universita` degli studi di milano ominizzazione, etologia ed

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO
Facoltà di Studi Umanistici
Corso di Laurea Triennale in Filosofia
OMINIZZAZIONE, ETOLOGIA ED EVOLUZIONE
NEL PENSIERO DI RENÉ GIRARD
Relatore : Prof. Gianfranco MORMINO
Elaborato finale di:
Lorenzo BERTOLESI
Matricola n. 775986
Anno Accademico 2012 – 2013
«Credo che potrei voltare la schiena e andare a vivere con gli
animali, sono così placidi e contenti,
Mi fermo e li contemplo per ore e ore.
[..]
Essi mi rivelano i loro rapporti con me e io li accetto,
Mi recano testimonianze di me, e dimostrano chiaramente
che le hanno in loro possesso.
Mi chiedo dove mai abbiano raccolto queste testimonianze,
Forse anch'io sono passato da quelle parti, tempi infiniti or
sono, e con negligenza le ho lasciate cadere?
Per conto mio, avanzando allora, ora, sempre
Raccogliendo e rivelando sempre più,con velocità sempre
maggiore,
Infinito e onnigeno, loro simile tra le varie specie,
Non troppo sdegnoso verso quelli che ostentano i miei ricordi,
Ne scelgo uno che amo, col quale m'avvio come con un fratello»
Non so da dove hanno preso quei segni,
Io senza saperlo potrei essere passato per quella via secoli fa e averli
negligentemente lasciati cadere,
Nel mio muovermi in avanti allora, ora e sempre,
Raccogliendone e mostrandone altri, senza sosta e velocemente,
Infinito e onnigeno e simile, a loro,
Senza troppo discriminare chi somiglia a quelli che mi somigliano,
Scegliendo qui qualcuno che amo, scegliendo di andare con lui come
un fratello
(W. Whitman, Il canto di me stesso 32)
«il disordine (condotte casuali, competizioni, conflitti) è
ambiguo: è da una parte uno degli elementi costitutivi
dell'ordine sociale (varietà, differenziazione, elasticità,
complessità), ma d'altra parte resta nello stesso tempo
disordine, cioè minaccia di disintegrazione. Qui, di nuovo,
la minaccia costante che il disordine mantiene è ciò che dà
alla società il suo carattere complesso e vivo di
riorganizzazione permanente».
(E. Morin, Il paradigma perduto, cit., p. 45).
1
Indice:
Introduzione...................................................................................................3
1. Il processo di ominizzazione: ricostruzione dell'ipotesi di René Girard...9
1.1 Uno sguardo al passato........................................................................................9
1.2 Capro espiatorio e salvezza umana....................................................................19
1.3 Contrattualismo: un'ipotesi poco verosimile.....................................................24
2. Etologia..........................................................................................................28
2.1 Mimetismo e Violenza: Girard e l'etologia........................................................28
2.2 Risoluzione attraverso il capro espiatorio: ri-direzione dell'aggressività e
legame......................................................................................................................48
2.3 Questione di mimetismo....................................................................................59
3. Evoluzione, Ominizzazione e Teoria Mimetica..........................................63
3.1 Evolution Theory , Mimetic Theory: due teorie a confronto..............................63
3.2 Religione, Cultura e selezione di gruppo...........................................................70
3.3 Evoluzione e Sistemi Auto-organizzatori...........................................................80
4. Istituzioni sociali nate dal meccanismo vittimario....................................89
4.1 Il significante trascendentale.............................................................................90
4.2 Divieti e Riti.......................................................................................................95
4.3 Domesticazione ed agricoltura........................................................................102
4.4 Regalità............................................................................................................106
Conclusione.................................................................................................109
2
Introduzione
La varietà culturale, le diverse abitudini ed i bizzarri rituali – tipici di ogni società –
affascinano da sempre moltissimi pensatori, viaggiatori ed osservatori, i quali non possono
redimersi dal riflettere sulla differenza culturale; si pensi ad Erodoto che – nelle sue Storie
– ci narra dello stupore che i Greci mostrarono nei confronti delle abitudini funebri degli
Indiani, e viceversa1; anche Montaigne muove la sua sottile attenzione su tale tema,
facendo notare lo strano comportamento dell'europeo 'civilizzato' che – agli occhi del
'selvaggio' – pone i suoi escrementi nasali all'interno di un lembo di stoffa pregiata,
portandosela appresso tutto il giorno. Questo medesimo interesse si concretizzerò con la
nascita dell'antropologia culturale, disciplina nata con l'ambizioso compito di studiare in
modo programmatico le diverse culture mondiali; tale indagine, guardando al particolare,
non dimenticava certo il generale, ed è per questo che la ricerca sul campo era condita con
una fine ricerca teorica e speculativa: le culture si presentavano molto diverse, ma – in
fondo – all'orizzonte si stagliavano delle 'regolarità', dei fenomeni universali, all'insegna
dei quali si poteva ipotizzare e, poi, declamare una pagliuzza, un singolo aspetto o rituale,
dal quale divampò la cultura umana (si pensi alla proibizione dell'incesto o la regole
dell'esogamia). Ben presto, però, l'antropologia abbandonò questo atteggiamento teorico, a
causa dell'incapacità esplicativa delle teorie elaborate; questioni quali l'origine delle forme
culturali, delle credenze religiose e dei riti ad esse associati, vennero accantonate e questo
generò nuovi interessi e nuove riflessioni. Una delle problematiche maggiori era il
problema della religione, il cui ruolo e funzione rimasero a lungo incomprese, o peggio : gli
atteggiamenti superstiziosi che la caratterizzavano, finirono per stigmatizzare l'immagine
della religione come irrazionalità e falsità. La rinuncia a tentare di comprendere queste
istituzioni non fu però universale, e tra le diverse teorie che tentano di sgrovigliare la
matassa culturale spiccano i testi di Girard.
Ispirato dalla teorizzazione del desiderio mimetico, Girard s'immerge totalmente
nella questione antropologica, donando al pubblico una rivoluzionaria lettura del concetto
di sacro, di rito ed in generale del concetto di Cultura; la domanda che guida la riflessione
1 «Una volta Dario, durante il suo regno, convocò i Greci del suo seguito e chiese loro per quale somma
avrebbero accettato di cibarsi dei cadaveri dei loro padri morti; ed essi risposero che non lo avrebbero
fatto mai, per nessuna somma. Subito dopo Dario chiamò degli Indiani, della tribù dei Callati, tribù in cui
si usa cibarsi dei propri genitori, e domandò loro, in presenza dei Greci (che potevano seguire i discorsi
grazie a un interprete), per quale somma avrebbero acconsentito a cremare sul rogo i loro padri; ed essi
protestarono a gran voce invitando Dario a non dire empietà. Le usanze sono usanze, c’è poco da fare, e a
me sembra che Pindaro l’abbia espresso molto bene dicendo: “La tradizione è regina del mondo”»
(Erodoto, Storie, III, 38).
3
girardiana (in queste opere antropologiche) è questa: «Perchè la credenza nel sacro? Perchè
ovunque riti e divieti, perchè non vi è mai stato un ordine sociale, prima del nostro, che non
appaia dominato da una entità soprannaturale?»2. Ne La Violenza ed il sacro viene espressa
la teoria del capro espiatorio, idea molto semplice, chiara e per questo sovente imputata di
riduzionismo e fantasia: questa fu la mia stessa opinione la prima volta che ne sentii
parlare; le difficoltà che suscitava, le problematiche così complesse che riusciva a
sbrogliare così facilmente mi spronarono ad affrontare i diversi testi del 'critico letterario'
con un atteggiamento di radicale scetticismo: fu così che venni folgorato, e dovetti
ricredermi. Girard propone un'ipotesi di una coerenza e di un interesse sorprendente, la cui
efficacia trova spesso delle conferme; non intendo qui sostenere che la teoria mimetica sia
al cento per cento esatta, soprattutto per la strutturazione 'generale' che Girard ne da: molti
problemi sono da risolvere, molte difficoltà sono ancora all'orizzonte; è però una realtà –
credo innegabile – che l'argomentazione mimetica sia una fonte proficua di spunti e
intuizioni forti, utili per comprendere attentamente i nostri desideri ed i nostri
comportamenti; molti sforzi e molti pensatori dall'estrazioni accademiche più diverse
s'interessano alla teoria mimetica, confrontandosi a fondo con le sconvolgenti intuizioni del
suo teorico; tale ipotesi trova feconde applicazioni in antropologia, in psicologia ed in
molte altre discipline. René Girard propone una rilettura della Cultura e delle religioni
arcaiche davvero affascinante, che influenza totalmente il nostro modo di affrontare i
problemi classici dell'antropologia, e non solo: la rilettura che da dei grandi romanzieri
europei e dei maestri della tragedia greca, costringe il lettore ad un cambio di 'occhiali da
lettura', consegnandoci testi il cui nuovo significato – da lui scovato – determina il crollo di
tutto quello che credevamo di sapere su opere che pensavamo aver esaurito.
Con l'individuazione del meccanismo vittimario Girard crede di aver portato alla
luce non solo una semplice ipotesi, ma una vera e propria teoria della Cultura (dunque del
religioso) la quale po' considerarsi la vera realtà universalmente antropologica. Detta
ipotesi – ampliata in Delle Cose nascoste sin dalla fondazione del mondo – si presenta
dunque come una lente ermeneutica delle realtà sociali umani, capace di rendere conto in
modo coerente e – come dice Girard – 'scientifico' di quella particolare specie che
possiamo definire homo religiosus: nutrendosi dello studio dei rituali religiosi e delle opere
mitologiche, l'autore ha l'ambizioso compito di sgrovigliare la complessa realtà umana,
rispondendo ad una delle questione più titaniche riguardanti l'origine della cultura, ed in
fondo, dell'uomo stesso. Molto fiducioso ed audace, Girard si spinge oltre la soglia della
2 R. Girard, Delle cose nascoste, cit., pp. 17-18.
4
storia documentata, gettandosi in un passato ancestrale, nel quale uomo ed animale
vivevano uno fianco all'altro, proprio come fece Rousseau quando – immerso nelle
boscaglie francesi – elaborò il celebre Discorso sulla Disuguaglianza; Girard è molto
ardito nelle sue ricerche e nelle sue speculazioni, ed è per questo motivo che fui molto
colpito dalla sua ipotesi dell'ominizzazione: un'ipotesi appena abbozzata ma che,
nonostante le diverse lacune, si presenta estremamente efficace e disarmante, in grado di
superare il fugace affresco lasciato da Freud in Totem e Tabù; la questione
dell'ominizzazione è d'importanza capitale, proprio perché è solo sapendo da dove siamo
partiti che possiamo davvero capire totalmente dove (e come) andare o più semplicemente
in che modo poter affrontare i problemi che via via la nostra società sviluppa; ogni riforma
sociale o personale (possibile e non utopiche), ogni discorso teorico sulla nostra Cultura,
sul rapporto con il pianeta e gli altri esseri viventi che lo abitano, trova la sua marcia
iniziale nella scoperta delle nostre origini.
Cosa vi è di davvero fondamentale nella risposta che da Girard a tale questione? La
superiorità dell'ipotesi di Girard si rivela nella ricostruzione di stampo biologicoevoluzionistico: se davvero si vuole rendere conto dell'uomo e della nascita della cultura,
tale atteggiamento non può essere ignorato, come invece spesso avviene. Non si deve
stabilire una cesura tra le diverse discipline, affermando la totale superiorità dell'uomo e
delle sue costruzioni culturali; dobbiamo invece glorificare la teoria darwiniana e la
potenza esplicativa che essa presenta, e – per ricostruire il percorso fatto dai nostri antenati
– non ci si può sottrarre a questo paradigma; ecco perchè l'inevitabile confronto con
l'etologia innalza notevolmente l'ipotesi girardiana: l'uomo è un animale, ed in quanto tale
deve essere concepito; attuando un lavoro di osservazioni comparate, molto si può capire,
sia su di noi sia sul resto dei viventi. Il nostro pensatore getta così un veloce affresco
dell'ancestrale svolgimento degli eventi che hanno portato un particolare insieme di gruppi
pre-umani a sviluppare la genesi di tutte le forme culturali, fornendo un'interessante ipotesi
della nascita della Cultura e, di conseguenza, dell'uomo, riuscendo – nel contempo – a
conciliare gli aspetti etologici – negando dunque qualsivoglia falsa specificità umana – ed
inscrivendo tutto in una cornice evoluzionistica, creando in questo senso una 'teoria
darwiniana della cultura umana'. Il rapporto con l'etologia apre un interessante spiraglio per
comprendere la posizione dell'uomo nel mondo: la teoria dell'ominizzazione di Girard, se
inscritta a dovere nella teoria darwiniana, muove di fatto una critica implicita alle teorie
antropocentriche, muovendo dalla convinzione che quelle che possono essere definite
'peculiarità' dell'umanità nascono sul terreno comune che riunisce tutti i viventi: il concetto
5
di mimesis è il terreno fertile su cui ogni vivente cammina, la prova evidente che non esiste
alcun tipo di differenza essenziale tra l'uomo ed altri animali, contrariamente a molte
presunzioni che da sempre l'umanità si auto-proclama3; seguendo tale argomentazione fino
in fondo, possiamo notare come Girard traccia il percorso dell'umanità come una semplice
evoluzione lineare, che – basandosi su determinate condizioni fisiologiche – ha condotto
l'uomo a doversi dotare di un determinato sistema culturale e simbolico, pena l'estinzione:
tale sistema simbolico, sviscerato fino in fondo, non è nient'altro che un gioco di equilibri,
gerarchie ed ordine che ha condotto l'uomo a sviluppare quello che viene presentata da
Girard come la soglia del simbolico, baluardo delle conquiste culturali umane. Proprio in
quest'ultimo frangente, si può notare una tensione nelle riflessioni girardiane: attraverso
detta ipotesi, infatti, Girard definisce la nascita del simbolico come un'inevitabile punto di
discontinuità, di rottura: «Gli etologi insistono troppo sulle radici comuni e non vedono il
salto fondamentale (se vogliamo evitare di dire rottura) tra cultura umana e comportamento
animale, causato dall'emergere della sfera simbolica»4. E' interessante notare come tale
divario non è un punto di partenza, quanto piuttosto un risultato selettivo nato
dall'eccessiva violenza intra-specifica dilagante all'interno delle società pre-umane; è
attraverso il meccanismo del capro espiatorio che dal livello simbolico è riuscito ad
emergere, attraverso – in primo luogo – il linguaggio: «per avere un potere simbolico è
necessario trovare una fonte esterna che abbia forzato il linguaggio a emergere, che abbia
costretto i primati a sviluppare una forma simbolica sofisticata e a mio modo di vedere
questa fonte è il meccanismo del capro espiatorio» 5. Dalle premesse di partenza, che di
fatto ponevano una visione non antropocentrica ed 'egualitaria', tale valutazione
dell'emergenza del simbolico definisce la situazione umana quasi come, appunto, una
rottura: sebbene impossibile da cancellare, tale tensione è presente nell'ipotesi
sull'ominizzazione, ma nonostante ciò, mantiene un notevole interesse proprio nel suo
costante confronto con l'etologia, che permette lo spunto di una riflessione fondata sul
rifiuto di leggere il mondo attraverso una filosofia fondata sull'esistenza di una 'scala
dell'essere'.
Purtroppo, non è tutto oro quello che luccica: se è vero che Girard tenta di riunire in
un'unica teoria diverse discipline, molte ne rimangono accantonante; se davvero si vuole
comprendere come l'uomo è comparso, molte altre discipline e molte altre osservazioni
3 Questo non identifica Girard come un critico dell'antropocentrismo, tutt'altro: tuttavia, radicalizzando
alcune sue intuizioni, penso sia possibile identificare queste riflessioni per meglio posizionare l'uomo
all'interno del mondo.
4 R. Girard, Origine della Cultura, cit., p. 73.
5 Ivi, p. 74.
6
devono essere ancora fatte; la strada per la soluzione definitiva è ancora lontana.
Questo non vuol dire confutare l'ipotesi di Girard, ma neanche confermarla; la sua
ricostruzione, fondata sul desiderio mimetico e sul meccanismo del capro espiatorio, può
dimostrare alcune lacune archeologiche, ecologiche ecc, ma è innegabilmente un'ipotesi
feconda di intuizioni, suggestioni e lampi di genio; il ruolo riconosciuto alla religione ed il
suo legame con la società: fulcro dell'ipotesi di Girard, questo legame riflette un modo
veramente innovativo di capire le dinamiche umane e le loro evoluzioni: tra le molte teorie
della genesi umana, raramente ci si sofferma sulle dinamiche sociali ed interrelazionali,
preferendo una descrizione dell'aumento cerebrale e linguistico; a colpire il lettore è
l'aspetto strettamente sociologico che Girard ha in mente, in quanto consegna la genesi
dell'umanità, della cultura e della religione a delle dinamiche sociali e collettive,
comprendendo aspetti ecologici e 'tecnologici': la religione è un fattore contingente, il cui
ruolo è facilmente riconoscibile in termini di adattamento e non in termini di 'rivelazione',
'tendenza psicologica infantile'; altro aspetto forte, e per questo molto criticato –
specialmente dall'etnologia – è la convinzione ('darwiniana' se così possiamo dire) di poter
identificare un'unica matrice comune per tutte le culture umane, nate da un unico e
medesimo meccanismo: per quanto teoricamente ingenuo possa sembrare, è un tentativo
che riesce a cogliere nel segno, conferendo alla teoria di Girard grande forza.
Per questo motivo, ho deciso di affrontare le riflessioni sull'ominizzazione, tentando
di mettere alla prova e di valutare ciò che dell'ipotesi di Girard era solo abbozzato, non
completamente teorizzato: molto è cambiato nell'etologia e – soprattutto – nello studio dei
primati; per questo motivo ho tentato di confrontare le ipotesi di Girard con le osservazioni
compiute da diversi studiosi dei nostri simili, la cui complessità sociale risulta affascinante
ed illuminante. In secondo luogo, l'aspetto evolutivo che l'ipotesi presenta non viene mai
studiato ed esplicato del tutto; la sua riflessione intorno alla selezione di gruppo, si presenta
lacunoso, ma non è tutto: sotto la guida delle riflessioni di Morin, ho tentato di descrivere
in modo esaustivo la struttura formale e implicita dell'ipotesi di Girard, inscrivendola in
un'ottica neo-darwiniana: seguendo questa strada possiamo compiere una rilettura
complessiva delle dinamiche descritte da Girard (crisi mimetiche e nuovo ordine generato)
il cui andamento si ritrova in gran parte dei sistemi viventi. Riprendendo le teorie della
complessità e dell'auto-organizzazione, la ricostruzione girardiana è in grado di presentarsi
come un ulteriore strumento di comprensione sociale, in grado di giustificare appieno le
dinamiche più difficilmente accettabili, tra cui spicca l'idea di crisi come fondante di un
nuovo ordine. Per concludere, ho ripreso la ricostruzione che Girard fa – in Delle cose
7
nascoste – dell'evoluzione delle diverse istanze culturali 'universali' come il rito, il divieto,
ecc, muovendo dal meccanismo vittimario, concludendo il quadro dell'origine della cultura
e della sua evoluzione: un unico grande principio in grado di abbracciare l'enorme
variabilità culturale umana.
Questo studio, si presenta dunque come una prova, un tentativo di verificare e
comprendere realmente un'ipotesi teorica che difficilmente può essere verificata o
falsificata; non vuole definire l'assoluta esattezza di detta ipotesi, ma tenta di valutarne gli
aspetti audaci ma per questo degni di nota, specialmente il legame con l'evoluzione e
l'etologia; detto questo, sono convinto che – se non di verità si vuole parlare – nelle opere
di Girard si presenta una forza argomentativa ed una potenza esplicativa davvero
affascinante e folgorante, tanto da non poter essere ignorata.
8
I
Il processo di ominizzazione: ricostruzione dell'ipotesi di René Girard
1.1 – Uno sguardo al passato
Nel tentare una delucidazione del processo graduale che ha condotto alla nascita
dell'umano, sviluppatosi da gruppi pre-umani ancora privi di una cultura, dobbiamo
necessariamente osservare quali siano quei fattori peculiari della nostra specie: infatti,
partendo da semplici elementi contingenti, Girard tenta un'esplicazione della possibile
modalità di evoluzione che ha casualmente condotto l'umanità a doversi dotare di un
sistema culturale, a convivere in complesse società – dotate di rituali, divieti, istituzioni e,
dunque, di una religione – e tutto ciò che questo comporta. Dobbiamo dunque compiere
uno sforzo mentale, nel tentativo di focalizzare un momento più che remoto, con in mano
solo poche informazioni e congetture derivanti dall'archeologia, dall'etologia e, perché no,
dalle sottili intuizioni che le scienze umane possono darci.
Per comprendere come l'uomo si è evoluto e differenziato, Girard compie una serie
di osservazioni su diversi fattori strettamente fisico-biologici e sociali. Inoltre, può essere
molto proficuo un confronto con il mondo animale: evidentemente, furono determinate
caratteristiche – puramente casuali – che portarono alla nascita della cultura, evento che
dev'essere ricostruito in una prospettiva evolutiva, non finalistico-antropocentrica: i divieti
– pietre angolari della cultura – non sono stati consegnati all'uomo come dono, come le
tavole dei comandamenti mosaici. In questa prospettiva, l'origine della cultura va pensata
come la manifestazione di un elemento puramente casuale, la cui comparsa ha permesso
una maggiore fitness del genere umano, dimostrandosi come un fattore in grado di
orientare i gruppi pre-umani ad un modello di vita particolarmente innovativo e fecondo.
Diversi fattori dovettero caratterizzare quel particolare 'proto-umano', la cui
differenza con il resto dei primati era difficilmente reperibile: oltre all'elevata grandezza
del cervello, si deve considerare il lungo periodo di svezzamento del neonato umano, il
problema della sessualità permanente e quello dell'aggressività crescente, minaccia la cui
gravità aumentò di pari passo con attività quali la caccia, una forma elementare di guerra
oltre che all'utilizzo di armi rudimentali, ma comunque efficaci nel loro compito. Tentiamo
di tratteggiare, sulla scorta di Girard, le diverse tipicità umane, semplici elementi che
9
dovettero portare allo sviluppo della cultura come ad un insieme di divieti e riti senza i
quali l'uomo non avrebbe potuto sopravvivere.
Osservando la nascita di un cucciolo di antilope, ad esempio, ci sorprendiamo delle
abilità che esso immediatamente dimostra, in primis la capacità di camminare – più o
meno abilmente. Questo stupore deriva dal confronto con una delle caratteristiche
fondamentali della specie umana, e cioè la terribile debolezza del neonato: di fronte
all'antilope ogni 'cucciolo d'uomo' sembra tremendamente privo di ogni capacità: «Il peso
delle cure verso i figli nello scimmione nudo è molto più grave che in qualunque altra
specie vivente»6; ne consegue che, proprio come nei primati, prima che il neonato diventi
autonomo, sono indispensabili lunghi periodi, ed è Girard stesso che osserva in modo
perspicace: «Rispetto alla prole degli altri mammiferi il neonato umano è più vulnerabile e
debole, e lo rimane per un periodo di tempo estremamente lungo, più lungo relativamente a
quanto avviene nel regno animale»7.
Durante questo periodo, per permettere lo sviluppo completo del notevole cervello
umano, sono stati inevitabili dei moduli di comportamento 'sociali' che, non solo hanno
permesso alla femmina di poter nutrire ed accudire il neonato, ma che hanno portato la
collaborazione del maschio8; abbiamo di fronte un processo di co-implicazione e di
reciproco aumento della complessità, sia del cervello che della struttura sociale: entrambi i
fattori non fanno altro che fomentarsi a vicenda, portando ad un continuo accrescimento
reciproco, per cui da un lato l'evoluzione cerebrale dell'infante è resa possibile da una
precisa organizzazione sociale, la quale permette una sempre maggiore crescita
intellettuale9. Dobbiamo dunque tentare di immaginare dei veri e propri proto-umani che,
viventi in piccoli gruppi10 (società,branchi), collaborarono per permettere la sopravvivenza
6 D. Morris, Lo scimmione nudo, cit., p. 109. L'intero capitolo III si occupa dell'allevamento della prole
nello scimmione nudo; in esso, vengono riportati diverse osservazioni utili per comprendere la
caratteristiche dell'uomo anche in questo campo, e fra le diverse annotazioni, l'autore da molto peso
all'imitazione, atteggiamento che sembra fondamentale e d'intensità elevata nell'uomo: «la prole impara
rapidamente per mezzo dell'imitazione, processo che nella maggior parte dei mammiferi è relativamente
poco sviluppato, mentre nella nostra razza è splendidamente approfondito e perfezionato» (Cfr. Ivi.,
p.134).
7 R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 111.
8 Con questo non vorrei intendere collaborazione in termini matrimoniali: il modello basilare dovette essere
lontano da quello famigliare; la collaborazione maschile deve essere intesa in termini sociali e comunitari:
per questo motivo sia i gruppi di scimpanzé sia le comunità dei bonobo offrono spunti interessanti.
9 Morin parla infatti di 'giovanilizzazione' nel caso dell'uomo: «Di conseguenza, il processo di evoluzione
biologica dell'ominide è di carattere neotenico, cioè il rallentamento dello sviluppo ontogenetico tende a
conservare nell'adulto i caratteri infantili o giovanili, e anche a lasciare il processo incompiuto» (Cfr. E.
Morin, Il paradigma perduto, cit., 86). Dello stesso parere è Morris, secondo il quale la nudità dell'uomo
si basa – anche ma non solo – sulla neotenia.
10 Della stessa idea è Darwin: «Giudicando dalle abitudini dei selvaggi e dal maggior numero dei
quadrumani, gli uomini primitivi e anche i loro progenitori somiglianti alle scimmie, probabilmente
vissero in società». (Cfr. C. Darwin, L'origine dell'uomo, cit., p. 66).
10
della prole e, di conseguenza, dell'intero branco: questa situazione, lungi dal postulare una
famiglia tradizionalmente intesa, può essere confermata dall'osservazione delle scimmie
antropomorfe, un'utilissima finestra per comprendere le nostre origini. Molte osservazioni
mostrano come, sia nel caso degli scimpanzé che nel caso dei bonobo (ma anche nel caso
dei babbuini) siano assenti forme familiari composte da madre-padre-prole: se il legame
madre/figlio risulta notevolmente forte e prolungato 11, non possiamo giungere ad affermare
che la famiglia sia una 'forma originaria', almeno non per noi esseri umani.
Dall'osservazione dei nostri cugini sulla scala evolutiva, siamo portati ad dipingere l'uomo
primitivo vivente in grandi gruppi sociali, governati da dinamiche interne e già 'politiche',
nonostante la famiglia non fosse ancora sorta12.
Pensando in questi termini, dobbiamo già accantonare l'ipotesi che Rousseau
elabora nel celebre Discorso sulle origine della disuguaglianza, nel quale viene presentato
l'uomo naturale, un animale solitario che, vagando per la foresta, riusciva a sopravvivere
grazie alla sua perfettibilità e alla sua capacità di adattamento. Proprio questo testo, però,
ci permette di identificare una questione rilevante: la risoluzione dei conflitti tra questi
uomini; durante un ipotetico incontro di questi animali solitari, era possibile la ricaduta in
un conflitto a causa di diversi motivi, uno dei quali poteva essere il nutrimento: di fronte
ad un esemplare estremamente minaccioso ed imponente, la paura della sconfitta era
abbastanza forte da portare l'altro esemplare a scansare agilmente la lotta, semplicemente
con «venti passi dentro la foresta»13.
Questa valida ed interessante soluzione pacifica è purtroppo inattuabile in una
situazione di vita 'associata', sia che si tratti di umani che di animali, soprattutto se teniamo
conto delle riflessioni girardiane sua forza attrattiva che il desiderio mimetico comporta;
inoltre in un gruppo dove ogni membro costituisce – si presuppone – una risorsa
11 Frans de Waal, criticando Lévi-Strauss arriva a dimostrare che i casi di accoppiamento incestuoso tra
madre/figlio siano rarissimi nei primati da lui studiati; non solo: proprio il legame affettivo che lega la
madre alla sua prole viene considerato come il fondamentale processo che portò alla formazione
dell'empatia. (Cfr. Frans de Waal, Il bonobo e l'ateo, cit., pp. 89-90).
12 Il legame rapporto sessuale – fecondazione non dovette essere facilmente comprensibile, almeno in tempi
remoti come questi; per questo motivo credo sia possibile criticare tutte le ricostruzioni basate sul legame
madre-padre-figlio, in quanto viziate da un'immagine già evoluta dell'umanità: un esempio di questa
concezione si trova in Morris, che ne La scimmia nuda postula la sessualità 'monogama' come la via che
condusse ogni uomo a formare una famiglia (Cfr. La scimmia nuda, cit., pp. 67-69.). Una diversa ipotesi
sul legame sociale si trova in Le scimmie cacciatrici: presso i primati si osserva diffusamente la capacità
di manipolazione femminile, le quali contratterebbero le prestazioni sessuali in cambio dell'ottenimento
della carne,e dunque di un nutrimento ambitissimo: «Di solito, nelle società di primati umano e non
umani, i maschi procurano la carne e poi cercano di usarla per manipolare o controllare le femmine » (Cfr.
Le scimmie cacciatrici, cit., p. 18).
13 Jean-Jacques Rousseau, Origine della disuguaglianza, cit., pp. 69-70.
11
fondamentale per la sopravvivenza della prole e del gruppo stesso, il conflitto non può
risolversi con la dissoluzione della comunità stessa: come in un branco, è chiaro che la
convivenza comporti una serie di moduli comportamentali che istituiscano una gerarchia,
permettendo il controllo di determinanti atteggiamenti.
Ci si pone di fronte il grande problema di questi gruppi: nelle diverse forme di
società animali (umani e non) i conflitti sono delle realtà innegabili; pensiamo al periodo
dell'accoppiamento, durante il quale gli scontri tra gli esemplari maschi aumentano
notevolmente: in un dato scenario, il controllo dell'aggressività è un fattore fondamentale.
Non si deve commettere un errore importante, postulando la capacità – negli animali come
in noi – di salvaguardare determinati individui del gruppo da una possibile aggressione:
Lorenz, nelle sue osservazioni nota che la pulsione aggressiva esplode unicamente tra
animali della stessa specie14: quando un predatore azzanna la preda per sfamarsi, non
mostra nessuna modificazione fisica riconducibile all'aggressività; anche nella difesa della
prole o del cibo, i segni che denotano aggressività non sono così marcati come nel caso
della lotta tra maschi per il possesso della donna o del territorio. Lorenz mette sugli occhi
di tutti una verità che non sempre appare tale : la maggiore violenza , in tutti gli animali è
intraspecifica ed è questo l'enorme problema che, nell'ipotesi girardiana, si affaccia fin da
subito.
Se il vero problema è il controllo dell'aggressività, per sopravvivere ogni gruppo ed
ogni società, deve necessariamente far fronte ad una minaccia del genere; nel caso degli
animali 'superiori' la soluzione, osservata dagli etologi, sfocia in modelli comportamentali
definiti dominance patterns: quando tra due esemplari dilaga lo scontro, il vincitore –
grazie a delle inibizioni istintuali – non uccide lo sconfitto, ma lo lascia allontanare;
quest'ultimo però, accetta la sottomissione, lasciando al vincitore il podio di maschio alfa,
posizione che garantisce delle priorità notevoli. Questa rudimentale società è pervasa da
una precisa gerarchia, che raramente viene turbata.
I dominance patterns devono considerarsi inattuabili nella realtà pre-umana, e ciò a
causa di diversi fattori che contribuiscono al dilagare inarrestabile del conflitto: se molti
primati sono «tranquilli onnivori»15 non altrettanto possiamo dire per i gruppi dei nostri
antenati.
14 Lorenz scrive: « l'aggressività intra-specifica, l'aggressività nel vero e stretto senso della parola». (Cfr. K.
Lorenz, L'aggressività ,cit., pp. 65-66).
15 R. Girard, Delle cose nascoste , cit., p. 112.
12
La minaccia della violenza, viene acuita anche da fattori rilevanti: la caccia e la
guerra tra i primi gruppi umani:
«I nostri progenitori [..] sono divenuti molto presto, durante il processo di
ominizzazione, carnivori e cacciatori. Nel parossismo della caccia, sono necessarie
delle forti scariche di adrenalina, che possono anche verificarsi in altri momenti, in
seno al gruppo famigliare»16.
Il problema della violenza intraspecifica, o meglio del controllo della violenza,
appare estremamente complesso a causa sia della caccia, sia – e soprattutto – dalla
guerra17 che scorreva – in modo estremamente rudimentale – tra gli uomini primitivi: essa
«si sviluppa in maniera evidente tra gruppi molto vicini, ossia tra uomini che nulla
obiettivamente distingue sul piano della razza, del linguaggio, delle abitudini culturali».18
Attingendo dalle riflessioni girardiane, sappiamo come nel pieno parossismo della
guerra e della caccia, l'uomo si abitua a versare il sangue, ed inebriato dalle scariche di
adrenalina che queste attività determinano, ben presto finirà per rivolgere la sua violenza
all'interno del gruppo familiare: «Tra l'esterno nemico e l'interno amico non c'è reale
differenza»19. La tragedia euripidea di Eracle, che possiamo a ragione leggere come la
tragedia di un reduce incapace di superare quella che oggi è la nevrosi da guerra, è
ovviamente una tragedia vecchia quanto il genere umano: «La rabbia, quando ci si
abbandoni ad essa, è centripeta. Più è esasperata, più tende a orientarsi verso gli essere più
vicini e più cari»20. La triste realtà dell'omicidio intrafamigliare è un tetro evento che
conferma questa tendenza dell'escalation assassina e a nulla serve postulare istinti
'famigliari': «Affermare che esiste un istinto naturale a preservare i proprio congiunti è
evidentemente privo di senso, dal momento che, come è ben visibile, tra gli uomini
l'assassinio intra-familiare esiste, anche se non è la regola»21.
