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La vita nuda
I. Arte ordinaria e arte umoristica:
la produzione saggistica pirandelliana
L’arte libera le cose, gli uomini e le loro azioni.
Senonché la vita, che da un canto ha bisogno di muoversi sempre, ha pure
dall’altro canto bisogno di consistere in qualche forma. Sono due necessità
che, essendo opposte tra loro, non le consentono né un perpetuo movimento
né un’eterna consistenza. Pensate che se la vita si muovesse sempre non
consisterebbe mai; e che, se consistesse sempre, non si moverebbe più.1
La filosofia di Luigi Pirandello è nota, almeno dai primi anni Venti, quando
Adriano Tilgher rese pubblica la sua interpretazione.2 Come si evince ad esempio dal passo citato, consiste nel contrasto tra vita e forma. Del resto, non
c’è studente liceale che non lo sappia. Ne dà conferma Wikipedia, nella quale
possiamo leggere: “L’uomo è in balia di questo flusso dominato dal caso,
ma a differenza degli altri esseri viventi tenta, inutilmente, di opporsi costruendo forme fisse, nelle quali potersi riconoscere ma che finiscono col
legarlo a maschere in cui non può ma riconoscersi o alle quali è costretto a
identificarsi per dare comunque un senso alla propria esistenza”.3 Tutto è
chiaro, in definizioni come queste, ma al tempo stesso stranamente oscuro.
Che cos’è infatti la vita, che cos’è la forma? Che cosa significa “flusso dominato dal caso”? Che cosa vuol dire cercare “un senso alla propria esistenza”?
Chi crea le forme e che cosa significa identificarsi con esse?
Temo non basti ripetere le parole perché i concetti diventino chiari. Soprattutto, gli slogan non sono mai d’aiuto a una comprensione almeno un
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1
L. Pirandello, Se il film parlante abolirà il teatro, in Id., Saggi, Poesie, Scritti varii, a cura
di M. Lo Vecchio Musti, Mondadori, Milano, 19744, p. 1030.
2
Cfr. A. Tilgher, Studi sul teatro contemporaneo, Libreria di Scienze e Lettere, Roma, 1922.
3
Voce “Pirandello” in Wikipedia. Enciclopedia libera, consultata il 23 marzo 2016.
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Enrico Cerasi
po’ approfondita. D’altra parte, è pur vero che la lingua di Pirandello concede
pochissimo alla terminologia filosofica: di essere e divenire, di legge e caso,
di unità e molteplicità – di tutto ciò non parla quasi mai, e non solo nella
sua produzione artistica ma quasi nemmeno nei Saggi, nei quali l’esigenza
filosofica appare assai più esplicita. La stessa parola “essere”, nelle sue pagine, non ha mai un preciso riferimento a un’ontologia definita, sia platonicoaristotelico o hegeliana; “essere” è per Pirandello un termine vago che può
indicare il divenire – ciò che più frequentemente chiama “vita” – o la posizione concreta dell’esistenza. Del resto, alla filosofia classica si riferisce
pochissimo, e comunque in luoghi piuttosto occasionali, che lasciano chiaramente supporre che ritenesse superfluo un confronto sistematico con la
storia della filosofia. Dobbiamo per questo concludere che
Non più preme difendere, o altrimenti caratterizzare, su di un piano di teorica
qualificazione, la filosofia di Pirandello; importa al contrario assumere quell’elemento, come ogni altro e più di ogni altro perché continuum della personalità pirandelliana, in quanto mediazione di un bisogno pratico-conoscitivo
che è la matrice di un originale sentimento della vita,4
giacché altrimenti si finirebbe per fare “l’ennesima esposizione del ‘sistema filosofico’ di Pirandello”5?
In effetti, il monito sembrerebbe sensato; eppure, se si riuscisse a uscire
dall’ormai scontato luogo comune di Pirandello pensatore del relativismo,6
privo di fiducia o addirittura d’interesse per la ricerca della verità, forse
l’eterno dilemma “Pirandello filosofo o semplicemente scrittore?” perderebbe ogni interesse, per dedicarsi piuttosto all’indagine della posizione occupata dal pensatore e poeta siciliano nella storia della filosofia e della cultura
contemporanea. È mia convinzione che ne valga la pena, se non ho del tutto
torto a vedere in lui una delle voci più significative della cultura europea
del primo-Novecento.
