Dal disadattamento alla devianza Dispense corso monografico [email protected] Durkheim: anomia L’anomia (mancanza di norme: da “nomos”, con alfa privativo) è un tema che è stato introdotto nella riflessione sociologica da Durkheim, ma che ha una storia che risale per lo meno a Senofonte. Nell’antica Grecia troviamo due posizioni in contrapposizione rispetto a questo tema: una posizione trascendentalistica e una immanentistica (Orrù 1987). La posizione trascendentalistica (che troviamo ad esempio in Platone) fa riferimento ad un ordine (di natura divina o sociale) dato ad un livello superiore rispetto a quello dei singoli individui; in questo caso l’anomia consiste nella violazione di tale ordine. La posizione immanentistica (che troviamo ad esempio nei sofisti) “guardò all’anomia come il problema contestuale di una società in mutamento, un problema che doveva essere affrontato in modo pragmatico” (Orrù 1987, p.13). Secondo questa interpretazione, “nei momenti di sviluppo economico, di grande mobilità e prosperità, prevale la concezione individualistica, immanentistica, dell’anomia, mentre nei momenti di crisi prevale la concezione trascendentalistica dell’ordine sociale” (Izzo 1996, p.3) Durkheim affronta il tema dell’anomia in opposizione alle posizioni di Jean-Marie Guyau. Questo autore nell’opera L'Irréligion de l'avenir, étude sociologique (1886) aveva affermato il carattere positivo dell’anomia: “L’individualismo progressivo delle regole morali, dei criteri di comportamento, delle convinzioni è un processo inevitabile e allo stesso tempo augurabile” (cit. in Besnard 1987, p.23). Qui per anomia si intende quindi (in contrasto con l’autonomia di Kant) il porre, da parte dell’individuo, le proprie norme morali. Durkheim già nella propria tesi di dottorato, sostenuta nel 1893 - De la division du travail social - affrontando il tema della divisione del lavoro mutua il termine introdotto da Guyau usandolo in un altro senso: cioè per indicare con anomia (anche se il termine non viene definito formalmente) una delle forme patologiche delle società a lui contemporanee, la mancanza di collaborazione tra ruoli sociali funzionalmente connessi. Sono cioè anomiche le società nelle quali la divisione del lavoro conduce ad una mancanza di solidarietà. Il passaggio da società a solidarietà meccanica a società a solidarietà organica non conduce necessariamente all’anomia: ma la velocità dei mutamenti resa possibile nelle società a solidarietà organica dalla divisione del lavoro può portare a situazioni patologiche nelle quali 1 vengono prodotte nuove funzioni senza che a queste corrisponda una regolazione complessiva. Da qui, la condizione di mancanza di normazione da parte della società, ossia la condizione di anomia. Durkheim distingue ulteriormente tra anomia acuta ed anomia cronica: “L'anomia acuta è il prodotto di un cambiamento brusco nell'universo sociale di riferimento; l'anomia cronica risulta dal fatto che l'universo sociale è cambiamento e mancanza di riferimento. La prima indica l'assenza provvisoria di norme, perché quelle esistenti non sono più adatte alla situazione nuova; la seconda, che preoccupa maggiormente Durkheim, risulta dalla presenza, nella cultura moderna, di alcuni valori come la dottrina del progresso a qualsiasi prezzo, la necessità per l'individuo di avanzare costantemente verso un obiettivo indefinito.” (Besnard 1991) Il tema ritorna anche nell’opera Le Suicide, étude de sociologie (1897), in cui il suicidio anomico è quello correlato con la situazione sociale di anomia, quindi con la situazione generale storica e socio-economica. Ricordiamo che gli altri tipi di suicidio descritti da Durkheim erano quello egoistico, caratterizzato da una individualistica mancanza di integrazione; ed il suicidio altruistico, caratterizzato all’inverso da una integrazione nella società spinta al punto dell’annullamento dell’individualità del soggetto. Sulla base della concezione durkheimiana di anomia possiamo capire come per lui la devianza sia una parte essenziale di qualsiasi società; e d’altro canto, richiamando la sua concezione di fatto sociale come esterno e costrittivo rispetto all’individuo, capiamo come non potesse considerare la devianza un fatto spiegabile con riferimento causale agli stati psicologici (o morali...) dei singoli soggetti. Scrive