Dobbiamo però soffermarci su queste riflessioni. Girard, forse un po'
ingenuamente, vede nella caccia una via d'abitudine della violenza; da un lato, tale
concezione ha una sua rilevanza, basti pensare alle intuizioni di Plutarco riprese da Kant22,
16 R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 112.
17 La centralità della guerra è diffusamente citata anche da Darwin. (Cfr. C. Darwin, L'origine dell'uomo,
cit., cap. I).
18 R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 112.
19 Ibid.
20 Ibid.
21 G. Mormino, Il confronto con l'Altro, cit., p. 217.
22 Kant, ad esempio, scrive: «chi usa essere crudele verso di essi [gli animali] è altrettanto insensibile verso
gli uomini. Si può conoscere il cuore d'un uomo già dal modo in cui egli tratta le bestie. Hogarth ha
raffigurato in una sua incisione l'inizio della crudeltà, quando i bambini la praticano già verso gli animali,
comprimendo la coda ai cani e ai gatti; in un altra incisione egli rappresenta l'evolvere della crudeltà con
13
confermate dalle moderne ricerche psicologiche: la violenza verso un animale è
un'avvisaglia della violenza contro l'uomo; ma è anche vero che, sempre sulla stregua di
Lorenz23, possiamo afferma che non può solo detta violenza, determinare una crisi in grado
di devastare una comunità: i lupi24, impropriamente dipinti come gli animali più feroci, non
si dilaniano tra di loro, tutt'altro: ad un'adeguata violenza esterna, fa da contraltare
un'efficace serie di inibizioni sociali; in secondo luogo, come Girard nota,
si sono
osservati casi di caccia con aspetti rituali anche in alcuni gruppi di primati 25; possiamo
quindi ipotizzare che la caccia, indirizzando ad una violenza esterna, non sia un fattore
così determinante: nelle scimmie, spesso essa è un'inevitabile forma di aggressività
territoriale26; si può ipotizzare che il passaggio al consumo di carne sia stata una
conseguenza di tale realtà, accentuata dall'uso di rudimentali armi, il vero fattore rilevante.
Per quanto riguarda la guerra, la questione diventa più delicata: Girard, senza
troppo approfondire la questione, ipotizza la presenza di una tale attività, senza poi
spiegare come essa vada intesa; in questo può forse venirci incontro Canetti, il quale
definisce la guerra come una conseguenza della caccia: a mutare è solo la preda 27. Anche in
questo caso, possiamo avanzare un'ipotesi: è molto probabile che degli scontri tra gruppi
distinti avessero luogo, ma la forma di tale 'guerra' era terribilmente rudimentale, colpendo
dei gruppi tra i quali non si poteva scorgere nessuna differenza; è probabile, inoltre, che la
guerra non facesse altro che dividere gruppi originariamente uniti, attraverso la
disgregazione violenta.
23
24
25
26
27
l'investimento di un bambino, e quindi il culmine della crudeltà con un assassinio, mostrando così in
modo tremendo il prezzo della crudeltà.» (I. Kant, Lezioni di etica, a cura di A. Guerra, Laterza, RomaBari 1991 pp. 273/275.)
«Così si arriva al paradosso singolarmente commovente che i predatori più sanguinari, soprattutto il lupo
[..], siano fra gli animali forniti di più sicure inibizioni a uccidere che ci siano sulla terra». (K. Lorenz,
L'aggressività , cit., p 176).
La questione diventa in realtà molto fitta: l'aumento dell'aggressività umana potrebbe derivare anche dal
fatto che, a differenza dei lupi, la struttura sociale e individuale non deriva da gruppi di cacciatori
carnivori, come i grandi predatori; in La Scimmia Nuda, Morris elabora un'evoluzione umana che deriva
proprio da un connubio tra le abitudini dei primati e quelli dei carnivori, fornendo un'interessante ipotesi
su tali questioni. Che siano forse entrambe le tendenze (diverse) a creare aspetti sociali peculiari?
Cfr. R. Girard, Origine della Cultura, cit., p. 45.
Diversi studi sull'argomento dimostrano che presso i primati la caccia non ha come fine l'alimentazione,
in quanto essa inizia quando già sono sazi: la carne rimane più che altro un alimento prelibato, che però
non comporta ricerca attiva; la caccia ha più che altro un risvolto sociale e quasi rituale.
Questo fenomeno è molto interessante se letto tramite le riflessioni di Lorenz, che osserva come molti
attacchi di pesci verso altri siano una conseguenza di una vera e propria 'invasione territoriale'. (Cfr.
Lorenz, L'aggressività, cit., pp. 70-71).
Canetti , nel definire le mute – forme primigenie di massa – definisce la muta di caccia in questi termini:
«Quando una truppa eccitata va in caccia di un uomo che vuole punire, si tratta ancora di una formazione
analoga alla muta di caccia. Ma se quell'uomo appartiene a un altro gruppo che non può abbandonarlo,
ecco una muta contro l'altra. I componenti dei due gruppi nemici non sono molto diversi [..]. Nella forma
originaria di guerra i due gruppi sono così ravvicinati da potersi distinguere con difficoltà; si battono nel
medesimo modo, hanno armi pressoché identiche.» (E. Canetti, Massa e Potere, traduzione di Furio Jesi,
Adelphi, Milano 1981, pp. 118-119).
14
Ciononostante, Girard ha un'intuizione molto potente: caccia e guerra hanno portato
ad un innalzamento della violenza intraspecifica perchè , grazie all'elevata massa cerebrale
umana, l'uomo ha iniziato ad utilizzare determinati oggetti, come sassi e bastoni 28, i quali
sono delle armi molto pericolose ed efficaci, seppur rudimentali: questi sono i fattori che
determinarono il crollo di inibizioni istintuali. Quindi, se nel 'parlamento degli istinti''29
animali, accanto all'istinto che porta alla lotta intraspecifica, ve ne è un altro che inibisce
quest'ultimo, portando la lotta tra animale ad esiti non mortali, questo non sembra potersi
applicare alla realtà preumana: «Non si può credere che questo tipo di controllo [il
controllo istintuale animale] si estenda automaticamente alle pietre e alle altre armi
artificiali il giorno in cui gli ominidi cominciano ad usarle»30.
Questo non vuol dire dipingere l'uomo come un animale 'perverso': definizioni –
preconfezionate – come queste non fanno che eludere le vere spiegazioni, creando etichette
fasulle ed insensate (ciò vale anche per antropologie che hanno come potenza esplicativa la
cattiveria innata dell'uomo o il peccato originale); dunque, lungi dal postulare una sorta di
perversione originaria dell'uomo, Girard si rifà a fattori strettamente contingenti: grazie
all'evoluzione cerebrale umana, ben presto le pietre, usate come armi, vennero scagliate
anche all'interno, nelle lotte intraspecifiche e nei duelli: con in pugno un sasso, anche un
semplice colpo può essere fatale: «Se invece di lanciarsi dei rami come a volte fanno, gli
scimpanzé imparassero a lanciarsi delle pietre, la loro vita sociale sarebbe sconvolta»31.
Leggendo la cosa solo in questi termini, verrebbe però elusa quella che per Girard è
la vera peculiarità dell'uomo: l'ipermimetismo. La maggiore massa cerebrale di cui i nostri
antenati erano dotati porta inevitabilmente ad un incremento della mimesis: non serve
ricordare cosa sosteneva Aristotele32; molti recenti studi sui neuroni specchio hanno
dimostrato che la loro presenza nei macachi33, gli consente di imitare anche azioni ed
espressioni umane; l'imitazione – ad esempio presso gli uccelli – è fondamentale per
l'apprendimento del canto da esemplari già adulti; se dunque gli animali dimostrano una
spiccata tendenza all'imitazione, il nostro progenitore doveva sicuramente distinguersi
28 L'utilizzo di oggetti come mezzo per apparire più minaccioso, oltre che per assolvere determinati
problemi è ampiamente attestato anche nei diversi primati.
29 Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., cap. VI.
30 R. Girard, Delle cose nascoste , cit., pp. 113-114.
31 Ivi., p. 114.
32 «L'uomo si differenzia dagli altri animali nell'essere il più portato ad imitare». (Aristotele, Poetica, trad.
Diego Lanza, ed. speciale per corriere della sera , Milano , 48b 5-10).
33 http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/li-futuro-dei-neuroni-specchio
15
come il più abile; a pari passi con l'evoluzione della massa cerebrale, anche l'imitazione
deve essere dilagata a dismisura, fino al parossismo: «Vi è motivo di pensare che la
potenza e l'intensità dell'imitazione aumentino con il volume del cervello in tutta la
discendenza che porta all'Homo sapiens».34.
Possiamo a ragione ipotizzare che fu proprio la notevole «crescente potenza [del
cervello e quindi della mimesis] a far scattare il processo di ominizzazione»35. Pensando
alle nostre origini, dovremmo vedere quindi delle dinamiche psicologiche terribilmente
simili a quelle che Girard evidenzia nelle sue riflessioni sul desiderio mimetico (basti
pensare alla dinamica modello/discepolo): ciò che ci caratterizza è quindi fin dall'inizio –
e poi sempre più intensamente – un'innata intensità del desiderio.
L'aumento delle capacità mentali, portarono all'esasperazione della mimesi, la quale
si intromise anche nelle zone che i dominance patterns lasciavano come privilegio ai
'vincitori': la tipicità dell'uomo per Girard – l'ipermimetismo – fa crollare l'apparente
solido equilibrio delle società animali36 e non è difficile immaginare cosa possa conseguire
da ciò: «le rivalità mimetiche tra uomini sfociano facilmente nella follia e
nell'assassinio»37.
Legato all'ipermimetismo, emerge anche il problema della sessualità: in primo
luogo, la stabilità sociale non può essere nata dalla sessualità:
«nulla suggerisce che presa in se stessa [la sessualità permanente] abbia questo
potere. Nei mammiferi, i periodi di eccitazione sessuale sono contrassegnati da
rivalità tra i maschi. Il gruppo animale è allora particolarmente vulnerabile alle
minacce esterne. Non c'è ragione di vedere nella sessualità permanente un fattore di
ordine piuttosto che di disordine»38.
Se uno dei maggiori motivi dei conflitti è il possesso delle femmine, è chiaro che
già solo la sessualità periodica è motivo di aumento del conflitto; una sessualità
permanente non può, quindi, essere altro che un ulteriore motivo di tensione prolungata!
Dando man forte alla violenza, l'ipermimetismo rincara la dose fomentando il passaggio
alla sessualità permanente.
«Il ruolo considerevole degli incitamenti mimetici nella sessualità umana,
l'eccitazione per esempio, il ruolo del voyeurismo, ecc. suggeriscono che il
passaggio dalla sessualità periodica di tipo animale alla sessualità permanente
dell'uomo potrebbe radicarsi nella intensificazione della mimesi [..] questo
34 R Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 122.
35 Ivi., p. 123.
36 Come questo avvenga, verrà mostrato nel capitolo sull'Etologia: lì, sarà fatta attenzione a ciò che Girard
definisce mimesi d'appropriazione e mimesi d'antagonismo.
37 R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 123.
38 Ivi., p. 114.
16
essenziale legame con il mimetismo conferisce alla sessualità umana il suo
carattere ancora più conflittuale della sessualità animale, e la rende di per sé
inadatta a favorire l'armonia dei rapporti tra gli uomini, oppure la stabilità dei
partners sessuali».39
Prima di giungere alla soluzione proposta da Girard, la celebre teorizzazione del
capro espiatorio, risulta interessante un confronto con le teorie elaborate da Edgar Morin
nel suo Il paradigma perduto. Proprio come ammette il teorico della mimesi, molte
osservazioni vengono liberamente tratte da tale testo, il quale tratteggia e ricostruisce la
complessità di cause che condussero alla formazione dell'homo sapiens: molte sono le
suggestioni che Girard ha liberamente tratto da tale lavoro, lasciandone molte senza
un'adeguata tematizzazione. Entrambi gli autori si focalizzano sul processo di
ominizzazione, traendo da diverse discipline le osservazioni sui nostri avi: tale processo è
per entrambi una storia reale, un «gioco di interferenze che presuppone degli avvenimenti,
delle eliminazioni, delle selezioni, delle integrazioni, delle migrazioni, degli scacchi, dei
successi, dei disastri, delle innovazioni, delle disorganizzazioni e delle riorganizzazioni»40.
Il filosofo della complessità deve quest'appellativo al suo peculiare metodo e
proprio in questo testo possiamo osservare una riflessione estremamente acuta ed
omnicomprensiva, tendente a tracciare il lungo percorso che spinse i primi ominidi a
divenire sapiens: vengono considerate non solo la dimensione socio-culturale, ma anche
riflessioni sulle caratteristiche dei primi ominidi, oltre che i grandi mutamenti ecologici e le
loro restrittive conseguenze; il tentativo di Morin si dimostra anch'esso dominato dalla
volontà di ricongiungere gli studi antropologici con quelli eto-biologici, la cui rottura è un
fatto increscioso e dannoso per la scienza dell'uomo. Come l'homo sapiens si sviluppò,
quali furono le condizioni della sua apparizione? Tale atteggiamento risulta essere più
ampio di quello girardiano, il quale soprassiede superficialmente ad una serie di questioni,
trattate invece da altri studiosi.
Secondo Morin: «il linguaggio e la cultura devono cronologicamente precedere
sapiens e logicamente condizionare l'evoluzione biologica ultima che termina nel suo
cervello di 1500 cm3»41. Non si può spiegare l'uomo in base all'ampiezza cerebrale dei
sapiens, in quanto questo è il punto di arrivo; in questo vediamo una sorta di 'mancanza' nel
discorso girardiano: in Delle cose nascoste moltissime questioni vengono trattate con
39 R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 123.
40 E. Morin, Il paradigma perduto, cit., p. 60.
41 Ivi., p. 57.
17
eccessiva leggerezza, forse proprio perché riprese dal filosofo della complessità, molto più
incline a comprendere la centralità di diversi fattori; secondo Morin la posizione verticale e
la locomozione bipede42 permisero la differenziazione dell'ominide da altri primati; da
questo discendono le prime peculiarità: «il bipedismo apre la possibilità dell'evoluzione
che porta a sapiens: la posizione eretta libera la mano, la mano libera la mascella, la
verticalizzazione e la liberazione della mascella liberano la scatola cranica dalle costrizione
meccaniche che pesavano precedentemente su di essa, e questa diventa atta a allargarsi a
favore di un “locatario” più ampio»43. In secondo luogo, Girard non si pone neanche il
problema della forza44 e del modo in cui i primi gruppi pre-umani dovettero affrontare le
diverse difficoltà esterne; Morin comprende inoltre la centralità del mutamento ecologico,
che portò alla scomparsa progressiva della foresta, rimpiazzata dalla savana; fattori come la
curiosità infantile e la neotenia sono tutte ricondotte in un grosso calderone di idee e
suggestioni, che – mi preme sottolineare – Girard non tematizza a fondo, senza che questo
influisca più di molto sulla validità della sua ipotesi: semplicemente, l'accusa di
riduzionismo viene qui ad assumere molta importanza: egli si focalizza soprattutto
sull'aspetto sociologico della questione, cioè sulle dinamiche sociali che portarono al
controllo delle azioni violente; giunti ad un buon controllo dell'ambiente, all'uso di diversi
strumenti (fuoco ecc) e con determinate caratteristiche (bipede, pollice ecc) l'uomo giunse
ad un livello evolutivo notevole, ma non ancora culturale. Se quindi Girard vede
nell'ipermimetismo la genesi della crisi violenta, è chiaro che egli si focalizza su un aspetto
peculiare, e forse in un periodo 'storico' già avanzato; l'utilizzo del fuoco, il bipedismo,
l'evoluzione del pollice ecc. sono tutti fattori che non vengono tematizzati, ma rimangono
in una sorta di sfondo implicito, mentre giganteggiano tematiche primariamente sociali.
Questa critica alla completezza del discorso girardiano non ne mina l'efficacia: sappiamo
che i diversi ominidi dovettero giungere ad un determinato sviluppo prima di affrontare le
eccessive scariche mimetiche: non fu chiaramente il confronto con il mondo esterno a
42 L'importanza della locomozione bipede venne messa in luce già da Darwin: «Solo l'uomo è divenuto un
bipede e credo che si possa almeno in parte comprendere come egli sia giunto ad assumere la posizione
eretta la quale costituisce uno dei suoi caratteri più cospicui. L'uomo non potrebbe aver raggiunto la sua
attuale posizione di dominio nel mondo senza l'uso delle mani che sono così meravigliosamente adatte ad
agire secondo il suo volere.[..] Se è un vantaggio per l'uomo stare eretto sui piedi e avere le mani e le
braccia libere, del che non può esservi alcun dubbio, per il suo successo nella battaglia per la vita, allora
non posso scorgere nessuna ragione per cui non debba essere stato vantaggioso per i progenitori dell'uomo
assumere sempre più la posizione eretta e divenire bipedi. In tal modo sarebbero stati più capaci di
difendersi con pietre o bastoni, di attaccare la loro preda o di ottenere altrimenti il cibo». (Cfr. C. Darwin,
L'origine dell'uomo, cit., p. 58).
43 E. Morin, Il paradigma perduto, cit., p. 58.
44 Nel moderno – e non solo – dibattito sulla nascita dell'homo sapiens, si stagliano due grandi correnti di
pensiero: chi dice che l'uomo fosse un mammifero piccolo, docile ed indifeso, chi invece sostiene il
contrario, mostrando la forza dei moderni primati.
18
favorire la cultura, quanto piuttosto dinamiche endogene e sociologiche, ed in ciò la
profondità di Girard non trova eguali; ed in effetti, un evento così importante come
l'avvento della cultura si dovette presentare quando le differenti specie di ominidi si furono
già sviluppate ma non completamente specializzate:
«Siamo di fronte dunque a degli esseri che pur non essendo gli antenati
dell'uomo raggiungono, tecnicamente e sociologicamente, il livello umanoide, e
possiamo vedere l'antenato dell'uomo partire, tecnicamente e sociologicamente,
da un livello già raggiunto da una o più specie diverse di primati. [..] è altamente
probabile che non soltanto gli arnesi, ma la caccia, il linguaggio, la cultura siano
apparsi nel corso dell'ominidizzazione, prima che nascesse la specie
propriamente umana di sapiens»45.
Sia per Morin46 che per Girard, la formazione dell'umano è un processo, un
percorso che non identifica un p0 dal quale tutto si generò: ogni discorso evolutivo è
invece un percorso lungo e graduale, che comprende il concorso di molteplici cause.
Morin, però, si rivela più abile nel far dialogare una complessità di fattori che, integrandosi
e implicandosi l'un l'altro, furono la leva dell'ominizzazione: fattori ecologici, genetici,
pratici, cerebrali, sociali e culturali; a vari livelli corrispondono varie modificazione sempre
più complesse: «Questo ci indica già che l'ominidizzazione non si potrebbe concepire
soltanto come un'evoluzione biologica, né soltanto come un'evoluzione socioculturale, ma
come una morfogenesi complessa e a molte dimensioni risultante da interferenze genetiche,
ecologiche, cerebrali, sociali e culturali»47.
La posizione di Girard presenta dunque alcune lacune, ma allo stesso tempo è in
grado di rendere conto in modo assai più coerente molteplici fattori, tra cui il controllo
della violenza e il processo che portò ad un'ampiezza cerebrale così alta; è la costruzione
generale ad avere un'efficacia notevole, mentre da un punto di vista complessivo, abbiamo
una ricostruzione lacunosa e, in alcuni punti, superficiale.
1.2 – Capro espiatorio e salvezza umana
Le diverse peculiarità dei gruppi proto-umani appaiono tutt'altro che promettenti:
«Le forti dosi di aggressività che resero possibile ai nostri progenitori diventare cacciatori,
la sessualità permanente, le nuove armi, la stessa fragilità dei neonati sono tutte condizioni
45 E. Morin, Il paradigma perduto, cit., p.53.
46 «Questo significa che l'ominidizzazione è un processo complesso di sviluppo sprofondato nella storia
naturale dal quale emerge la cultura» (Cfr. Ibid.)
47 Ivi., p. 59.
19
che aggravano[..] la sopravvivenza»48. Il problema fondamentale è quindi il controllo della
violenza, il cui dilagare a macchia d'occhio è reso possibile dalle elevati doti mimetiche;
come l'uomo ha potuto sopravvivere? In fondo, tale sopravvivenza non può essere data
semplicemente per scontato: evitando l'estinzione, deve essere scattato un nuovo modello
comportamentale sociale.
«when mimetic and acquisitive violence leaps exponentially, made possible by
enhanced brain capacity, driven by accelerating mimetic and acquisitive rivalry,
made doubly perillous by the vulnerability of prolonged human infancy and by the
superior destructive power of artefact weapons – at the point, in short, where
terminal crises threaten to extinguish whole groups and communities of hominids,
and of early man unless...»49
La risposta di Girard è l'ipotesi del meccanismo vittimario; il dilagare delle lotte
interne al gruppo rende insostenibile la gerarchia dei dominance patterns, la cui scomparsa
conduce repentinamente ad una vera e propria crisi di indifferenziazione: se infatti nelle
lotte tra individui di una società animale lo scontro non genera ulteriori azioni violente,
istituendo la gerarchia dominante/dominato, nel caso dell'ipermimetismo umano i privilegi
del vincitore sono continuamente violati (e questo, è bene notarlo, sempre grazie
all'eccesso di mimesis, per cui l'imitazione dell'esemplare dominante – il modello –
pervade tutti gli aspetti del suo prestigio, conducendo i discepoli ad invadere quegli 'spazi'
che nelle gerarchie animali sono di appannaggio dei vincitori); scardinata tale ordine, la
violenza dilaga50 – sempre a causa della spiccata mimesis – propagandosi come una
terribile epidemia che infetta chiunque presti anche solo uno sguardo alla lotta. Si ricade
quindi in una rudimentale forma di crisi mimetica: crollano le differenze, ogni individuo ne
assume un altro come modello-ostacolo e contro di lui orienta la sua pulsione aggressiva; è
facile intravedere che questa dinamica, applicata ad ogni individuo, porterà ad una lotta
generalizzata tra doppi, nella quale l'intensità della mimesis cancella l'oggetto che aveva
suscitato lo scontro, e la rivalità si mostra come unico movente; «La rivalità, insomma, si
purifica di qualsiasi esteriore posta in gioco, si fa rivalità pura o di prestigio».51
Quella che nella mitologia sarà dipinta come una catastrofe naturale che sconvolge
la comunità al suo interno (basti pensare alla Peste che apre l'Edipo Re, trasfigurazione di
una crisi mimetica) dovette dunque dilagare in questi primi gruppi sociali ipermimetici.
48 G. Mormino, Il confronto con l'Altro, cit., p. 216.
49 http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Thinking%20the%20human.pdf
50 Che l'indifferenziazione porti alla crisi è un'idea fondamentale di Girard : «Non sono le differenza ma la
loro perdita a provocare la rivalità pazza, la lotta a oltranza tra gli uomini» (R. Girard, La Violenza e il
Sacro, cit., p. 77).
51 R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 43.
20
Questa dilaniante 'lotta di tutti contro tutti' hobbesianamente intesa, anomala per
proporzioni e gravità nel mondo animale, deve necessariamente52 trovare una nuova forma
di soluzione, un nuovo motore 53.
L'ipotesi del capro espiatorio appare dunque lampante e geniale allo stesso tempo:
quello che Girard ha delineato ne La Violenza e il Sacro diviene lo strumento per pensare
alle modalità di controllo della violenza: la risoluzione violenta contro un'unica ed
innocente vittima espiatoria si presenta come una lente ermeneutica adeguata non solo per
comprendere miti e riti, ma anche per indagare le nostre origini. Nel pieno dell'escalation
mimetica, svanisce la dimensione oggettuale e l'unica cosa evidente che rimane è il
conflitto: l'enorme carica energetica desiderante non può fare altro che colpire gli altri
membri del gruppo: «Per la mimesi l'unico campo di possibile applicazione sono gli stessi
antagonisti. Si produrranno allora, in seno alla crisi, delle sostituzioni mimetiche di
antagonisti».54
Si deve quindi ipotizzare che, ricaduti nel parossismo mimetico, ad un tratto la
violenza si polarizza verso un'unica vittima, che, diviene il polo magnetico che attira la
scarica aggressiva per tutti i membri del gruppo – il modello/ostacolo: la mimesi che aveva
portato all'escalation e alla divisione, ora «riunisce facendo convergere due o più individui
su un identico avversario che vogliono tutti abbattere».55 Seguendo il funzionamento del
desiderio mimetico, sappiamo che più gli sguardi mirano ad un oggetto, più esso viene
osservato e desiderato: alla stregua, più un singolo antagonista diviene il doppio mimetico,
più egli diviene il centro delle pulsioni aggressive:
«arriverà necessariamente il momento in cui l'intera comunità si ritroverà raccolta
contro un individuo unico. La mimesi dell'antagonista suscita dunque un'alleanza di
fatto contro un nemico comune e la conclusione della crisi, la riconciliazione della
comunità, non consiste in nient'altro».56
Si compie così un vero e proprio linciaggio collettivo, delle cui brutalità possiamo
solo immaginare attraverso la lettura della mitologia o forme particolarmente cruente di
sacrifici57 ; questo omicidio è il primo realmente unanime e ha come risultato la cessazione
52 Scrivo necessariamente, intendendo questo termine senza legare alcuna prospettiva finalistica: se gli
uomini sono sopravvissuti, ciò fu una conseguenza della “scoperta” di un nuovo meccanismo, che si
distacchi da quello animale, in quanto, se la gerarchia sociale non culturale non fosse giunta in crisi, non
si riesce a concepire il motivo della nascita dei divieti; questo non vuol dire negare la validità delle
osservazioni di Lorenz ma questo sarà trattato in seguito.
53 R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 124.
54 Ivi., p. 44.
55 Ibid.
56 Ibid.
57 Basti pensare al cruente rito del «pasto totemico» del cammello descritto da Robertson Smith (Cfr. S.
Freud, Totem e Tabù , cit., pp. 161-162).
21
della violenza: non vi sarà ripetizione mimetica di tale uccisione (almeno non
immediatamente). Tale omicidio, che possiamo tranquillamente definire fondatore, riporta
la pace all'interno del gruppo: «è solo una violenza in più, una violenza che si aggiunge ad
altra violenza, ma è la violenza ultima, l'ultima parola della violenza»58.
Può forse essere prematuro ipotizzare tutte quelle forme di metamorfosi che ogni
immolazione costruisce intorno al capro espiatorio (mostruosità, identificazione come
individuo non appartenente al gruppo); ma è certo che la ritrovata stabilità causata dalla
morte della vittima conduca la comunità non solo alla certezza della sua colpevolezza ,in
quanto fautore della crisi, ma anche alla sua trascendenza e potenza salvifica, in quanto
proprio la sua morte riporta la pace: «La comunità si percepisce come del tutto passiva di
fronte alla sua vittima, che appare, invece, il solo agente responsabile della vicenda».59 La
creazione dell'ambivalenza del sacro trova qui la sua genesi.
Tale sequenza di eventi apparirà sempre più rozza ed elementare se risaliamo nel
passato, ma conserverà tutta la sua efficacia: «questo meccanismo deve esercitare a tutti i
livelli sulle rivalità gli effetti, curativi e preventivi analoghi, fatte le debite proporzioni, a
quelli esercitati mediante i divieti e i rituali pienamente umanizzati»60. L'immolazione
vittimaria, dietro la spinta dell'ipermimetismo, si presenta così come un perfetto
meccanismo sociale che permette di far esplodere le rivalità mimetiche in tutta la loro
grandezza, ri-direzionando tale potenza violenta su di un unico 'capro'; il linciaggio dovette
creare un effetto ben più catartico di quello che si tenta di creare tramite la ripetizione
rituale: cessate le violenze, la crisi scompare, e la calma è ritrovata.
Ristabilita una pace sociale, la terribile esperienza appena vissuta deve aver portato
ad una forma estremamente rudimentale di divieto, il quale non ha conservato la sua
efficacia: ma, lungi dall'estinzione, la nuova crisi non fa altro che riprodurre lo stesso
meccanismo, e ciò non può fare altro che bene per la comunità:
«Possiamo concepire l'ominizzazione come una serie di stadi che permettono di
assoggettare intensità mimetiche sempre crescenti, separate le une dalle altre da
crisi catastrofiche ma feconde, perché fanno scattare di nuovo il meccanismo
fondatore e assicurano a ogni tappa dei divieti sempre più rigorosi all'interno e dei
canali rituali, più efficaci verso l'esterno».61
È proprio in questa coazione a ripetere dell'assassinio collettivo che l'umanità è
riuscito ad elaborare una doppia concezione di violenza: da un lato si trova la violenza
58
59
60
61
R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 42.
Ivi., p. 45.
Ivi., p. 124.
Ibid.
22
negativa, terribilmente centripeta, frutto della crisi mimetica; dall'altro – invece – la
violenza riconciliatrice e benefica per la comunità, cioè quella che unisce la comunità nel
linciaggio di uno solo: una violenza buona (per la comunità, non certo per la vittima
innocente); questa dualità, oltre che esplicare l'ambivalenza intrinseca nella concezione del
'sacro'62 permette anche la creazione di 'santuari' interni al gruppo dal quale la violenza
debba essere evitata : «si comprende come i gruppi di coabitazione siano potuti diventare
dei santuari di relativa non-violenza nel momento in cui, all'esterno le attività violente si
sviluppavano a dismisura»63. Questa logica del discernimento può essere già definita
'culturale', in quanto resa possibile dal meccanismo della vittima espiatoria : si creano così
degli individui verso i quali la violenza non si dirige, fattore che ogni gruppo sociale deve
necessariamente avere per salvare se stesso: questo può avvenire solo espellendo
l'aggressività all'esterno (o verso un membro interno reso o creduto esterno).
Non dobbiamo qui cadere però nella credenza che, dal corpo di questa prima
vittima fuoriescano tutte quelle complessità culturali come il linguaggio, i riti ed i divieti:
non è tanto in questo meccanismo di ridirezione della violenza che l'umanità vede la sua
forza, quanto nella sua ripetizione: «E si capisce anche come, a ogni stadio, delle
istituzioni più elaborate abbiano favorito un nuovo avanzamento mimetico, che
determinava una nuova crisi e così di seguito, in un movimento a spirale che umanizzava
sempre più l'antropoide»64; la dimensione culturale trova nella ripetizione il suo
fondamento e ciò comporta una lunga fila di vittime immolate 65. Non si tratta quindi di
pensare alla formazione dell'uomo come ad un momento unico e irripetibile, quanto
piuttosto ad un evento che, lentamente e progressivamente , trova nella ripetizione la sua
efficacia: l'ominizzazione è quindi un processo graduale nel quale sono sopravvissuti solo
quei particolari gruppi che, riuscendo a ri-direzionare l'aggressività verso un unico capro
espiatorio e ripetendo in modo rituale tale sequela di eventi, sono riusciti a trovare un
modo per arginare la violenza ed evitare che quest'ultima dilaniasse la società dall'interno,
62 Equivalente al pharmakos greco è, nello stesso tempo sia il male che distrugge che la forza che salva:
«Tale conclusione violenta, da forte impatto emotivo, trova le sue “forme fossili tarde” nei miti fondatori
e ,soprattutto, nei riti sacrificali, estesi nella maggior parte delle comunità; in entrambi i casi, «la vittima
dell'omicidio fondatore viene vista come responsabile dello straordinario passaggio dall'eccitazione alla
calma, assumendo così agli occhi dei suoi linciatori uno status del tutto eccezionale, preludio alla sua
collocazione in una categoria differente da quella degli individui comuni». (G. Mormino, Il confronto con
l'Altro, cfr., p. 219).
63 R. Girard , Delle cose nascoste, cit., p. 124.
64 Ibid.
65 Già Freud in L'uomo Mosè e la religione monoteistica sentì la necessità di ipotizzare una ripetizione
commemorativa dell'omicidio 'fondatore'.
23
portandola al collasso e – definitivamente – alla scomparsa 66; è la ripetizione rituale che
conferisce una solidità sociale e una prosperità culturale.
Proprio nel momento culminante della crisi sociale e violenta, l'uomo trova la
possibilità – non la necessità – di nascere: e grazie a quella potenza mimetica che porta lo
sguardo del gruppo a concentrarsi su di unica vittima, abbiamo quel primo omicidio:
«proprio la potenza della mimesi convoglia verso un'unica vittima gli impulsi violenti,
consentendo l'innesco del fenomeno della vittima espiatoria»67.
Girard è in queste riflessioni un sottile pensatore: da un lato riesce a darci una
panoramica, seppure generale, del processo che ha portato alla comparsa della cultura,
inscrivendo tutto questo in una cornice evoluzionistica, e dall'altro, utilizza la stessa leva
per esplicare la genesi delle forme diverse forme culturali: linguaggio, riti, divieti ed altre
istituzioni vengono ricondotti alla vittima ed al suo linciaggio.
