Storia della letteratura greca
Albin Lesky
Mondadori Editore
Anite di Tegea
pag. 918
“E’ notevole che in questa cerchia continentale si trovino poetesse di livello non
disprezzabile. Nosside di Locri, nell’epigramma che evidentemente chiudeva il suo libro
poetico (Anth. Pal. 7, 718) si paragona a Saffo; Anite di Tegea è graziosa così nella delicata
osservazione della natura (per esempio Anth. Pal. 9, 144) come quando descrive i bambini
intenti al gioco (Anth. Pal. 6, 312) o compone epitaffi per la morte di animali prediletti.
Entrambi le poetesse scrissero anche carmi lirici”.
Corinna di Tanagra
pag. 242-244
“Di Corinna è conservato un paio di versi (15 D. 5 Page) in cui essa rimprovera Mirtide, che
ha rinnegato la sua natura femminile ed ha osato entrare in gara con Pindaro. La migliore
interpretazione suggerita dalla forma linguistica indica che si tratta di un agone tra due
contemporanei. Su questa base si può datare la poetessa Mirtide, nata ad Antedone, sulla
costa settentrionale della Beozia; ben più difficile è stabilire se la sua competizione poetica
con Pindaro risponda a verità o se non sia una delle tante invenzioni storico-letterarie. In
Plutarco (Quaest. Graec. 40, 300 s.) Mirtide è detta
. L’interpretazione più
verosimile è che si tratti di canti monodici, e Corinna, che ne scriveva, era considerata
sua allieva. Ma non si deve escludere che essa scrivesse anche liriche corali, e la storia
della gara con Pindaro è un indizio in questo senso. Nel passo citato Plutarco racconta
il contenuto di una delle sue poesie: l’amore infelice di Ochna per il suo giovane
Eunosto, che muore a causa delle sue calunnie. E’ il primo di numerose versioni greche
del motivo di Potifar, e un notevole indizio che ci fa intravedere una ricca tradizione
locale di motivi erotici che più tardi offriranno materia alla grande poesia.
Sull’opera di Corinna di Tanagra ci possiamo fare un’idea molto più precisa da quando
un papiro di Hermupolis (n. 162 P. I Page) ci ha restituito gruppi di versi abbastanza
estesi. Vi si trova un motivo agnostico noto anche da altre fonti: i monti Citerone ed
Elicona si cimentano in una gara di canto; siamo ancora in grado di stabilire che il
primo chiudeva il suo canto con la storia dei Cureti e di Zeus bambino. Poi le Muse, che
dirigono la gara in quanto abitatrici del mondo, invitano gli dèi a giudicare. Vince il
Citerone, e l’Elicona, cattivo perditore, lancia irosamente macigni.
Una seconda parte del papiro racconta come l’indovino Acrefen tranquillizzi Asopo,
preoccupato per le figlie, con liete notizie; grandi dèi le hanno degnate del loro amore, ed
esse diverranno progenitrici di stirpi potenti. Poi Acrefen, che immaginiamo al servizio di
Apollo Ptoio, racconta come è arrivato ad assumere il suo ufficio.
Per il resto, tutto ciò che ci è noto della poesia di Corinna riguarda saghe beotiche: tanto i
motivi generalmente noti quanto quelli di diffusione locale. Essa cantò la lotta dei Sette
contro Tebe e l’uccisione della volpe di Teumesso ad opera di Edipo, che in Beozia era
l’eroe di varie leggende. Non poteva mancare Eracle, e una poesia che era dedicata al suo
fedele aiutante Iolao. Quando possiamo riconoscere i tratti particolari, troviamo che c’è
uno stretto legame con la ricca tradizione locale. Un’eccezione sembra essere l’Oreste, del
quale un papiro (n. 161 P. 2 Page) ci ha conservato il titolo e l’inizio. Vi si parla del sorgere
della luna, ma l’ultima parola accenna a Tebe e le sette porte, e possiamo essere certi che
anche qui la storia era messa in relazione con le saghe locali, evidentemente attraverso il
culto di Apollo.
