Sostenibilità Ambientale e Culturale. Per un ampliamento della

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Sostenibilità Ambientale e Culturale.
Per un ampliamento della
Filosofia dei Diritti Umani
Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale
Università Bicocca - Milano
21-11-2012
I piani strategici culturali:
un’opportunità per il territorio e l’ambiente
di Monica Amari
Il mio intervento si divide in due parti: la prima, come suggerisce il titolo del seminario, vuole
indagare sul possibile abbinamento e autonomia tra il concetto di sostenibilità ambientale e
quello di sostenibilità culturale analizzandone:
•
•
•
le radici giuridiche
le tangenze non solo semantiche ma di processo
le autonomie operative istituzionali
per poi, nella seconda parte, esaminare in che modo il concetto di sostenibilità culturale possa
farsi prassi attraverso l’oggettivazione in alcuni concetti chiave
•
•
nel dominio della visione e nel campo della formazione – progettazione culturale del
territorio- cultural planning
nella operatività politica diventando strumento nel governo del territorio, attraverso il
piano strategico culturale il quale riesce a ricongiungere il tema della sostenibilità
incrociando la funzionalità sia in ambito ambientale che culturale.
Già nella definizione come “ la necessità per un sistema di preservare le condizioni di base al
fine di potere rigenerare quei processi attinenti alla dimensione del simbolico” la sostenibilità
culturale prende spunto dalla definizione fornita alla sostenibilità ambientale dall’economista
americano Herman Daly, nella differenziazione tra sostenibilità debole e sostenibilità forte,
come le condizioni necessarie alla rigenerazione dei “processi di vita”.
Una definizione successiva a quello di “sviluppo sostenibile” introdotto nel lessico globale dal
rapporto Bruntland nel 1987 dal nome della coordinatrice della Commissione mondiale
sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite. Definizione che affonda le proprie radici nella
Conferenza di Stoccolma delle Nazioni Unite del 1972, quarant’anni fa, in cui la comunità
internazionale ha capovolto i termini della relazione tra uomo e natura, tra l’uomo e
l’ambiente e come ricorda Zagrebelsky la madre terra considerata creatura autosufficiente e
“base” sicura per la vita degli esseri umani, ha avuto bisogno di reti giuridiche di protezione
dei propri equilibri seriamente minacciati dallo sviluppo senza limiti dei suoi figli.
Se dunque la sostenibilità ambientale affonda la propria legittimità a livello giuridico nella
costruzione di apposite reti di protezione riconosciute e costruite dal secondo dopoguerra in
poi e riunite all’interno del corpus giuridico definibile come diritti ambientali dove il
soggetto/oggetto sembrano identificarsi nella generica categoria di “ambiente” e dove l’uomo
sembra essere soggetto di “limiti” e non di diritti, la sostenibilità culturale trova la propria
legittimità in tempi “piu’” antichi ricollegandosi alla “Dichiarazione dei diritti universali
dell’uomo”, adottata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948,
rifacendosi per la titolarità di quelli che vengono definiti come diritti culturali non a un
territorio ma all’uomo il quale più di limiti diventa soggetto/oggetto di diritti.
Una situazione, in questo caso, apparentemente ribaltata dove è l’individuo ad essere titolare
di diritti e non è più l’ambiente, anche se “formalmente” era stato utilizzato l’escamotage di
rivolgersi alle generazioni future.
Diritti culturali che vengono ribaditi in diversi Trattati internazionali senza peraltro
assumere quella caratteristica di corpus che la Dichiarazione di Friburgo, realizzata nel 2007
da un gruppo di esperti, destinata agli Stati, alle organizzazioni non governative e ai soggetti
che operano nel settore privato cerca di dare
Composta da 12 articoli, la Dichiarazione di Friburgo definisce le classi di diritti culturali. Vale
la pena elencarle: l’identità e i patrimoni culturali, il riferimento alle comunità culturali,
l’accesso e la partecipazione alla vita culturale, l’educazione, la formazione, la comunicazione,
l’informazione e la cooperazione culturale.
IL TRATTATO DI AMSTERDAM E LE 3 SOSTENIBILITA’
Apparentemente, da queste prime considerazioni, può sembrare che i diritti culturali, come
espressione di diritti umani abbiano generato pari attenzione dei diritti ambientali, e ma
invece non è stato così.
Per accorgersene basta rifarsi al trattato di Amsterdam del 1997 quando l’Unione europea
riconosce che il modello di sviluppo, all’interno dei Paesi dell’Unione, deve basarsi su tre
pilastri: il pilastro della sostenibilità ambientale, il pilastro della sostenibilità economica e il
pilastro della sostenibilità sociale, dimenticandosi completamente di enunciare come
elemento strutturale all’interno di un modello di sviluppo il pilastro della sostenibilità
culturale.