1.3 – Contrattualismo: un'ipotesi poco verosimile
Cultura, religione ed umanità sono presentate come figlie di un omicidio fondatore,
poi ritualmente commemorato: il parricidio originario di Freud delineato in Totem e Tabù è
dunque un'efficace intuizione, che però naufraga di fronte all'assegnazione di ruoli
familiari ad attori che, di fatto, si scagliano contro un primo venuto e non contro il padre
geloso. Il primo passo che portò all'umano è quindi un evento concreto, reale e corporeo e
cioè il cadavere di quella prima vittima, simbolo di futuri omicidi rituali: è «la rottura
dell'assassinio collettivo, il solo capace di assicurare delle organizzazioni fondate su divieti
e rituali, per quanto embrionali siano».68
Potrebbe sorgere un'obiezione a tale ricostruzione; se è vero che l'incremento del
cervello porta ad una maggiore mimesi, è possibile ipotizzare che proprio tale aumento
porti una consapevolezza maggiore e dunque ad una capacità di intraprendere atti di
collaborazione, cooperazione e di organizzazione i quali, lungi dal postulare un'origine
cruenta, mettano in luce la capacità dell'uomo di risolvere l'escalation violenta grazie alla
ratio: siamo qui di fronte all'ipotesi contrattualistica, in qualsiasi forma essa voglia essere
presentata; in fondo, sebbene partendo da antropologie radicalmente diverse, sia l'ipotesi
66 Senza tale meccanismo molte popolazioni dovette soccombere sotto il peso delle violenze intestine,
proprio come la popolazione Kaingang descritta ne La Violenza e il sacro (Cfr. pp. 82-83).
67 G. Mormino, Il confronto con l'altro, p. 218.
68 Ibid.
24
hobbesiana (che nasce dalla lotta di tutti contro tutti) sia quella di Locke (che nasce da uno
stato di natura fondamentalmente pacifico) fanno leva sulla razionalità dell'uomo: la
comprensione di una vita migliore porta gli uomini a diverse forme di vita associata, la cui
forma può variare a secondo dei termini del contratto stipulato; quest'ipotesi, lungi
dall'essere appannaggio degli autori del pre e post illuminismo viene, in modo molto
sottile, delineata anche da Freud in Totem e Tabù: nonostante la geniale intuizione
dell'omicidio fondatore, sono le costruzioni psicanalitiche (ed edipiche) che portano Freud
a ipotizzare un patto tra i fratelli, i quali comprendendo che senza i divieti paterni,
sarebbero ricaduti nella lotta generalizzata per le donne, riportano in 'vita' la figura paterna
attraverso i suoi divieti (divieto di cibarsi dell'animale totemico e divieti di unirsi alle
donne del gruppo)69.
Ulteriore confronto utile con queste tematiche è quello con Burkert, il quale vede
nel fenomeno della caccia collettiva la pietra angolare sulla quale la struttura umana si è
innalzata; anche in lui, vi è la consapevolezza della pericolosità di questa attività per la
pace sociale: «l'autodistruzione dell'uomo a opera dell'uomo fu pertanto sin dall'inizio un
pericolo costante»70. La problematica della violenza, similarmente a Girard e Lorenz, viene
risolta con un procedimento che espelle l'aggressività all'esterno del gruppo, permettendo
inoltre di cementare i legami interni; ma la sua spiegazione appare in fondo ancora
macchiata di un'idea contrattualistica: la caccia collettiva viene presentata come un atto
basato su una notevole capacità di organizzazione e suddivisione sociale dei ruoli;
ipotizzare che essa abbia potuto portare alla soglia di ominizzazione riflette ancora una
forte valorizzazione della ragione. In fondo, appare molto più legittima l'idea che la società
sia formata spontanemente e casualmente, e non sia un frutto maturo e consapevole come
può essere l'atto di un'assemblea costituente.
Senza dover chiamare in causa Girard, possiamo già muoverci verso una critica del
contrattualismo, in quanto pone un'eccessiva razionalità e cognizione: la sola evoluzione
graduale del cervello non può spiegare l'emergenza di divieti e regole; in questo,
allontanandoci dall'ipotesi strutturalista, possiamo tranquillamente ricordare Freud, il quale
postulava come prima forma sociale il divieto (dal quale segue la regola), in quanto esso
dissuade dalla violenza e dai conflitti, permettendo una pace interna: solo dalla stabilità
69 La ricostruzione freudiana non è così semplice: accanto alla “soluzione razionale” emerge anche il
risvolto psicologico, che egli stesso definisce «obbedienza retrospettiva» : «prendendo le mosse dalla
coscienza di colpa del figlio, crearono i due tabù fondamentali del totemismo, che proprio perciò
dovevano coincidere con i due desideri rimossi del complesso edipico». (S. Freud , Totem e Tabù, cit., p.
166).
70 Burkert, Homo necans, p. 32. (Cfr. G. Mormino, Il confronto con l'Altro., cit., p 222).
25
che questo comporta, si potranno istituire delle regole.
Oltre a queste semplici notazioni, l'ipotesi girardiana mantiene la superiorità sul
contrattualismo, grazie alle riflessioni sulla violenza: se si pensa al parossismo che ogni
crisi mimetica porta nei gruppi di ominidi al momento di massima tensione, pensare ad una
soluzione non-violenta appare davvero una cosa inverosimile. In Origine della cultura e
fine della storia, vi è il confronto con l'ipotesi di Eric Gans, il quale delinea un'ipotesi
sull'origine fondata sulla mediazione linguistica, negando quindi la validità della violenza:
«La risoluzione della crisi mimetica non sarebbe avvenuta necessariamente
attraverso il meccanismo del capro espiatorio, ma avrebbe seguito invece un
percorso completamente diverso, in cui il linguaggio emerge come intermediario
privilegiato, impedendo alla violenza di propagarsi»71.
Girard sottolinea di nuovo la sua ipotesi violenta, per cui «Io credo invece che ci
debbano necessariamente essere forme di associazione non linguistica all'inizio, forme che
stanno fra l'animale e l'umano. [..] Deve esistere già una soluzione non linguistica al
problema della violenza»72. La prospettiva del capro espiatorio e della violenza mimetica
deve essere il fulcro della cultura, e dunque il fattore che fa sorgere il linguaggio; l'ipotesi
di Gans, in fondo contrattualistica, è contraddittoria: immaginarsi una risoluzione
linguistica durante il parossismo della crisi è semplicemente assurdo; sulla scorta di
Girard, possiamo sicuramente affermare che postulare – a fondamento delle società umane
– un patto tra gentiluomini, non è nient'altro che una forma radicale di méconnaissance73.
Forme di prevenzione violente lontane dal capro espiatorio esistono, ma sono chiaramente
successive alla prima uccisione, in quanto sono un risultato di chi, provando sulla pelle gli
effetti della crisi, tenti di organizzare la società in un successivo momento. Dove
primeggiava l'omicidio, esso inizia a scomparire, portando «allo sviluppo di modalità di
controllo alternative: all'inizio, riti, tabù e proibizioni; successivamente il linguaggio e le
istituzioni culturali»74. Possiamo anche aggiungere che l'ipotesi del linciaggio, non solo
supera la soluzione linguistica, ma la sussume: la risoluzione necessariamente deve essere
avvenuta prima della nascita del linguaggio! Solo così si riescono a spiegare quelli che
sono i caratteri che sottostanno a processi di neotenia (ritenzione in età adulta di caratteri
giovanili), tipicità biologiche umane : «perdita di peli, ossa dell'arcata sopraccigliare
71 R. Girard, Origine della Cultura, cit., p. 95.
72 Ibid.
73 Questo non significa negare il ruolo della collaborazione nell'uomo: proprio come nelle osservazioni sul
desiderio mimetico, Girard non nega gli aspetti positivi, ma – contrariamente alla maggior parte degli
studiosi – focalizza la sua attenzione sulle conseguenze cruente.
74 R. Girard ,Origine della cultura, cit., p. 98.
26
piccole, incapacità di deambulazione nei neonati eccetera»75; questi fattori, squisitamente
umani, sono frutto certamente di interazioni culturali e spinte biologiche-adattive, ma
difficilmente gli studiosi comprendono come e quando essi si sono manifestati; per Girard,
invece, furono precedenti ad un linguaggio raffinato (e cioè ad un fase antichissima, in cui
la cultura non aveva forme complesse), in quanto si svilupparono grazie alla soluzione
sacrificale che, creando le inibizioni sociali contro la violenza, ha portato alla protezione
delle «femmine del branco e in questa maniera hanno reso possibile prolungare nel tempo
la cura dei cuccioli»76. Queste particolarità e differenze tipiche del genere umano furono
un risultato garantito dalla cultura (e dunque, dalla religione) che «ha addomesticato
l'uomo»77.
75 R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 96
76 Ibid
77 Ivi., p. 97.
27
II
Etologia
1.1 – Mimetismo e Violenza: Girard e l'etologia
Tra le diverse sottigliezze che l'ipotesi girardiana dell'ominizzazione illumina,
l'attenzione che l'autore dedica all'etologia è di particolare interesse. Lo studio dei
comportamenti animali, soprattutto nel campo relazionale, si presenta come una feconda
fonte di spunti riflessivi, aprendo una finestra impossibile da ignorare proprio per un'ipotesi
che – a detta dello stesso Girard – si inscrive in una cornice evoluzionistica: dipingere
l'uomo come un ente estraneo – e dunque superiore – all'ordine e alle leggi naturali, non
può fare altro che produrre ipotesi viziate nella forma fin dalla partenza: come il pensatore
francoamericano afferma «la presente ipotesi ha di superiore il fatto di eliminare tutte le
false specificità dell'uomo»78. Girard segue il consiglio spinoziano, per cui l'uomo non deve
essere pensato come un dominio all'interno di un dominio79; in termini evolutivi, solo
attraverso il raffronto con l'affascinante verità etologica l'antropologia può pensare in modo
adeguato l'origine della cultura umana, fattore necessariamente interno all'evoluzione della
specie, sviluppatosi come modello comportamentale–sociale in grado di dominare le
violenze intra-specifiche. L'uomo è un membro della famiglia dei primati ed in quanto tale
il suo comportamento più profondo trova qui le sue radici: condividiamo molto più di
quanto si tenda ad ammettere con il resto delle scimmie antropomorfe (scimpanzé, bonobo,
gorilla ed oranghi) ed il loro studio si presenta un'ottima risorsa per tentare di comprendere
– in una via non riduzionista – non solo perchè essi agiscano in un certo modo, ma anche
per rileggere in modo nuovo noi stessi. E' necessario però un avvertimento: proprio come
noi, anche le scimmie antropomorfe si sono notevolmente evolute rispetto a quel ceppo
comune da cui anche i nostri antenati dovettero svilupparsi 80, e dunque, osservare
78 R. Girard, Delle cose nascoste, cit., pp 116-117.
79 B. Spinoza, Etica dimostrata con metodo geometrico, III Prefazione, trad. it. a cura di Emilia Giancotti,
Pgreco edizioni.
80 «Gli scimpanzé moderni, [..] sembrano essersi mantenuti più simili al nostro comune progenitore. Sarebbe
tuttavia un errore assumere che i primi esseri umani fossero molto simili agli attuali scimpanzé
semplicemente perché assomigliavano più a loro che all'uomo moderno. A tutti gli effetti, gli esser umani
e gli scimpanzé sono separati da dodici milioni di anni di evoluzione[..]: un lasso di tempo abbastanza
lungo per produrre profondi cambiamenti».(Craig B. Stanford, Scimmie cacciatrici, cit., p. 27). Tale
ammonimento , estremamente utile e calzante, viene posto al termine di una lunga riflessione sull'utilità
dell'osservazione dei primati, in quanto fungono da modello “analogico” di confronto: tramite le
integrazioni di quello che sappiamo – grazie alle diverse discipline – sulle condizioni anatomiche,
ecologiche ed ambientali sui primi uomini, possiamo attingere dal comportamento dei primati per quel
che concerne le relazioni sociali.
28
l'evoluzione e il modo di rapportarsi che tali affascinanti animali ci offrono è di fatto molto
utile, non solo per comprendere quali siano le spinte comuni – le forze naturali ed
ancestrali – che condividiamo con loro (dandoci un aiuto nel pensare a cosa sia realmente
frutto della nostra società, e cosa invece sia più recondito e radicato in noi) ma anche
perché, mancando del tutto l'osservazione primaria dei nostri antenati, possiamo
compensare tali lacune osservando modelli sociali utili per compiere analogie sulle
modalità di relazioni che anche i nostri antenati condividevano; l'osservazione delle diverse
tribù e società umane, viene così affiancato ad un interesse riguardante altri animali non
umani, dando notevole peso al mimetismo, all'aggressività, alla violenza e, naturalmente,
alla sua risoluzione.
Quest'ammirevole tentativo di Girard, viene espressamente fatto nel tentativo di
superare l'ottusità dell'etnologia strutturalista, la quale – incapace di situare la cultura su
uno sfondo naturale – si chiuse nella sua nicchia disciplinare, tagliando confronti produttivi
con la tradizione etologica, la cui utilità per la comprensione umana è d'importanza
capitale: è l'autore del desiderio mimetico a definire la sua ipotesi come un «tentativo di
combinare etologia ed etnologia»81. Aperto il dialogo tra questo due discipline, Girard
intende mostrare le caratteristiche peculiari dell'uomo, identificando uno sfondo comune (e
cioè l'imitazione) che condividiamo con il resto dei viventi, ma anche indicando la
peculiarità: l'ipermimetismo! La differenza capitale, secondo Girard, non riguarda
l'essenza, e cioè una tipicità appartenente solo all'uomo che lo eleva ai vertici della 'scala
dell'essere', quanto piuttosto l'intensità dell'imitazione, fattore presente in tutto il regno
animale: stiamo dunque parlando di una leggera differenza fisiologica, che però ha –
nell'ipotesi girardiana – l'aspetto di una leva fondante; l'ipotesi tenta di vedere il comune
tra l'uomo e l'animale,accantonando l'antropocentrismo umano, con la consapevolezza di
non essere altro che una specie tra le altre, la cui storia evolutiva ha condotto a determinati
traguardi; Girard traccia un percorso di ominizzazione muovendo dallo sfondo animale, ed
eliminando i fattori espressamente già umani frutti della cultura82: un'ipotesi come quella
Per un'interessante chiarificazione sul nostro passato ancestrale, e sulle riflessioni tecniche riguardanti il
confronto tra lo studio dei primati e quello umano, Cfr Craig B Stanford, Scimmie cacciatrici.
81 R. Girard , Origine della cultura, cit., p. 67.
82 A tal proposito, va notato che Girard, criticando la tradizione etologica, giunge a identificare una rottura
tra l'uomo e l'animale , definendo quindi la nostra specie come altro: l'autore parla infatti di 'salto
fondamentale' (Cfr. R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 73); questo alterità non è però una condizione
di partenza, quanto una conseguenza inevitabile determinata dalla nascita della cultura; Girard definisce
infatti il capro espiatorio come un elemento che fece aumentare esponenzialmente le dimensioni del
cervello umano, generando la specie simbolica. Rispetto a questa posizione, molti autori nel campo
dell'etologia tendono a smussare tale 'rottura', definendo un maggiore senso di continuità. Un interessante
punto di vista, sono gli scritti di Ian Tattersall: egli tende a dipingere l'evoluzione umana (e non solo)
come un processo che funzioni per rotture. In una sua intervista, egli afferma che «la documentazione
29
freudiana di Totem & Tabù, per quanto interessante, è stata definita da molti autori come un
circolo vizioso, postulando una nozione di 'padre' che invece dovrebbe spiegare83 .
In quest'indagine, com'è da aspettarsi, l'attenzione di Girard si sofferma in primo
luogo sull'imitazione. La mimesis è, secondo Girard, il motore fondamentale delle
dinamiche desiderative umane, ma non per questo si presenta come un appannaggio della
nostra specie (soprattutto se pensiamo che l'aggettivo usato per l'imitazione è appunto
scimmiottare): è la mimesi di appropriazione che determina il comune, infatti «è un dato [la
mimesi di appropriazione] che gli animali hanno in comune con gli uomini»84. Oggi più che
mai, l'imitazione è oggetto di un'attenzione davvero sorprendente: i progressi delle
neuroscienze nello studio dei neuroni specchio hanno portato molti studiosi
all'osservazione dei primati, nella ricerca di verità analoghe, ed è importante ricordare che
la scoperta dei celebri neuroni fu fatta in primo luogo nei macachi reso; la quasi
complessità degli studi verte molto – per non dire unicamente – su un'imitazione positiva e
pedagogica, fattore che determina riflessioni sociologiche incentrate sulla cooperazione e
sull'altruismo85; Girard non nega certo questo frangente, bensì, seguendo le intuizioni
riguardo al desiderio mimetico umano in quanto genesi del conflitto, nota come «In certe
specie la propensione a imitare e quella che chiamiamo l'indole rissosa, litigiosa,
costituiscono evidentemente una sola e identica cosa; si ha a che fare con la mimesi di
appropriazione»86.
Casi di imitazione vengono effettuati in moltissimi casi: l'etologo Lee Dugatkin,
studioso dei pesci arcobaleno, giunse ad ipotizzare che la scelta dei compagni fatta dalle
femmine di questa specie sia basata sul principio 'io voglio quello che vuole lei': «Una
femmina di pesce arcobaleno corteggiata da due maschi finisce per associarsi a uno dei due
mentre un'altra femmina segue l'intero processo da un acquario contiguo. Quando la
seconda femmina «voyeuse» viene posta in presenza degli stessi maschi per vedere quale
dei due preferirà, ella segue la scelta della sua compagna»87.
83
84
85
86
87
fossile mostrava l'evidenza di un cammino con interruzinoi e periodi di assenza di cambiamento» (Cfr.
http://cultura-nuova.blogspot.it/2012/09/evoluzione-intervista-ian-tattersall.html).
Cfr Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, trad. it. di Alberto M. Cirese e Liliana Serafini
Feltrinelli, Milano 1972, p. 629.
R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 116.
Solo per citare un esempio, Frans de Waal, noto primatologo, incentra i suoi studi su scimmie –
antropomorfe e non – mettendo in luce l'importanza dell'empatia, della cooperazione e sull'altruismo,
lasciando solo alcune traccie di studi sulla violenza. Nell'uomo, lo sviluppo delle capacità cognitive
fondamentali per la cooperazione implica d'altro canto nuove esigenze sociale , tra cui la crescente dose di
aggressività.
Ivi., p. 117.
Frans de Waal, Naturalmente buoni, cit., p 96. Nelle pagine seguenti , de Waal propone una serie di studi
nei quali viene studiato il mimetismo e l'imitazione in molti pesci e molluschi.
30
Il comportamento mimetico, si configura in primo luogo come didattico: nella
riserva del fiume Gombe, gli scimpanzé, secondo quanto riportato da Jane Goodall,
mostrano ampiamente come, soprattutto durante l'infanzia, i piccoli siano predisposti per
l'imitazione di determinati atteggiamenti fondamentali per la futura sussistenza; basti
pensare a come , durante quell'attività conosciuta come 'pesca delle termiti' 88, i cuccioli
osservano sovente la madre durante queste lunghe sedute, finendo per tentare di riprodurre
lo stesso iter, prendendo però bastoncini qualunque limitandosi a imitare movimenti 89;
nell'adolescenza attraverso il gioco e l'imitazione dei compagni più adulti, i giovani
apprendono le regole sociali a cui dovranno attenersi, in modo da comportarsi
adeguatamente verso i rispettivi compagni90: «Esso impara qual'è più forte di lui; quali
hanno madri di rango maggiore della sua e che potrebbero “vendicarsi”, in caso di
contestazione, con conseguenze assolutamente spiacevoli. Esso scopre quale dei suoi
compagni po' venire intimidito da una dimostrazione di forza e quale di loro, in una
situazione analoga, si potrebbe rivoltare e smascherare il bluff. In altre parole, esso impara
qualcosa della complessa struttura della società degli scimpanzé»91. L'imitazione non ha
sempre uno scopo realmente utile, come nei casi sopracitati: de Waal descrive diverse
forme di imitazione 'giocose': «Uno dei modi in cui i giovani dello zoo di Arnhem si
divertivano era seguire in fila indiana una femmina di nome Krom, che significa
«deforme», tutti con la stessa, patetica andatura»92.
Queste, ed altre osservazioni, permettono di definire il comportamento mimetico
come fondamentale in tutto il regno animale, uomo compreso; maggiore quantità di
imitazione, vengono garantiti da una maggiore complessità cerebrale e cognitiva 93, e per
questo Girard pone sul podio di questa piramide l'uomo, con affianco lo scimpanzé, la cui
massa cerebrale gli permette non solo una semplice imitazione (definita imitazione
88 Durante la stagione in cui le termiti nidificano, molti scimpanzé prendono posizione di fronte ai loro nidi,
per poter 'gustare' la carne di questi insetti; per avere una pesca efficace, i primati si servono di rami e
piccoli legni che, modificati e resi adatti per lo scopo, vengono infilati nei termitai, fungendo come esca:
aspettando il momento giusto, lo scimpanzé estrae il suo arnese, a cui sono rimaste attaccati gli insetti.
89 «Una volta all'inizio della stagione, Flo [madre di Fifi] decise di lavorarsi un termitaio che era
parzialmente coperto di foglie morte. Le aperture delle gallerie che portavano al nido erano ostruite e ci
volle un bel po' prima che Flo, grattando tutto in giro, trovasse un buon posto per pescare. Anche Fifi si da
fare cercando ma non le riuscì di trovare una buona apertura tanto che finì per andare a sedersi accanto a
Flo e a osservarla intensamente» (Cfr. J. Goodall, L'ombra dell'uomo, cit., p 186). Questa osservazione da
parte di Fifi, venne effettuata più volte nell'arco di un paio d'ore.
90 Per un interessante resoconto della fasi di crescita degli scimpanzé Cfr. Jane Goodall, L'ombra dell'uomo,
cap 12.
91 J. Goodall, L'ombra dell'uomo , cit., p. 175.
92 F. de Waal Naturalmente buoni, cit., p. 97.
93 Tale correlazione rimane di fatto un presupposto nella teoria girardiana, che necessita di approfondimenti.
31
primaria, e cioè senza la componente desiderativa), ma addirittura un'approssimazione di
una mimesis di appropriazione: «Nella sua forma più completa, l'imitatore adotta la
prospettiva del modello e ne riconosce sia lo scopo sia il metodo per raggiungerlo» 94; ed è
proprio in questo senso che intravediamo il pericolo che un lettore di Girard già conosce:
«mai si fa cenno ai comportamenti di appropriazione. E' evidente, invece che i
comportamenti di appropriazione, svolgendo un ruolo importantissimo negli uomini così
come in tutti gli esseri viventi, sono suscettibili d'essere copiati»95. Accecati da Platone, il
quale presentò l'imitazione amputandone la «dimensione acquisitiva che è anche la
dimensione essenziale»96 , gli studi sull'uomo (e sul resto degli animali) non hanno
compreso l'inevitabile conseguenza brutale di due mani che, mimeticamente, confluiscono
su di un unico oggetto (a prescindere da qualsiasi esso sia, come Girard insegna). E se «il
comportamento di certi mammiferi superiori, in particolare delle scimmie, sembra
preannunciare quello dell'uomo lo si deve quasi esclusivamente, forse, al ruolo già
importante, ma non ancora così importante come nell'uomo, svolto dal mimetismo di
appropriazione»97.
Stando all'interpretazione girardiana della realtà sociale umana, il conflitto si
presenta come il fattore che maggiormente influisce sulle dinamiche relazionali, ed è
proprio attraverso la capacità di gestire (o ri-direzionare) tale potenza aggressiva che
l'uomo riuscì a ergere il suo palazzo culturale98; ma, ci potremmo chiedere, cosa si possa
dire della dimensione conflittuale nei diversi animali, osservazioni che Girard riporta solo
in modo schematico. Fonte fondamentale di queste osservazioni è Lorenz, che nel testo
L'aggressività, focalizza la sua riflessione sui diversi benefici evolutivi che si possono
osservare in tale pulsione (il testo, nella sua versione originale, definisce l'aggressività con
l'appellativo Il cosiddetto male) donandoci una proficua riflessione intorno ai fenomeni di
violenza e conflitto in campo etologico: «l'aggressività intraspecifica non ci appare
94 Ivi., cit., p. 97. Proprio in queste pagine, l'autore definisce questa capacità come fondamentale per lo
sviluppo di un certo genere di empatia.
95 R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 23
96 Ibid.
97 Ibid.
98 Ancora una volta, è utile notare come Girard non definisca il conflitto come la parte preponderante dei
rapporti sociali, perchè, se così fosse, l'uomo non avrebbe potuto gestire delle continue violenze
incontrollate. La riflessioni girardiana va letta come un'analisi dei momenti di crisi, dalle quali scaturisce
la spirale violenta! Questo ci rende comuni al resto del mondo animale, nei quali si osserva un totale
crollo dei freni inibitori (in campo aggressivo e sessuale) durante casi di sovraffollamento o epidemia
documentati (fenomeni definibile come 'crisi'), nei quali i freni e le regole dettate dalla gerarchia
svaniscono. La crisi e la violenza sono fasi 'sporadiche' (rispetto alla vita quotidiana), la cui incisività ha
però portato l'uomo a dover armarsi di nuovi strumenti – culturali- per riportare la calma.
32
assolutamente come un fatto diabolico [..] bensì come uno strumento essenziale
dell'organizzazione di tutti gli istinti per la conservazione della vita» 99; è proprio questo
l'atteggiamento che Girard condivide.
In fase preliminare è opportuno definire cosa s'intenda con aggressività: la lotta
inter-specifica, quella che possiamo definire lotta 'fra ci mangia e chi vien mangiato'100 non
può essere descritta in termini di aggressività: «il bufalo non suscita «l'aggressività» del
leone che lo abbatte»101 e proprio lo studio dei mutamenti fisiologici degli animali durante
la caccia dimostra che i predatori, nel momento prima del morso, non mostrano
modificazioni riconducibili ad azioni aggressive: «nell'attimo drammatico prima del salto,
neanche il leone è arrabbiato»102; il rapporto predatore/preda, importante da sottolineare,
non conduce mai all'estinzione, in quanto si instaura un 'equilibrio' ecologico tra preda e
predatore, proprio come Darwin aveva ipotizzato 103. In realtà, già Darwin aveva compreso
l'esistenza di un equilibrio totale tra le diverse specie, che si stabilizzava nella 'nicchia
ecologica'; i leoni non stermineranno mai le zebre a cui danno la caccia, proprio perchè
«quel che minaccia direttamente l'esistenza d'una specie animale non è mai il «nemico che
intende mangiare» ma sempre e soltanto il concorrente» 104. Lorenz mette già in luce una
verità molto utile nella riflessione girardiana: è dall'ambiente intra-specifico che le
difficoltà emergono, difficoltà in grado di minacciare il benessere e la sopravvivenza della
specie; l'ambiente esterno è si il primo 'avversario' per la sopravvivenza, ma non l'unico: è
nella capacità del gruppo di far fronte alla dimensione conflittuale che trovano genesi una
pluralità di comportamenti innovativi (segnali di pacificazione e sottomissione) oltre che
delle vere e proprie forme di organizzazione sociale, non ultima quella umana che, come
ogni altro animale sociale, deve continuamente sopire il più possibile la violenza intestina.
Molto più vicino a comportamenti aggressivi, si presenta il cosiddetto mobbing,
un
comportamento di difesa effettuato dal branco per contrattare e difendersi dai predatori:
bovini e maiali domestici si spingono fino ad attaccare i lupi che minacciano il branco;
anche la celebre reazione critica, viene posizionata sotto l'albero dell'aggressività: con
l'impossibilità di scappare e 'le spalle al muro' , molti animali reagiscono con una vera e
99 K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 85.
100 Ivi, p. 61.
101 Ibid..
102 Ivi., p. 62.
103 C. Darwin, L'origine della specie, cit., p. cap 3.
104 K. Lorenz, L'aggressività, cit., p.61.
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propria lotta disperata contro un predatore che impedisce ogni via di fuga (a questo tipo di
combattività si fa risalire anche la difesa dei cuccioli da parte di alcune madri). Entrambi
questi atteggiamenti incidono sulla fitness della specie, apportando quindi notevoli vantaggi
evolutivi: «ognuno dei combattenti raggiunge col suo comportamento un evidente
vantaggio, e «deve» raggiungerlo nell'interesse della conservazione della specie. Anche
l'aggressività intra-specifica, l'aggressività nel vero e stretto senso della parola, svolge una
funzione di conservazione della specie»105.
Lorenz, a questo punto, si pone la domanda riguardo alla funzione dell'aggressività
intra-specifica, la vera aggressività: perchè si sviluppò, e quali vantaggi dovette
predisporre? «Da buoni darwinisti, e per buone ragioni già ampiamente esposte ci
dobbiamo domandare per prima cosa quale sia la funzione di conservazione della specie, la
lotta che svolge, in condizioni naturali o per meglio dire pre-culturali, contro gli
appartenenti a una stessa specie e che ha causato, per un processo di selezione, l'avanzato
sviluppo del comportamento di lotta intra-specifico presso tanti animali superiori» 106.
Secondo Darwin, la raison d'étre dell'aggressività si scovava nella capacità di creare una
prole migliore, in quanto frutto di individui superiori: la competizione per il dominio
sessuale, ha il fine di generare una prole 'migliore' per l'intera specie; tutte le riflessioni
sulla selezione sessuale ne L'origine dell'uomo107 hanno come asse portante la dimensione
conflittuale; spesso queste lotte si verificano in animali con abitudini non territoriali:
grazie ai combattimenti interni, si sono sviluppati validi strumenti difensivi contro i nemici
esterni: «i maschi di codeste specie animali si combattono aspramente e drammaticamente
ed è indubbio che la selezione risultante da questo comportamento aggressivo porti alla
evoluzione di difensori della famiglia e della mandria particolarmente grandi e
agguerriti»108. Oltre a questa verità darwiniana, Lorenz presenta una variegata complessità
esplicativa; in primo luogo, si può trarre una risposta dalla semplice osservazione ecologia:
«Al pericolo che, in una parte del biotopo a disposizione, una troppo densa popolazione di
una specie animale esaurisca tutte le sorgenti di nutrimento e soffra la fame, mentre un'altra
parte resti inutilizzata, viene ovviato da una mutua ripulsione che agisce sugli animali della
stessa specie influenzando il loro normale spacing out[..] Questa è in parole povere la più
105 K. Lorenz, L'aggressività, cit., pp. 65-66.
106 Ivi., pp. 66-67.
107 C. Darwin, L'origine dell'uomo, parte seconda.
108 K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 76.
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importante funzione dell'aggressività intra-specifica per la conservazione della specie» 109.
Proprio come in una piccola cittadina, un novello medico deve posizionarsi il più lontano
da uno già in attività per avere affari migliori, allo stesso modo due maschi territoriali si
conquistano due territori molto lontani per non darsi fastidio nel gestire le risorse; è chiaro
che qui Lorenz sta pensando a quel tipo di aggressività definita territoriale, da lui osservata
soprattutto parlando di alcuni pesci della barriera corallina (tra i quali spiccano i ciclidi, il
cui comportamento in cattività è notevolmente aggressivo); l'osservazione subacquea della
barriera, permette di definire ogni piccolo spazio una 'nicchia ecologica' (o biotopo) nella
quale diverse specie convivono in modo armonioso, in quanto ognuno ha una sorta di
ruolo; ma «ognuna di queste specie è però rigorosamente determinata a che nessun
rappresentante della stessa specie si annidi nel suo piccolo territorio» 110. Il dominio di un
determinato esemplare si traduce in un segnale di proprietà, che varia da specie a specie: i
colori variopinti dei pesci, i canti degli uccelli, l'urina dei mammiferi che segna il territorio
ecc. Questi 'territori' servono per descrivere la propensione alla lotta di ogni specie, e più ci
si avvicina al centro, più l'aggressività aumenta, e viceversa111; l'esempio delle due coppie
di ciclidi che convivono lottando in un acquario, permette di far comprendere come tale
aggressività «assolve in maniera assolutamente ideale il compito di distribuire animali di
una stesse specie con «giustizia» rispetto a tutto l'insieme di quella specie, per tutta l'area
disponibile»112.
Non tutto è cosparso di tale luce positiva, in quanto alle potenzialità positive e
riconosciute all'aggressività, fanno da contraltare quelle negative, nei quali l'uomo
primeggia: il comportamento aggressivo ha effetti potenzialmente distruttivi, per cui «a
causa di questi il comportamento aggressivo, più di altre proprietà e funzioni, può venire
distorto fino al punto del grottesco e del disadatto» 113. In molti casi, quando la relazione con
l'ambiente esterno diviene meno competitiva e ardua, sono proprio le spinte interne al
gruppo che possono condurre a dei 'vicoli ciechi' dell'evoluzione, dando forma a casi in cui
non si riesce a comprendere l'utilità di un determinato organo o comportamento, tanto da
risultare controproducente: calzante è l'evoluzione delle corna del cervo, la cui scomodità si
109 Ivi., p. 67.
110 K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 70.
111 Questo spesso genera spassose osservazioni, nelle quali «Al perseguitato che si avvicina al proprio
quartier generale, torna il coraggio, mentre quello del persecutore scema in proporzione alla distanza
percorsa in territorio nemico. Infine quello che poc'anzi fuggiva, fa dietrofront e attacca tanto
repentinamente quanto energicamente il precedente vincitore, e, prevedibilmente, a sua volta lo batte e lo
scaccia» (Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 73).
