla stregua del contesto). Funzione è la
relazione di utilità, in termini di probabilità dell’evento, di rapporto fra costi e benefici, di
massimizzazione dei risultati, quindi di probabilità del miglior risultato, di minimizzazione
dei costi e dei rischi.
La connotazione di astrattezza e generalità della funzione è data dalla dimensione
numerica.
La causalità è espressione di un’analisi segmentata della realtà: A è causa di B, B è
causa di C, ecc., mediante collegamento fra coppie di significati, di tipo (tendenzialmente)
decontestuale: la ricerca delle leggi di natura, delle leggi universali che governano il mondo.
La funzione è espressione dell’analisi sistemica (il complesso delle relazioni funzionali che
costituiscono il sistema nell’ambiente) ed è connotata dalla stabilità ovvero persistenza
dell’analisi: che è analisi di fenomeni, di processi, anziché di eventi (singoli). L’analisi
sistemico-funzionalistica è descrittiva (tende a rispondere alla domanda come?, in che
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modo?), di movimento di insiemi (quindi di fenomeni in contesti, spazio-temporali), e
predittiva, previsionale (le previsioni del tempo, la teoria dei flussi).
La causalità è caratterizzata da, ed esprime culturalmente l’aspirazione e la pretesa di
definire, una soglia semantica (di tipo qualitativo): la condizione senza la quale l’evento non
si sarebbe verificato (la condicio sine qua non). La nozione di causalità adeguata esprime un
significato ulteriore, e non sostitutivo, rispetto alla condicio sine qua non: di tipo quantitativo
(probabilistico, e già, verosimilmente, contestuale): la condizione, senza la quale l’evento non
si sarebbe verificato, al verificarsi della quale è definibile una certa probabilità del verificarsi
dell’evento, nelle condizioni date.
La nozione di funzione è senza soglia: l’infinitamente piccolo può essere utile
all’infinitamente grande; ovvero, adottato un criterio di misura, tutto è misurabile: passiamo
da un modello di analisi qualitativo a un modello quantitativo. È vero anche il reciproco:
quando ragioniamo in termini quantitativi, siamo già passati all’analisi di tipo funzionalistico.
BERTAND RUSSELL ha criticato in modo radicale nel 1913 l’analisi causale. Il significato
più evidente della sua riflessione è di sostituire l’analisi quantitativa a quella di tipo
formalistico-qualitativo.
Scrive RUSSELL all’inizio del saggio Sul concetto di causa30: «Nel saggio che segue
intendo, primo, sostenere che la parola “causa” è legata tanto inestricabilmente a idee
equivoche da rendere auspicabile la sua totale espulsione dal vocabolario filosofico; secondo,
ricercare quale principio, se ve n’è uno, viene applicato nella scienza in luogo della supposta
“legge di causalità”, che i filosofi immaginano venga applicata; terzo, mettere in rilievo certe
confusioni, specie in rapporto con la teleologia e col determinismo, che mi sembrano
connesse con concetti erronei relativi alla causalità».
«Tutti i filosofi, di ogni scuola, immaginano che la causalità sia uno degli assiomi o
postulati fondamentali della scienza; e invece, fatto strano, nelle scienze più progredite, come
l’astronomia gravitazionale, la parola “causa” non compare mai. In Naturalismo e
agnosticismo, il dottor JAMES WARD fa di ciò un motivo di lamentela nei confronti della
È la memoria presidenziale diretta alla Aristotelian Society nel novembre 1912, pubblicata nell’annata 191213 dei Proceedings di quella società, trad. it. in RUSSELL, Misticismo e logica e altri saggi, Milano, 1980,
Milano, 1993, pp. 170 ss.
30
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fisica: il compito di quanti vogliono accertare la verità ultima sul mondo, pensa
evidentemente WARD, dovrebb’essere di scoprire le cause, e viceversa la fisica non le ricerca
mai. A me sembra che la filosofia non dovrebbe assumersi simili funzioni legislative, e che il
motivo per cui la fisica ha smesso di ricercare le cause è che, in effetti, cose del genere non
esistono. Secondo me, la legge di causalità, come molto di ciò che viene apprezzato dai
filosofi, è il relitto di un’età tramontata e sopravvive, come la monarchia, soltanto perché si
suppone erroneamente che non rechi danno»31.
Secondo RUSSELL, «le leggi della successione probabile, utili nella vita quotidiana e nei
primi passi di una scienza, tendono a essere sostituite da leggi del tutto diverse non appena
una scienza progredisce. La legge di gravità servirà d’esempio per comprendere che cosa
accade in ogni scienza sviluppata. Nei moti dei corpi reciprocamente attraentisi, non vi è
niente che si possa chiamare una causa e niente che si possa chiamare un effetto; vi è soltanto
una formula. Si possono scoprire certe equazioni differenziali che valgono in ciascun istante
per ogni particella del sistema e che, data la configurazione del sistema e date le velocità in un
istante, oppure le configurazioni in due istanti, rendono teoricamente calcolabile la
configurazione in qualsiasi istante precedente o successivo. Vale a dire, la configurazione in
un istante è una funzione di quell’istante e delle configurazioni in due istanti dati. Questa
affermazione vale in tutta la fisica, e non soltanto nel caso particolare della gravità. Ma in un
sistema del genere non vi è nulla che si possa propriamente chiamare “causa” e nulla che si
possa propriamente chiamare “effetto”».
«Indubbiamente il motivo per cui la vecchia “legge di causalità” ha continuato così a
lungo a pervadere i libri dei filosofi è semplicemente questo: l’idea di una funzione non è
familiare alla maggior parte di loro, e quindi essi ricercano una formula indebitamente
semplificata. Non si pone il problema della ripetizione di “una stessa” causa la quale produce
“uno stesso” effetto; la costanza delle leggi scientifiche non consiste in alcuna analogia di
cause e di effetti, bensì in un’analogia di rapporti. E anche “analogia di rapporti” è una frase
31
Ivi, p. 170.
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troppo semplice; “analogia di equazioni differenziali” è l’unica frase corretta. È impossibile
porre esattamente la cosa in un linguaggio non matematico [...]»32.
Ho detto sopra che l’analisi causale è di tipo (tendenzialmente) decontestuale. RUSSELL
scrive che «Il caso in cui si dice che un evento A “causa” un altro evento B, che i filosofi
reputano fondamentale, è in realtà soltanto l’esempio più semplice di un sistema praticamente
isolato. Può succedere che, in conseguenza di leggi scientifiche generali, ogni qual volta si
verifica A durante un certo periodo, esso sia seguito da B; in tal caso, A e B formano un
sistema praticamente isolato durante quel periodo. Ma se questo accade, bisogna considerarlo
un colpo di fortuna: sarò sempre dovuto a circostanze speciali, e non si sarebbe avverato se il
resto dell’universo fosse stato differente, benché soggetto alle medesime leggi»33.
In effetti, possiamo dire, l’analisi del “sistema” è già come tale funzionalistica; ovvero,
funzionalistica è l’analisi dei sistemi complessi: meglio, funzionalistico è il metodo d’analisi
dei sistemi complessi.
Secondo LUHMANN, appunto, nel saggio Funzione e causalità, del 1962, «L’analisi
funzionalista non mira alla registrazione dell’essere nella forma di costanti essenziali, ma alla
variazione di variabili nell’ambito di sistemi complessi»34. «Il metodo funzionalista analizza
le caratteristiche di un sistema rispetto ad altre possibilità equivalenti, dunque anche rispetto a
possibilità di cambiamento, di scambio e di sostituzione, nonché alle ripercussioni di queste
all’interno del sistema. Tuttavia, tale metodo non giunge all’individuazione delle cause di un
determinato cambiamento, né alla previsione di esso»35.
Secondo LUHMANN, ogni definizione causale può essere oggetto di rappresentazione in
termini funzionalistici, mentre non è vero il contrario, nel senso che ogni rappresentazione
funzionalistica non è suscettibile in quanto tale di definizione causale.
«La critica del funzionalismo di impronta causalistica non va fraintesa come critica
della causalità in quanto categoria conoscitiva. Essa non ha lo scopo di abolire la causalità, né
tantomeno si preoccupa di sottolineare l’esistenza di un contrasto tra la ricerca causalistica e
quella funzionalista. Il risultato di un’impostazione del genere sarebbe la riedizione della
32
Ivi, p. 183.
Ivi, p. 187.
34
LUHMANN, Funzione e causalità, cit., p. 11.
35
Ivi, p. 12.
33
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vecchia distinzione tra causalità teleologica e causalità meccanica. La nostra critica si pone
invece l’obiettivo di invertire il rapporto di discendenza esistente fra la relazione causale e la
relazione funzionale: la funzione non è un tipo particolare di relazione causale; al contrario, è
la relazione causale a costituire un caso di applicazione dell’ordine funzionale». (...) «In un
senso oggi difficilmente concepibile, l’antichità e il medioevo concepivano la causalità come
una relazione finita riferita all’essere come al proprio fondamento. Dall’inizio dell’era
moderna, invece, la problematica dell’infinito si è fatta assillante nel campo della causalità.
Ogni affermazione causale rimanda implicitamente all’infinito da diversi punti di vista. Ogni
effetto ha un numero infinito di cause, così come ogni causa ha un numero infinito di effetti.
A ciò va aggiunto che ogni causa può essere combinata con altre o sostituita da altre in infiniti
modi, il che produce corrispondentemente una molteplicità di differenze al livello degli
effetti. Infine, ogni processo causale può essere da un lato suddiviso infinitamente al suo
interno, dall’altro sviluppato in avanti fino all’infinito».
«Se si tiene presente questa problematica, ogni interpretazione ontologica della causalità
risulta priva di significato. Non è più possibile, infatti, interpretare causa ed effetto come
determinate situazioni dell’essere, individuando nella causalità una relazione di invarianza fra
una causa e un effetto. Non può essere giustificata l’esclusione di tutte le altre cause, insieme
ai rispettivi effetti. È vero che si può giungere ad affermazioni formalmente corrette con
l’aiuto della condizione “ceterisparibus”, che rappresenta la “exculpingphrase”, una sorta di
formula magica per le scienze sociali. Ma tali affermazioni sono prive di valore empirico se
l’esclusione di tutti gli altri fattori causali è irrealizzabile di fatto. È proprio questo compito
che la scienza sociale non è in grado di assolvere»36.
«Gli elementi del processo causale, siano essi causa o effetto, una volta utilizzati come
criteri di riferimento funzionali, non sono intesi nella loro attualità ontologica, ma sono
assunti in quanto problemi. L’analisi funzionalista si distingue da ogni analisi di tipo
teleologico o meccanico per il fatto che non imposta il proprio concetto fondamentale nella
forma di un’ipotesi empirica. Non si presuppone o non si suppone che determinate cause
esistano effettivamente e spieghino perciò il verificarsi di determinati effetti o viceversa. Né si
36
Ivi, p. 13.
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postula che un organismo sopravviva effettivamente, che un sistema si mantenga in equilibrio
o cose del genere. Il fenomeno a cui ci si riferisce è visto come un problema, il che può
significare una cosa soltanto, e cioè che la validità delle analisi funzionaliste non dipende dal
fatto che nel caso specifico il problema in discussione venga risolto, l’effetto previsto si
produca, il sistema preso in considerazione sopravviva. Ciò significa allora che un enunciato
funzionalista non riguarda una relazione di causa ed effetto, ma i rapporti interni a una
pluralità di cause o di effetti e quindi la rilevazione di equivalenze funzionali»37, cioè (per
dirla col linguaggio di LUHMANN) delle alternative (delle possibilità) funzionalmente
equivalenti per la risoluzione di un problema.
«Potremmo riassumere la critica fin qui svolta affermando che la sopravvivenza di un
concreto sistema di azione non è idonea a costituire il criterio di riferimento per analisi
funzionaliste. Un sistema di azione costituisce il tema e il campo di indagine, non anche
contemporaneamente il filo conduttore teorico di un’analisi funzionalista. Allo scopo di
formulare una tale teoria, il metodo delle equivalenze funzionali è in grado di fornire
indicazioni più valide di quelle ricavate dal metodo in uso nella scienza causalistica. Non si
tratta di dimostrare che le unità di riferimento sono effetti regolarmente prodotti da
determinate cause. Occorre, al contrario, individuare entro un determinato sistema d’azione
quei criteri problematici che regolano le possibilità di variazione del sistema. Un certo criterio
di riferimento deve poter fungere da criterio per decidere circa l’equivalenza di determinati
dati di fatto. Un tale criterio definisce quindi un ambito di flessibilità e di capacità di
adattamento, di indifferenza verso le deviazioni e di tolleranza nei confronti di contraddizioni,
un ambito di libertà riservato alla scelta di soluzioni che, rispetto al criterio al quale ci si
riferisce, sono ugualmente utili o per lo meno ugualmente innocue. Il problema della
sopravvivenza di un sistema di azione deve essere quindi ricondotto a una serie di
interrogativi astratti, scelti in modo tale da essere capaci – proprio in base al loro carattere
astratto – di rivelare le equivalenze funzionali, contribuendo a una sorta di controllo
generalizzato del sistema»38.
37
Ivi, p. 15.
Ivi, p. 17.