Durkheim nelle Regole del metodo sociologico: “Un fatto sociale è normale per un tipo sociale determinato, considerato in una fase determinata del suo sviluppo quando esso si presenta nella media delle società di quella specie, considerate nella fase corrispondente della loro evoluzione” (Durkheim 1895, p. 71 ed. 1979) E, nel Suicidio: “perciò dobbiamo dire che il delitto è necessario, che non può non esistere, che le condizioni fondamentali dell’organizzazione sociale, quali si conoscono, lo implicano logicamente, e quindi che è normale”. (Durkheim 1897) Per Durkheim la violazione delle norme permette di rendere evidenti alla collettività dov’è posto il confine che separa il comportamento normale da quello deviante; e la punizione del deviante permette alla collettività di consolidare la convinzione dei suoi membri di essere portatori di moralità “sana”. In questo senso la punizione del deviante è un atto di integrazione simbolica. Oltre a questo ruolo indiretto, la devianza può svolgere per Durkheim un ruolo diretto nei confronti del mutamento sociale: il crimine come anticipatore di una moralità futura (per quanto crimine e devianza sono concetti distinti, il primo attinente alla sfera giuridica ed il secondo a quella sociale). 2 Può essere quindi fatta risalire a Durkheim, anche se non la espresse direttamente in questi termini, la posizione secondo la quale la devianza nelle società industriali contemporanee è il prodotto di una condizione di anomia. Questa è la posizione che verrà sviluppata soprattutto in ambito funzionalista, da Robert King Merton. Merton Robert K. Merton approfondisce teoricamente il concetto di devianza a partire dal suo studio sul rapporto tra struttura, cultura, ed anomia (“Social Structure and Anomie”, 1938; poi ripreso in Social Theory and Social Structure, 1949). In questo saggio Merton rigetta concezioni come quella secondo cui il controllo sociale “tiene a bada” gli impulsi, biologicamente dati, degli individui a violare le norme. Per Merton, “certe fasi delle strutture sociali generano le circostanze sotto le quali la violazione dei codici sociali costituisce una risposta ‘normale’” (Merton 1938). Le strutture sociali, cioè, esercitano su certe persone una pressione verso la “condotta nonconformista”. Gli elementi della struttura sociale presi in considerazione da Merton sono da una parte gli obiettivi, scopi e interessi culturalmente definiti; dall’altra le norme attraverso le quali le società “definiscono, regolano e controllano i modi accettabili di ottenere questi scopi”. Obiettivi culturali da una parte e norme istituzionali dall’altra. Ciascuna di queste “fasi” può variare; Merton traccia uno schema per mostrare le possibili intersezioni tra i diversi approcci a ciascuna di esse da parte delle persone nello svolgimento delle loro attività sociali (il + indica l’accettazione, il - il rifiuto, ed il ± il rigetto e la sostituzione dei vecchi standard con nuovi): Obiettivi Culturali Mezzi Istituzionalizzati I. Conformità + + II. Innovazione + - III. Ritualismo - + IV. Rinuncia - - V. Ribellione ± ± Merton sottolinea come questo schema si riferisca a “aggiustamenti del ruolo in situazioni specifiche, non alla personalità in toto”. Applicando come esempio lo schema alla sfera della produzione economica, Merton mostra come l’adattamento I. sia generamente il più diffuso; se così non fosse, la stabilità sociale sarebbe insostenibile. All’adattamento (o “maladattamento”) IV, che per converso è il meno diffuso, Merton associa “Alcune delle attività di psicotici, psiconeurotici, autistici cronici, paria, fuoricasta, vagabondi, barboni, bevitori cronici e tossicodipendenti”. Merton sottolinea come atteggiamenti di rinuncia possano derivare dall’impossibilità di raggiungere gli obiettivi culturalmente dati da parte per mezzo dei mezzi 3 istituzionalizzati; non volendo al tempo stesso adottare mezzi non istituzionalmente legittimi ne può derivare un abbandono dell’intero insieme obiettivi - mezzi: “Il conflitto è risolto eliminando entrambi gli elementi precipitanti, gli obiettivi ed i mezzi. La fuga è completa, il conflitto è eliminato e l’individuo è un socializzato”. La preoccupazione principale di Merton è verso l’adattamento II: il tentativo di raggiungere obiettivi socialmente accettati (nel campo economico oggetto