Ragion pratica 14.1 Carattere della ragion pratica e finitudine dell'uomo Dopo aver criticato la pretesa della ragione teoretica di trascendere l'esperienza, Kant sottopone a critica l'opposta pretesa della ragione quando essa, nel determinare la condotta pratica dell'uomo, voglia invece restare legata all'esperienza e ai suoi limiti. Sebbene nel campo morale la ragione non sia fenomenicamente condizionata come in sede conoscitiva, essa è pur sempre riferita a un essere - l'uomo - parzialmente condizionato dalla propria natura sensibile. Ma è proprio il fatto che l'uomo è fatto sia di ragione che di sensibilità a rendere possibile la moralità. Un comportamento può dirsi morale se implica la libertà di scelta consapevole e responsabile di conformare la propria volontà a un principio razionale di moralità; se fosse solo sensibilità, l'uomo agirebbe sempre meccanicamente, per istinto, al di fuori di ogni responsabilità al pari di un animale; ma se viceversa fosse pura ragione, allo stesso modo il suo agire sarebbe interamente determinato dalla propria natura e automaticamente inclinato alla santità, e dunque altrettanto privo di responsabilità e di moralità. Ma poiché l'uomo è creatura finita e condizionata, cioè limitata e imperfetta, perennemente lacerata fra i comandamenti della ragione e l'egoismo dei propri impulsi, ha senso parlare di scelta morale. Come nella Ragion pura Kant polemizza contro l'arroganza della ragione che vuole oltrepassare i limite della conoscenza umana, così nella Ragion pratica egli polemizza contro i guasti del fanatismo morale e della sua presunzione di santità come stabile possesso della perfezione etica: la virtù morale è lotta dell'uomo contro se stesso, è scelta, è sforzo di conformare la propria volontà al dovere dettato dalla ragione, è dignità di un essere razionale finito che si autodetermina piegando la propria natura sensibile al dovere della ragione. 14.5 La rivoluzione copernicana Il comportamento morale trova nell'uomo, nella sua ragione e nella libertà della sua volontà il proprio fondamento: rendendosi indipendente dai condizionamenti sensibili e conformandosi agli imperativi della ragione che si manifestano come dovere morale, la volontà afferma la propria indipendenza e autonomia, e svolge una funzione autolegislatrice dando norma a se stessa. Kant rifiuta e condanna tutte le morali eteronome, cioè basate sul condizionamento dei sentimenti, della società, del comandamento divino, del piacere fisico, ecc. Il paradosso della ragion pratica consiste nel fatto che non il Bene e il Male assoluti fondano la legge etica, bensì è la legge etica della ragione umana a dare senso alle nozioni di Bene e di Male. E anche in sede etica, la rivoluzione copernicana consiste nel riferire interamente all'uomo, al soggetto razionale autolegislatore del proprio comportamento, il compito di fondare e rendere possibile la legge etica. 14.2Assolutezza della legge morale Come nella Critica della ragion pura Kant muove dall'esistenza di una conoscenza universale e necessaria, così nella Critica della ragion pratica egli afferma che nell'uomo si constata l'esistenza di una legge morale assoluta e incondizionata: o la legge morale non esiste e l'uomo agisce solo in base a impulsi naturali, oppure essa esiste , e allora dovrà essere per forza incondizionata. 14.3 Categoricità dell'imperativo morale La volontà regolata da 2 principi: Massime, prescrizioni soggettive Imperativi - Ipotetici = condizionati, subordinati a un fine - Categorici = incondizionati (tu devi) Solo gli imperativi categorici sono morali Gli imperativi morali sono universali: agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale 14.4 Formalità della legge La legge morale ha un carattere esclusivamente formale, cioè non prescrive cosa fare ma come farlo (altrimenti sarebbe vincolata a quegli stessi contenuti, e perderebbe la propria autonomia e universalità). Non consiste in una minuziosa casistica di precetti ma in un principio universale: quando agisci, tieni presente gli altri e rispetta la dignità che è in te e nel prossimo. Sta poi a ciascuno di noi tradurre e applicare ai casi particolari tale principio universale. Il carattere formale e incondizionato si rispecchia nella sua natura totalmente anti-utilitaristica: se l'agire dell'uomo fosse subordinato a scopi ancorché nobilissimi, non sarebbe più libero in quanto subordinato a questi scopi; e non sarebbe più universale in quanto dominato da fini particolari. La legge morale si configura invece come un dovere-peril-dovere, cioè nello sforzo di attuare la legge della ragione solo per rispetto ad essa, indipendentemente da ogni altra considerazione. Aliena da ogni concessione al sentimentalismo, la morale kantiana è dunque fortemente rigoristica e severa: si deve rispettare la legge perché essa è dettata dalla ragione. Però questo rispetto non deve essere soltanto esteriore, perché ciò sarebbe solo; la morale implica partecipazione interiore, è la convinta adesione della volontà alla legge a eliminare il rischio di cadere in una mera legalità ipocrita, oppure in un improprio autocompiacimento. Il comportamento morale innalza l'uomo al di sopra del mondo fenomenico regolato dalla necessità delle leggi naturali e meccaniche, verso un mondo noumenico di libertà. 