38
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«L’obiettivo della verifica cessa di essere quello di accertare l’esistenza di un nesso
costante fra determinate cause e determinati effetti e diventa quello di accertare l’equivalenza
fra più fattori causali collocati sullo stesso piano. Non s’indaga più per sapere se A ha sempre
(o con una ben determinata probabilità) per effetto B, ma per sapere se A, C, D, E sono
funzionalmente equivalenti nella loro capacità di produrre l’effetto B»39.
Nel saggio su Metodo funzionale e teoria dei sistemi, del 1964, LUHMANN scrive che
«La teoria dei sistemi sociali contribuisce a precisare la classe delle alternative
funzionalmente equivalenti delle quali si dispone per risolvere un determinato problema,
rendendo così possibile la spiegazione o la previsione. Il problema non sta nella possibilità o
meno di formulare una previsione, ma nella sua specificazione. Le previsioni devono
comprendere per principio l’intera classe delle alternative funzionalmente equivalenti che
vengono prese in considerazione come soluzione di un determinato problema»40.
«La moderna teoria dei sistemi ha due predecessori: il concetto di organismo e il
concetto di macchina. Essa deve i suoi suggerimenti più importanti ai processi di dissoluzione
che hanno finito per decomporre e trasformare i modelli classici dell’organismo vivente e
della macchina meccanica. La biologia contemporanea non concepisce più l’organismo come
un essere animale, le cui forze spirituali integrerebbero le singole parti in un insieme, ma
come un sistema adattivo che reagisce al mutare delle condizioni e degli eventi ambientali
compensando, sostituendo, bloccando o integrando i fattori di mutamento con il ricorso a
prestazioni proprie, allo scopo di mantenere in questo modo invariata la propria struttura
(omeostatica). Oggi le macchine si costruiscono sempre più non come semplici strumenti per
raggiungere uno scopo produttivo specifico, ma come impianti auto-regolativi che reagiscono,
secondo programmi precedentemente forniti, al variare delle informazioni ambientali con
prestazioni variabili, tendenti in questo modo non semplicemente a realizzare un prodotto
permanentemente uguale, ma a consentire oltre a ciò, di fronte a condizioni mutevoli, il
soddisfacimento uniforme di scopi concepiti in termini più astratti (cibernetica)»41.
39
Ivi, p. 23.
LUHMANN, Metodo funzionale e teoria dei sistemi, cit., p. 40.
41
Ivi, p. 42.
40
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«La teoria dei sistemi di tipo funzionalistico, quale viene alla ribalta nella scienza
sociale, ma anche nella recente biologia, nella tecnica dei sistemi di regolazione automatica e
nella teoria psicologica della personalità, non può più essere compresa a partire da presupposti
di tipo ontologico»42. «[...] le tecniche bianco e nero della logica ontologica non sono più
adeguate ad affrontare i compiti nuovi, ai quali peraltro la ricerca ha già cominciato a porre
mano. La logica classica della contraddizione semplice sembra gradualmente cedere il posto
ad una tecnica analitica di astrazione del problema. La specificazione e l’astrazione della
problematica sono i presupposti metodologici della soluzione del problema, sia nella teoria
che nella prassi»43.
«La teoria funzionalistica è una teoria che riguarda il rapporto fra sistema e ambiente.
Essa non si limita a osservare la vita interna del sistema, a differenza, ad esempio, della
scienza dell’organizzazione di tipo classico, che esamina esclusivamente l’organizzazione
stessa, o della scienza giuridica che si occupa soltanto del sistema delle norme giuridiche. La
teoria funzionalistica include nelle proprie riflessioni anche l’ambiente, nella misura in cui
esso assume un ruolo per la stabilizzazione del sistema»44.
Sembra utile riportare i brani successivi proprio in relazione alla nostra analisi circa i
rapporti (e le differenze, e l’evoluzione) fra le nozioni di associazione e di organizzazione.
«Questo dato è particolarmente evidente della crescente critica della nozione di scopo
che nel pensiero tradizionale, come oggi siamo in grado di vedere, aveva isolato
reciprocamente il sistema e l’ambiente. La vecchia idea secondo la quale tutte le associazioni
umane perseguivano un determinato scopo e andavano considerate come mezzi in funzione di
quello scopo, aveva consentito che ci si limitasse all’analisi dei nessi che intercorrono fra
scopo e mezzo, nonché dei fattori che perturbano tali nessi. Lo scopo veniva concepito come
il
criterio
di
perfezionamento
e
di
razionalizzazione
del
sistema
e
serviva
contemporaneamente da fattore di demarcazione della ricerca. Contrariamente a ciò, la teoria
dei sistemi di impronta funzionalistica considera ormai lo scopo soltanto come una formulaguida secondo la quale si possono impostare i rapporti fra sistema e ambiente (ad es.
42
Ivi, p. 43.
Ivi, p. 46.
44
Ivi, p. 43.
43
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attraverso prestazioni di scambio), formula che non è né indispensabile, né invariabile, né da
sola determinante, ma che serve a facilitare la regolazione del sistema in rapporto
all’ambiente, presentando ai membri del sistema una sorta di comoda e istruttiva formula
sostitutiva del problema reale che consiste nella stabilità. Se la scelta dello scopo è giusta, i
membri del sistema possono nutrire la convinzione che il sistema possa continuare a esistere
nonostante un ambiente difficile, fino a quando esso si mostrerà adeguato al proprio scopo. In
questo modo la funzione svolta dalla scelta dello scopo ai fini dell’invarianza di un sistema (a
differenza della motivazione degli scopi attraverso il ricorso a valori) può diventare oggetto
della ricerca. Diventa possibile ipotizzare l’esistenza di alternative ai sistemi orientati
specificamente in direzione di uno scopo. La misura in cui un sistema si orienta rispetto ad
uno scopo può essere trattata come una variabile»45.
L’ambiente è essenziale per la definizione del sistema e della funzione.
«Un insieme di azioni costituisce dunque un sistema nella misura in cui di fronte ai
mutamenti dell’ambiente dispone di più di un’alternativa per reagirvi, alternative che sono
funzionalmente equivalenti sotto determinati punti di vista astratti, propri del sistema.
L’invarianza relativa non è dovuta allora all’abbinamento rigido di determinati mutamenti
sistemici e determinati mutamenti ambientali, ma si deve all’esistenza d’istituzioni selettive
entro il sistema la cui funzione non dipende dalla possibilità o meno di prevederne il
funzionamento. Siccome le singole alternative sono funzionalmente equivalenti entro una
determinata prospettiva, il sistema può, a un livello adeguato di astrazione, restare indifferente
rispetto alla scelta»46.
Secondo LUHMANN «La sociologia si colloca in un rapporto di rottura rispetto alla
razionalità della vita quotidiana, poiché la categoria dello scopo ha ormai largamente perso il
proprio credito quale concetto scientifico fondamentale. Se è vero che chiunque voglia
spiegare razionalmente e rendere comprensibile la propria azione, lo fa scegliendo come
punto di riferimento determinati scopi e motivando l’azione stessa come un mezzo adeguato,
45
Ivi, pp. 43-44.
Ivi, p. 49.
46
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è vero anche che la categoria dello scopo non gode ormai più della stessa validità quale punto
di riferimento ultimo delle analisi scientifiche dell’azione»47.
Parallela, abbiamo detto, è la costruzione della teoria dei sistemi di VON BERTALANFFY,
condotta con riferimento particolare ai sistemi viventi.
Ne Il sistema uomo, del 1967: «La visione del mondo di ieri, il cosiddetto universo
meccanicistico, era un mondo di “cieche leggi naturali” e di entità fisiche moventisi a caso.
Caos era il cieco gioco degli atomi. Per accidente, apparvero sulla terra primordiale, come
precursori di vita, composti organici e infine molecole capaci di autoriprodursi. Un evento
non meno caotico si ebbe quando, secondo la corrente teoria dell’evoluzione, la vita
procedette verso forme superiori grazie a mutazioni casuali e a selezione entro un ambiente
soggetto a cambiamenti altrettanto accidentali. Per un altro inesplicabile accidente, mente e
coscienza apparvero in qualche parte come epifenomeno dell’evoluzione del sistema nervoso.
Allo stesso modo, la personalità umana, secondo il comportamentismo e la psicoanalisi, fu un
prodotto casuale di natura ed educazione, in cui ebbero piccola parte i fattori ereditari e gran
parte gli eventi fortuiti della seconda infanzia e il susseguente condizionamento. La storia
umana, infine, è un seguito di cose dannate, senza capo né coda, secondo il celebre detto dello
storico H. A. L. FISHER, emulo dell’Idiota Cosmico di SHAKESPEARE».
«Ora, pare, siamo alla ricerca di un’altra prospettiva fondamentale – il mondo come
organizzazione. Questa pretesa – se verificata – muterebbe profondamente le categorie del
nostro pensiero e influenzerebbe i nostri atteggiamenti pratici».
«WARREN WEAVER, coautore della teoria dell’informazione, l’ha definita in un modo
citato spesso (1948). La scienza classica, ha detto WEAVER, si connetteva alla causalità
lineare o a senso unico: causa seguita da effetto, relazioni tra due o più variabili. Per esempio,
la relazione tra una stessa e un pianeta permette i mirabili calcoli della meccanica celeste, ma
già il problema dei tre corpi è insolubile in linea di principio e può essere accostato soltanto
per approssimazione. Come psicologi, possiamo pensare allo schema stimolo-risposta ove lo
stimolo è variabile indipendente e la reazione variabile dipendente. La scienza, inoltre, si
occupa di complessità non organizzata, vale a dire, di fenomeni statistici come prodotto di
47
Ivi, p. 51.
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eventi fortuiti. Ne è prototipo la termodinamica e in particolare il problema del vuoto delle
particelle di un dato volume di gas: non possiamo seguire ognuna delle innumerevoli
molecole del recipiente, ma il comportamento medio che ne risulta è espresso dalla seconda
legge della termodinamica e dai suoi molti codicilli. Analogamente, le leggi statistiche sono
applicabili alla genetica, alla sociologia – si pensi alla previsione del numero di suicidi o di
scontri automobilistici durante il week end del Labor Day [il primo lunedì di settembre
festeggiato in USA e Canada – N.d.T.] e a molti altri campi. Le compagnie di assicurazione si
basano sul fatto che è possibile prevedere il numero di incidenti automobilistici, mortalità e
simili, anche se ogni caso individuale è differente e risulta da una moltitudine di cause non
definite».
«Ora però ci troviamo di fronte a problemi d’altro tipo – a problemi di complessità
organizzata. Se i principi della fisica classica, come le leggi della gravitazione e della
meccanica, si occupavano di eventi non direzionati e di “cieche forze della natura”, la ricerca
di leggi organizzative diventa oggi legittima. L’organizzazione pervade tutti i livelli della
realtà e della scienza. Un atomo è un’organizzazione (come già sapeva WHITEHEAD) e le
perplessità della fisica contemporanea sembrano derivare dal fatto che i fisici hanno scoperto
centinaia di particelle elementari ma sono ancora alla ricerca di “leggi di organizzazione”. La
chimica strutturale indaga l’organizzazione delle molecole, da quelle semplici alle complesse
e ancora parzialmente inspiegate strutture macro-molecolari incontrate nel mondo vivente. La
biologia molecolare deve i suoi successi ai concetti organizzativi quali il modello del DNA di
WATSON-CRICK, il codice genetico, l’ordine dei processi nella sintesi proteica, che superano
ampiamente le nozioni biochimiche di alcuni anni fa».
«Nelle scienze che studiano la vita, il medesimo postulato appare sotto il nome di
“biologia organistica”. Come vado dicendo da circa trent’anni, non senza incontrare forti
resistenze l’oggetto peculiare della biologia è lo studio dell’“ordine e dell’organizzazione di
parti e processi a tutti i livelli del mondo vivente”. Stranamente, la “biologia organistica”
viene oggi salutata come un nuovo e necessario complemento della biologia molecolare [B.
cita Autori] senza che sia stata fatta da parte americana una qualsiasi menzione dei miei scritti
– benché il loro ruolo sia riconosciuto ovunque altrove, compresi l’Unione Sovietica e i paesi
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dell’Europa orientale [citazione di Autori] – e nulla di nuovo sia stato aggiunto alle loro
affermazioni».
«In sociologia, SOROKIN ha dato al problema una lucida sistemazione, distinguendo “il
microcosmo dell’anarchia” negli eventi microfisici indeterminati (e nei fenomeni socioculturali non ricorrenti); le regolarità statistiche nella “congerie” della macrofisica e dei
fenomeni di massa psicosociali; le leggi organizzative, esemplificate dall’organizzazione del
gene, ma presumibilmente riscontrabili anche nei sistemi socio-culturali. Quella dei “sistemi”,
si può affermare con certezza, è la nozione più dibattuta nell’attuale sociologia».
«La stessa cosa vale per la tecnologia e i campi affini. Le complessità della tecnologia e
del commercio moderni hanno portato a nuovi campi e lavori che vanno sotto il nome di
systemsresearch (ricerca intorno ai sistemi), systemsanalysis (analisi dei sistemi),
systemsengineering (studio tecnico dei sistemi), operationsresearch (ricerca operativa),
human engineering (la ricerca degli strumenti e delle condizioni lavorative che meglio si
adattino alle caratteristiche del lavoratore) e simili. Tali sviluppi usano concetti derivati dalla
teoria generale dei sistemi (nel senso più stretto), dalla cibernetica, dalla teoria
dell’informazione, dalle teorie dei giochi e delle decisioni, dalla programmazione lineare,
dalla teoria delle code e da altre teorie, e sono connessi all’elettronica, alla scienza dei
computer, alla ricerca intorno agli armamenti ecc.»48.