Questa omissione non è stata assolutamente indolore anzi è il motivo per cui l’Italia in modo
particolare - ma la considerazione può essere estesa a tutta l’Europa - non riesce a garantire
un livello adeguato di vita per le nuove generazioni, come dimostra l’altissimo tasso di
disoccupazione presente all’interno dei paesi che fanno parte dell’Unione Europea.
Infatti la mancata enunciazione del concetto di sostenibilità culturale ha significato
considerare residuali le politiche culturali e, dunque, non soggette a linee di finanziamento
interessanti a differenza degli altri “settori ” i quali al contrario, considerati strutturali,
hanno goduto e di incentivi che ha permesso di sviluppare processi di innovazione non
indifferenti: uno per tutti il concetto di green economy e green society con tutte le
ripercussioni positive che sono scaturite
Dunque alla riprova dei fatti, come si è già detto il “dimenticarsi” della sostenibilità culturale
da parte dell’Unione europea non è stata un’omissione indolore ma, al contrario, è stata
dolorosissima e ottusa, in quanto ha consentito che i governi nazionali continuassero a
perpetrare tagli nei confronti della cultura, adducendo la scarsità di risorse a fronte di una
crisi finanziaria ed economica di cui non si vede la fine.
D’altronde l’UE è in aperta contraddizione nel negare il concetto di sostenibilità culturale
quando con la Strategia di Lisbona prima nel 2000 e poi con il Libro verde delle industrie
culturali e creative nel 2010 afferma
che dobbiamo andare verso una società della
conoscenza, presupposto indispensabile per il futuro e che lo sviluppo in ambito economico
crescerà in questo decennio soprattutto nell’ambito dell’economia del simbolico.
In realtà la possibilità di riconoscere il concetto di sostenibilità culturale è strettamente
connesso alla ricerca e all’attuazione di un nuovo modello di sviluppo che si basa non più su
un concetto di economia classica quanto su quello di “economia ecologica” il quale peraltro è
espressione del concetto di sviluppo sostenibile e, dunque, della sostenibilità ambientale.
ECONOMIA ECOLOGICA
La sfida dell’economia ecologica all’approccio tradizionale delle questioni ambientali è
centrata sul tentativo di reinserire l’economia umana nella più generale “economia del
vivente”, invece che basarla su una definizione del valore dei beni legata solo al loro prezzo di
mercato attuale.
Il padre dell’economia ecologica, o meglio della “bioeconomia” come inizialmente lui stessa
l’aveva definita, viene considerato Nicholas Georgescu-Roegen, morto nel 1994 .
Economista di origine rumena ma attivo negli Stati Uniti ha riportato la scienza economica
dalle rarefatte atmosfere della matematica, all’universo concreto del vivere quotidiano. Nel
1971 con il libro The Entropy Law and the Economic Process fonda le basi per un’analisi dei
processi economici che deve scaturire dal concetto di entropia e propone che venga
rovesciato il paradigma dell’economia classica, basato sulle leggi della meccanica, le quali
dovranno essere sostituite da leggi che regolano il mondo vivente. Secondo il suo pensiero il
vero output del processo economico, che altro non fa che trasformare preziose risorse naturali
(bassa entropia) in scarti (alta entropia), non è un flusso materiale di scarti ma un fluire
immateriale che può essere definito come “godimento della vita”.
Non è assolutamente un caso se nel 1972 - anno successivo alla pubblicazione del testo di
Georgescu-Roegen con cui vengono posti i fondamenti dell’economia ecologica - le Nazioni
Unite organizzano la Conferenza di Stoccolma dove, per la prima volta, viene adottata
la“Dichiarazione dell’uomo rispetto all’ambiente”, nella quale le generazioni future
vengono riconosciute essere portatrici di diritti e la difesa e il miglioramento dell’ambiente
diventano un obiettivo imperativo.
Peraltro già Alfred Marshall, il padre del famoso piano che aiutò l’Europa a risollevarsi dopo la
seconda guerra mondiale, riteneva che l’economia fosse «un ramo della biologia in senso
ampio». L’economia classica, invece, in un sorta di “delirio di onnipotenza” è arrivata a pensare
di detenere la spiegazione del mondo, dichiarando che tutti i comportamenti umani devono
essere ridotti al comportamento razionale dell’uomo economico e che l’insieme delle scienze
fisiche devono essere al servizio della volontà dell’uomo di produrre in modo illimitato.
Obiettivo, invece, dell'economia ecologica è fondare il pensiero e la pratica economica nella
realtà delle leggi fisiche e dei sistemi biologici, essendo il processo economico parte integrante
della biologia umana (Georgescu-Roegen).