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4
A. Leone De Castris, Storia di Pirandello, Laterza, Bari, 19717, p. 13.
C. Vicentini, L’estetica di Pirandello, Mursia, Milano, 19852, p. 40.
6
“A questo punto noi ci domandiamo: cercare la verità, agire con oggettività, non vuol dire
proprio accettare il concetto che la verità non è una, ma al contrario si sfaccetta in tante
verità quanti sono gli uomini che la cercano, e non saranno, tali verità, diverse a seconda del
punto di vista che è servito a individuarle?” (G. Querci, Pirandello: l’inconsistenza dell’oggettività, Laterza, Bari, 1992, p. 4).
5
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La vita nuda
A tal fine può forse essere utile tornare all’articolo “Teatro e letteratura”
apparso sul Messaggero della domenica il 30 luglio 1918, nel quale possiamo leggere quanto segue:7
Fuori, ordinariamente, le azioni che mettono in rilievo un carattere si stagliano su un fondo di “contingenze” senza valore, di particolari comuni a tutti.
Volgari ostacoli impreveduti, improvvisi, deviano le azioni, deturpano i
caratteri; piccole miserie accidentali spesso li sminuiscono. L’arte libera le cose,
gli uomini e le loro azioni da queste contingenze senza valore, da questi particolari comuni, da questi volgari ostacoli, da queste accidentali miserie: in un
certo senso, li astrae: cioè rigetta, senza neppur badarvi, tutto ciò che contraria
la concezione dell’artista e aggruppa invece tutto ciò che, in accordo con
essa, le dà più forza e più ricchezza. Crea così un’opera che non è, come la
natura, senz’ordine (almeno apparente) e irta di contraddizioni, ma quasi un
piccolo mondo in cui tutti gli elementi si tengon a vicenda e a vicenda cooperano. In questo senso appunto l’artista idealizza. Non già che egli rappresenti
tipi o dipinga idee: semplifica e concentra. [...] I particolari inutili spariscono;
tutto ciò che è imposto dalla logica vivente del carattere è riunito, concentrato
nell’unità d’un essere, diciamo così, meno reale e tuttavia più vero.8
In questo brano emergono alcuni punti centrali della prima filosofia pirandelliana, nella quale l’opera d’arte sembra riproporre alcuni tratti dell’ontologia greca e in particolare platonica. In altre parole, l’arte avrebbe in
Pirandello una forte connotazione ontologica.
In primo luogo, notiamo che l’opera d’arte è “un essere [...] meno reale
e tuttavia più vero” della vita. Mentre quest’ultima è piena di “ostacoli impreveduti”, “irta di contraddizioni” e “senz’ordine”, l’arte è “un piccolo mondo
in cui tutti gli elementi si tengono a vicenda […] i particolari inutili spariscono”. In altre parole, in essa si trova l’essenza (altrove parla di “logica essenziale” dell’arte), vale a dire un mondo “meno reale [della vita] e tuttavia
più vero”. Si noti: la verità dell’arte è la sua eternità.
È naturale che ogni espressione raggiunta, mondo creato, a sé, unico e senza
confronti, che non può essere più né nuovo né vecchio, ma semplicemente
“quello che è”, in sé e per sé in eterno, trovi in questa sua stessa “unicità”
le ragioni: prima, della sua incomprensione; e poi, e sempre, della sua spa-
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7
8
Sul tema cfr. anche l’articolo del 1908 “Illustratori, attori e traduttori”, ora in Saggi, cit., p. 217.
L. Pirandello, Teatro e letteratura, in Id., Saggi, cit., p. 1022.
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Enrico Cerasi
ventosa solitudine: la solitudine delle cose che sono state espresse così, immediatamente, come vollero essere, e dunque “per se stesse”.9
Notevole, inoltre, è che l’eternità non sia altro che l’“unicità” dell’opera,
il suo essere eternamente “quello che è”, ovvero quello che dev’essere secondo
la sua propria logica essenziale. L’opera d’arte, insomma, realizza quella
perfetta individualità10 che, proprio in quanto tale, ha un valore universale.
E per questo solo fatto sarebbero inconoscibili, come sono, se ciascuno, volendo conoscerle, non le facesse uscire da quell’essere “per se stesse”, facendole
essere per lui, così com’egli le interpreta e le intende.
Chi sa Dante, com’era per sé nel suo poema! Dante, in quel suo essere per
sé, diventa come una natura: noi dovremmo uscir da noi stessi per intenderlo
com’è per sé, e non possiamo e ciascuno lo intende a suo modo, come può.
Egli resta veramente solo nella solitudine divina. Non di meno ogni tempo
lo fa suo; ogni tempo riecheggia a suo modo quella sua unica voce.11
In quanto pura individualità, l’opera di Dante è inconoscibile; eppure, in
quanto universale,12 è perfettamente trasparente. In questo senso notavo più
sopra che nell’opera d’arte riecheggia l’ontologia platonica; ma è ancor più
importante osservare che essa conserva la funzione salvifica dell’Iperuranio.
