Nuovi Occhi per la TV

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Nuovi Occhi per la TV
INTRODUZIONE AI MASS MEDIA
Che cosa sono e come funzionano i mass media.
La televisione è un mezzo di comunicazione di massa e da
questa caratteristica derivano alcune peculiarità. Le
definisce con chiarezza il sociologo britannico Denis
McQuail:
Fonte di potere: influenzano, controllano e innovano la
società; gestiscono le informazioni che fanno funzionare
tutte le istituzioni sociali
Sede (o arena) dove si svolgono molti fatti della vita
pubblica
Fonte di definizione e immagini della realtà sociale, e
dunque luogo dove si costruiscono, si conservano e si
manifestano i valori della società e dei gruppi i
relativi cambiamenti
Chiave per il raggiungimento della visibilità pubblica,
della fama
Fonte dei significati che definiscono per la sfera
pubblica ciò che è normale, in base al quale si fanno
confronti e si indicano le devianze
Industria principale che organizza e relaziona il tempo
libero delle persone
Queste
funzioni
vengono
svolte
da i
mass
media
tradizionali con un rapporto asimettrico, in quanto la
comunicazione
avviene
tra
delle
organizzazioni
industriali e una massa, appunto, di consumatori che non
hanno un reale potere di interazione. Ne consegue che i
contenuti offerti sono prodotti in modo standardizzato e
vengono proposti tramite comunicatori professionisti che
dipendono dalle reti televisive. Questa grande disparità
di potere porta ad un contratto che possiamo definire
amorale, in quanto non prevede obblighi reciproci.
Un simile rapporto sembra negare il concetto di pubblico
attivo che è invece sostenuto da diverse correnti di
studi e soprattutto a livello di opinione corrente. Il
pubblico ha oggi molte più possibilità di interazione con
quanto viene proposto alle televisioni, ma si tratta
quasi esclusivamente di una aumentata disponibilità
tecnica: uso del telefono o del pc in rete per
partecipare ai programmi, più diffusa presenza negli
studi
come
partecipante
o
pubblico,
pseudorappresentazione
della
gente
comune
tramite
il
macrogenere del reality show. Nella sostanza dunque il
controllo quasi assoluto dello scambio comunicativo resta
alle scelte editoriali delle TV sulla base delle loro
strategie. L'idea, sostenuta da una importante parte
della ricerca sui media, che le persone utilizzino il
mezzo televisivo per soddisfare determinati bisogni
individuali a cui le TV non fanno che rispondere, è vera.
Il fatto è che le scelte possibili, aumentate a dismisura
in canali e programmi negli ultimi anni, restano
confinate
all'interno della proposta delle emittenti,
che le elaborano sulla base dei propri interessi
industriali. Se il mercato e la legislazione all'interno
delle
quale
operano
sono
rispettivamente
sano
e
funzionante, non si pongono eccessivi problemi per i
diritti dei cittadini. Senza dimenticare che bisogni ed
usi vengono determinati nel tempo dalle influenze
culturali, su cui influisce anche la TV.
Un concetto da prendere in considerazione per comprendere
diversi aspetti delle attività delle televisioni, è
quello di postmoderno.
La televisione nasce e prospera in un mondo occidentale
per cui era ancora adeguato il termine “moderno”,
intendendo con questo modo una società caratterizzata
dall'urbanizzazione, dalla produzione di massa e da
rapporti sociali propri dell'economia capitalista. Con
l'aumento esponenziale in questo sistema del lavoro
dell'informazione (cioè il terziario e in generale le
attività che non producono beni fisici ma servizi) si ha
il passaggio alla società postindustriale, il cui
corrispettivo
culturale
si
indica
con
il
termine
postmoderno.
Rifiuti
delle
ideologie
politiche,
disimpegno, abbandono dell'utopia, ricerca della novità,
piacere effimero, autocompiacimento, incoerenza, fiducia
nel mercato e nel consumo, sono alcuni egli elementi
caratteristici della cultura postmoderna. In una frase
chiarificatrice, “la logica culturale del capitalismo
maturo”.
Le televisioni sono chiari esempi di cosa vuol dire
produrre non oggetti ma informazione, sapere, cultura.
Conoscenze che servono a chi guarda la TV a decifrare la
propria esperienza del mondo, traendone poi differenti e
individuali significati. Che i media siano un diaframma
tra individuo e mondo è evidente, quanto e in che misura
dipende da vari e mutevoli fattori, dall'organizzazione
sociale alla cultura individuale, dalla regolamentazione
del mercato alla quantità di tempo di esposizione. Il
rapporto tra media, società e individuo varia in base al
luogo e al tempo, e dunque norme e scelte valide sono
determinate dalle condizioni contingenti.
Non separabile dal problema della riproduzione della
realtà è il rapporto che i media intrattengono con il
potere dominante, egemonizzati o antagonisti che siano, e
quelli dell'integrazione e dell'identità sociale. Il
grande potere, pur non assoluto, di TV e giornali nel
condizionare gli orientamenti sociali condivisi verso la
conservazione o il progresso, sono un dato assodato ormai
da decenni dalla ricerca sui media.
I media non sono onnipotenti ma possono accumulare
sufficiente potere per divenire determinanti date le
condizioni.
Le funzioni che i media svolgono nella/per la società.
Informazione: sui fatti, ma anche sui rapporti di potere,
con lo scopo di favorire progresso e adattamento
Correlazione: spiegare gli avvenimenti; sostenere il
potere legittimo e la legge, costruendo il consenso;
indicare le priorità; promuovere la socializzazione e
l'incontro delle culture differenti
Continuità:
esprimere
la
cultura
sottoculture e le novità culturali
dominante,
le
Intrattenimento: fornire svago e stemperare la tensione
sociale
Mobilitazione: battersi per l'interesse sociale riguardo
alla politica e all'economia
Sul punto decisivo di come e quanto la TV può influenzare
i singoli e la società, bisogna precisare che il
condizionamento dei valori e delle credenze non avviene
in modo diretto. Non credo quello che sento dire da
giornalisti
o
conduttori,
così
come
non
imito
automaticamente i comportamenti che mi vengono proposti o
esaltati. E' l'azione selettiva della Tv, la scelta di
cosa dire e cosa far vedere che può più facilmente
influenzare
le
persone.
La
rappresentazione
o
l'esclusione di certi modelli e di certi fatti rispetto
ad altri è ciò che agisce più sottilmente sulla visione
del mondo di chi guarda.
LA TELEVISIONE ITALIANA
Cronologia essenziale
1954-La Rai inizia le trasmissioni
1956-Il segnale televisivo raggiunge tutto il territorio
italiano
1957-Inizia
la
programmazione
di
”Carosello”,
il
contenitore di pubblicità che sancisce il sistema misto
della TV di Stato italiana: canone più pubblicità
1961-Il “Secondo Programma”, futura Rai 2, si aggiunge al
Programma Nazionale, futura Rai 1
1971-Nasce TeleBiella, prima rete privata locale italiana
1974-Una sentenza stabilisce la legittimità della TV
privata via cavo
1976-Una
sentenza
sancisce
la
possibilità
per
le
emittenti private di trasmettere via etere a diffusione
locale
1975-La
riforma
della
Rai
prevede
due
principali
obiettivi: la TV di Stato passa dal controllo del governo
al controllo del Parlamento; è decisa la costituzione di
una terza rete nazionale che valorizzi la dimensione
locale
1976-Finiscono le trasmissioni di “Carosello”, nasce
TeleMilanocavo, la futura Canale 5
1977-La TV italiana diventa a colori, con circa 10 anni
di ritardo rispetto al resto d'Europa
1980- Nasce Rai3
1984-Nasce Auditel
1990-La cosiddetta “legge Mammì” sancisce lo stato delle
cose cosi come si è venuto a creare nella seconda metà
degli anni ottanta: il duopolio Rai-Mediaset distribuito
su sei canali
1991-Nasce Tele+, la prima TV via satellite italiana
1992-Iniziano le trasmissioni del TG5 e degli altri
telegiornali Mediaset
Servizio pubblico e sistema privato.
La TV italiana nasce con le caratteristiche del Servizio
Pubblico, il cui modello di riferimento era la British
Broadcasting Company (BBC), la TV di Stato britannica.
Per tale modello le parole chiave erano educazione,
qualità e indipendenza. La Rai saprà far sue le prime due
per oltre trenta anni, ma non riuscirà mai ad ottenere la
terza.
Alla base della concezione didattica del Servizio
Pubblico sta il presupposto che un'azienda che produce
cultura e informazione non può essere considerata come
una attività qualsiasi. Il suo operato deve rispettare
l'interesse collettivo e la democrazia, in quanto i beni
che produce sono un diritto dei cittadini; e tanto più
per il grande potere di comunicazione, e dunque di
influenza, che possiede.
E' insomma la natura particolare della televisione a
richiedere uno statuto particolare delle emittenti, che
non
possono
essere
regolamentate
solamente
dalle
dinamiche del mercato. Una delle aspirazioni del sistema
democratico è l'accrescimento dei suoi cittadini. Nella
TV è stato fin dall'inizio individuato uno strumento
potentissimo per il raggiungimento di questo scopo.
Secondo John Reith, primo direttore generale della BBC,
la TV “aveva la responsabilità di portare nel numero più
ampio possibile di case il meglio di ciò che era stato
formulato in ogni area della conoscenza umana”.
Inoltre era chiaro fin dall'inizio come la televisione
fosse un formidabile strumento per modellare e rinforzare
i caratteri nazionali e il senso di appartenenza al
Paese.
