L`abc del nostro sistema economico

L’abc del nostro sistema economico.
Il nostro sistema economico si fonda sul mercato, il quale è il luogo reale e virtuale ove
vengono scambiate le merci (beni e servizi), ma è anche l’insieme della domanda e
dell’offerta, ossia l’insieme di acquirenti e venditori. In altre parole, il mercato è il punto di
incontro di domanda e offerta.
Gli acquirenti (o compratori) includono i consumatori, che acquistano beni e servizi per
uso personale, e le imprese, che si dividono in: a) produttrici, le quali comprano il lavoro di
personale dipendente, capitale e materie prime per produrre beni e servizi; b) distributrici,
che acquistano dalle prime i prodotti per rivenderli ai consumatori (o ad altre imprese di
distribuzione più piccole).
I venditori includono le imprese produttrici, che vendono i beni ed i servizi da loro prodotti,
le imprese distributrici, che acquistano dai produttori le merci e le rivendono, i lavoratori
(autonomi e dipendenti), che vendono i propri servizi, ed i proprietari di risorse produttive,
che vendono beni immobili o di altro genere.
I venditori di beni e servizi ricercano un profitto. Questo è il vero motore della produzione
di merci, ossia il fatto che le imprese producono per accumulare ricchezza. Per riuscire a
incrementare i profitti e al tempo stesso sopravvivere alla concorrenza, nel nostro modello
di società le imprese sono spinte a fare economie di scala, ovvero a ottenere rendimenti
di scala crescenti. Un esempio: più sono grandi gli input da acquistare, più sarà facile per
l’impresa produttrice spuntare un prezzo minore per la singola unità acquistata. Chi
compra regolarmente mille tonnellate di farina dallo stesso fornitore paga in genere la
singola tonnellata molto meno di chi ne acquista dieci. Svariati sono i vantaggi del fare
economie di scala: l’impresa realizza maggiori economie nel disporre macchinari,
fabbricati e mano d’opera, possiede una più alta possibilità di meccanizzare i
procedimenti, ha maggiori incentivi ad innovare, ha migliori facilitazioni di acquisto e di
vendita, riesce a realizzare una più vasta varietà di prodotti.
Si comprende allora da dove nasce per le imprese la spinta ad accrescere le proprie
dimensioni di produzione (o di distribuzione). Inoltre, maggiore sarà la grandezza di
produzione dell’impresa, più rilevante sarà il suo peso sul mercato, ossia la sua capacità di
controllarlo.
Per aumentare i profitti, l’impresa tende a non considerare i costi sociali ed ambientali
che lo sviluppo quantitativo della produzione comporta. Sino a non molto tempo fa, la
stessa economia teorica, in quasi tutte le sue declinazioni, considerava i costi sociali ed
ambientali come estranei ai modelli concettuali che analizzavano (o tentavano di
analizzare) le realtà economiche.
Lo sviluppo, inteso come crescita quantitativa continua dell’economia, viene giustificato
con una mescolanza da un lato di fede nella scienza e nella tecnologia, intese come mezzi
per assicurarsi il completo dominio sulla natura, e dall’altro di certezza nelle virtù
benefiche dell’accumulazione della ricchezza. Negli anni cinquanta del ventesimo secolo
nacque una nuova concezione dello sviluppo economico, considerato come crescita
quantitativa del reddito pro-capite, ma anche qualitativa: migliori condizioni sociali,
culturali, lavorative, ambientali.
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Il prodotto interno lordo (PIL) veniva tradizionalmente considerato come il più importante
indicatore dello sviluppo economico (veniva nella teoria economica; viene purtroppo
ancora oggi considerato così nei commenti politici e dei media).
Il PIL può misurare la capacità produttiva di un’economia, ma non riesce a valutare il
grado di benessere e di qualità della vita della popolazione. Il PIL rappresenta il risultato
finale dell’attività produttiva svolta dalle imprese e dalle amministrazioni pubbliche nel
territorio di un paese. Corrisponde insomma al valore della produzione totale di beni e
servizi dell’economia.
A partire dal 1990 l’organizzazione delle Nazioni Unite ha costruito un indicatore
composito, che è stato chiamato indice di sviluppo umano. Esso tiene conto di tre soli
fattori: 1) il livello di sanità, rappresentato dalla speranza di vita alla nascita; 2) il livello di
istruzione, rappresentato dall’indice di alfabetismo della popolazione adulta e della media
del numero di anni di studi; 3) il reddito pro-capite.
E’ importante tenere presente che il PIL tiene conto soltanto delle transazioni in denaro,
ossia solamente della compera e vendita di merci, e trascura tutte quelle a titolo gratuito:
non considera quindi le prestazioni nell’ambito familiare e quelle attuate dal volontariato.
Inoltre il PIL tratta tutte le transazioni come fossero positive. Questo significa che
paradossalmente le attività economiche legate alla criminalità entrano nel computo
positivo, mentre non vengono considerati i danni provocati dall’inquinamento o dalle
catastrofi naturali. Facciamo un esempio: se acquisti un'auto il PIL cresce, se rimani fermo
in coda e consumi più benzina il PIL cresce, se ti capita un incidente stradale il PIL cresce,
se sei ospedalizzato il PIL cresce, se muori il PIL cresce. Insomma, il PIL non fa
distinzione tra attività che migliorano la qualità della vita e quelle che la peggiorano.
Alcuni economisti recentemente hanno proposto l’indicatore del progresso reale, come
misuratore più preciso dell'aumento della qualità della vita. Esso introduce la distinzione
tra spese positive, perché aumentano il benessere, come quelle per beni e servizi, e
negative, quali ad esempio i costi sociali ed ambientali legati ad incidenti stradali,
criminalità ed inquinamento.
Un altro indicatore proposto è la percezione che gli individui hanno della propria vita e del
grado di soddisfazione che provano per essa, quello che è stato anche chiamato
indicatore della felicità delle persone.
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