Se la vita non è altro che un imprevedibile gioco di contingenze, “L’arte libera
le cose, gli uomini e le loro azioni da queste contingenze senza valore”. L’arte libera il mondo: lo salva dal regno dell’imprevedibile, dell’irrazionale e dell’ingovernabile: dal suo eterno fluire. Ma in che modo? “I particolari inutili
spariscono; tutto ciò che è imposto dalla logica vivente del carattere è
riunito, concentrato”. La logica del carattere (della vera individualità) s’impone sull’accidentalità del divenire, emendandolo di tutto ciò che contrasti
con la propria logica essenziale.13
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9
L. Pirandello, Teatro nuovo e teatro vecchio, in Id., Saggi, cit., p. 240. Corsivo mio.
“L’essenza dell’arte è nella particolarità” (L. Pirandello, Un critico fantastico, in Id., Saggi,
cit., p. 369).
11
L. Pirandello, Teatro vecchio e teatro nuovo, cit., p. 240. Corsivo mio.
12
“L’essenza del sapere consiste nell’identità di universale e particolare, ovvero di ciò che è
posto nella forma del pensiero e nella forma dell’essere, e la scienza, secondo il proprio contenuto, è un’incarnazione di quella identità” (G. W. F. Hegel, Rapporto dello scetticismo
con la filosofia, a cura di N. Merker, Laterza, Bari, 1984, p. 104).
13
Vicentini sostiene che l’estetica pirandelliana ha come scopo “di far vivere il mondo in sé
e di realizzarlo” (op. cit. p. 76), di realizzarne cioè l’“intenzionalità” altrimenti impedita dalla
10
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La vita nuda
Se l’opera d’arte appartiene a un mondo superiore, a un iperuranio metafisico (“l’unità d’un essere, diciamo così, meno reale e tuttavia più vero”),
vale la pena chiedersi se questo sia qualcosa d’indifferente rispetto al mondo
reale. Lo vedremo; ma si ricordi che – proprio come alle Idee – all’arte è
chiesto di salvare il mondo del divenire. Mantenendo soltanto l’essenza del
mondo, l’opera dovrebbe porre in salvo ciò che altrimenti sarebbe condannato a divenir nulla. Ma se questo porre (in salvo) è a ben vedere un’imposizione, un imporsi sulla vita, allora si ripresentano nel mondo dell’arte
le stesse aporie che il pensiero occidentale ha scorto nell’Idea platonica.14
In questo contesto andrebbero rilette le considerazioni che, iniziate con
lo scritto su Un preteso poeta umorista del secolo XIII del 1896, confluiranno ne L’Umorismo del 1908. In questo saggio, del resto assai noto, credo
si possano scorgere le linee fondamentali del progetto pirandelliano, che a
mio avviso si concluderà nel 1921 con i Sei personaggi in cerca d’autore.
Per comprenderlo è tuttavia indispensabile chiarire la critica che egli muove
all’opera d’arte “ordinaria”. Ne troviamo una chiara formulazione in una
novella del 1915: Colloqui con i personaggi. L’occasione del racconto è data
dallo scoppio della Grande guerra; il figlio di Pirandello è partito per il fronte, lasciando il padre in preda a “follia” e “dolore”. In questo doloroso stato
d’animo, lo scrittore scopre di aver davanti, nel suo studio, un personaggio
il quale,
in qualità di personaggio, cioè di creatura chiusa nella sua realtà ideale,
fuori delle transitorie contingenze del tempo, […] non aveva l’obbligo [...]
di conoscere in quale orrendo e miserando scompiglio si trovasse in quei
giorni l’Europa.15
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vita quotidiana, la quale è caratterizzata fondamentalmente dall’“incomunicabilità” e dall’“egocentrismo”. La prospettiva di Vicentini ha senza dubbio moltissimi meriti, ma non vede
che l’incomunicabilità che regna nel mondo quotidiano consegue all’impossibilità, a causa
della “morte di dio”, di far fronte alla follia del divenire.
14
Cfr. E. Severino, Il Giogo, Adelphi, Milano, 1989, p. 29. “Il mondo vero, attingibile dal
saggio, dal pio, dal virtuoso, - egli vive in esso, lui stesso è questo mondo. (La forma più
antica dell’idea, relativamente intelligente, semplice, persuasiva. Trascrizione della tesi: ‘Io,
Platone, sono la verità.)” (F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, a cura di G. Colli e M.
Montinari, Adelphi, Milano, 19882, p. 46).
15
L. Pirandello, Colloqui con i personaggi, in Id., Novelle per un anno, vol. II, Mondadori,
Milano, 197510, p. 1197. Corsivo mio.