In un frammento (2 D. 4 Page) sembrava di dover leggere che Corinna
che essa raccontava alle donne di Tanagra. La parola ritorna come titolo in un’opera
di Corinna in Antonino Liberale 25. Si era inteso «Storie di vecchierelle», e con questo
termine Corinna avrebbe indicato, con graziosa ironia, la sua opera poetica. Ma il Page
informa che un papiro inedito presenta la forma ƒεροια, che pertanto va introdotta anche
in Antonino. Non sappiamo che cosa significhi, ma ci siamo liberati da un errore.
Uno studio attento dei frammenti ha dimostrato che si sbaglierebbe a identificare
senz’altro la lingua di Corinna col beotico della sua patria. Essa contiene innegabilmente
anche elementi del comune linguaggio poetico greco. Il colorito beotico appare comunque
chiaro, soprattutto nell’ortografia, almeno per noi, che è già determinata per l’adozione di
una grafia fonetica. Dal confronto con le iscrizioni risulta che il testo di Corinna assunse fra
il 225 e il 175 a.C. quella forma con cui è arrivato a noi.
Se possiamo farci così una certa idea dell’opera di Corinna, la sua datazione
rappresenta un problema difficile. Sul conto di questa poetessa, che nella tarda
antichità godeva di qualche fama, che fu aggiunta al canone alessandrino dei nove
grandi lirici e il cui nome fu ripreso da Ovidio per la figura centrale delle sue elegie
amorose, non abbiamo alcuna testimonianza che risalga oltre il primo secolo avanti
Cristo. I grandi grammatici alessandrini non si dedicarono a lei, e soltanto uno dei loro
successori, evidentemente, pubblicò le sue poesie in cinque libri.
Questo stato di cose imbarazzante consente due spiegazioni. E’ possibile che Corinna
scrivesse all’incirca al tempo di Pindaro, ma che la sua opera fosse tramandata soltanto
in una tradizione locale, finché, nel tardo ellenismo, esso trovò estimatori per lo stile
primitivo della narrazione e per la particolarità del linguaggio. Secondo l’altra
soluzione, che è stata presa in seria considerazione in tempi recenti, la cronologia della
poetessa andrebbe radicalmente posticipata, e fissata intorno al 200 a.C. Criteri
assoluti non esistono; apparenti parallelismi in altri poeti non sono decisivi. La
metrica di Corinna è semplice come tutto il suo stile. Strofe di sei o cinque versi sono
composte di dimetri ionici o coriambici. Di questi ultimi si ha un impegno analogo
soprattutto nei drammi intermedi di Euripide, ma ciò non serve di prova, perché
entrambi i poeti possono avere attinto a forme popolari. Se noi preferiamo assegnare
Corinna all’età di Pindaro, i nostri argomenti sono modesti. Nella Suda Corinna è detta
allieva di Mirtide, e avrebbe riportato cinque volte la vittoria su Pindaro. La storia
ricorre in varie versioni; in particolare Plutarco (Glor. Athen. 4. 347 s.) fa un racconto
grazioso sul loro contrasto. Corinna rimprovera a Pindaro di non comporre miti, che
pure sono l’essenza della poesia, e quando poi egli li accumula, li riversa a pieno sacco.
Pausania, che a Tanagra vide il monumento e la statua di Corinna (9,22,3) è informato
di una sua vittoria su Pindaro, e la spiega adducendo la comprensibilità del suo dialetto
e la sua bellezza. Noi sappiamo come gli antichi fossero larghi di queste favole, e non
attribuiremo autenticità storica all’agone di Corinna con Pindaro. Ma è difficile, d’altra
parte, credere che un’aneddotica di questo tipo, certo molto anteriore a Plutarco e a
Pausania, potesse trasformare tranquillamente in una contemporanea di Pindaro una
poetessa vissuta al tempo delle guerre romano-macedoniche. La antiqua Corinna di
Properzio (2, 3, 21) non è certo un’indicazione precisa, ma conviene molto meglio alla
datazione che riporta più addietro.
Erinna di Telo
pag. 786 segg.