112 Ivi., p. 75.
113 Ivi., p. 79.
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rivolge contro la conservazione della specie stessa; perchè si sviluppano delle forme
naturali che difficilmente sono risultati da forme adattive rispetto all'ambiente? «Questo
accade ogni volta che è esclusivamente la concorrenza fra gli appartenenti alla stessa
specie, senza rapporto con l'ambiente extra-specifico, a condurre la selezione» 114. Proprio
come nel caso del cervo, l'eccessiva aggressività umana di cui ci parla Girard, può essere
definita come un fattore poco comprensibile in una logica unicamente evolutiva (in quanto
non va a vantaggio della sopravvivenza della specie): in realtà, è proprio il contrario, in
quanto, proprio perchè dotato di una tale dose di aggressività l'uomo si vide costretto a
ricorrere a forme rituali, senza le quali, la violenza l'avrebbe sterminato, come molte altre
specie prima di lui. La nostra cultura viene letta come un risultato dell'elevata competizione
generata da un eccessivo mimetismo:
«Ma soprattutto è più che probabile che l'intensità distruttiva della pulsione
aggressiva, tuttora un male ereditario dell'umanità, sia la conseguenza di un
processo di selezione intraspecifica che ha agito sui nostri avi per circa
quarantamila anni, ossia per tutto il paleolitico superiore. Quando l'uomo ebbe
conquistato le armi, i vestiti, e un principio di organizzazione sociale, per cui
potè superare i pericoli della fame, del freddo e del venir mangiato dai grossi
animali feroci, e questi pericoli cessarono di essere i fattori essenziali a
determinare la selezione, deve aver avuto inizio una maligna selezione intraspecifica»115.
Tornando alla valutazione del ruolo dell'aggressività, in parallelo con le riflessioni
girardiane, osserviamo detta funzione nella struttura sociale; nel caso dei primati , e non
solo, non si osservano scontri quotidiani, lotte continue: ogni organizzazione di più
individui tende a controllare, e dissuadere, il più possibile la violenza, e, come abbiamo
detto, la genesi della maggioranza dei conflitti sono i comportamenti nati dalla mimesi di
appropriazione; proprio dall'osservazione del conflitto mimetico negli animali, Girard può
parlare – sulla scorta dell'etologia – di società animali, rette dai 'dominance patterns':
queste forme sociali, che seguono allo scontro, non fanno altro che determinare una
'gerarchia di potere e di diritti' 116 nella quale l'individuo vincitore può predisporre delle
femmine e del cibo come meglio crede, mentre il perdente, chinando il capo, non può fare
altro che accettare la sconfitta e la subordinazione che da essa consegue. Quest'ordine
«impedisce la prosecuzione interminabile delle rivalità mimetiche. Gli etologi hanno
114 Ivi., p. 78.
115 K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 80.
116 In campo etologico, molti autori definiscono tale ordine gerarchico come 'ordine di beccata', divenuto un
modello paradigmatico per le società animali rette da regole gerarchiche.
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ragione di affermare che i dominance patterns svolgono un ruolo analogo a quello di certe
differenziazioni e suddivisione talvolta gerarchiche, anche se non sempre, nelle società
umane; si tratta di incanalare i desideri in direzioni divergenti e di rendere impossibile la
mimesi di appropriazione»117. Nelle sue riflessioni sulle funzioni dell'aggressività, Lorenz
nota l'importanza del principio gerarchico, la cui estensione fra le diverse specie animali
conferma l'enorme utilità evolutiva che esso apporta. Questo principio serve per arginare la
lotta fra i membri di una comunità, proprio come le società umane tenteranno di fare
attraverso riti e divieti; fondata e generata dalla violenza, questa gerarchia non può
eliminare del tutto la pulsione aggressiva, in quanto la sua stessa presenza genera
un'inevitabile tensione tra chi sta più in alto e chi sta più in basso: gli animali sono
ambiziosi, in tal senso118. Possiamo quindi affermare che una delle funzioni sociali
dell'aggressività è la stabilizzazione e la regolamentazione dei rapporti interni! Una
dominazione come quella degli scimpanzé viene sovente descritta come tirannica: il
maschio dominante presente, attraverso le sue dimostrazioni di forza impone la sua
precedenza , ad esempio, durante le sedute di alimentazione, oltre che nel caso dei rapporti
sessuali: nel caso dei babbuini e dei macachi, la gerarchia viene definita sempre più
verticale, mancando diversi atteggiamenti di 'condivisione' che invece gli scimpanzé, per
quanto brutali, possono mostrare119. L'aggressività che impone un esemplare al vertice della
gerarchia, ha come risultato anche un'autorità di un certo tipo per cui, l'animale alfa diviene
il modello120 verso cui tutti osservano: lui da l'allarme, lui viene ascoltato e imitato! 121 Il
singolo individuo – o il gruppo – dominante appare come il centro degli sguardi del
gruppo: il 'modello' diviene ovviamente oggetto d'imitazione. La cosa interessante da
117 R. Girard, Delle cose nascoste, p. 118.
118 Molto suggestive, a riguardo, sono le diverse tecniche 'politiche' che gli scimpanzé utilizzano nei loro
intricati e complessi giochi di potere. (Cfr. Frans de Waal, La politica degli scimpanzé, Bari, Laterza,
1984 ).
119 E' bene notare, che definizioni di 'società gerarchiche', 'maschio dominante' sono di fatto mezzi per
comprendere determinati atteggiamenti: nel caso della maggior parte degli studi etologici, tali definizioni
appaiono molto povere, in quanto non tengono in conto la reale complessità delle relazioni sociali
studiate: non si fa altro che definire uno schema con cui confrontarsi, proprio come nel caso della teoria
girardiana, una teoria che mantiene toni generali, ma non per questo da ignorare.
120 Credo sia molto adeguato usare la terminologia girardiana di ' modello' anche nel caso degli animali:
questo non lascia presupporre una completa identità fra i comportamenti delle specie diverse, ma
permette un ottimo confronto analogico, soprattutto nella descrizione dei nostri antenati nel loro decorso
di ominizzazione.
121 L'imitazione avviene soprattutto nei confronti dei membri di alto rango; un esperimento di M. Yerkes
dimostro tale tendenza: venne insegnato ad uno scimpanzé di basso rango ad estrarre delle banane da un
congegno appositamente costruito; il risvolto sociale fu interessante: gli esemplari di rango superiore gli
sottraevano le banane, senza osservare il modo di ottenerle dalla scatola; solo quando gli addestratori
insegnarono ad un maschio di alto rango a usare il congegno, il resto del gruppo lo imitò. Ancor più
evidente è il caso dei babbuini, nei quali vi è un vero e proprio 'senato' coordinatori di ogni operazione
del branco.
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notare , che non sempre viene fatta vedere dagli etologi è che «l'imitazione verte su tutti gli
atteggiamenti ed i comportamenti degli animali dominanti, esclusi i comportamenti di
appropriazione»122. Il punto che preme sottolineare a Girard, dunque, è che tra le diverse
aree su cui verte l'imitazione, vi sono 'campi' in cui essa è totalmente vietata, ma solo se
sono presenti fisicamente gli esemplari dominanti: ne consegue che le rinunce imposte dai
dominance patterns non sono un risultato del disinteresse per gli oggetti vietati! I
subordinati rinunciano palesemente a ciò che viene considerata esclusivo appannaggio dei
superiori123! Questo dimostra non solo un notevole interesse nei confronti di quegli oggetti
prioritari per il 'modello', ma conferma inoltre che l'imitazione porta gli individui a
desiderare tutti le stesse cose; sempre Goodall ci descrive la 'fila' per accoppiarsi con Flo, e
il mancato interesse verso altre femmine più giovani; notare che Flo, veniva 'perseguitata'
da Goliath e David, i due maschi di rango maggiore 124. Ironicamente, proprio questo genera
notevoli atteggiamenti machiavellici da parte dei subordinati, i quali spesso devono
aspettare che il maschio gerarchicamente superiore se ne vada, per poter – esempio –
prendere una banana non vista da esso: se dovesse prenderla subito, egli se ne
impadronirebbe; oltre ogni immaginazione, sconvolgente è la scoperta delle sottili
manipolazioni attuate da un giovane maschio, Figan, utilizzate per nutrirsi delle banane
nascoste su un albero che solo egli individuò; infatti quando infatti uno scimpanzé, durante
una fase di riposo, si alza e si allontana, crea una tendenza mimetica, per cui tutti,
lentamente lo seguono; sfruttando questo meccanismo, il giovane fece allontanare tutti,
ripresentandosi all'accampamento dopo poco, mangiando tranquillamente tali banane; la
costanza di tale atteggiamento dimostrò la sua intenzionalità e la sua premeditazione125!
Questa straordinaria gerarchia, dissuadendo i conflitti intraspecifici, è in grado di
creare una notevole coesione sociale, nella quale l'imitazione è completamente direzionata
verso forma positive, prendendo forma dall'animale modello, il coordinatore 'generale' del
gruppo: «è lui che determina l'atteggiamento del gruppo, che da il segnalo dell'attacco o
della fuga ecc.»126.
122 R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 118.
123 Diversi studi, sia sui macachi sia sugli scimpanzé, diedero spessore scientifico all'espressione “quanto il
gatto non c'è, i topi ballano”: gli esemplari subordinati copulavano con femmine di rango superiore nel
caso dei macachi, mentre nel caso degli scimpanzé vengono compiute manovre per attirare in disparte
una femmina: addirittura, nei babbuini, è stato documentato un'intenzionale (così possiamo presumere)
limitazione
sonora
delle
urla
durante
l'accoppiamento.
(Cfr.
http://www.lescienze.it/news/2013/02/14/news/tradimento_e_nella_societ_dei_babbuini-1506763/)
124 Cfr. J. Goodall, L'ombra dell'uomo, cit., cap 7.
125 Ivi., pp. 112-113.
126 R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p.119.
38
L'esemplare che possiamo definire 'maschio alfa' si comporta infatti da vero e
proprio 'tiranno' in alcuni comportamenti: secondo le osservazioni di diversi primatologi,
nel caso degli scimpanzé l'arrivo del maschio dominante – sempre preceduto da grida
facilmente riconoscibili – si caratterizza per le carica di esibizione (soprattutto se sono
presenti maschi che con lui tentano di competere), azione 'minacciosa' finalizzata alla
dimostrazione ed affermazione di potenza; giunto nel gruppo, nel caso sia presente del cibo
prelibato, se ne appropria tranquillamente! Per comprendere la forza dell'autorità di un
maschio dominante, basti leggere le pagine di Jane Goodall: «Fu a questo punto che
cominciai a sospettare che Goliath fosse lo scimpanzé maschio di rango più alto di tutta la
zona[..]. Se capitava che William e Goliath si muovessero contemporaneamente verso la
stessa banana era William che si faceva in disparte e Goliath che afferrava il frutto. Se
Goliath s'imbatteva in un altro maschio adulto lungo uno stretto sentiero nella foresta
continuava imperterrito il suo cammino mentre l'altro gli cedeva il passo.[..] Un giorno lo
vidi addirittura scacciare un altro scimpanzé dal nido per impossessarsene»127.
Ciononostante, società sempre più gerarchiche si configurano come società stabili, dove il
maschio alfa si prende cura dei più deboli, intervenendo nel casi di conflitto: per esempio
nelle taccole, Lorenz parla di 'virtù cavalleresca', per cui il più forte interviene nel conflitto
prendendo la parte del più debole. Tale situazione, ha un enorme vantaggio: infatti, definita
la gerarchia, in ogni momento ogni esemplare comprende il suo ruolo, sa chi ha la
precedenza rispetto ad altri nell'alimentazione e durante l'accoppiamento; come si può
sovente notare, durante il calore di una femmina, i maschi di scimpanzé, per la maggior
parte dei casi, non lottano per copulare, ma, aspettando ognuno il proprio turno, si
accoppiando seguendo l'ordine gerarchico; lo stesso vale per il cibo: i giovani devono
attendere che l'animale di maggior rango lasci – esempio – delle banane o accolga la
supplica di cibo di alcuni simili, e così facendo vengono di fatto sventate delle potenziali
situazioni conflittuali128. La formazione della gerarchia, quindi, funge proprio come mezzo
per dissuadere in conflitti: la forza di un individuo (ed anche la sua capacità di manipolare i
suoi amici ecc) gli consente di avere la precedenza in determinati campi, ed è proprio il
rango che determina il limite dei comportamenti imitativi: per cui ogni esemplare può
127 J. Goodall, L'ombra dell'uomo, cit., p 82.
128 De Waal ci racconta lo scrupoloso ordine con cui le madri scimpanzé, con i loro piccoli, ogni mattina
attendevano il 'loro turno' per porsi sulla piattaforma per poter aprire e gustare le noci; con un ritmo
quasi rituale, si poteva osservare un preciso ordine di esecuzione :«Quando vediamo una società
disciplinata, dietro essa c'è spesso una gerarchia sociale. Questa gerarchia che determina chi può
mangiare o accoppiarsi per prima, ha in definitiva le sue radici nella violenza. [..] Se una delle femmine
di rango inferiore e il suo piccolo avessero tentato di accedere alla postazione prima del loro turno, la
situazione avrebbe potuto evolversi al peggio» (Cfr. F. de Waal, Il bonobo e l'ateo , cit., p 184.)
39
imitare anche il maschio alfa nella pesca, ma non vedremo usurpare la precedenza nel caso
dell'alimentazione.
Questo non vuol dire che i conflitti siano assenti nelle società animali; cambi di
gerarchia non mancano, tutt'altro; spesso infatti un maschio giovane 'minaccia' o manca di
rispetto al maschio dominante, inaugurando così una serie di continue affermazioni di
potenza, le quali possono portare a lotte cruente. Lo scontro e l'aggressività negli animali ci
permette così di approfondire il discorso riguardante l'uomo. Fattore che determina il
vertice della gerarchia è principalmente la forza: l'esemplare di rango più elevato si
dimostra come il più forte; la supremazia viene ribadita con pompose dimostrazioni di
potenza, atte a spaventare ed intimorire gli avversari, che – solitamente – si esibiscono in
azioni di sottomissione, atte a dimostrare subordinazione; gli scimpanzé, ad esempio,
affermano il loro dominio assumendo modificazioni fisiologiche aggressive (pelo irto,
emettono urla) e attuando una carica urlante, accompagnata da lanci di qualunque oggetto
gli capiti a tiro (spesso i cuccioli, non in grado di capire l'imminente carica, vengono usati
come rami da lanciare..); queste cariche risultano sempre più intense e frequenti nel
momento in cui sono presenti individui che minacciano la posizione dell'esemplare di
rango più elevato, che si atteggia in modo minaccioso per sancire il suo dominio; quando
questo avviene, l'esemplare 'sfidante' può fuggire impaurito, affermando così la sua
inferiorità, oppure può rispondere caricando a sua volta, esibendo cioè la sua potenza.
Queste cariche hanno valenza dimostrativa ed assumono quasi un carattere 'rituale':
nell'etologia, la maggior parte degli scontri cruenti viene preceduto da tali gesti, con fini
unicamente dimostrativi; si parla di 'lotta rituale', il cui scopo è appunto la misurazione
della potenza dell'avversario: quando, un esemplare inizia a intaccare gli ambiti vietati
dalla gerarchia, il maschio dominante reagisce cercando di marcare il suo dominio; nel caso
degli scimpanzé, infatti, durante le cariche, un maschio fa come se dovesse attaccare, senza
però terminare in un attacco vero e proprio; solo queste cariche possono dimostrarsi
efficaci nella definizione del più forte. Lorenz, parla di questi combattimenti come veri e
proprie 'prove di forza', in modo che agisca la«selezione del più forte, senza che venga
sacrificato o anche semplicemente danneggiato uno degli individui» 129; presso la famiglia
dei teleostei (pesci) si è osservato un particolare rituale che precede lo lotta vera e propria: i
due pesci che si 'sfidano', mordendosi reciprocamente la bocca, non fanno altro che
misurare le proprie forze senza danneggiarsi a vicenda (in quanto le mascelle dei due pesci,
129 K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 159.
40
essendo corazzate, non ricevono un vero danno dalla mascella di un altro esemplare):
questa prima fase non è altro che l'avvisaglia del vero scontro cruento, che non
necessariamente scoppia: la fase preliminare assolve ad un compito, in quanto il rivale più
debole può rinunciare in base alla forza percepita durante il 'prendersi per la bocca': è
infatti la dimostrazione di sottomissione il vero interruttore che genera il cambio di
gerarchia, a prescindere che lo scontro ci sia stato o no! Durante le sue osservazioni al
fiume Gombe, Goodall potè osservare un cambio di gerarchia privo di combattimenti
cruenti: Mike, in grado di usare delle latte metalliche durante le cariche, si dimostrava
sempre più aggressivo e Goliath, divenne lentamente sempre più impaurito dal
quell'esemplare sempre più forte e minaccioso, tanto che il cambio di gerarchia si definì
senza una lotta vera e propria130! A questi atti di 'ribellione' accennati, si osservano risposte
di sottomissione, in quanto sono le dinamiche comunicative a sancire l'ordine: l'individuo
che rifugge lo scontro, prostrandosi in segno di sottomissione o semplicemente fuggendo
impaurito, dimostra la sua inferiorità e, di contrasto, la superiorità dello sfidante;
riaffermato il suo dominio, il vincitore stabilisce l'ordine turbato, creando ancora una serie
di atteggiamenti, la cui imitazione porterebbero ad una sensazione di “affronto” e, quindi,
di minaccia del potere, a cui seguirebbe una manifestazione di forza.
Non sempre, però, le cose vengono risolte pacificamente: quanto più la tensione
cresce, in concomitanza con l'acuirsi del ritmo delle minacce rituali, tanto più lo scontro
vero e proprio si avvicina. Dobbiamo in primo luogo notare che i duelli, nella maggior
parte dei casi, non terminano con la morte degli sfidanti; lo scontro – per quanto cruento
possa apparire – finisce con la vittoria di un esemplare, il quale sancisce il suo dominio e la
sua maggior forza: dopo questa affermazione di superiorità, la lotta non continua, in quanto
lo scopo dello scontro è finalizzato a 'mettere al suo posto' (o scalzare) l'avversario: solo
l'uomo sembra essere dominato da un «desiderio di torturare e umiliare qualcuno su cui ha
già dimostrato la propria superiorità»131.
130 Cfr. J. Goodall, L'ombra dell'uomo, cit., cap 10.
131 A. Storr, L'aggressività nell'uomo, cit., p. 125. Interessante soffermarsi un attimo su quest'affermazione:
la causa che Storr individua come genesi di tal comportamento, è la maggiore capacità di identificazione
dell'uomo nel suo avversario che, insieme all'empatia e all'altruismo (capisco la sofferenza in X e allora
lo aiuto) porta anche alla crudeltà! De Waal ipotizza un rapporto di proporzionalità diretta tra capacità
cognitive e capacità di identificazione, osservando soprattutto le conseguenze positive; lui e Girard
appaiono entrambi su due poli opposti: chi pone la totale attenzione all'empatia, chi alla violenza! A
difesa di Girard, possiamo affermare che in lui vi è una consapevolezza dell'empatia, fonte di
collaborazione sociale e altruismo, ma vi è una centralità della violenza proprio a causa del silenzio che
ruota intorno ad essa; secondo il critico letterario, proprio durante le crisi mimetiche, scatenate da un
ipermimetismo, si ha la scomparsa dell'empatia! In casi di crisi 'sociali' anche nel caso di molti animali si
possono osservare tensioni, in cui la collaborazione viene meno: Jane Goodall ci descrive lo strano
41
Di importanza capitale, in tali circostanze, sono i segnali
di pacificazione o
sottomissione, messaggi inequivocabili che mostrano la palese sconfitta: vengono innescate
delle inibizioni, le quali portano alla repentina fine dell'attacco, determinando la fine dello
scontro e con esso l'affermazione di sottomissione nei confronti del vincitore: se dunque
l'istinto all'aggressività è una pulsione attiva, altrettanto attiva è l'inibizione, che impedisce
o modifica l'azione violenta; i moduli comportamentali si sono sviluppati sotto la pressione
selettiva dei comportamentali aggressivi: abbiamo – spesso – due azioni assolutamente
contrarie: «l'animale che cerca di calmare un compagni di specie fa di tutto [..] per non
irritarlo»132. Nel caso dei galli, ad esempio, l'azione aggressiva, che è determinata dalla
fiera messa in mostra della cresta rossa e dei bargigli, vede come atteggiamenti di
pacificazione la riparazione della testa sotto l'ala, in modo che non vengano visti ne cresta
ne bargigli; molti animali invece, mostrano le proprie 'armi' come minaccia, ma nella
pacificazione le nascondono: «Dato però che l'arma non serve quasi mai solo per l'attacco,
ma sempre anche per la difesa, questa forma dell'atteggiamento di pacificazione ha il grave
inconveniente che ogni animali che l'esegue si disarma in un modo estremamente
pericoloso, anzi in molti casi offre indifeso all'aggressore potenziale il punto più
vulnerabile del suo corpo»133. L'incredibile diffusione di questo atteggiamento ne dimostra
però l'efficacia: «Sarebbe in effetti un'impresa suicida quella di un animale che volesse
offrire all'improvviso al nemico, che fino a un momento prima era in forte eccitazione
combattiva, una parte vulnerabilissima del corpo indifesa, confidando proprio sul fatto che
la contemporanea interruzione degli stimoli innescanti la lotta è sufficiente a impedire
l'attacco»134. Tale difficoltà, acuita dalla foga eccitazione della lotta, ci permette però di dire
che se l'improvviso mettersi in posizione di sottomissione frena l'imminente attacco, allora
«possiamo supporre con notevole certezza che venga innescata una inibizione attiva
attraverso quella determinata specifica situazione di stimolo»135. Il cambio di atteggiamento
è impressionante, e se un momento prima il lupo attacca ferocemente l'altro, in seguito al
segnale, si osservano atti di rassicurazione – come il grooming. Il perchè le forme di
sottomissione si modellino su comportamenti infantili o su tecniche evocanti
l'accoppiamento, è facilmente comprensibile: prima di avere un significato sociale, essi
atteggiamento che caratterizzò la riserva di scimpanzé durante un'epidemia di poliomelite; Pepe,
gravemente deformato dalla malattia, venne inizialmente ignorato; data la sua insistenza, vennero
dimostrati azioni di carica nei suoi confronti e , in un secondo momento, anche attacchi violenti (Cfr. J.
Goodall, L'ombra dell'uomo, cit., p. 210).
132 K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 178
133 K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 179
134 Ivi., p. 79.
135 Ivi., p. 180.
42
avevano già il carattere d'inibizione verso membri deboli del gruppo (il babbuino , per
esempio, mostra al vincitore le natiche eseguendo gli stessi movimenti che le femmine in
calore compiono per attirare la copulazione: con la monta del vincitore si ha la
riappacificazione). L'esistenza delle inibizioni favoriscono la fitness e la sopravvivenza:
«Se una razza vuole sopravvivere, non può permettersi di andare in giro massacrando i
propri simili. L'aggressività specifica va quindi soppressa e controllata e quanto più potenti
e feroci sono le armi di una specie particolare per uccidere la preda, tanto più forti devono
essere le inibizioni a servirsene per risolvere le controversie tra rivali.[..] Le specie che
hanno mancato di obbedire a questa legge sono estinte da tempo»136.
Non sempre, però, le inibizioni funzionano in modo adeguato: pensare agli animali
come macchine che reagiscono in modo istintivo a degli stimoli esterni significa assumere
un atteggiamento estremamente riduzionista; il fatto che spesso lo scontro non sia mortale,
non nega un possibile esito contrario , ed il racconto riportato da de Waal, in cui l'alleanza
tra due maschi di scimpanzé portò prima alla castrazione e poi all'uccisione del maschio di
rango elevato, ne è un terribile esempio137; (da notare che questa azione avvenne ai danni di
un esemplare particolarmente geloso in campo sessuale: è possibile che la forza del
desiderio eccessivamente bloccata, dovette portare ad un alto livello di violenza
parossistica?).
Si giunge dunque alla differenza peculiare in campo di violenza: la violenza umana
si traduce in uno scontro mortale e omicida, cioè in forme violente che non vengono
placate da segnali d'inibizione o di sottomissione, ma che eccitano se stessi in modo
cronico e parossistico, contagiando coloro che osservano! La cultura, secondo Girard, si
fonda su un omicidio che conclude un'escalation di omicidi, generati da vendette e controvendette anch'esse violente. Come Girard giunge a questa effettiva e radicale differenza tra
noi ed il resto del mondo animale? Potrebbe infatti sembrare che l'ipotesi sia caratterizzata
da un pregiudizio di fondo riguardante l'uomo, l'unico essere vivente eccessivamente
sanguinario e violento; in realtà, diverse sono le vie attraverso cui la violenza può diventare
facilmente incontrollabile138.
136 D. Morris, La scimmia nuda., cit., p. 171.
137 «Nella colonia di scimpanzé di Arnhem, per esempio, nel corso di una lotta per i privilegi sessuali e per
li potere un maschio venne castrato e ucciso da altri due maschi coalizzati» (Cfr. F. de Waal,
Naturalmente buoni, cit., p. 54.)
138 Leggere Lorenz è molto affascinante e proficuo, ma possiamo scorgere un leggero errore riguardante le
sue riflessioni sull'aggressività: il suo modello pulsionale (criticato come 'sciacquone Lorenz') prospetta
una vera e propria scarica dell'aggressività su determinati bersagli, finita la quale, la pulsione si placa;
se tale discorso può avere una coerenza nel caso della pulsione sessuale, nel caso della violenza si può
43
Soffermiamoci ancora sull'etologia; le uccisioni, nel caso degli animali, si osservano
durante scontri nei quali i segnali di pacificazione non vengono recepiti in modo
adeguato139; questi gesti, come già detto, sono in definitiva generati dalla paura
dell'avversario, il quale dimostra una maggiore forza; i desideri dello sconfitto vengono
dunque ridimensionati, e la mano che tentava di appropriarsi mimeticamente dei beni del
suo avversario 'di rango maggiore' si ritrae; a questa vittoria segue una rivendicazione della
superiorità, che s'impone – sempre attraverso la paura e la forza – su tutti i membri del
gruppo. A far dirottare l'ago di questo equilibrio è l'ipermimetismo, ed è qui che la logica
del discorso girardiano si fa incalzante: la spinta che porta l'uomo ad una violenza
degenerata è causa di un'incapacità di contenimento della bramosia! La forza del desiderio
umano supera la semplice imitazione animale, generando un'imitazione d'intensità così
impressionante, che la dimostrazione di forza di un individuo (che si configura come
modello) non è abbastanza forte per generare il timore e la conseguente rinuncia
dell'oggetto desiderato: sembra che venga qui sussurrato per la prima volta il celebre
avvertimento mimetico che il modello enuncia con la sua potenza, e cioè il 'sii come me'.
La differenza sta tutta qui: dove la paura e la forza sono deterrenti abbastanza intensi da
generare sottomissione, la maggiore fame desiderativa umana porta ogni individuo a volere
tutto ciò che l'individuo di maggior rango possiede, e tale intensità viene soppressa solo
con la morte; la maggiore imitazione presente nell'uomo, dunque, non può condurre ad uno
scontro che sancisce una nuova gerarchia (come nel caso dei dominance patterns), quanto
piuttosto ad una serie di scontri sempre più cruenti, durante i quali un'azione violenta non
porta alla sottomissione, ma conduce a reazioni sempre più violente: la spirale mimetica
degenera lentamente in una violenza collettiva; una volta osservate e compiute azioni
aggressive, nel sangue viene rilasciata una quantità di adrenalina eccezionale e tanto più la
violenza dilaga, tanto più essa diviene intensa, permettendo una diminuzione della paura
derivante dallo scontro; la degenerazione sociale, ad opera delle diverse vendette, conduce
notare un'incoerenza; soprattutto nell'uomo la violenza non fa nient'altro che chiamare a rapporto
ulteriore violenza: una volta innescata, difficilmente il desiderio violento può essere fermato! La scarica
definitiva, come nota egregiamente Girard, si avrà quando non vi sarà rappresaglia in seguito ad
un'azione violenta che si presenta come definitiva.
139 A riguardo, uno esperimento su alcuni tacchini, mostra che l'azione aggressiva può di fatti scontrarsi con
l'errore del segnale di sottomissione o della sua percezione; durante il periodo di cova, delle tacchine
sorde si comportavano come le loro simili, difendendo a spada tratta qualsiasi minaccia potenziale
potesse avvicinarsi al loro nido; ovviamente, un livello così alto di aggressività, doveva essere
compensato da una forte inibizione che impedisce di attaccare il piccolo appena nato; proprio tale studio
dimostrò che, in mancanza dell'udito, le tacchine che non sentivano il pigolato dei loro figli, li
considerano come una minaccia nel nido, e furono uccisi dalle madri stesse. (Cfr. K. Lorenz,
L'aggressività, cit., pp. 162-163).
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sempre più ad una violenza sanguinaria: se quindi il tal maschio alfa reagisce attaccando lo
sfidante, possiamo ipotizzare una lotta che non si configura come un semplice duello, ma
una vera lotta che dilaga a livello collettivo grazie al propagarsi del mimetismo!
Una delle prime perplessità che potrebbe sorgere è pensare ad animali che si
vendicano e, dunque, che provano risentimento nei confronti di altri individui; si potrebbe
pensare, in fondo, che tale dinamica sia troppo umana140 per essere appartenuta a degli
ominidi, o ad altri animali; se prendiamo questa replica seriamente, la soluzione di Girard
al problema dell'ominizzazione diventerebbe, a mio avviso, un po' più debole: si dovrebbe
infatti supporre uno scontro tra due individui, che però coinvolge molti esemplari solo sulla
base della semplice imitazione. In realtà, possiamo allontanare tranquillamente tale dubbio,
osservando cosa avviene in altre specie. Gli esempi migliori, in questi casi, derivano dagli
scimpanzé, caratterizzati da una politica sempre più complessa ed affascinante: molti
individui sono in grado di formare vere e proprie alleanze, determinate sia dalla parentela
che da rapporti che possiamo definire di amicizia; la capacità di mantenere il potere – o di
rovesciarlo – si basa in gran parte sulla capacità di avere dalla propria parte un buon
numero di alleati, e questo avviene attraverso la distribuzione di favori, di cure e di aiuto
reciproco: in molti casi osservati, la semplice presenza di un amico genera molta fiducia
negli individui; non solo, in vista di un amico in difficoltà, molti individui si aggiungono
alla lotta141. De Waal, ci racconta che nel momento in cui un celebre maschio dominante
vide un giovane piuttosto turbolento compiere cariche dimostrative per minare il suo
potere, egli, sapientemente, raggruppò i suoi 'alleati' attraverso una seduta di grooming
collettivo, aspettando il momento opportuno per ridimensionare la sua spavalderia con una
punizione collettiva142. Durante momenti molto tesi, inoltre, gli scimpanzé sono sempre in
140Estremamente accattiva una citazione di Lorenz, per obiezioni come queste: «Intendiamoci, anche se uso
queste espressioni io non voglio «umanizzare» gli animali: occorre soltanto tenere presente che il
cosiddetto «troppo umano» è quasi sempre un «pre-umano», qualcosa quindi che è comune a noi e agli
animali superiori. Credetemi, io non proietto per nulla qualità umane sugli animali, anzi, faccio proprio il
contrario, mostrando quanto sia ancor forte e profonda l'eredità animale nell'uomo». (Cfr. K. Lorenz,
L'anello di Re Salomone, cit., pp. 70-71).
141«Improvvisamente David corse per un certo tratto incontro a Mike e immediatamente Goliath lo
raggiunse aggiungendo a quello dell'amico il proprio furibondo richiamo. Mike comincia ad esibirsi,
partendo alla carica attraverso la radura contro un altro gruppo di maschi che urlando fuggì ma poco dopo
si unì a David e Goliath che stavano ancora urlando. A un certo punto vi erano cinque grossi e potenti
maschi, compreso il capo di un tempo, Goliath, contro uno solo. Nuovamente Mike partì alla carica
attraverso la radura e all'unisono, con David alla testa, gli altri gli furono dietro. Mike, questa volta
gridando, si precipitò su un albero seguito dagli avversarsi» (Cfr. J. Goodall, L'ombra dell'uomo, cit., p.
135-136).
142«un maschio alfa può ricevere una sfida decisiva da un maschio più giovane, che scaglia sassi verso di lui
o fa una dimostrazione impressionante di un attacco, con tutti i suoi peli ritti, avvicinandosi un po' troppo
al boss. Questo è un modo per valutare il sangue freddo del capo. I maschi alfa esperti ignorano
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cerca di rassicurazioni e questo determina ulteriori momenti per crearsi alleati e sostenitori;
ovviamente, le alleanze si osservano anche nelle fila dei maschi intenti a rovesciare la
gerarchia, ed è interessante notare che «Non è inconsueto che uno scimpanzé dominante
metta alle corde un compagno qualche tempo dopo un confronto in cui quest'ultimo,
insieme a un certo numero di altri individui, gli si era contrapposto» 143; questo chiaro
esempio di vendetta è solo uno dei numerosi casi di vendette premeditate da parte degli
scimpanzé. Interessante il caso dei macachi, la cui rigidità sociale comporta diverse
modalità di azione: quando un individuo di rango più basso subisce un torto da un
individuo di rango maggiore, può sfogare la frustrazione su un individuo di rango a lui
inferiore, e solitamente, la vittima scelta mostra legami con il molestatore: «tutto ciò che
può accadere è che si formi un'alleanza in difesa del bersaglio più giovane, dando luogo ad
una faida»144. Date queste osservazioni, possiamo facilmente ipotizzare che tali dinamiche
'politiche' avvenissero anche presso i nostri progenitori, semplicemente differendo per
intensità e sottigliezza machiavellica: non viene difficile però immaginarsi una vera e
propria lotta fra diversi 'gruppi', ingenerata proprio da uno scontro tra due diversi
esemplari, tanto più che, come molti studi dimostrano, nei momenti che precedono gli
scontri, i maschi tendono a richiamare gli alleati con urla e con le braccia. Definita
probabile la dinamica della vendetta diventa molto più sensata l'ipotesi girardiana della
lotta di tutti contro tutti: le diverse dinamiche vendicative e collettive della violenza,
facilmente portano ad una possibile aggressività ingenerata e continua, proprio come quella
che dovette caratterizzare gli uomini in via di ominizzazione.
