Tre agguati: all`autore, al mondo, alla tragedia

INTRODUZIONE
Tre agguati: all’autore, al mondo, alla tragedia
Il presente saggio propone un’analisi di parte del macrotesto teatrale che si è venuto formando nel corso del Novecento sulla base delle
vicende della stirpe degli Atridi nelle loro specifiche incarnazioni letterarie, così come ci sono state presentate dalle rielaborazioni dei tre
tragici greci. Opere come l’Orestea di Eschilo, l’Elettra di Sofocle,
l’Elettra e l’Oreste di Euripide, incentrate soprattutto sulle figure dei
due fratelli cui spetta l’onere di vendicare il proditorio assassinio del
padre Agamennone, hanno infatti nel corso dei secoli stimolato numerosi rifacimenti e hanno costituito una sempre nuova sfida interpretativa per chi con esse sceglieva di cimentarsi.
Nel secolo scorso, quando tale processo generativo sembra assumere particolare densità, autori come Hofmannsthal, Sartre, Yourcenar,
O’Neill, Pasolini e altri hanno deciso di confrontarsi con questa tradizione offrendo un importante esempio di ricezione di un testo classico
in epoca contemporanea e una dimostrazione di come le caratteristiche
di universalità e di atemporalità di certe opere possano fare di queste
ultime ricettacolo di sempre nuovi valori, di nuove idee care
all’immaginario dei più diversi autori e pertinenti al contesto socio–
culturale in cui questi si collocano. La ricerca che sto presentando si
muove all’interno di un orizzonte europeo, ad eccezione dell’opera di
O’Neill che estende il pur sempre limitato raggio di azione ad un ambito più propriamente occidentale.
Considerato lo statuto incerto della disciplina nell’alveo della quale
si situa il presente lavoro e la varietà di tendenze e filoni di ricerca che
13
14
Introduzione
sembrano spesso forzatamente convivere sotto la medesima etichetta
di Letterature comparate o Letteratura generale1 — dallo studio dei
rapporti tra le diverse tradizioni letterarie nazionali alla teoria e storia
dei generi letterari, dalle relazioni tra i diversi codici della comunicazione culturale (letteratura, cinema, musica, arti figurative) al multiculturalismo — è forse opportuno in questa sede tracciare con quanta
più chiarezza possibile i criteri metodologici, procedendo inizialmente
per negazione, in modo da restringere progressivamente il campo e i
modi della loro applicazione.
Questa ricerca non si occupa di mito, uno dei termini culturali più
complessi e più carichi di risonanze alle quali non corrisponde sempre
un senso univoco e preciso: dal significato tradizionale di «grande narrazione appartenente al patrimonio culturale delle società arcaiche,
proiezione dei desideri e delle angosce dell’uomo, memoria di una realtà molto arcaica sopravvissuta alla scomparsa delle religioni primitive, che ha fornito immagini e storie a tutta la tradizione letteraria»2 fino ad arrivare all’accezione peggiorativa di inganno e mistificazione
collettiva propugnata da Barthes nel saggio Mythologies3; tra i due estremi, a complicare le cose, una diffusa tendenza, specie da parte della critica francese, a sovrapporre “tema” a “mito”, coadiuvata dalle ricerche condotte da Mauron nell’ambito della critica psicanalitica col
suo “mito personale”, e ancor più dai modelli dell’antropologia culturale di Mircea Eliade, nonché la nascita di nuovi termini — sempre di
conio francese — per indicare le tendenze critiche che si sviluppano
intorno al concetto di mito: «mythanalyse» e «mythocritique»4.
Malgrado quest’ultimo sia l’ambito di studio all’interno del quale il
comparatista Pierre Brunel colloca il suo saggio Le mythe d’Électre5,
1
La dicitura “Letteratura generale”, oltre a rendere bene l’idea che ci si occupi dello studio delle letterature su base non strettamente nazionale, presenta il vantaggio di non poggiare
troppo l’accento sulla prassi comparativa, a ben vedere propria anche di uno studio su base
solo esclusivamente nazionale.
2
R. CESERANI, Guida allo studio della letteratura, Laterza, Roma–Bari 1999, p. 602.
3
R. BARTHES, Mythologies, Éditions du Seuil, Paris 1957; trad. it. Miti d’oggi, Einaudi,
Torino 1975.
4
Per una delineazione dei concetti suggeriti dai due neologismi si veda P. Brunel,
Mythocritique. Théorie et parcours, Puf, Paris 1992, pp. 38–55.
5
P. BRUNEL, Le mythe d’Électre, Librairie Armand Colin, Paris 1971 [Honoré Champion,
Paris 1995].