14.6 I postulati della ragion pratica Il dovere morale non ha altro scopo che se stesso; se ne avesse un altro (ad esempio la felicità propria o altrui), ciò annullerebbe l'incondizionatezza della legge etica. Anzi, spesso l'agire morale sottopone l'uomo al sacrificio e procura infelicità. In questo mondo, mai la virtù (la conformità della volontà all'imperativo morale della ragione) si presenta congiunta alla felicità, perché la moralità implica la sottomissione degli impulsi egoistici: il rapporto tra virtù e felicità costituisce l'antinomia (contrasto) etica per eccellenza, che la filosofia precedente ha tentato invano di risolvere risolvendo la felicità nella virtù (come gli stoici) o la virtù nella felicità (come gli epicurei). Kant propone una soluzione basata su tre postulati etici (in matematica, si dicono postulati quei princìpi indimostrabili - ma non di per sé evidenti, come gli assiomi - che vengono posti a fondamento di una determinata costruzione teorica; nell'uso kantiano, i postulati della ragion pratica sono princìpi che debbono essere necessariamente presupposti per garantire l'esistenza e la pensabilità dell'agire morale, ma che non possono essere dimostrati, in quanto relativi a quella sfera noumenica la cui conoscibilità è stata esclusa in sede di ragion pura): l'immortalità dell'anima (come si è già detto, all'uomo - creatura imperfetta, condizionata dagli istinti e dalla corporeità - non è dato realizzare la santità, cioè la perfetta conformità di volontà e legge morale - e sotto certi aspetti è proprio questa divaricazione a rendere possibile la morale; ma soltanto la realizzazione di tale conformità renderebbe l'uomo degno del sommo bene - cioè la coincidenza di virtù e di felicità; allora, poiché è giusto pensare che la felicità possa essere degna ricompensa della virtù - ovviamente senza esserne lo scopo -, è ragionevole sperare che, oltre il limite finito della propria esistenza terrena, l'uomo possa disporre di un tempo infinito per far progredire all'infinito il cammino verso la santità; l'esistenza di Dio (poiché è giusto pensare che la virtù sia ricompensata dalla felicità - a patto che quest'ultima non diventi la molla dell'agire morale -, è ragionevole sperare nell'esistenza di Dio come essere onnipotente capace di far corrispondere la felicità al merito rendendo possibile il sommo bene); la libertà (che si configura come la condicio sine qua non dell'etica, che nel momento stesso in cui prescrive il dovere presuppone che si possa agire in conformità ad esso oppure no: «Devi, dunque puoi»; ma se c'è la morale, si deve per forza postulare l'esistenza della libertà - N.B.: postulare, non dimostrare, perché la dimostrazione riguarda la conoscenza scientifica, e questa a sua volta è riservata al mondo fenomenico dell'esperienza, che non conosce libertà ma solo rapporti necessari di causa e di effetto, secondo la legge dell'io teoretico). 14.7 Il primato della ragion pratica Kant afferma il primato della ragion pratica (etica) su quella pura (teoretica), in quanto essa è in grado di spingersi oltre e di attingere realtà trans-fenomeniche come l'esistenza di Dio o l'immortalità dell'anima. Si badi però che tali realtà non sono oggetto di conoscenza o di dimostrazione, ma rivestono il carattere di ragionevoli speranze: se si trattasse di certezze razionali non solo si produrrebbe una contraddizione tra la dottrina kantiana teoretica e quella etica, ma l'intero mondo morale ne sarebbe distrutto, venendo meno le condizioni di disinteresse, di autonomia e di libertà che ne sono alla base. Si osservi inoltre come la dottrina kantiana rovesci il rapporto tra morale e religione: non sono le verità religiose a fondare la morale, bensì la morale - sia pure sotto forma di postulati - a fondare le verità religiose. Secondo Kant, Dio non sta all'inizio della vita morale, bensì alla fine, come possibile completamento. L'uomo morale è colui che agisce soltanto in base al dovere-per-il-dovere, con in più la ragionevole speranza nell'immortalità dell'anima e nell'esistenza di Dio. In ogni caso, alcuni studiosi hanno affermato l'esistenza di un incoercibile dualismo nella visione kantiana, che spezza la realtà in due parti: da un lato il mondo fenomenico ed empirico della necessità causale presente nelle leggi di natura, dall'altro il mondo noumenico della libertà e del dovere.