Secondo BERTALANFFY, «Si può definire sistema un complesso di componenti in
interazione»49 (e io aggiungerei analizzato alla stregua di un contesto, spazio-temporale).
«Non possiamo parlare di cose viventi e di comportamento se non in maniera funzionale, vale
a dire, considerando le loro parti e i loro processi come organizzati in vista della
conservazione, dello sviluppo, dell’evoluzione ecc. del sistema»50. «Considerazioni analoghe
valgono per le scienze psico-sociali. [...] le categorie tradizionali della scienza meccanicistica
non sono sufficienti a spiegare (o piuttosto escludono) gli aspetti empirici fondamentali.
Sembra, pertanto, che un’espansione delle categorie, dei modelli, delle teorie sia necessaria
48
VON BERTALANFFY,
Il sistema uomo, op. cit., pp. 76-79.
49
Ivi, p. 91.
50
Ivi, p. 82.
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per trattare adeguatamente gli universi biologico, comportamentista e sociale»51. Infine, «In
contrasto con la progressiva specializzazione della scienza moderna, questo nuovo tipo di
modelli è interdisciplinare; lo stesso modello astratto si applica a differenti contenuti, in
differenti campi o discipline. In altri termini, fenomeni differenti nel contenuto rivelano
spesso isomorfismo nella loro struttura formale»52.
Nelle scienze sociali, oggi, la complessità ha una dimensione reale, che riguarda le
caratteristiche di complessità crescente e organizzazione delle attività umane, e riguarda
anche le caratteristiche della società pluralistica e multiculturale e della politica, e quindi una
dimensione sociologica e politica, e una dimensione culturale, che riguarda la complessità
crescente delle analisi.
Per ciò che concerne la nostra analisi, possiamo rilevare come, da un canto, in confronto
alla complessità (sia reale che culturale), non regge, non tiene, il concetto di causa: risulta
progressivamente insufficiente in proporzione della complessità, dei fenomeni e delle attività
analizzati e dell’analisi stessa. D’altro canto, la complessità genera incertezza, e quindi
contraddice un’esigenza fondamentale della concezione dei giuristi.
Secondo l’analisi di VAN DE KERCHOVE e OST, giuristi belgi, «Lo scotto da pagare per
questa complessità è certamente l’incertezza; tale è il rischio da correre, data l’insoddisfazione
nei confronti della epistemologia della semplicità, della quale è noto il carattere riduttivo o,
appunto, semplificatore. Cosa diceva questa intelligibilità classica, la cui paternità è ascritta a
CARTESIO, che ebbe il merito di esporla direttamente? Si trattava di isolare degli oggetti (delle
sostanze) chiari e distinti, staccati da uno sfondo sfumato e separato come uno scenario
teatrale. Prima semplificazione: l’oggetto, l’elemento, l’individuo, la sostanza, l’atomo
dell’essere non debbono nulla a ciò che li circonda. Come se fosse possibile pensare
l’elemento al di fuori del sistema che lo costituisce. Come se l’identità potesse riposare
tranquillamente in se stessa, con il terzo escluso a priori. Il terzo è destinato per forza ad
essere escluso, dal momento che l’entre-deux non riesce ad aprirsi un cammino in questa
fortezza di identità»53.
51
Ivi, p. 83.
Ibid.
53
VAN DE KERCHOVE - OST, Il diritto ovvero i paradossi del gioco, 1992, Milano, 1994, 1995, p. 85.
52
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Questo riferimento al “terzo”, escluso dalla semplificazione della modernità e
dell’illuminismo, equivale al riferimento di VON BERTALANFFY, che abbiamo visto sopra, alla
insolubilità in linea di principio del “problema dei tre corpi” con la logica causale.
«Beninteso, qualora siano osservabili talune relazioni tra questi elementi chiari e
distinti, esse vengono pensate secondo uno schema meccanicistico: si tratta di movimenti
lineari, di causalità unilaterali, che, quando si esercitano, non sono mai in grado di turbare
l’ordine naturale delle ragioni (“queste lunghe catene di ragioni, del tutto semplici e facili” [R.
DESCARTES, Discours de la méthode, Paris, 1934, p. 27]). È sottinteso, infatti, che il grande
contiene il piccolo, che l’anteriore causa il posteriore, che il pesante comporta il leggero, ecc.
Seconda semplificazione: non c’è posto per le idee di ricorsività, di causalità multipla e
circolare, di interazioni e di alea. Tutto viene determinato come il movimento di un orologio.
Il gioco degli ingranaggi appare come un gioco “finito”, destinato a scandire il sempiterno va
e vieni del bilanciere ed il girotondo delle ore sul quadrante».
«Infine, l’osservatore, reso immune dalle facezie del suo genio maligno, come in un
gioco di prestigio, viene fatto sparire dal teatro del metodo. Sicuro del suo “essere” in grazia
del suo “cogito”, il filosofo si trincera dietro l’“oggettività” del proprio metodo. Terza
semplificazione: sappiamo oggi quanto tale oggettività non critica sia pregna di proiezioni
soggettive. Solo un’epistemologia della complessità, consapevole della inevitabile
implicazione dell’osservatore, può iniziare a dare uno statuto alla spiegazione che si propone
di fornire».
«Semplicità. Complessità. Lasciamo l’ultima parola a MORIN [E. MORIN, La méthode: I.
La nature de la nature, Paris, 1977]: “Il vero dibattito, la vera alternativa vengono a situarsi
ormai tra complessità e semplificazione (...). È qui che si consuma il grande cambiamento.
Sparisce l’entità di partenza della conoscenza: il reale, la materia, lo spirito, l’oggetto,
l’ordine, ecc. Rimane un gioco circolare che genera tali entità” (p. 382). Ed ancora: “Il
problema consiste ormai nel trasformare la scoperta della complessità in metodo della
complessità” (p. 386)»54.
54
Ivi, pp. 85-86.
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Nella conclusione del capitolo intitolata significativamente «Il ritorno del terzo», VAN
DE
KERCHOVE e OST propongono «L’abbandono graduale della semplicità cartesiana
(graduale, perché non ci si libera in un giorno di un modello così radicato nel senso comune),
la crescente presa di coscienza della complessità». «Dovendo descrivere in una parola tale
mutamento di paradigma parleremmo di “ritorno del terzo”. Il terzo escluso. Questo terzo che
il pensiero semplificatore aveva messo al bando, in un canto, fuori gioco, fuori legge, poiché
tutto era sempre questo o quello. Talvolta, questo contro quello. O, allora, né questo, né
quello. Ma mai, assolutamente mai, questo poteva contaminare quello. Niente implicazione,
ma solo appartenenza totale. Niente entre-deux, ma solo la voragine della non-contraddizione.
A=A; A non è non-A, terzo escluso. Questa logica monistica non conosceva che identità
giustapposte. Qui ogni differenza è inoperante, al punto che nessun passaggio di entre-deux
viene previsto. Il terzo, e si comprende perché, viene espulso come un genio maligno. Quanto
a noi, tutti i nostri sforzi sono stati volti ad indicare come questo terzo riapparisse nell’azione
come nel pensiero. Non sotto forma di prudente compromesso (“a mezza strada”) o di
indaffarato eclettismo (“di tutto un po’”), ma come il richiamo di una mediazione nel
profondo della differenza che viene ad insinuarsi nelle identità più salde»55.
Il “ritorno del terzo” può essere considerato la metafora della post-modernità, se si va a
vedere come LYOTARD definisce La condizione postmoderna nella introduzione del saggio
così intitolato: «L’oggetto di questo studio è la condizione del sapere nelle società più
sviluppate. Abbiamo deciso di chiamarla “postmoderna”. La definizione è corrente nella
letteratura sociologica e critica del continente americano. Essa designa lo stato della cultura
dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura, delle arti a
partire dalla fine del XIX secolo. Tali trasformazioni saranno messe qui in relazione con la
crisi delle narrazioni»56. Molte delle categorie in discussione sono quelle di cui discutiamo in
questa sede, indicate nei passi degli Autori su riportati57.
55
Ivi, p. 87.
LYOTARD, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, 1979, Milano, 1981, p. 5.
57
Su questi temi mi sia permesso di rinviare il lettore al saggio di ALEO e PICA, Sistemi giuridici Complessità @
Comunicazione, Acireale-Roma, 2009.
56
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La crisi e almeno l’insufficienza della causalità e le relative ragioni sono profili
essenziali della crisi della modernità, e l’alternativa può essere definita fra semplificazione e
complessità.
La codificazione, forse l’invenzione più importante della modernità, ha presupposto (fra
l’altro) la straordinaria capacità di semplificazione, dei problemi e delle soluzioni, della
cultura illuministica, la fiducia e la pretesa definitorie (anche delimitative) e ordinative della
ragione, della cultura razionalistica, la nettezza delle distinzioni (fra bene e male) della cultura
cattolica. L’“età della decodificazione”58 è figlia della crisi delle certezze di queste culture.
In confronto alla complessità perdono capacità definitoria sia la forma della legge che
l’analisi causale, che sono entrambi pilastri della teoria giuridica moderna. C’è
corrispondenza fra questi due problemi, perché la causalità esprime una soglia semantica di
tipo qualitativo: (nel suo significato minimo) la condizione senza la quale non si sarebbe
verificato.
4. Insufficienza della causalità nelle argomentazioni relative ai modelli
collettivi e/o organizzati
Proprio i penalisti dovrebbero avere percezione (consapevolezza) dei limiti della
causalità (nonché della capacità pre-definitoria della forma della legge), con riferimento alle
problematiche del concorso di persone nel reato, delle organizzazioni criminali, dei delitti con
autori e vittime collettivi. Ma proprio i penalisti sono più legati ai dogmi e alle spiegazioni
causali. Ciò potrebbe spiegarsi con l’esigenza di certezza del diritto e il principio di
personalità della responsabilità penale. Meno si spiega che si parli di organizzazioni criminali,
e si argomenti in materia, a prescindere dalla teoria dell’organizzazione, o riducendo le
problematiche dell’organizzazione alle nozioni dell’associazione. (Mentre gli studiosi di tutte
le altre scienze attraversano la teoria dell’organizzazione).
58
L’espressione è di IRTI, L’età della decodificazione, Milano, 1979.
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Nei libri di diritto penale59 (e nelle sentenze dei giudici) c’è scritto che la soglia della
responsabilità per il concorso di persone nel reato è costituita dal “contributo causale” alla
realizzazione del reato, alla verificazione del fatto costitutivo del reato. Addirittura qualcuno
ha scritto che il contributo debba essere condicio sine qua non dell’evento (per come
verificatosi)60.
L’espressione “contributo causale” dovrebbe significare il carattere “causale” del
contributo. E “causale” dovrebbe significare quello che c’è scritto (negli stessi libri) nel
capitolo sul rapporto di causalità: la condizione senza la quale l’evento non si sarebbe
verificato (condicio sine qua non), che inoltre può essere considerata adeguata al verificarsi
dell’evento (secondo l’id quodplerumqueaccidit, ovvero ciò che avviene nella maggior parte
dei casi, considerata l’esperienza dei casi simili).
Il contributo parziale ad una dimensione generale non può essere argomentato nei
termini generali (ci si scusi la ripetizione) della causalità: né nel senso della condicio sine qua
non61 né tantomeno in quello dell’adeguatezza causale.
Il palo nella rapina non può essere considerato in alcun modo “causale”, e tuttavia
nessuno vorrà dubitare della sua responsabilità. Il palo non può essere definito condicio sine
qua non della rapina, ovvero la rapina si può fare anche senza il palo: correndo maggiori
rischi e in caso di successo dividendo il bottino in un minor numero di parti; e una rapina
complicata si può fare meglio con due pali: minimizzando il rischio, aumentando le
probabilità di successo e quindi di un maggior risultato, e aumentando anche il numero di
parti in cui dividere il bottino. Questa è teoria dell’organizzazione, analisi del rapporto fra
costi e benefici, e non c’entra niente con la causalità, con l’analisi causale. Men che meno il
palo può essere considerato (di per sé solo) condizione adeguata della rapina.
59
Per tutti v. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, 16ª ed. aggiorn. e integr. da CONTI, Milano,
2003, pp. 563 ss.
60
PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1952, e GRASSO, Art. 110, in ROMANO e GRASSO,
Commentario sistematico del codice penale. II. Art. 85-149, Milano, 1990, pp. 146 ss., 3ª ed., 2005, pp. 159 ss.
61
V. invece PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, op. cit, GRASSO, Art. 110, op. cit. Per le critiche v.
PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, 8ª ed., Milano, 2003, pp. 554 ss., e MANTOVANI, Diritto
penale. Parte generale, 6ª ed., Padova, 2009, pp. 514 ss.. PAGLIARO ha criticato la qualificazione come “causale”
del contributo nel concorso di persone nel reato senza tuttavia pervenire a una diversa definizione teorica
generale dal punto di vista oggettivo.
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Questo è il problema dei tre corpi, insolubile con la causalità, ovvero del terzo escluso
dalla semplificazione della modernità. Ovviamente il problema si complica con l’aumento
delle variabili: più propriamente, si complessifica, ma se viene affrontato in termini
funzionalistici.