del suo esempio, fondamentalmente la ricchezza) da parte di quanti hanno interiorizzato la spinta societaria al successo senza interiorizzare i sistemi di “norme moralmente prescritte che governano i mezzi del suo ottenimento”. Da questo punto di vista, per Merton a spingere verso certi tipi di crimine è la cultura generale, accoppiata ad una “struttura di classe” che comporta “accesso differenziale alle opportunità approvate per il conseguimento legittimo e portatore di prestigio degli obiettivi culturali”. In questo senso, Merton si rifiuta di considerare unidimensionalmente la povertà come causa del crimine, anche nel caso in cui la povertà riguardi gruppi di persone nel contesto di un più generalizzato benessere. “Solo quando la povertà e gli associati svantaggi nella competizione per i valori culturali approvati per tutti i membri della società sono collegati con l’assimilazione dell’enfasi culturale sull’accumulazione monetaria come simbolo di successo la condotta antisociale diventa un esito ‘normale’” (Merton 1938). S Mentre in Durkheim l’anomia è l’assenza di norme, in Merton essa è il risultato del divario tra fini e mezzi socialmente approvati; per Merton sono, in un certo senso, i valori culturali stessi a portare verso la devianza. Tra le principali critiche al modello anomia-devianza di Merton possiamo citare quelle di Cohen (1965), che ritiene che Merton non renda conto dell’importanza dei processi che conducono ai comportamenti devianti; e quelle di Clinard, che contesta a Merton la reificazione della struttura sociale (critica spesso mossa alle posizioni strutturaliste o struttural-funzionaliste). Teoria dell'etichettamento La teoria dell'etichettamento, o labeling theory, è stata formulata a partire dagli anni '60 nel contesto più generale dell'interazionismo simbolico. Tra i precursori teorici della teoria dell'etichettamento può essere citato Durkheim, per la sua posizione – che abbiamo già visto – secondo la quale il comportamento deviante può svolgere una funzione di rinforzo della coesione sociale attraverso le dinamiche di punizione del deviante. In questo senso la stigmatizzazione della devianza serve a consolidare l'integrazione sociale. Altro precursore è lo psicologo sociale Charles Horton Cooley, con la sua teoria del “sé dello specchio” (Looking Glass Self), esposta nel suo Human nature and the Social Order (1902). Secondo questa teoria, i comportamenti individuali sono condizionati dai concetti del sé di cui si ritiene siano portatori gli altri soggetti coi quali si interagisce. E quindi ampie classi di interazioni sono strutturate attraverso la 4 ricerca di conferme comportamentali alle nostre idee rispetto quello che pensiamo che gli altri pensino di noi. Al tempo stesso, in una sorta di rete inestricabile, gli altri fanno lo stesso prendendo in considerazione anche il nostro punto di vista, e da questo fenomeno di reciproca interdipendenza deriva la natura sociale del sé che non è interpretato quindi come ente solipsisiticamente individuale. Per Cooley, la società ha natura “mentale”: “society is simply the collective aspect of personal thought. Each man's imagination, regarded as a mass of personal impressions worked up into a living, growing whole, is a special phase of society; and Mind or Imagination as a whole, that is human thought considered in the largest way as having a growth and organization extending throughout the ages, is the locus of society in the widest possible sense. ” (1902, p. 134). La società è mentale non in quanto esiste nella mente del singolo, ma in quanto aspetto collettivo astratto dalle menti individuali. La “simpatia” tra persone, la capacità di avere un certo livello di comprensione dei loro processi interni in quanto simili ai nostri, determina la possibilità di comunicare; la mente del singolo è un microcosmo dove albergano rappresentazioni dei vari gruppi sociali nei quali il singolo si trova ad agire. Dobbiamo notare che Cooley ha anche affrontato direttamente il tema della devianza, dedicando un capitolo della Human Nature a quella che chiama personal degeneracy – degenerazione personale: “A degenerate might be defined as one whose personality falls distinctly short of a standard set by the dominant moral thought of a group” (Cooley 1902, p. 402). Cooley attribuisce le origini della