Altro
motivo
che
ne
faceva
presupporre
l'indipendenza dal potere politico e in particolare dal
Governo. In Italia questo non fu mai possibile. L'EIAR,
antenata della Rai, nacque durante il fascismo e ne
divenne ben presto la voce. La Rai prese forma nel 1944 e
nella nuova Costituzione scritta al termine della guerra
ne veniva affidato il controllo agli organi dello Stato.
E proprio nella Costituzione si indicava come “a fini di
utilità generale la legge può riservare allo stato
determinate imprese che si riferiscano a servizi pubblici
essenziali ed abbiano carattere di preminente interesse
generale”
(art.43).
E
sempre
sulla
base
della
Costituzione venivano formulati i principi democratici a
cui la TV era vincolata: concorrere alla crescita
culturale del Paese, permettere il formarsi di una
opinione pubblica consapevole, dare accesso e visibilità
a tutte le forze politiche. Nei primi vent'anni della sua
attività la Rai ha dato un formidabile contributo per
rendere gli italiani più colti e più “moderni”, partecipi
cioè dei cambiamenti che nel Paese e nel mondo stavano
avvenendo. Ma è stata schiava dei partiti politici fin
dall'inizio: prima di quelli di governo, poi di tutti i
principali, dopo che la riforma del 1975 stabilì il
passaggio del controllo dall'esecutivo al parlamento.
Aggiungendo a questa cronica situazione la rottura del
monopolio e l'entrata in scena delle reti private che
hanno cambiato i termini del confronto tradizionali e a
cui la Rai non è stata in grado di reagire conscia del
suo ruolo, allora si comprende la condizione di degrado e
di bassa credibilità a cui è arrivata la TV di Stato.
L'avvento del mercato da parte sua non ha portato
benefici, anzi ha segnato una inesorabile decadenza della
TV italiana, tutta. Ribadendo quanto già avvenuto in
altri paesi, che quello televisivo non è un mercato
equiparabile a quello delle merci reali e l'assenza di
regola ha l'effetto di danneggiare i consumatori e di non
obbligare le imprese di occuparsi della qualità dei
propri prodotti.
Oggi la restituzione della TV ai cittadini, secondo
quanto
i
principi
democratici,
la
Costituzione
e
l'interesse
della
collettività
richiedono,
passa
attraverso 3 snodi decisivi. La sottrazione della Rai al
controllo
diretto
dei
partiti
politici;
la
regolamentazione del mercato televisivo pubblico/privato
in modo che sia riaperto ad una vera concorrenza con lo
scopo di indirizzare verso una nuova ricerca di qualità,
ormai atrofizzata dalla mancanza di vera competizione tra
Rai e Mediaset; la riforma della raccolta dei dati di
ascolto, sui quali tutto il sistema televisivo basa il
suo enorme mercato pubblicitario, nella direzione di una
rilevazione trasparente e non solo più quantitativa ma
anche qualitativa.
La pubblicità.
Fin dal 1957 la pubblicità è presente sulla Rai,
all'interno di un programma dedicato, e solo di quello,
Carosello. Era la scelta ibrida della Tv di Stato, che
agiva come educatrice e guida dello spettatore, per
immettere la presenza del mercato all'interno della
programmazione. Fu un successo enorme ed epocale, altri
contenitori simili si affiancarono, e la proposta di
pubblicità stava all'interno della TV nel suo spazio
delimitato rispetto al resto della trasmissione, al
contenuto insomma della programmazione.
“Carosello” termina nel 1976, nel momento di piena
trasformazione del sistema televisivo italiano con la
nascita delle TV private e l'avvento del colore. La
pubblicità vine ora trasmessa con dei “telecomunicati”,
che si trasformeranno di lì a breve negli “spot”.
Nei
trenta
anni
successivi,
di
pari
passo
con
l'affermazione della Tv commerciale, la pubblicità
prenderà
sempre
più
spazio
nei
programmi
e
nel
palinsesto. La presenza della comunicazione commerciale
si pone tra i programmi, in blocchi di spot; nei
programmi tramite televendite e sponsorizzazioni; nel
linguaggio, influenzando il resto dell'offerta ammaliata
dalle sue vincenti strategie comunicative, con gli altri
generi sempre più debitori delle sue caratteristiche di
superficialità, brevità e ripetizione. Il condizionamento
che dunque la pubblicità opera nei confronti dei
contenuti televisivi è duplice: esterno, in quanto essa è
la
principale
fonte
di
finanziamento
dei
canali
televisivi e dunque la condiziona la costruzione di
trasmissioni che devono essere appetibili in primo luogo
per i pubblicitari e non per il pubblico; interno, come
genere televisivo egemone e di maggior fascino con le
capacità di elevata sintesi narrativa, il ricorso a
testimonial di fama mondiale, il costante richiamo alla
dimensione ludica e liberatoria dell'esistenza.
A pubblicità è sicuramente un genere molto interessante
per il linguaggio audiovisivo, ma la sua presenza
abnorme, dati i suoi presupposti e le sue finalità, non
può che essere limitante e invadente per gli altri generi
televisivi.
La neotelevisione.
L'aumento massiccio della pubblicità in TV è uno degli
elementi che segnano l'affermazione di un nuovo tipo di
televisione, quella che si diffonde negli anni '80 e che
Umberto Eco ha definito neotelevisione, e che è quella
che ancora oggi occupa i nostri schermi.
Gli altri elementi che la caratterizzano e che segnano
una profonda rottura rispetto alla TV precedente sono::
lo
sviluppo
tecnologico
che
porta
in
particolare
all'affermazione del telecomando, del videoregistratore e
del televideo
l'aumento e la diversificazione del numero di televisori
presenti in ogni casa
la moltiplicazioni dei canali
l'incremento delle ore di trasmissione giornaliera fino
ad arrivare alla copertura delle 24 ore
la forte concorrenza
televisive
che
si
instaura
tra
le
reti
In
conseguenza
di
questi
elementi
si
modifica
profondamente il rapporto tra la TV e l mondo in cui è
presente. Il principale oggetto d'interesse diventa
infatti
lei
stessa,
in
un
acuto
processo
di
autoreferenzialità, mentre la realtà passa in secondo
piano. La TV inizia a scandire il tempo quotidiano dello
spettatore in base agli appuntamenti ricorrenti del suo
palinsesto.
I modi di espressione dell'autoreferenzialità sono
diversi. Dall'avere come soggetto dei programmi la TV
stessa nei suoi differenti aspetti, all'uso massiccio del
repertorio Tv e dunque della memoria del mezzo come
memoria collettiva, alla messa in scena degli aspetti
tecnici e operativi della Tv (tecnici, mezzi, fuori onda,
errori di ripresa, ecc).
Nella neotelevisione poi i generi tradizionali della TV
si confondono tra loro: informazione e spettacolo si
mescolano nell'infotainment, la fiction e la realtà
perdono i propri confini nel reality show.
Inoltre i vari segmenti del palinsesto, oltre a
richiamarsi l'un l'altro, perdono i confini che li hanno
sempre separati con lo scopo di ben caratterizzarli. Uno
apre una finestra sull'altro che lo segue e da cui sarà
separato dalla pubblicità, e quello successivo cede uno
spazio informativo al notiziario che è appena prima del
film che sarà ogni 12 minuti interrotto da spot promo...
Questa perdita di differenziazione dei vari segmenti
della programmazione prende il nome di flusso, come ha
ben intuito lo studioso dei media Raymond Williams quando
s trovò per la prima volta davanti la TV americana, il
cui modello è quello che oggi qui da noi domina. Un
flusso che miscela tutto ciò che la TV propone in un
unico impasto che ha come scopo quello di tenere lo
spettatore
su
quel
canale.
La
presenza
di
un
inestricabile flusso è evidenziata anche dal linguaggio
comune. Normalmente diciamo “ho guardato la televisione”
e non “ho guardato la partita in TV” oppure “ho guardato
un film in TV”...
E il legame sempre più forte dello spettatore al mezzo
più che ai canali o ai contenuti è attestato dalla
pratica di fruizione principale della neotelevisione, lo
zapping. Ognuno di noi può costruirsi il proprio flusso
individuale
passando
da
un
programma
all'altro
e
miscelando frammenti ancora più eterogenei di contenuto.
Infine, la neotelevisione ha trasformato la dimensione
dell'immaginario televisivo da pubblica e ricorrentemente
festiva a privata ed eminentemente quotidiana. La
presenza via via maggiore nei programmi della gente
comune come pubblico in studio, poi come concorrenti poi
come ospiti, o attraverso il loro intervento da casa
attraverso il telefono, è stato il primo passo. Dopo aver
portato nella spazio spettacolare l'uomo e la donna
comuni, si sono fatti diventare comuni i personaggi dello
spettacolo
attraverso
l'esposizione
di
difetti
e
debolezze attraverso dosi massicce di gossip. Si è così
creato un terreno sul quale il pubblico medio non sente
il bisogno di apprendere nulla e di nulla stupirsi perché
argomenti e comportamenti sono gli stessi che può trovare
nella routine quotidiana. Molti personaggi della nuova
televisione poi non eccellono in nulla se non nel numero
di volte in cui sono comparsi come ospiti in programmi
televisivi, anche qui senza una funzione specifica se non
quella di essere ospiti. Questo livellamento verso il
basso ha avuto la forma dell'appiattimento e dello
svuotamento
di
contenuti,
non
quello
della
democratizzazione e dell'attenzione alla vita quotidiana.
Tutto nella neotelevisione, cioè nella TV attuale, è
finalizzato mantenere il contatto con lo spettatore, a
richiamarlo all'interno del mondo fittizio del piccolo
schermo.
Il palinsesto.
L'organizzazione del palinsesto, ovvero del quadro
d'insieme dei programmi del giorno, della settimana o del
mese, non ha altra funzione che questa, tenere più
spettatori possibili sul proprio canale per il maggior
tempo possibile, con il fine di massimizzare gli ascolti
su cui si basano gli investimenti pubblicitari.