Contributo “causale” (dei libri di diritto penale e delle sentenze) non vuol dire
contributo “alla causalità” (ovvero alla verificazione) dell’evento costitutivo del reato (che di
per sé non sarebbe sbagliato): sia perché in tal modo non viene definito proprio il contributo
(singolarmente), che invece è oggetto della valutazione; sia perché questa valutazione non ha
di per sé carattere propriamente “causale”.
L’argomento (pure proposto62 – per salvare la baracca!) che il contributo è condicio sine
qua non del fatto per come in concreto questo è stato realizzato non può essere in alcun modo
condiviso: perché contraddice le connotazioni di astrattezza e generalità (della comparazione
fra gli insiemi degli eventi dei tipi di cui si tratta) che sono essenziali del giudizio di causalità
(la ricerca delle leggi di verificazione degli eventi); contraddice la logica causale; in concreto,
perché è sempre vero, per qualunque caratteristica del fatto (senza la quale cioè il fatto
sarebbe stato diverso) e dunque elude l’esigenza di argomentazione cui è diretta l’analisi
causale.
È possibile che in concreto il singolo contributo sia così rilevante per l’intero da esserne
condicio sine qua non. Ma questo non può essere indicato come criterio generale della
responsabilità per il concorso di persone nel reato.
La concezione c.d. della causalità “agevolatrice” o “di rinforzo”63, con cui si cerca di
salvare la rilevanza della causalità nella problematica del concorso di persone, esprime un
significato di causalità comunque diverso da quelli della condicio sine qua non e
dell’adeguatezza, accolti in generale dalla dottrina penalistica: “causalità agevolatrice” è anzi
a rigore una contraddizione in termini, perché la causalità vuole costituire una condizione di
sufficienza della spiegazione (della verificazione); questa concezione esprime un significato
62
PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, cit., p. 80; ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 564; GRASSO, Art. 110,
cit., 1990, pp. 146 ss., 3ª ed., 2005, pp. 159 ss.. Per le critiche v. PAGLIARO, Principi cit., 8ª ed., pp. 557 ss.,
nonché Il reato, in GROSSO – PADOVANI – MAGLIARO (a cura di), Trattato di diritto penale, II, Milano, 2007, pp.
380 ss..
63
Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 6ª ed., cit., p. 515.
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comunque più vicino a quello funzionalistico, della utilità; inoltre, incontra l’obiezione (che
riguarda in generale la teoria dell’accessorietà del concorso di persone nel reato) circa la non
necessità che il rapporto fra i diversi contributi sia tra principale e secondario, ovvero appunto
accessorio.
“Contributo causale” è propriamente in generale una contraddizione in termini.
Il singolo contributo ad una dimensione collettiva ovvero organizzata può essere
argomentato e valutato nei termini generali della funzionalità: della parte rispetto al tutto.
Funzionalità, ovvero utilità: maggiore probabilità di conseguimento del risultato, possibilità di
conseguimento di un miglior risultato, riduzione dei costi, riduzione dei rischi.
La problematica penalistica del concorso di persone non può essere ridotta senz’altro a
quella dell’organizzazione64, che pure ne è connotazione principale: perché il (singolo)
contributo può ben essere penalmente rilevante ancorché assolutamente non preventivato (per
es. il passante che aiuta il reo anziché la vittima).
Prima di continuare va fatta un’osservazione concreta sulla nostra dottrina e sulla nostra
giurisprudenza, in materia di concorso di persone nel reato e di definizione e argomentazione
della responsabilità per i delitti associativi: spesso le argomentazioni adottate (in modo
precipuo, nelle più recenti pronunce della Corte di cassazione) sono chiaramente di carattere
funzionalistico, e talvolta anche puntuali e raffinate, ma definite “causali” e perciò
ovviamente frutto dell’esperienza e del buon senso ma senza la necessaria consapevolezza
scientifica della teoria generale dell’organizzazione.
La nozione del concorso di persone nel reato, segnatamente dell’art. 110 c.p. («Quando
più persone concorrono nel medesimo reato [...]»), prima (in senso logico) di quelle dei delitti
associativi, viene criticata di carenza di tassatività e determinatezza, e considerata oggetto di
necessità di tipizzazione.
La storia della codificazione e della cultura penalistica è caratterizzata da tentativi di
tipizzazione dei contributi concorsuali, rimasti infruttuosi.
Secondo la Commissione GROSSO, «Questo criterio amplissimo, che dà rilievo a
contributi anche non rigorosamente causali, fa rilevare sul terreno del concorso condotte che
64
INSOLERA, Problemi di struttura del concorso di persone nel reato, cit. e voce Concorso di persone nel reato,
in Dig. disc. pen., vol. II, 1988, pp. 437 ss., I aggiorn., 2000, pp. 66 ss..
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si sono limitate ad incrementare il rischio della produzione dell’evento, concede
indiscriminata rilevanza ad ogni condotta agevolatrice o di rinforzo, deve essere superato in
sede di riforma. Attraverso una norma che dia invece rilevanza soltanto a condotte
sicuramente causali in ordine alla condotta di un altro concorrente o al comune evento
criminoso attraverso una dettagliata descrizione delle condotte tipiche». «In via
esemplificativa, una formulazione possibile che tenga conto delle sopramenzionate esigenze
di tipizzazione degli apporti causali potrebbe essere la seguente: concorre nel reato chiunque
abbia partecipato o istigato alla sua esecuzione ovvero rafforzato il proposito di altro
concorrente o agevolato l’esecuzione fornendo aiuto o assistenza»65.
La prima indicazione della Commissione PISAPIA sul «Concorso di persone nel reato» è
stata quella di «Prevedere che: a) concorre nel reato chi partecipando alla sua deliberazione,
preparazione o esecuzione ovvero determinando o istigando altro concorrente, o prestando un
aiuto obiettivamente diretto alla realizzazione medesima, apporta un contributo causale alla
realizzazione del fatto».
Abbiamo detto che il contributo causale non può essere argomentato nei termini
generali della causalità: il che non esclude che concretamente il singolo contributo possa
essere considerato causale rispetto all’evento, sia nel senso della condicio sine qua non che in
quello dell’adeguatezza rispetto alla realizzazione della fattispecie.
Adesso aggiungiamo che la nozione di contributo (di una parte a un tutto), in linea di
principio: a) non è tipizzabile, b) è senza soglia.
Già la nozione di causalità non è tipizzabile: una persona si può uccidere in un numero
infinito di modi possibili (secondo la razionalità e fantasia dell’autore). La causalità non è un
fatto, di cui si può descrivere il modello (tipico), ma un criterio di valutazione. Il dolo e la
colpa sono criteri di valutazione. La nostra cultura non si pone il problema di tipizzare queste
nozioni, perché esse rientrano nella tradizione culturale più lontana e profonda, fanno parte
del nostro dna o background culturale. e sono nozioni, a ben vedere, senza soglia: non è
definibile il minimo del dolo, o il minimo della colpa. Ad un certo grado di consistenza il
giudice ritiene la presenza del dolo, della colpa; come del nesso di causalità. Eppure la nostra
65
Sta in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, p. 622.5.
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cultura giuridica si pone il problema di tipizzare il concorso di persone nel reato, come (ed a
maggior ragione) le nozioni di partecipazione e di concorso eventuale o esterno nei delitti
associativi.
Men che meno può essere tipizzabile la nozione di contributo... alla causalità. Il
contributo, da un canto, può esser dato in un numero infinito di modi possibili (secondo la
razionalità e fantasia del suo protagonista), d’altro canto, viene valorato (assume il valore e
quindi il significato di contributo, alla dimensione collettiva) secondo l’uso che poi ne fanno
gli altri protagonisti della dimensione collettiva (e secondo la loro razionalità e fantasia).
La funzione essenziale della disciplina del concorso di persone nel reato è di definizione
(ed assimilazione) della responsabilità dei contributi, alla realizzazione del fatto costitutivo
del reato, “atipici”, ossia singolarmente non costitutivi della fattispecie (nei suoi aspetti sia
oggettivi che soggettivi). Tipizzare la... atipicità mi sembra davvero improbabile. Cosa
diversa è qualsiasi una norma (qui ov’è definito un criterio, di valutazione e di misura) possa
essere costruita e riscritta meglio.
La distinzione della pena secondo la diversa tipologia del contributo (autore, coautore,
istigatore, complice, come per esempio nel codice tedesco e nel codice ZANARDELLI), che è in
tal caso una (ulteriore) funzione precipua della disciplina del concorso di persone nel reato,
incontra la forte obiezione che la tipologia (formale qualitativa) del contributo non è di per sé
misura della sua rilevanza concreta, cioè un contributo di qualsiasi tipo può essere in concreto
più consistente o viceversa meno consistente che uno di qualsiasi altro tipo: l’istigatore può
avere nel caso concreto una rilevanza maggiore che l’autore, o il complice fornire un
contributo essenziale per la dimensione concreta del fatto come realizzato.
La nozione di contributo è di per sé senza soglia: si può contribuire in un modo
piccolissimo, e tuttavia appunto rilevante, alla edificazione di un evento di dimensioni pure
ingenti (io invio un euro per la ricerca sul cancro, o affiggo un volantino pubblicitario di un
evento importantissimo). È lo stesso dire che adottato un (qualsiasi) criterio di misura, come
di valutazione, tutto è misurabile, l’infinitamente piccolo come l’infinitamente grande.
Problema in sé diverso è quello secondo cui la misura del penalmente rilevante debba
essere di una certa consistenza. È un problema generale del diritto penale, e riguarda
parimenti la consistenza economica necessaria a costituire il reato di furto o quello di truffa. A
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mio avviso questo problema non può essere risolto adeguatamente in sede di definizione del
reato, se non di criteri generali, ma soprattutto, nella sostanza (quale che ne sia la collocazione
ovvero denominazione formale), in termini di discrezionalità dell’azione penale.
Circa i problemi che stiamo ponendo, e a proposito di complessità e legalità, va fatto
rilevare come nel nuovo codice penale francese, del 1994, e nel sistema della discrezionalità
dell’azione penale: a) siano stati eliminati tutti i minimi edittali; b) siano state eliminate, di
conseguenza, tutte le circostanze attenuanti del reato; c) sia stato adottato il criterio generale
dell’assorbimento, delle pene di varie infrazioni entro la pena dell’infrazione più grave, fra
quelle commesse dalla stessa persona.
Quest’ultima soluzione, ulteriore rispetto alle nostre prassi in materia di reato
continuato (queste già assai ulteriori in confronto allo schema e alla ratio originari del
codice), esprime il significato di una funzione penale interdittiva della pericolosità in atto
dell’individuo, quale si evince soprattutto dalla tipologia dei reati commessi, e dal reato più
grave fra quelli commessi. È una funzione ulteriore rispetto alla funzione generalpreventiva. È
una funzione peculiare della storia, e delle prassi, dei delitti politici e dei delitti associativi.
Un’altra considerazione necessaria è che (tutto) il diritto del terzo millennio si
arricchisce di criteri di valutazione, e di attribuzioni all’operatore di funzioni da realizzare, in
concreto, (e quindi di un ambito di discrezionalità concreta di tipo anche operativo), che sono
appunto diversi e ulteriori rispetto ai termini tradizionali della forma della legge e
segnatamente della fattispecie. Ciò pone ovviamente il problema di una diversa e ulteriore
costruzione delle garanzie.
Nella concezione classica nella forma della legge sono definite la soglia dell’illecito e
quella della garanzia. Nella realtà attuale, per ragioni reali, politiche e culturali, la forma della
legge è sempre più dilatata ed elastica, nella definizione dell’illecito, il che quindi richiede la
precisazione dei criteri di prova e di argomentazione, e la problematica delle garanzie
dev’essere costruita parimenti secondo una logica e in termini (anche) funzionalistici.
L’associazione è come tale una struttura organizzativa, costituita da accordi
(convenzioni) di carattere generale. La nozione di organizzazione presuppone inoltre la
predisposizione di risorse e mezzi materiali. Queste nozioni sono di tipo dinamico,
processuale, e non possono essere rappresentate con le categorie della causalità.
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In generale la nozione di organizzazione sposta il problema dalla dimensione soggettiva
dello “scopo”, delle “finalità”, dell’associazione alla dimensione oggettiva della
“funzionalità” della struttura (di persone e di mezzi) rispetto alla realizzazione di una attività
di tipo delittuoso.
La previsione dell’art. 270 del codice ROCCO (di «Associazioni sovversive») ebbe
origine, come abbiamo detto, con riferimento diretto, e dichiarato, alle associazioni
comuniste, socialiste e anarchiche. Vassalli ha riferito come ROCCO ai suoi studenti
dell’Università di Roma spiegasse che i legislatori avevano fatto grande fatica a rappresentare
in termini normativi movimenti politici esistenti. E che queste norme riguardavano le
associazioni volte alla diffusione di idee politiche sovversive, perché quando si passasse
all’azione subentrerebbero i delitti associativi di cui agli artt. 304, 305 e 306 del codice
(cospirazione politica mediante accordo e mediante associazione e banda armata).
Orbene, la riforma radicale avvenuta con la legge 24.2.2006 n. 85 costituisce l’eccesso
opposto, ma soprattutto ha reso la previsione sostanzialmente inapplicabile: «Chiunque nel
territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette e idonee a
sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, ovvero a
sopprimere violentemente ogni ordinamento politico e giuridico dello Stato, è punito con la
reclusione da cinque a dieci anni». La partecipazione è punita da uno a tre anni e le pene sono
aumentate per coloro che ricostituiscono le associazioni di cui sia stato ordinato lo
scioglimento. La figura è rimasta tuttavia meno grave di quella delle associazioni terroristiche
(di «Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine
democratico») dell’art. 270 bis, la cui costituzione è punita da sette a quindici anni, e la cui
partecipazione è punita da cinque a dieci anni.