Ancora una volta, il fattore distintivo dell'uomo è una violenza implacabile
determinata da una mimesis così intensa da far prevalere la dimensione conflittuale a livelli
praticamente assenti nella vita quotidiana dei nostri cugini nella scala evolutiva; tale furia
'omicida' che ci caratterizza, è in realtà una conseguenza 'fisiologica' ad un cervello più
sviluppato, che ricade in una spirale di conflitti mimetici insopportabili per i dominance
patterns!
totalmente questo chiasso, come se neppure se ne accorgessero, dopo di che si prendono tutto il tempo
necessario per praticare il grooming ai loro alleati prima di lanciare una controffensiva più tardi nel corso
della giornata.» (F. de Waal, Il bonobo e l'ateo, cit., p. 186)
143F. de Waal, Naturalmente buoni, cit., p 203. Cfr anche F. de Waal, Il bonobo e l'ateo , cit., p. 160: «Gli
scimpanzé compiono anche rappresaglie. Se hanno perso uno scontro contro un gruppo di altri scimpanzé
che si sono alleati, possono aspettare la giusta occasione per pareggiare il conto. Se incontrano uno degli
altri da solo, senza l'appoggio dei suoi compari, lo aggrediscono immediatamente[..]. Per lo più però, uno
scimpanzé sconfitto da un gruppo di quattro aspetta fino a quanto uno dei suoi aggressori sta perdendo
contro qualcun altro: questa è l'occasione perfetta per unirsi alla rissa e rendere più gravosa la sconfitta del
suo vecchio nemico».
144 F. de Waal,, Naturalmente buoni, cit., p 205.
46
Ma l'adrenalina e l'ipermimetismo, furono probabilmente accentuati da ulteriori
fattori, i quali rendono ancor più fondate le ipotesi di Girard. In primo luogo la presenza di
armi artificiali, che conducono ad crollo della funzione dei segnali d'inibizione: « Innati
meccanismi di comportamento possono venire completamente sbilanciati da piccoli
cambiamenti apparentemente insignificanti delle condizioni ambientali, e tale è la generale
incapacità di rapido adattamento che in condizioni sfavorevoli una specie può estinguersi
del tutto»145. Questo non vuol dire negare che gli uomini siano privi di tali segnali, ma,
inizialmente dovettero faticare ad essere compresi, in quanto lo strumento diventa di
difficile gestione inibitoria: «C'è poco da sorprendersi dunque se l'evoluzione degli istinti
sociali e quel che più conta l'evoluzione delle inibizioni sociali non hanno potuto tenere
testa al rapido sviluppo che è stato imposto alla società umana dal progresso della cultura
tradizionale, soprattutto di quella tecnica»146. Dall'alto della sua intelligenza, l'uomo non si
è dispensato di turbare l'ordine naturale che l'animale non sembra aver perso; se per
Rousseau le arti e le scienze hanno corrotto l'uomo, secondo Lorenz l'uomo è dovuto
divenire altro dall'essere 'naturale' , a causa dell'incapacità dei soli istinti di reggere all'urto
della cultura:
«Ovviamente i meccanismi del comportamento istintivo non riusciranno a far
fronte alle nuove circostanze che la cultura inevitabilmente produsse ai suoi
primi albori. Abbiamo elementi per credere che i primi inventori di arnesi di
selce, gli australopitechi africani, usassero prontamente la loro nuova arma non
soltanto per uccidere selvaggina ma anche per far fuori i loro compagni di
specie. L'uomo di Pechino, il Prometeo che imparò a conservare il fuoco, lo usò
per arrostire i suoi fratelli: accanto alle prime tracce di uso regolare del fuoco
giacciono le ossa mutilate e abbrustolite del Sinanthropus pekinensis stesso»147.
Con la presenza della armi l'uccisione diventa molto più semplice e, con le armi a
distanza, i segnali che creano inibizioni non funzionano; il problema delle armi portò ad un
vero e proprio paradosso mai visto in natura, in quanto, tanto più un animale è feroce, tanto
meglio le inibizioni sociali funzionano148! Questo equilibrio venne meno con l'introduzione
di strumenti paragonabili ai denti aguzzi di veri predatori, ma usati da animali privi delle
inibizioni necessarie: «Tutti i suoi guai gli derivano dall'essere fondamentalmente una
145 K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 89.
146 Ivi., cit., p. 301-302.
147 Ivi., p. 302.
148«Nessuna pressione selettiva si formò nella preistoria dell'umanità per generare meccanismi inibitori che
evitassero l'uccisione di conspecifici finché, tutto d'un tratto, l'invenzione di armi artificiali portò lo
squilibrio fra la capacità omicidiale e le inibizioni sociali[..]. C'è da rabbrividire al pensiero di un essere
della eccitabilità e irascibilità di uno scimpanzé , o di tutti i primati preumani, che brandisce una mazza
benl affilata» (Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 304.)
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innocua creatura onnivora che manca di armi naturali (fisiche) con la quali ammazzare una
grossa preda, e che manca quindi anche di quei meccanismi di sicurezza incorporati che
vietano ai carnivori «professionisti» di abusare del loro potere fatale per distruggere
compagni di specie»149.
L'ipermimetismo è un carattere sviluppatosi lentamente, insieme alla crescita del
cervello (per questo la situazione umana - e non in fase di ominizzazione - è definita da
Girard come caratterizzata da desideri eccessivamente mimetici) e l'aggressività cronica
nell'uomo è una conseguenza di tutti questi fattori, tutti determinanti a favorire la
violenza150! Nel corso dell'ominizzazione, l'uomo dovette divenire tanto più abile a gestire
le risorse e l'ambiente in cui vive, fattore che – da un punto di vista evolutivo – ha portato
ad una selezione dominata da dinamiche interne al gruppo sociale, grazie ad una maggiore
competizione! Attraverso le armi artificiali, che determinano il crollo delle inibizioni, e
l'ipermimetismo, che invece innesca dinamiche desiderative eccessivamente potenti,
abbiamo i due fattori che condussero l'uomo all'omicidio fondatore, cioè a ridirezionare
della pulsione aggressiva (redirected activity) verso un altro oggetto che non ha suscitato la
pulsione, ma che finisce per assorbirne gli effetti, in modo da evitare di colpire soggetti
vicini e cari; tutto ciò genera un sistema culturale la cui funzione nient'altro è che sostituire
la gerarchia animale generando divieti analoghi a quelli animali che impediscono il
mimetismo. Il meccanismo vittimario assolve inoltre alla risoluzione di un dubbio che
divideva etnologie ed etologi: «ci sono sempre delle forme sociali fondate già sulla mimesi,
anche tra gli animali, ed esse devono crollare, colpite da crisi mimetiche, perchè appaiano
delle forme nuove e più complesse, fondate sulla vittima espiatoria»151.
2.2 – Risoluzione attraverso il capro espiatorio: ri-direzione dell'aggressività e legame
I continui scontri, non potendo terminare nelle consuete gerarchie, minacciano la
sopravvivenza del genere umano proprio al suo albore. La risoluzione si trova nel secondo
149 K. Lorenz., L'aggressività , cit., p. 302.
150A tal proposito, le riflessioni di D. Morris ne La scimmia nuda risultano molto suggestive: secondo
l'autore, durante il periodo di ominizzazione, l'uomo dovette gestire dosi di aggressività sempre crescente,
in quanto, all'aggressività territoriale che deriva dall'assunzione di un tipo di vita sedentario, si deve
aggiungere l'aggressività 'gerarchica' che deriva dalla nostro retaggio di primate; in aggiunta, la nuova
formazione 'familiare' che egli immagina, acuì notevolmente le tensioni all'interno del gruppo, a causa
della 'gelosia' dei maschi per il possesso delle singole femmine. Non concordando completamente con la
ricostruzione che l'autore fa del processo di ominizzazione, credo però che tale definizione in campo di
aggressività abbia una valenza rilevante. (Cfr. D. Morris, La scimmia nuda, cit., cap V- La lotta.)
151R. Girard, Delle cose nascoste, p. 125.
48
pilastro dell'edificio teorico girardiano, l'ormai noto meccanismo del capro espiatorio, in
grado di convogliare tutte le tensioni e pulsioni violente su di un unico bersaglio,
riportando così la pace. Girard definisce tale processo come una metamorfosi
dell'imitazione, che da mimesi d'appropriazione diviene mimesi di antagonismo; la mimesi
di appropriazione è quell'insieme di comportamenti che possono degenerare in una crisi
mimetica, conseguenza terribile della convergenza di molti desideri esasperati su di un
unico appiglio; immaginiamo una crisi sempre più cruenta e parossistica, nella quale il
mimetismo – evidentemente oltre al limite 'normale' – conduce alla cancellazione
dell'oggetto del desiderio, che si mostra come un mero espediente per lo scontro: ciò che
rimane in seno alla comunità è il conflitto sanguinario in quanto tale. La comunità si
deforma in una massa indistinta di doppi e di antagonisti, nella quale la potenza mimetica
di appropriazione trova il suo sfogo direttamente sugli individui, bersagli della violenza più
sanguinaria: «Per la mimesi l'unico campo di possibile applicazione sono gli stessi
antagonisti. Si produrranno allora, in seno alla crisi, delle sostituzioni mimetiche di
antagonisti»152. La divisione suscitata dalla mimesi d'appropriazione, che porta al conflitto
per il possesso di un oggetto, diviene mimesi di antagonismo la quale «riunisce facendo
convergere due o più individui su un identico avversario che vogliono tutti abbattere»153.
Come sappiamo, il conflitto mimetico dilaga e si propaga come un'epidemia, per cui, se la
mimesi d'appropriazione su un oggetto si spande esponenzialmente in una società di
imitatori, allo stesso modo dovremmo immaginare il dilagare della mimesi d'antagonismo
su di un unico bersaglio, che diviene lentamente il centro gravitazionale delle attenzioni;
più gli sguardi mirano ad un oggetto, più esso viene osservato e desiderato: alla stregua, più
un singolo antagonista diviene il doppio mimetico, più si configura come il centro delle
pulsioni aggressive: «arriverà necessariamente il momento in cui l'intera comunità si
ritroverà raccolta contro un individuo unico. La mimesi dell'antagonista suscita dunque
un'alleanza di fatto contro un nemico comune e la conclusione della crisi, la riconciliazione
della comunità, non consiste in nient'altro»154. La mimesi di antagonismo può essere letta
come quel meccanismo che permette la metamorfosi di una violenza 'cattiva' – perchè
dilania e spezza la società – in una violenza 'buona' – che riunisce grazie al sacrificio di un
unico bersaglio, la cui morte permette di drenare via dalla comunità tutti gli antagonismi e
tutte le divisioni. Può essere proficuo interpretare questo meccanismo del capro espiatorio
come un processo di ri-direzione dell'aggressività: per ri-direzione, intendiamo un'azione
152R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 44
153Ibid.
154Ibid.
49
che trova uno sfogo pulsionale ai danni di un oggetto che non è la causa scatenante di detta
pulsione; in questo caso, la violenza che ognuno esercita su un determinato bersaglio viene
a polarizzarsi su di un unico individuo, che funge da vero e proprio parafulmine: non era lui
ad aver suscitato inizialmente la reazione violenta, ma è lui a subirne le conseguenze,
permettendo un adeguato sfogo pulsionale e, d'altro canto, non richiamando in causa
ulteriore violenza.
A destare sorpresa, è l'effetto conciliatorio di questo processo: infatti, se la mimesi
d'appropriazione divide in modo netto il gruppo, la mimesi d'antagonismo riunisce tutti
contro un unico bersaglio, generando così – per quanto cruento possa sembrare – una
comunità solidale e di nuovo in pace: «Una volta che la mimesi d'appropriazione
oggettuale ha compiuto la sua opera di divisione e di conflitto, si trasforma in mimesi
dell'antagonista che tende invece a raccogliere e unificare la comunità»155. Il linciaggio
genera si una comunità di assassini complici, ma è proprio questa complicità che determina
la fine delle violenze, il ritorno della pace, oltre che la cooperazione e l'aiuto reciproco.
Tutto questo processo può essere considerato sensato per dei gruppi pre-umani? In
fondo, l'ipotesi girardiana trae le sue fondamenta da osservazioni di gruppi sociali già in
possesso di una cultura, la cui origine viene posta in un passato ancestrale, per venir
presentata contemporaneamente come origine dell'uomo stesso; in fondo tale processo
induttivo e genealogico potrebbe essere capzioso, in quanto postula alla base dell'uomo
processi non validi per un gruppo di ominidi non ancora 'culturali'. Per conferire maggiore
credito all'ipotesi del capro espiatorio, ancora una volta, l'etologia permette interessanti
delucidazioni. Quale altro ruolo possiamo assegnare all'aggressività? Può davvero una
violenza che dilania la società polarizzarsi su un'unica vittima, creando una società di
assassini solidali ed uniti? E' davvero possibile fondare un legame solidale su un omicidio?
Nelle sue acute pagine relative all'aggressività, l'etologo austriaco Lorenz dimostra in modo
eccellente il nesso tra aggressività e amicizia, postulando in modo innovativo la pulsione
aggressiva come condizione sine qua non lo sviluppo di un vero rapporto sociale sarebbe
impossibile! Per vincolo si può definire quel tipo di legame che tiene unite due
individualità156 e che, in una determinata società, può ramificarsi tra i diversi membri,
creando un gruppo in cui l'aiuto reciproco e la cooperazione fungono da norma, come
accade negli animali sociali. Lungi dall'essere solo un male, l'aggressività diviene l'asse
155R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 45.
156Nelle riflessioni di Lorenz, la centralità dell'individualità è fondamentale: in schiere anonime, come
banchi di pesci, il vincolo non si concretizza, mancando la possibilità di un rapporto tra due individualità.
50
portante della socialità – paradossalmente; la semplice ri-direzione di un'azione aggressiva
permette la conquista di una vetta fondamentale per ogni individuo, presentandosi come
«l''espediente più geniale che l'evoluzione abbia inventato per costringere l'aggressività su
binari innocui»157. La posizione dell'etologo dimostra tutta la sua apparente paradossalità,
giungendo a definire ogni tipo di legame positivo, sia l'amicizia che tutti i vincoli realmente
sociali, come conseguenze derivanti dalle dosi inevitabili di aggressività che emergono
dalle tensioni intra-specifiche, squisitamente ri-indirizzate: «il vincolo personale s'è
formato nel corso del grande divenire senza alcun dubbio nel momenti in cui, presso
animali aggressivi, si sia resa necessaria la collaborazione di due o più individui ai fini
della conservazione della specie»158.
Per cogliere il nesso che intercorre tra bonding e aggressività, Lorenz ci illustra una
serie di esempi sensazionali, tratti direttamente dalle sue osservazioni; l'esistenza e la forza
di questo nesso ci permette una migliore comprensione di enigmatici comportamenti
'rituali' i quali, apparendo immediatamente aggressivi, si risolvono in gesti amorevoli:
«The link between (redirected) aggression and bonding is also evident, curiously
and challengingly, in mating. In many different mammalian species, sexual
encounters look like fights, sometimes accompanied by thrashing about, loud
noises, and (in cats) mock biting, scratching, and caterwauling, followed by a
final act of pushing away (’rejection’) that looks distinctly unfriendly. Among
humans, too, aggression is sometimes diverted into sexual behaviour. This is a
well-known pattern in certain dysfunctional (abnormal or poorly functioning)
relationships. Fighting or arguments are part of a semi-ritual pattern that ends in
“kissing and making up».159
La ri-direzione dell'aggressività, a favore del vincolo, non ha come prova solo la
tensione aggressiva che vige attorno alla sessualità. In termini di 'amicizia', molto
intrigante è la 'danza a carattere strettamente rituale' delle gru: la cerimonia si apre con la
classica manifestazione di potenza, condita con tutta una serie di segnali aggressivi come
ali aperte, becco in alto; ma:
«questa minacciosa rappresentazione della propria temibilità viene [..]
rapidamente allontanata dall'avversario con una conversione di 180 gradi: ora
l'uccello, sempre ancora con le ali spiegate, presenta al compagno la nuca
indifesa[..] Per alcuni secondi l'uccello «danzante» permane in quella posizione
e esprime così con un comprensibile simbolismo che la sua minaccia d'attacco
non è diretta contro il compagno, ma tutto al contrario lontano da questi, verso
l'infame mondo circostante, e qui giù echeggia il motivo della difesa dell'amico.
Dopodichè la gru si volta di nuovo verso l'amico e ripete di fronte a questi la
157K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 99.
158Ivi., p. 274.
159http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Thinking%20the%20human.pdf
51
dimostrazione della sua grandezza e potenza, si gira immediatamente dopo ed
esegue ora significativamente un finto attacco contro un qualsiasi oggetto
sostitutivo, preferibilmente contro una grù li accanto non amica [mancando la
quale], anche contro un pezzettino di legno o un sassolino che viene preso col
becco e lanciato tre, quattro volte in aria»160.
L'alleanza e l'amicizia tra i due esemplari viene appunto cementata da una riconversione di
un attacco verso l'esterno.
Gli esemplari maschi dei pesci ciclidi sono animali terribilmente territoriali e di
conseguenza estremamente aggressivi; gli attacchi che, ad esempio, un esemplare compie
non si indirizzano solo verso altri maschi, ma anche ai danni di esemplari femmine che si
insinuano nel suo territorio desiderose di accoppiarsi; lentamente, però, l'aggressività
scema lentamente, attraverso l'esibizione di rituali di sottomissione, azioni di
corteggiamento e, fortunatamente, anche grazie ad una buona dose di abitudine161.
Raggiunta una sorta di stabilità, però, la femmina muta radicalmente atteggiamento,
abbandonando la timidezza iniziale ed esibendo comportamenti sempre più superbi e
sfrontati, proprio nel centro del territorio del suo compagno (dove l'aggressività tocca il
vertice massimo di intensità). Il decorso degli eventi è però sconvolgente: l'eccitazione
dell'esemplare maschio tocca il picco, a causa di tali provocazioni, e « quindi si precipita
verso la sua femmina, assume anche lui la posizione dell'imporsi col fianco [posizione
simbolo di aggressività e di minaccia], lancia alcuni colpi di coda e per frazioni di secondo
sembra che la voglia speronare, e poi [..] passa effettivamente al furibondo attacco.. ma
non contro la sua femmina, evitandola di stretta misura, invece contro un altro compagno
di specie: in circostanze naturali regolarmente contro il vicino di territorio» 162. Abbiamo di
fronte un tipico caso di attività ri-diretta: un azione «innescata da un oggetto, siccome
questo provoca contemporaneamente stimoli inibitori, viene sfogata su di un altro
oggetto»163; di conseguenza, a scatenare l'azione violenta è stata l'esemplare femmina, la
quale, però, essendo la compagna e dunque esibendo contemporaneamente segnali inibitori,
genera un'inversione di rotta da parte del ciclide, che, all'apice dell'eccitazione, scarica la
sua aggressività su un nemico posto nelle vicinanze! 164Se possiamo provare questa
160K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 234.
161Se, l'aggressività non degenera in omicidio, lentamente l'abitudine ad un altro individui attenua la
violenza che li viene riservata.
162K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 229.
163Ibid.
164Le inibizioni che possono suscitare una ri-direzione, possono essere scatenate dalle motivazioni più
diverse, per cui «un animale si avvicina da una certa distanza all'oggetto della sua rabbia, soltanto
nell'avvicinarsi si accorge poi di quanto in realtà sia terrificante l'avversario e, dato che non riesce più a
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sensazione nel nostro quotidiano, colpendo un innocente tavolino al posto di chi ci fa
infuriare, comprendiamo immediatamente l'utilità sociale di un meccanismo che dissuade i
conflitti interni; ma c'è di più: infatti, s'instaura un legame profondo tra i due attori di
questo spettacolo. Essendo fonte di minaccia e di disgregazione sociale, la ri-direzione
dell'attacco è un espediente fondamentale 'utilizzato' da Madam Evoluzione per dirottare
l'aggressività «in canali innocui e di frenare i suoi effetti dannosi alla conservazione della
specie»165. Ma come possa cementarsi un rapporto definibile 'vincolo'? Soffermiamoci
ancora presso i ciclidi: le osservazioni esposte, non riguardavano una scelta deliberata fatta
al momento da un singolo pesce, ma documenta un'azione ritualizzata e solidificatasi
durante il processo filogenetico: azioni di questo tipo caratterizzano ormai pulsioni
peculiari all'interno del 'parlamento degli istinti' di ciascuna specie 166, permettendo lo
sviluppo di un legame tra il maschio che attacca e la femmina che ha generato l'inibizione
all'aggressione, in quanto questa peculiare azione viene eseguita esclusivamente con la
presenza del partner che ha innescato l'azione: «Appartiene infatti all'essenza di questa
particolare cerimonia di pacificazione, che ognuno degli alleati la possa celebrare solo con
l'altro e non con un individuo qualsiasi della sua specie, mentre l'autonoma pulsione
aggressiva, da cui è nata, può venire sfogata indiscriminatamente su ogni individuo
anonimo della specie»167. Nato , probabilmente – sostiene Lorenz – da un evento casuale,
gli agenti dell'evoluzione hanno selezionato un comportamento utile, ed è da qui che il rito
ha trovato la sua genesi: ovviamente, l'origine 'oscura' viene spinta nel sottosuolo in modo
che nessuno possa trovarla168. Nel caso dei ciclidi, dunque, abbiamo un doppio vantaggio:
frenare l'attacco, ormai avvito, riversa la sua rabbia su un qualche innocente essere che si trova lì accanto»
(Cfr, K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 230).
165Ivi., p 109.
166Secondo Lorenz è necessario parlare di riti anche per gli animali: essi sono quell' insieme di movimenti,
comportamenti e gesti che, «perdono, nel corso della filogenesi, la loro specifica funzione originaria e
diventano pure cerimonie «simboliche» »(Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit, p 99). Tenute in conto le
debite differenze con i riti umani, esse svolgono in realtà funzioni similari, specialmente osservando dal
punto di vista funzionale. Un determinato comportamento, ad esempio la ri-direzione di un attacco, può
essersi sviluppato, come nel caso dei ciclidi, come mezzo per cementare il rapporto fra i coniugi, ed
evitare che l'esemplare maschio uccidesse la femmina; l'atteggiamento, si è lentamente radicato nei
comportamenti istintivi della specie, in quanto si è dimostrato utile per la sopravvivenza della specie; nel
corso della filogenesi tale atteggiamento è andato in contro ad una 'schematizzazione' , assumendo delle
connotazione squisitamente rituali; quest'atteggiamento si dimostra come un'azione a scopo
'comunicativo', e questo viene confermato dalle esagerazioni mimetiche e gestuali che ogni rito animale
dimostra. La caratteristica interessante, in questo caso, è lo sviluppo di un nuovo bisogno istintuale, per
cui, il ciclide che ri-direziona l'attacco, ha l'istinto di fare questo solo con il suo partner: in questo modo,
si innesca un nuovo bisogno istintuale, nato dalla ri-direzione dell'aggressività.
167K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 233.
168Questa interpretazione del rito è estremamente interessante: «Il rito nato dall'attacco ri-diretto somiglia
quindi, al suo primo apparire, molto più al suo prototipo non ritualizzato che non al suo successivo pieno
sviluppo. [..] Nella cerimonia completamente sviluppata il «simbolo» si è allontanato molto di più da quel
che viene simbolizzato e l'origine della cerimonia viene oscurata sia dalla «teatralità» dell'intera reazione
sia anche dal fatto che con tutta evidenza la cerimonia viene celebrata per amor della stessa. Saltano agli
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se da un lato si salvaguardia il 'rapporto tra coniugi' dalla distruzione dell'aggressività,
quest'ultima non viene persa, tutt'altro: in quanto pesci territoriali, l'aggressività dilaga
verso nemici esterni, altri maschi, i quali sfogano le pulsioni aggressivi tra loro: se questo
scontro venisse impedito (come nel caso di acquari artificiali) la violenza porterebbe
all'omicidio della compagna e della possibile prole, come purtroppo spesso accade.
Altrettanto intrigante è la cerimonia del “saluto” presso i germani reali, che si
differenzia di poco da un'aggressione: il cosiddetto saluto è un rito che viene celebrato da
due coniugi di germano reale in seguito ad una lunga separazione; il suo svolgimento è
semplice: seguendo un determinato richiamo, il maschio si dirige verso la sua compagna,
mostrando un atteggiamento inizialmente aggressivo, per poi – alla fine – fiondarsi sulla
compagna in modo maestoso e suggestivo, ma definitivamente pacifico: è così
caratteristico che viene appunto definito un saluto tra amanti; l'intensità di questo rito è
direttamente proporzionale al lasso di tempo che ha diviso i due coniugi; la funzione
assolta dal rituale è l'eliminazione del pericolo dell'aggressività, la cui inibizione viene
meno dato il lungo lasso di tempo che ha diviso i compagni (l'abitudine rende l'aggressione
molto rara)! Tale cerimonia, definita del giubilo trionfale non è nient'altro che una forma
ritualizzata che si è trasformata in un rito di pacificazione, muovendo da un'iniziale
'attacco', in modo molto simile al processo rituale dei ciclidi; essa trova forme più
complesse in molte specie di oche. In alcuni casi, la minaccia di un maschio che nuota
verso la femmina viene ri-diretta verso un vicino, nei confronti del quale anche la femmina
inizia a dare segnali di minaccia: il coniuge ri-direziona l'aggressività – inizialmente rivolta
verso la compagna – ai danni di uno sconosciuto, azione utile per la formazione di una
'coppia unita ai danni di un nemico comune'; presso la casarca al minimo segno di minaccia
della compagna, il «maschio però non reagisce tanto con un ritualizzato minacciare senza
guardarla, ma con un effettivo, violento attacco al vicino da lei definito nemico»169. E se
l'attacco va a buon fine, la coppia termina con un giubilo trionfale e cioè con un saluto con
effetto benefico e alla stabilità relazionale. Il ruolo dell'attacco preventivo ad un terzo ha
come funzione l'eliminazione dell'aggressività all'interno della coppia, la quale cementa
così il suo rapporto; la riprova avviene quando tale attacco non va a buon fine, «accade non
troppo di rado che all'improvviso, come su comando, i coniugi [..] si azzuffino l'uno contro
occhi molto di più la sua funzione e il suo simbolismo che non la sua origine» (Cfr. K Lorenz,
L'aggressività, cit., p 231).
169K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 239.
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l'altra, e comincino a darsele di santa ragione»170. Il giubilo trionfale va a vantaggio della
coppia proprio perchè, in questi animali 'monogami' esso viene eseguito solo con un
determinato compagno, generando un vero e proprio vincolo di amicizia (non si parla di
coppie eterosessuali, anche perchè il giubilo può unire due maschi, dando vita a una coppia
sovente al vertice dell'ordine, data la loro maggior forza). Diventa chiaro che l'aggressione
preventiva a terzi, serve non solo per scaricare la tensione aggressiva di un maschio, ma
anche per mantenere solido un legame che viene cementato attraverso l'aggressione
esterna, e laddove venga a mancare, la violenza si fa centripeta, proprio come la mancata
esecuzione di un sacrificio, che fa dilagare la crisi mimetica all'interno di una società
sacrificale.
Presso le oche, il giubilo si è espanso ad un livello 'collettivo', riuscendo a tenere
riuniti gruppi piuttosto numerosi, nei quali si osservano alti livelli di collaborazione.
Interessante vedere che in questa specie l'azione aggressiva venga fatta prima del saluto:
non è raro che «un compagno, in genere il più forte membro del gruppo, nelle coppie
quindi sempre il maschio, si accinga a un attacco contro un avversario vero o apparente, lo
combatta e torni poi, dopo una vittoria più o meno convincente, salutato a voce spiegata dai
suoi»171. Dopo aver scaricato l'aggressività verso l'esterno, il maschio mostra un maggiore
amore ed affetto per il suo gruppo, oltre che una minore dose di aggressività: il rapporto tra
le due componenti è infatti di crescita inversa! Addirittura, quando le dimensioni del
gruppo aumentano notevolmente (nel periodo delle migrazioni), il giubilo trionfale
conduce i diversi maschi a coalizzarsi con gli arrivi di alcune nuove oche, creando una
formazione a cono che, da un lato, minaccia i nemici, ma dall'altro consolida il gruppo, che
saluta i protettori proprio con il giubilo. La forza esclusiva del vincolo, generata appunto
dall'aggressività verso esterni, crea un gruppo estremamente coeso172, il cui rapporto si
rivela durevole: esso viene definito un rito il cui scopo è l'unione dei membri della società
delle oche, ed è proprio nella ripetizione che trova la sua funzione unificatrice.
Tutte questi diversi esempi, ci permettono di sottolineare due notevoli aspetti. In
primo luogo, l'esistenza di un legame di implicazione tra l'aggressività e il vincolo
170K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 242.
171Ivi., p 241.
172Un tal funzionamento si può osservare nella definizione che Canetti fa delle masse doppie (Cfr. E.
Canetti, Massa e Potere, cit., cap I.): in questo genere di masse, si genera una complicità tanto più
straordinaria, tanto più si scaricano ingiurie e infamie verso l'esterno, nei confronti dei quali si tende ad un
vero e proprio processo di 'demonificazione'; a favore di questo, basti pensare al confronto tra Russia e
USA durante la guerra fredda.
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personale: il legame che unisce due oche che si salutano con il giubilo trionfale viene
sancito da un preventivo e precedente attacco ai danni di un membro esterno alla coppia: il
'rimedio sovrano' che le Eumenidi cantano in Eschilo, evoca appunto pace all'interno della
polis attraverso l'odio verso i nemici173 ! Questo modulo comportamentale, secondo Lorenz,
è un classico esempio di adattamento convergente174 in quanto, sebbene in forma più
complessa, si può osservare in differenti specie, uomo compreso! Ed ecco, secondo Girard,
qual'è stata l'acutezza di queste osservazioni: notare non solo la capacità di 'scaricare' una
violenza verso un membro 'esterno' al gruppo (nel caso delle oche si parla di coppia), in
modo che tale pericolo non dilaghi all'interno di esso, ma soprattutto è fondamentale la
funzione consolidatrice che tale azione determina! Se il vincolo nasce da un'aggressione
comune, la lettura della società umane che da Girard – generata cioè da una comunità che si
avventa su una vittima – trova la sua forma primigenia in diversi animali! Questo
meccanismo «sembra [..] il primo abbozzo del futuro meccanismo vittimario proprio nel
suo ruolo di forza “idraulica” che tende a scaricare l'aggressività interdividuale su terzi»175.
La vittimizzazione è dunque un modulo comportamentale la cui forma non è
esclusivamente umana, ma , in forme diverse, si trova in molti animali: forse azzardando,
possiamo parlare di 'proto-forme di vittimazzione' o di un meccanismo vittimario
istintivo176: la soluzione vittimaria non può far altro che attingere a moduli
comportamentali, in fondo già presenti nel funzionamento di tutti gli organismi viventi, i
quali – non necessariamente – assumono forme diverse, a causa delle novelle esigenze
umane, i quali 'ridisegnano' tendenze già esistenti177. Tali suggestioni permettono di
spiegare la socialità e il ruolo catartico che l'omicidio fondatore ha negli uomini: «l'atto di
convogliare l'aggressività interspecifica di un dato gruppo contro un elemento esterno (o un
elemento interno percepito come esterno) crea una forte coesione nel gruppo stesso e
potrebbe essere una delle ragioni per la quale le società primitive ricorrevano all'omicidio
rituale: per rafforza i legami sociali»178.
173«Prego che in questo paese / non s'oda il fragore, / del Dissidio, goloso d'angoscia. / Non s'imbeva la
polvere / di bruno sangue: spasimo / di perdizione – morte a saldo di morte - / a desolare la terra. / Festosa
corrispondenza d'affetti, / in cara armonia d'intenti / e , nell'odio, cuori che si fondono in uno: / Così sia!
Ecco il rimedio sovrano» Cfr. Eschilo, Eumenidi in Orestea, Milano , Garzanti, 1991, p. 257.
174Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 275.
175R. Girard, Origine della cultura, cit. p. 71.
176In La pietra dello scandalo, Girard definisce il meccanismo del capro espiatorio come «una fonte di
buone mutazioni biologiche e culturali» (Cfr, R. Girard, La pietra dello scandalo, trad. it. A cura di
Giuseppe Fornari, Adelphi, Milano 2004, p. 126).
177Allo stesso modo anche la gerarchia umana si ridisegna sulla base di una gerarchia animale, venendo però
modellata attraverso la potenza di ogni singolo. La soluzione che vede Girard, lascia presagire un'ideale
politico basato su gerarchie e differenze ben radicate: tale lato conservatore di Girard (più o meno voluto)
deriva da un'idea di crisi descritta come crollo delle differenze.
178R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 72.