E’ bene evidenziare come l’economia ecologica si differenzi dalla “economia dell’ambiente”, la
quale, al contrario, è ancora una disciplina strettamente interna all’economia standard, di cui
assume i principi e i vincoli sia teorici sia metodologici. L’economia dell’ambiente praticata
essenzialmente da economisti, a differenza dell’economia ecologica decisamente
interdisciplinare, rappresenta quella branca dell’economia classica che affronta la questione
del fallimento di mercato nel trattare il problema delle esternalità ambientali, ossia di quegli
effetti di un’attività che influenzano positivamente o negativamente soggetti che non hanno
avuto alcun ruolo decisionale nell’attività stessa (Bresso).
Caratteristica dell’economia ecologica, invece, è quella di voler essere il luogo di intersezione
fra ricerca ecologica e ricerca economica, superando le distinzioni disciplinari e accettando il
modello della complessità a livello interdisciplinare. Oggi il “principio di interdipendenza”, che
meglio sarebbe definire con il termine di “equilibrio”, tra ambiti diversi, è ormai ampiamente
riconosciuto, non solo come rispondenza di legami casuali, ma come un processo che pone alla
base dell’economia ecologica definita anche “economia sostenibile” nuovi modelli di
comportamento condivisi, basati sul rispetto e sulla solidarietà tra singoli individui, le
comunità del presente e le comunità future.
Come bene ha sottolineato Herman Daly - che oltre ad essere considerato il padre
dell’espressione “sviluppo sostenibile” è l’autore di un testo Ecological Economics: principles
and applications da cui il pensiero economico non può più prescindere - quando l'espansione
dell'economia ha un impatto eccessivo sull'ecosistema, si inizia a sacrificare il “capitale
naturale”, sia quello di tipo abiotico, sia quello di tipo biotico, tradizionalmente considerato
meno importante del capitale prodotto dall’uomo e rappresentato da strade, fabbriche e
prodotti di ogni tipo. Si arriva, cioè, a una crescita diseconomica che produce "mali" più
rapidamente dei "beni", rendendoci tutti più poveri. Una volta oltrepassato il punto di
equilibrio, la crescita diviene stupida, senza senso nel breve termine, quanto insostenibile nel
lungo termine.
ANALISI MULTICRITERIA
E’ il 1998 quando un gruppo di economisti, Martinez-Alier, Munda, O’Neil, pubblica un articolo
sul numero 26 della rivista Ecological Economics dal titolo Weak comparabilitdy of values as a
foundation for ecological economics, al fine di analizzare i legami che esistono tra sistemi
ecologici e sistemi economici e proponendo sistemi di valutazione e parametri, non
esclusivamente di tipo monetario, in grado di indicare il benessere di un paese e dei suoi
abitanti.
Il tentativo non è di poco conto in quanto la crescente consapevolezza che il sistema che
sostiene la nostra vita ecologica globale è in pericolo ci costringe a capire come le scelte fatte,
nel breve termine sulla base di criteri locali, possono produrre, nel lungo termine, risultati
disastrosi a livello globale.
L’analisi dei tre economisti è, infatti, una dura critica al riduzionismo monetario e dimostra
come l’economia ecologica rifiuta il “paradigma della commensurabilità”, riconoscendo
l’esistenza della “incommensurabilità” tra aspetti economici e ambientali. In pratica, i criteri di
valutazione non possono essere riportati ad un unico comune denominatore, come il denaro o
l’energia per valutare le decisioni che riguardano l’economia ecologica, la quale si fonda su
differenti tipi di capitale, quali il capitale naturale, il capitale prodotto dall’uomo, il capitale
simbolico. Non si fonda, cioè, esclusivamente sul capitale finanziario e sulle materie prime.
I tre economisti hanno puntato il dito sul fatto che l’ambiente in senso lato, ma si potrebbe dire
il nostro “stile di vita”, è un luogo, un terreno di conflitti tra valori ed interessi diversi che
nascono da visioni differenti
Le analisi di valutazione economica, collegate al concetto di economia ecologica, si sono così
indirizzate a dimostrare come il tentativo di misurare i costi e i benefici sociali in termini
monetari o di valore di mercato è fallito. I costi e i benefici sociali, inclusi quelli di natura
simbolica come possono essere i benefici culturali, vanno considerati come un fenomeno extra
mercato: sono nati e derivano dalla società nel complesso, sono eterogenei e non possono
essere confrontati quantitativamente tra loro e con gli altri nemmeno in linea di principio
Da queste considerazioni, teorizzate agli inizi degli anni ‘70 si sono sviluppate alla fine degli
anni ‘90 rifacendosi anche ai temi di Daly su “sostenibilità debole” e “sostenibilità forte”, le
idee di “commensurabilità forte” e di “commensurabilità debole” e di conseguenza le
definizioni di “comparabilità forte” e di “comparabilità debole”.
