La voce: una rete di linguaggi Johannella Tafuri 1. Introduzione Un brusio di voci sale dalla strada, interrotto di tanto in tanto da scoppi di risa. Al piano di sotto, un bambino fa i capricci, piange, grida, ritorna a piangere; una voce adulta forte, energica, lo sovrasta: il pianto s’interrompe bruscamente. “Bang bang, he shot me down, Bang Bang…” La voce tenera e morbida di Nancy Sinatra viene ad accarezzarti dalla porta accanto, interrotta bruscamente da un rap di Giovanotti sostituito velocemente dalla voce gridata di Gianna Nannini. La voce, sempre la voce, dappertutto la voce. La voce sa parlare, sa cantare, ma non solo. La voce ride, geme, gorgheggia, urla, si lamenta… e poi… in quanti modi parla e canta? Dal grammelot di Dario Fo al “Bel canto” operistico, dalle diverse vocalità delle canzoni pop, rock, blues alle vocalizzazioni dei neonati, ai canti eseguiti dai bambini, alle diplofonie di Demetrio Stratos o dei Mongoli di Tuva, dalla voce quotidiana a quella di una manifestazione, dal rap alla Sequenza III di Berio, ai Canti del Capricorno di Scelsi ecc. ecc. ecc. Una varietà di usi quasi inesauribile del nostro “strumento voce” da cui sono scaturiti e continuano a scaturire numerosi stili e veri e propri linguaggi nel senso stretto di sistemi di comunicazione. Ecco, siamo arrivati a due parole chiave strettamente connesse: linguaggio e comunicazione. Aggiungiamo la “protagonista” del presente lavoro, la voce, e diventano tre. Queste pagine ruoteranno dunque intorno a questi tre poli cercando di mettere in evidenza quegli aspetti che si ritiene possano essere più utili agli insegnanti di Musica e di Strumento musicale (… ebbene sì, anche di strumento). Il nostro viaggio intende esplorare la multiformità della voce, limitatamente ad alcuni aspetti della produzione musicale contemporanea, toccando una serie di temi e incroci fra di essi. O sullo sfondo o in primo piano, la produzione musicale contemporanea per questo prezioso e polivalente strumento sarà sempre presente perché l’intenzione di questo scritto è offrire agli insegnanti repertori e strumenti di lettura che possano permetterne l’appropriazione e la fruizione affinché possano loro stessi, in un secondo tempo, favorire nei propri allievi l’interesse, la comprensione e la capacità di appropriazione di determinati modelli ai fini di una crescita musicale e culturale. Non intendiamo minimamente essere esaustivi, non si tratta di fornire una panoramica, ma di scegliere alcune opere che possano essere considerate esemplari di determinate modalità di produzione e comunicazione. Interrogheremo altre scienze perché diano lumi su alcuni aspetti cruciali, quali i processi percettivocognitivi e quelli socio-culturali. Molti studiosi, ricercatori e didatti ci accompagneranno in questo viaggio. A loro va in anticipo il nostro grazie. 2. Parlare/cantare E’ opinione comune che la voce serva solamente per parlare e cantare, ma se andiamo a chiedere in che cosa consista la differenza tra queste due modalità, le risposte diventano molteplici, un po’ vaghe e soprattutto imprecise. Proviamo allora ad ascoltare la Sequenza III, per voce, di Luciano Berio e chiediamoci che cosa fa la voce, anzi la proprietaria della voce (nell’esempio di riferimento è Cathy Berberian). Scopriremo così una grande quantità di “azioni vocali”: borbottare, ridere, sospirare, gemere, gridare, gorgheggiare, lamentarsi, fare versacci, oltreché parlare (qui solo solo qualche parola e fonemi disarticolati) e cantare. E’ lo stesso Berio che commenta questo brano (Berio 1981, pp. 102-103) mettendosi innanzitutto dal punto di vista della dimensione comunicativa: «La voce, dal rumore più insolente al canto più squisito, significa sempre qualcosa, rimanda sempre ad altro da sé e crea una gamma molto vasta di associazioni: culturali, musicali, quotidiane, emotive, fisiologiche ecc. [...] L’esperienza di Sequenza III per me è stata molto importante perché con essa ho cercato, appunto, di assimilare musicalmente molti aspetti della vocalità quotidiana, anche quelli triviali, senza però per questo rinunciare ad alcuni aspetti intermedi e anche “nobili” dell’esperienza musicale vocale». Parlando della sua poetica compositiva, aveva già confessato di essere stato sempre molto sensibile alla ricchezza della voce, dai suoni più strani a quelli più “nobili” e di averli voluti avvicinare in un’unica composizione. In questo testo possiamo sentire la sfida di Berio a se stesso e all’esecutore, una sfida che, come lui stesso dice (p. 100), consiste nel dissociare dei comportamenti «per poi ricostituirli, trasformati, in unità musicali» . Musica è anche questa. E non c’è sa stupirsi di queste mescolanze . Anche in campo letterario succede la stessa cosa: molti poeti e scrittori di oggi (cito uno per tutti. Edoardo Sanguineti, che certo non è l’unico esempio) mescolano nei loro testi parole di antica e nobile tradizione, con termini del linguaggio quotidiano e perfino con termini dichiaratamente volgari. Fanno poesia anche con scarti di livello lessicale. Andiamo a Teatro, sul palco c’è Dario Fo, tendiamo l’orecchio, ci sembra di capire, ma no parla in … non si capisce bene, sembra franc… ma veramente è inglese… però… Non c’è persona, per