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Enrico Cerasi
Il personaggio, che qui a mio avviso rappresenta l’opera d’arte “ordinaria”,16 proprio in quanto tale, ovvero in quanto personaggio,17 è indifferente al divenire del mondo, alle indicibili angosce dei mortali, ai mille imperscrutabili casi della vita.
Noi non sappiamo di guerre, caro signore. E se lei volesse darmi ascolto e
dare un calcio a tutti codesti giornali, creda che poi se ne loderebbe. Perché
son tutte cose che passano, e se pur lasciano traccia, è come se non la lasciassero, perché su le stesse tracce, sempre, la primavera, guardi: tre rose
più, due rose meno, è sempre la stessa.18
Come ogni opera d’arte ordinaria, il personaggio è una creatura eterna,
ma di un’eternità fin troppo indifferente all’angoscia del mondo. Un’indifferenza che ne segnala la condizione separata e in ultima istanza impotente
a salvare la vita dalla sua follia nella quale l’opera d’arte si trova.
Dalla scoperta dell’impotenza, ovvero della separatezza dell’arte ordinaria
sorge il progetto di un’arte umoristica.
Da quanto abbiamo detto finora intorno alla speciale attività della riflessione nell’umorista, appare chiaramente quale dell’arte umoristica sia l’intimo processo.
Anch’essa l’arte, come tutte le costruzioni ideali o illusorie, tende a fissar la
vita: la fissa in un momento o in varii momenti determinati: la statua in un
gesto, in un paesaggio, in un aspetto temporaneo, immutabile. Ma, e la perpetua mobilità degli aspetti successivi? e la fusione continua in cui le anime
si trovano? L’arte in genere astrae e concentra, coglie cioè e rappresenta
così degli individui come delle cose, l’idealità essenziale e caratteristica.
Ora pare all’umorista che tutto ciò semplifichi troppo la natura e tenda a
rendere troppo ragionevole o almeno troppo coerente la vita. Gli pare che
delle cause, delle cause vere che muovono spesso questa povera anima umana agli atti più inconsulti, assolutamente imprevedibili, l’arte in genere
non tenga quel conto che secondo lui dovrebbe. Per l’umorista le cause,
nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate, come nelle nostre co-
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16
Non mi pare corretto, come pure suole fare la critica, vedere in questa novella la
prefigurazione della teoria del personaggio esposta nei Sei personaggi in cerca d’autore.
Quest’ultima, come vedremo, presuppone proprio la critica all’isolamento dell’opera d’arte
che in questi anni Pirandello sta sviluppando.
17
In quanto tale, perché il “cioè” del passo citato (“qualità di personaggio, cioè di creatura
chiusa […]) pone un nesso tra l’essere personaggio e l’essere isolato dal divenire.
18
L. Pirandello, Colloqui con i personaggi, cit., p. 1199.
16 !
La vita nuda
muni opere d’arte, in cui tutto è, in fondo, combinato, congegnato, ordinato
ai fini che lo scrittore s’è proposto.19
Se la vita è l’imprevedibile divenire delle cose dal nulla all’essere, come
a Pirandello sembra del tutto evidente, essa contraddice,20 inevitabilmente,
la “semplificazione” dell’arte ordinaria, la quale rappresenta un mondo inesistente proprio perché perfettamente razionale. Sembra che per l’umorista
valga il motto hegeliano: Contradictio est regula veri, non contradictio falsi,
nel senso che la contraddittorietà del reale rende del tutto improbabile e in
ultima istanza fittizia la rappresentazione dell’arte ordinaria. Questa, ingannandosi intorno alla vera natura della vita, non riesce a pre-vedere il divenire,21
rinunciando così al suo compito essenziale di liberare gli uomini e le cose
dalla loro destinazione al nulla.
In questo contesto vale la pena ricordare un’osservazione del 1920. Pur
non riferendosi all’umorismo ma all’ironia filosofica, Pirandello nota:
Hegel spiegava che l’io, sola realtà vera, può sorridere della vana parvenza
dell’universo: come la pone, può anche annullarla; può non prender sul serio
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19
L. Pirandello, L’Umorismo, in Saggi, cit., p. 157. Corsivo mio, tranne l’aggettivo “vere”.
“Ma l’umorista sa che le vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialità della vita in
somma, così varia e complessa, contraddicono poi aspramente quelle semplificazioni ideali,
costringono ad azioni, ispirano pensieri e sentimenti contrarii a tutta quella logica armoniosa
dei fatti e dei caratteri concepiti dagli scrittori ordinarii. E l’impreveduto che è nella vita? E
l’abisso che è nelle anime?” (ivi, p. 159. Corsivo mio).