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La rilevante differenza con Lorenz, è però la sua mancata attenzione al 'branco' e la
focalizzazione su singole coppie che, dunque, non possono applicarsi al modello evolutivo
sociale a cui Girard pensa quando elabora la sua ipotesi dell'ominizzazione. Lorenz non
elabora un discorso per animali sociali, pensando dunque in termini di amicizia personale
(probabilmente, questo a causa del tipo di animali studiati da Lorenz,in prevalenza oche)179;
l'esempio delle oche che formano una 'falange' di colli minacciosi si dimostra
estremamente suggestivo per una dimensione collettiva; la ricerca di proto-forme di capro
espiatorio e di vittimazione può risultare molto utile, sempre tenendo conto delle notevoli
differenze che un essere ipermimetico può generare: secondo Girard anche il fenomeno
della caccia presso gli scimpanzé, che ha affascinato molti studiosi, può essere definito una
'piega etologica'180, una tendenza a scovare vittime per scanalare l'aggressività181; sia presso
il fume Gombe, sia in Tanzania, si sono osservati rapporti tesissimi e violenti (fino
all'assassinio) tra diversi gruppi di scimpanzé o anche tra scimpanzé e babbuini 182! Non
possiamo, in fondo, imporre il linciaggio come un momento unico e straordinario, ma «si
tratta di definire tutta una serie di stadi nel lungo processo evolutivo che ha portato al
meccanismo del capro espiatorio nella sua struttura e funzione definitiva»183. Questi
atteggiamenti, secondo Girard, dimostrano l'insorgere di moduli comportamentali che
s'indirizzano verso una dimensione collettiva e vittimaria, ma che non riescono ad
irrompere nel piano simbolico a causa del mancato sviluppo cerebrale delle scimmie. Il
179L'aggressività, in animali sociali come scimpanzé, bonobo, noi ecc non viene determinata solo da stimoli
singolari o da un temperamento forte; questo 'modello individuale' può essere affiancato da quello che de
Waal definisce 'modello relazionale': «il comportamento aggressivo è il prodotto di conflitti di interessi
fra individui che condividono una storia (e un futuro). Esso presuppone un equilibrio fra tendenze che
separano gli individui e tendenze che li uniscono, e ha per oggetto individui la cui coesione è determinata
dall'attaccamento e da senso di appartenenza allo stesso gruppo. [..] solitamente l'aggressione non è un
evento che si risolve in un unico episodio ma è parte di una serie di incontri da positivi a negativi,
attraverso i quali il rapporto assume un andamento ciclico» (Cfr, de Waal, Naturalmente buoni, cit., p.
224.)
180Cfr. R. Girard, Origine della cultura,cit., p. 75.
181Per quanto riguarda la caccia presso gli scimpanzé, non sono convinto del suo legame con la
vittimizzazione: in primo luogo, sia Boesch che Standford definiscono il comportamento venatorio degli
scimpanzé come non intenzionale: durante le loro ricerche di cibo vegetale, se si imbattono in altre
scimmie minori, si attiva una caccia; più che sull'azione stessa della caccia, è dunque sui successivi
avvenimenti che l'attenzione dovrebbe ricadere, primo fra tutte l'eccessiva 'esultanza' di una caccia ben
riuscita, che presenta – in questo senso – aspetti rituali.
182Per un'interessante accenno dei rapporti scimpanzé babbuini, i resoconti di Jane Goodall sono delle fonti
molto proficue; in secondo luogo, è bene sottolineare che anche i rapporti tra diversi gruppi di bonobo si
sono rivelati più tesi di quanto le osservazioni di de Waal definiscono: secondo diversi studi di Gottfried
Hohmann, il tasso di aggressioni intra-specifiche è tendenzialmente lo stesso tra bonobo e scimpanzé;
(Cfr. Hohmann, Gottfried; Fruth Barbara (novembre 2003). Intra- and Inter-Sexual Aggression by
Bonobos in the Context of Mating. Behaviour; oppure Cfr.
http://www.lescienze.it/news/2008/10/13/news/il_bonobo_a_caccia_di_primati-578065/ )
183 R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 76.
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vero discrimine che negli animali sociali mancherebbe, è la dimensione totalitaria che
invece il linciaggio umano avrebbe, unanimità derivata dall'ipermimetismo; per quanto
riguarda questa unanimità, sono convinto che le dinamiche riferenti le vendette e 'faide' tra
scimpanzé precedentemente esposte permettano una notevole prova a favore di una
partecipazione che sfiori la dimensione collettiva, o che almeno la renda plausibile;
presento qui due resoconti molto suggestivi: invocare la totale unanimità è una
conseguenza logica se si segue il percorso logico tracciato dall'iperimitazione umana. Uno
dei resoconti più stupefacenti descrive una seduta di pasto di alcuni bonobo, durante la
quale un esemplare maschio diviene particolarmente molesto nei confronti di una madre –
con accanto il suo cucciolo – 'colpevole' del tentativo di toccarlo; la reazione del gruppo fu
stupefacente: scoppiò un vero e proprio attacco collettivo e coordinato (che non si concluse
con un omicidio) compiuto con un'aggressività e urla mai registrate in queste pacifiche
antropomorfe:
«Volker salta su un ramo che regge Amy e il suo piccolo. Per un secondo la
femmina sembra perdere l'equilibrio ma poi conserva una salda resa e spinge
Volker via dal ramo. Il maschio salta a terra, seguito da Amy che lancia urli
furibondi. La discesa dall'albero di Volker e Amy scatena un pandemonio,
poiché altre femmine e maschi adulti saltano giù dall'albero e in pochi secondi
la foresta si trasforma in un campo di battaglia. La scena è in gran parte
occultata dalla densa vegetazione, ma il rumore spaventoso prodotto agli urli dei
bonobo indica che questa non è una finta battaglia, bensì uno scontro
furibondo.» 184
Pensare ad un'azione collettiva, che comporti un intervento di tutti i membri della
comunità, non è dunque una realtà così impensabile; in fondo, soprattutto nel caso delle
antropomorfe come bonobo e scimpanzé, molte dinamiche politiche sono dominate da una
vasta rete di alleanze che s'intersecano sotto le righe di una precisa gerarchia185; non
bisogna dimenticare che , nel vortice dei conflitti per la dominanza, gli scimpanzé vengono
sostenuti dagli esemplari femmine e spesso sono proprio questi sostegni ad esser l'ago della
bilancia; nel caso dei bonobo, inoltre, sono proprio le femmine a porsi in una posizione
maggioritaria rispetto ai maschi (si parla infatti di 'sorellanza'). Interessante è la descrizione
del comportamento di Jimoh, maschio alfa della colonia di Arnhem che iniziò ad inseguire
Socko – una femmina – in modo particolarmente aggressivo; quest'ultima, iniziò a gridare e
mostrare ghigni di paura:
«Prima che l'alfa riuscisse nel riuscisse nel suo intento, parecchie femmine che
184Cfr. G. Hohmann, B. Fruth , Is blood thicker than water?, in Among African Apes pp. 61-67.
185«E' qualcosa in cui molti primati eccellono: nella competizione interna, la loro arma più potente è
l'alleanza di due parti contro una terza». (F. de Waal, Naturalmente buoni, cit., p. 222).
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stavano assistendo da vicino alla scena iniziarono a emettere una serie di
abbaiamenti «woaow». Questo suono indignato viene usato contro gli aggressori
e gli intrusi. Da principio le femmine si guardarono intorno per vedere come il
resto del gruppo stesse reagendo, ma quando anche altre si aggiunsero, e
particolarmente la femmina di rango più elevato, l'intensità dei loro richiami
aumentò rapidamente fino a che furono tutte unite in un coro assordante. [..]
Una volta che le isolate voci di protesta diventarono un coro, Jimoh interruppe
l'attacco con un ghigno nervoso sulla faccia[..]. Se non si fosse comportato di
conseguenza, senza dubbio, le femmine avrebbero concertato un'azione per
metter fine alla persecuzione di Socko»186.
Non sembra mancare molto a un vero e proprio linciaggio, soprattutto se , al posto
di inseguire una debole femmina, al centro dell'attenzione vi fosse uno scontro cruento.
Possiamo dunque concludere che, quel particolare meccanismo del capro espiatorio,
non è nient'altro che uno schema che trova le sue radici nel campo biologico, nelle diverse
forme comportamentali animali che permettono la costituzione di solidarietà e
cooperazione, muovendo dall'aggressività; tale meccanismo, come i dominance patterns,
non riesce a sopportare le nuove spinte derivanti dall'ipermimetismo, e viene dunque
ridisegnato secondo le nuove esigenze che portarono alla formazione di un sistema
culturale che, secondo la prospettiva girardiana, caratterizza l'umano: un nuovo modello
comportamentale che trae la sua linfa dall'animalità187, ma che, riformato in una nuova
direzione, riuscì a instaurare quel processo che portò l'uomo a divenire, lentamente, quello
che oggi possiamo osservare: ancora una volta, è bene sottolineare che l'irruzione nel piano
simbolico, 'rottura' che caratterizza l'umanità, si radica in un processo evolutivo e
contingente, basato su di una peculiarità fisiologica, senza che questo determini alcun tipo
di gerarchia nei viventi.
2.3 – Questione di mimetismo
Prima di concludere potrebbe essere utile fermarsi a riflettere su alcuni punti
interessanti. L'antropologia che Girard traccia è innegabilmente di stampo pessimistico:
186F. de Waal, Naturalmente buoni, cit., p.121.
187Degno di nota, è l'opera di W. Burket, La creazione del sacro , nella quale l'autore presenta delle
caratteristiche universali nei fenomeni religiosi, identificando tali realtà come formate sulla base di una
serie di caratteristiche riscontrabili anche presso gli animali: «io propongo l'esistenza di schemi biologici
di azioni, reazioni e sentimenti attivati ed elaborati mediante pratiche rituali[..]. La religione segue le
orme della biologia» (Cfr W. Burkert, La creazione del sacro, cit., p. 221.). Nella sua interpretazione, ad
esempio, l'offerta sacrificale ad un dio, in cambio di favori, può trovare il suo 'scheletro biologico' nel
comportamento definibile pars pro toto , per cui si accetta il sacrificio di una parte di se (come un dito) ,
al fine di salvare l'intero; «Dunque uno schema rituale millenario, diffuso da un capo all'alto del mondo ed
espresso in racconti, sogni e culti religiosi di antiche civiltà, ha analogie in un programma biologico
operante in vari stadi dell'evoluzione e in varie specie animali» (Ivi., p.62.)
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come un moderno maestro del sospetto egli da luce ad osservazioni concernenti realtà
cruente, sanguinarie (e per tanto non sempre studiate), giungendo a dipingere l'uomo, i suoi
desideri e la sua origine privilegiando quell'insieme di aspetti che non ci elevano
moralmente, tutt'altro; l'uomo girardiano, questo primate ipermimetico, si caratterizza
molto più vistosamente come assassino: pensare alla totalità della nostra cultura come nata
da una serie – e molto lunga – di omicidi a danni di innocenti, può essere scomodo; le sue
teorie trovarono una forte resistenza, soprattutto mancando dirette prove di questo omicidio
e di questa concezione sacrificale; ecco perchè, nei testi girardiani, uno degli elementi
basilari, senza il quale la teoria non terrebbe, è la concezione del misconoscimento o
méconnaissance188: l'omicidio reale fondatore, oscuro segreto celato dietro ogni mito e rito,
viene sottilmente (più o meno bene) cancellato attraverso le più diverse strategie narrative,
travisando il racconto, ad esempio, lasciando intendere che una vittima 'cada' da una rupe,
al posto che esserci spinto189. Questo processo di misconoscimento potrebbe giungere
anche ad intaccare l'ipotesi dell'ominizzazione, andando a mostrare l'insensatezza
dell'ipotesi sviluppata da Girard. Vi sono infatti alcune osservazioni che potrebbero indurre
addirittura ad ammettere la validità di tale l'ipotesi, solo con alcune correzioni, che però
quali cancellerebbero il peso delle reali intuizioni dell'autore.
In primo luogo, si potrebbe postulare una violenza fondatrice, se si aggiungesse ad
hoc un deterrente a favore della scintilla scatenante tale crisi: come dimostra la maggior
parte degli studi su animali in cattività, uno dei fattori che fa degenerare la violenza è
l'esponenziale crescita sociale di un gruppo: non serve scomodare l'etologia per capire che,
in casi di un sovraffollamento, il cibo diventi un bene sempre più raro e che questo possa
portare ad un aumento esponenziale della violenza (sicuramente non inibito da un ambiente
compresso, dove i movimenti sono minori e lo spazio personale ridotto al minimo); diversi
studi sulle galline da uova (tenute in allevamento in cui lo spazio vitale era inferiore al
normale) certificarono casi di cannibalismo e automutilazioni. Anthony Storr, riprendendo
188Molto interessante il suggestivo suggerimento di Henri Atlan, il quale considera il misconoscimento come
un suppellettile inutile nella teoria di Girard, un 'rimasuglio' dell'influenza freudiana. (Cfr.
http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Atlandraft.pdf)
189É ne Il capro espiatorio che Girard sottolinea bene il processo di misconoscimento della violenza
all'interno dei miti: «La volontà di cancella le rappresentazioni della violenza governa l'evoluzione della
mitologia» (Cfr. R Girard, Il capro espiatorio, cit., cap VII.). Secondo l'autore, si può osservare un
processo che tende ad eliminare in primo luogo la dimensione collettiva della violenza, sostituita con un
azione individuale; in secondo luogo, è quest'ultima violenza viene cancellata. Si compie così
«l'eliminazione di ogni traccia di queste tracce [e cioè delle tracce dell'omicidio collettivo celato
inizialmente]» (Cfr. Ibid., p.125).
60
diversi studi etologici190, ci conferma tale realtà: «Uno dei pochissimi catalizzatori che
fanno precipitare gli scontri tra animali della medesima specie sino ad un esito mortale è
appunto una grande riduzione del territorio, riduzione che si verifica soprattutto tra gli
animali allo stato selvatico, quando smettono di funzionare, come ogni tanto accade, i
dispositivi automatici che regolano le nascite e le morti» 191. In casi straordinari ed
eccezionali di sovrappopolamento, il livello di aggressività tra gli individui compie un
balzo esponenziale, «circostanza che può sfociare in combattimenti mortali oppure in uno
sterminio dovuto a morbi di tipo epidemico» 192; oltre che a casi di cattività, questa
situazione può scatenarsi anche in ambienti naturali, com'è documentato per i conigli
selvatici, nei quali scoppia «una rapida diffusione della mortalità a seguito di malattie che
si rivelano frutto della grave tensione insorgente nell'ambito della specie in
soprannumero»193. In tutti questi casi anomali, si potevano osservare una crescita della
violenza a causa del 'crollo' dei livelli inibitori: «tutti gli stimoli che innescano
l'aggressione e il comportamento di lotta intraspecifica subiscono un pauroso abbassamento
dei loro valori di soglia»194.
Il sovraffollamento potrebbe essere una delle possibili cause collaterali che
porterebbero l'uomo ad una violenza ingiustificata, salvando dunque l'immagine dell'essere
morale, incolpando la sua tendenza assassina a cause esterne195; tale ipotesi diventa
suggestiva non appena si leggono diversi resoconti riguardanti casi di cannibalismo,
ipersessualità studiati in ratti e gatti; uno studio zoologico di P. Leyhausen, offre un
resoconto interessante da un punto di vista girardiano: «Quanto più affollata è la gabbia,
tanto più scarsa è la gerarchia relativa. Alla fine emerge un despota, compaiono dei 'paria',
spinti alla frenesia e a tutti i tipi di comportamento nevrotico dai continui e spietati attacchi
da parte di tutti gli altri; la comunità si trasforma in una folla malvagia.» 196. Crollo della
gerarchia, violenza incontrollata: tutte modificazioni caratteristiche dell'imminente crisi
mimetica che precede l'escalation delle vendette: nella sua opera di discernimento della
190Diversi studi riguardano gli ippopotami (R. Verheyen, Monographie étologique de l'hippopotame, Institut
des Parc Nationaux du Congo Belge, 1954), oppure di studi in giardini zoologici, dove non solo la
grandezza limitata del territorio fa aumentare la dose di aggressività, ma anche perchè impedendo la fuga,
l'esemplare dominante giunge all'omicidio.
191Anthony Storr, L'aggressività umana, cit., p 51.
192Ibid.
193Anthony Storr, L'aggressività umana, cit., p. 52.
194 K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 96.
195Si può ricordare, ad esempio, la risoluzione che Rousseau da al problema della teodicea: per
salvaguardare la bontà dell'uomo, e l'esistenza di un Dio misericordioso, la malvagità viene vista dal
ginevrino come conseguenza della vita in società. (Cfr. J.J. Rousseau, Lettera sulla provvidenza).
196P. Leyhausen, The communal organization of solitary mammals, in Symposia of the Zoological Society of
London, 1965, pp.249-263. La citazione è presente in R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 85.
61
mitologia, sia le epidemie, sia il crollo delle differenze erano avvisaglie del
misconoscimento mitologico, atte a celare la crisi mimetica. Secondo Girard «Se questa
ipotesi sui meccanismi di risposta a situazioni di stress potesse essere estesa agli ominidi
avremmo una prova di quel genere di comportamento deviante tipico della frenesia
dionisiaca.[..] Dioniso è un altro nome per il parossismo tipico delle crisi sociali in cui
emergono motivi e strutture etologici.»197. Tutte queste situazioni di stress nel caso degli
animali, determinando l'insorgere di tendenze riconducibili alla spirale mimetica,
potrebbero dare ulteriore credito alla definizione di una crisi mimetica che sia in realtà una
crisi di sovraffollamento; durante carestie, epidemie o catastrofi, le nostre società mostrano
il loro volto sempre meno nobile: basti pensare ai resoconti europei riguardanti le epidemie
di peste.
Un'ipotesi piuttosto suggestiva quella che appare sotto questa prospettiva: se in casi
di sovrappopolazione o di situazioni estreme di stress, i meccanismi animali reagiscono con
forme sempre più simili al meccanismo del capro espiatorio, perchè non ipotizzare che
l'uomo possa essersi dilaniato durante una carestia o un'epidemia, e fu proprio dalla società
in rovina che le gerarchia animali crollarono definitivamente, portando ad un'inevitabile
violenza incontrollata e, dunque, dall'emergere del meccanismo vittimario? Che la peste
tebana dell'Edipo re sia una realtà e che, in un secondo momento, scateni la crisi mimetica?
In questo caso, la rottura radicale che portò all'umanità non viene giustificata da
un'uccisione suscitata da una violenza scoppiata e dilagata senza una ragione (o meglio, la
ragione è il mimetismo), bensì la lotta interna, conclusasi con l'immolazione di un
innocente, fu una conseguenza del crollo di una gerarchia definita a causa di continue morti
epidemiche?198 Discorsi come questi postulano una causa esterna che, come conseguenza,
condurrebbe ad una crisi sociale e mimetica; il sovraffollamento può benissimo essere una
conseguenza, da un lato di un brusco cambiamento ambientale che, in concomitanza con un
maggiore sviluppo cerebrale, permise all'uomo condizioni di vita migliori: anche Darwin
notava che ogni specie aumenta progressivamente199, e questo faceva esplodere il
meccanismo della selezione degli individui più adatti; la crescita esponenziale di una
197 R. Girard, Origine della cultura, cit., pp. 85-86.
198Quest'ipotesi non deve sembrare priva di senso: durante le epidemie di peste, ogni regola sociale ed
altruista sembrava svanire; che l'uomo – nei momenti delle catastrofi – faccia emergere da se delle spinte
egoistiche, è tristemente noto anche nell'odierno 'sciacallaggio' verificatosi proprio in seguito alle
devastazioni compiute dai terremoti.
199Darwin in L'origine della specie, postula una variazione ad aumento geometrico di ogni specie, ognuna
delle quali è dotata di meccanismi per 'limitare' la crescita delle nascite; ma in casi in cui «le condizioni di
vita sono state favorevolissime e quindi [..] vi è stata una minore distruzione dei vecchi e dei giovani e
che quasi tutti i giovani si sono potuti riprodurre» allora un aumento esponenziale è possibile. (Cfr C.
Darwin, L'origine della specie, cit., p. 71).
62
determinata specie in una nicchia ecologica fa scatenare una densa selezione intraspecifica, in quanto le capacità adattive di detta specie gli permettono un comodo
adattamento ecologico. Pensare che l'uomo primitivo, grazie alle sue abilità potesse
sfamarsi più facilmente, proteggere la prole con mezzi migliori e dunque condurre la vita in
maniera ottimale, potrebbe giustificare un aumento esponenziale del gruppo sociale; a ciò,
segue un caso di sovraffollamento, e cioè un caso in cui la crisi sociale attende la sua
manifestazione.
L'essenza di quest'ipotesi si misura nella determinazione di una causa esterna come
ragione della violenza umana: se è sensato ammettere che la mancanza di risorse, generate
ad esempio da un sovraffollamento, o di un crollo gerarchico a causa di un brusco
cambiamento ambientale, possa costituire un deterrente per lo scoppio della violenza,
secondo Girard «nemmeno la scarsità di beni è sufficiente a spiegare le forme
straordinariamente complesse e ritualizzate che la violenza assume nel mondo umano: «tale
sovrappiù fa tutt'uno con il sovrappiù di mimetismo legato all'accrescimento del
cervello»200. Postulare un catalizzatore esterno nell'ipotesi girardiana, significa operare un
fraintendimento dell'ipotesi nella sua completezza: Girard elabora un sistema concettuale
estremamente coerente e complesso, che trova nel mimetismo la sua pietra angolare: è
proprio l'elevata dose di mimetismo a permettere lo scoppio della violenza, ma bisogna
ricordare che anche la risoluzione trova la sua possibilità nell'imitazione eccessiva; in
secondo luogo, l'ipotesi si propone di osservare l'evoluzione umana come sviluppatasi da
dinamiche interne al gruppo e alla capacità di gestire la violenza201; essendo un animale
molto abile nell'adattamento, e con un cervello già piuttosto elevato, l'unico modo per
giustificare un aumento cerebrale così intenso è lo studio delle dinamiche intra-specifiche,
le quali hanno agito da pressione selettiva sulla forma di tale massa cerebrale; la suggestiva
ipotesi di Robin Dunbar202 mostra il rapporto tra complessità sociale ed evoluzione
cerebrale: l'evoluzione cerebrale diventò un'esigenza per dominare e risolvere «problemi di
approvvigionamento e problemi di organizzazione sociale, di rapporti di parentela e così
via»203; secondo Girard, fu però la capacità di gestire la violenza incontrollata ad essere
200G. Mormino, Il confronto con l'Altro, cit., p. 218.
201A tal proposito, alcuni studi di casi si sovraffollamento di scimpanzé, dimostrò che i casi di aggressione
non aumentarono di molto; la cosa che mutò fu l'intensità delle 'zuffe', mentre per la frequenza non si
notano eccessivi mutamenti; venne dimostrata una tendenza maggiore nel risolvere i conflitti attraverso il
grooming, una sorta di continuo tentativo di 'calmare' la situazione, chiaramente percepita come
maggiormente tesa. (Cfr. F. de Waal, Naturalmente buoni, cit., pp. 255-256)
202Cfr. R. Dunbar, L. Barret, J. Lycett, L'evoluzione del cervello sociale, ed. it. a cura di F Rossi, Espress
Edizioni.
203 R. Girard, Origine della cultura, cit., pp. 84-85.
63
l'araldo del genere umano. Sono le dinamiche sociali, nella loro complessità, che
determinarono la nascita della cultura; è ad esse che Girard riconosce il peso maggiore
nelle sue riflessioni che, fondandosi sulla teoria mimetica, si mostrano in grado di
comprendere i fattori esterni, ma senza esserne dominati. Delineando tali riflessioni, può
essere proficuo osservare in che modo Girard s'inserisca in un'ottica evoluzionistica, e di
che tipo essa sia.
64
III
Evoluzione, Ominizzazione e Teoria Mimetica
3.1 – Evolution Theory , Mimetic Theory: due teorie a confronto
Nell'ampia riflessione critica e dialogica sviluppatasi negli ultimi anni intorno al
pensiero di René Girard, una delle più interessanti discussioni si focalizza sul rapporto che
lega la teoria mimetica (soprannominata MT) e la teoria evoluzionistica di Charles Darwin
(ET): tale raffronto conduce i sostenitori di Girard a definire la teoria mimetica come un
punto di svolta paradigmatica nel campo degli studi antropologici e sociologici, arrivando
ad investire l'autore con il titolo di 'Darwin delle scienze umane'204: come la teoria
dell'evoluzione ha riunito i biologi e i naturalisti, allo stesso modo la teoria mimetica dovrà
riunire sotto di se tutti gli studiosi delle scienze umane 205. La teoria mimetica viene
paragonata da Dupuy206 ad una cattedrale eretta sul desiderio mimetico, il vertice
fondamentale di tutto l'edificio; accanto a questo, vi è indubbiamente l'ipotesi del capro
espiatorio: questi due punti di forza vengono considerati le nuove lenti ermeneutiche per
indagare ed illuminare le realtà umane, culturali e religiose, tanto da venir considerati
l'analogo della selezione naturale nel campo culturale 207. È sul capro espiatorio e sul
desiderio mimetico che Girard ha costruito in molti anni la sua teoria, «dipanando un unico
filo di pensiero, “one long argument” - mutando le parole di un grande rivoluzionario
britannico, Charles Darwin – un solo lungo ragionamento che parte dall'origine del mondo
e si ferma sulla soglia del sentimento apocalittico»208.
La vicinanza tra i due autori si focalizza, ovviamente, a livello teorico, le cui
strutture ed metodologie vengono spesso confrontate da molti studiosi dalle estrazioni
accademiche più varie: il vivo interesse che si registra in tale direzione fu così ampio che
204Un esempio, lo si vede qui: http://www.australiangirardseminar.org/?p=149. Nell'intervista, Scott Cowdell
definisce Girard “The Charles Darwin of Human Sciences”.
205Il vantaggio delle scienze biologiche era dunque visto dalla capacità di riunire sotto un unico vessillo le
diverse teorie sugli organismi, garantito dalla teoria dell'evoluzione. Elliot Sober afferma «biologists
interested in culture are often struck by the absence of viable general theories in the social sciences. All of
biology is united by the theory of biological evolution. Perhaps progress in the social sciences is impeded
because there is no general theory of cultural evolution.» (Sober 1994: 486) (Cfr.
http://www.imitatio.org/uploads/tx_rtgfiles/Rene_Girard_Fudamantal_Anthropo.pdf)
206J.-P. Dupuy, “Mimésis e morphogénèse”, in M Deguy e J.-P. Dupuy (a cura di) René Girard et le
problème du Mal, Grasset, Parigi 1982, p. 225.
207Inutile sottolineare qui che la teoria di Darwin subì dei mutamenti: la teoria dell'evoluzione è tutt'oggi
sottoposta a diverse discussioni, è stata arricchita grazie alle scoperte in diversi campi, ma è bene
sottolineare che il principio fondamentale della selezione naturale non è mai stato negato, vantando
dunque un valore di 'infallibilità' degna di nota.
208R. Girard, Origine della cultura, cit., introduzione, p. XVI.
65
vennero organizzati simposi interdisciplinari dedicati al rapporto tra la teoria mimetica e
quella evoluzionistica209, in modo da poter confrontare e rapportare il legame tra le due
scuole di pensiero; in secondo luogo, tale tema viene dipanato all'interno dell'opera
Origine della cultura e fine della storia 210 nella quale gli autori (Pierpaolo Antonello e João
Cezar de Castro Rocha) interrogano Girard, tentando di riproporre in modo sintetico il suo
lungo ragionamento privilegiando il confronto tra questi due grandi autori e le teorie da
loro elaborate.
In cosa consiste, dunque, l'analogia tra le due teorie? In primo luogo, si osserva un
vero e proprio parallelismo da un punto di vista metodologico. Se prendiamo la definizione
che da Serres, possiamo definire la teoria mimetica come una «teoria darwiniana della
cultura» in quanto «propone una dinamica, mostra una evoluzione e fornisce una
spiegazione universale»211. La teoria darwiniana dell'evoluzione, così lucidamente esposta
dall'autore in L'origine della specie, può essere estremamente sintetizzata, definendola
come una teoria dalla portata universale che, muovendo da un'unica 'forza', da un solo
principio – cioè la selezione naturale – definisce l'intero processo evolutivo della nascita
delle differenti specie animali, viventi ed estinte, sviluppatasi da forme di vita semplici;
una teoria, dunque, che identifica un principio fondamentale in grado di spiegare l'immensa
diversità delle specie e dei generi di tutti gli esseri viventi: si tratta dunque di una
spiegazione universale, in quanto la selezione naturale è una legge che permea tutto il
mondo vivente, rendendo chiari i meccanismi occulti ma fondanti ed ancora operanti nel
mondo degli organismi. Il principio che sottende e guida tutte le osservazioni di Darwin, è
quello della selezione naturale:
«Grazie a questa lotta per la vita, qualsiasi variazione, anche se lieve, qualunque
ne sia l'origine, purché risulti in qualsiasi grado utile ad un individuo
appartenente a qualsiasi specie, nei suoi rapporti infinitamente complessi con gli
altri viventi e col mondo esterno, contribuirà alla conservazione di
quell'individuo e, in genere, sarà ereditata dai suoi discendenti. Quindi anche i
discendenti avranno migliori possibilità di sopravvivere. [..] A questo principio
[..] ho dato il nome di selezione naturale»212.
Tale costruzione teorica, non priva di difficoltà, propone una sorta di principio
209Il sito http://www.thinkingthehuman.org/ raccoglie tutti i Paper tratti dai diversi simposi intorno a questo
tema.
210A onor di cronaca, ogni capitolo dell'opera citata si apre con una citazione di Charles Darwin
211«Per quanto riguarda i gruppi umani, René Girard sta a Darwin come George Dumézil sta a Linneo,
perchè propone una dinamica, mostra una evoluzione e fornisce una spiegazione universale» (M. Serres,
Atlas, Julliard, Parigi 1994, pp. 219-220).
212C. Darwin, L'origine della specie, cit., p. 68.
66
teorico con cui si può tentare di rendere conto della totalità delle diverse forme di vita,
muovendo da pochi ed essenziali fattori: il quid fondamentale della teoria dell'origine delle
specie viene racchiusa nello schema del 'corallo della vita' che spiega l'origine delle
differenti specie sviluppatesi da un punto di partenza: da esso dilagano nuove forme vitali
che, differenziandosi per fattori causali e contingenti, hanno potuto avere successo o meno;
come è ormai noto, secondo il celebre naturalista, la selezione naturale agisce secondo un
insieme di variazioni casuali, e solo quelle mutazioni che risultano utili ed adatte
all'ambiente circostante possono trovare la sopravvivenza: «modificazioni estremamente
leggere della struttura o delle abitudini di un solo abitatore spesso potranno dargli un
vantaggio sugli altri ed ulteriori modificazioni dello stesso tipo potranno, in molti casi
accrescere ulteriormente il vantaggio»213; la posizione darwiniana, mettendo in primo luogo
questi fattori elimina l'esigenza di una spiegazione teleologica, identificando solo in alcuni
fattori casuali e contingenti la responsabilità del successo – o dell'insuccesso – delle specie
vivente214: «Nella conservazione degli individui e delle razze favorite, nell'incessante lotta
per l'esistenza, noi individuiamo un agente selettivo potentissimo e sempre operante. [..]
Nascono più individui di quanti ne possano sopravvivere. Una minima differenza di peso
sulla bilancia stabilirà quale individuo debba sopravvivere e quale morire, quale varietà o
specie debba crescere di numero e quale debba decrescere e giungere finalmente
all'estinzione»215.
L'ipotesi di Darwin ed il principio della selezione naturale sono oggi una realtà
ormai paradigmatica, nonostante l'impossibilità di falsificazione – secondo la definizione di
Popper: la ET è infatti un'ipotesi teorica, che, sulla base di osservazioni e comparazioni,
gioca la sua elaborazione a livello ipotetico; non può porre in laboratorio gli elementi della
sua analisi, come non può osservare direttamente il processo della nascita di diverse specie:
una delle vie privilegiate da Darwin fu la via analogica rispetto alla selezione domestica
compiuta dall'uomo, che mostrava senza ombra di dubbio che, in base ai capricci
dell'allevatore, si poteva selezionare un determinato carattere degli esseri viventi che si
stava allevando; sostituendo la mano dell'uomo con quella della 'natura', il principio della
selezione naturale prese forma: ancora una volta, è bene sottolinearlo, questo non
supponeva alcun progetto dietro le varie forme di vita, ma semplicemente una serie di
213C. Darwin, L'origine della specie, cit., p. 85.
214Inutile dire che la teoria dell'evoluzione di Darwin è estremamente più complessa, senza considerare le
moltissime conquiste che in questi secoli l'evoluzione è stata in grado di conquistare. Già lo stesso Darwin
in L'origine dell'uomo e la selezione sessuale identifica una forte importanza anche a tale selezione, senza
cancellare la centralità di quella naturale; secondo Darwin, il motore principale – ma non esclusivo – è la
selezione naturale, che , muovendo da mutazione casuali, determina chi riuscirà a sopravvivere chi no.
215Ivi., p. 377.
67
modificazioni casuali che aumentano la capacità di sopravvivere di alcuni individui 216. Ed è
proprio da questo particolare aspetto della teoria, che possiamo notare la somiglianza con
la teoria mimetica. Girard, alla stregua del teorico dell'evoluzionismo, definisce due
processi fondamentali (il desiderio mimetico ed il meccanismo vittimario) identificando
essi stessi come motori trainanti che esplichino l'enorme varietà culturale riconducendo ad
un unico punto di partenza, in grado – inoltre – di saper giustificare le forme differenti che
oggi si possono osservare; per cominciare, possiamo inoltre notare che la fiducia che
Girard pone nella sua teoria deriva dalla sua concezione di alcune forme culturali,
considerate come fattori universali nelle culture diverse (basti pensare al rito ed al divieto).