poliglotta che sia, che riesca a capire che cosa dica esattamente perché in realtà Dario Fo usa il… grammelot. Come già i giullari medioevali, produce dei suoni che, a causa soprattutto delle caratteristiche fonetiche ma anche ritmiche e intonative, rinviano fortemente a una determinata lingua, senza tuttavia usare nessuna parola o quasi appartenente a quella lingua. Eppure ci sembrava di capire qualcosa, sembrava che fosse preoccupato e poi irritato fino a diventare minaccioso prima di arrendersi sconsolato e afflitto. Ma, com’era possibile capire tutto questo se in realtà non diceva niente perché non usava parole? Sì, usava dei gesti, la mimica facciale, ma se l’avessimo ascoltato alla radio avremmo capito ugualmente qualcosa. Ebbene sì, la voce può tutto questo. Come dice Imberty (1986, pp.161-162) a proposito della voce cantata ma con modalità applicabili sia al grammelot, e sia alla Sequenza III di Berio, «l’ascoltatore che non comprende le parole di una melodia – ad esempio perché non ne conosce la lingua – nondimeno coglie delle intonazioni, degli accenti e delle espressioni vocali che, per quanto deformate, amplificate o spostate dalla musica, gli sembrano appartenere alla lingua stessa, e all’espressione di un messaggio verbale definito: vengono percepiti entusiasmi, dubbi, tristi abbandoni, affermazioni, lamenti, invocazioni, grida che costituiscono una sorta di espressività propria della voce, una espressività di linguaggio senza parole.» Ancor prima di Dario Fo (Mistero Buffo, da lui presentato come “giullarata popolare” è del 1969), lo stesso Berio aveva avviato un lavoro di ricerca-esplorazione sulla voce concretizzatosi prima in Visage (1960) e poi nella citata Sequenza III (1965). Di tono diverso sono le ricerche sul suono, e in particolare sul suono vocale, di Giacinto Scelsi, sospinto da esigenze profonde di interiorizzazione e immersione nella materia sonora. La musica di Scelsi non è fatta di note, ma è fatta di suoni. Ciò che lo affascinava era la “qualità” di ogni singolo suono, e in particolare di ogni suono vocale. Un’emissione vocale si distingue da un’altra non solo perché un do è diverso da un re, ma perché anche due do o dieci do cantati da voci diverse o anche dalla stessa voce in momenti diversi, hanno “qualità sonore” che li distinguono. E le qualità sonore sono costituite da microvariazioni di altezza, di intensità, di timbro, da sottili diversità nello spettro sonoro, ciascuna delle quali contribuisce a comporre il tutto. Per Scelsi il suono era sferico, era un’entità ricca e cangiante nella quale egli amava immergersi e invitava i suoi ascoltatori a immergersi. Agli esempi precedenti, tratti dal repertorio colto e dal teatro di prosa, non possiamo non aggiungere qualche altro esempio tratto da ambiti diversi. Pensiamo al lavoro di Demetrio Stratos, soprattutto negli anni Settanta, che spingeva la voce quasi al limite delle sue potenzialità fisiologiche nella produzione di diplofonie, triplofonie e persino quadrifonie. Una modalità di usare la voce che, sfruttando le casse di risonanza, riesce a rinforzare e quindi rendere udibili alcuni armonici del suono fondamentale che vengono percepiti insieme alla fondamentale stessa. Si tratta di una tecnica conosciuta anche presso altri popoli quali quelli dalla Mongolia e, in particolare, della Repubblica di Tuva (nel sud della Siberia, confinante con la Mongolia). Nel campo etnico, si potrebbero menzionare molti altri esempi di prodotti vocali diversi quali il katajjaq tipico degli Inuit del Nuovo Québec, un gioco di suoni gutturali che si alternano a canone con la presa del fiato e viene realizzato generalmente da due donne. Possono prendere come base un breve motivo popolare, oppure i suoni della natura secondo le stagioni o dei lavori quotidiani (Nattiez 1989). Nel campo della popular music c’è stato certamente un salto tra la voce romantica, calda e tenera, alla “Sinatra” per intenderci, alla voce usata nelle successive produzioni popular da Elvis Presley in poi, una voce più dura, metallica, gridata, soffiata, secondo gli stili dei vari cantanti, anche con acrobazie vocali, arditi falsetti ed effetti sonori particolari come quelli del famosissimo cantante jazz Bobby McFerrin. Riprendiamo ora la domanda di partenza: qual è la differenza tra il parlato e il canto? Certamente gli studi di fisica acustica e le ricerche di fonologia del secondo Novecento vengono in nostro soccorso spiegandoci gli elementi che ne sono alla base. Se in presenza di un evento sonoro noi diciamo, secondo i criteri della nostra cultura che qualcuno sta cantando, ciò significa che abbiamo percepito nelle vocali pronunciate una forma di prolungamento e mantenimento delle altezze, una certa risonanza, la presenza di suoni appartenenti al nostro sistema o scala, questo perché nella produzione di quei suoni le corde vocali si mantengono costanti in spessore, lunghezza e tensione (Thurman, Welch, Theimer, Grefsheim, Feit 1997, p. 194). Questo insieme di qualità permette alla nostra voce di riprodurre esattamente quei suoni quanto alla loro altezza. Al contrario, se in un evento vocale riscontriamo una grande varietà e irregolarità nei cambiamenti d’altezza, così da avere l’impressione di un continuo