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15
che ad un primo sguardo potrebbe sembrare affine al presente lavoro
quanto ad argomento e impostazione, chi volesse applicare meccanicamente la proprietà transitiva, collocando gli scritti che seguiranno
nell’alveo della mitocritica, trascurerebbe una differenza di impostazione che, se pur non sempre rintracciabile all’interno dell’analisi dei
testi6, fa capo però a due diversi statuti epistemologici.
Il tipo di analisi che porta a considerare con particolare attenzione
gli “elementi mitici” presenti in un determinato testo, indicato da Pierre Brunel come base della mitocritica, dovrebbe, secondo lo studioso,
rinunciare ad una ricerca dell’origine del mito, che si perde nella maggior parte dei casi «nella notte dei tempi o nel non scritto», per avventurarsi in un altro tipo di operazione:
N’est–il pas tentant, alors, de substituer une perspective synchronique à la
traditionelle perspective diachronique, et de chercher, à la source du mythe,
non plus le modèle à partir duquel se constituera la longue série des imitations, mais — j’emploi volontairement un mot neutre — le «schème» qui
donne son impulsion au mythe, s’il est vrai que le mythe peut se définir
comme «un système dynamique de symboles, d’archétypes et de schèmes
[…] qui, sous l’impulsion d’un schème, tend à se composer en récit»7? Ce
schème peut être un archétype, au sens jungien du terme, un relation psychanalytique, un conflit sociologiques où religieux, ecc. […]. La fortune, et par
conséquent la fortune littéraire d’un mythe, s’expliquera aisément par la permanence de tel archétype dans l’inconscient individuel ou collectif. La valeur
d’une version littéraire du mythe se jugera d’après son «authenticité», c’est–
8
à–dire la qualité de sa référence à cet archétype .
6
L’opera di Brunel sembra infatti presentare una significativa cesura tra una prima parte
teorica e una seconda parte dedicata principalmente all’analisi dei testi; cfr. infra, nota 12.
7
Brunel sta qui citando G. DURAND, Structures anthropologiques de l’imaginaire, Bordas, Paris 1969, p. 64.
8
P. BRUNEL, Mythocritique, cit., pp. 33–34: «Non è dunque allettante l’idea di sostituire
una prospettiva sincronica alla tradizionale prospettiva diacronica e di cercare, all’origine del
mito, non più il modello a partire dal quale si costituisce la lunga serie di imitazioni, ma —
impiego volutamente un termine neutro — lo “schema” che dà impulso al mito, se è vero che
il mito può definirsi come un “sistema dinamico di simboli, di archetipi e di schemi […] che,
sotto la spinta di uno schema, tende a strutturarsi in racconto”? Questo schema può essere un
archetipo nel senso junghiano del termine, un legame psicanalitico, un conflitto sociologico o
religioso, ecc. […]. La fortuna, e di conseguenza la fortuna letteraria di un mito, si spiegherà
agevolmente attraverso la permanenza di tale archetipo nell’inconscio individuale o collettivo.
Il valore di una versione letteraria del mito si giudicherà in base alla sua “autenticità”, vale a
dire la qualità del suo rifarsi a questo archetipo» (ove non venga indicata un’edizione italiana
di riferimento, le traduzioni sono a cura di chi scrive).
16
Introduzione
Nel caso delle vicende che coinvolgono Elettra e Oreste, questa
sorta di “forma semplice”9, di archetipo junghiano, punto di partenza
imprescindibile di un’analisi efficace, potrebbe essere individuato —
continua Brunel — nel conflitto tra principio maschile e femminile,
tra terra e cielo, nelle relazioni del bambino con la madre e col padre,
come molte interpretazioni di stampo freudiano si sono adoperate a
mettere in rilievo10. Ci si accorgerà così che le vicende dei due fratelli
si possono accomunare a quelle di Edipo, di Alcmeone, di Amleto e,
perché no, a quelle dell’eroe babilonese Marduk, in un vortice che di
generalizzazione in generalizzazione conduce inevitabilmente verso
l’indistinto.
Fatto questo passo, quale acquisizione in termini di conoscenza e
decodifica delle opere con cui di volta in volta siamo venuti in contatto potremmo vantare? Quale nuovo apporto avremmo dato alla lettura
di queste, sconfinando nel campo dell’antropologia o della psicanalisi? Oltre al piacere erudito di un collegamento inusitato sulla base di
una nozione quanto mai vaga, ben poco.