devianza a una commistione di fattori sociali ed evolutivi, che determinano una certa varianza nella distribuzione di tratti presso le popolazioni umane (ricordo che questo autore muove da posizioni decisamente evoluzionistiche). Escludendo i casi dove i fattori biologici siano preponderanti, Cooley afferma che “In many cases degenerate conduct is due to the fact that the individual lives in a group having degenerate standards: it does not indicate intrinsic inferiority on his part at all […] In fact the great wrongs are done mainly by people of normal capacity who believe they are doing right. ” (pp. 416-417). Considerazioni di questo tipo lo portano ad affermare che la devianza non origina nella volontà individuale ma in una storia radicata nella trasmissione ereditaria (biologica) e sociale (culturale); questo secondo lui dovrebbe portare a una sorta di distribuzione sociale del biasimo verso il deviante ed il criminale (esempio: il giudice minorile che valuta la posizione di un giovane vandalo dovrebbe chiamare in causa anche il capobanda che gli ha dato il cattivo esempio, i genitori che non gli hanno impartito disciplina sufficiente, autorità scolastiche per non averlo interessato ad attività più costruttive, e persino “the city government and influential classes for failing to provide a better environment for him to grow up in”. Cooley continua: “The tendency of any study of indirect causes is to fix more and more responsibility upon those who have wealth, knowledge, and influence, and therefore the power to bring a better state of things to pass ” (1902, pp. 420). Quindi secondo Cooley il sé è un prodotto sociale, ed in particolare sono potenti mezzi per la sua strutturazione le dinamiche di interiorizzazione del punto di vista 5 altrui. Queste sono posizioni che vengono sviluppate nell'opera di un altro precursore della teoria dell'etichettamento, che tra l'altro aveva scritto la prefazione alla Human Nature di Cooley: George Herbert Mead. Per Mead la mente ed il sé sono prodotto di dinamiche sociali; in Mind, Self and Society (1934; postumo) descrive il processo psicologico attraverso il quale l'interiorizzazione del punto di vista altrui, attraverso il linguaggio e gli atti sociali, è strutturante rispetto al sé. L'atto sociale è quello nel compimento del quale è necessaria l'assunzione del punto di vista di altri soggetti; al tempo stesso, si interiorizza il punto di vista altrui come percepito attraverso gli altrui atti sociali. Una parte di questo processo avviene in età formativa ed è quella che, attraverso linguaggio, play e game permette la strutturazione dell'Io. La compresenza nel Sé di un Io, risposta ai comportamenti altrui, e di un Me, interiorizzazione dei comportamenti altrui, complessifica il tutto, anche in considerazione della natura dinamica dell'adattamento dell'Io che in una prima fase riflette, ed in una seconda fase risponde, agli atteggiamenti dell'altro generalizzato. L'Altro generalizzato è concetto di particolare interesse ai fini del percorso che porta alla teoria dell'etichettamento. Esso è una sorta di universalizzazione dell'altro individuale incontrato nell'assunzione di ruolo del play. Dice Mead: “The organized community or social group which gives to the individual his unity of self may be called 'the generalized other.' The attitude of the generalized other is the attitude of the whole community. ” (1938, p. 154). L'altro generalizzato svolge una potente funzione di controllo sociale: “It is in the form of the generalized other that the social process influences the behavior of the individuals involved in it and carrying it on, i.e., that the community exercises control over the conduct of its individual members; for it is in this form that the social process or community enters as a determining factor into the individual’s thinking” (1938, p. 155). Un altro concetto importante per lo sviluppo della teoria dell'etichettamento è quello di Drammatizzazione del male (Dramatization of evil), introdotto da Frank Tannenbaum nel suo Crime and the Community (1938) con specifico riferimento alla sfera del crimine. Tannenbaum viene considerato parte di un approccio denominato della reazione sociale (societal reaction), radicato nelle posizioni di Mead e Cooley. Tannenbaum non ritiene che il crimine sia un fatto