Intorno
alla
pianificazione
del
palinsesto
si
è
sviluppato un vero e proprio marketing specifico le cui
strategie è bene analizzare sommariamente per comprendere
come funziona la strategia di ricerca del pubblico.
Counter programming: la collocazione di un programma di
genere diverso da quello mandato in onda dalla ete
concorrente nella stessa fascia oraria
Competitive programming: si
utilizzando lo stesso formato
compete
con
l'avversario
Checkerboarding: posizionamento, in una stessa
oraria, di un programma ogni giorno differente
fascia
Stripping:
indica
la
strategia
tipica
della
neotelevisione di proporre quotidianamente, alla stessa
ora, la medesima trasmissione
Lead in e lead out: principi per cui si presuppone che il
pubblico di un determinato appuntamento televisivo possa
seguire anche l'appuntamento successivo
Spinoffs: è la tecnica di costruire, attorno a personaggi
già noti per altre ragioni, dei programmi appositi
Hammocking: un programma nuovo e poco seguito
collocato tra due appuntamenti di forte richiamo
viene
Bridging:
posizionamento
di
formati
“forti”
in
corrispondenza
della
messa
in
onda,
sulle
reti
concorrenti, di altri appuntamenti, in maniera tale da
bloccare il pubblico sulle proprie frequenze
Blocking: incasellamento in sequenza
aventi lo stesso target di riferimento
di
trasmissioni
Stunting: consiste nel cambiamento improvviso di formato
Dalle 4 ore giornaliere di programmazione degli albori
della TV si è passati in poco più di venti anni alla
copertura totale della giornata, dall'alba alla notte
fonda, con il segnale che non viene mai sospeso, 24 ore
su 24.
Auditel.
Il desiderio di poter valutare l'ascolto (la quantità) e
il gradimento (la qualità) dei programmi trasmessi ha
dovuto
trovare
soluzioni
alternative
al
problema
dell'impossibilità di un riscontro diretto del consumo di
televisione, come invece è possibile per il cinema, i
libri
e
la
stampa.
La
RAI,
rispondendo
alle
responsabilità proprie di una televisione di Stato, ha
sempre promosso ricerche e indagini facendosene carico
direttamente. Fin dagli anni Sessanta ha cercato di
misurare il gradimento del pubblico per i programmi
mandati
in
onda,
attraverso
il
questionario
e
l'intervista diretta. In quanto unica emittente sul
mercato fino agli anni settanta, la Rai non ha avuto
bisogno di calcolare quanti consumatori potesse “vendere”
agli inserzionisti pubblicitari.
All'avvento della televisione commerciale all'inizio
degli anni ottanta, la RAI compie l'errore di non
difendere le peculiarità del servizio pubblico per
differenziarsi
dalla
concorrenza,
ma
si
avvia
a
costituire con questa un sistema misto in cui sono le
regole della TV privata a dettar legge. Ne verrà una
caduta progressiva della qualità, della credibilità,
dell'autorevolezza dell'azienda.
Nel 1984 la Rai è tra i promotori di Auditel, un
organismo
di
rilevazione
del
consumo
televisivo,
predisposto
a
fornire
e
gestire
solamente
dati
quantitativi. Auditel è una società creata insieme ai
network dell'emittenza privata e alle associazioni dei
pubblicitari la cui attività sul campo prende il via nel
1986 a Milano. La scelta tecnologica cadde sullo
strument o meter, che registra i contatti che lo
spettatore opera attraverso la selezione dei canali in
riferimento al tempo di permanenza, trasmettendo gli
impulsi per via telefonica. Ma vediamo più precisamente
il funzionamento così come è descritto sul sito
dell'Auditel.
Schematicamente, il meter è composto da 3 unità:
l'Unità di identificazione, che riconosce e registra il
canale televisivo fruito da ogni apparecchio presente
nella famiglia (tv, videoregistratore, dvd, ricevitore
per tv satellitare e digitale terrestre, play station);
i l Telecomando, che segnala le presenze individuali per
ciascun televisore, attraverso tasti assegnati a ogni
componente della famiglia e a eventuali ospiti;
l'Unità di trasmissione, che raccoglie i dati (da tutti i
TV) per poi trasmetterli al calcolatore centrale, via
linea telefonica o GSM.
Prodotti da AGB, società incaricata della rilevazione, i
meter sono di proprietà di Auditel. Le informazioni
raccolte ogni giorno, tra le 2 e le 5 del mattino, sono
elaborate dal computer centrale e diffuse alle 10 del
mattino successivo.
Guardare
qualcosa
in
TV
significa
automaticamente
apprezzarlo? Cambiare canale, in certe fasce orarie,
offre davvero la possibilità di trovare qualcosa che
risponda alle esigenze di tutto il pubblico?
Il sistema di rilevazione scelto da Auditel, e basato ad
oggi su circa 5000 famiglie campione, non era l'unico
possibile; anzi, era davvero poco adatto per stabilire la
soddisfazione del pubblico e le modalità di fruizione.
Auditel ha come obiettivo la mappatura degli ipotetici
consumatori in base alla loro suddivisione e frequenza di
ascolto; non di tratteggiare il profilo del pubblico per
potergli fornire un'offerta adeguata, sulla quale sarà
poi l'industria pubblicitaria ad adattarsi, e non
viceversa.
I dati raccolti da Auditel diventano poi l'elemento
decisivo per la stesura dei palinsesti da parte delle
reti. Una rilevazione di tipo solo quantitativo ha un
problema di fondo: la semplice accensione del televisore
si tramuta sui tabulati delle rilevazioni in un
gradimento implicito. Sappiamo tutti come sovente si
usufruisca della TV nelle nostre case: viene utilizzata
come sottofondo o accompagnamento a cui non viene
prestata che un'attenzione saltuaria e distratta. La
scelta di un programma si effettua a volte in base al
“meno peggio”: e si può indicare come apprezzamento la
“resa” di chi guarda la TV di fronte ad una proposta che
può anche essere globalmente di bassa qualità? Il metodo
dell'Auditel serve solo a stabilizzare il mercato della
pubblicità con dati costanti e privi di possibile
contraddizione. Manca la valutazione del gradimento degli
spettatori.
Infine, è giusto che a gestire un organismo così
importante siano gli stessi enti che ne traggono
beneficio, le parti in causa insomma, cioè RAI, Mediaset,
pubblicitari? Non dovrebbe forse essere un'organizzazione
autonoma? Dovrebbe occuparsene, per l'importanza della
posta in palio, un ente davvero autonomo. E infatti la
legge prevede che questo ruolo venga svolto direttamente
dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che da
parte sua non ha mai rivendicato con forza il ruolo che
le spetta. Eppure l'Autorità è un ente indipendente della
Repubblica Italiana a cui la legge attribuisce un compito
specifico, mentre l'Auditel è solo una società privata e
nemmeno super partes. Forse la soluzione per questo
problema sarebbe una pluralità di soggetti che rilevano i
dati di ascolto, superando un monopolio che alla prova
dei fatti non è stato salutare per la TV italiana.
E' evidente, e ormai sostenuta da più parti, la necessità
di avere indagini qualitative del consumo televisivo che
si affianchino a quelle quantitative per dare un quadro
più realista di chi e come guarda la TV. In questa
direzione
la
Rai
ha
attivato
l'Indice
qualità
soddisfazione (Iqs) nel luglio del 1997, ma dimostrando
poca trasparenza non ha mai voluto divulgarne i dati.
Se a tutto questo si aggiunge che il mercato televisivo
italiano si è rapidamente strutturato, dai primi anni
novanta, in un duopolio dove fare concorrenza è molto
difficile, si capisce a quali rischi siano esposti gli
utenti-telespettatori-cittadini nel loro diritto di avere
una TV all'altezza di un paese democratico.
Le ricerche sui modelli di genere.
Due importanti ricerche sono promosse negli anni '80
dalla “Commissione nazionale per la realizzazione della
parità tra uomo e donna” condotte dall'antropologa Gioia
Di Cristofaro Longo, che sono molto interessanti per
diversi motivi.
Innanzi
tutto
prendono
in
considerazione
la
rappresentazione della donna in tutti i media che
utilizzano immagini, dandoci così un resoconto completo
su come la cultura della comunicazione rappresenta il
genere femminile, che testimonia come l'interesse per
l'etica della comunicazione avesse raggiunto, venti anni
fa, anche le istituzioni. La prima di queste ricerche è
del 1985 e si intitolata Immagine donna. Modelli di donna
emergenti nei mezzi di comunicazione di massa e arriva ad
individuare alcune proposte per il cambiamento che
verranno riprese nel Piano di Azione Nazionale del 1986 e
poi nel Primo Rapporto del Governo Italiano sulla
Convenzione per l'eliminazione di tutte le forme di
discriminazione nei confronti delle donne del 1989.