21
Ciascuno a suo modo, che dal mio punto di vista rappresenta, assieme anche all’ultima
opera della trilogia del “teatro nel teatro”, un epigono dell’arte umoristica pirandelliana,
afferma chiaramente il senso epistemico dell’opera: “LO SPETTATORE INTELLIGENTE.
Appunto! Giustissimo! Hanno fatto per forza sotto i nostri occhi, senza volerlo, quello che
l’arte aveva preveduto!” (L. Pirandello, Ciascuno a suo modo, in Id., Maschere nude, vol. I,
Mondadori, Milano, 19674, p. 197. Corsivo mio). Assai significativo è anche Questa sera si
recita a soggetto, interamente giocato sul conflitto tra il dottor Hinkfuss, che intende imporre
la propria regia, e gli attori i quali, dovendo recitare a soggetto, non possono far altro che
trasgredire la legge imposta dal regista. L’analisi dell’opera sarebbe un compito assai complesso; mi limito a ricordare la penultima battuta del dotto Hinkfuss, il quale comparendo in scena
proprio quando gli attori pensavano di essersene liberati, afferma:
“IL DOTT. HINKFUSS. Magnifico! Magnifico quadro! Avete fatto come dicevo io! Questo,
nella novella, non c’è!
L’ATTRICE CARATTERISTICA. Eccolo qua di nuovo.
L’ATTORE BRILLANTE. ... Ma è stato sempre qua, con gli elettricisti, a governar di
nascosto tutti gli effetti di luce!” (L. Pirandello, Questa sera si recita a soggetto, in Id.,
Maschere nude, vol. I, cit., p. 288. Corsivo mio).
20
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Enrico Cerasi
le proprie creazioni. Onde appunto l’ironia: cioè quella forza – secondo il
Tieck – che permette al poeta di dominar la materia che tratta: materia che
si riduce per essa – secondo Federico Schlegel – a una perpetua parodia, a
una farsa trascendentale.22
Non dovrebbero esserci dubbi, credo, su ciò che potremmo chiamare
l’ontologia dell’arte pirandelliana. L’opera d’arte ironica, infatti, è “quella
forza che permette al poeta di dominar la materia che tratta”. Come già la
scienza nel senso classico del termine, anche l’arte è una forza che s’impone sulla vita che pure vorrebbe rappresentare. Ciò conferisce all’arte una
consistenza ontologica, alla quale la filosofia e la scienza contemporanee
hanno da tempo rinunciato:
Ah i filosofi furono, sono e saranno in ogni tempo dei gran poltroni. Volentieri io rivolgerei loro quel motto brutale che un imperatore d’Austria soleva
ripetere intorno ai poeti: “Sono i poeti una famiglia d’ammalati, che per professione sparge il malumore tra la gente”. E avrei senz’altro cominciato dall’escluder per primo Platone stesso dalla sua repubblica ideale. Sappiamo
tutti, purtroppo, a che mai essi han ridotto la terra, questa povera nostra terra!
Un atomo astrale incommensurabilmente piccolo, una trottoletta volgarissima
lanciata un bel giorno dal sole e aggirandosi intorno a lui [...] Che è divenuto
l’uomo? Che è divenuto questo microcosmo, questo re dell’universo? Ahi
povero re!23
Eppure, per le ragioni che abbiamo visto, l’arte ordinaria non è in grado
di rappresentare l’irrazionalità, la follia della vita; ciò equivale a dire che
l’esito della filosofia e della scienza moderne, alle quali tale irrazionalità è
finalmente diventata perspicua, hanno reso vano lo sforzo dell’arte ordinaria.
Quest’ultima, occorre notarlo, non coincide con l’arte classica, se è vero
che (si veda la polemica con Croce a tal proposito) l’umorismo non è proprio
né di un popolo né di un periodo storico particolari. Eppure prima della “rivoluzione copernicana” l’arte ordinaria aveva una plausibilità, una forza
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22
L. Pirandello, Ironia, in Saggi, cit., p. 1028. Corsivo mio.
L. Pirandello, Arte e coscienza d’oggi, in Id., Saggi, cit., p. 896. Si tratta di un articolo del
1895, in sostanza la prima testimonianza completa del pensiero pirandelliano. Si noti che
Pirandello vede già in Platone la testimonianza di una vocazione critico-negativa della filosofia; se questo è vero, è lecito concludere che ai suoi occhi il pensiero moderno è la realizzazione della vera filosofia.
23
18 !
