MATEO María Gamboa Titolo originale: Mateo. Regia: María Gamboa. Sceneggiatura: María Gamboa, Adriana Arjona. Fotografia: Diego Jiménez. Montaggio: Gustavo Vasco, Jacques Comets. Musica: Marc Huri, Camilo Zanabria. Scenografia: Camilo Barreto. Costumi: Catherine Rodríguez. Interpreti: Carlos Hernández (Mateo), Felipe Botero (Padre David), Miriam “Pesca” Gutiérrez (Made), Samuel Lazcano (Walter); Leidy Niño (Ana), Pablo Pedraza (Elkin), Alexis Guerrero (Augusto), Paola Muñoz (Irene), Yovanni Ayala (Leonel). Produzione: Daniel García, Maria Fernanda Barrientos, Thierry Lenouvel per Ciné-Sud Promotion/DiaFragma, Fábrica de Películas. Distribuzione: Cineclub Internazionale. Durata: 86’. Origine: Colombia/Francia, 2014. Commentando il suo ultimo libro (Storia del denaro, Sur, 2014), il romanziere argentino Alan Pauls dice che nel suo Paese le persone sono «ossessionate dal denaro»: «Si parla continuamente di denaro. Lo si sfoggia… è una relazione erotica. I soldi sono allo stesso tempo eccitanti e volgari… Questa cosa oscena innerva le nostre vite… tiene assieme o sfascia le famiglie» («La lettura – Corriere della Sera», 25-1-2015). Di recente sugli schermi italiani sono usciti quasi contemporaneamente due film che portano a chiedersi se questa osservazione non possa forse essere estesa anche ad altri luoghi dell’America latina – Continente nel quale, come è noto, le diseguaglianze economiche sono particolarmente pronunciate. Al denaro e ai suoi significati è infatti dedicato l’incipit di La danza della realtà del cileno Alejandro Jodorowsky e la presenza dei soldi è una costante di Mateo, esordio nel lungometraggio della colombiana María Gamboa. In quest’ultimo film, tale presenza, meno esplicitamente sottolineata, potrebbe in realtà apparire come secondaria rispetto al tema della scoperta di sé attraverso il teatro. È invece centrale: che la rappresentazione che la regista dà della società del suo Paese e delle sue contraddizioni ruoti intorno al denaro emerge con maggiore chiarezza se, accanto a Mateo, si considera anche il suo precedente cortometraggio 20mil (2006). Ambientati in due contesti sociali molto diversi (una scuola francese per la buona borghesia cittadina 20mil, un milieu povero e periferico Mateo), i due film sono infatti accomunati proprio dalla presenza pervasiva e invadente del denaro contante, dal quale dipendono i legami tra le persone e il posto di ciascuno all’interno della società. Nel bel cortometraggio d’esordio la capacità di gestire il denaro, e di manipolare le relazioni sociali in funzione di questo, determinava le possibilità di ciascun individuo, la sua centralità sociale o la sua emarginazione (il corto utilizzava toni spiritosi, ma aveva un fondo inquietante, dato che il potere del denaro emergeva in un contesto relazionale – una scuola elementare – che si supporrebbe relativamente al riparo da esso). Mateo ribadisce questo ruolo con l’apertura nella quale il protagonista – un ragazzo di pochi anni più grande delle bambine di 20mil – si aggira tra i negozi a riscuotere il “pizzo” per l’organizzazione criminale che controlla la zona. Il denaro è poi presenza ricorrente che condiziona ogni aspetto della vita degli individui, delle famiglie (i rapporti tra il protagonista e la madre sono più volte mediati dal denaro) e della comunità. Con edificante semplicità di racconto, appoggiandosi su una struttura narrativa consolidata, e in una certa misura prevedibile (tante volte abbiamo visto l’arte, o lo sport, fungere da sprone che spinge un giovane a uscire da una situazione di degrado e di marginalità e scoprire possibilità di vita che gli erano altrimenti precluse), il film narra di due tentativi di costruire legami sociali di natura differente rispetto a quelli regolati dal puro scambio economico. Da un lato, il gruppo di teatro: se la condizione dell’attore – il suo moltiplicarsi in tanti ruoli diversi – può talvolta rappresentare una condizione di inautenticità (penso, ad esempio, a Der Glanz des Tages, 2012 di Tizza Covi e Rainer Frimmel), in Mateo, invece, il teatro (un teatro performativo incentrato sulla costruzione di relazioni e sulla scoperta di sé) consente – trasfigurando con estrema libertà, al di fuori di ruoli e copioni rigidi, la realtà vissuta – di raggiungere una autentica libertà (contrapposta alla falsa libertà garantita a Mateo dal possesso di denaro). La “trovata” originale del racconto è di mettere il protagonista in una situazione in cui si trova costretto a una doppia recitazione (le prove col gruppo di teatro e il camuffamento per conto dell’organizzazione criminale). Dall’altro (e qui le modalità di racconto sono certamente più didascaliche), la solidarietà che anima l’impresa messa in piedi dalle donne della comunità. Edificante semplicità di racconto, si diceva. D’altra parte, il film non ha le sbavature retoriche in cui facilmente avrebbe potuto cadere. Al contrario, si avvale di una narrazione precisa e si conclude con un lieto fine che non è consolatorio e definitivo, ma che – attraverso il mutamento cromatico della scena decisiva – viene indicato come ipotetico e possibile. Rinaldo Vignati