scivolamento dell’altezza (“continuously sliding pitch-flow”) ciò ne impedise l’esatta riproduzione, e in questo caso diciamo che le persone stanno parlando (Thurman, Welch, Theimer, Grefsheim, Feit 1997, p. 281). I muscoli della laringe e i processi neurologici sono gli stessi nel parlato e nel canto ma le corde vocali sono usate in modo diverso. In presenza di situazioni molto chiare queste spiegazioni sono sufficienti per farci dire ‘qui si parla, qui si canta’, ma dopo la breve carrellata di esempi diversi presentati prima, è chiaro che non possiamo ridurre tutto al parlato e al canto ma siamo invitati ad allargare il nostro orizzonte ad una molteplicità di eventi vocali che rendono il panorama culturale ricco e diversificato. Da questi esempi e considerazioni, possiamo ricavare alcune conclusioni: che la voce può essere manipolata in modo estremamente vario, che può essere usata con modalità e per funzioni diverse, che ha delle potenzialità espressivo-comunicative quasi illimitate, che i compositori e gli esecutori dalla seconda metà del ‘900 a oggi hanno cercato a più riprese di forzarla, deformarla, stravolgerla, frantumarla ottenendo in realtà un potenziamento impensabile. Perché e come la usiamo? 3. Uno strumento, tanti linguaggi, funzioni, stili Da quanto detto sopra, sono emersi concetti diversi fra i quali è giunto il momento di operare delle distinzioni che poi avranno un interesse particolare in sede didattica. Favorire nei ragazzi la comprensione musicale, sia in veste di ascoltatori e sia in veste di esecutori significa anche renderli consapevoli dei punti di vista dai quali un brano musicale può essere osservato e fruito e di come tutti concorrano a un’appropriazione progressivamente più matura. Nel titolo di questo paragrafo sono stati usati tre termini: linguaggi, funzioni, stili. Tre aree semantiche con inclusioni e interferenze nel parlare comune, derivanti dalla pratica, ma con specificità proprie che gli insegnanti sono invitati a conoscere e padroneggiare per renderne consapevoli gli studenti. Ciò non toglie che si tratti di categorie in evoluzione alle quali contesti culturali diversi possono assegnare significati diversi. Come giustamente sottolinea Nattiez (1987, p. 7), «un termine che apparentemente ha significato univoco, cambia senso a seconda del contesto di utilizzazione». Il termine più complesso è certamente quello di linguaggio. A partire dagli studi e ricerche di Umberto Eco sintetizzati nel suo Trattato di semiotica generale (1975) e dagli studi sulla semiotica musicale, in particolare quelli di Stefani (1975) e Baroni (2002), possiamo considerare il linguaggio come “sistema di segni” che rinviano a concetti, eventi e oggetti del mondo. Si tratta quindi di segni organizzati per essere usati come mezzi di comunicazione. Come ben sappiamo, i “segni” organizzati in “sistema” non sono necessariamente verbali e infatti ci sono linguaggi detti appunto “non verbali” tra i quali un posto rilevante è ocupato dal linguaggio musicale con le sue specificità in parte comuni e in buona parte diverse da quello verbale. E se provassimo a operare un raggruppamento di linguaggi diversi che hanno però in comune l’uso della voce? In primo luogo forse metteremmo il linguaggio verbale, sì ma quale? In realtà nel linguaggio verbale esistono una serie di sottotipi linguistici che possono anch’essi meritare il nome di linguaggio, per es. quello della vita quotidiana o prosaico e il linguaggio poetico, i linguaggi dei gruppi sociali (quello dei giovani ricco di neologismi, di slogan, di strutture paratattiche più che sintattiche), oppure i linguagi specialistici di professioni come il linguaggio dei filosofi, quello dei matematici ecc. per non parlare di produzioni vocali che “imitano” il linguaggio come ad esempio il grammelot di cui si è parlato prima. Così nel linguaggio musicale affidato alla voce potremmo distinguere il canto lirico o popolare dallo Sprechgesang e da altri “linguaggi vocali” diversi come quelli delle avanguardie della seconda metà del secolo scorso. Alcuni studiosi (per es. Giannattasio 2005) collocano in un’area intermedia tra parlato e cantato una serie di produzioni vocali «caratterizzate dalla preminenza enfatica di uno o più tratti soprasegmentali nell’enunciazione del messaggio linguistico. Slogan, proverbi, formule di saluto, detti sapienziali, comandi e incitazioni militari, scongiuri, formule magiche, incantesimi, preghiere, discorsi rituali, cantilene infantili, annunci di banditori e di venditori ambulanti – ma la lista potrebbe estendersi a dismisura – sono tutti eventi in cui la caratterizzazione fonica (in particolare ritmica e/o intonativa) assume, nell’atto comunicativo, un ruolo coessenziale, quando non addirittura predominante rispetto ai tratti più specificamente referenziali dell’enunciato verbale» (p. 1004). In sintesi, con un materiale che è simile all’origine (il suono prodotto dalle corde vocali) cambiano i “segni” e cambia ancor più il sistema che li organizza. Fin qui si è detto che i linguaggi rinviano a concetti, visioni del mondo, valori, e quindi che sono mezzi di comunicazione, cioè hanno innanzitutto la funzione di comunicare qualcosa. Certamente possono comunicare cose diverse