La vita nuda
persuasiva che nella modernità ha irreversibilmente perduto. In altre parole,
a coloro che credono di scorgere un’“oscillazione” del pensiero pirandelliano,24
credo si possa rispondere che l’umorismo, pur occasionalmente presente in
tutte le epoche e in tutti i popoli, trova nella cultura moderna, così radicalmente allergica a ogni forma ideale in nome dell’incondizionata fedeltà alla
vita, la sua più favorevole occasione. L’esito radicalmente nichilistico della
filosofia moderna, lo stato permanente di crisi che essa rappresenta, rende
l’opera umoristica l’unico possibile rimedio alla tragica follia della vita.
Resta da vedere in che modo l’umorismo possa rappresentare quest’unica soluzione. A tal proposito si noti che, mentre l’opera d’arte ordinaria
“è creata dal libero movimento della vita interiore che organa le idee e le
immagini in una forma armoniosa, di cui tutti gli elementi han corrispondenza tra loro e con l’idea madre che li coordina”
noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione
non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del
sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone
innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento
sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi e che difatti io chiamo il sentimento del contrario.25
In altre parole, tra l’arte ordinaria e l’opera umoristica ciò che cambia è
in primo luogo il ruolo della riflessione. La sua coerenza, la sua capacità di
penetrazione. Quanto alla riflessione dell’umorista, essa fa proprio l’esito
della filosofia e della scienza contemporanee (non a caso Copernico viene
citato come un grande umorista). Non diversamente dal pensiero moderno,
la riflessione dell’umorista si esercita in quell’analisi che scompone ogni
forma. Se l’ideale è ciò che pretende di stare, ciò che nulla e nessuno dovrebbe contraddire, la riflessione umoristica dissolve ogni ideale, ogni affer-
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24
"Si coglie qui un’oscillazione del pensiero pirandelliano cui abbiamo fatto cenno anche
sopra: a volte, l’autore sottolinea la base storica del relativismo umoristico – per cui esso
dipenderebbe da una rivoluzione nelle coscienze prodotta dalla scoperta di Copernico; altre
volte ne indica il fondamento perenne e ontologico, per cui esso dipenderebbe anche, o
piuttosto, da una struttura permanente della condizione umana riducibile alla contraddizione”
(R. Luperini, Introduzione a Pirandello, Laterza, Bari, 1992, p. 50).
25
L. Pirandello, L’Umorismo, cit., pp. 126-127.
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19
Enrico Cerasi
mazione ab-soluta, compresa quella in cui consiste l’opera d’arte ordinaria.
Si capisce, dunque, per quale ragione Pirandello nella sua esposizione dell’umorismo senta l’esigenza di rendere esplicito l’esito più rilevante della
filosofia moderna:
La semplicità dell’anima contraddice al concetto storico dell’anima umana.
La sua vita è un equilibrio mobile; è un risorgere e un assopirsi continuo di
affetti, di tendenze, di idee; un fluttuare incessante fra termini contraddittorii, e un oscillare tra poli opposti, come la speranza e la paura, il vero e il
falso, il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto e via dicendo.26
Vale la pena ripeterlo: fin qui l’analisi umoristica coincide con l’esito
nichilistico, critico-distruttivo della filosofia moderna. Ma con tutto ciò si è
ben lungi dall’aver compreso il significato dell’arte umoristica, come accade
a quei critici per i quali
la coscienza umoristica vuole riprendere e quasi mimare la mobilità e l’imprevedibilità della vita, assumerne la prospettiva fluida e contraddittoria e
così scavalcare l’irrigidimento delle forme.27
Al contrario, l’opera umoristica intende porsi come l’unico possibile rimedio all’assurda, insensata contraddittorietà della vita. Non si capirebbe
altrimenti in che cosa consista la differenza tra comico e umoristico. A tal
proposito si suole ripetere, con lo stesso Pirandello, che l’uno è l’avvertimento del contrario mentre l’altro è il sentimento del contrario. Resta da
vedere che cosa significhi tale distinzione.
Conviene prendere le mosse da un esempio, per altro assai noto. Don
Abbondio è palesemente il contrario di quello che dovrebbe essere:
Don Abbondio è quel che si trova in luogo di quello che ci sarebbe voluto.
Ma il poeta non si sdegna di questa realtà che trova, perché, pur avendo,
come abbiamo detto, un ideale altissimo della missione del sacerdote su la
Terra, ha pure in sé la riflessione che gli suggerisce che quell’ideale non si
incarna se non per rarissima eccezione, e però lo obbliga a limitare quell’ideale [...] Ma questa limitazione dell’ideale che cos’è? è l’effetto appunto
della riflessione che, esercitandosi su quest’ideale, ha suggerito al poeta il
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
26
27
Ivi, pp. 150-151. Corsivo mio.