“Scarsi frammenti ci restano dei versi di una poetessa la cui vita è anch’essa ridotta a
frammento. Erinna di Telo, un’isoletta appartenente a Rodi, perdette ancora fanciulla
l’amica Baucide che aveva lasciato Telo per seguire il marito. La poetessa
diciannovenne dedicò all’amica un carme di rimpianto e di ricordo e anche lei morì
poco dopo. Dobbiamo queste notizie a un poeta, Asclepiade di Samo, che le rese
omaggio in un epigramma (Anth. Pal. 7, 11). Del poemetto, “La Conocchia” Ηλακάτη),
avevamo soltanto scarsi frammenti quando un papiro del I secolo a.C. ce ne ha
restituito un brano abbastanza esteso. I versi sono molto malconci e la maggior parte
delle integrazioni moderne, come accade di solito, sono piuttosto esercizi di abilità
linguistica che ricostruzioni attendibili. Ciò nonostante i resti bastano per farci
riconoscere la delicatezza, l’arte vivace con cui Erinna nel ricordo dell’amica
scomparsa evoca le immagini dei giochi comuni, del lavoro comune e dei piccoli dolori
infantili. Questo poemetto, che è scritto in dialetto dorico con elementi epici e
comprendeva 300 esametri, non può essere facilmente ricondotto a un genere
determinato. Si potrebbe parlare di elegia, se fosse composto in distici; essendo scritto
in esametri, può essere definito un epillio. A questioni di questo genere non si deve
dare troppa importanza, quando si tratta di poesia autentica, ma è interessante che nei
resti della Conocchia si trovi il gusto della miniatura che sarà proprio degli epilli
ellenistici. L’accostamento è confermato anche dall’impressione – più che
un’impressione non può essere, essendo così scarsi i frammenti – che il racconto,
nonostante l’intonazione lirica, non sia più legato alla seconda persona apostrofata
come la lirica greca arcaica. Nella metrica la frequenza della dieresi bucolica e la
struttura prevalentemente dattilica anticipano la tecnica ellenistica. La Conocchia dette
alla poetessa prematuramente scomparsa la fama che essa si meritava. Meleagro di
Gadara, che intessè verso il 100 a.C. la sua ghirlanda di epigrammi, vi accolse tre poesie
di Erinna, una delle quali (Anth. Pal. 6, 352) loda il riuscito ritratto di una fanciulla,
mentre gli altri due (Anth. Pal. 710, 712) sono epigrammi sepolcrali per l’amica
Baucide. Una notizia di Plinio il Vecchio (34, 57) ricorda una poesia che fu scritta da
Erinna quando a un’amica morirono una cicala e una cavalletta. Motivi di questo
genere piacevano ed erano variamente rielaborati in età più tarda. Il Propemptikon per
Baucide, di cui rimangono versi (fr. 2 D.), è una falsificazione e come tale era già
riconosciuta da Ateneo (7, 283 d). Le superstiti poesie di Erinna attestano anche che al
suo tempo era coltivato e diffuso l’epigramma, ciò che è confermato da numerose
iscrizioni”.
Mirtide di Antedone
pag. 242-244
“Di Corinna è conservato un paio di versi (15 D. 5 Page) in cui essa rimprovera Mirtide, che
ha rinnegato la sua natura femminile ed ha osato entrare in gara con Pindaro. La migliore
interpretazione suggerita dalla forma linguistica indica che si tratta di un agone tra due
contemporanei. Su questa base si può datare la poetessa Mirtide, nata ad Antedone, sulla
costa settentrionale della Beozia; ben più difficile è stabilire se la sua competizione poetica
con Pindaro risponda a verità o se non sia una delle tante invenzioni storico-letterarie. In
Plutarco (Quaest. Graec. 40, 300 s.) Mirtide è detta
. L’interpretazione più
verosimile è che si tratti di canti monodici, e Corinna, che ne scriveva, era considerata
sua allieva. Ma non si deve escludere che essa scrivesse anche liriche corali, e la storia
della gara con Pindaro è un indizio in questo senso. Nel passo citato Plutarco racconta
il contenuto di una delle sue poesie:l’amore infelice di Ochna per il suo giovane
Eunosto, che muore a causa delle sue calunnie. E’ il primo di numerose versioni greche
del motivo di Potifar, e un notevole indizio che ci fa intravedere una ricca tradizione
locale di motivi erotici che più tardi offriranno materia alla grande poesia.”. “Nella Suda
Corinna è detta allieva di Mirtide, e avrebbe riportato cinque volte la vittoria su
Pindaro”.