individuale da affrontare sul piano della reazione verso l'individuo: “The issue involved is not whether an individual is maladjusted to society, but the fact that his adjustment to a special group makes him maladjusted to the large society because the group he fits into is at war with society” (Tannenbaum 1938, p.8). Su questa base Tannenbaum analizza il percorso di socializzazione che in determinati contesti introduce il bambino in un gruppo di coetanei che successivamente si struttura come gang e entra in conflitto con elementi dell'ambiente sociale più ampio. La natura sostanzialmente incompatibile delle definizioni sociali da parte della gang e dei gruppi sociali “concorrenti” può mettere l'individuo in condizione di esercitare un qualche livello di scelta su quale debba divenire il suo gruppo di riferimento principale, e quindi quale egli consideri la propria identità in termini di identificazione sociale. Ma questo processo è descritto come condizionato dalla drammatizzazione del male: il divenire autoconsapevole dei termini nei quali si viene descritti socialmente, e l'assumere, l'identificarsi con questa 6 identità. In questo senso Tannenbam critica l'impostazione del sistema giuridico americano, che conduce l'individuo che ha violato le norme attraverso ad un processo di stigmatizzazione che non può che condurre ad un rafforzamento dell'assunzione dell'identità deviante. Edwin Lemert, anch'egli considerato un teorico della Societal Reaction, nel suo Human Deviance, Social Problems and Social Control (1967) distingue tra devianza primaria e devianza secondaria: nella devianza primaria il soggetto non si percepisce come deviante, mentre in quella secondaria accetta di rappresentarsi con uno status deviante. Howard S. Becker muove dalla posizione, di impostazione struttural-funzionalistica, secondo la quale il comportamento deviante è considerato tale sulla base della considerazione sociale generale: “The deviant is one to whom that label has been successfully applied; deviant behavior is behavior that people so label” (Becker 1963, p.9). Tuttavia, mentre la più generale visione struttural-funzionalistica attribuisce alla società in senso lato o a suoi apparati particolari la funzione di stigmatizzare il deviante, Becker concenta l'attenzione in maniera specifica sugli imprenditori morali (moral entrepreneurs), coloro che creano (rule creators) o applicano (rule enforcers) le norme sulla base delle quali determinati comportamenti vengono etichettati come devianti. Il potere di determinare cosa una certa società consideri come “un problema”, quali comportamenti vadano stigmatizzati e repressi è senz'altro un grande potere, e possiamo pensare a molti esempi di fenomeni nei quali l'etichettamento è emerso in seguito a ben gestite campagne da parte di imprenditori morali (o possiamo pensare a casi in cui il tentativo è in corso). Naturalmente la situazione è resa complessa dal fatto che nel contesto per certi aspetti pluralistico delle società contemporanee in un certo momento possono esserci diversi moral entrepreneurs all'opera su fronti avversi di un determinato fenomeno, ciascuno nel tentativo di affermare la propria cornice concettuale, simbolica, linguistica. Becker non connota l'operato degli imprenditori morali come necessariamente “cattivo”; tuttavia esso ha la conseguenza, nella misura in cui l'etichettamento è posto in essere da persone in posizione di potere, di rendere “oggetti” coloro a cui le etichette vengono applicate, al contrario appartenenti a classi inferiori. “Moral crusaders typically want to help those beneath them to achieve a better status. That those beneath them do not always like the means proposed for their salvation is another matter. But this fact – that moral crusaders are typically dominated by those in the upper levels of the social structure – means they add to the power they derive from the legitimacy of their moral position, the power they derive from their superior position in society” (Becker 1963, p.149) Il “modello sequenziale del comportamento deviante” di Becker deriva da questa impostazione. Becker disegna una tipizzazione del comportamento deviante: Percepito come deviante Comportamento obbediente Comportamento che rompe le regole Falsamente accusato Deviante puro 7 Non percepito come deviante Conformista