Le Brigate Rosse non sono state, e non erano, “idonee”, “a sovvertire violentemente gli
ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, ovvero a sopprimere violentemente
ogni ordinamento politico e giuridico dello Stato”, e non lo sono state, e non lo sono, neppure
le strutture di al-Qaida e Osama Bin Laden in confronto all’ordinamento e alla democrazia
statunitensi.
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5. Partecipazione e concorso esterno nei delitti associativi
La partecipazione o appartenenza all’associazione delittuosa è costituita dalla
correlazione funzionale stabile della persona con la struttura e quindi con l’attività
dell’associazione, con la condivisione delle finalità di questa. Condivisione soggettiva ma
anche oggettiva: così dei risultati e proventi delle attività. La relazione funzionale stabile può
essere costituita dall’accordo formale, cui segua la reciproca disponibilità, ovvero dalla
effettività di questa disponibilità, attestata dalle prestazioni corrispettive.
È membro dell’associazione colui, che vi abbia aderito formalmente, ovvero nei fatti,
sulle cui prestazioni si può fare quindi legittimo preventivo affidamento, sulle quali si fa (cioè
di fatto) preventivo affidamento. È coerente sia con la dottrina penalistica che con la teoria
dell’organizzazione che le nozioni penalistiche di questa vengano dedotte, ex post, dalla
effettività delle condotte realizzate, segnatamente da quelle aventi rilevanza penale, dalle
correlazioni interpersonali e organizzative costituite, per la realizzazione di attività delittuose.
Come abbiamo già osservato, nessuno penserebbe di ridurre ovvero ricostruire la
problematica del concorso di persone nel reato con riferimento alla dimensione (formale)
dell’accordo.
Come altresì abbiamo detto, essenziale del concetto di organizzazione è quello di
ricorsività (di reiterazione in termini di reciprocità) fra le prestazioni dei diversi soggetti che
ne costituiscono così la struttura. E in tal senso il concetto sociale (ovvero anche sociologico)
di convenzione è già diverso da quello di accordo o di contratto.
Il concorso eventuale o esterno nei delitti associativi.
Il contributo, rilevante (utile) per la struttura e/o per l’attività dell’associazione
delittuosa, fornito da chi non faccia parte della stessa, è costitutivo del concorso eventuale o
esterno nel delitto associativo.
In termini di teoria dell’organizzazione, da una parte, la connotazione di stabilità
(essenziale dell’analisi e) della nozione di funzionalità riguarda gli effetti del contributo, che
dunque può essere anche singolo, per la struttura e/o l’attività dell’associazione, considerate
(queste) in termini generali. Così, questo contributo va tenuto distinto dal concorso nel
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singolo reato: che tuttavia, per la sua dimensione e rilevanza concreta (in funzione
dell’associazione e dell’attività di questa, considerate in generale), può costituire anche
concorso nel delitto associativo.
D’altra parte, la differenza fra la partecipazione all’associazione e il concorso esterno è
che la prima è il risultato di, ed è costituita da, una convenzione di carattere generale, fra il
soggetto e l’associazione, il contributo costitutivo del concorso esterno è (dev’essere stato)
oggetto di una negoziazione specifica, fra l’associazione e il soggetto; altrimenti non era
preventivabile in quanto esigibile.
Dal punto di vista sistematico e formale, la disciplina generale del concorso di persone
nel reato, che ha la funzione essenziale – abbiamo visto – di definire e assimilare alla
responsabilità del reato quella dei contributi atipici alla realizzazione di esso, è parimenti
applicabile (e direi anche ovviamente) ai reati a concorso necessario: per gli autori dei
contributi “atipici” alla realizzazione di questi. Possono farsi gli esempi di colui che istiga i
rissanti: concorre alla rissa cui non partecipa; e di colui che presta la casa per lo svolgimento
di una relazione incestuosa: al cui reato dunque concorre senza parteciparvi.
Fra i reati a concorso necessario – cui è applicabile la disciplina generale del concorso
di persone nel reato – non si possono certo escludere, non v’è ragione per escludere, i delitti
associativi. Anzi. Per questi la disciplina sembra particolarmente necessaria.
Nel codice napoleonico era lo sforzo di tipizzazione sia dei contributi concorsuali
(costitutivi della disciplina generale della “complicità”) che dei contributi alle associazioni e
alle bande delittuose di chi non ne fa parte.
Art. 59: «I complici di un crimine o di un delitto, saranno puniti colla stessa pena degli
autori di questo crimine o di questo delitto, salvi i casi nei quali la legge avesse diversamente
disposto». Art. 60: «Saranno puniti come complici di una azione qualificata come crimine o
delitto, coloro i quali, con doni, promesse, minacce, abuso di autorità o di potere,
macchinazioni o male arti, avranno provocata questa azione, o dato delle istruzioni per
commetterla; Coloro che avranno procurato delle armi, degl’istrumenti o qualunque altro
mezzo che avrà servito all’azione, sapendo che di ciò doveva farsi uso per la medesima;
Coloro che avranno scientemente aiutato od assistito l’autore o gli autori dell’azione nei fatti
che l’avranno preparata o facilitata, od in quelli che l’avranno consumata; salve però le pene
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che saranno specialmente prescritte nel presente Codice contro gli autori di cospirazioni o di
provocazioni attentatorie alla sicurezza interna od esterna dello stato, anche nel caso in cui il
crimine che era l’oggetto dei cospiratori o dei provocatori, non fosse stato commesso». Art.
61: «Coloro che, conoscendo la condotta criminosa di malfattori che esercitano brigantaggio o
violenze contro la sicurezza dello Stato, la pace pubblica, le persone o le proprietà, loro
somministrano abitualmente alloggio, luogo di ritirata o d’unione, saranno puniti come loro
complici».
Inoltre, nell’art. 96, la previsione della pena delle bande armate (la pena di morte e la
confisca dei beni del condannato) riguarda parimenti chi «si sarà messo alla testa di bande
armate, o vi avrà esercitato una funzione o comando qualunque», «quelli che avranno diretto
l’associazione, levato o fatto levare, organizzato o fatto organizzare le bande, o che loro
avranno, scientemente e volontariamente, somministrato o procurato delle armi, munizioni e
istrumenti pel crimine, od avranno inviato dei convogli di viveri, o che avranno in qualunque
altro modo tenuto intelligenze coi direttori o comandanti delle bande»66.
Ancora, nella disciplina dell’associazione di malfattori, secondo l’art. 267, «gli autori, i
direttori dell’associazione, ed i comandanti in capo o sottocomandanti di queste bande,
saranno puniti coi lavori forzati a tempo», secondo l’art. 268, «Saranno punite colla
reclusione tutte le altre persone incaricate di un servizio qualunque in queste bande, e quelle
che avranno scientemente e volontariamente somministrato alle bande o alle loro divisioni
delle armi, munizioni, istromenti atti al crimine, alloggio, ritirata o luogo di unione».
Nel codice ZANARDELLI, nelle previsioni degli artt. 132 e 249 (corrispondenti agli artt.
307 e 418 del codice Rocco), di assistenza ai partecipi di banda armata ed associazione per
delinquere, era fatta salva la disciplina generale del concorso di persone nel reato.
66
Art. 96 del codice penale napoleonico: «Chiunque, sia per invadere dei beni demaniali, delle proprietà o danari
pubblici, piazze, città, fortezze, posti, magazzini, arsenali, porti, vascelli o bastimenti appartenenti allo Stato, sia
per saccheggiare o dividere delle proprietà pubbliche o nazionali, o quelle di una generalità di cittadini, sia in
fine per far attacco o resistenza alla forza pubblica, mentre agisce contro gli autori di questi crimini, si sarà
messo alla testa di bande armate, o vi avrà esercitato una funzione o comando qualunque, sarà punito colla
morte, ed i suoi beni saranno confiscati». «Saranno applicate le stesse pene a quelli che avranno diretto
l’associazione, levato o fatto levare, organizzato o fatto organizzare le bande, o che loro avranno, scientemente e
volontariamente, somministrato o procurato delle armi, munizioni e istrumenti pel crimine, od avranno inviato
dei convogli di viveri, o che avranno in qualunque altro modo tenuto intelligenze coi direttori o comandanti delle
bande».
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Art. 132: «Chiunque, fuori dei casi preveduti nell’art. 64, dà rifugio o assistenza o
somministra vettovaglie alla banda menzionata nell’articolo precedente, o in qualsiasi modo
ne favorisce le operazioni, è punito con la detenzione da sei mesi a cinque anni»67.
La previsione dell’art. 249 è identica con riferimento all’associazione per delinquere:
«Chiunque, fuori dei casi preveduti nell’articolo 64, dà rifugio o assistenza, o somministra
vettovaglie agli associati, o ad alcuno tra essi, è punito con la reclusione sino ad un anno». Ma
vi è aggiunta la previsione del secondo comma: «Va esente da pena colui che somministri
vitto o dia rifugio ad un prossimo congiunto».
La disciplina richiamata dell’art. 64 è quella generale «Del concorso di più persone in
uno stesso reato»68.
Le previsioni degli artt. 307 e 418 del codice ROCCO sono, come si è accennato,
corrispondenti a quelle degli artt. 132 e 249 del codice ZANARDELLI.
La formula di esclusione del concorso di persone nel reato, introduttiva di queste
previsioni, è stata pure intesa dalla Corte di cassazione come riferita alle ipotesi di concorso
67
Siamo (nel codice ZANARDELLI) fra le «Disposizioni comuni ai capi precedenti», «Dei delitti contro la
sicurezza dello Stato».
Art. 131: «Chiunque, per commettere alcuno dei delitti preveduti negli articoli 114, 117, 118 e 120, forma una
banda armata, o esercita nella medesima un comando superiore od una funzione speciale, è punito con la
reclusione o con la detenzione da dieci a quindici anni». «Tutti gli altri che fanno parte della banda sono puniti
con la reclusione o con la detenzione da tre a dieci anni».
Art. 133: «Vanno esenti da pena per i fatti preveduti nei due articoli precedenti: 1° coloro che, prima della
ingiunzione dell’Autorità o della Forza pubblica, o immediatamente dopo, disciolgano la banda o impediscano
che la banda commetta il delitto per il quale era formata; 2° coloro che, non avendo partecipato alla formazione o
al comando della banda, prima della detta ingiunzione, o immediatamente dopo, si ritirino senza resistere,
consegnando o abbandonando le armi».
68
Libro I, titolo VI, la disciplina generale «Del concorso di più persone in uno stesso reato». Art. 63: «Quando
più persone concorrano nella esecuzione di un reato, ciascuno degli esecutori e dei cooperatori immediati
soggiace alla pena stabilita per il reato commesso». «Alla stessa pena soggiace colui che ha determinato altri a
commettere il reato; ma all’ergastolo è sostituita la reclusione da venticinque a trent’anni, e le altre pene sono
diminuite di un sesto, se l’esecutore del reato lo abbia commesso anche per motivi propri». Art. 64: «È punito
con la reclusione per un tempo non minore dei dodici anni, ove la pena stabilita per il reato commesso sia
l’ergastolo, e negli altri casi con la pena stabilita per il reato medesimo diminuita della metà, colui che è
concorso nel reato: 1° con l’eccitare o rafforzare la risoluzione di commetterlo, o col promettere assistenza od
aiuto da prestarsi dopo il reato; 2º col dare istruzioni o col somministrare mezzi per eseguirlo; 3° col facilitarne
l’esecuzione, prestando assistenza od aiuto prima o durante il fatto». Art. 65: «Le circostanze e le qualità inerenti
alla persona, permanenti o accidentali, per le quali si aggrava la pena di alcuno fra quelli che sono concorsi nel
reato, ove abbiano servito ad agevolarne la esecuzione, stanno a carico anche di coloro che le conoscevano nel
momento in cui vi sono concorsi; ma la pena può essere diminuita di un sesto, e all’ergastolo può essere
sostituita la reclusione da venticinque a trent’anni». Art. 66: «Le circostanze materiali che aggravano la pena,
ancorché facciano mutare il titolo del reato, stanno a carico anche di coloro che le conoscevano nel momento in
cui sono concorsi nel reato».
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necessario costitutive (direttamente) del delitto associativo: e questo argomento era utilizzato
per escludere la configurabilità del concorso eventuale nel delitto associativo69. Ma invece
quella formula («fuori dei casi di concorso nel reato») riproduce identicamente il riferimento
formale del codice ZANARDELLI alla (all’art. 64 della) disciplina generale del concorso
(eventuale) di persone nel reato.
I delitti di assistenza agli associati degli artt. 307, 418 e poi anche 270 ter70
(rispettivamente, della banda armata, dell’associazione per delinquere e di tipo mafioso,
dell’associazione sovversiva e di quella terroristica) sono costituiti dalle prestazioni in favore
degli associati (originariamente di rifugio o vitto, oggi anche ospitalità, mezzi di trasporto,
strumenti di comunicazione71) agli associati (anche) come singoli (“a taluna delle persone che
partecipano all’associazione”) e anche occasionalmente: infatti con l’aggravante che
l’assistenza sia prestata “continuatamene”. La non punibilità del fatto commesso in favore di
un prossimo congiunto è prevista in tutte e tre le norme.