Qualcosa di più, ma in malam partem, si ottiene giudicando una
versione letteraria del mito in base all’aderenza o meno all’archetipo
di partenza: l’annullamento delle specificità individuali delle singole
opere che non può non essere considerato — a prescindere dalla buona fede dei proponenti — un deprezzamento pregiudiziale del prodotto artistico.
In vista di una piena valorizzazione dei significati e delle specificità
9
André Jolles è sovente chiamato in causa, alcune volte in coppia con Eliade, per introdurre l’idea di un rapporto tra il testo letterario e una struttura elementare di riferimento che
necessita, per sviluppare le sue virtualità, di una “forme actuelle” e in particolare di una “forme littéraire” (cfr. P. BRUNEL, Mythocritique, cit., pp. 13–26).
10
Mi riferisco, oltre che all’individuazione di un presunto “complesso di Elettra” da parte
di Jung, agli studi di ANDRÉ G REEN, Un Œil en trop. Le complexe d’Œdipe dans la tragédie,
Les Éditions de Minuit, Paris 1969, e di MELANIE KLEIN, Some reflections in “Oresteia”, in
EAD, Our adult world and other essays, Basic Books, New York 1963; trad. it., Alcune riflessioni sull’“Orestiade”, in EAD., Il nostro mondo adulto e altri saggi, Martinelli, Firenze
1972, pp. 47–81), cui si farà cenno nel capitolo dedicato al dramma Mourning becomes Electra di Eugène O’Neill, capitolo in cui ci si avvicinerà alla psicanalisi non tanto come paradigma interpretativo dell’opera, ma come sostanza ed elemento strutturale che informa di sé il
testo in questione.
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delle singole opere prese in analisi, si procederà tenendo costantemente conto delle tragedie di Eschilo Sofocle ed Euripide imperniate sulle
vicende dei due fratelli e mettendo queste a confronto — ora l’una ora
l’altra — con i testi prodotti il secolo scorso da autori che con esse
hanno deciso di misurarsi, non solo a livello di nuclei semantici, ma
della sistemazione che questi hanno ricevuto all’interno di una precisa
organizzazione codificata letterariamente, quella proposta appunto dai
tre tragici; ciò che premerà rilevare sono non tanto (e comunque non
solo) le invarianti rispetto al modello di partenza (che già a questo
livello non sarebbe più un archetipo nel senso già discusso del
termine), quanto i meccanismi che di volta in volta presiedono ad un
rinnovamento totale o parziale, ad una variazione nelle molteplici
ramificazioni genetiche rispetto agli elementi contenutistico–formali
proposti dall’ipotesto11. Non certo in nome di un ideale romantico di
originalità, a sua volta pregiudiziale, quanto perché si spera, facendo
luce sulle logiche sottese al riuso del filtro classico e sugli elementi
che hanno potuto influenzare o generare un dato rifacimento–
interpretazione, di contribuire ad una più profonda e rispettosa lettura
di opere da un lato collocate all’interno dei codici assiologici delle
culture che le hanno prodotte, dall’altro non pienamente decodificabili
lontano dal modello che le ha ispirate e condizionate.
Solo una volta poste queste premesse si potrebbe reintrodurre,
chiamando ancora in causa Brunel, il termine mito come facente parte
della nota locuzione di “mito letterario”12, per indicare dunque un nu11
Si veda a questo proposito G. PADUANO, Elettra e Amleto in «Paideia» LX (2005), pp.
222–223.
12
La locuzione, cara alla comparatistica degli anni Sessanta, è stata ripresa e trattata ampiamente sia nella Préface di P. B RUNEL al suo Dictionnaire des mythes litteraires (Editions
du Rocher, Monaco 1988), sia nel volume Mythe et littérature (a cura di P. BRUNEL, Presses
de l’Université de Paris–Sorbonne, Paris 1994) che raccoglie gli interventi di un convegno organizzato dal Centre de recherches en littérature comparée di Paris IV nel maggio del 1991.
L’attenzione di Brunel è rivolta comunque, anche in questi scritti, ad un approccio che cerchi
di individuare nel macrotesto studiato le invarianti rispetto al modello di partenza. Per quanto
concerne lo studio condotto da Brunel sul mito letterario di Elettra, si può rilevare una “felice
incoerenza” rispetto alle premesse di cui abbiamo parlato ed esemplificabile da
un’affermazione dell’autore tratta dall’introduzione al capitolo II del volume Le mythe
d’Électre, cit., p. 45, spartiacque tra la prima parte dedicata alla ricerca degli archetipi e delle
costanti mitiche e la vera e propria analisi dei testi: «Dans le précédent chapitre, j’ai tenté de
montrer que la quête de l’origine du mythe d’Électre ne conduisait qu’à des impasses à moins
de passer d’une perspective diachronique à une perspective achronique en recherchant des
18
Introduzione
cleo culturale costituito dall’insieme dei testi che si dipartono, organizzandosi in vari percorsi genetici, da un modello comune.