E’ chiaro come la tradizionale analisi costi-benefici, impropriamente usata sia in ambito
ambientale che in ambito culturale e sociale, si basa sull’assunzione di una comparabilità forte
mentre la comparabilità debole può essere considerata la piattaforma concettuale su cui
fondare la “valutazione multicriteria”, nella quale sono presenti parametri “diversi” e non
esclusivamente parametri di tipo monetario.
Appare, perciò, indispensabile utilizzare tecniche di analisi in grado di chiarire la complessità
dei diversi fattori economici, fisici, ambientali,sociali culturali, buona parte dei quali non sono
misurabili in termini economici.
L’ecologia economica si presenta, così, come un concerto di più discipline, in cui occorre
leggere l’ecosistema come un sistema riflessivo complesso. In parole più semplici l’economia
ecologica afferma la necessità dell’interdisciplinarietà sia nel momento dell’analisi sia quando
bisogna agire a livello decisionale. Quella stessa interdisciplinarietà che è alla base della
ricerca che i governi più illuminati si stanno operando per individuare quei parametri capaci
di misurare il livello di “felicità” e che ricorda quel godimento della vita indicato da GerogescuRoegen come obiettivo dei processi economici.
PARALLELISMI FRA AMBIENTE BIOLOGICO E AMBIENTE CULTURALE
Parafrasando Joseph Schumpeter il quale, nel vedere un’analogia fra lo sviluppo economico e
l’evoluzione biologica, sosteneva. già nel 1912, che le innovazioni sono per il processo
economico ciò che le mutazioni sono per l’evoluzione biologica, potremmo dire che,
paragonando il sistema culturale a quello biologico, il “concetto di sostenibilità culturale”, se
venisse accettato e riconosciuto, potrebbe avere gli stessi effetti, all’interno del sistema
sociale, di una mutazione biologica. In quanto potrebbe essere considerato un “elemento
strutturale” nella costruzione di un nuovo modello di (s)viluppo – sine viluppo-, ossia di un
nuovo modo per trovare il filo conduttore del nostro futuro.
Riprendendo l’approccio di Georgescu-Roegen, secondo cui tutte le pratiche si fondano nella
realtà delle leggi fisiche e dei sistemi biologici, non sono poche le “similitudini” che si possono
rintracciare tra il sistema ambientale e quello culturale. Alla “biodiversità,” una parola chiave
nella sfera dell’approccio ambientale, si potrebbe abbinare il concetto di “multiculturalità”.
Alla “monocoltura” in campo alimentare, che per definizione è assenza di diversità,
corrisponde in campo culturale la volontà di imporre una cultura ufficiale, evitando di dare
spazio alle espressioni delle minoranze. Alle “estinzioni” di numerose specie vegetali ed
animali corrisponde l’estinzione di lingue, dialetti, danze, tradizioni, saperi artigianali.
Al “surriscaldamento” del pianeta corrisponde il surriscaldamento delle relazioni a
livello globale che si esplicita con la piaga dei conflitti e del terrorismo. All’ “inquinamento”
dell’aria corrisponde l’inquinamento delle relazioni interpersonali in termini di incertezza del
futuro e di insicurezza sociale ed esistenziale. Alla “riduzione” delle foreste corrisponde la
riduzione degli spazi di incontro e di socializzazione, intesi come possibilità di ridefinizione
costante dei diritti e dei doveri del cittadino. Alle “criticità” conseguenti l’uso di biotecnologie
quando interagiscono con la sfera privata dell’individuo, corrispondono le criticità
conseguenti l’uso di tecnologie virtuali se applicate alle relazioni sociali ed interpersonali.
DEFINIZIONE AMBIENTE BIOLOGICO E AMBIENTE CULTURALE
Ancora, l’ “ambiente biologico” è l’insieme di “risorse” indispensabili per garantire la vita di
tutte le specie viventi, animali e vegetali, semplici e complesse, presenti sul pianeta Terra
mentre l’ “ambiente culturale” può essere definito come l’insieme delle “relazioni”
indispensabili per garantire la creatività e lo scambio fra gli esseri umani, e dunque la vita.
Come in uno stesso ambiente biologico, differenti specie possono convivere in modi diversi lo insegnano i vari modelli di vita di mutua simbiosi-, così in uno stesso ambiente culturale
soggetti appartenenti a etnie diverse possono interagire e scambiarsi modelli di vita e visioni
dissimili – lo insegnano gli esempi riusciti di interculturalità. E se appare fondante per
l’ambiente biologico il concetto di habitat, inteso come topos geografico caratterizzato da
particolari caratteristiche che consentono la vita di plurime specie, così per l’ambiente
culturale è fondante il concetto di “contesto”, da cum-textum, tessuto insieme, all’interno del
quale gli individui, con abitudini e usi diversi, possono interagire gli uni con gli altri, tessendo
relazioni e scambi.