e con modalità diverse secondo la funzione che devono svolgere, basti pensare a quanto la funzione sia determinante nelle produzioni vocali elencate nel testo di Giannattasio appena citato. Effettivamente il linguaggio, anzi tutti i linguaggi hanno delle funzioni che influiscono e spesso determinano l’organizzazione dei segni. L’elenco delle funzioni del linguaggio formulate da Jakobson (1963) può essere un buon punto di partenza. Andiamo a consultarlo seguendo i commenti e le applicazioni alla musica di Stefani (1976, pp. 21-23) : 1. funzione fática o di contatto, quando si comunica la propria presenza e la propria attenzione; nella musica, soprattutto in quella barocca, potrebbe essere svolta, per esempio, dalla ridondanza, dai gesti retorici ecc. 2. funzione emotiva, quando il linguaggio si usa per esprimere le proprie emozioni; per gli ascoltatori musicali, è palese il contenuto emotivo; 3. funzione conativa, quando serve a far produrre delle azioni, a stimolare dei comportamenti; in musica questo può identificarsi con la funzione emotiva quando un determinato brano spinge a commuoversi, a essere di buon umore, ad aver paura… pensiamo a certe musiche per film, ma si potrebbero aggiungere altri esempi come le musiche per marciare, per pregare, per ballare, per l’intrattenimento ecc. musiche che devono essere caratterizzate da determinate strutture dinamico-agogiche; 4. funzione referenziale, quando ci si riferisce a realtà esterne; qui la funzione potrebbe essere quella di rinviare esplicitamente a determinate situazioni, pensiamo ad esempio ai segnali militari, a sigle televisive ecc. 5. funzione metalinguistica, quando si parla sulla lingua; qui sembra difficile che la musica parli di sé, ma Stefani ricorda che Lévi-Strauss trova questa funzione nella musica di Bach, di Stravinskij… 6. funzione poetica quando il messaggio si offre all’attenzione per se stesso come oggetto o evento o ricerca; questa viene spesso considerata come la funzione per eccellenza del linguaggio artistico e quindi la musica dovrebbe possedere in alto grado le caratteristiche del messaggio poetico che, come dice Stefani, sono l’ambiguità e l’autoriflessività. Assumendo la musica nella sua globalità di funzioni, conclude Stefani, diventa più chiara la dialettica arte-linguaggio. Come ultimo punto, è importante capire come la diversità e ricchezza di linguaggi e di funzioni si intrecci con la diversità di stili. Gli studi e le ricerche di questi ultimi anni (Imberty 1990; Tafuri 1996; Baroni 1996, 2004) hanno messo in evidenza la complessità del concetto di stile. Baroni in particolare, che già nel suo primo saggio (1996) aveva dimostrato come per stile si potesse intendere “la rappresentazione simbolica di identità” (di un individuo o di un’epoca), identità costruita sulla base di cambiamenti che siano frutto di “scelte”, ha successivamente (2004) messo in evidenza una serie di aspetti che chiariscono ulteriormente e arricchiscono tale concetto. Un primo aspetto è il ruolo delle strutture nella comprensione dello stile: se da un lato il riconoscimento dello stile passa attraverso dei processi percettivi che permettono di cogliere determinate caratteristiche della materia e della sua organizzazione in un evento musicale, dall’altro bisogna postulare l’intervento d’un atto interpretativo, di produzione di senso, che colga un’identità che può essere quella dell’autore o quella di un’epoca. Un’identità che non può essere appunto percepita ma dev’essere interpretata. Alla base di ogni identità c’è perdippiù un sistema di valori nel senso di principi che guidano i comportamenti sociali degli individui di una comunità, valori che, passando attraverso lo stile, ne favoriscono l’adesione o il rifiuto pur senza comportare necessariamente la consapevolezza di tale processo. Tutti sappiamo che gli stili cambiano e spesso ci si chiede come avvengano questi cambiamenti. Indubbiamente non è la singola opera di un compositore che cambia lo stile, proprio perché il sistema di valori che ne costituisce la base è un fatto collettivo. E’ necessario invece un processo di ripetizione di determinati cambiamenti (deviazioni dalla “norma”, trasgressioni…) prodotti da uno o più compositori e riconosciuti dagli ascoltatori, che sfocerà in un riconoscimento della presenza di un nuovo stile da parte della collettività. Questi brevi spunti sui tre concetti di linguaggio, funzione e stile, che lasciamo all’approfondimento personale, vorrebbero costituire un invito ad accostarsi alla produzione musicale contemporanea (colta, etnica, popular…) con orecchi diversi, a uscire da un “ascolto gastronomico” come diceva Umberto Eco, al termine del quale riusciamo solo a dire “mi piace/non mi piace”. Un approccio a questi repertori così ricchi e variegati potrà essere tanto più fruttuoso nella linea della comprensione e dell’appropriazione quanto più metterà in moto processi d’interpretazione e di scoperta di linguaggi, funzioni e stili. Nei Moduli che accompagnano questo saggio si faranno alcune proposte didattiche in tale direzione. 