Molto significativa è la seconda ricerca, del 1992, La
Donna nei Media, perché in realtà è il resoconto
dell'attività di Sportello Immagine Donna, istituito
dalla Commissione per le Pari Opportunità come ente a cui
i
cittadini
potessero
rivolgersi
per
suggerire,
segnalare, denunciare pubblicità, programmi o quanto
altro che proponesse messaggi e immagini offensive e
svilenti delle donne. Questa è la caratteristica più
interessante della ricerca: il coinvolgimento diretto
della popolazione, scuole medie comprese grazie alle
iniziative di molte e molti insegnanti. Le numerose
lettere, i lavori di analisi realizzati autonomamente e
poi inviati, le denunce, le raccolte di firme, che
l'iniziativa ha catalizzato testimoniano di una coscienza
civile e di una partecipazione che si sono disperse negli
anni successivi fino ad oggi, certo anche per la
progressiva latitanza delle istituzioni nel sostenere una
dimensione etica della comunicazione. Le speranze e le
azioni in quel periodo erano altre, come bene spiega Tina
Anselmi, allora presidente della Commissione per le Pari
Opportunità e deputata democristiana:
“L'iniziativa parte infatti da un presupposto, da una
nostra sensazione forte e ben distinta, anche se non
ancora suffragata da dati certi: che i cittadini e le
cittadine italiane fossero stanchi dell'immagine e degli
stereotipi
legati
alla
donna
che
il
mondo
dell'informazione e della comunicazione propongono con
ossessiva insistenza, con messaggi ora espliciti ora
subdolamente mascherati. Non si tratta solo dell'uso e
della strumentalizzazione del corpo femminile (o meglio
di alcune parti di esso, per di più scoperte) per vendere
qualunque oggetto, ma anche e soprattutto della continua
svalutazione della donna intesa come persona, eternamente
relegata in ruoli sciocchi e superficiali. […]
E non ci sbagliavamo: le centinaia e centinaia di
segnalazioni che abbiamo ricevuto hanno dimostrato che
avevamo ragione, ed hanno dimostrato come un'istituzione,
nel momento in cui si apre alla società civile e dialoga
con essa possa diventare reale punto di riferimento e
valida interlocutrice.[...]
Oggi presentiamo finalmente un primo bilancio dello
“Sportello” che si presenta con una valenza del tutto
nuova
rispetto
a
qualunque
indagine
sociologica,
antropologica o statistica sul tema: perché stavolta è la
gente che parla, cittadine e cittadini che esprimono la
loro soddisfazione per aver finalmente trovato qualcuno
(un'istituzione!) disposto ad ascoltare il loro “basta!”
e a trasformarlo in azioni concrete.”
Quello che con più interesse emergeva da questa
esperienza era che di fronte alle gravi distorsioni
operate dai media sull'immagine della donna, ciò che
stava più a cuore a ricercatori e istituzioni era
arrivare al cambiamento della situazione. Teoria sì per
analizzare,
ma
poi
azioni
pratiche
per
incidere
positivamente sul sistema.
Tra gli enti che svolgono in Italia monitoraggio e
indagine:
sulla programmazione televisiva l'Osservatorio di Pavia
che è in attività dal 1994
e sulla produzione di fiction l'Osservatorio permanente
sulla fiction fondato e diretto dal 1986 dalla sociologa
Milly Buonanno.
La Buonanno in particolare ha messo in evidenza nei suoi
studi sulla professione giornalistica come le donne nelle
redazioni italiane siano ancora discriminate in base agli
stereotipi di genere, nonostante la crescita esponenziale
della
loro
presenza
e
attività,
soprattutto
in
televisione. La definizione coniata dalla studiosa per
sintetizzare questa condizione è esaustiva: “visibilità
senza potere”. Utilizzate molto come conduttrici, quindi
con la messa in campo del loro volto, e ormai anche del
loro corpo, delegate alla gestione soprattutto di
particolari settori tematici come lo spettacolo e la
salute, sono per lo più escluse dai ruoli più prestigiosi
e di potere. Il problema più grande che viene evidenziato
dagli studi sul giornalismo al femminile è che, anche
dove le donne raggiungono posizioni influenti e decisive,
possono farlo solo alimentando nella loro professione un
punto di vista sul mondo e sui singoli fatti conforme
all'ottica maschile. Insomma, una donna può anche
(raramente) dirigere un telegiornale o fare l'opinionista
a livello nazionale ma queste conquiste diventano
possibili solo in cambio di un approccio maschile, di una
rimozione almeno parziale dell'essere femminile nel
mondo.
Ne
discendono
ovvie
conseguenze
sulla
interpretazione della realtà, condizionamenti che vengono
così trasmessi al pubblico, nutrendo un circolo vizioso.
I l Global Media Monitoring Project organizza ogni cinque
anni una ricerca qualitativa/quantitativa in 70 paesi di
tutto il mondo per fotografare presenza di genere
nell'informazione di televisioni, radio e quotidiani.
Margaret Gallagher, che è un delle coordinatrici di
questa ricerca, commentandone nel 2004 i risultati disse
chiaramente come per ottenere dai media una immagine
della donna quale cittadina a tutto tondo, bisogna non
solo far accedere le donne alle posizioni decisionali, ma
sopratutto immettere nella prassi di costruzione delle
notizie un punto di vista femminile, che non può essere
lo scimmiottamento da parte femminile dello stile
maschile. E' più importante dunque il come si racconta,
rispetto a chi racconta.
In questa direzione di costruzione di un'alternativa alla
egemonia
maschile
nell'informazione,
ancora
Milly
Buonanno propone come concreta alternativa la coalizione
delle giornaliste italiane in una comunità consapevole
che rifletta su quale può essere la visione femminile.
Secondo la studiosa ci si può riuscire partendo dal
potenziale di autonomia ed etica che le donne hanno
dimostrato in questi anni di possedere e saper mettere in
atto. Infatti le giornaliste hanno sovente preso le
distanze dal potere volutamente nella pratica del loro
lavoro, soprattutto chi tra loro ha vissuto la stagione
dell'impegno femminista.
Una dettagliata indagine sulla rappresentazione di genere
nell'informazione della RAI, Una, nessuna... a quando
centomila?
La
rappresentazione
della
donna
in
televisione, è stata svolta nel 2001 da Loredana Cornero
ed ha delineato un quadro in cui i limiti della
rappresentazione al femminile permangono, sia a livello
di creatrici che di soggetti delle notizie. I problemi
salienti sono: meno spazio negli argomenti seri, estrema
valorizzazione dell'aspetto fisico ma minima di quello
intellettuale, atteggiamento paternalistico nei loro
confronti.
Due fondamentali ricerche sulla condizione subordinata
della donna a livello di immagini mediatiche, sono due
studi compiuti nel 2002 dal CNEL, il Consiglio Nazionale
dell'Economia e del Lavoro e nel 2006 dal CENSIS, il
Centro Studi Investimenti Sociali, osservatorio autonomo
dei cambiamenti e delle condizioni del paese.
Dalla ricerca del CNEL emerge un dato significativo, cioè
che il rapporto tra tempo parlato o agito e tempo solo
visivo tende a coincidere per gli uomini, mentre è
fortemente squilibrato verso il visivo per le donne.
Tutte
quelle
donne
e
ragazze
messe
ai
margini
dell'inquadratura, inginocchiate come ancelle o in piedi
come
cornici,
quelle
ragazze
messe
al
centro
dell'inquadratura ma vicino a uomini che tengono sempre
la parola su argomenti importanti, quelle ragazze sono la
normalità della TV italiana.
A confermare l'esistenza di un modello sostanzialmente
unico di donna nella rappresentazione televisiva del
nostro paese è la ricerca del CENSIS, Donne e Media in
Europa, di cui vi riportiamo l'estratto riassuntivo:
Attraverso l’analisi dei contenuti di 578 programmi
televisivi
d’informazione,
approfondimento,
cultura,
intrattenimento
sulle
7
emittenti
nazionali
(Rai,
Mediaset, La7), emerge che le donne, nella fascia
preserale,
ricoprono
soprattutto
ruoli
di
attrici
(56,3%), cantanti (25%) e modelle (20%). L'immagine più
frequente dunque è quella della “donna di spettacolo”.
Piacevoli, collaborative, positive. La donna in tv è
rappresentata in maniera positiva, come protagonista
della situazione, ma generalmente, lo spazio offerto alla
figura femminile è gestito da una figura maschile
"ordinante".
Belle, patinate e soprattutto giovani. L’immagine della
donna risulta polarizzata tra il mondo dello spettacolo e
quello della violenza della cronaca nera. C’è una
distorsione rispetto al mondo femminile reale: le donne
anziane sono invisibili (4,8%), lo status socioeconomico
percepibile è medioalto, e solo nel 9,6% dei casi è
basso, mentre le donne disabili non compaiono mai. I temi
a cui la donna viene più spesso associata sono quelli
dello spettacolo e della moda (31,5%), della violenza
fisica (14,2%) e della giustizia (12,4%); quasi mai
invece
alla
politica
(4,8%),
alla
realizzazione
professionale (2%) e all’impegno nel mondo della cultura
(6,6%).
L'intrattenimento. Il conduttore è uomo (58%), lo stile
di conduzione è ironico (39,2%), malizioso (21,6%) e un
po’ aggressivo (21,6%); i costumi di scena sono audaci
(36,9%), le inquadrature voyeuristiche (30%) e solo nel
15,7% dei casi sottolineano le abilità artistiche della
donna.
L'estetica
complessiva
è
quella
dell'avanspettacolo mediocre (36,4%) e scadente (28,9%).
Nei reality in particolare, della donna si sottolineano
invece doti di adattamento, furbizia e spregiudicatezza.
L'informazione: la donna del dolore. Nell'informazione la
donna compare soprattutto all'interno di un servizio di
cronaca nera (67,8%), in una vicenda drammatica in cui è
coinvolta
come
vittima
di
violenze,
stupri
e
prevaricazioni di ogni tipo. E il suo intervento, in un
servizio televisivo, dura fino a venti secondi, nel 45,2%
dei casi.
I
programmi
di
approfondimento.
Il
timone
della
conduzione è in mano agli uomini (63%). Ma se le donne
intervengono in qualità di “esperte” lo sono soprattutto
su argomenti come l'astrologia (20,7%), la natura
(13,8%), l'artigianato (13,8%) e la letteratura (10,3%).