L'influenza della teoria darwiniana si ritrova anche nella convinzione che pratiche
universali nei gruppi umani, quali riti, divieti e religione, debbano essere spiegate non
come rivelazioni compiute da enti sovrannaturali, bensì come realtà sociali che devono la
loro presenza alla capacità di garantire la sopravvivenza: «per Girard la spiegazione
razionale di pratiche universalmente diffuse non può venire che dall'individuazione delle
funzioni adattive che esse svolgono, in una prospettiva che ne spieghi l'affermarsi e il
perdurare»217; e dunque «se l'ipotesi darwiniana della selezione naturale, spiega i
meccanismi che regolano l'evoluzione delle specie animali, con la teoria del capro
espiatorio Girard fornisce un meccanismo di base che rende conto della nascita e
dell'evoluzione della cultura»218. La teoria mimetica si propone «come un principio
genetico che rende conto in maniera economica della nascita della cultura umana e come
nuovo paradigma antropologico di tipo generativo capace di spiegare alcuni degli aspetti
apparentemente paradossali, dello sviluppo culturale e tecnico dell'uomo»219. Esistendo
diverse forme culturali, sempre più lontane e complesse, Girard elabora un vero e proprio
scavo archeologico e genealogico, il cui fine è determinare e scovare la forma semplice
dalla quale tutte le forme culturali si sono sviluppate; in questa direzione, l'influenza di
Durkheim e della sociologia diviene evidente dalla modalità in cui Girard considera la
religione, e cioè la culla di ogni cultura: fattore sociale fondamentale per la sopravvivenza
di ogni gruppo, la religione si sviluppa dalla crisi mimetica e dalla sua risoluzione
216Insisto su questo punto, perchè è importante comprenderlo in relazione alla teoria di Girard: il
meccanismo del capro espiatorio non è stato fatto per sopravvivere, ma si è dimostrato come il fattore che
ha permesso la sopravvivenza: «The genesis of the scapegoating mechanism – to take up the figure that is
at the core of Girard’s anthropology of violence and the sacred, but also one about which radical
misunderstandings abound – was not invented by humankind in order to keep its violence in check». (Cfr.
http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Naturalizing%20Mimetic%20Theory.pdf).
217G Mormino, Il confronto con l'Altro, cit., p. 211.
218R. Girard, Origine della cultura, cit., introduzione, p. XVI.
219Ibid.
68
sacrificale, determinando le primigenie forme culturali, le cui istanze successive (miti,
divieti e riti) potranno testimoniare l'oscura origine; basta compire un veloce raffronto con
la teoria dell'evoluzione per capire che il meccanismo sacrificale nel suo complesso
(comprendendo anche il desiderio mimetico) si presenta a sua volta come l'equivalente
della selezione naturale nella teoria di Darwin: è la forza selettiva e assolutamente casuale,
che determina dei moduli comportamentali che permettono la sopravvivenza e un aumento
di fitness in quei gruppi che lo attuano: casualmente, solo i gruppi che sono stati in grado di
attuare l'omicidio sono riusciti a superare il problema della violenza intestina, senza essere
sterminati. Da queste primigenie forme di cultura, si svilupparono moltissime ulteriori
forme, che privilegiano diversi aspetti dell'omicidio originario, incanalandoli in riti, divieti
e narrandoli nelle mitologie.
Un ulteriore punto di contatto tra le due teorie, si può osservare nel campo
epistemologico: sia l'origine dalla specie, sia l'ipotesi di Girard sull'origine della cultura,
ponendosi in tempi storici inaccessibili220, si propongono valide in quanto riflessioni
ipotetiche e teoriche, nei confronti delle quali una falsificazione in laboratorio è
impossibile, infatti :
«The analogy with Darwin also extends to the scientific status to be given to
mimetic theory: here are two hypotheses, neither capable of being quite proven
experimentally, given the abyss of lost and unobservable time necessary to the
production of the phenomena in question, but each having great authority by
virtue of its tremendous explanatory power in relation to the phenomena
concerned, the data we do have and the constant patterns of interrelation implicit
in their appearing. If Girard's theory is true, then, it is likely to become
increasingly ‘verifiable’ in these same terms»221.
Se quindi, sotto consiglio di Dupuy, consideriamo le due teorie da un punto di vista
strettamente formale,222 notiamo immediatamente questa determinata scelta epistemologica
e metodologica, anti-popperiana, non falsificabile che «si basa su un uso evidenziale e
comparativo dei dati antropologici ed etnologici, inclusi i miti e i riti, letti da Girard come
220Rispondendo a chi gli critica di non effettuare ricerche sul campo, Girard rispende «Come si fa a condurre
una ricerca sul campo su fatti che sono avvenuti durante un periodo di tempo di migliaia d'anni?»(Cfr . R.
Girard, Origine della cultura, cit., p. 109).
221http://www.imitatio.org/uploads/tx_rtgfiles/Rene_Girard_Fudamantal_Anthropo.pdf
222«My methodological advice is then the following: let us set up the dialogue between MT and ET at the
level of the formal models that structure the one and the other. We will avoid the many pitfalls that await
those who carelessly smuggle biological notions into the social and cultural realms and vice versa, and we
will focus on the interesting questions: it is likely that biological selforganization as seen by ET, and
social and cultural self-organization as seen by MT, share fundamental traits and differ in their material
implementations» (Cfr http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Naturalizing%20Mimetic
%20Theory.pdf).
69
veri e propri 'reperti fossili' della evoluzione culturale dell'uomo, e in cui in filigrana si
scorgono le tracce dell'assassino fondatore»223.
In realtà, proprio quest'ultimo punto è uno dei temi più delicati nella teoria
mimetica (forse anche più della teoria dell'evoluzione, la quale trova ormai un'accettazione
praticamente universale, anche grazie alle conferme derivanti dalle altre discipline) la quale
si basa completamente sull'analisi delle diverse mitologie e degli studi antropologici sui
rituali di molte popolazioni: in teorie che indagano campi di questo livello, le prove dirette
vengono meno, ed in quanto tale «le teorie devono essere valutate con criteri diversi, e
comunque la raccolta di dati fisici e culturali è il punto di partenza per tutte le teorie
elaborate in questi campi»224.
Nel campo metodologico e nella scelta delle prove, troviamo un ulteriore punto di
contatto tra le due teorie; se di prove dirette non è dato di trovarne, nel caso della teoria
mimetica (e di molte altre teorie elaborate per le scienze umane) ad assumere una notevole
credibilità sono le prove indirette e circostanziali, le quali possono essere pensate come
«indizi in un romanzo giallo»225. Uno degli studiosi che tratta il tema in modo più rilevante
è Hocart che, nell'opera Kings and Councillors, dedica un'ampia riflessione alla questione
delle prove in relazione a tematiche antropologiche e religiose:
«Esiste un malinteso diffuso, ma naturale, secondo il quale le prove dirette sono
necessariamente migliori di quelle circostanziali, e anzi, sono l'unico tipo di
prova veramente soddisfacente [..] . Le prove dirette non solo non bastano a dare
una spiegazione, possono addirittura suggerire quella sbagliata, perchè
raccontano solo parte dei fatti, dando invece l'impressione di raccontare il
tutto»226.
La validità delle prove circostanziali si può riscontrare anche nel caso della teoria di
Darwin, la quale mise in primo piano un cranio fossile fino ad allora rimasto inosservato:
nel momento in cui la teoria, secondo la quale l'uomo discende da una forma semplice
precedente, ha assunto un'aura di verità, anche il fossile ha ricevuto la sua meritata
attenzione227. Fondamentali nel caso della teoria mimetiche, le prove circostanziali
223R. Girard, Origine della cultura, cit., introduzione pp. XVI-XVII.
224Ivi., p. 125
225Cfr. Ivi., p. 126.
226Per Hokart Cfr. R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 127
227Sempre Hocat, «Il primo cranio di Gibilterra fu scoperto nel 1848 e passò praticamente inosservato.
L'origine della specie apparve nel 1859. Solo quando la gente si fu del tutto abituata all'idea che l'uomo
discendesse da una creatura scimmiesca il cranio fu riportato alla luce e proposto come anello di
congiunzione nella catena delle testimonianza probanti. Non fu certo la prova diretta dell'esistenza
dell'uomo-scimmia a convincere i biologi. Piuttosto, dopo essersi convertiti sulla base di testimonianze
comparative, si misero alla ricerca di una prova diretta che potesse confermare le loro deduzioni»(Cfr R.
Girard, Origine della cultura, cit., p. 128).
70
vengono considerate da Girard altrettanto valide che quelle dirette, soprattutto grazie al
fatto che esse furono efficaci nel caso della teoria darwiniana, «perchè [..] come nella teoria
dell'evoluzione le prove circostanziali non solo siano state decisive, ma abbiano anche reso
possibile scoprire la prova diretta, che ai nostri occhi appare oggi così essenziale. Lo stesso
accade per la teoria mimetica. Non esiste una prova diretta a sostegno dell'affermazione
apparentemente fantastica secondo cui l'omicidio fondatore è reale e universale»228.
Le più importanti prove indirette che si possono presentare sono i miti ed i riti,
definiti come veri e propri fossili culturali, ed è attraverso un'adeguata comparazione
universale che si può giungere al meccanismo fondante di tutte le culture; traendo dalla
letteratura e dalla mitologia le prove, la teoria girardiana – agli occhi dei più – sembra
perdere di credibilità, in quanto i racconti riscontrabili nelle diverse mitologie «non
vengono considerati nemmeno come possibili distorsioni della verità» 229; inoltre, è anche
vero che l'enorme varietà rende difficoltosa una classificazione univoca, la cui validità crea
spesso resistenze e critiche: da tempo, ormai, l'obiettivo di definire una teoria della nascita
della cultura è abbandonata dall'antropologia230, che guarda con sospetto ogni tentavo che
non tenga in conto dell'ormai immensità di tutte le culture esistenti; non a caso, fra le molte
critiche mosse a Girard, spicca l'accusa di riduzionismo. Proprio come una teoria evolutiva
o una congettura paleontologica, si ricorre ai fossili ed alle ipotesi che, basate su
comparazioni e deduzioni, permettono un discorso di tipo genealogico-induttivo
dell'evoluzione culturale:
«I riti sono senz'altro un po' come dei fossili culturali, e la prova più importante
per la teoria mimetica è la violenza rituale più che i miti stessi. Il problema
rimane sempre quello di riempire i vuoti, di trovare una dizione complessiva,
una teoria – come la teoria mimetica o il darwinismo – nella quale le singole
testimonianze, siano esse fossili o riti, si incastrino come pezzi di un puzzle a
comporre una spiegazione assolutamente convincente del fenomeno in
questione»231.
228R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 128.
229Ibid. Interessante sottolineare che questi è uno dei punti più controversi nella riflessione di Girard, proprio
come si può osservare nei testi successi a Delle cose nascoste : ad esempio, ne Il capro espiatorio
troviamo infatti un tentativo di dimostrare la validità di tale concezione, come nel caso dei diversi testi di
persecuzione nei confronti degli ebrei durante la peste (il primo capitolo è dedicato infatti a Guillaume de
Machaut e la sua canzone contro gli ebrei, considerati i veri colpevoli della peste). A questo, Girard
afferma: «Comunque, opporsi a qualsiasi tipo di ricerca comparata significa opporsi al pensare stesso.
Non c'è dubbio che chi fa lavoro di comparazione corra dei rischi. Primo fra tutti, il rischio di non riuscire
a raccogliere prove che siano considerate sufficienti. Ma se nessuno ha più il coraggio di rischiare, se
nessuno formula ipotesi audaci e di ampio respiro, che senso ha fare ricerca?» (Cfr. R. Girard, Origine
della cultura, cit., p. 109).
230Interessante ricordare che la teoria di Girard (compiuta nell'opera Delle cose nascoste) trovò un panorama
antropologico dominato da Lèvi-Strauss, la cui posizione si fonda su un rifiuto della ricerca delle origini.
231R. Girard, Origine della cultura, cit., p 129.
71
Difficoltà ulteriore che si riscontra in questa ricerca comparativa è l'omicidio
fondatore, la cui verità è sempre messa in dubbio dall'opera di méconnaissance, rendendo
ancora più complessa la validità delle prove: «Eliminare le tracce di un omicidio significa
esserne profondamente implicati. Nel caso dell'omicidio fondatore è l'inizio della cultura
stessa a essere profondamente implicato, ed è questo che ci rifiutiamo di riconoscere» 232.
Ma se il mito si basa su un fondamentale misconoscimento dell'omicidio – più o meno
evidente – il legame dell'assassinio con le forme culturali umane diviene chiaro grazie al
rito (che culmina con il sacrificio), il cui andamento ripetitivo permette alle forme culturali
di radicarsi durante le ripetizioni rituali dell'omicidio originario; esso «rappresenta il nesso
tra l'uccisione originale e le istituzioni culturali intese come risultato di una pratica
rituale[..]. Il rito è il tentativo di ripetere lo svolgersi del meccanismo del capro espiatorio e
generalmente tende a rappresentare separatamente le diverse parti del processo» 233. Ogni
rito non fa altro che accentuare un particolare aspetto, che viene sempre più privilegiato a
scapito degli altri che – lentamente – vengono posti nel dimenticatoio: ecco perchè fornire
una ricostruzione dell'evoluzione di ogni rito è particolarmente complesso. Ulteriore luogo
di ricerca è la letteratura, usata come prova indiretta della regolarità del comportamento
umano: sia il desiderio mimetico sia il capro espiatorio, furono teorizzati 'scoperti'
dall'analisi da diversi testi: nei diverse opere classiche scorrono la maggior parte di spie ed
indizi, i quali devono anche essere 'tradotti' dallo studioso.
3.2 – Religione, Cultura e selezione di gruppo
Dopo aver osservato la somiglianza metodologica, teorico-formale tra le due teorie
possiamo ora sottolineare come l'ipotesi dell'ominizzazione di Girard sia intrisa ed inscritta
in un'ottica evoluzionistica, nutrendosi dei metodi e delle riflessioni aperte dal dibattito
intorno alle teorie darwiniane: è in quest'ipotesi che possiamo davvero misurare la validità
'scientifica' della riflessione di Girard. Senza ombra di dubbio, la cornice biologicoevolutiva è di fondamentale importanza per una teoria sull'origine della cultura e sul
processo di ominizzazione ed è Girard stesso che ammette il profondo legame con questa
prospettiva: «Per me rimane evidente e fondamentale la necessità di fondere cultura e
biologia per poter spiegare l'evoluzione umana»234. Questo significa abbandonare gli
interessi di settore e tentare di legare studi biologici, naturalistici, etologici, etnologici ed
232R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 142.
233 Ivi., p. 67.
234Ivi., p. 129.
72
antropologici: solo compiendo questa sintesi si può rendere conto in modo soddisfacente
della genesi culturale umana che, non potendo più essere pensata come un frutto unico
'caduto' dal cielo, viene presentata come un semplice risultato di una determinata selezione:
«O crediamo alla continuità dell'evoluzione umana, all'innesto del culturale sul naturale, o
cadiamo in un puro errore metafisico e idealistico che vede l'uomo e la cultura come
assolutamente separati dalla natura e semplicemente apparsi dal nulla» 235. Bisogna
necessariamente chiudere le porte al pregiudizio antropocentrico, che soggiace ad ogni
definizione preconfezionata della natura umana, ricercando invece quali fattori avrebbero
potuto condurre ad un successo evolutivo della specie che divennero sapiens, non tanto
rispetto all'ambiente esterno, quanto alle minacce interne che inevitabilmente vengono a
crearsi in ogni gruppo animale. In quanto umile membro della natura, l'uomo deve
riconoscere la sua posizione e deve iniziare a ripensare se stesso secondo quelle stesse
leggi che governano il resto dei viventi: «l'uomo varia nel corpo e nella mente,e [..] le
variazioni sono determinate sia direttamente che indirettamente dalle stesse cause che
obbediscono alle medesime leggi generali degli animali inferiori. [..] perciò saltuariamente
debbono essere stati esposti [i gruppi umani] a una lotta per l'esistenza e conseguentemente
a una rigida legge di selezione naturale»236.
In questa ricerca, lo sguardo girardiano vede una solida pietra angolare: «la
religione è la madre di tutta la cultura»237; tramite la teoria evolutiva, possiamo pensare alla
religione non come ad un evento scaturito da una rivelazione divina, ma semplicemente
come una realtà strettamente sociale ed adattiva: divieti e religioni sono 'istituzioni'
univoche ed universali, che riuniscono intorno a se tutti i gruppi umani e, dunque,
possiamo tranquillamente ipotizzare, come fa E.O. Wilson che «la religione non può essere
una costruzione culturale superflua o dannosa, ma deve per forza possedere un intrinseco
valore come strumento di adattamento, altrimenti sarebbe stata scartata dalla storia umana
come fenomeno culturale di nessuna rilevanza»238. Girard assume una prospettiva
sociologica, osservando la religione in modo sottile: in fondo, in quanto fenomeno
universale la religione non deve essere letta in termini di verità teorica, ma deve essere
giudicata in base alla funzione e cioè in base – per dirla con Durkheim – alla sua verità
pratica: la religione, quindi la cultura, è un elemento dedito alla riorganizzazione sociale e,
secondo Girard, essa permette la polarizzazione della violenza contro un unico capro
235R. Girard, Origine della cultura, cit, p. 131.
236C. Darwin, L'origine dell'uomo, cit., p. 55.
237R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 67.
238E. O. Wilson, Sociobiologia. La nuova sintesi, trad. it. Zanichelli, Bologna 1979, pp. 567-568.
73
espiatorio, evitando che la violenza dilaghi. Girard «shares the Durkheimian view that it is
impossible to understand the evolution of culture if we discount the emergence and the
evolution of religion as a distinctively human phenomenon. [..] For RG, as for Durkheim,
religion is the great matrix of all things cultural: initially, in its first beginnings, culture is
not distinct from religion»239. L'acutezza sociologica girardiana può benissimo essere
paragonata a quella di Rousseau del Il contratto sociale, nel quale egli è in grado di vedere
verità simili sulla religione, attraverso la figura del mitico Legislatore (sconvolgente, in
entrambi i pensatori, il loro cambio di linguaggio quando ad essere sotto esame è la
religione cristiana).
Interna al funzionamento naturale, la religione non si presenta come un ente
sovrannaturale (se non agli occhi degli uomini) ma come un semplice modulo
comportamentale endogeno, la cui funzione (che si rivela efficace) è di controllare la
violenza, canalizzata interamente verso un singolo individuo. In un contesto delineato
dall'antropologia girardiana, l'animale uomo si trova immerso nel sangue della violenza
mimetica che, nel parossismo della crisi, si conclude attraverso il noto meccanismo
sacrificale: questo strumento, madre di cultura e religione, ha il ruolo adattivo tipico dei
'rituali animali' descritti da Lorenz, e cioè ri-direziona tutta la violenza verso la vittima,
permettendo la sopravvivenza della specie, minacciata dall'escalation mimetica: «La
religione ha un valore adattativo, di aumento della fitness della specie, ed è ciò che
differenzia gli esseri umani dagli altri animali, perchè attraverso il sacrificio la religione
crea cultura e istituzioni»240. La cultura viene quindi presentata come un principio di
organizzazione che, nata assolutamente in modo casuale, permette l'arrivo di un nuovo
ordine del gruppo sociale, garantendo la base della soglia simbolica, che – come detto in
precedenza – costituisce per Girard la tipicità dell'umanità; la teoria «offers in this way to
account for the emergence of culture for endogenous reasons: i.e. finding their causation
not simply in the physical evolution of specific individuals within a given species, but
rather in the emergence of systemic group behaviour, which eventually andgradually
shapes the co-evolution of both the physical and the socio-cultural potentials of this given
species.»241
Tramite quest'esplicazione, il meccanismo viene definito sia come un fattore
contingente, sia come «un puro fatto meccanico (ancorché non deterministico) costruito da
239http://www.imitatio.org/uploads/tx_rtgfiles/Pre-symposium_Briefing.pdf
240R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 68.
241 http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Thinking%20the%20human.pdf
74
processi psicologici e sociali istintivi»242. In quanto meccanismo, esso è meccanico perchè
«si sviluppa a fasi e ogni fase produce o favorisce l'apparire della successiva» 243; il
meccanismo è assolutamente non deterministico o teleologico: ancora una volta, abbiamo
di fronte un sistema che può sembrare teleologico in quanto, dal momento in cui ci si pone
come un osservatore esterno, lo si può considerare come il fattore che ha permesso
all'uomo di sopravvivere; ma non per questo dobbiamo supporre che esso venga attuato
appositamente per quello: il successo è si un caso, ma ne determina il perdurare. Deve
essere ben chiaro questo punto, che determina la totale casualità del meccanismo in
questione: una mutazione assolutamente casuale, il cui successo emerse in un secondo
momento; è l'analogo del becco dei fringuelli studiati da Darwin: la mutazione che alcuni
di essi riscontrano oggi nel becco, non fu 'premeditata' ma, semplicemente, si manifestò
dimostrandosi più efficace: lo stesso dobbiamo pensare del meccanismo del capro
espiatorio.
«Non significa però che il meccanismo mimetico sia deterministico perchè non
implica affatto che ogni gruppo sociale che si trovi in una situazione di crisi
mimetica giunga necessariamente alla risoluzione del capro espiatorio[..]. Io non
ho mai sostenuto che il meccanismo mimetico sia deterministico. È invece
probabile che un certo numero di gruppi sociali in età preistorica non siano
sopravvissuti proprio perché non hanno trovato il modo di affrontare le crisi
mimetiche che si sono scatenate al loro interno. E' concepibile anche che alcuni
gruppi abbiano temporaneamente risolto alcune delle loro crisi attraverso il
linciaggio di vittime innocenti, ma che non siano riusciti poi a riattivare
simbolicamente questo evento attraverso una qualche forma di ritualità a esso
collegata e abbiano per questo ceduto di fronte alla crisi successiva»244.
Bisogna quindi notare, da un lato, una concezione della religione tramite la
prospettiva durkheimiana, considerandola come un vero e proprio fatto sociale autonomo,
che però permise la sopravvivenza dei diversi gruppi sociali che, adottandola, riuscirono a
convogliare la violenza verso un'unica vittima immolata: «è a livello di gruppo sociale che
si deve ricorrere alla selezione darwiniana, soprattutto dal punto di vista della teoria
mimetica»245. E' quindi un meccanismo che salva il gruppo, e che, se non attuato o ripetuto,
determina l'estinzione causata dalla lotta intestina: questo è un ulteriore via che porta a
«rinforzare l'adattabilità del gruppo»246. La visione che Girard ci propone si rifà di nuovo
ad un livello in cui la cultura non è ancora esistente, evitando ogni sorta di circolo vizioso o
242R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 39.
243Ibid.
244R. Girard, Origine della cultura, p. 39.
245Ivi., p. 69.
246Ibid;
75
tautologico; fra i diversi problemi che sorgono in un gruppo animale, fondamentale è il
controllo della violenza e, come sappiamo dalle osservazioni sull'etologia, il meccanismo
del capro espiatorio non è nient'altro che un modulo d'azione che, attuato dal gruppo
sociale, determina la cessazione della violenza, garantendo il ritorno della pace e di
patterns comportamentali nuovi rispetto a quelli istintivi animali. La cultura si pone come
un fattore sviluppatosi a partire dalle dinamiche stesse del gruppo, come un vero e proprio
'nuovo istinto' che guida le azioni della comunità, anche in un successivo momento.
Pierpaolo Antonello, nel paper introduttivo ad uno dei simposi condensa in poche parole il
senso dell'ipotesi di Girard:
«MT provides in this way a mechanism and a model of dynamic (i.e. genetic
and generative) social interaction. This mechanism or model is based on
instinctual structures and patterns already observable in animal behaviour; but it
also produces unexpected, emergent, social behaviours. These constitute new
forms of emerging social organization which we can only be described as
“cultural”, since they provoke the development of “proto-institutions”, and these
in turn become the regulatory principles which stabilize and reinforce the
cohesion of the social group - something no longer based on instinctual, and
proto-cultural patterns (like the hierarchical system of social organization in
animals, or their submission rituals, etc), but now on fully symbolic codes and
properly ritual practices. This is to describe, in general terms, the nature of the
evolutionary process of hominisation as MT allows us to conceive it».247
Determinato tale scenario teorico, è bene sottolineare che Girard parla
espressamente di selezione di gruppo, affermando – forse in termini provocatori verso una
lunga tradizione che vedeva nella religione una risposta a bisogni psicologici individuali 248
– che «siamo in quello stadio liminale dell'evoluzione culturale in cui non ha senso parlare
di autonomia dell'individuo»249. La religione dunque s'impone come un meccanismo
evolutivo, che non si sviluppa da pulsioni individuali: il meccanismo vittimario non è altro
che uno «strumento fondamentale di protezione contro la violenza naturale intraspecifica
che tutti i gruppi di ominidi si sono trovati prima o poi a scatenare per ragioni puramente
etologiche»250. Ancora una volta, è l'influenza culturale europea – che Girard definisce
'romantica' – la causa di questo fraintendimento: l'individuo diventa il centro di ogni
riflessione e speculazione – non per ultimo nel caso della psicologia – e lungi da tali
posizioni, il critico letterario preferisce definire la psicologia umana come una psicologia
247http://www.imitatio.org/uploads/tx_rtgfiles/Pre-symposium_Briefing.pdf
248Se pensiamo alla posizione che Freud esprime in L'avvenire di un illusione comprendiamo come la
posizione di Girard si dimostri diversa: se da un lato il padre della psicanalisi individua nei bisogni
infantili la vera leva che porta a proiettare nei cieli un 'padre onnipotente', secondo Girard le dinamiche
religiose si possono invece identificare con le dinamiche sociali.
249R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 69
250Ibid.
76
'interindividuale'.
Seguendo queste riflessioni forse è utile soffermarsi sul concetto di selezione che
qui Girard propone, in primo luogo sulla suddetta selezione di gruppo. Nel moderno
dibattito sviluppatosi sull'evoluzione si vennero a sviluppare una serie di riflessioni volte a
rendere ancor più complete la teoria darwiniana, fondata sulla selezione naturale, ma non
ancora completata: Darwin stesso affermava che la selezione naturale non era l'unico
fattore determinante, sebbene fosse il principale. Fra le tante difficoltà che oggi la biologia
evolutiva tenta di sbrogliare, sorge il problema dell'altruismo, che, in termini di selezione
naturale appare paradossale: se ogni individui persegue il proprio interesse e la propria
conservazione, difficilmente si comprendono azioni come il 'sacrificio' per un altro
consimile, o per il bene del gruppo: spiegare tutto questo in termini di fitness si rivelò
problematico; questa difficoltà riflette in verità interessanti riflessioni sul concetto di
selezione individuale e non, permettendo un ripensamento della teoria evolutiva. Fra le
diverse teorie sviluppatesi a riguardo, si possono ricordare la teoria del gene egoista di
Dawkins proposta in ambito sociobiologico (teorie che vedono l'altruismo come un forma
di egoismo) oppure quella della selezione parentale che E. O. Wilson sostenne per
moltissimi anni; lui stesso in La conquista sociale della terra ci definisce in che modo tale
teoria spiegava i comportamenti egoistici e altruisti: «la selezione di parentela, che avrebbe
creato a livello di gruppo una proprietà denominata fitness inclusiva, è stato un concetto
attraente, perfino allettante. Secondo questa teoria, i genitori, la prole, i cugini e gli altri
parenti collaterali sono legati indissolubilmente dalla coordinazione e dall'unità di intenti
resa possibile
dall'agire disinteressato degli uni verso gli altri» 251; egli stesso fu un
sostenitore di questa posizione ma, in seguito ad una serie di modelli matematici e tentativi
sperimentali, tale concetto crollò di validità e di coerenza 252. Una teoria che, invece, sembri
'sbrogliare la matassa' è invece la selezione di gruppo (o selezione multilivello) la cui
forma generale era già stata proposta da Darwin in L'origine dell'uomo:
«Possiamo vedere che nei più rozzi stadi della società gli individui più sagaci,
quelli che inventavano o usavano le migliori armi o stratagemmi, e che erano
maggiormente capaci di difendersi, potevano allevare un maggior numero di
figli. Le tribù che comprendevano un maggior numero di uomini così dotati,
potevano aumentare di numero e soppiantare altre tribù»253.
251E. O. Wilson, La conquista sociale della terra, cit., p. 61.
252Per una interessante rassegna di tali tematiche cfr. E. O. Wilson, La conquista sociale della terra, cit., cap
18.
253C. Darwin, L'origine dell'uomo, cit., pp. 111-112.
77
Secondo tale punto di vista, a fianco della selezione naturale che intercorre tra i
singoli membri di un qualsiasi gruppo – nel quale vengono selezionati i singoli individui
con determinate mutazioni in grado di aumentare il successo riproduttivo dell'individuo – si
posiziona un'ulteriore selezione, quella riguardante il gruppo sociale nel suo complesso –
che riguarda invece la capacità di tale gruppo di riuscire a sopravvivere nel suo insieme, sia
nei confronti dell'ambiente, sia nei confronti di altri gruppi; il processo è a doppia
influenza: quando un gruppo, nel suo insieme, possiede caratteristiche di adattamento
superiori alla medie delle caratteristiche degli individui che lo compongono, l'esistenza del
gruppo aumenta la fitness individuale. In tale direzione, come sostiene Wilson, è facile
comprendere in che modo dei piccoli vantaggi che i singoli individui riescono ad avere
all'interno del proprio gruppo (come ad esempio una nuova invenzione) determinino una
lenta reazione a catena, per cui il vantaggio dilaga dal singolo al gruppo, la cui capacità di
soverchiare l'ambiente – o eventualmente altri gruppi vicini – ne aumenta notevolmente la
fitness. Questa teoria, non a caso definita selezione multilivello, viene vista da Wilson
come l'unico fattore che permette di spiegare i comportamenti eusociali, riscontrabili in
molti insetti 'sociali' e sorprendentemente anche nell'uomo: «La via verso l'eusocialità era
tracciata sulla carta da una competizione fra la selezione basata sul successo relativo degli
individui all'interno dei gruppi contrapposta al successo relativo fra i diversi gruppi» 254; una
conseguenza che può passare inosservata è la duplice influenza che tale processo può
avere, in quanto, se è vero che la fitness del singolo può migliorare quella del gruppo, è
anche vero che il processo diventa anche reciproco: «In generale, è prevedibile che la
competizione fra gruppi influenzerà la fitness genetica di ogni membro [..] verso l'alto o
verso il basso. Una persona può morire o restare invalida e perdere la sua fitness genetica
individuale come risultato di una maggiore fitness di gruppo durante, per esempio, una
guerra o sotto una dittatura spietata.»255.
Come spesso capita, le potenti intuizioni girardiane vengono di fatto ignorate in
queste riflessioni intorno all'altruismo e allo sviluppo della cooperazione nei gruppi; la
posizione di Wilson è molto proficua nel momento in cui ci permette di capire in che modo
una selezione di tipo individuale (come è quella naturale definita da Darwin) possa
accompagnarsi ad un tipo di selezione a più ampio spettro; nel campo della biologia la
questione è in realtà ancora aperta, lasciando irrisolta la problematica dell'altruismo; in
seguito al 'fallimento' del concetto di selezione di parentela, la selezione di gruppo appare
254E. O. Wilson, La conquista sociale della terra, cit., p. 21.
255Ivi., p. 63.
78
una teoria ancora debole; essa non riscosse mai molto successo, soprattutto perchè molti
studiosi notano che la selezione naturale mantenga ancora una sua superiorità, riuscendo a
spiegare anche le dinamiche di gruppo; trascendendo tale questione, possiamo solo
riconoscere a Wilson un'ottima credibilità: che la selezione multilivello sia un buon
concetto, è dimostrato anche dal fatto che Darwin aveva già intravisto questa possibilità.
La selezione multilivello trova la sua applicazione anche nella riflessione di Girard;
come già noto, il carattere tipico dell'uomo è l'iper-mimetismo, ma non dobbiamo
dimenticare che tale fattore è da associare ad una maggiore grandezza cerebrale;
proseguendo oltre a tale 'postulato' della teoria girardiana, credo sia possibile pensare
l'ipermimetismo come ad una casuale mutazione a livello mentale, collegata con un
aumento di taglia cerebrale: possiamo facilmente supporre il vantaggio che un singolo
individuo può trarre dalla sua spiccata capacità d'imitazione (dovuta da una maggiore
ampiezza cerebrale); tale mutazione, com'è sensato ipotizzare, deve essere stato un fattore
di superiorità selettiva, a favore della fitness individuale: l'esemplare ipermimetico, più
audace e scaltro, riuscì ad avere successo sugli altri esemplari, aumentando il numero della
prole e quindi aumentando il livello cerebrale del gruppo (a lungo andare), la cui diffusione
determina un maggiore fitness del gruppo; come dice Wilson «i tratti (bersagli) su cui
agisce esclusivamente la selezione fra gruppi sono quelli che emergono dalle interazioni fra
i membri di ogni gruppo. Interazioni come la comunicazione, la divisione del lavoro, la
dominanza e la cooperazione nell'adempimento dei compiti comuni. Se la qualità di queste
interazioni favorisce la colonia che li utilizza rispetto alle colonie che utilizzano altre
interazioni o interazioni meno intense, i geni che prescrivono le loro prestazioni si
propagheranno nella popolazione di colonie con il passare di ogni generazione di
colonie»256. Come già definito in precedenza, dall'essere un pregio, la maggior dose di
imitazione diviene una minaccia quando diffusa a livello collettivo, sfociando ben presto
nelle violenze che, a loro volta, si concludono in un modello sacrificale salvifico per la
comunità che lo mette in pratica; riuscendo a gestire il surplus di mimetismo e di
cerebralizzazione, sventando la minaccia dell'autogenocidio, il gruppo sociale che è in
grado di ritualizzare l'omicidio fondatore si troverà in mano uno strumento che permette un
maggior successo su gruppi che non lo utilizzano, ma non solo: se il gruppo è in grado di
sopravvivere in modo ottimale, tale maggior fitness ricade anche sui singoli membri, che
riscontreranno un maggiore sviluppo cerebrale grazie alla ritualizzazione (come si vedrà
nel capitolo 4, viene visto da Girard come la scuola che permise la nascita del linguaggio).