L’espressione ha il vantaggio, una volta dimostrata non praticabile in
questa sede secondo un’accezione che segnala la presenza di generici
elementi mitici all’interno dei testi letterari, di porre l’accento su un
percorso che avviene esclusivamente all’interno e secondo i meccanismi della creazione letteraria.
Rientrati nel dominio pieno della letteratura, in un ambito di pertinenza dell’intertestualità, occorre fare qualche precisazione su
quest’ultimo concetto assai inflazionato.
Il termine intertestualità, comparso per la prima volta nel 1966 in
un saggio di Julia Kristeva come una sorta di traduzione–adattamento
del concetto di “dialogismo” elaborato da Bacthin, veicolava l’idea,
quasi tautologica per scarso contenuto informativo, e peraltro da sempre familiare, secondo la quale ogni testo letterario è in rapporto con
altri testi che ingloba e trasforma nella sua costruzione:
tout texte se construit comme mosaïque de citation, tout texte est absorption
et transformation d’un autre texte. À la place de la notion d’intersubjectivité
s’installe celle d’intertextualité, et le langage poétique se lit au moins comme
13
double .
structures, qu’elles relèvent de l’anthropologie, de l’ethnologie ou de la psychanalyse. Mais la
diachronie reprend ses droits à partir du moment où l’on s’interesse à la destinée littéraire du
mythe»; («Nel precedente capitolo ho tentato di mostrare che la ricerca dell’origine del mito
di Elettra non conduceva che a difficoltà insuperabili, a meno di non passare da una prospettiva diacronica ad una acronica, alla ricerca di strutture, sia che esse pertengano
all’antropologia, all’etnologia oppure alla psicanalisi. Ma la diacronia si riappropria dei suoi
diritti nel momento in cui ci si interessa al destino letterario del mito»). Il momento
dell’indagine dei rapporti e delle filiazioni tra i testi è condotto da Brunel con sapienza e acume a partire da alcuni momenti topici e alcuni nuclei di senso (più espliciti nella prima delle
due edizioni) come il problema della giustizia, degli dèi, il momento del riconoscimento tra i
due fratelli — già presenti in effetti nei testi dei tre tragici — rispetto ai quali vengono lette
sia le costanti, sia le varianti apportate dagli ipertesti.
13
J. KRISTEVA, Le mot, le dialogue, le roman (1967), in Sémiotikè. Recherches pour une
sémanalyse, Éditions du Seuil, Paris 1969, pp. 144–145: «Ogni testo si costruisce come mosaico di citazioni, ogni testo è assorbimento e trasformazione di un altro testo. Al posto della
nozione di intersoggettività si instaura quella di intertestualità e il linguaggio poetico si legge
almeno come doppio».
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19
Se questa formulazione, nelle sue riprese successive14, ha acquistato il pregio di esprimere l’idea di un processo dinamico ingenerato
dall’ingresso di un nuovo testo all’interno del “sistema” letterario e
dalle relazioni che si instaurano tra i vari elementi di esso, superando
in tal modo la concezione più restrittiva di trasporto passivo di una
certa quantità di materiale da un testo all’altro, alla base di molti lavori di catalogazione delle fonti già tanto criticati dal Croce, ha però la
grande pecca di essere diventata una nozione dal forte connotato polemico in mano ad alcuni critici che si sono dati molto da fare per
spazzare via in un sol colpo i “mostri sacri”, antichi e intoccabili, della
critica letteraria: il senso, l’autore, il mondo.
La formulazione della Kristeva, fatta propria ben presto anche da
Roland Barthes, secondo il quale ogni testo è una nuova tessitura di
passate citazioni e un intertesto che contiene in sé altre opere di tutti i
tempi in forme più o meno riconoscibili15, veicolava, passando da
spunto operativo per l’analisi dei testi a vera e propria definizione di
letteratura, la pericolosa idea — foriera di altrettanto pericolose implicazioni — che fuori dal testo, in luogo del classico contesto storico–
sociale, non ci fossero altro che nuove opere nelle quali andava cercata ogni spiegazione e ogni possibilità di lettura; che ogni testo del sistema non appartiene ad un singolo soggetto creatore, custode del senso originario, ma, nei giochi delle infinite possibili relazioni e riprese,
è il testo stesso (o il lettore16) che di volta in volta determina il proprio
14
Si pensi alla sistemazione e classificazione operata da G. GENETTE nel saggio Palimpsestes. La littérature au second degré, Éditions du Seuil, Paris 1982; trad. it. Palinsesti. La
letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997 e al lavoro di A. COMPAGNON, La seconde
main, Éditions du Seuil, Paris 1979.