Le donne della fiction. E’ il genere che meglio descrive
l’evoluzione della condizione delle donna, la quale viene
rappresentata come dirigente di distretti di polizia,
come medico e avvocato in carriera.
Nell'esposizione dei risultati la ricerca del CENSIS
afferma poi:
Quello che in molti Paesi europei ha prodotto un
serissimo dibattito culturale e normativo, nel nostro
paese, al di là di alcuni pregevoli tentativi, appare
ancora come un “tema di frontiera” o, peggio ancora, un
tema da suffragette nostalgiche di un femminismo ormai
trapassato.
Stenta in Italia ad affermarsi il principio che una
rappresentazione
“plurale”
delle
donne,
una
rappresentazione non offensiva della loro dignità, non
volgare, non reificante (cioè che non la riduca sempre e
solo ad oggetto sessuale) è un diritto costituzionale,
quel diritto che afferma in tutte le Costituzioni dei
paesi democratici che ogni cittadino ha diritto a non
essere
discriminato
per
ragioni
di
sesso,
etnia,
convinzione religiosa.
La regolamentazione: genere e minori.
Le Nazioni Unite innanzi tutto. L'Italia il 14 marzo 1985
con la legge n.132 ha ratificato e reso esecutiva la
Convenzione ONU sull'eliminazione di tutte le forme di
discriminazione nei confronti della donna, comunemente
conosciuta come CEDAW (The Convention on the Elimination
of All Forms of Discrimination against Women). Tutte le
forme. All'articolo 5 la convezione riporta tra l'altro:
Gli Stati parte devono prendere ogni misura adeguata per:
a. modificare gli schemi ed i modelli di comportamento
sociali e culturali degli uomini e delle donne, al fine
di ottenere l'eliminazione dei pregiudizi e delle
pratiche consuetudinarie o di altro genere, basate sulla
convinzione dell'inferiorità o della superiorità dell'uno
o dell'altro sesso, o sull'idea di ruoli stereotipati
degli uomini e delle donne.
Una delle particolarità della CEDAW rispetto ad altri
trattati sui diritti umani è che non vincola solo gli
Stati, ma li obbliga ad intervenire nei confronti di
altri soggetti non statali se la convenzione non viene
rispettata. Come riporta il comma E dell'articolo 2 gli
stati devono “prendere ogni misura adeguata per eliminare
la
discriminazione
contro
le
donne
da
parte
di
qualsivoglia persona, organizzazione o impresa”. E più in
generale è un trattato che non chiede semplicemente di
condannare le discriminazioni contro le donne, ma impone
un'azione positiva, cioè concreta, attuata attraverso la
legislazione per indurre l'eliminazione degli ostacoli su
questa strada.
La Repubblica Italiana comunque aveva già inserito nella
sua Costituzione l'impegno a contrastare e rimuovere ogni
tipo di discriminazione tra i suoi cittadini. E'
l'articolo 3 ad esprimerlo con chiarezza, indicando
proprio il sesso come la prima delle differenze da
rispettare:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di
razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la
libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno
sviluppo
della
persona
umana
e
l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione
politica, economica e sociale del Paese.
Va però osservato che la RAI più di tutto avrebbe bisogno
di scelte editoriali che semplicemente tagliassero certi
tipi di programmi per fare posto ad altri, che cambino un
linguaggio che si è eccessivamente allontanato dalla
realtà del paese. Anche perché il Servizio Pubblico,
oltre al rispetto del Contratto di servizio, della
Costituzione e del CEDAW, dovrebbe rispettare le regole
che esso stesso si è dato. Come il Codice Etico,
approvato all'unanimità dal Consiglio di Amministrazione
nell'agosto 2003, che è vincolante per tutti i dipendenti
della RAI, per tutte le società ad essa riconducibili e
per tutti i collaboratori e fornitori esterni che con
essa intrattengano rapporti di lavoro. Il primo dei
principi etici generali sostenuti dal Codice Etico della
RAI è l'osservanza della legge.
Il secondo dei principi etici generali che la RAI si da
l'obbligo di osservare è il pluralismo. Ecco cosa
troviamo al punto 2.2 del Codice in questione:
Per RAI, quale concessionaria del Servizio Pubblico
radiotelevisivo, il pluralismo, nella sua accezione più
ampia, costituisce un obbligo che deve essere rispettato
dalla Azienda concessionaria nel suo insieme e in ogni
suo atto e deve avere evidente riscontro nei singoli
programmi; il pluralismo deve estendersi a tutte le
diverse
condizioni
e
opzioni
(sociali,
culturali,
politiche, ecc.) che alimentano gli orientamenti dei
cittadini.
Più in particolare, al punto 2.2.1 (b), si definisce:
pluralismo nella programmazione, in considerazione del
fatto che la complessiva programmazione del Servizio
Pubblico deve essere finalizzata allo sviluppo sociale e
culturale del Paese, con adeguato spazio, anche nelle ore
di maggiore ascolto, alle varie tendenze culturali che
hanno segnato l'evoluzione della civiltà. La linea
editoriale RAI deve rispettare e soddisfare un pubblico
che ha orientamenti, opinioni e gusti diversi. Nei
programmi si deve, quindi, riflettere la molteplicità
delle culture e degli interessi in modo che qualunque sia
il credo religioso, il convincimento politico, la razza,
il sesso, l'orientamento sessuale, l'educazione, la
condizione sociale e l'età, gli utenti non vengano
trascurati o offesi. Anche se il pluralismo non può
trovare sempre applicazione meccanica e contestuale, esso
deve comunque essere rispettato in un ragionevole arco di
programmazione.
Proseguendo nello stesso punto, alla sezione (e), viene
chiarito in modo interessante cosa si intende per:
pluralismo culturale, in quanto, in ordine alle singole
problematiche trattate devono emergere le diverse opzioni
culturali presenti nel Paese, e nella stessa scelta dei
temi, il Servizio Pubblico deve caratterizzarsi come
capace di proporre questioni innovative e di interesse
rispetto alle mode correnti riflesse dagli altri mezzi di
informazione. […] Anche attraverso la collocazione di
tali tematiche in fasce orarie di maggiore ascolto.
Infine, fondamentale per il nostro discorso, alla sezione
(h) viene precisato che da tutelare è anche il:
pluralismo di genere e di età, in quanto RAI promuove la
cultura e la politica delle pari opportunità tra uomini e
donne. La programmazione è chiamata a farsi carico della
presenza, tra i radio e i telespettatori, dei minori:
grande attenzione va riservata alla tutela, non soltanto
in termini di protezione delle culture della violenza e
della prevaricazione fisica e psicologica, ma anche e
soprattutto nel senso della promozione positiva di
valori.
Mediaset non si è data nel proprio codice etico regole di
tutela
della
differenza
sessuale
e
culturale,
ma
riconosce un altro documento di cui è stata tra le
promotrici: il Codice di Autoregolamentazione TV e
minori, sottoscritto il 29 novembre 2002 tra il Ministero
delle Comunicazioni e i principali network televisivi
italiani, Rai compresa naturalmente. Infatti al punto (b)
del Codice si riconosce che:
il bisogno del minore a uno sviluppo regolare e compiuto
è un diritto riconosciuto dall’ordinamento giuridico
nazionale e internazionale: basta ricordare l’articolo
della Costituzione che impegna la comunità nazionale, in
tutte le sue articolazioni, a proteggere l’infanzia e la
gioventù (art.31) o la Convenzione dell’ONU del 1989 –
divenuta legge dello Stato nel 1991, che impone a tutti
di collaborare per predisporre le condizioni perché i
minori possano vivere una vita autonoma nella società,
nello spirito di pace, dignità, tolleranza, libertà,
eguaglianza, solidarietà e che fa divieto di sottoporlo a
interferenze arbitrarie o illegali nella sua privacy e
comunque a forme di violenza, danno, abuso mentale,
sfruttamento;
Nel punto (c) le Emittenti si fanno addirittura carico di
parte della responsabilità educativa dei minori:
la funzione educativa, che compete innanzitutto alla
famiglia, deve essere agevolata dalla televisione al fine
di aiutare i minori a conoscere progressivamente la vita
e ad affrontarne i problemi;
Al punto (e) c'è poi il chiaro riconoscimento delle
responsabilità di chi fa televisione:
riconosciuti i diritti di ogni cittadino – utente e
quelli di libertà di informazione e di impresa, quando
questi siano contrapposti a quelli del bambino, si
applica il principio di cui all’art.3 della Convenzione
ONU secondo cui “i maggiori interessi del bambino/a
devono costituire oggetto di primaria considerazione”.
Tutto ciò premesso, le Imprese televisive ritengono
opportuno non solo impegnarsi a uno scrupoloso rispetto
della normativa vigente a tutela dei minori, ma anche a
dar vita a un codice di autoregolamentazione che possa
assicurare contributi positivi allo sviluppo della loro
personalità e comunque che eviti messaggi che possano
danneggiarla nel rispetto della Convenzione ONU che
impegna ad adottare appropriati codici di condotta
affinché il bambino/a sia protetto da informazioni e
materiali dannosi al suo benessere (art.17).
A ribadire la serietà dell'impegno, abbiamo ciò che viene
espresso al punto (b) dei Principi Generali:
aiutare gli adulti, le famiglie e i minori a un uso
corretto ed appropriato delle trasmissioni televisive,
tenendo conto delle esigenze del bambino, sia rispetto
alla qualità che alla quantità; ciò per evitare il
pericolo di una dipendenza dalla televisione e di
imitazione dei modelli televisivi, per consentire una
scelta critica dei programmi;
Andando oltre le formulazione teoriche si stabilisce che
la fascia oraria dalle 7 alle 22.30 sia una fascia
protetta vista la presenza dei minori all'ascolto,
regolamentata per quanto riguarda contenuti, linguaggio,
pubblicità.