E se l’ambiente terrestre è la somma di tutti gli habitat ambientali e la sparizione di una
singola specie porta un danno all’habitat o all’intero eco-sistema, così la distruzione di una
qualunque espressione simbolica contribuisce a sgranare la trama e l’ordito del contesto,
sfilacciando e danneggiando l’intero sistema relazionale. E se in ecologia lo studio degli
ecosistemi naturali dimostra che essi invariabilmente smettono di crescere quando, esaurite
le risorse disponibili, non hanno più la possibilità di rigenerarsi, le inquietudini sociali che
stiamo vivendo a livello globale sono la dimostrazione che lo stesso può accadere all’interno
di un sistema sociale che non riuscendo più ad attingere alle risorse culturali, per potersi
rigenerare inizia a collassare.
I PROCESSI CULTURALI SONO NECESSARI PER GENERARE I VALORI
In questa prospettiva, dunque, in cui tutti i “processi del reale” possono essere confrontati ai
“processi biologici”, in un’ottica gerarchica di complementarietà, anche i “processi culturali”
possono essere assimilati a quelli biologici, con le stesse modalità di attivazione e le stesse
finalità. Come hanno spiegato in modo mirabile un architetto, Carlo Pulselli, e uno scienziato,
Enzo Tiezzi, - Città fuori dal caos. La sostenibilità dei sistemi urbani -tutti i processi naturali e
antropici hanno una matrice comune e sono tra di loro interconnessi. Proponendo uno
sguardo transdisciplinare, i due ricercatori hanno accostato i processi biologici che operano
nel mondo materiale, con i processi culturali, attivi nel mondo del simbolico, ossia nella
dimensione del significato. Constatando come i sistemi biologici si scambiano molecole nelle
reti di processi chimici e i sistemi culturali si scambiano idee e informazioni nelle reti di
comunicazione, i due ricercatori hanno proposto di definire i “processi culturali” come
“processi di comunicazione” attivati da reti sociali e necessari per gestire e incanalare i
comportamenti degli individui. Come una rete biologica produce e sostiene un confine
materiale che le dà una specifica identità, uno specifico modello di comportamento, così una
rete sociale produce e sostiene un confine culturale che in modo simile alla rete biologica dà
un’identità, produce per il sistema sociale, ossia per la comunità umana, modelli di
comportamento condivisi, ossia “valori”
Per un sistema sociale, il riuscire a determinare un sistema di “valori” non è una sfida da poco
in quanto significa attivare processi mentali, offrire possibilità di accesso a forme di
conoscenza, sperimentare modi di apprendimento, gestire l’evoluzione di stili di vita e
innescare percorsi virtuosi. Significa essere vitale.
I processi culturali nel loro essere processi di comunicazione attivi all’interno di una rete
sociale sono in grado di formare cicli di feedback che finiscono per produrre un sistema di
credenze, di spiegazioni e di valori condivisi, ossia un comune orizzonte di significato noto
con il nome di “cultura”, continuamente alimentato da ulteriori comunicazioni che si
producono all’interno del quotidiano processo del divenire. Grazie a questo continuo processo
di comunicazione condivisa i singoli individui acquistano la propria identità di membri della
rete sociale la quale, simile alla rete biologica, genera i propri confini per superarli in
continuazione.
I processi culturali, basandosi sulla forza che posseggono le rappresentazioni del simbolico, si
caratterizzano proprio per l’intrinseca capacità di creare legami tra una pluralità di soggetti,
anche quando i soggetti sono caratterizzati da una specifica diversità e, potendo essere
considerati di tipo “forte” per la capacità di coinvolgere la sfera dell’identità degli individui, si
rivelano in grado di risolvere problematiche ambientali, sociali oltre che alleviare la criticità
economica.
Spesso, invece, al termine “cultura” viene associato l’aggettivo “imponderabile”, senza peso, il
che equivale a dire che la cultura è incapace di creare legami. Niente, invece, può essere
considerato imponderabile, nulla può essere considerato senza peso: come dimostra il
principio di entropia e la fisica atomica i legami a livello molecolare possono essere allentati
ma non annullati. E lo stesso accade a livello sociale. Senza legami, a livello molecolare come a
livello sociale, non può esistere realtà, non può esistere società.