R. Luperini, op. cit., p. 50.
20 !
La vita nuda
sentimento del contrario. E don Abbondio è appunto questo sentimento del
contrario oggettivato e vivente; e però non è comico soltanto, ma schiettamente e profondamente umoristico.28
L’umorismo è un’ulteriorità, un’eccedenza rispetto al comico. Entrambi,
comico e umorista scompongono; ma il primo si limita ad avvertire questa
scomposizione (la quale, come abbiamo visto, coincide con l’esito criticonegativo della filosofia moderna), mentre il secondo si spinge più in là e
sente in sé tale scomposizione. Se il comico può ridere, è perché si limita
ad avvertire il contrasto come qualcosa d’indubbiamente ridicolo; l’umorista,
invece, sta per ridere (anch’egli avverte la contraddittorietà del reale) ma in
un attimo il riso gli si gela sulle labbra, diventando amaro, vale a tragico e
comico contemporaneamente – grottesco. Giacché:
Ogni sentimento, ogni pensiero, ogni moto che sorga nell’umorista si sdoppia
subito nel suo contrario: ogni sì in un no, che viene in fine ad assumere lo
stesso valore del sì.29
Spero di non forzare il testo instaurando tra l’umorismo e la comicità un
rapporto analogo a quello posto da Hegel tra lo scetticismo e la filosofia idealistica: là dove il primo si limita a esprimere la contraddittorietà di ogni
determinazione del reale (fermandosi così al momento astratto-intellettuale),
la seconda, ossia la ragione, sa che
Il momento speculativo, o il positivo-razionale, concepisce l’unità delle determinazioni nella loro opposizione; ed è ciò che vi è di affermativo nella
loro soluzione e nel loro trapasso.30
Non c’è bisogno di ricordare le innumerevoli differenze tra l’idealismo
hegeliano e l’umorismo di Pirandello: qualsiasi studente di liceo dovrebbe
essere in grado di comprenderle da sé. Eppure vale forse la pena notare qualche analogia tra i due. L’umorismo si basa su una “riflessione [che] s’insinua
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
28
L. Pirandello, L’Umorismo, cit., p. 144. Corsivo mio.
Ivi, p. 139.
30
G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, a cura di B. Croce, Laterza, Bari,
19892, p. 97.
29
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21
Enrico Cerasi
acuta e sottile da per tutto e tutto scompone: ogni immagine del sentimento,
ogni finzione ideale, ogni apparenza della realtà, ogni illusione”.31
Ma non si tratta di una scomposizione qualsiasi:
le immagini cioè, anziché associate per similazione o per contiguità, si presentano in contrasto: ogni immagine, ogni gruppo di immagini desta e richiama le contrarie.32
Si tratta, dunque, d’una scomposizione propriamente dialettica, vale a
dire di una negazione determinata. Ogni sì si trasforma in un no, e no e sì si
trovano ad avere “lo stesso valore”. Ma l’umorismo non si ferma a questo
momento dialettico-negativo: sì e no, affermazione e negazione vengono poi
compresi nella medesima rappresentazione, la quale, evidentemente, si pone
come sintesi delle prime due.
Si sbaglierebbe a leggere questa sintesi, questa com-passione, come la
mera sommatoria delle due istanze contrarie. Torniamo al citato esempio
manzoniano. Il poeta ha ben chiaro che cosa dovrebbe essere l’autentico sacerdote, quale dovrebbe essere il suo carattere; ma sa anche che questo suo
ideale è contraddetto dalla realtà: di fatto non c’è il nobile Federigo Borromeo ma il più prosaico don Abbondio. Manzoni, che sa tutto ciò, non si
sdegna della vigliaccheria meschina di don Abbondio ma la compatisce,
dissuadendo il lettore da ogni facile (intellettualistica) indignazione.
Sì, ha compatimento il Manzoni per questo pover’uomo di don Abbondio;
ma è un compatimento, signori miei, che nello stesso tempo ne fa strazio,
necessariamente. In fatti, solo a patto di riderne e di far rider di lui, egli può
compatirlo e farlo compatire, commiserarlo e farlo commiserare.33
Credo sia lecito vedere nella compassione umoristica qualcosa di analogo
al momento sintetico della filosofia dialettica. Compassione, com’è noto, deriva da cum patiri, e la “comunanza di dolore” che troviamo anche nel
greco sympatheia non è altro che il “tenere assieme gli opposti nella loro
opposizione” di cui parla il testo hegeliano: l’A che viene sdoppiato in non-
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
31
L. Pirandello, L’Umorismo, cit., p. 146.
Ivi, p. 133. Corsivo mio.