Congiuntamente al Codice e per la sua effettiva
attuazione
era
stato
attivato
un
Comitato
per
l'applicazione del Codice di Autoregolamentazione TV e
Minori che doveva rendere conto a sua volta all'Autorità
per le Garanzie nelle Comunicazioni. Nell’art. 6.2 del
Codice si prevede che:
“Il Comitato, d’ufficio o su denuncia dei soggetti
interessati, verifica, con le modalità stabilite nel
Regolamento di seguito indicato, le violazioni del
presente Codice. Qualora accerti la violazione del Codice
adotta una risoluzione motivata e determina, tenuto conto
della gravità dell’illecito, del comportamento pregresso
dell’emittente, nell’ambito di diffusione del programma e
della dimensione dell’impresa, le modalità con le quali
ne debba essere data notizia".
L'art. 6.3 continua così:
Rapporti
con
l’Autorità
per
le
Garanzie
nelle
comunicazioni.
Tutte le delibere adottate dal Comitato vengono trasmesse
all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Qualora
il Comitato accerti la sussistenza di una violazione
delle regole del presente Codice, oltre ad adottare i
provvedimenti di cui al punto precedente, inoltra una
denuncia all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni
contenente
l’indicazione
delle
disposizioni,
anche
eventualmente
di
legge,
violate,
le
modalità
dell’illecito, la descrizione del comportamento - anche
successivo - tenuto dall’emittente, gli accertamenti
istruttori esperiti e ogni altro utile elemento.
Le sanzioni previste per chi viola il Codice vanno da
un'ammenda variabile tra i 10.000 e i 250.000 euro fino
alla sospensione o alla revoca della licenza.
TELEVISIONE E MINORI
La percezione audiovisiva nei bambini.
Fin da neonati la TV entra nella nostra vita attraverso
l'udito, che essendo perfetto nei primi giorni di vita
riesce a cogliere i messaggi sonori delle televisioni
accese nelle case. Anche senza guardare lo schermo, la TV
entra immediatamente nella nostra vita.
Questo importante ruolo della stimolazione acustica per
richiamare l'attenzione dei bambini continua anche negli
anni successivi, essendo questo un richiamo più forte di
quello visivo per i piccoli.
E' parte delle strategie consapevoli della TV l'utilizzo
degli effetti sonori, dei jingle, della musica e delle
voci, come dell'uso variabile del volume (gli inserti
pubblicitari sono spesso trasmessi ad un livello più alto
dei programmi che li precedono).
In generale, la forte stimolazione audiovisiva operata
dallo schermo televisivo nei confronti dei bambini si
basa sul fatto che nei soggetti così giovani gli apparati
neurofisiologici sono ancora in via di formazione e
dunque più suscettibili.
L'organizzazione degli stimoli in uscita dalla TV è
dovuta a fattori della comunicazione audiovisiva quali il
montaggio, la scenografia e l'”interpretazione” da parte
di presentatori e attori. A livello di pura stimolazione
percettiva
il
montaggi o
si
pone
come
elemento
determinante in quanto regola durata delle inquadrature,
luminosità, effetti audio e video, ritmo e significato
generali delle sequenze. Ma nei bambini piccoli il peso
della comunicazione è ancora tutto sul lato della
stimolazione sensoriale. Crescendo l'individuo questo si
sposterà
sui
significati
complessi
e
sottesi
che
dipendono dall'articolazione del linguaggio audiovisivo.
Le caratteristiche dei programmi TV che agiscono con più
forza sulla percezione dei bambini sono: il movimento; la
rapidità del montaggio; la presentazione di novità e
sorprese; l'incongruità, cioè il salto dei collegamenti
logici. Tutti questi elementi sono destinati a non far
abbassare la soglia dell'attenzione con un continuo
cambio
di
concentrazione
senza
mai
arrivare
all'elaborazione cognitiva iena degli stimoli e delle
informazioni ricevuti.
La comprensione del linguaggio televisivo è assai
precoce: si ritiene che entro gli 8 anni i bambini siano
in grado di comprendere anche le tecniche più complesse
del linguaggio audiovisivo, dal ralenty alla zoomata alla
dissolvenza. Si sviluppa insieme all'abitudine alla
visione una alfabetizzazione alla televisione che è
sostenuta dai bisogni e dagli interessi del bambino e
anche dalla sua evoluzione cognitiva.
Secondo la teoria degli usi e gratificazioni i media
soddisferebbero cinque classi di bisogni: cognitivi;
estetici; integrativi a livello della personalità;
integrativi a livello sociale; evasione.
Identità e socializzazione e mass media.
La televisione è oggi un mezzo che ha un ruolo importante
nell'identificazione del bambino, ovvero in quel processo
che serve ad ogni individuo per acquisire un ruolo
sociale, aumentare la propria autostima e identificarsi
con un gruppo. E' insomma una necessità e i personaggi
televisivi entrano oggi in questo processo per la
totalità dei bambini, se pensiamo che tra i più giovani
il consumo di televisione ha una percentuale superiore al
90%.
Il meccanismo che sta alla base della ricezione dei
messaggi veicolati dai personaggi è la sospensione
volontaria dell'incredulità, che avviene anche nei
confronti
delle
fiabe
o
del
cinema.
L'importante
differenza sta nei contenuti veicolati. Quelli televisivi
sono fortemente sbilanciati verso la superficialità, la
conflittualità e la semplificazione, laddove le fiabe
agiscono con una forte valenza etica e di rimando
all'interiorità.
Una delle attività preferite dai bambini è l'interazione
emotiva e mentale con i personaggi preferiti, che viene
chiamat a relazione
parasociale.
Si
tratta
di
una
relazione
apparente
che
sostituisce
la
normale
interazione sociale e può avere forte influenza sulle
emozioni e i comportamenti.
Un processo indotto dal forte consumo di televisione è la
socializzazione anticipatoria, che è una esperienza
virtuale e sostitutiva dell'esperienza diretta. Grande
stimolatrice di questo fenomeno è la pubblicità massiccia
presente in televisione, così come ne alimenta altri
quali la formazione degli schemi di genere e degli
stereotipi. Per capirne a fondo l'influenza teniamo
presente che la differenziazione di genere si base
fortemente anche su elementi esterni . Il concetto di sé
come femmina dipende in ordine da: riconoscimento dei
comportamenti sociali delle donne; comprensione dei ruoli
maschile femminile; desiderabilità sociale di uno dei due
sessi; differenze genitali.
Il confronto con i modelli televisivi mette in gioco poi
un punto fondamentale nello sviluppo dei ragazzi,
l'autostima. Nella fase adolescenziale questa ha molto a
che fare con il rapporto con che si ha con il proprio
corpo, e qui l'influenza e le responsabilità della TV e
dei media ingenerale sono ormai da tempo evidenti. Tra i
problemi
in
causa
nelle
problematiche
legate
all'anoressia, alla bulimia e alla dismorfofobia c'è a
tutti gli effetti anche la quantità e la tipologia di
consumo mediatico.
Uno dei fattori psicologici che permettono una maggiore
protezione verso la pressione mediatica incentrata su
personaggi e comportamenti desiderabili ma difficilmente
raggiungibili, c'è la metacognizione. Si tratta della
capacità, più o meno sviluppata, di conoscere il proprio
funzionamento cognitivo e quello altrui. Quindi essere in
grado di riflettere sui propri stati mentali e di
attribuire
stati
mentali
agli
altri
permette
una
valutazione migliore del rapporto tra realtà e finzione.
I modelli identificativi proposti dalla TV possono avere
un ruolo positivo nel processo di attaccamento secondario
con il quale i preadolescenti operano la transizione dal
legame con i genitori a quello con il gruppo dei pari.
Ecco che con forza, per forza, si ripropone la questione
della responsabilità etica della televisione. Perché come
appena accennato, il problema fondamentale nel rapporto
tra minori e televisione è la rappresentazione della
differenza tra realtà e finzione. La TV ne sta
progressivamente offuscando i rispettivi confini per
scopi puramente commerciali e dunque contingenti, con
possibili gravi conseguenze per i suoi grandi consumatori
che ancora non si sono formati una personalità e un
rapporto con il mondo chiari e definiti.
Come
avviene
televisione.
il
condizionamento
da
parte
della
Il peso di un mass media come la televisione entra con
forza nel processo di socializzazione dell'individuo. La
pervasività diretta o indiretta (la Tv è costantemente
ripresa e propagata nei contenuti e nei linguaggi da
tutti gli altri mezzi di informazione) si manifesta sia
nella socializzazione primaria, che è il processo con cui
ci inseriamo nel gruppo attraverso l'acquisizione di
valori, norme e usanze, che nella socializzazione
secondaria, con la quale otteniamo le competenze per
operare nei contesti previsti dalla nostra società.
Modelli concreti di socializzazione sono poi nel nostro
contesto socio-economico la socializzazione allentata
(individualismo)
e
la
socializzazione
restrittiva
(obbedienza).
La
presenza
massiccia
dell e
tecnologie
della
comunicazione nelle nostre vite ha come conseguenza che
oggi la socializzazione avviene molto più rapidamente ma
con meno approfondimento. Conseguenza ne è anche la
perdita
di
peso
delle
tradizionali
agenzie
di
socializzazione come la famiglia e la scuola. Altra
conseguenza è il livellamento e la omogeneizzazione degli
individui; con più difficoltà emergono le differenze e le
peculiarità, e dunque le qualità. La facilità di accesso
alla TV, a quella generalista che ha minore qualità,
permette agli adolescenti che fanno uso abbondante e
frequente di ricevere nozioni che non ha ancora ricevuto
da un genitore o da un'altra figura di riferimento. Ne
può conseguire una riduzione dell'autorità della famiglia
e della scuola e un distacco dai valori promossi da
queste istituzioni, in quanto i modelli televisivi fanno
abbondante riferimento a personalità edonistiche e
connotate dall'appagamento slegato dall'impegno o dalla
competenza necessari per raggiungerli.