4. Il nocchiero della voce: l’orecchio Questo testo potrebbe concludersi qui, ma, avendo la pretesa di offrire orientamenti per la didattica, riteniamo utile completarlo con alcuni spunti di riflessione e suggerimenti su quella che potremmo chiamare la chiave di ogni esperienza musicale e soprattutto di quella vocale: l’orecchio. Per poter parlare, cantare, chiamare, annunciare… secondo modalità dalle più semplici alle più sofisticate, usando quella gran varietà di suoni vocali di cui abbiamo parlato fin qui, c’è una prima condizione assoluta: che l’orecchio sia continuamente in funzione. Come sappiamo, l’organo dell’udito comincia a svilupparsi intorno alla 24ª settimana della vita prenatale (Lecanuet 1987) per cui il bambino nasce con l’udito già funzionante, anche se non definitivamente maturo, ma già in grado di sentire. Se per eventuali patologie o traumi, un bambino dovesse perdere l’udito poco prima o poco dopo la nascita e non potesse più recuperarlo, non imparerà più a parlare. Infatti, coloro che non parlano hanno questa impossibilità non perché il loro apparato fonatorio sia difettoso ma perché è mancata loro la funzione di stimolo e di guida, assolutamente imprescindibile, che svolge l’organo dell’udito. Alla nascita, l’orecchio è pronto a percepire qualunque tipo di suono e lo sviluppo che avviene nei primissimi anni di vita lo rende progressivamente più sensibile a qualunque sfumatura sonora presente nell’ambiente che lo circonda ma… allo stesso tempo, poiché ogni ambiente per quanto ricco sia è comunque limitato sia dal punto di vista naturale sia da quello culturale, l’orecchio si va chiudendo cioè perde alcune delle potenziali capacità percettive nel senso che non assimila le sonorità che non sono presenti o che non sono pertinenti e ciò produce risultati ambivalenti. Alcuni esempi possono chiarire questo concetto. Nell’apprendimento delle lingue, come dimostra l’otorinolaringoiatra Alfred Tomatis (1977), si è condizionati dalle condizioni atmosferiche che aumentano o diminuiscono secondo il grado di impedenza dato dal rapporto tra la pressione acustica e il flusso sonoro. Questo fenomeno ha favorito il determinarsi di “bande selettive” per ciascuna lingua. Dagli studi di Tomatis risulta che più la banda selettiva di una lingua è ampia e più l’orecchio rimane aperto a una varietà e ricchezza di suoni che consentono una maggiore facilità nell’apprendimento e riproduzione foneticamente corretta di altre lingue, come avviene per gli slavi, la cui banda selettiva va da 120 a 12.000 Hrtz. Al contrario, i francesi, la cui lingua ha una banda passante tra 1.000 e 2.000 Hertz hanno generalmente una cattiva pronuncia nelle lingue straniere. Ovviamente si parla di curve di sensibilità e ciò significa che, al di là e al di fuori dei suoni compresi dalla banda passante, la sensibilità uditiva è abbastanza bassa. In conclusione, la migliore o peggiore pronuncia delle lingue straniere dipende dalla sensibilità uditiva di ciascuno condizionata prima di tutto dalla propria lingua materna e da come questa si è formata e assestata. Ciò che la voce produce è quindi una diretta conseguenza di ciò che l’orecchio sente o comunque ritiene pertinente mediante un ascolto che, a partire dalla nascita, diventa progressivamente selettivo: pensiamo alla difficoltà per molti a riprodurre la ‘r’ gutturale dei francesi o la ‘j’ degli spagnoli o le diverse sfumature delle 19 vocali inglesi, ma anche, per rimanere più vicini a noi, alla prouncia della ‘s’ nella parola ‘casa’, che può essere sorda o sonora secondo le diverse tradizioni regionali. Possiamo dunque scoprire e padroneggiare una grande varietà di possibilità vocali solo se contemporaneamente l’orecchio viene sollecitato da un lato a rimanere aperto e attento a qualunque tipo di suono, dall’altro a svolgere una continua azione di controllo e correzione della produzione vocale. Ciò è possibile se vi è una frequentazione assidua, fin da bambini, di una gran varietà di repertori e contemporaneamente giochi ed esperienze di produzioni vocali diverse. Pensiamo ai giochi di imitazione del modo di parlare degli altri (pensiamo alle imitazioni proposte da Fiorello, da Crozza…) che spesso comincia da bambini e può raggiungere livelli eccezionali come quello raggiunto da Alighiero Noschese divenuto famoso diversi anni fa. Lo sviluppo di questa capacità uditiva di selezionare qualità sonore diverse e di guidare la voce nella riproduzione il più possibile “corretta”, cioè uguale al modello, ha una ricaduta importante in ambito musicale sull’esecuzione di qualunque repertorio e in particolare su quelli “intonati” della cultura occidentale nei quali la qualità ’altezza’ sia determinante. Non dimentichiamo infatti che tra tutte le qualità di un evento sonoro alcune sono esattamente riproducibili con la voce e altre no. Oltre alle qualità maggiormente formalizzate nella nostra e nella maggior parte delle culture, altezza, intensità e durata, ogni suono è caratterizzato dal proprio transitorio d’attacco che costituisce la prima delle fasi dell’inviluppo (dall’inglese envelope) che caratterizza l’andamento del suono (attacco, decadimento, mantenimento ed estinzione). Rispetto alle prime tre qualità, solo l’altezza e la durata sono perfettamente riproducibili (nei limiti umani, beninteso), riguardo all’intensità possiamo solo avvicinarci. Resta scoperto l’ambito quasi illimitato di tutte