Nosside di Locri
pag. 918
“E’ notevole che in questa cerchia continentale si trovino poetesse di livello non
disprezzabile. Nosside di Locri, nell’epigramma che evidentemente chiudeva il suo libro
poetico (Anth. Pal. 7, 718) si paragona a Saffo”.
Prassilla di Sicione
pag. 245
La Beozia e il Peloponneso, ma non l’Attica, offrono nomi di poetesse di cui si sia
conservato a lungo il ricordo. Ciò è in rapporto con una posizione diversa della donna,
più libera di quella che conosciamo per il mondo ateniese. Sicione, la vicina di Corinto,
ebbe la sua Prassilla che possiamo considerare all’incirca contemporanea di Telesilla.
E’ difficile afferrare la sua personalità, ma non si deve vedere in lei un’etera. Il suo
ricordo era onorato, e nel IV secolo il suo concittadino Lisippo le fece una statua di
bronzo. Di lei si citava un verso (I D.) da un ditirambo Achille. E’ possibile che Prassilla
componesse ditirambi di contenuto narrativo; resta strano, però, che il verso in cui
qualcuno biasima il duro carattere di Achille sia un esametro. Tre esametri sono
conservati da una composizione su Adone (2 D.): il morto Adone, al quale
nell’oltretomba è stato chiesto che cosa abbia lasciato di più bello, oltre al sole e alla
luna nomina diversi frutti. Nell’antichità questa risposta era intesa come un segno di
particolare ingenuità, e si era creata l’espressione:«più sciocco dell’Adone di Prassilla».
E’ più probabile che con questa frase si volesse canzonare Prassilla, e non che essa
avesse dato al suo Adone il carattere di uno sciocco. Fra gli scolii attici di cui abbiamo
parlato sono stati attribuiti a Prassilla l’esortazione di Admeto a scegliere una buona
compagnia (14 D.) e l’ammonimento a guardarsi dallo scorpione che sta in agguato
sotto ogni pietra (20 D.). A questo proposito sono citati anche canti sul vino (παροίνια),
il che significa soltanto che alcune sue cose sono state incluse fra la poesia conviviale.
Telesilla di Argo
pag 244 s.
“Nel santuario di Afrodite, presso il teatro di Argo, Pausania (2, 20, 8) vide una stele
con la poetessa Telesilla. Nella raffigurazione essa aveva gettato via i suoi libri e si
accingeva a calzare l’elmo. In realtà la fama di questa Argiva si fondava sulla notizia,
spesso ripetuta, che in un’ora disperata essa avesse respinto i Lacedemoni, insieme con
le donne della città. Della poesia di questa donna, vissuta nella prima metà del V secolo,
possiamo dire soltanto che era fortemente legata al culto. Ora, nel santuario di Asclepio
a Epidauro si sono trovate pietre con diversi Inni agli dèi (IG 4/I², 129-134), uno dei
quali racconta come la Madre degli dèi erra corrucciata per monti e per valli e
rivendica la sua parte dei regni del mondo. I versi, male tramandati, presentano un
metro che gli alessandrini chiamavano telesilleo, dal nome della poetessa, e poiché
sappiamo che essa scrisse inni agli dèi, possiamo vedere qui una sua opera. Il suo stile
è estremamente semplice, ha ancora meno pretese di quello di Corinna; soltanto
l’introduzione immediata dei discorsi diretti, nel dialogo, crea una certa vivacità. La
lingua è quella comune della lirica del tempo, con poche deviazioni. A proposito di
Teocrito 15, 64: «Tutto sanno le donne., anche come Zeus prese Era in moglie», uno
scolio conservato da un papiro (n. 1163 P.) suggerisce che si alluda a Telesilla. In ogni
caso si può ritenere, quindi, che essa avesse scritto una poesia sulle nozze delle due
divinità”.
Stefano Rovelli