15
Si veda a tal proposito R. BARTHES, Théorie du texte, in Encyclopedia Universalis
1968–88, vol. XV, pp. 1014–1017.
16
Tale tendenza, diffusasi soprattutto in America negli ultimi decenni del secolo scorso
col nome di Reader–response Critiscism, si concentra sulla reazione del lettore alla lettura del
testo, sia in riferimento alle letture individuali che a quelle per gruppi, strati sociali e tipologie
di lettori; influenzata dalle teorie della scuola di Costanza, questo tipo di critica ha prestato
soprattutto attenzione ai processi interpretativi e di decodifica dei significati del testo messi in
atto dal lettore. Nella consapevolezza che esistono significative differenze interne, ricordiamo
fra i critici di maggior spicco ascrivibili all’ambito di questa tendenza Wolfang Iser, Michel
Riffaterre e Stanley Fish che nel suo saggio Is there a Text in this class? The authority of interpretative communities, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1980 (trad. it. C’è un
testo in questa classe?, Einaudi, Torino 1987), postula che il testo esista solo nelle varie lettu-
20
Introduzione
senso. Con l’idea di un senso univoco scompaiono in un sol colpo
l’autore nella sua individualità, la cui morte è stata lapidariamente decretata dal celebre saggio di Roland Barthes17, e l’idea che il testo letterario intrattenga a vari livelli relazioni con il mondo, innescando una
deriva critica che naufragherà presto nel decostruzionismo.
La “nouvelle critique”18 che si andava affermando in Francia negli
anni Sessanta ha di certo avuto il merito di denunciare una prevalenza
secolare accordata negli studi letterari alla figura dell’autore depositario della verità testuale, la cui personalità e visione del mondo passava
spesso in primo piano finalizzando addirittura alla ricostruzione di
questa la lettura delle opere, ma ha radicalizzato e portato alle estreme
conseguenze il legittimo bisogno di centralità del testo, dichiarando
l’autoreferenzialità della letteratura e ignorando che possa esistere una
gradualità sia nei rapporti fra autore e testo che in quelli fra testo e
“realtà”.
Il fatto che un testo risenta sempre di altri testi, ma che non per
questo debba essere necessariamente privo di rapporti col mondo, il
fatto che un testo veicoli un particolare messaggio dell’autore e che
non per questo non possa essere piegato ai codici assiologici delle culture (e degli autori) che si appropriano di tale testo, è stato magistralmente suggerito dalla celebre e citata favola letteraria di Borges, Pierre Menard, autore del «Chisciotte»19 in cui il medesimo testo, scritto
da due diversi autori a secoli di distanza senza modificare neppure una
parola, acquista tuttavia un senso del tutto nuovo conferitogli di volta
in volta dal complesso legame con l’autore e con il contesto in cui è
stato concepito.
re che di esso vengono proposte, tutte egualmente valide, a patto che riescano a convincere la
comunità dei lettori.
17
R. BARTHES, La mort de l’auteur (1968), in ID., Le bruissement de la langue, Éditions
du Seuil, Paris 1984; trad. it. La morte dell'autore, in ID., Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988. In un’analoga direzione va il saggio di M. FOUCAULT, Qu'est–ce qu'un auteur?
(1969), in Dits et écrits, vol. I, Gallimard, Paris 1994; trad. it. Che cos'è un autore?, in ID.,
Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Milano, Feltrinelli 1996, pp. 3–21.
18
La definizione trova origine all’interno della polemica degli anni Sessanta tra Roland
Barthes e Raymond Picard che attacca con lo scritto Nouvelle critique ou nouvelle imposture
del 1965 il saggio Sur Racine, pubblicato da Barthes nel 1963; quest’ultimo reagisce poi con
il celebre libello Critique et vérité del 1966.
19
J.L. BORGES, Finzioni, in ID., Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Mondadori, Milano
1984, pp. 649–658.