Deviante segreto Sulla base di questa tipizzazione, studia il percorso che porta ad una situazione di devianza (ed etichettamento). Il primo passo è tipicamente quello della commissione di un atto di devianza, motivato o inconsapevole. In merito al comportamento “motivato”, più che chiedersi come mai il deviante compia questo tipo di atto, Becker invita a chiedersi piuttosto come mai il conformsta non lo compia; quali sono cioè le dinamiche di integrazione istituzionale attraverso le quali le azioni passate degli individui li legano a corsi d'azione futuri con livelli crescenti di committment che fungono da deterrente per il compimento di atti devianti. Il percorso che conduce alla devianza potrà invece essere stato caratterizzato da forme di neutralization: giustificazioni per il comportamento deviante che il deviante stesso percepisce come valide e legittime (mentre la società nel suo complesso, e il sistema giuridico, possono invece ritenere illegittime e sanzionare). Affinché non ci si trovi però di fronte ad un singolo atto deviante ma a uno schema consolidato, Becker afferma sia necessaria la presenza di “motivi ed interessi” devianti. I motivi devianti sono trattati da Becker come sociali in natura, anche quando il comportamento deviante che ne deriva sia poi effettuato in solitudine. L'esperienza di essere scoperti ed etichettati è considerata da Becker cruciale in questa sorta di “carriera deviante”, perché rappresenta una sorta di punto di non ritorno, in cui l'immagine pubblica della persona viene associata al comportamento deviante e questo può condurre con maggiore facilità all'assunzione dell'identità deviante, alla sua interiorizzazione (vedi la drammatizzazione del male di Tannenbaum). “Treating a person as though we were generally rather than specifically deviant produces a self-fulfilling prophecy. It sets in motion several mechanisms which conspire to shape the person in the image people have of him." In the first place, one tends to be cut off, after being identified as deviant, from participation in more conventional groups, even though the specific consequences of the particular deviant activity might never of themselves have caused the isolation had there not also been the public knowledge and reaction to it.” (Becker 1963, pp.33-34) L'ingresso in un gruppo organizzato di devianti – un gruppo che sia cioè strutturato primariamente attorno al fattore comune rappresentato dallo specifico tipo di devianza per il quale l'individuo sia stato socializzato – rappresenta un passo finale nella “carriera deviante”. Quest'opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 3.0 Italia. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc/3.0/it/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA. 8 Bibliografia Emile Besnard, 1987, L’anomie. Ses usages et ses fonctions dans la discipline sociologique depuis Durkheim, Paris, Press Universitaire de France Emile Besnard, 1991, “Anomia”, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Howard S. Becker, 1963, Outsiders: Studies in the Sociology of Deviance, New York, The Free Press Marshall B. Clinard, (a cura di), 1964, Anomie and deviant behaviour: a discussion and critique, New York, Free Press Charles H. Cooley, 1902, Human Nature and the Social Order, New York, Scribner's Albert K. Cohen, 1965, “The sociology of the deviant act: anomie theory and beyond”, in American Sociological Review, vol. 30, n. 1, pp. 5-14. Emile Durkheim, 1895, Les règles de la méthode sociologique Ed. it. 1979, Le regole del metodo sociologico, Milano, Edizioni di Comunità Emile Durkheim, 1897, Le Suicide, étude de sociologie Jean-Marie Guyau, 1886, L'Irréligion de l'avenir, étude sociologique Alberto Izzo, 1986, L’anomia. Analisi e storia di un concetto, Bari, Laterza Edwin Lemert, 1967, Human Deviance, Social Problems and Social Control, Englewood Cliffs (NJ), Prentice-Hall George Herbert Mead, 1934, Mind, Self, and Society, Chicago, University of Chicago Press Robert K. Merton, 1938, “Social Structure and Anomie”, in American Sociological Review, vol. 3, n. 5, pp. 672-682 Robert K. Merton, 1949, Social Theory and Social Structure, New York, Free Press Marco Orrù, 1987, Anomie. History and Meanings, Boston, Allen & Unwin Frank Tannenbaum, 1938, Crime and the Community, New York, Columbia University Press 9