Volendo sintetizzare, la finalità della cultura è l’individuazione di valori, ossia di quei criteri
di valutazione che riescono a fare accettare o rifiutare modelli comportamento, utilizzando un
sistema di credenze e di rappresentazioni simboliche le più svariate. Valori che non sono
immutabili - come non è immutabile il divenire della vita - in quanto possono essere condivisi
o modificati nel corso del tempo da quella stessa generazione che li ha creati o dalla
generazione successiva. Un sistema di valori è comunque indispensabile se non si vuole
arrivare all’entropia del sistema sociale. Bisogna avere il coraggio di riconoscere che la
dimensione del simbolico, affiorando come prodotto e come condizione degli “scambi” o
“interazioni” di cui è fatta la vita sociale, non è una mera appendice alle capacità di
sopravvivenza acquisite evolutivamente dall’uomo, bensì una delle modalità mediante cui gli
uomini sopravvivono.
UNA NUOVA CIVILTA’ SOCIALE
Un mondo e con esso uno stile di vita, sembrano essere irrimediabilmente scomparsi. La posta
in gioco è la nascita di una nuova “civiltà sociale”.
Davanti a questo scenario globale dove il lavoro non può più essere garantito nelle forme
finora conosciute e centinaia di migliaia di persone non hanno un’occupazione, si deve
cominciare a riflettere sul “diritto alla socialità”. Se il diritto alla socialità, che si esplica nella
vita relazionale, non può più essere primariamente collegato al tempo di lavoro, così come è
avvenuto nella società moderna ed industriale nel corso di tutto il Novecento, sarà, per
esempio, necessario trovare nuove strade. La frammentazione della giornata lavorativa
sociale, la precarizzazione dei rapporti di lavoro dove il “sistema impresa” paga frammenti di
tempo precario, la difficoltà di trovare un riferimento in un committente quando il referente
spesso non è più un imprenditore ma un’agenzia che fornisce forza lavoro a imprenditori
diversi, rendono necessario ripensare il concetto di erogazione del lavoro come momento e
strumento in cui si possa creare civiltà sociale. Allora, la sostenibilità culturale, ossia la
possibilità per una società di riuscire a rigenerare i processi culturali, può essere il
presupposto per la creazione di una civiltà sociale, fondata sull’economia del simbolico.
Londra, Dusseldorf, Berlino, Roma, Genova, Torino, Parigi, Barcellona, Linz, Bilbao, Liverpool,
Manchester sono alcuni esempi di città in cui gli amministratori hanno affidato alla
“progettazione culturale strategica” la possibilità di essere volano di un nuovo processo di
sviluppo, basato sull’economia del simbolico.
E volendosi rifare, per similitudine al bene primario di questo secolo occorre produrre un
tipo particolare di energia. Occorre produrre energia simbolica.
L’energia è una grandezza attiva che fa muovere le cose e le trasforma: è una proprietà della
materia e dello spazio, una sorta di carburante o di trazione integrata che ha la capacità di
creare, muovere o trasformare le cose.
L’energia, insegnano i fisici, può manifestarsi come una variazione di altezza o di velocità,
sotto forme di onde elettromagnetiche che si propagano o di vibrazioni atomiche responsabili
del calore. L’energia che alimenta il nostro corpo deriva dalla combustione di alcune sostanze
chimiche, dalla trasformazione di molecole di un certo tipo in altre di tipo diverso. Quella che
alimenta la nostra mente, e con essa la capacità di generare visioni, deve essere attivata dai
processi mentali, i quali a loro volta sono alimentati dai processi culturali. E’ dunque
un’energia, quella simbolica, la cui importanza per la sopravvivenza della specie può essere
considerata, anche solo in modo intuitivo, come vitale.
COME PUÒ UNA CITTÀ O UN TERRITORIO DIVENTARE ENERGETICAMENTE SIMBOLICO
A indicare una possibile modalità di produzione di questo particolare tipo di energia in grado
di alimentare l’economia simbolica di un territorio è la metodologia offerta dal cultural
planning. Nel 1979, nella prima definizione offerta dall’economista americano Harvey Perloff,
il cultural planning viene indicato come un processo per analizzare e sviluppare il territorio
partendo dall’analisi degli assets culturali, ossia di quelle eccellenze – materiali e immateriali,
visibili e invisibili- attinenti il patrimonio culturale. Oggi, alla luce dell’importanza che i
processi culturali stanno assumendo nella nostra società il cultural planning può essere
definito come un “design dei processi simbolici del territorio”, per il cui tramite si fa operativa
la sostenibilità culturale. E può essere considerato uno strumento concreto per le “scienze del
territorio” in quanto, nell’assumere una funzione ricognitiva e interpretativa dell’esistente, ha
la capacità di cogliere gli elementi e le dinamiche culturali dei sistemi sociali e territoriali.