Tre agguati: all’autore, al mondo, alla tragedia
21
Per quanto concerne i dettagli strettamente teorici della questione,
lascio ad Antoine Compagnon, formatosi a cavallo tra «nouvelle critique» e Sorbona, il compito di smascherare, con la sua lucida analisi,
questo oltranzistico e contraddittorio attacco all’ideale plurimillenario
di mimesis; mi rifaccio in particolare al capitolo de Le démon de la
théorie consacrato al “mondo” (al contesto, secondo la classificazione
di Jakobson su cui si basa la ripartizione della materia del saggio). Se
nel corso del saggio si sentono a volte concessioni agli statuti epistemologici della “nouvelle critique”, il capitolo sul mondo è invece uno
dei più persuasivi sotto questo profilo e denuncia, senza nulla concedere, i metodi pretestuosi seguiti per screditare ogni rapporto fra letteratura e mondo, a partire dallo slittamento semantico imposto da Barthes in S/Z all’idea di natura suggerita da Aristotele nella Poetica, fatta
ad arte deviare dalla realtà fisica delle cose a doxa, convenzione culturale spacciata per natura; la critica alla mimesis finisce per diventare
una critica dell’ideologia e dell’ordine capitalista.
La riaffermazione ragionata della referenzialità della letteratura
proposta da Compagnon si conclude intrecciando alle teorie di Pavel
sui “mondi possibili” alcuni dettami della Poetica di Aristotele, liberata da ogni sofisticazione e impiegata questa volta per sostenere
un’idea che, in altre mani più spregiudicate, aveva contribuito a smentire.
Gli avvenimenti di un romanzo, scrive Pavel in Mondi di invenzione […],
hanno una sorta di realtà che è loro propria, una realtà che ha qualcosa in comune con la realtà dei mondi reali. Tradizionalmente, i filosofi ritenevano
che gli esseri di finzione non avessero stato ontologico, e quindi che tutte le
proposizioni che li riguardavano non fossero né vere né false ma semplicemente mal formulate e non appropriate. La frase: «Papà Goriot si trovava alle
otto e mezzo in rue Dauphine» non aveva a loro parere pertinenza. Eppure
questa frase esiste: nei mondi possibili, perché delle proposizioni siano valide, non è necessario che si basino sullo stesso inventario di individui che nel
mondo reale. Come diceva già Aristotele: «l’opera del poeta non consiste nel
riferire gli eventi reali, bensì fatti che possono avvenire e fatti che sono possibili, nell’ambito del verosimile o del necessario»20. In altri termini la referenza funziona nei mondi di invenzione finché essi restano compossibili con
20
La citazione è tratta da ARISTOTELE, Dell’arte poetica, 1451a36, trad. it. di C. Gallavotti, Mondadori, Milano, p. 31.
22
Introduzione
il mondo reale […]. La letteratura mescola incessantemente il mondo reale e
il mondo possibile: si interessa dei personaggi e degli avvenimenti reali […]
e il personaggio di finzione è un individuo che avrebbe potuto esistere in un
altro stato di cose […]. I testi fittizi utilizzano quindi gli stessi meccanismi
referenziali degli usi non fittizi del linguaggio, per fare riferimento a mondi
di invenzione che considerano mondi possibili. I lettori sono collocati
all’interno del mondo di invenzione e, finché dura il gioco, lo considerano
vero, fino a quando il protagonista si mette a disegnare cerchi a forma di
quadrati, rompendo così il vincolo della lettura, la famosa «sospensione vo21
lontaria dell’incredulità» .
È con un occhio costantemente puntato a quest’ultimo aspetto che
cercherò di procedere nelle analisi che seguiranno, come fossimo davanti al Chisciotte di Pierre Menard; con la consapevolezza che in
questo caso il meccanismo è molto più eloquente: l’autore e il mondo
ci parleranno attraverso i mille scarti del testo rispetto ai modelli presenti nel sistema.
Il valore della “differenza”, ovvero l’importanza di individuare le
varianti che si presentano nelle diverse ramificazioni del sistema piuttosto che alcune costanti facenti addirittura capo ad uno schema mitico
di base, è stato invocato in precedenza come antidoto all’annullamento
delle specificità individuali dei testi e rappresenta inoltre un valido baluardo contro il deprezzamento di uno dei due versanti del sistema letterario che vengono coinvolti, spesso riscontrabile nel corso delle analisi di tipo comparativo che vedono schierati, come nel nostro caso, il
teatro del Novecento e la tragedia greca. Se da un lato può risultare
dannoso l’atteggiamento “rivoluzionario” di chi pretende, in nome del
progresso, di poter tagliare di netto ogni ponte rispetto al passato,
dall’altro più pericolosa appare, forse perché incarnata da un esponente di spicco della critica internazionale, George Steiner, l’idea reazionaria secondo cui ogni bene sia da rintracciarsi nell’antico e tutto ciò
che da questo sacrario si allontana sia da guardare con diffidenza, come un prodotto “derivato”, mai all’altezza del modello.