33
Ivi, p. 144. Corsivo mio.
32
22 !
La vita nuda
A è compatito nel senso che è contenuto nella sintesi di A e non-A. Si
capisce, allora, che la compassione faccia strazio di don Abbondio, perché
le ragioni del suo personaggio sono insieme affermate e negate. Manzoni ci
fa sapere, al tempo stesso, che don Rodrigo era solito mantenere le sue minacce e che don Abbondio non è il prete che ci sarebbe voluto in quella
situazione. L’individualità di don Abbondio, la quale prestava ascolto solo
al primo lato dell’antinomia (don Rodrigo non minacciava invano!), è insieme, proprio nel momento in cui la si compatisce, affermata e negata. Non si
dà compassione senza la coscienza che don Abbondio non è, e nonostante
tutto continua a non essere, quello che ci sarebbe voluto, benché non avrebbe
potuto essere diverso.
Riassumendo: l’umorismo consiste nel sentimento del contrario, provocato
dalla speciale attività della riflessione che non si cela, che non diventa, come
ordinariamente nell’arte, una forma del sentimento, ma il suo contrario, pur
seguendo passo passo il sentimento come l’ombra segue il corpo. L’artista
ordinario bada al corpo solamente: l’umorista bada al corpo e all’ombra, e
talvolta più all’ombra che al corpo.34
L’umorismo, a suo modo, consiste dunque in una pars destruens e in una
pars construens. La prima è ciò che ha in comune con il comico: ogni corpo
viene sdoppiato nella sua ombra, ogni affermazione si risolve in negazione,
ogni sì viene contraddetto da un altrettanto potente no; la seconda è ciò per
cui esso non è solamente comico e non si risolve, come quest’ultimo, in
una risata. L’umorismo è quella forma di sentimento che tiene assieme i contrari (il corpo e l’ombra), e che Pirandello chiama sentimento del contrario.
In tal modo l’umorismo andrebbe considerato come la verità (in termini
hegeliani) dell’arte ordinaria: mentre quest’ultima, astraendosi dal divenire,
semplificando la vita in un puro carattere, è contraddetta dall’irrazionalità
del reale che essa non vede,35 l’arte umoristica, assumendo fino in fondo la
contraddittorietà della vita,36 esprimendola nella propria opera, è quella forma che nessun divenire può mai contraddire. In quanto opera, l’arte umoristica
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
34
Ivi, p. 160. Corsivo mio.
“Tutti i fenomeni, o sono illusorii, o la ragione di essi ci sfugge, inesplicabili” (ivi, p. 146).
36
“Ne fa tesoro invece l’umorista” che “sa che le vicende ordinarie, i particolari comuni, la
materialità della vita in somma, così varia e complessa, contraddicono poi aspramente quelle
semplificazioni ideali” (ivi, p. 159) .
35
!
23
Enrico Cerasi
è anch’essa eterna (come eterni sono don Chisciotte o don Abbondio); ma
la sua eternità non è più scissa, astratta, separata dalla vita.
Eppure, lungi dall’esaurire la ricostruzione del pensiero filosofico pirandelliano, queste considerazioni vorrebbero semplicemente porre il problema
della sua filosofia. In altre parole, la sua riflessione estetica mi pare una
sorta di prefigurazione del suo progetto, che proveremo a esporre nei capitoli
successivi. In sede introduttiva avanziamo l’ipotesi che le riflessioni sull’opera d’arte umoristica costituiscano l’abbozzo della ricerca di una forma
di verità differente da quella astratta e separata dell’arte ordinaria che troverà
nei Sei personaggi in cerca d’autore al tempo stesso la sua più alta affermazione e il suo definitivo fallimento, dal quale emergerà il desolante, quasi
agghiacciante nichilismo delle novelle degli anni Trenta. È significativo di
tale consapevole fallimento la perdita d’interesse dell’ultimo Pirandello per
l’arte umoristica, che nel Discorso alla Reale Accademia d’Italia del 1931
(ben diversamente da quanto abbiamo letto nel saggio del 1908) viene ridotta
a una sorta di scetticismo:
Il mondo non è per se stesso in nessuna realtà se non gliela diamo noi; e
dunque, poiché gliel’abbiamo data noi, è naturale che ci spieghiamo che non
possa essere diverso. Bisognerebbe diffidare di noi stessi, della realtà del
mondo posta da noi. Per sua fortuna il Verga non ne diffida; e perciò appunto
non è né può essere, nel senso vero e proprio della parola, un umorista.37
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37
L. Pirandello, Discorso alla Reale Accademia d’Italia, in Id., Saggi, cit., p. 399. Corsivo mio.
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