le altre innumerevoli qualità raggruppate in ciò che viene chiamato timbro, o meglio qualità timbriche dipendenti dallo strumento che produce il suono e quindi sia dai transitori d’attacco e sia dagli aspetti materiali dello strumento stesso, in rapporto alle modalità d’uso, che determinano in modo unico ogni strumento in sé. La voce è riconoscibile da tutti in quanto voce umana a causa del proprio transitorio d’attacco, ma la voce di ciascuno ha una “fisionomia sonora” unica (anche se può essere simile a un’altra, come due Stradivari) determinata dalle caratteristiche anatomico-fisiologiche dell’apparato fonatorio e dal modo d’uso di ciascuno (pensiamo alla nasalizzazione tipica dei francesi o degli americani). Come abbiamo visto sopra, parlare di voce significa fare riferimento ad una grande varietà di produzioni nelle quali l’altezza può non essere una qualità determinante ai fini della riconoscibilità del prodotto ma se parliamo di musica in senso stretto e soprattutto di musica colta, sappiamo che l’altezza è determinante nella maggior parte dei repertori e dev’essere riprodotta correttamente, il che significa che bisogna imparare a intonare. Sottolineiamo il termine ‘imparare’ proprio per sfatare, senz’ombra di dubbio, la convinzione abbastanza diffusa che le persone possano essere intonate o stonate “per natura”, che si tratti cioè di una condizione genetica così come l’essere longilieni o brevilinei. In realtà, così come tutti i bambini nascono con la dotazione genetica sufficiente per imparare a parlare in modo corretto secondo le specificità (prima di tutto fonetiche e poi grammaticali e sintattiche) della propria lingua materna (lingue intonative, gutturali, aspirate, ecc.), si può oggi affermare, sulla base di numerosi studi e ricerche (tra le più recenti v. Tafuri 2007), che tutti i bambini nascono con la dotazione genetica sufficiente per imparare a cantare correttamente secondo le specificità della propria cultura musicale, purché, come per la lingua materna, non ci siano eventuali patologie (cerebrali, anatomiche ecc.) e purché si determinino una serie di condizioni che ora vedremo. Basti riflettere su una semplice considerazione: poiché si impara a cantare correttamente ciò che appartiene al proprio sistema musicale, e poiché ciascun sistema è frutto di una determinata cultura, non può essere innata una capacità legata a questa o quella cultura ma tale capacità si sviluppa durante la vita tramite la frequentazione dei prodotti del proprio ambiente (come già diceva Leontiev, 1969). Normalmente l'apparato audio-fonatorio è predisposto a livello biologico e fisiologico in modo da permettere a tutti la percezione uditiva e la riproduzione vocale esatta di suoni di 'altezza' diversa organizzati secondo il sistema della propria cultura, compatibili con le possibilità vocali e la cui elaborazione mentale richieda l'attivazione di regioni cerebrali specifiche di cui tutti son dotati alla nascita, come dice la studiosa canadese Isabelle Peretz (2002). Però.... Sì, c’è un “però”, perché in realtà conosciamo diverse persone che quando cantano “stonano”, e allora? Riconoscere la predisposizione biologica dell'apparato audio-fonatorio di sviluppare queste capacità non vuol dire che di fatto il nostro apparato le sviluppi in quanto l'apprendimento è comunque subordinato a numerosissimi fattori di vario tipo. Lo studioso inglese Graham Welch (un super esperto della voce), elenca (1994, pp. 82-95) una serie di fattori raggruppandoli in cinque categorie: fattori socio-culturali, fisici e fisiologico-evolutivi, psicologici, musicali e pedagogico-didattici. Guardiamoli ora in dettaglio e forse qualcuno che ritiene di appartenere alla categoria degli “stonati” potrà scoprire quale sia stato l’anello debole della catena nel suo processo di apprendimento e magari… ripararlo. 5. Se la voce non risponde Non esistono dunque le persone “stonate” ma esistono persone che quando cantano “stonano”, cioè non riproducono correttamente l’altezza di alcuni suoni (pochi? molti?...). Ricordiamo innanzitutto quanto appena detto: a intonare si impara (come a parlare, a camminare…) e gli studi sugli aspetti evolutivi della capacità d’intonare (Welch 1997; Tafuri 2007) hanno messo a fuoco come nel processo di maturazione vissuto dai bambini si possano individuare tre fasi: 1) intonazione approssimativa: quando i bambini riproducono il profilo melodico di frasi o canzoni (la melodia sale o scende come nell’originale) ma gli intervalli sono molto imprecisi, 2) canto quasi intonato: quando i bambini riproducono correttamente il profilo melodico e diversi intervalli, 3) canto accettabilmente intonato: quando gli intervalli sono precisi anche se permane qualche piccolo errore o slittamento di tonalità a causa di qualche intervallo un po' calante o crescente. Questo processo dovrebbe avvenire, orientativamente, tra i 2 e i 4-6 anni ma i tempi sono molto personali e sono necessarie numerose condizioni che vengono presentate qui di seguito. Una volta acquisita, questa capacità richiede sempre un attento controllo da parte dell’orecchio, la stonatura è in agguato dietro l’angolo (e le cronache raccontano di stecche di famosi cantanti). La prospettiva multidimensionale