Lo schema del codice è abbastanza semplice: da un lato, la responsabilità per il delitto
associativo; dall’altro, la responsabilità per il delitto di assistenza agli associati (come singoli,
con l’aggravante che sia prestata continuatamene e la non punibilità del fatto commesso in
favore di un prossimo congiunto), «fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento»
(il delitto di favoreggiamento personale costituito dal fatto di aiutare il soggetto a eludere le
investigazioni dell’autorità); nel mezzo, la responsabilità per il concorso nel delitto
associativo, costituita dai contributi forniti all’associazione, considerata in termini generali, da
chi non vi partecipi, non ne faccia parte.
La Cassazione, ammettendo in linea di principio la configurabilità del concorso
eventuale nel delitto associativo, ha pure ritenuto che in concreto ciò riguardi unicamente (o
essenzialmente) le ipotesi di concorso morale (per esempio, nel caso dell’ex mafioso che
aveva istigato il figlio a entrare nell’organizzazione di cui egli non faceva più parte), perché
invece il contributo materiale sarebbe direttamente costitutivo della figura delittuosa
69
Cass. I, sent. 2348 del 27.6.1994 (ud. 18.5.1994), in Guida al diritto de Il Sole-24 Ore de 31.10.1994, pp. 70
ss..
70
Inserito con l’art. 1 d.l. 18.10.2001 n. 374, conv. con modif. in l. 15.12.2001 n. 438.
71
Modifica introdotta con lo stesso art. 1 d.l. 374/2001 conv. con modif. in l. 438/2001.
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associativa72 (o altrimenti irrilevante, aggiungerei io). Questa posizione risulta, in particolare,
legata alla dimensione “contrattualistica” (cioè fatta di accordi formali, che sopra abbiamo
esaminato) del delitto associativo.
La Cassazione a sezioni unite ha altresì limitato la rilevanza del concorso eventuale o
esterno nel delitto associativo ai casi e momenti di “fibrillazione”, di “emergenza”, nella vita
dell’associazione, da dover questa ricorrere (quindi eccezionalmente) al contributo di estranei:
contributo anche “episodico”, “unico”, ma che « serva per consentire all’associazione per
mantenersi in vita, anche solo in un determinato settore, onde poter conseguire i propri
scopi»73. (La concezione causalistica!).
Invece è assolutamente normale che qualsiasi struttura organizzativa di qualsiasi tipo di
attività abbia bisogno, e si avvalga, di contributi di soggetti che non ne fanno parte, cioè che
non ne sono elementi organici (organicamente inseriti, stabili): contributi, per attività diverse
da quelle svolte tipicamente dai membri della struttura organizzata, che quindi vanno di volta
in volta negoziati, cioè non sono direttamente e senz’altro esigibili e preventivabili; ma che
certo sono ben lontani dall’essere, e non si può richiedere che siano (perché abbiano rilevanza
penale), singolarmente necessari per mantenere in vita l’associazione, o un settore di questa.
In modo particolare, quanto più una organizzazione criminale ha collegamenti, intrecci
e connivenze nell’ambiente sociale circostante (si pensi ai collegamenti della mafia con la
società, con le istituzioni pubbliche, con l’economia, ma anche ai collegamenti dei gruppi
terroristici), tanto più è normale il contributo dei soggetti anche estranei e quindi si pone, in
concreto, il problema della dimensione penalistica del concorso esterno.
Un’osservazione tecnica particolare. Quando veniva esclusa e comunque revocata in
dubbio la configurabilità del concorso esterno nel delitto associativo è stata introdotta nel
sistema la circostanza aggravante (sottratta al bilanciamento) dell’art. 7 d.l. 13.5.1991 n. 152,
conv. con modif. in l. 12.7.1991 n. 203, per i delitti «commessi avvalendosi delle condizioni
72
Cass. I, 13.2.1990, AGLIERI ed altri. Per questa posizione v. già CONTENTO, Il concorso di persone nei reati
associativi e plurisoggettivi (contributo alla ricerca CNPDS-CRS sulla riforma della parte generale del codice
penale), 1983.
73
Cass. SS.UU., 28.12.1994, ud. 5.10.1994, Demitry, in Cass. pen., 1995, pp. 842 ss., con nota di IACOVIELLO, Il
concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere.
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previste dall’articolo 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle
associazioni previste dallo stesso articolo»74.
Per i fatti autonomamente delittuosi che agevolano l’attività dell’associazione di tipo
mafioso, questa circostanza copre l’identico spazio del concorso esterno, come pure l’intero
contenuto della circostanza si sovrappone a quello tipico del delitto associativo, per i soggetti
cioè che fanno parte dell’associazione. Il contenuto della circostanza è autonomo per i fatti, di
per sé delittuosi, commessi da soggetti estranei all’associazione che si avvalgono, piuttosto,
del contributo dell’associazione mafiosa. Viceversa, l’autonomia del concorso esterno (ma
come pure della partecipazione) rispetto alla circostanza aggravante, riguarda tutti i fatti (in
sé) non delittuosi a prescindere, appunto, dalla correlazione con l’esistenza e l’attività
dell’associazione mafiosa.
Appare certo inverosimile che l’avvenuta introduzione della circostanza aggravante di
cui all’art. 7 d.l. 152/1991 sia stata utilizzata dalla Corte di cassazione come argomento per
(ricostruire il sistema del codice del 1930 nel senso di) escludere la configurabilità del
concorso eventuale o esterno nei delitti associativi75.
Ora la Cassazione a sezioni unite richiede il contributo causale per l’esistenza e il
rafforzamento dell’associazione, che si sia estrinsecato in un tangibile vantaggio per
l’associazione76.
Contributo causale è, come abbiamo già detto, in generale, una contraddizione in
termini. Il contributo di una parte a un tutto può essere apprezzato nei termini generali della
funzionalità. Può avvenire, in concreto, che il singolo contributo sia così rilevante da essere
(singolarmente) indispensabile, determinante, per l’intero, ma questo non può essere indicato
come il criterio generale di argomentazione della rilevanza del contributo a un intero.
«1. Per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste
dall’articolo 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo
stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà». «2. Le circostanze attenuanti, diverse da quelle
previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con l’aggravante di cui al comma 1 non possono
essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena
risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante». Il secondo comma è stato così modificato con
l’art. 5 comma 1 l. 14.2.2003 n. 34.
75
Cass. I, sentenze 18.5.1994 nn. 2342 e 2348.
76
Cass. SS.UU. sent. 22327 del 30.10.2002, dep. 21.05.2003, Carnevale, riv. 224181, e poi Cass. SS.UU., sent.
33748 del 12.07.2005, dep. 20.09.2005, Mannino, riv. 231673.
74
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Occorre riconoscere, tutti, che il contenuto argomentativo della sentenza Mannino due,
come di altre, è di tipo anche, abbastanza, sostanzialmente, funzionalistico. Tuttavia, in primo
luogo, non è possibile qualificare la rilevanza del contributo (in generale) come causale, e il
problema non è affatto, né prevalentemente, nominalistico.
Soprattutto, si richiede (sul piano probatorio) la verifica del vantaggio costituito dal
contributo per l’associazione: così, nel rapporto dell’associazione mafiosa con la politica, il
conseguimento di appalti pubblici. L’accordo, l’impegno, di un soggetto che è rappresentativo
e si fa garante dei comportamenti di un insieme di persone, che gli sono sottoposte e ne sono
condizionate, costituisce di per sé il rafforzamento della dimensione organizzativa
dell’associazione delittuosa, che può contare sulle prestazioni dei componenti di quel
determinato gruppo. Il rafforzamento della struttura ovvero dimensione organizzativa
dell’associazione riguarda anche, ed eminentemente, il novero degli accordi di carattere
generale o particolare circa le attività e le prestazioni su cui l’associazione può contare per la
realizzazione delle sue attività.
Funzionale significa “che serve” (a). La partecipazione all’associazione non è un delitto
di evento (ma è costituita dalla convenzione di carattere generale fra il singolo e
l’associazione). Men che meno lo è il concorso esterno (costituito anche, ed eminentemente,
dall’accordo di carattere particolare relativo ad una determinata prestazione, funzionale
all’esistenza ed all’attività dell’associazione considerata in generale). Il delitto associativo è
un delitto a consumazione anticipata, fondato di per sé sulla manifestazione di disponibilità
del soggetto. Problema in sé diverso è quello della prova.
In generale, comunque, l’evoluzione della giurisprudenza in questa materia conferma
appieno la validità dell’impostazione seguita in questa sede. La ricostruzione delle
caratteristiche concrete della associazione di volta in volta in oggetto, per la definizione dei
ruoli e delle relazioni concrete tra le persone e con i delitti, è chiaramente di tipo sistemicofunzionalistico, affatto diversa dall’analisi di tipo causalistico fondata sulle massime
d’esperienza, e comunque la si definisca. Ma il chiarimento anche nominalistico appare
essenziale, dal punto di vista sostanziale.
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6. I contributi della teoria dell’organizzazione alla problematica del reato
politico
La teoria dell’organizzazione consente di ridefinire la problematica penalistica del reato
politico.
Il reato politico è a dimensione necessariamente organizzativa. Il singolo reato, del
singolo soggetto, compiuto per finalità politiche di qualsivoglia natura, non merita rilevanza
penalistica particolare: a prescindere dal collegamento (funzionale) con una dimensione
generale organizzativa.
Così si capisce anche perché il problema non può essere risolto nei termini (causalistici)
della “idoneità”.
Nell’art. 241 c.p., «Attentati contro la integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato»
era punito (con la pena di morte e poi con l’ergastolo) «Chiunque commette un fatto diretto a
sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero,
ovvero a menomare l’indipendenza dello Stato», nonché «chiunque commette un fatto diretto
a disciogliere l’unità dello Stato, o a distaccare dalla madre Patria una colonia o un altro
territorio soggetto, anche temporaneamente, alla sua sovranità».
Con la riforma operata con l’art. 1 l. 24.2.2006 n. 85, la previsione dell’art. 241 c.p., del
delitto di «Attentati contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato» è che «Salvo che
il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti violenti diretti e idonei a sottoporre il
territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a
menomare l’indipendenza o l’unità dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a
dodici anni». «La pena è aggravata se il fatto è commesso con violazione dei doveri inerenti
l’esercizio di funzioni pubbliche».
Neppure un soggetto che rivesta un ruolo politico o militare di somma rilevanza può
singolarmente compiere atti “idonei” a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso
alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l’indipendenza o l’unità dello Stato.
E invece l’attività del singolo può essere rilevante nel collegamento con una o più
organizzazioni ovvero con uno o più Stati diversi.
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L’aggravante della finalità terroristica può essere così sostanzialmente ridefinita nei
termini della funzionalità del delitto commesso rispetto alla realizzazione di un programma
delittuoso, eminentemente riferibile alla struttura organizzativa di una associazione.
L’organizzazione, come abbiamo già rilevato, è un processo, una dinamica, un
fenomeno. Nella dimensione organizzativa del reato politico, è “politica”, nel senso della
latitudine della “democrazia”, la scelta se attribuire rilevanza penale anche alla sola attività
(ideologica) di propaganda, e anche del singolo.
L’accordo fra più persone al fine di commettere un delitto contro lo Stato (art. 304 c.p.),
mentre può essere considerato sostanzialmente irrilevante se intervenuto fra persone del tutto
comuni, viceversa può avere da solo una grande rilevanza organizzativa, e una reale
dimensione di pericolosità, se intervenuto fra soggetti che sono rappresentanti e garanti di
altrettante diverse strutture organizzative.
7. Le figure di attentato, complotto e associazione di malfattori nel codice
penale francese del 1994
Nel codice penale francese del 1994, nel libro quarto «Descrimes et délitscontre la
nation, l’État et la paixpublique», la prima sezione del capitolo secondo riguarda le previsioni
«De l’attentat et ducomplot».
Secondo l’art. 412-1, «Costituisce un attentato il fatto di commettere uno o più atti di
violenza di natura tale da mettere in pericolo le istituzioni della Repubblica o da portare
pregiudizio [«porteratteinte», arrecare danno] all’integrità del territorio nazionale».
«L’attentato è punito fino a trent’anni di detenzione criminale e a tre milioni di franchi di
ammenda». «Le pene sono portate alla detenzione criminale fino a perpetuità e a cinque
milioni di franchi di ammenda quando l’attentato è commesso da una persona depositaria
dell’autorità pubblica».
Secondo l’art. 412-2, «Costituisce un complotto la risoluzione stabilita [«arrêtée»,
presa, assunta] fra più persone di commettere un attentato quando questa risoluzione è
concretizzata da uno o più atti materiali». «Il complotto è punito fino a dieci anni di prigione e
a un milione di franchi di ammenda». «Le pene sono portate fino a vent’anni di detenzione
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criminale e a due milioni di franchi di ammenda quando l’infrazione è commessa da una
persona depositaria dell’autorità pubblica».
Alla fine del medesimo libro è stata posta la previsione «Della partecipazione a una
associazione di malfattori».