Descrivendo un insieme di concetti e pratiche, il cultural planning è in grado di indicare la
direzione, già a livello strategico, per farli interagire, incentivando un sistema di relazioni,
promuovendo la formazione di un pensiero, di una visione, utile e, forse sarebbe meglio dire
indispensabile per il governo del territorio.
Il territorio, organizzato sia in termini di spazio che di relazioni immateriali, deve far fronte ai
recenti cambiamenti -rigenerazione urbana, crisi economica, ondate immigratorie- che lo
portano a considerare l’importanza di ragionare in termini di diritti e di cittadinanza
culturale, lì dove nuove relazioni tra individui e tra comunità possono venire create,
modificate e distrutte.
Dai primi anni settanta nelle società economiche occidentali i processi culturali sono stati
considerati un fattore strategico di sviluppo territoriale, in grado di produrre valore
economico e sociale. Molte città europee, nei processi di rigenerazione urbana, hanno fatto
perno sulle industrie culturali e creative per attivare situazioni di cambiamento, in un
momento in cui l’intera società europea stava subendo profonde trasformazioni nelle
strutture sociali, nei valori, nelle economie e nelle politiche sociali: i processi culturali che
all’inizio hanno determinato un cambiamento nella sfera economica, culturale e sociale.
Anche l’Unione europea ha percepito questo cambiamento e, iniziando a considerare i
processi culturali come strategici per il lo sviluppo del territorio, ha inventato una strategia e
un programma comunitario European Capitals of Culture(ECoC) nominando Atene, nel 1985,
la prima “capitale europea della cultura”.
PIANO STRATEGICO CULTURALE
Creare un programma culturale, “in un’ottica di piano strategico in grado di coinvolgere il
governo del territorio”, è un processo dove la parola improvvisazione è bandita. Significa
riuscire a trovare un equilibrio fra la visione artistica e gli interessi politici, tra la cultura
tradizionale e quella contemporanea, tra una serie di eventi di alto profilo con iniziative a
carattere più locale, tra il centro della città con i luoghi della periferia, tra le espressioni di
arte “colta” con la cultura popolare, tra le istituzioni culturali consolidate e i gruppi
indipendenti e gli artisti, tra ciò che può attrarre i turisti e quello che può attrarre la
popolazione locale, tra i personaggi di fama internazionale e i talenti locali, tra le attività usali
e con quelle maggiormente contemporanee e innovative, tra i progetti professionali e quelli di
una comunità amatoriale.
Significa seguire una metodologia.
Sicuramente i fattori di successo di un piano strategico culturale risiedono nella capacità di
agire in un’ottica di contesto territoriale con un programma che si adatta al proprio profilo. I
confini territoriali possono superare la frontiera urbana ed inglobare le periferie
metropolitane e le regioni circostanti, se non addirittura quei territori che per la situazione
geografica particolare sono considerati transfrontalieri.
GOVERNANCE CULTURALE E CAMPO CULTURALE
Per cogliere l’importanza che i “piani strategici culturali” potranno avere nell’ambito delle
nuove policies. basterebbe introdurre nella descrizione delle dinamiche culturali il concetto di
“campo culturale” (Bourdieu)
In fisica, i campi sono il modo con cui le forze vengono trasmesse a distanza e l’elettricità e il
magnetismo sono campi al pari della gravitazione. Il campo elettrico, così come quello
magnetico, è un campo di natura vettoriale, esprime cioè una direzione e un verso dal
momento che il suo effetto è quello di produrre e trasmettere “forza” ai corpi, ai solidi o alle
particelle che si trovano al proprio interno. Per analogia il “campo culturale” potrebbe essere
definito come il modo con cui “l’effetto” provocato da un processo di natura simbolica può
trasmettersi all’interno del corpo sociale.
La “teoria dei campi” è un superamento del meccanicismo che sin dal secolo XVII era alla base
della fisica. Se per Cartesio il movimento poteva realizzarsi solo per contatto, R.G. Boscovich,
fondatore del dinamismo, per superare le difficoltà dell’azione di contatto fra i corpi, suppose
che gli atomi fossero sedi di forze che attraevano e respingevano. Allo stesso modo il concetto
di “campo culturale” vuole identificare e definire “la cultura” come un insieme di processi,
interazioni, forze che attraggono, respingono o seguono comunque una certa direzione. La
“forza culturale”, definibile come una spinta attrattiva o repulsiva che provoca una variazione
del comportamento del soggetto o di una comunità, viene originata dagli eventi culturali ed è
al pari delle forze fisiche “vettoriale”, possiede cioè una direzione.