proposta da Welch (1994) è necessaria per definire i problemi concreti di coloro che stonano, a qualunque cultura appartengano e in qualunque momento della loro vita. E’ necessario inoltre tener presente l’interazione e la simbiosi tra questi fattori quando si tratta di analizzare e valutare i casi concreti di persone che stonano. Scorrendo la lista dei sotto-fattori proposti da Welch in ogni categoria troveremo aspetti più facili da controllare e aspetti più sfuggenti ma l’importante è prendere coscienza della complessità del fenomeno e di quanto certe capacità siano determinate dai numerosi fattori ambientali. Forse l’elenco che segue potrà sembrare un po’ lungo e un po’ collaterale al tema centrale qui affrontato, ma innanzitutto qualunque attività di ascolto e di produzione/riproduzione vocale risente di tutti i fattori che verranno illustrati. In secondo luogo, è ancora troppo diffuso il pregiudizio relativo all’essere “intonati” per natura ed è ancora troppo scarsa la conoscenza dei numerosi fattori che possono favorire od ostacolare questa capacità. Vediamo dunque il quadro proposto da Welch. a) Fattori socio-culturali 1. La classe sociale influisce sulla possibilità di avere un ambiente ricco o povero di stimoli musicali (dischi, strumenti, lezioni di musica ecc.); fornisce diversità di ambienti che si frequentano e generi musicali in essi usati; diversità nella familiarità e accettazione di musica colta e musica di consumo. 2. Il genere: in alcune culture il cantare è considerato una cosa da “femmine”, in altre da “maschi” secondo il modello sociale dominante. 3. I luoghi nei quali avviene la familiarizzazione con il canto secondo le persone presenti, i modelli di comportamento trasmessi e il collegamento con la formazione dell’identità di ciascuno: 3.1. casa: influenze positive o negative sul cantare da parte di genitori, fratelli, parenti riguardo ai modelli e al collegamento con la propria identità, le risposte affettive, le preferenze; 3.2. scuola: importanza attribuita alla musica e al canto; 3.3. coetanei: comportamento più o meno accettato anche in relazione allo sviluppo fisico, contesto sociale e generi musicali; 3.4. gruppo sociale di appartenenza con preferenze per generi e stili 4. L’appartenenza ad un’etnia o a un’altra trasmette ruoli diversi attribuiti alla musica e al canto nella vita quotidiana (familiare, religiosa, ricreativa, sociale); 5. Opportunità offerte nell’ambito di una stessa cultura: modelli diversi nell’allevamento dei figli (madri che cantano o che non cantano) 6. Collegamenti con lo sviluppo del linguaggio: le lingue intonative favoriscono una maggiore attenzione al cambio di altezza; b) Fattori fisici e fisiologico-evolutivi: Questo secondo gruppo di fattori riguarda aspetti più facilmente controllabili sia a livello medico sia a livello personale. 1. Struttura fisica di base: dimensione delle corde vocali, delle casse di risonanza e conseguenze sulla natura del suono vocale prodotto. 2. Meccanismo uditivo: funzionamento dell’orecchio nelle sue varie parti. 3. Comportamenti fisici inappropriati: tensione delle guance, respirazione clavicolare, postura scorretta ecc. 4. Stress: come i comportamenti fisici scorretti, anche lo stress favorisce il consumo dei tessuti vocali e impedisce una buona intonazione 5. Cambiamenti fisici per un uso scorretto: in casi estremi lo stress può produrre dei cambiamenti del tessuto vocale come noduli o polipi alle corde vocali. 6. Cambiamenti all’interno del sistema fisico (alcune strutture del tessuto molle possono cambiare per effetto di cambiamenti ormonali, in particolare con la pubertà e l’invecchiamento). 7. Periodi di crescita significativi: nei primi anni di vita vi sono grossi cambiamenti per cui la voce è meno stabile; segue un periodo di stabilità tra i 6-8 e i 10-13 anni a cui seguono i grossi cambiamenti della pubertà. 8. Invecchiamento: sono riconoscibili delle fasi nel processo d’invecchiamento della voce c) Fattori psicologici (sono quelli meno conosciuti e quindi più sottovalutati) 1. Meccanismi percettivo-cognitivi: capacità di strutturare la produzione della voce secondo ciò che viene percepito come “appropriato” in rapporto al proprio contesto sociale; capacità di strutturare le proprie invenzioni secondo i repertori ascoltati; 2. Percezione del proprio modo di cantare e autovalutazione: rendersi conto di come si canta (se si intona o si stona), essere ottimisti o pessimisti sulle proprie possibilità di migliorare, ricevere dei feedback esterni (informazioni su eventuali stonature) che guidino al canto intonato. 3. Fatica e ansia: il cantare può essere affaticante e ansiogeno anziché piacevole per chi si sente meno bravo, può produrre una risposta negativa a livello emozionale e far perdere il controllo dell’intonazione. d) Fattori musicali E’ chiaro che la capacità d’intonazione è legata anche al repertorio e quindi a com’è fatto, da un punto di vista musicale, ciò che si vuole cantare. Riguardo a questo, Welch mette in evidenza tre aspetti: 1. Complessità: aspetti musicali quali ritmo, tempo, melodia (intervalli), fraseggio impianto tonale, modulazioni ecc. possono essere di difficoltà superiore rispetto alle capacità di chi canta, soprattutto se si tratta di bambini. 