Mi sarei potuta esimere in questa sede dal portare avanti una critica
21
A. COMPAGNON, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Eunaudi, Torino
2000, pp. 145–146. I riferimenti a T.G. PAVEL si riferiscono a Fictional worlds, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)–London 1986; trad. it. Mondi di invenzione, Einaudi, Torino
1992.
Tre agguati: all’autore, al mondo, alla tragedia
23
alle tesi reazionarie espresse da Steiner, già condotta altrove in modo
lucido e puntuale da Guido Paduano22, se non fosse che nella vorticosa
“antologia delle critiche” riportata in conclusione del suo più noto
saggio, Steiner annoveri la quasi totalità dei drammi presi in analisi
all’interno di questo lavoro23; ritengo dunque opportuno dedicare
qualche riflessione ad un altro agguato mortale condotto dalla critica
all’inizio degli anni Sessanta — quello che ha decretato La morte della tragedia nel teatro contemporaneo — partendo proprio dalle
affermazioni dell’autore:
La letteratura drammatica moderna si è rivolta in massa alla mitologia antica.
Qualsiasi repertorio del teatro tragico contemporaneo sembra un manuale di
miti greci: Antigone, Medea, Elettra, Edipo e la Sfinge, Orfeo, Edipo re, Il
lutto si addice ad Elettra, La guerra di Troia non si farà. Sovente un titolo
nuovo non è che la maschera di un tema antico; La macchina infernale è una
versione della tragedia di Edipo; La riunione di famiglia di Eliot e Le Mosche
di Sartre sono variazioni sull’Orestea. Spesso il drammaturgo moderno è un
traduttore del testo greco: Claudel ha tradotto Le Coefore nel suo stile libero
e sontuoso […]; La Medea di Robinson Jeffers e l’Elettra di Hofmannsthal
stanno a metà strada tra la traduzione e la reinterpretazione. Gide, come Cocteau, adopera la favola classica in guisa di parodia o di critica (Aiace, Filotte24
te). E l’elenco potrebbe continuare .
22
G. PADUANO, Morte della tragedia? (con una nota sull’“Oedipus Rex” di Stravinskij),
in D. GABELLI, F. MALCOVATI (a cura di), La scena ritrovata. Mitologie teatrali del Novecento, Bulzoni Editore, Roma 2004, pp. 17–42 e Elettra e Amleto, in «Paideia», cit., pp. 221–238.
I testi di Steiner ai quali si fa riferimento in queste pagine sono in primo luogo The Death of
Tragedy, Faber&Faber, London 1961; trad. it. La morte della tragedia, Garzanti, Milano
1999; Antigones, Clarendon Press, Oxford 1984; trad. it. Le Antigoni, Garzanti, Milano 1990;
La tragedia assoluta (per Alexis Philonenko), in ID., No passion spent: essays 1978–1996,
Faber&Faber, London 1996; trad. it. Nessuna passione spenta, Garzanti, Milano 1997, pp.
72–85; Tragedy, pure et simple, in S.M. SILK, Tragedy and the Tragic. Greek Theatre and
Beyond, Clarendon Press, Oxford 1996, pp. 534–546.
23
Il «quasi» documenta l’esclusione dalla lista delle critiche di tre dei testi che prenderemo in analisi nel corso di questo lavoro; due di questi, ovvero il Pilade di Pasolini e lo sdisOré di Testori, non avrebbero potuto di certo essere inseriti, essendo stati scritti dopo la pubblicazione de La morte della tragedia; quanto al silenzio circa Électre ou la chute des masques
(1954) di Marguerite Yourcenar siamo propensi a spiegarlo con la mancata conoscenza del testo in questione; anche perché questo sarebbe forse stato l’unico testo della lista che avrebbe
potuto almeno in parte avvalorare le tesi steineriane.
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G. STEINER, La morte della tragedia, cit., p. 281.
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Introduzione
Questi autori e le loro opere sono in seguito esplicitamente connotati in senso negativo e ad essi è rispettivamente riservata la definizione di «miopi arpie» e «fantasmi imbalsamati».
Il principale rimprovero che viene fatto al mondo moderno è quello
di non aver saputo creare una propria personale mitologia, non riuscendo dunque ad aggiungere alcun significativo elemento al patrimonio culturale classico. Anche quelle che potrebbero sembrare creazioni
del moderno, come Amleto, Don Chisciotte, Faust e Don Giovanni,
sono anch’esse a ben guardare debitrici del passato.
Steiner si chiede infatti:
sino a che punto Amleto è, come hanno suggerito Freud e Gilbert Murray,
una variante di Oreste? Sino a che punto la forza immaginativa esercitata su
di noi dai motivi del fratricidio, dell’usurpazione, dell’incesto e della vendetta filiale nella tragedia di Shakespeare deriva dall’espressione già conferita a
quei temi nella teatralizzazione della storia della casa di Atreo dovuta a E25
schilo, Sofocle ed Euripide ?