Questa premessa intorno all’assunto di “campo culturale” per spiegare come il tema della
governance è un tema centrale per un’area metropolitana che decide di sviluppare piani
strategici culturali, in quanto si tratta di sapere governare la nave. Lo ricorda l’etimo greco
kybernan, da kybernos-capitano, kybe-testa. Si tratta di sapere dove andare quando si decide
di attivare forze di natura simbolica, in fieri assolutamente dirompenti. Compito della
governance culturale è definire gli obiettivi, assicurare il potere e verificare le performance,
ma anche far sì che il gruppo di gestione sia stabile e vi sia una guida, una leadership.
Insomma, quando si utilizzano all’interno del governo del territorio processi di natura
simbolica occorre sapere dove andare, e cosa si vuole raggiungere.
Appare, ormai, evidente come una “politica per la cultura” deve entrare a far parte delle strategie
nazionali nel quadro più generale della programmazione economica e sociale del Paese,
coinvolgendo problematiche che vanno ben al di là della salvaguardia del patrimonio culturale e che
concernono l’università e la ricerca, le politiche per l’occupazione, le politiche di sostegno per le
imprese e le associazioni di volontariato, le politiche per l’integrazione. Tanto che si possono
cominciare a classificare i progetti in “magneti”, se hanno come obiettivo principale quello di
aumentare una fruizione del territorio e del suo patrimonio ambientale culturale,e “generativi” se
l’attenzione sul potere trasformativo della cultura non si concentra soltanto sul sistema di
produzione culturale del territorio ma anche sull’intero sistema delle relazioni sociali. In questo
caso la cultura non è solo una semplice occasione di intrattenimento.
Alla luce di queste considerazioni può apparire come una conseguenza logica la necessità di
inserire all’interno del piano di governo del territorio, identificandolo e attuandolo nella
normale attività di policy, un nuovo strumento: il “piano strategico culturale”. Questa
conclusione, se da una parte riconosce l’espressione fattuale della “sostenibilità culturale”,
ossia il diritto alla generazione e rigenerazione dei processi culturali all’interno di una
comunità, dall’altra diventa espressione di quel concetto di “strumentalismo culturale”, di
matrice anglosassone, che si rifà alla dottrina filosofica elaborata dallo statunitense J. Dewey,
secondo la quale il pensiero non ha solo la capacità di registrare e rispecchiare la realtà quale
è, ma è anche in grado di operare attivamente su di essa per modificarla e migliorarla.
In questa prospettiva, quando ci si riferisce allo “strumentalismo culturale” si fa esplicito
riferimento al fatto che i processi culturali diventano strumento per raggiungere altri
obiettivi: tradizionalmente ci si riferisce alla possibilità che possono ridare percorsi di senso,
che possono creare inclusione e coesione sociale, che possono essere strumento identificare
credi e aspirazioni di una comunità.
Il concetto di strumentalismo culturale è servito, infatti a “democratizzare “ le espressioni
culturali non lasciandole confinate ad una élite, come è stato per il passato, ma riuscendole a
farle uscire dai confini dell’esclusività. E’ riuscito a ricucire lo scisma e la divisione che si è
consumata tra il concetto di “arte” e quello di “cultura”, permettendo di far uscire dalla logica
del mecenatismo politici e progettisti culturali per promuovere strategie alternative,
finalizzate a una nuova concezione di marketing del territorio. Riuscendo, soprattutto, e
questo è successo soprattutto nei paesi a matrice anglosassone, a rafforzare il legame tra
politiche culturali e il cultural planning, ossia la possibilità di costruire una visione strategica
e integrata dei processi culturali con i piani di sviluppo del territorio.
CONCLUSIONI
Alcuni analisti culturali facendo perno sul concetto di sostenibilità culturale, sostengono che il
concetto di sviluppo sostenibile è strettamente correlato, co-dependent, con quello di sviluppo
culturale, visto che ormai l’ignoranza è un costo che la società non può più permettersi. Infatti
si possono identificare “tre” aspetti del termine cultura: i valori e le aspirazioni che
contribuiscono a creare il quadro di riferimento di una società; le pratiche e i media culturali
attraverso cui la cultura si attualizza, diventa realtà; e le manifestazioni visibili e gli artefatti
delle pratiche culturali ” (Hawkes).
Questo approccio oltre a fare considerare la sostenibilità culturale il quarto pilastro su cui si
fonda il modello sviluppo, permetterebbe alle politiche culturali di considerarsi parte
integrante in quello che è stato definito lifestyle culture o eco-culture. L’idea di eco-culture
sottolinea una pervasità della coscienza culturale a livello globale su temi ambientali oltre ad
una adesione alla cultura espressa dal territorio che caratterizza qualunque società. E’ come
se una sorta di contaminazione culturale quotidiana, di apprendimento continuo possa
riuscire non solo a fare da volano alla produttività del sistema ma ad offrire quei percorsi di
senso che ogni individuo cerca per la propria vita.
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