2. Estensione: non dovrebbe essere superiore a quella che viene sentita come “comoda” per la propria voce, quindi non troppo alta, ma nemmeno troppo bassa (come molti insegnanti e adulti in genere tendono a fare); 3. Stile musicale: alcuni repertori possono richiedere delle modalità di cantare sentite come inopportune da chi deve cantare soprattutto se si tratta di bambini. e) Fattori pedagogico-didattici Qui entriamo in un ambito molto importante per gli insegnanti i quali spesso non sono consapevoli di quanto la loro didattica possa ostacolare o promuovere lo sviluppo della capacità di cantare nei bambini. A questo proposito, Welch sottolinea che la capacità di cantare dovrebbe essere considerata come un continuum lungo il quale situare diversi livelli di correttezza e precisione e suggerisce vari aspetti da tenere in considerazione. 1. Formazione degli insegnanti: acquisire, se non è stato fatto durante la propria formazione, le competenze necessarie su come si sviluppa la capacità di cantare e su come favorire tale sviluppo; 2. Disparità tra compiti e capacità: non richiedere agli allievi dei compiti superiori alle loro effettive capacità; 3. Natura e complessità del compito vocale: saper utilizzare le strategie didattiche necessarie per favorire nei bambini un percorso graduale nella maturazione della capacità di cantare sulla base di una serie di punti fermi che scaturiscono da ricerche nel settore, per es. - che la riproduzione del profilo melodico di un canto viene prima della riproduzione esatta dei singoli intervalli; - che è più facile riprodurre alcuni moduli melodici elementari (per es. la 3ª min. discendente del cucù) piuttosto che singole altezze isolate; - che il tipo di modello vocale offerto influisce sull’apprendimento (la voce femminile si dimostra più facile da riprodurre); - che il tipo di feedback fornito e il numero di allievi presenti influiscono sull’apprendimento nel senso che è importante dare informazioni sul risultato ottenuto ed esempi di canto chiari (“questo salto della melodia sulla parola ‘per-ché’ era troppo piccolo e quindi il secondo suono è più basso di quello che dovrebbe essere; devi lanciare più in su la voce; te lo ripeto, ascolta bene”) e che ci vogliono anche dei momenti di lavoro individuale dell’insegnante con l’allievo; - che è necessaria la varietà nella ripetizione nel senso che ripetere giochi cantati introducendo varianti favorisce un migliore apprendimento; - ecc. Ci sarebbe molto da approfondire sugli aspetti fisiologici e psicologi della voce nel parlato, nel canto e nelle altre manifestazioni viste sopra, ma non essendoci spazio in questa sede, lasciamo il campo al lavoro personale limitandoci a rinviare al recente volume La voce musicale di Ida Maria Tosto (2009) corredato da un’ampia e ricca bibliografia e al trattato Bodymind and voice di Thurman e Welch (1997) nel quale illustri specialisti (medici e insegnanti) approfondiscono una serie di aspetti evolutivi, fisio-psicologici e patologici della voce. 6. Verso la didattica Si è cercato nelle pagine precedenti di presentare esperienze e prodotti vocali diversi con l’intenzione di invitare gli insegnanti a prendere in considerazione modalità diverse di usare la voce e a saper esplicitare i meccanismi che le rendono significative. Se da un lato l’attività corale ha sempre avuto e continua ad avere un’alta valenza educativa dal punto di vista musicale e sociale, dall’altro non si può dimenticare che il “far musica” nella scuola, soprattutto nella scuola secondaria, non può e non deve esaurirsi nell’attività corale. La scuola di base ha il compito di preparare i cittadini ad essere produttori e fruitori di cultura e quindi, entrando nello specifico, la disciplina musicale ha il compito di guidare gli alunni ad acquisire le competenze necessarie per diventare fruitori e produttori autonomi e critici di cultura musicale in senso ampio. Un insieme di competenze che favoriscano un atteggiamento di apertura e interesse verso nuove modalità e nuovi stili. Troppo impegnativo per gli insegnanti? No. La meta deve essere alta e il compito degli insegnanti è quello di fornire gli strumenti necessari per raggiungerla anche se poi i percorsi saranno necessariamente personali. Come utilizzare gli strumenti di comprensione della produzione vocale forniti in questo capitolo? Certamente è necessario passare attraverso l’esperienza diretta almeno di alcuni tipi di produzioni, ma è anche necessario riflettere sull’esperienza realizzata per raggiungere quella consapevolezza che possa rendere capaci di guidare e motivare l’esperienza degli alunni: sapere, saper fare, saper far fare. Sicuramente i lettori avranno ritrovato in queste pagine alcune idee già messe in pratica con i propri alunni ma forse può essere utile offrire ulteriori spunti pratici per attività nuove e per una nuova consapevolezza. Ecco perché verranno esemplificati alcuni percorsi che suggeriscono esperienze con repertori diversi. Questo saggio sarà quindi accompagnato da tre moduli che propongono agli insegnanti come sperimentare, prima personalmente e poi con gli alunni, alcune delle idee suggerite nelle pagine precedenti. 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