La velocità e la rapida sostituzione di personaggi e
situazioni
da
imitare
portano
lontano
sia
dalla
possibilità di strutturare una personalità coerente, sia
dall'assimilazione del concetto di lentezza necessario ad
una crescita che abbia fondamenta solide. Infatti uno
degli effetti studiati della TV è il cosiddetto
daydreaming, il sognare ad occhi aperti, che basandosi
sulla funzione della memoria invece che su quella
dell'elaborazione degli stimoli esterni, tende ad inibire
l'immaginazione creativa.
Ma in generale non appare condivisibile una visione della
televisione capace di effetti di condizionamento a breve
termine, diretti. Facilmente intuibili e comprovati dalla
ricerca sui media sono gli effetti a lungo termine,
indiretti, e dunque molto pervasivi e sfuggenti. Se ne
occupa ad esempio la Cultivation Theory che sostiene come
la fruizione prolungata della TV porti i soggetti alla
condivisione dei medesimi valori e credenze. I punti
salienti di questa prospettiva sono:
La televisione è una presenza massiccia ma apparentemente
invisibile
La
maggior
parte
delle
“storie”
raccontate
dalla
televisione origina delle costruzioni mediali, dunque
verosimili ma non reali, della società che vengono
assunte nei processi di socializzazione
Lo spettatore ha delle scelte ridotte
La ripetizione sempre degli stessi generi e prodotti ne
impone i contenuti
La
rappresentazione
televisiva
della
società
è
strutturalmente basata sull'omologazione in base agli
stereotipi
I contenuti offerti sono quelli della cultura prevalente
Il mainstream effect: capacità della TV di creare
convergenza di grandi massa su certi temi attraverso la
naturalizzazione della confusione tra reale e verosimile
Un'altra teoria che sostiene il potere di condizionamento
dei mass media determinato dalla scelta degli argomenti e
dei contenuti è quella definita dell'Agenda setting,
ovvero il potere dei mass media di stabilire la gerarchia
di
fatti
e
valori
in
base
alla
rilevanza
che
attribuiscono a questi.
PERCORSI DI ANALISI DEI PROGRAMMI TELEVISIVI
Basi teoriche ed etiche.
“I cittadini di una società civilizzata, le persone cioè
che si comportano civilmente, non sono il risultato del
caso, ma sono il risultato di un processo educativo”.
Karl R. Popper
Dall’esperienza maturata nella visione di centinaia di
ore di programmazione e dagli incontri avuti nelle
numerose proiezioni del video, dai dibattiti e dai
confronti pubblici, ci siamo resi conto dell’urgenza di
dover offrire uno sguardo critico a chi guarda molta tv,
per
portarli
ad
essere
spettatori
e
spettatrici
consapevoli e dunque liberi, in particolare i minori.
L'aver
selezionato,
rallentato,
fermato
il
flusso
televisivo, abbinandogli la parola che spiega cosa si sta
vedendo, così come non si coglie nell'immediatezza della
visione e nella brevità dell'inquadratura televisiva, ha
permesso a molti di comprendere per intero il significato
delle immagini della TV. Questo metodo, fermare le
immagini
per
spiegarle,
nasce
dal
lavoro
del
documentario, e questo approccio, educare alla TV, ha il
suo fondamento nelle teorie di quegli studiosi che hanno
trattato di televisione considerandola uno strumento di
educazione di massa.
Dopo la realizzazione de “Il Corpo delle Donne”, fin da
subito volevamo fare qualcosa per incidere effettivamente
sull'offerta della televisione. Se esistono già gli
strumenti teorici ed analitici, cosa serve per attivare
un cambiamento? Serve mettere in campo quegli strumenti.
Serve passare dalla teoria alla pratica. Serve avere un
atteggiamento attivo e non passivo. Serve far rispettare
le regole che già esistono. Serve non accettare sempre e
comunque il pensiero dominante. In questo senso è
fondamentale essere consapevoli non solo dei propri
diritti, ma anche della possibilità che abbiamo tutti di
incidere sulla società in cui viviamo, di contribuire
alla costruzione di un nuovo mondo.
Due sono le opere che possono dare un buon orientamento
etico e teorico nell'affrontare l'analisi dei contenuti
televisivi con scopi non demonizzanti ma di critica
costruttiva.
La prima è Cattiva Maestra Televisione che contiene il
saggio Una patente per fare TV, che il filosofo Karl R.
Popper redasse poco prima di morire nel 1994. E' un breve
saggio che affronta il rapporto tra la televisione e i
bambini. Popper parte da una duplice constatazione: la TV
è entrata a far parte dell'ambiente quotidiano e per
questo è divenuta una fonte di apprendimento e di
educazione per i più giovani; ma ciò che propone, la
lettura del mondo che offre, è distorta e fortemente
connotata
dalla
violenza.
In
questo
modo
stiamo
allevando,
secondo
il
pensatore
austriaco,
nuove
generazioni dalle fondamenta pericolosamente fragili. Il
problema educativo è dunque centrale nel discorso sulla
televisione. Ecco il punto che sta alla base del nostro
lavoro sulla TV: questa è uno dei principali strumenti
educativi a cui hanno accesso le nuove generazioni e il
più diffuso tra i bambini piccoli. Ogni discorso
riguardante il suo contenuto, il suo linguaggio, la
giurisdizione che la riguarda, non può non tenere conto
di questo dato di fatto.
L'educazione è solitamente tenuta e condotta dalla scuola
e dalla famiglia. Ma queste due istituzioni sono in una
crisi profonda e di conseguenza lo spazio lasciato
all'azione didattica della TV è ampio. La famiglia è un
ambito in cui devono agire liberamente le persone che la
compongono, secondo scelte che sono determinate dagli
stimoli provenienti dall'esterno, dal passato, dalla
cultura. La scuola è invece il luogo in cui per
definizione una società prepara i propri membri più
giovani alla vita civile che li attende. Ma la scuola in
Italia sta attraversando una fase di acuta crisi, dovuta
principalmente alla mancanza di risorse economiche e alla
disputa politica che su di essa si compie da molti anni.
Gli insegnanti cercano di utilizzare al meglio i pochi
mezzi che hanno ma la TV ha un potere infinitamente più
grande e ogni giorno insegna a un notevole numero di
bambini e ragazzi a stare al mondo secondo la sua
prospettiva. Propaga stereotipi di genere e rinforza un
modello di convivenza basato su una visione conservatrice
e consumista della vita.
Per fortuna la televisione si può, volendo, migliorare in
tempi brevi e agendo da più parti della società, senza
perdere tempo ad ascoltare chi ripete che “la televisione
è così”. No, la televisione non è così. La forma e il
linguaggio che ha non derivano da una sua natura
intrinseca ma sono solo il risultato delle condizioni
economiche, politiche e culturali in cui si è sviluppata.
Possiamo avere la televisione che riteniamo migliore o
tenerci questa. Come possiamo farci del male o cercare di
stare meglio. Dipende da noi. Tutti.
Servono leggi che stiano dalla parte dei consumatori e
non solo del mercato e che come tale sia realmente aperto
alla concorrenza. E serve che i cittadini proteggano i
loro
interessi:
conoscendo
i
diritti
che
hanno,
protestando contro ciò che li riduce a pura merce,
facendo sentire la loro voce diritti. E anche divulgando
una cultura televisiva nuova, differente.
“Che cosa significa insegnare? Significa influenzare il
loro ambiente (dei bambini, n.d.r.) in modo che possano
prepararsi per i loro futuri compiti: il compito di
diventare cittadini, […] Il punto è che la televisione è
parte dell'ambiente dei bambini ed una parte per la quale
noi siamo ovviamente responsabili, perché si tratta di
una parte dell'ambiente fatta dall'uomo”.
Una delle obiezioni più frequenti alla funzione educativa
della televisione , è che la TV da semplicemente alla
gente ciò che il pubblico chiede. Anche Popper riporta
l'incontro con il responsabile di una TV tedesca che
sosteneva: “Dobbiamo offrire alla gente quello che la
gente
vuole”.
La
replica
di
Popper
è
lucida
e
significativa: “Come se si potesse sapere quello che la
gente vuole dalle statistiche sugli ascolti delle
trasmissioni. Quello che possiamo ricavare da lì sono
soltanto
indicazioni
circa
le
preferenze
tra
le
produzioni che sono state offerte”. Quindi la questione
sulla presunta anti-democraticità di qualsiasi normativa
che indirizzi in senso etico ed educativo la TV, viene
liquidata come non pertinente dal filosofo che è stato, è
bene ricordarlo, il simbolo stesso della democrazia nel
novecento e che ha teorizzato la società aperta:
“Non c'è nulla nella democrazia che giustifichi la tesi
di quel capo della TV, secondo il quale il fatto di
offrire trasmissioni a livelli sempre peggiori dal punto
di vista educativo corrispondeva ai principi della
democrazia =perché la gente lo vuole=. […] Al contrario
la democrazia ha sempre inteso far crescere il livello
dell'educazione; è, questa, una sua vecchia, tradizionale
aspirazione”.
Per risolvere il problema Popper propone di istituire una
patente, un corso di formazione, per tutti coloro che
vanno a lavorare in televisione, in modo che siano
preparati al delicato compito che li aspetta: educare
larghi strati della popolazione. Non vuole alcuna censura
Popper, la trova inutile applicata alla TV, oltre che un
male in sé. Ma, non diversamente da quello che si fa per
i medici, pensa che sia folle affidare un ruolo così
delicato a chi non ha una preparazione specifica.