Secondo l’art. 450-1, «Costituisce una associazione di malfattori qualsiasi gruppo
formato o intesa stabilita in vista della preparazione, caratterizzata da uno o più fatti materiali,
di uno o più crimini o di uno o più delitti puniti fino a dieci anni di prigione». «La
partecipazione a una associazione di malfattori è punita fino a dieci anni di prigione e a un
milione di franchi di ammenda».
Secondo l’art. 450-2, «Qualsiasi persona che abbia partecipato al gruppo o all’intesa
definiti
nell’articolo
450-1
è
esentata
dalla
pena
se,
prima
del
processo
[«avanttoutepoursuite», lett. “prima di ogni perseguimento”], ha rivelato l’esistenza del
gruppo o dell’intesa alle autorità competenti e permesso l’identificazione degli altri
partecipanti».
Nell’art. 450-3 sono state previste le «pene complementari», interdittive: dei diritti
civici, civili, familiari, di esercitare una funzione pubblica, un’attività professionale o sociale,
del soggiorno.
Prima di parlare delle modifiche successive di questa disciplina (dell’art. 450-1) vanno
fatte alcune considerazioni.
La prima considerazione riguarda la collocazione dell’attentato, del complotto e della
associazione di malfattori nel medesimo libro dei crimini e delitti contro la nazione, lo Stato e
la pace pubblica.
La seconda considerazione riguarda la richiesta di «uno o più atti materiali» da cui sia
«concretizzata» la risoluzione costitutiva del complot e di «uno o più fatti materiali» da cui sia
«caratterizzata» l’attività costitutiva del delitto di association de malfaiteurs e il riferimento di
questa figura anche allo scopo di realizzare un solo crimine o delitto grave (punito con la
prigione fino a dieci anni).
La figura dell’association de malfaiteurs, diretta contro le persone o i beni (per il
riferimento al fenomeno del banditismo), era stata profondamente modificata con la legge 8182 del 2.2.1981. Secondo quell’art. 265 (la previsione già napoleonica come appunto
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modificata), «Chiunque avrà partecipato ad un’associazione formata o ad un’intesa stabilita in
vista della preparazione, concretizzata da uno o più fatti materiali, di uno o più crimini contro
le persone o i beni, sarà punito con la prigione da cinque a dieci anni e ne potrà essere
interdetto il soggiorno». Nel secondo comma, l’esclusione della pena per chi abbia rivelato
l’associazione o l’intesa e «permesso l’identificazione delle persone in questione».
La modifica aveva giustificazione per colpire la «grande delinquenza professionale» e la
«preparazione dei grandi crimini», che il vecchio testo «non permetteva di lottare
efficacemente»: «Nel quadro della preparazione delle grandi infrazioni, in effetti, i
protagonisti sono generalmente scelti colpo per colpo in funzione delle loro attitudini
particolari e per la realizzazione della sola infrazione avuta di mira»77.
Ulteriori considerazioni, relative al testo normativo dell’association de malfaiteurs del
codice del 1994, riguardano la generalizzazione (ai crimini e delitti di ogni tipo), la
limitazione ai delitti gravi (puniti con la prigione fino a dieci anni) e la corrispondenza della
pena della partecipazione all’associazione di malfattori a quella di tali delitti-scopo.
In tal modo, la figura (che copre dunque uno spazio coperto nel nostro sistema dalla
disciplina del tentativo e nel sistema anglosassone dalla figura della conspiracy) diventa
sostanzialmente una figura di parte (ovvero di carattere) generale.
L’ultima, importante, considerazione riguarda la precisazione contenuta nella circolare
(del 14.5.1993) che ha accompagnato e commentato l’emanazione del codice, che «Le
disposizioni dell’art. 267 che incriminavano precipuamente la complicità per fornitura di
mezzi del delitto di associazione di malfattori non sono state riprese, nella misura in cui esse
non presentano alcuna utilità in confronto alle regole generali della complicità»78 (corsivo
nostro). Si argomenta così l’abbandono di ogni tentativo di tipizzazione dei contributi
all’associazione, diversi dalla partecipazione stabile, in considerazione della applicabilità
della disciplina generale della complicità (corrispondente al nostro concorso di persone nel
reato).
ROSSAT, Le nouveaurégimedesinfractionspénalesdans la loi “Securité et liberté”, in Revue internationale de
criminologie et de policetechnique, 1/1981, pp. 10 ss.; riportato da INSOLERA, L’associazione per delinquere,
cit., p. 288.
78
Sta in Code pénal. Nouveau code pénal, Paris, 1993-1994, p. 2204.
77
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Nei codici penali tedesco, svizzero,
SPAGNOLO,
portoghese sono puniti (oltre
ovviamente alla partecipazione): chi «sostiene» un’associazione terroristica (§ 129a StGB);
chi «sostiene» l’«organizzazione nella sua attività criminale» (art. 260 ter c. p. svizzero);
«Coloro che con i loro aiuti economici o di qualsiasi altro tipo, comunque rilevante,
favoriscono la fondazione, l’organizzazione o l’attività» delle associazioni sia per delinquere
che razzistiche (art. 518 c.p.
SPAGNOLO);
chiunque «appoggia» sia un’associazione per
delinquere che un’organizzazione terrorista «in particolare fornendo armi, munizioni e
strumenti del delitto, protezione o locali per le riunioni, o qualsiasi aiuto al fine del
reclutamento di nuovi elementi» (artt. 299 e 300 c.p. portoghese).
8. La Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale
organizzata (Palermo 2000)
La Convenzione delle nazioni unite contro la criminalità transnazionale organizzata,
aperta alla firma nella Conferenza di Palermo dei giorni 12-15 dicembre 2000, ratificata nel
nostro ordinamento con la legge 16.3.2006 n. 146, è stato il primo strumento giuridico
formale in cui vien posto il problema di un approccio di carattere generale e sistematico alla
problematica della criminalità organizzata e, può ben dirsi, di una definizione di carattere
generale della criminalità organizzata.
Nell’art. 1 è indicato l’«Oggetto» della Convenzione «di promuovere la cooperazione
per prevenire e combattere più efficacemente la criminalità transnazionale organizzata»79.
Nell’art. 3 è definito l’«Ambito di applicazione» della Convenzione, relativo «alla
prevenzione, alle investigazioni e all’esercizio dell’azione penale»: a) per le infrazioni
stabilite conformemente agli artt. 5, 6, 8 e 25 della stessa Convenzione, cioè rispettivamente
di «partecipazione a un gruppo criminale organizzato», «riciclaggio dei proventi del
crimine», «corruzione» e «intralcio alla giustizia»; b) per le «infrazioni gravi», secondo la
definizione contenuta nell’art. 2 della Convenzione, «quando queste infrazioni sono di natura
transnazionale e vi è implicato un gruppo criminale organizzato».
La traduzione è mia, dal testo francese: per questo l’uso del termine “infrazione”, che ho voluto mantenere
(“infraction pénale” nel codice francese, sinonimo del nostro “reato”). Fra le lingue in cui è stato redatto il testo
della Convenzione non c’è l’italiano.
79
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Nel paragrafo 2 dell’art. 3 è definita a tali fini l’«infrazione [...] di natura
transnazionale»: se «a) è commessa in più di uno Stato; b) è commessa in uno Stato, ma una
parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione e controllo avviene in un
altro Stato; c) è commessa in uno Stato, ma in essa è implicato un gruppo criminale
organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato, o d) è commessa in uno Stato
ma ha effetti sostanziali in un altro Stato».
Questa definizione è stata riprodotta nell’art. 3 della legge 146/2006 di ratifica della
Convenzione nel nostro ordinamento, con la precisazione che deve trattarsi di un reato punito
con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni (v. appena avanti nella
Convenzione) e che deve esservi coinvolto un gruppo criminale organizzato.
Nell’art. 2 della Convenzione è definita in generale la «Terminologia» usata al suo
interno. Fra le altre definizioni ivi contenute, «Ai fini della presente Convenzione:
a) L’espressione “gruppo criminale organizzato” designa un gruppo strutturato, che
esiste da un certo tempo, composto da tre o più persone che agiscono di concerto con
lo scopo di commettere una o più infrazioni gravi o infrazioni stabilite conformemente
alla presente Convenzione, per trarne, direttamente o indirettamente, un vantaggio
finanziario o un altro vantaggio materiale;
b) L’espressione “infrazione grave” designa una condotta che costituisce un’infrazione
passibile di una pena privativa della libertà personale di cui il massimo non deve
essere inferiore a quattro anni o di una pena più elevata;
c) L’espressione “gruppo strutturato” designa un gruppo che non si è costituito
occasionalmente per commettere immediatamente un’infrazione e che non ha
necessariamente dei ruoli formalmente definiti per i suoi membri, né continuità nella
composizione ovvero una struttura elaborata».
Seguono tante altre definizioni.
L’art. 4 della Convenzione riguarda la «Tutela della sovranità» degli Stati: «1. Gli Stati
Parti adempiono agli obblighi di cui alla presente Convenzione coerentemente con i principi
dell’uguaglianza sovrana, dell’integrità nazionale e del non intervento negli affari interni di
altri Stati». «2. Nulla nella presente Convenzione legittima uno Stato Parte a intraprendere nel
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territorio di un altro Stato l’esercizio della giurisdizione o di funzioni che sono riservate
esclusivamente alle autorità di quell’altro Stato dal suo diritto interno».
La lotta contro la criminalità organizzata e il terrorismo richiederebbe il superamento
del principio di territorialità statale della giurisdizione, e l’adozione di criteri di universalità
della giurisdizione. Ma questi tempi appaiono ancora lontani, e queste soluzioni
presuppongono il superamento di problemi sia politici che tecnici assai complessi.
L’art. 5 della Convenzione riguarda la «Penalizzazione della partecipazione a un
gruppo criminale organizzato»:
«1. Ogni Stato Parte adotta le misure legislative e di altra natura necessarie a conferire il
carattere d’infrazione penale, quando commessa intenzionalmente:
a) A una o a entrambe delle seguenti condotte, come infrazioni distinte da quelle che
comportano il tentativo di un’attività criminale o la sua consumazione:
i)
Al fatto di accordarsi con una o più persone per commettere un’infrazione grave
per un fine concernente direttamente o indirettamente il raggiungimento di un
vantaggio economico o altro vantaggio materiale e, quando lo esige il diritto
interno, implicante un atto commesso da uno dei partecipanti in virtù di questa
intesa o che coinvolge un gruppo criminale organizzato;
ii)
Alla partecipazione attiva di una persona, consapevole sia dello scopo e
dell’attività criminale generale di un gruppo criminale organizzato sia della sua
intenzione di commettere le infrazioni in questione:
a. Alle attività criminali del gruppo criminale organizzato;
b. Ad altre attività del gruppo criminale organizzato quando questa persona sa
che la sua partecipazione contribuirà alla realizzazione dello scopo criminale
summenzionato;
b) Al fatto di organizzare, dirigere, facilitare, incoraggiare o favorire in modo di un aiuto
o di consigli la commissione di una infrazione grave in cui è coinvolto un gruppo
criminale organizzato».
«2. La conoscenza, l’intenzione, lo scopo, la motivazione o l’intesa rappresentati nel
paragrafo 1 del presente articolo possono essere dedotti da circostanze di fatto obiettive».
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Gli artt. 6, 7 e 8 della Convenzione riguardano l’incriminazione del riciclaggio dei
proventi del crimine, del riciclaggio di denaro e della corruzione, l’art. 9 le misure «per
promuovere l’integrità e prevenire, rivelare e punire la corruzione dei pubblici ufficiali», l’art.
23 la penalizzazione dell’intralcio alla giustizia.
Con riferimento a queste infrazioni, nell’art. 10 è prevista e disciplinata la
«Responsabilità delle persone giuridiche», l’art. 11 riguarda le incriminazioni, il giudizio e le
sanzioni, l’art. 12 riguarda il sequestro e la confisca dei beni che ne sono il prodotto o di
valore corrispondente (la confisca c.d. “per equivalente”) nonché dei mezzi adottati per
commetterle, l’art. 13 riguarda la cooperazione internazionale ai fini di tale confisca. Le altre
disposizioni riguardano misure di cooperazione fra gli Stati per le menzionate finalità.
Occorre ricordare che alla Convenzione sono annessi: il Protocollo rivolto a prevenire,
reprimere e punire la tratta delle persone, in particolare delle donne e dei bambini; il
Protocollo contro il traffico illecito di migranti per terra, aria e mare e il Protocollo contro
la fabbricazione e il traffico illecito delle armi da fuoco, di loro parti, elementi e munizioni;
protocolli, aventi dunque ad oggetto attività tipiche delle forme di criminalità transnazionale
organizzata e contenenti fra l’altro le definizioni di tutte le relative terminologie (che sarebbe
assai interessante esaminare ma che non è possibile fare in questa sede)
Dal riferimento della Convenzione alle attività delittuose volte a trarre, direttamente o
indirettamente, vantaggio finanziario o altro vantaggio materiale restano esclusi, ovviamente,
i reati di terrorismo, che pure presuppongono una consistente dimensione organizzativa e che
possono essere ricompresi entro la categoria generale, e la problematica generale, della
criminalità organizzata: ciò, eminentemente, per la ragione politica che diversamente molti
Paesi, più o meno coinvolti con il terrorismo o che comunque non possono permettersi
posizioni dure contro il terrorismo, non avrebbero firmato la Convenzione.
Nella nozione di gruppo criminale organizzato, e nei criteri della relativa
penalizzazione, sono riprodotte le problematiche, e le esperienze, dei delitti associativi, della
conspiracy e della dimensione attuale dell’association de malfaiteurs.
