INTRODUZIONE Con questo studio si intende riportare attenzione su alcuni aspetti del teatro rinascimentale interrogandosi, oltre che sul fondamentale e indagato apporto della Poetica aristotelica, sulla relazione tra la drammaturgia della prima metà del secolo XVI e la retorica classica. L’intento è quello di comprendere, nello specifico, come all’interno della cultura di corte e del teatro erudito prima e in quello d’ispirazione religiosa poi, l’eloquenza abbia rappresentato un modello di riferimento dei generi letterari e assicurato un complesso normativo. In più, ciò che verrà rilevato è come, soprattutto in epoca manieristica, tale correlazione sia stata a volte messa in crisi e come il teatro, eletto a paradigma del mondo, facendo posto a una tensione rappresentativa rinnovata dall’apporto dei progressi scientifici, abbia espresso una tensione speculativa verso la complessità della natura e una inclinazione critica nei confronti del mondo, valicando i limiti angusti di una cosmologia di matrice cortigiana destituita di fondamento. In modo complementare a tale ipotesi, se uno degli ambiti in cui i nessi tra retorica e spettacolo si manifestano è quello della Festa, nel quale prolifera il teatro nel suo vincolo edonistico ed eticizzante con la corte e poi quello della pedagogia e spettacolarità gesuitica, si vedrà come tale dispositivo ludico, funzionale all’esercizio del potere e al condizionamento ideologico e religioso, sia assimilabile alle logiche della ragion di stato e del sapere del «dispositivo» teorizzato da Michel Foucault, rinvenendo nella retorica il suo strumento di persuasione politica. Ciò che si vuole porre in evidenza, infatti, è come la concretizzazione di tale dispositivo retorico, sostenuto dal principio del decorum, abbia contribuito non soltanto alla nascita del teatro moderno ma sia stato uno dei riferimenti etici degli istituti socio-politici e religiosi che se ne sono fatti carico. L’ipotesi di fondo di questa ricerca che poggia sulla centralità del modello I retorico, privilegia l’osservazione di tale evidenza nella drammaturgia comica e tragica del Cinquecento. Attestata la conformità fra retorica e teatro dai ripetuti rimandi all’attore della retorica classica, in quanto arti della parola e del gesto dotate di equivalenti facoltà mimetiche del reale, le regole costitutive del linguaggio e della sua composizione retorica sono apparse idonee a ricoprire valore normativo anche per la drammaturgia, rilevando finanche come i criteri formali della scrittura teatrale siano apparsi conformi agli elementi costitutivi della retorica e la struttura del testo teatrale classico congruente all’impianto dell’orazione. In aggiunta, uno degli apporti significativi che la retorica fornisce alla drammaturgia è l’attenzione alle capacità mimetiche e rappresentative del comico. Sebbene sia stata sovente evidenziata l’antitesi col tragico, su cui hanno gravato pregiudizi antichi e medioevali ricaduti sul dibattito rinascimentale, si intende dimostrare, infatti, come l’apporto del comico alle logiche della sia stato cruciale grazie al contributo della retorica, in quanto entrambi processi mimetici e rappresentativi di situazioni e individui reali trasportati nella sfera della verosimiglianza. La capacità dell’oratore di allettare l’uditorio e screditare l’avversario facendo uso del comico, viene recuperata nella rappresentazione di situazioni e caratteri umani della commedia riconosciuti adatti al sistema moralistico del teatro erudito, in cui vizi e negatività sono rilevati e opportunamente stigmatizzati sotto la lente oggettiva e implacabile del comico. Trasformati in argomentazioni dalle potenzialità “catartiche” vengono infine esaltati sfruttando comici trasmessi dal modello classico, ma poi, dissimulati in scena dal decorum e resi funzionali alla moralizzazione erudita. Si vedrà poi come, adeguandosi alla concezione autoriflessiva del teatro erudito, ma anche perché congeniale all’edonismo cortigiano, la commedia rinascimentale, modulata sul modello plautino-terenziano e apparentemente II distante da Aristotele, si riveli come il genere di maggiore presa nella pratica spettacolare del primo Rinascimento. Difatti, sin dalla riproposizione delle commedie di Plauto e Terenzio a Roma e Ferrara, tra fine Quattrocento e primo Cinquecento, la simmetria tra archetipo formale, prassi spettacolare e modello pedagogico è già in atto. Alla genesi del teatro moderno, come sarà opportunamente rilevato, concorrono le prime indagini filologiche sui classici e la pubblicazione delle opere di Plauto e Terenzio, dei tragici greci, di Aristofane, di Seneca, oltre che di Aristotele, Cicerone e Quintiliano, iniziative editoriali che, nonostante l’interesse primariamente filologico, integrano lo studio della spettacolarità rinascimentale poiché settore del medesimo ambito di studio. Nel processo di integrazione dell’eloquenza nella concezione estetica e nelle arti della memoria rinascimentali, come è noto, ricopre grande importanza lo sviluppo della mnemotecnica. Si tratta della tecnica finalizzata e memorizzare informazioni trasformandole mentalmente in immagini e storie collocate in appositi loci (luoghi familiari alla memoria individuale). A tal proposito, si metterà in evidenza quali siano stati gli effetti dell’applicazione di tale tecnica ai processi mimetici e rappresentativi del teatro. Specificamente, come supporto alla relazione con lo spettatore, evidenziando altresì quanto l’arte della memoria, richiamando l’analisi di Roland Barthes degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, oltre che l’Idea del theatro di Giulio Camillo Delminio, sia stata preziosa alla pratica spettacolare erudita e a quella devota. Si vedrà come ne scaturisce un esercizio della “visione” in cui elementi tipici della mnemotecnica fungono da ausilio razionale alla fruizione dello spettacolo teatrale integrandone, con l’apporto della memoria e della capacità di immaginazione dello spettatore, le limitazioni materiali della finzione e dell’«apparato». Tale procedimento che non resta psichico ma diviene tangibile, esalta la funzione della drammaturgia, rendendo urgente la risoluzione del contraddittorio confronto tra testo e spettacolo III proposto e non risolto da Aristotele, il quale assegna grande importanza ai procedimenti della visione. Sul modello aristotelico, contrariamente alla formulazione del genere comico, può contare la ricostituzione di un modello tragico che risponda alle esigenze etiche e culturali del dispositivo cortigiano e di quello ecumenico. Le forme e i temi della tragedia classica, appaiono risemantizzati nella drammaturgia tragica cinquecentesca. Il ruolo dell’eroe, l’immagine femminile e la stessa concezione della verosimiglianza vengono adeguate all’ideologia e alla macchina spettacolare sempre più rivolta alla rappresentazione della vera storia. In ambito religioso, la necessità di adeguare il modello teatrale classico alle vicende ispirate al Cristianesimo impongono eccezioni radicali al rigido modello aristotelico che accompagnano il superamento della verosimiglianza a favore del vero. A tali esigenze alcuni autori di testi teatrali religiosi, ma soprattutto i Gesuiti piegano l’immodificabile struttura del dramma, sostituendo l’immagine dell’eroe classico con quella del martire, trasformando il tema della colpa come in un princpio regolato dal libero arbitrio, modificando dall’interno tutti gli elementi costitutivi del tragico. Si crea, in questo modo, una rinnovata prassi della spettacolarità che, superati i vincoli del tramontato aristotelismo e del classicismo cinquecentesco, si avvia a definire una concezione dello spettacolo come impresa che apre le porte alla definizione estetica del Barocco. IV