“Uno degli scopi principali del corso sarà quello di
insegnare a colui che si candida a produrre televisione
che di fatto, gli piaccia o no, sarà coinvolto nella
educazione di massa, in un tipo di educazione che è
terribilmente potente e importante. Di questo si dovranno
rendere conto, volenti o nolenti, tutti coloro che sono
coinvolti dal fare televisione: agiscono come educatori
perché la televisione porta le sue immagini sia davanti
ai bambini e ai giovani che agli adulti. Chi fa
televisione deve sapere di avere parte nella educazione
degli uni e degli altri”.
Considerando la situazione politica e culturale italiana
per quanto riguarda il rapporto tra televisione e
società, noi pensiamo che l'educazione alla televisione
debba arrivare ai più giovani attraverso il canale della
scuola. Dunque vanno forniti ai docenti gli strumenti
perché siano in grado di spiegare la televisione ai
ragazzi, in modo che questi crescano come spettatori
consapevoli e più difficilmente manipolabili. Finché
l’educazione ai media non diventerà pienamente materia
scolastica.
Spiegare la televisione.
“L’immagine deve essere spiegata; e la spiegazione che ne
viene data sul video è costitutivamente insufficiente”.
Giovanni Sartori
La seconda importante opera di riferimento Giovanni
Sartori, Homo videns, che chiarisce in modo dettagliato
perché la TV è una pessima educatrice, concentrando il
discorso sul fatto che le immagini in movimento sono
incapaci di comunicare tutto ciò che le emittenti
affidano loro. Secondo Sartori la televisione sta
operando una vera trasformazione antropologica della
nostra specie: da homo sapiens, caratterizzato dalla
capacità di creare e comprendere concetti astratti, a
homo videns, capace solo di conoscenza percettiva e
dunque individuo infinitamente più povero.
“L'immagine
non
dà,
di
per
sé,
quasi
nessuna
intelligibilità. L'immagine deve essere spiegata; e la
spiegazione
che
ne
viene
data
sul
video
è
costitutivamente insufficiente. Se in futuro verrà in
essere una televisione che spiegherà meglio (molto
meglio), allora il discorso su una integrazione positiva
tra homo sapiens e homo videns si potrà riaprire.”
Le immagini della TV, da sole, sono sfuggenti e infedeli,
non riescono a dar conto della realtà e tendono a
uniformare il pensiero degli spettatori. Questo perché
non arrivano a spiegare la complessità dei concetti, in
quanto astratti, ma si fermano alla dimensione sensibile
degli oggetti. Vanno spiegate, sostiene Sartori, ridando
spazio alla parola e al pensiero.
“La televisione produce immagini e cancella i concetti;
ma così atrofizza la nostra capacità astraente e con essa
tutta la nostra capacità di capire.”
La sua analisi è dedicata all'informazione in TV ma può
essere traslata secondo noi ai programmi televisivi nel
loro complesso: se nell'informazione sullo schermo
l'immagine non è sufficiente a trasmettere contenuti
complessi,
nell'intrattenimento
diventa
veicolo
di
alienazione e di mercificazione. In entrambi i casi è
necessaria una spiegazione di ciò che vediamo per
impedire che la comunicazione si trasformi in un inganno
per lo spettatore.
“La televisione può mentire, e falsare la verità,
esattamente
come
qualsiasi
altro
strumento
di
comunicazione. La differenza è che la “forza di
veridicità” insita nell'immagine ne rende la menzogna più
efficace e quindi più pericolosa.”
Una televisione di qualità può essere fatta solo
dall'interno delle emittenti. Ma data la situazione di
degrado della tv, la spinta la cambiamento può partire
dall'esterno anche attraverso la critica dei programmi
che vengono trasmessi. Saper vedere ciò che ci viene
proposto sullo schermo, conoscere il linguaggio della
televisione per poterlo svelare quando si fa ingannevole,
diventare spettatori consapevoli, è il primo passo per
essere soggetti e non oggetti della comunicazione.
Noi siamo convinti che educare alla visione della TV
conduca alla creazione di uno spettatore esigente e di
conseguenza alla richiesta di un servizio di qualità a
chi produce televisione. Dando gli strumenti per capire
cosa ci sta davanti, si dà anche la possibilità di
desiderare una televisione migliore, più vera, più
avvincente, più educativa.
Con
una
analisi
dell’immagine,
del
linguaggio,
dei
personaggi e delle dinamiche relazionali proposte dalla
TV si possono mettere a nudo i meccanismi deteriori di
certi programmi e permettere così a chi guarda di
prenderne
coscienza.
Fermando
le
immagini
e
analizzandole, infrangendo il velo di abitudine che
abbiamo davanti agli occhi quando guardiamo ciò che molti
canali mandano in onda, abbiamo constatato che le
persone, i bambini in particolare, si rendono conto di
ciò che vedono e del messaggio che viene loro proposto.
Spiegare la TV durante la visione è molto più difficile
per via dei continui e differenti stimoli che invitano a
seguire suoni e immagini senza il necessario spazio di
riflessione.
Quello
da
compiere
è
un
lavoro
di
destrutturazione dell’immagine che permetta ai ragazzi di
cogliere
i
messaggi
nascosti
dalla
velocità
di
trasmissione. L’abitudine a riflettere su ciò che si vede
rimane e porta poi lo spettatore a sviluppare una
capacità critica che difficilmente può sorgere in chi si
ritrova davanti allo schermo fin dalla nascita, a meno di
particolari e privilegiate condizioni culturali che una
famiglia può offrire ai propri figli, a cui non tutti
hanno accesso.
Chi è in grado di criticare la televisione, non la guarda
più, o la guarda distrattamente. Spesso invece chi guarda
tanta tv non ha i mezzi per interpretarne i messaggi. La
discussione sulla problematica realtà della televisione
italiana è un confronto che si rinchiude solitamente in
cerchie di iniziati e dotti. Ma dato che gli effetti
della cultura televisiva così come si sta propagando, ad
esempio per quanto riguarda la libertà e il rispetto
delle donne, costituiscono un problema sempre più
evidente, riteniamo doveroso cercare di arrivare a chi
quella
cultura
l'ha
fatta
propria
o
l'accetta
passivamente. O, come nel caso dei bambini, è ancora in
grado di sottrarvisi se opportunamente condotto.
Molte persone sinceramente indignate dallo stato delle
cose spesso ci dicono che quello della TV è comunque un
falso problema. Basta spegnerla sostengono e non ci
danneggerà, e i programmi verranno migliorati dalle reti
responsabili di fronte al calo dell'ascolto. Va ricordato
che spegnendo la TV abbassiamo l'ascolto solo se siamo
una famiglia Auditel. E che gli effetti negativi di una
cultura distorta e violenta come quella televisiva
danneggiano comunque tutti nel momento in cui vengono
assimilati da larghi strati di popolazione, dato che la
TV
concorre
con
un
certo
peso
alla
costruzione
dell'opinione pubblica.
Oggi, è accendendo la TV, guardando la TV, questa TV, e
guardandola insieme, che facciamo qualcosa che può
rivoluzionare lo stato delle cose. E' infatti così che
possiamo condividere la nostra critica con chi guarda la
tv e fornire loro gli strumenti necessari a una
percezione corretta.
Fermare il flusso.
La televisione attuale è caratterizzata da due elementi
principali.
Innanzitutto la pubblicità. La sua presenza massiccia
determina ogni aspetto della programmazione.
- Il linguaggio: quello degli spot è il più accattivante
e potente dal punto di vista della grammatica televisiva,
perché non diverso dal linguaggio del cinema.
- La forma: canali e programmi possono vivere e operare
solo grazie agli introiti pubblicitari (questo vale anche
per la RAI, per cui l'introito del canone copre solo una
parte del budget necessario) e di conseguenza si
strutturano per lasciare ampio spazio alle inserzioni,
alle televendite, alle sponsorizzazioni.
- Il contenuto: dovendo arrivare alla più ampia audience
possibile si trattano quasi esclusivamente argomenti e
personaggi che si ritengono, almeno sulla base dei dati
d'ascolto disponibili, i più affidabili per questo scopo.
L'altro elemento caratterizzante è l'imitazione della
quotidianità. Questo avviene a livello di organizzazione
del palinsesto, di generi televisivi e di stile di messa
in scena. Ma essendo in realtà un'imitazione artificiosa,
che tende a riprodurre dei modelli più che a ricercare la
realtà, il risultato è quello di rappresentare un mondo
affetto da una distorsione di fondo.
Unendosi nella programmazione ininterrotta e multicanale
della TV generalista, questi due elementi producono un
flusso ininterrotto e privo di pause che viene percepito
dal pubblico come una rappresentazione del mondo. Si
produce così una “autorevolezza” che è invece il
risultato dell'abitudine alla visione televisiva. E in
questo flusso passano messaggi spesso deteriori perché
giustificati solo da una visione del mondo artefatta
(finta quotidianità) e mercificata (pubblicità).
Ecco allora che per individuare e decifrare questi
messaggi negativi è necessario fermare il flusso, rendere
immobili le immagini in movimento per evidenziarne le
contraddizioni che a volte emergono da sole e altre volte
hanno
bisogno
della
spiegazione
della
parola.
Naturalmente anche le parole pronunciate con noncuranza
in televisione hanno bisogno in alcuni casi di essere
ripetute
e
meditate
con
attenzione.
E'
questa
l'operazione che sta alla base della destrutturazione
della comunicazione televisiva.
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http://www.segretariatosociale.rai.it/codici/ucad/italian
o/italiano.htm
http://www.rai.it/articolo/0,,34560,00.html
http://www.megachipdue.info/
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