Ci si interroga di rimando con Guido Padano su come sia possibile
«negare alla tragedia shakespeariana dignità di struttura autonoma,
quando il presunto modello ci si presenta con tre strutture diversissime
– la teodicea sperimentale e ottimistica in Eschilo; la rappresentazione
di un’individualità gigantesca, portatrice dell’onnipotenza del dolore
in Sofocle; lo sfacelo del ghenos e della sua religione per opera di un
universo già borghese in Euripide»26. Ci si dovrebbe dunque chiedere
piuttosto di quale Oreste Amleto rappresenti una variante. Steiner, pur
conferendo alle tre tragedie greche nella loro specificità lo statuto autonomo di classici, vuole per partito preso negare questo diritto
all’opera del drammaturgo inglese, anche se questa presenta forti differenze rispetto ad ognuno dei drammi di Eschilo Sofocle ed Euripide
presi in considerazione; una per tutte, «il segnale metalinguistico» costituito dall’ordine dello spettro ad Amleto di non infierire in alcun
modo contro la madre, chiara presa di distanza rispetto ai modelli antichi.
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ID., Le Antigoni, cit., p. 150.
G. PADUANO, Morte della tragedia? (con una nota sull’“Oedipus Rex” di Stravinskij),
cit., p. 35.
26
Tre agguati: all’autore, al mondo, alla tragedia
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A nostro avviso, ciò è spiegabile a partire dalla tendenza di Steiner
a trattare in realtà come un monoblocco indifferenziato il macrotesto
delle tragedie greche incentrate sulla figura di Oreste come referenti
paritari del “mito”, messa in atto a sua volta da due fattori molto diversi tra loro: se da un lato può avere infatti influito la considerazione
che Shakespeare non poteva conoscere le tre tragedie su Oreste nelle
loro differenti soluzioni formali derivando le sue conoscenze sulla saga da un patrimonio mitologico complessivo, solo in piccola parte
veicolato dall’Agamennone di Seneca, dall’altro lato agisce un’idea
meno virtuosa e un’influenza più dannosa, facente capo ad una teoria
che abbiamo già avuto modo di nominare. Lascio la parola a Steiner
che nel suo saggio su Le Antigoni, dopo aver studiato le «interazioni
tra un testo fondamentale e le sue reinterpretazioni nel corso del tempo», si cimenta nel tentativo di rispondere ad un cruciale interrogativo: «perché una manciata di miti greci antichi continua a dare la sua
forma vitale alla nostra percezione di noi stessi e del mondo?»:
Secondo Jung, chiedersi perché una Antigone si sia radicata per millenni, in
modo inestirpabile e attraverso riproduzioni incessanti, nella nostra sensibilità privata e pubblica costituisce non solo un legittimo, ma anche un fondamentale oggetto di ricerca. Il modello junghiano della genesi della coscienza
è storicistico. I livelli arcaici della psiche sono dentro di noi, come «l’antico
letto di un fiume in cui l’acqua continua a scorrere». «Niente è perduto per
sempre» — postula Jung. Nel tentativo di operare un’integrazione di alcuni
aspetti del suo io originariamente amorfo e indifferenziato, la psiche umana
genera configurazioni e personaggi mitici che si comportano essenzialmente
come uno speculum mentis, uno specchio dinamico in cui le esperienze più
intime della coscienza si riflettono e assumono una forma riconoscibile […].
Jung definisce il personaggio mitico sia come psicologema, sia come «struttura psichica archetipa dell’estrema antichità corrispondente ai livelli di coscienza che hanno a malapena lasciato la sfera animale». Tale personaggio
non è solo o principalmente individuale. È un’incarnazione collettiva […].
Così una figura mitica sarebbe una «personificazione collettiva» che garantisce forme sopportabili, gioiose, chiarificatrici alle fantasie collettive arcaiche
e alle fasi di elaborazione della psiche. Sotto la pressione della civiltà, nel
corso dell’evoluzione dell’intelligenza individuale verso tipi di rappresentazione più analitici e «razionali», la figura collettiva si disgrega a poco a poco.
Scende al livello profano dell’arte laica e intenzionale. Tuttavia quest’arte —
e in questo l’ipotesi di Jung è convincente — può esercitare un fascino duraturo, può sopravvivere e anzi incoraggiare repliche e rifacimenti nei secoli
solo se conserva e rende tangibili i suoi legami con quei modelli arcaici, fon-