La nozione è limitata alla finalità di realizzare infrazioni gravi; è costituita dalla finalità
di realizzare anche una sola infrazione grave, di natura complessa, da richiedere la stabilità
dell’organizzazione; è caratterizzata dalla stabilità del vincolo («un gruppo strutturato, che
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esiste da un certo tempo»); non ne sono richieste né una struttura elaborata né ruoli
formalmente definiti per i suoi membri né continuità nella sua composizione.
Non è indicata, nella Convenzione, alcuna correlazione fra la pena del delitto
associativo e quella dei delitti oggetto e scopo dell’associazione, che pure può essere
considerata essenziale per la sistematizzazione della materia della responsabilità penale per le
forme associative, per i contributi dati alla struttura organizzativa di un’attività delittuosa.
9. Le modifiche introdotte più recentemente nel codice penale francese
Proprio sotto quest’ultimo profilo, appare assai interessante come all’indomani
dell’apertura alla firma della Convenzione di Palermo la figura dell’association de
malfaiteurs dell’art. 450-1 del codice francese sia stata modificata (con la legge n. 2001-420
del 15.5.2001), oltre che nella soglia minima di gravità dei delitti oggetto e scopo
dell’associazione, con la differenziazione della pena della partecipazione all’associazione
secondo la gravità delle infrazioni che ne sono oggetto e scopo: «Costituisce un’associazione
di malfattori qualsiasi gruppo formato o intesa stabilita in vista della preparazione,
caratterizzata da uno o più fatti materiali, di uno o più crimini o di uno o più delitti puniti con
almeno cinque anni di prigione». «Quando le infrazioni preparate sono crimini o delitti puniti
fino a dieci anni di prigione, la partecipazione a un’associazione di malfattori è punita fino a
dieci anni di prigione e a 150.000 euro di ammenda». «Quando le infrazioni preparate sono
delitti puniti con almeno cinque anni di prigione, la partecipazione a un’associazione di
malfattori è punita fino a cinque anni di prigione e a 75.000 euro di ammenda».
Con la stessa legge 2001-420 del 15-5-2001 era stato introdotto nel codice il delitto
dell’art. 450-2-1: «Il fatto di non potere giustificare risorse corrispondenti al proprio tenore di
vita, essendo in relazioni abituali con una o più persone dedite alle attività previste nell’art.
450-1, è punito fino a cinque anni di prigione e a 75.000 euro di ammenda». Questa norma è
stata poi abrogata con l’art. 24 della legge n. 2006-64 del 23.1.2006.
Con la legge n. 98-468 del 17.6.1998 (dunque prima della Convenzione di Palermo) è
stata stabilita, nel nuovo art. 450-4 del codice penale francese, la responsabilità penale delle
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persone giuridiche (le «personnes morales»), con pene pecuniarie e interdittive, per la
correlazione con il delitto di associazione di malfattori. In generale la responsabilità penale
delle persone giuridiche era stata prevista nel codice nel testo originario del 1994 (art. 121-2).
Con la legge n. 2004-204 del 9.3.2004, recante adeguamenti della giustizia alle
evoluzioni della criminalità, è stata prevista, con l’art. 450-5 del codice penale, la confisca dei
beni delle persone fisiche e giuridiche responsabili del (della forma più grave del) delitto di
associazione di malfattori: «Le persone fisiche e giuridiche riconosciute colpevoli delle
infrazioni previste nel secondo alinea dell’articolo 450-1 e nell’articolo 450-2-1 [questo, come
abbiamo visto, abrogato nel 2006] incorrono ugualmente nelle pene complementari della
confisca di tutti o parte dei loro beni, quale che ne sia la natura, mobili o immobili, divisi o
indivisi».
Nell’art 222-34 è punito con la reclusione criminale fino a perpetuità e l’ammenda fino
a 7.500.000 euro «Il fatto di dirigere od organizzare un gruppo avente come oggetto la
produzione, la fabbricazione, l’importazione, l’esportazione, il trasporto, la detenzione,
l’offerta, la cessione, l’acquisizione o l’uso illeciti di stupefacenti».
Negli artt. 222-35 e -36, i fatti di produzione o fabbricazione, importazione o
esportazione, puniti rispettivamente fino a vent’anni di reclusione criminale e fino a dieci anni
di prigione, sono puniti fino a trent’anni di reclusione criminale se «commessi in banda
organizzata»; nonché la previsione in tutti questi casi dell’ammenda fino a 7.500.000 euro.
Nell’art. 222-40 è stabilito che il tentativo di queste infrazioni è punito con le stesse
pene.
Nell’art. 222-42 è stabilita altresì per questi fatti la responsabilità penale anche delle
persone giuridiche.
10. La definizione penalistica sistematica della criminalità organizzata.
Conclusioni
Problema di questo inizio del terzo millennio è la definizione generale della criminalità
organizzata. Meglio, tecnicamente, l’edificazione della problematica della criminalità
organizzata come problematica di carattere generale, e di parte generale, del diritto penale, per
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un approccio di carattere generale e sistematico alle forme e ai fenomeni di criminalità
organizzata; differenziata, poi, secondo le caratteristiche dei delitti che possono essere
considerati tipici, e quindi definitori dal punto di vista penalistico, della forma organizzativa
di cui si tratta.
Con la codificazione ottocentesca si è compiuto il processo di generalizzazione delle
problematiche, e sistematizzazione delle discipline, del tentativo, del concorso di persone nel
reato, delle circostanze del reato, che nelle legislazioni precedenti erano previste in modo
specifico e frammentario accanto alle singole figure delittuose. Il che non ha certo eliminato
le ipotesi speciali e le discipline precipue. Oggi lo stesso problema riguarda la problematica e
le nozioni della criminalità organizzata. Altresì, e non sono sicuro che il problema sia affatto
distinto, la criminalità organizzata e il terrorismo devono costituire oggi le priorità
penalistiche, da affrontare in modo sistemico e sistematico, cioè oltre le forme della
legislazione speciale, nonché emergenziale. Le risorse principali del diritto penale vanno
riservate a questi fenomeni.
Problema ulteriore,
pure connesso.
Nella
globalizzazione, nella dimensione
necessariamente transnazionale delle risposte istituzionali, vanno semplificate, e rese
omogenee, le nozioni e le procedure.
Già all’interno del nostro solo ordinamento, la congerie delle figure delittuose autonome
associative, delle relative circostanze aggravanti, i rapporti fra le diverse forme di
responsabilità (dei delitti associativi, del concorso nei delitti associativi, dei delitti realizzati
nel contesto dell’associazione, delle relative circostanze aggravanti), con i profili sostanziali,
processuali, giurisdizionali, dell’esecuzione, che vi sono connessi, creano problemi sia
interpretativi che pratici enormi; problemi, che lasciano per lo più aperti dubbi e incertezze. Il
senso addirittura (forse) del paradosso si coglie col fatto che una stessa organizzazione
criminale può essere riconducibile a diverse figure delittuose associative, e quindi costituire
anche le correlative diverse circostanze aggravanti, nonché le responsabilità per i singoli
concreti delitti. Con tutti i problemi che ovviamente conseguono.
Ebbene, si pensi a proiettare questi problemi nel rapporto con gli altri Paesi, con i
sistemi culturali, giuridici, giurisdizionali, istituzionali, degli altri Paesi, molti culturalmente
assai distanti dal nostro.
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Il confronto con gli altri sistemi può avvenire solo attraverso nozioni facilmente
condivisibili, nonché comprensibili.
Nozioni sofisticatissime, e anche sfuggenti, come molte di quelle di cui abbiamo fin qui
discusso, non sono condivisibili; e sono espressione, anzi, di una grande frammentazione del
nostro stesso sistema penale.
Il problema della definizione generale (delle nozioni) della criminalità organizzata può
essere affrontato nel modo seguente: da una parte, le nozioni generali e comuni della teoria
dell’organizzazione; dall’altra, le comuni nozioni delittuose (omicidio, estorsione, furto,
delitti di produzione e traffico degli stupefacenti), che possono essere considerate tipiche
(oggetto tipico, oggetto sociale), e quindi definitorie, dal punto di vista penalistico, della
organizzazione di cui si tratta in concreto; le une e le altre, così, costitutive della nozione
penalistica di organizzazione criminale.
Questo schema, e queste nozioni, sono a mio avviso comprensibili da tutti, di diverse
estrazioni culturali e latitudini geografiche: e come tali più facilmente condivisibili. Ma
(proprio per questo) servirebbero già, nella nostra pratica, come in parte dovrebbe essere
emerso in questo lavoro, a definire meglio i contenuti delle nozioni penalistiche
dell’organizzazione criminale, con i relativi profili probatori.
Le pene delle (forme di) responsabilità per la (il contributo personale alla)
organizzazione criminale non possono non essere parametrate, fra altro, ma innanzitutto,
all’entità
penalistica
dell’attività
oggetto
dell’organizzazione:
ai
delitti
tipici
dell’organizzazione (che quindi ne sono definitori dal punto di vista penalistico) e all’entità
quantitativa dell’attività delittuosa della stessa. E, d’altro canto, alle tipologie ed entità delle
relazioni personali e quindi rilevanza dei contributi personali all’organizzazione.
In questo modo, tecnicamente comprensibile, verrebbe risolto il nodo della dimensione
sociologica delle nozioni dei fenomeni criminali, e ridotta, dal punto di vista specifico
penalistico, la relativa complessità.
L’analisi fin qui svolta, sulle dimensioni dei fenomeni criminali e le caratteristiche delle
risposte istituzionali, entrambe progressivamente e inevitabilmente transnazionali, induce una
considerazione. Nell’epoca moderna il diritto è stato mantenuto separato, fra l’altro, dalla
problematica della guerra: si pensi alla fine della prima guerra mondiale alla polemica sul
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rifiuto degli olandesi di consegnare il Kaiser alle potenze vincitrici che volevano processarlo e
alla posizione di KELSEN favorevole a quel rifiuto, con l’argomento appunto della differenza e
quindi della distinzione del diritto dalla guerra. Oggi, si può dire, da una parte, il diritto adotta
tecniche e metodiche di tipo militare nei confronti dei fenomeni del terrorismo e della
criminalità organizzata, comunque difformi dalle tecniche giuridiche tradizionali. Dall’altra, il
diritto si pone seriamente il problema di regolamentare, e delimitare, anche la guerra: certo,
con grandi difficoltà, politiche, pratiche e concettuali. Si pensi alla creazione con lo Statuto di
Roma del 17.7.1998 della Corte penale internazionale permanente, per i crimini di guerra,
contro l’umanità e di genocidio, e al fatto però che dei cinque Paesi del Consiglio di sicurezza
delle Nazioni Unite non abbiano sottoscritto lo Statuto gli Stati Uniti, la Russia e la Cina.
Le osservazioni che possono chiudere questo saggio riguardano la problematica delle
garanzie: di fronte alla complessità, delle attività umane, della società, della cultura, della
politica, delle risposte istituzionali.
La concezione illuministica, razionalistica e cattolica del diritto, e del diritto penale in
modo particolare, credeva nella delimitazione, formale, con la forma della legge, della soglia
sia dell’illecito, e precipuamente del delitto, come della garanzia. La soglia definita nella
legge è il limite che il cittadino non deve superare per non commettere un illecito (tra
parentesi, nella concezione liberale, il cittadino può fare tutto ciò che non sia espressamente e
formalmente vietato). La soglia è il limite definito nella legge che il funzionario non deve
superare nella gestione delle tecniche di accertamento e giudizio degli illeciti.
Oggi, questo concetto di soglia è abbastanza in difficoltà, concrete e culturali, di fronte
alla complessità, rispettivamente, dei fenomeni e degli illeciti, della società e della cultura e
della politica, delle risposte istituzionali: complessità, rispetto a cui diventano insufficienti sia
la capacità pre-definitoria della forma della legge sia i criteri tradizionali definitori e
argomentativi causalistici. La legge contiene sempre più criteri, di valutazione e
argomentazione, e assegna direttamente agli operatori funzioni da realizzare in concreto. Così
la discrezionalità non è solo di tipo valutativo, fra più e meno dei criteri valutativi definiti
nella legge, ma anche di tipo operativo, fra meglio e peggio, più opportuno e meno opportuno,
perfino fra più e meno conveniente, in relazione a determinati obiettivi da realizzare e ai
relativi parametri.
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Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea
dell’Università Kore di Enna
Anche la problematica delle garanzie deve essere arricchita, quindi, in senso
funzionalistico.
Garanzie non sono più soltanto i limiti legali. Garanzie sono anche quelle della prova,
della razionalità del procedimento, dell’argomentazione e della motivazione dei giudizi, della
collegialità dei giudici, della professionalità e della formazione, dei controlli, delle
responsabilità, di tutti gli operatori della giustizia.
La problematica ovvero la teoria dell’organizzazione, che contribuisce a ridefinire e a
riempire di significato le nozioni di responsabilità, e quindi arricchisce i contenuti della prova
e delle argomentazioni, di tutti sistemi complessi, contribuisce pure, ovviamente, a supportare
e arricchire le analisi relative alle strutture istituzionali, agli uffici e ai procedimenti della
prevenzione e repressione, nonché della collaborazione internazionale, sotto i profili tanto
dell’efficienza quanto delle garanzie del cittadino.
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