256E. O Wilson, La conquista sociale della terra, cit., p. 186.
79
La concezione della selezione multilivello si impone come concetto fondamentale per la
teoria di Girard, per il quale l'antropologia deve «spiegare come la selezione abbia operato
a livello di gruppi sociali, assicurando la sopravvivenza a quelli che riuscirono a dotarsi di
strumenti efficaci per far fronte ai pericoli che incombevano su di loro»257.
Il gruppo che utilizza il meccanismo del capro, si trova inevitabilmente anche in
grado di sviluppare lentamente comportamenti cooperativi ed altruistici, la cui genesi si
potrebbe riscontrare in quell'atto coordinato ed unanime che ha portato al linciaggio: in
questo senso, è interessante leggere le parole di Pievani intorno alla problematica
dell'altruismo: «paradossalmente, potrebbe essere il conflitto fra gruppi la ragione della
diffusione dell'altruismo all'interno del gruppo»258. Se quindi quando si parla di selezione di
gruppo si è spesso orientati a dei gruppi la cui migliore cooperazione aumenta le
probabilità di sopravvivenza, con Girard possiamo porre la cooperazione ad un livello
successivo di evoluzione: «Elliot Sober and E.O. Wilson in Unto Others: The Evolution
and Psychology of Unselfish Behavior do aptly bring back the need to think out the
evolution of culture in terms of “group selection” (or “multilevel selection”): groups that
cooperate better may have out-reproduced those which did not. But notice here that, in MT
terms, groups which were able to find a means to regulate and control internally generated
violence and infighting must assuredly have out-reproduced and out-lived those which did
not»259.
Possiamo quindi affermare che la riflessione evoluzionistica, che in questa pagine si
configura come 'selezione di gruppo', ricerca il fattore che determina la sopravvivenza di
alcuni gruppi umani, o preumani, i quali possono ben a ragione considerarsi i nostri
antenati, diversamente da altre proto-società che, incapaci di sviluppare tale meccanismo
sono scomparse, non lasciando la minima traccia della loro esistenza. Questo non vuol dire
negare l'importanza dei fattori individuali, ma, attraverso il concetto di selezione
multilivello, possiamo identificare l'ipermimetismo (accompagnato da una maggiore massa
cerebrale) come un fattore – una mutazione – estremamente favorevole al singolo
individuo, fattore che gli permette un maggiore successo personale; la maggiore ampiezza
cerebrale deve aver contribuito ad una migliore capacità di relazionarsi con l'ambiente e
con gli altri individui, facendo in modo che il tal individuo avrà una prole maggiore,
influenzando – sul lungo tempo – l'andamento dell'intero gruppo; maggiore ampiezza
cerebrale può voler dire anche migliore capacità intellettiva e dunque una migliore capacità
257G. Mormino, Il confronto con l'Altro, cit., p 214.
258T. Pievani, La teoria dell'evoluzione, ed. Il Mulino, Bologna 2010 , p. 72.
259http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Thinking%20the%20human.pdf
80
inventiva; di conseguenza, il vantaggio che si sviluppa dal singolo individuo si dipana e si
ampia a tutto il gruppo, il quale risulta essere estremamente più sviluppato degli altri
gruppi preumani; la conseguenza dell'ipermimetismo – seguendo il pensiero di Girard – è
la violenza intestina: ed ecco che entra in gioco il meccanismo vittimario, che solo se
attuato, ripetuto e ritualizzato ha permesso la salvaguardia dalla violenza e di conseguenza
la sopravvivenza. Il linciaggio si mostra quindi come un modulo comportamentale che,
sviluppatosi dalle dinamiche di gruppo e dalle relazioni tra gli individui, si conclude con
un'azione unanime che riporta la pace, e conduce alla costituzione dei divieti ecc. In questa
via, solo alcuni gruppi sono riusciti a gestire tali dinamiche, divenendo società 'culturali',
mentre, per quanto riguarda il resto, non possiamo fare altro che ipotizzare una loro
scomparsa, schiacciati dall'incapacità di gestire tali pulsioni distruttive; questo non vuol
dire negare altri mezzi di evoluzione (come può essere la caccia, il fuoco, il bipedismo ecc)
ma significa identificare la cultura come un frutto che si sviluppa da dinamiche endogene e
strettamente sociali (non divine, in quanto umane) che permette di gestire e di organizzare
un gruppo non più in grado di gestire le pulsioni animali. Credo sia lecito pensare alla
cultura come ad un fattore che non è nato in risposta a difficoltà esterne ed ambientali:
queste difficoltà spinsero l'uomo a divenire bipede, ad usare il fuoco e servirsi di alcuni
strumenti260. Ciò non vuol dire definire la religione come un meccanismo appositamente
inventato per sopravvivere ma, casualmente, alcuni gruppi riuscirono a gestire la violenza
in questo modo, e solo quei gruppi che sono riusciti a creare delle proto-istituzioni sono
stati in grado di sopravvivere e avere una forma culturale che, come si sa, non è nient'altro
che un meccanismo di auto-generazione di complessità cerebrale e sociale: una volta
innescato un sistema culturale, s'instaura un regime di duplice crescita: l'esponenziale salto
cerebrale dell'uomo venne reso possibile dal linguaggio e dalle altre forme culturali, tutti
fattori che garantirono una maggiore complessità sociale, organizzativa. Da notare la sottile
costruzione girardiana, la quale rifiuta ogni immagine preconfezionata dell'uomo, come
'destinato' da un quid interiore alla rivelazione di una religione: il fenomeno socioreligioso
viene analizzato come fattore contingente e squisitamente sociale–non teleologico che
«vista inevitabilmente dalla parte dei gruppi sopravvissuti, ne ricostruisce a ritroso il
cammino senza nascondersene l'accidentalità e individuando le esatte leggi che l'hanno
260Girard compie una riflessione sull'uomo, senza evidenziare tutta l'evoluzione che egli ha compiuto: in lui
vi è una sorta di generalità, di schema, il quale 'ipotizza' un andamento sociale; proprio per questo
rimanda a Morin – in Delle cose nascoste – per una riflessione intorno a tutti questi aspetti. I gruppi preumani a cui pensa Girard sono dunque già notevolmente evoluti, ma non hanno ancora avuto bisogno
della cultura.
81
reso possibile»261.
3.3 – Evoluzione e Sistemi Auto-organizzatori
L'ipotesi di Girard presenta la cultura sotto una luce molto interessante: essa appare
– in primo luogo – come un principio che, gestendo il disordine generato dalla crisi
mimetica, è in grado di generare un sistema di gerarchia e di organizzazione che, alla
stregua dei sistemi gerarchici animali, regolamenta ed ordina i rapporti sociali, sventando il
più possibile la violenza all'interno del gruppo; si tratta dunque di un vero e proprio
principio di organizzazione, non programmato o pensato dagli attori sociali, che scaturisce
'spontaneamente', 'casualmente': la crisi sociale portò ad un linciaggio, grazie al quale il
gruppo riuscì a sopravvivere; è l'osservatore che, in seguito, nota la valenza centrale di
questo meccanismo, la vera ancora di salvezza umana. Se il gruppo riesce a stabilizzare e
ritualizzare il linciaggio, riuscirà a costituire una vera e propria società culturale, la quale
attua un continuo aumento della complessità sociale e cerebrale: solo un tale schema – che
contempli una spiegazione dell'esponenziale crescita del sistema culturale – può
giustificare diversi aspetti oscuri del nostro sistema culturale, squisitamente complesso.
Leggendo la teoria girardiana in questi termini, si può capire completamente il tipo
di modello formale che Girard ha in mente – più o meno coscientemente – e in che modo
esso appare coerente ed in linea con l'evoluzione. Come Girard stesso afferma in Delle
cose nascoste, fonte imprescindibile delle sue riflessioni sull'origine dell'uomo è l'opera Il
paradigma perduto di Edgar Morin, conosciuto come il 'filosofo della complessità'; il testo
è estremamente suggestivo ed interessante, in quanto fornisce una panoramica generale
dell'origine dell'uomo alla luce delle rivoluzioni scientifiche avvenute in campo biologico,
ecologico, etologico e, come dice Morin stesso, della 'scienza dell'uomo', una «scienza
nuova»262 che permette di pensare l'uomo non più sotto una luce unidirezionale e
riduzionista, ma inscrivendolo in una serie di sguardi diversi, aumentando sempre più la
complessità delle riflessioni (e delle discipline) che lo riguardano, in modo da creare una
scienza multidisciplinare in grado di rendere conto di tutti gli aspetti dell'uomo, da
considerarsi come un'entità singola e non spezzettata in base alla disciplina con cui si
riflette; questo atteggiamento è una riposta all'eccessiva chiusura di ogni 'sapere' che,
261G. Mormino, Il confronto con l'Altro, cit., p. 212.
262E. Morin, Il paradigma perduto, cit., p 205.
82
incapace di comunicare con gli altri, creava immagini incomplete ed erronee dell'uomo
stesso:
«Questa dualità antitetica uomo/animale, cultura/natura cozza contro l'evidenza:
è evidente infatti che l'uomo non è costituito di due parti sovrapposte, bionaturale l'una, psico-sociale l'altra, è evidente che egli non è attraversato da
nessuna muraglia cinese che separa la parte umana dalla parte animale[..]Così,
la biologia era rinchiusa nel biologismo, cioè una concezione della vita limitata
all'organismo, come l'antropologia nell'antropologismo, cioè una concezione
insulare dell'uomo»263.
Il fattore più interessante della riflessione del filosofo della complessità, da questo
punto di vista della teoria di Girard, è sicuramente la riflessione intorno ai sistemi autoorganizzatori, sistemi capaci di creare dell'ordine da una situazione di disordine (celebre la
formula 'order from noise'). Di cosa si sta parlando? La teoria della nascita della cultura di
Girard, si presenta come una teoria di stampo evoluzionistico, che può essere compresa
totalmente solo se si arriva a concettualizzarla in termini di 'sistemi': il gruppo sociale deve
essere considerato un sistema vivente che non solo genera disordine, entropia (crollo nella
crisi mimetico-sociale) ma anche ordine ed organizzazione: attraverso il meccanismo del
capro espiatorio, i diversi gruppi gestiscono l'aumento di disordine, ed è grazie a ciò che
possono salvarsi, auto-organizzandosi, sempre sulla base delle spinte interne che
dominano ogni gruppo; questo movimento che dal disordine conduce all'ordine,
all'organizzazione, non è una particolarità dei gruppi umani, ma è un vero e proprio
principio fondamentale dei sistemi, sia artificiali che viventi: la grande differenza sta nella
capacità del sistema vivente di gestire una dose sempre maggiore di disordine, che va a
favorire un ordine nuovo, una nuova organizzazione sempre più complessa (in termini
scientifici si parla di complexity from noise): è qui che si gioca la grande differenza tra le
innovazioni cibernetiche ed elettroniche e l'essere vivente! Questo aspetto della riflessione
girardiana può essere notevole e favorisce un ulteriore confronto tra le più diverse
discipline; per usare le parole di Henri Atlan, : «Having as little to do with phenomenology
as with essentialism, Girard’s thought is mechanistic in kind. From this point of view, he
himself wanted his theory to be a mechanistic theory of cultural evolution as Darwinism is
a mechanistic theory of biological evolution. I will try to show that this challenge was met
to some extent, especially when one considers current models of self-organization for
complex biological and other systems, including developmental and evolutionary
processes»264. Quest'approccio tramite la teorie dei sistemi auto-organizzatori è
263E. Morin, Il paradigma perduto, cit., pp. 20-21.
264http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Atlandraft.pdf
83
fondamentale per comprendere la prospettiva di Girard in tutta la sua ampiezza ed in tutta
la sua profondità: tali tematiche non sono trattate da Girard stesso, ma la sua ipotesi mostra
chiaramente una forma ed una coerenza che vengono ispirate da un approccio del genere;
pensando al gruppo sociale come ad un sistema vivente, aperto e complesso che, in quanto
tale, è costretto a gestire dosi sempre maggiori di entropia (e quindi di disordine, di
rumore), la risoluzione del capro espiatorio assume maggiore credibilità, in quanto non
solo è coerente ad un modello formale che identifica una capacità auto-organizzativa la cui
essenza è interna al gruppo (nega ogni intervento esterno, superiore, e dunque salva
l'immagine dell'uomo che Girard ci consegna) ma tale risultato permette anche di
comprendere l'organizzazione 'rituale-sociale' che si presenta dopo il linciaggio. Non solo;
proprio la teoria della complessità, permette di comprendere l'insieme delle conseguenze
rituali-linguistiche generate dal capro espiatorio (trattate completamente nel capitolo
successivo) pensati come strumenti generatori di una maggiore complessità, sviluppatasi da
una minore dose iniziale.
Credo che la posizione di Girard possa apparire fantasiosa o debole, in alcuni punti,
ma nel momento in cui la si legge attraverso la teoria dei sistemi auto-organizzatori,
assume una valenza ed una coerenza eccezionale, che non può essere inosservata. Ed è
dalle pagine di Morin (oltre che da pensatori come Atlan, Dupuy, Dumouchel 265 ecc.) che
quest'ipotesi può essere apprezzata in tutta la sua grandezza.
Sempre ne Il paradigma perduto, Morin parla di una rivoluzione in campo
scientifico avvenuta sotto la guida del pensiero complesso, rivoluzione che investe la
biologia, l'ecologia e tutte le scienze psicologiche e sociali. Le teorie sull'informazione di
Shannon e di cibernetica ad opera di Wiener elaborarono proficue scoperte per le macchine
artificiali, ma trovarono utili applicazioni in campi quali la biologia, la sociologia e la
psicologia, discipline che, trovandosi incapaci di affrontare i nuovi paradigmi con termini
adeguati, ripresero i termini usati in cibernetica, come macchina, informazione, codice ecc.
Nel caso della biologia si tende a parlare di una 'apertura verso il basso' verso i fenomeni
fisico-chimici: non si aveva più a che fare con materie viventi, ma piuttosto con sistemi
viventi, cioè sistemi che presentavano un'organizzazione complessa, comprensibile
partendo dal livello chimico-molecolare. Questo salto 'epistemologico' metteva in luce il
fatto che «la macchina è una totalità organizzata, non riducibile ai suoi elementi costitutivi,
265Per un'interessante ricostruzione di tali concetti, come complessità, auto-organizzazione ecc, utile è il
saggio L'auto-organisation: du social au vivant et du vivant au social, di J.-P. Dupuy e P. Domouchel
(Cfr. http//science.societe.free.fr/documents/pdf/STS5_Dupuy_et_Dumouchel.pdf).
84
i quali non potrebbero essere correttamente descritti isolatamente muovendo dalle loro
proprietà particolari»266. L'apertura verso il basso diventa 'verso l'alto' nel momento in cui
tali modelli si dimostrano egualmente validi per i fenomeni psico-sociali e antropologici: i
principi teorici della cibernetica divennero applicabili in diversissimi campi, fattore che
provocò una visione del mondo legata al concetto di disordine, ordine e organizzazione;
come notò Schrödinger , «la vita significa tendenza all'organizzazione, alla complessità
crescente, cioè alla negazione dell'entropia. [..] È il paradosso dell'organizzazione vivente,
il cui ordine informazionale che si costruisce nel tempo sembra contraddire un principio di
disordine che si diffonde nel tempo»267. Questo paradosso non fa altro che mettere in luce
una logica che leghi ordine e disordine, tramite una teoria della complessità. Questa teoria
trovò la sua ulteriore rivoluzione in von Neumann che, riflettendo sulle macchine
artificiali, portò ad una migliore comprensione dei viventi: se gli automi artificiali non
facevano altro che degenerare, la macchina vivente
«sebbene costituita di elementi poco affidabili (molecole che si degradano,
cellule che degenerano), è estremamente affidabile; da un lato essa è in grado
eventualmente di rigenerare, ricostituire, riprodurre gli elementi che si
degradano, cioè di autoripararsi, dall'altro essa è in grado eventualmente di
funzionare nonostante il “guasto” locale; cioè di realizzare i suoi fini con mezzi
di fortuna, mentre la macchina artificiale è tutt'al più in grado di diagnosticare
l'errore dopo essersi fermata»268.
Altra differenza importante identificabile riguarda la questione dell'errore – detto
'rumore' – e l'effetto che esso genera nei sistemi artificiali e in quelli viventi: «mentre il
disordine interno, cioè in termini di comunicazione, il “rumore” o l'errore, degrada sempre
la macchina artificiale, la macchina vivente funziona sempre con una parte di “rumore”, e
l'accrescersi della complessità, lungi dal diminuire la parte di rumore tollerata,
l'accresce»269. Si delinea all'orizzonte il concetto chiave di complessità, nozione
fondamentale che arrivò con von Neumann: «la complessità non solo significava che la
macchina naturale mette in gioco un numero di unità e di interazioni infinitamente più
elevato che la macchina artificiale, essa significava altresì che l'essere vivente è sottoposto
a una logica di funzionamento e di sviluppo totalmente diversa, una logica nella quale
intervengono la non determinazione, il disordine, il caso come fattori di un'organizzazione
superiore o di autorganizzazione»270. Ecco perchè la nozione di vita si trovò molto più
266E. Morin, Il paradigma perduto, cit., p. 24.
267Ivi., p. 25.
268Ivi., p. 26.
269Ibid..
270 Ivi., p. 27
85
colma di significato: autorganizzazione e complessità erano le nuove parole chiave.
Ulteriori mutamenti si ebbero in ecologia, dove la nozione di Natura assunse un nuovo
significato: gli esseri viventi, in una determinata 'nicchia ecologica' (biotopo), entrano in
rapporto con l'ambiente stesso, ed entrambi costituiscono una unità globale definibile
ecosistema: esso si presentava come un'organizzazione spontanea e casuale fondata da un
insieme di dipendenze, relazioni ed interazioni tra gli organismi. Ne segue che la relazione
che intercorre tra l'individuo e il suo ecosistema non si configura come un rapporto tra due
entità chiuse, quanto piuttosto come un «rapporto integrativo tra due sistemi aperti dove
ciascuno è parte dell'altro, costituendo un tutto unico. [..] La natura non è più disordine,
passività, ambiente amorfo: è una totalità complessa. L'uomo non è più un'entità chiusa in
rapporto a questa totalità complessa: egli è un sistema aperto in rapporto di
autonomia/dipendenza organizzatrice in seno a un ecosistema»271. Un discorso analogo può
essere effettuato intorno alla visione degli animali e dei loro comportamenti (già affrontate
nel capitolo precedente): lontani dalla riduttiva visione cartesiana degli animali, l'etologia
dipingeva società animali sempre più complesse, fatte da individui che compivano scelte,
decisioni, intrattenevano rapporti di diversa natura, non molto lontani da quello che noi
stessi intratteniamo con le altre persone.
Ciò che possiamo apprendere da questa nuova prospettiva, è la visione dell'uomo e
della società, ora da vedere attraverso la «complessità organizzazionale dei sistemi
viventi»272 che possono essere definiti sistemi auto-organizzatori; se pensiamo all'uomo
come ad un automa naturale, in contrapposizione a quelli artificiali, dobbiamo in primo
luogo definire la centralità – per quest'ultimi – dell'errore, definito rumore-disordine:
«Disordine è qualsiasi fenomeno che, in rapporto al sistema considerato, sembra obbedire
al caso e non al determinismo del sistema stesso, tutto ciò che non obbedisce alla stretta
applicazione meccanica delle forze secondo gli schemi di organizzazione prefissati» 273; il
disordine, in un sistema artificiale, determina una crescita di entropia, fattore che comporta
la degradazione-disordinazione del sistema stesso; invece, l'organismo vivente «funziona
malgrado e con la presenza del disordine, del rumore, dell'errore, i quali, non comportando
necessariamente un aumento di entropia del sistema, non risultano necessariamente
degenerativi, e possono persino fungere da rigeneratori» 274. Non tanto un paradosso se si
271E. Morin, Il paradigma perduto, cit., 29.
272Ivi., p. 115.
273Ibid.
274Ivi., p. 116.
86
considera l'uomo come un sistema vivente consistente in un processo di riorganizzazione
permanente, che utilizza – assorbendo ed espellendo – l'entropia che produce. «E' questo
fenomeno di riorganizzazione permanente che da ai sistemi viventi flessibilità e libertà in
confronto alle macchine. [..] il sistema auto-organizzatore è tanto più complesso quanto
meno strettamente è determinato, in quanto gli elementi che lo costituiscono sono dotati di
una relativa autonomia, e le loro complementarità non si possono empiricamente e
logicamente dissociare da concorrenze o antagonismi, cioè di nuovo da un certo
“rumore”»275.
In questo contesto, il rumore si sviluppa in relazione all'evoluzione e all'aumento
della complessità del sistema; può condurre a mutazioni genetiche (nella trasmissione del
messaggio genetico) ma anche a mutazioni innovative, portatrici di una maggiore
complessità: in questi casi l'errore stesso favorisce e arricchisce il sistema e l'informazione.
Ne consegue che «il cambiamento e l'innovazione, nel campo del vivente, non si possono
concepire che come il prodotto di un disordine che arricchisce perchè diviene fonte di
complessità.[..] Dunque, ogni sistema vivente è minacciato dal disordine ma nello stesso
tempo se ne nutre. Ogni sistema vivente è contemporaneamente sfruttato e sfruttatore
dell'entropia»276. La riflessione di Morin, si presenta inizialmente come illuminante per il
singolo uomo, presentato come singolo individuo; nel momento in cui inizia a riflettere in
termini sociali, egli mantiene il suo atteggiamento 'complesso', giungendo a pensare sia al
sistema sociale sia agli individui che lo costituiscono in termini di sistemi viventi aperti, le
cui interazioni generano i reciproci rapporti tra i due. Stando così le cose, potremmo dover
pensare al gruppo sociale dei proto-umani a cui Girard allude, in termini di sistema,
trovando dunque un ottimo ponte di confronto e di riflessione.
Se pensiamo alla società come ad un sistema, dobbiamo in primo luogo parlare di
un sistema 'complesso', e questo significa un sistema nel quale gli elementi che lo
compongono interagiscono attraverso continue relazione ed interdipendenze; nel caso dei
sistemi sociali e culturali, la definizione di sistema complesso viene arricchita dalla
capacità di auto-organizzazione: «l’autorganizzazione avviene quando un sistema, superata
una certa soglia di complessità, o si disintegra o crea nuove strutture capaci di coordinare e
organizzare in modo più semplice gli elementi del sistema; l’evoluzione biologica o lo
sviluppo di nuovi sistemi sociali può essere vista come una serie di disastri e
275E. Morin, Il paradigma perduto, cit., p. 116
276Ivi., p. 117.
87
autorganizzazioni»277. Questa particolare capacità dei sistemi viventi non risponde ad una
sorta di 'disegno' che li governa: bisogna cancellare ogni sorta di convinzione finalistica,
ogni idea di demiurgo che crea secondo un determinato schema; tali sistemi sono
totalmente governati dalla casualità, ma il loro effettivo successo determina un'efficacia
che fa pensare ad un percorso già determinato: « It is a random procedure that takes on an
aura of necessity»278. Le esatte dinamiche seguite da tali sistemi, rimangono di fatto
oscure: l'unica cosa che si può affermare è la coesistenza e la cooperazione di ordine e
disordine; «Il disordine offre la varietà e le possibilità di evoluzione del sistema e gli
elementi del sistema “provano” ad aggregarsi in strutture più complesse e dinamicamente
stabili. La nuova stabilità è raggiunta grazie alla gerarchizzazione del sistema in
sottosistemi ordinati: il sistema troppo complesso si autorganizza dividendosi in
sottosistemi che cooperano in modo gerarchico alla funzionalità del sistema complesso»279.
Il sistema, trova dunque la sua organizzazione innovativa e maggiormente complessa in
quanto , da un lato, trova un'indeterminatezza che genera disordine, ma allo stesso tempo
riesce a compiere una nuova organizzazione che si presenti come più complessa, in quanto
riesce a gestire il rumore in un modo più efficace. Ci si pone di fronte agli occhi una triade
inaspettata, costituita da ordine–disordine–(auto)organizzazione, la quale ci conduce alla
comprensione di fenomeni che, instaurati dal disordine, istituiscono forme organizzate
nuove, le quali portano di nuovo all'ordine: la complessità, dunque, viene generata dalla
continua crescita che ordine e disordine si recano reciprocamente; il migliore modo di
evitare la scomparsa, è una continua rigenerazione e riorganizzazione:
«Il sistema sociale è il tipico esempio in cui l’azione di “disturbo” rispetto una
struttura spesso è utilizzato per far evolvere il sistema stesso attraverso
l’autorganizzazione:[..] nei fenomeni sociali, al cui centro è l’idea di sistema
autopoietico, cioè capace di autotrasformarsi grazie alla capacità del sistema di
scomporsi in sottosistemi dotati di autonomia, questa attività e propria del
sistema e sfugge a ogni pianificazione razionale dell’uomo»280.
Nel momento in cui tale modello teorico si applica all'ipotesi girardiana
dell'ominizzazione ne comprendiamo la complessità e la validità; bisogna sempre ricordare
che in Girard ogni crisi mimetica è sinonimo d'indifferenziazione, dissolvenza dell'ordine
precostituito: nel caso degli uomini e delle società, basti ricordare l'interpretazione che
l'autore da della Roma descritta nel Giulio Cesare, e cioè una Roma in cui gli uomini di
277http://www.vitellaro.it/silvio/aggiornamento/Compless_CIDI/Compless_gen.doc
278http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Naturalizing%20Mimetic%20Theory.pdf
279 http://www.vitellaro.it/silvio/aggiornamento/Compless_CIDI/Compless_gen.doc
280http://www.vitellaro.it/silvio/aggiornamento/Compless_CIDI/Compless_gen.doc
88
mestieri vagano senza regole, senza impegni, senza un abito che definisca il loro status 281;
nel caso del processo di ominizzazione, le differenze che crollano sono quelle dei
dominance patterns la cui scomparsa getta il gruppo in una lotta dilaniante: il crollo delle
differenze, non è nient'altro che crisi mimetica, e dunque, puro disordine, rumore; come
dice Morin :«Che cos'è una crisi? E' un aumento del disordine e dell'indeterminatezza
all'interno di un sistema [..] provocato da o provoca esso stesso il blocco dei dispositivi
organizzazionali, in particolare regolatori (feed-back negativi) determinandovi da una parte
una certa rigidità, d'altra parte lo sbocco di potenzialità fino allora inibite»282.
L'ipermimetismo genera una crisi, un disordine la cui pressione rompe le normali gerarchie
animali, incapaci di funzionare: ma ecco che la possibilità della sopravvivenza, si cela
proprio nell'organizzazione stessa del cervello umano, il cui ipermimetismo ricade nella
soluzione sacrificale; gli elementi interni del sistema sociale, caduti in un disordine mai
visto, riesco però a muoversi in una nuova direzione, in grado di generare un nuovo ordine
e una nuova organizzazione! Atlan definisce l'ipotesi di Girard come un problema legato
alla dimensione sociale, o per meglio dire, alla differenziazione:
«Girard analyses this mechanism in more precise fashion, and insists on the role
of violence. It intervenes in the two moments of the mechanism: at the stage of
undifferentiation and at the stage of differentiation. At the stage of
undifferentiation there is the violence of all against all, and mimesis is the
source of an absolutely generalized violence. At the stage of differentiation
there is the violence of the expulsion of the victim, and this time mimesis makes
the violence of all converge against one. It is there, in the determination of who
will be expelled, that randomness intervenes in the fillip of chance that
orientates the system towards one social form rather than another.»283
Secondo lo studioso, l'intero meccanismo del capro espiatorio può essere visto come un
generatore di differenze a partire dall'indifferenziazione, apprezzando come Girard
definisce il processo sulla base dell'imitazione 284. L'imitazione è il fattore perturbante,
creatore di disordine, ma è, allo stesso tempo, il fattore che permette un nuovo tipo di
organizzazione, un nuovo ordine nato dal disordine: 'order from noise'.
281R. Girard, Il teatro dell'individa, tr. it. Luciani G, Adelphi 1998, capitolo sul Giulio Cesare.
282E. Morin, Il paradigma perduto, cit., p 139; corsivo mio.
283 http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Atlandraft.pdf
284«it is a matter of the passage from an undifferentiated state to a differentiated state. To obtain a
differentiated state, one must obviously start out from an undifferentiated (or less differentiated) state and
see how it becomes differentiated. When one reflects on the ideas of undifferentiation and differentiation,
one perceives that repetition or redundancy is a particular case of undifferentiation. Manifestly, imitation
is an operator of repetition or redundancy. Imitation furnishes peculiar and fundamental examples of
undifferentiation. One of the interesting points in Girard's theory is that it shows us how, out of these
undifferentiated
states,differentiated
states
may
arise».
(Cfr.http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Atlandraft.pdf).
89
Le potenzialità di cui parla Morin, sono insite nelle diverse specie di pre-umani, ma
solo i gruppi che sono stati in grado di far emergere un nuovo modello di organizzazione
sono riusciti a sopravvivere, ripetendo il meccanismo e creando una forma sociale
maggiormente complessa; è forse in questa maggiore complessità che si deve osservare la
vera essenza della cultura: essa è probabilmente un tipico caso di 'complexity from noise' e
cioè una forma inedita di organizzazione, la cui complessità era insita nelle potenzialità dei
primi uomini: in secondo luogo, la cultura è stata in grado di generare una complessità
sempre più vertiginosa, generando quel senso di 'parzialità' insita in ogni scoperta umana:
l'epigono sapiens è giustamente affiancato da Morin a quello di demens, non a caso: « il
disordine (condotte casuali, competizioni, conflitti) è ambiguo: è da una parte uno degli
elementi costitutivi dell'ordine sociale (varietà, differenziazione, elasticità, complessità),
ma d'altra parte resta nello stesso tempo disordine, cioè minaccia di disintegrazione. Qui, di
nuovo, la minaccia costante che il disordine mantiene è ciò che dà alla società il suo
carattere complesso e vivo di riorganizzazione permanente.[..] una società si autoproduce
senza sosta perchè senza sosta essa si autodistrugge»285.
Il meccanismo sacrificale, è dunque una sorta di principio organizzatore,
stabilizzatore, capace di far convergere la violenza non in modo centripeto, ma verso un
singolo capro espiatorio; è una forma endogena, un meccanismo – come dice Dupuy :
«morphogenetic: they are capable of generating new forms. They are simple but their
simplicity brings about complexity»286.
Se quindi l'origine della cultura si ritrova nel meccanismo del capro espiatorio, cosa
è in grado di creare, e come ciò avvenne? La complessità cultura che oggi noi possiamo
osservare, non è nient'altro che un risultato di un lungo percorso. Sancito il ritorno
all'ordine, l'omicidio sacrificale permette l'elaborazione di una nuova forma sociale
maggiormente complessa, in grado di assorbire dosi maggiori di disordine e di garantire
una quanto meno duratura fase di ordine, inevitabilmente momentanea; ma
contemporaneamente, tale nuova forma è generatrice di maggiore complessità: ricadendo
nel disordine, non si fa altro che determinare nuovo ordine culturale, con tutte le conquiste
che questo comporta; stiamo qui descrivendo il meccanismo della Cultura umana, il cui
ritmo evolutivo è parossistico ed inedito. La complessità viene quindi re-inserita in un
regime di produzione continua di forme maggiormente superiori, secondo un ritmo che
285E. Morin, Il paradigma perduto, cit., p 45.
286http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Naturalizing%20Mimetic%20Theory.pdf
90
solo un sistema culturale può produrre: solo quest'ipotesi permettere di rendere conto della
nascita e della relativa evoluzione di istituzioni sociali: il linciaggio originario, per Girard,
è in grado di generare nuove forme culturali sempre più complesse quali il linguaggio, la
domesticazione animali e, ovviamente, il divieto ed il rito.
91
IV
Istituzioni sociali nate dal meccanismo vittimario
Girard, fiducioso dell'efficacia della sua ipotesi antropologica, non si accontenta di
esplicare il processo che portò all'origine dell'uomo, ma – dilagandosi all'interno della sfera
culturale e simbolica – rende manifesta la realtà che soggiace alla nascita della Cultura
umana, che vanta un linguaggio complesso, la dimensione rituale, i divieti ed altre
istituzioni complesse; muovendosi tra le varie sfide lasciate in sospeso da diverse
discipline, Girard riconduce tutta la Cultura ad un unico tassello, il medesimo che portò
molti gruppi pre-umani a sopravvivere: il meccanismo vittimario. La cultura nella sua
interezza può essere dunque letta come un frutto prelibato caduto dal patibolo
dell'immolazione sacrificale. Quest'ipotesi, ad un primo sguardo, può sembrare fantasiosa
ed ambiziosa: se così fosse – si potrebbe pensare – vi dovrebbero essere prove evidenti,
trattandosi di una realtà manifesta; in primo luogo è dunque fondamentale notare che
Girard contempla la possibilità dell'evoluzione delle forme culturali, le quali hanno ormai
smarrito la loro origine reale e cruenta287: contro la concezione del 'platonismo culturale'288
che concepisce le istituzioni come entità immutabili fin dalla loro apparizione, Girard
oppone la sua ipotesi – estremamente coerente – secondo la quale la molteplicità delle
istituzioni presenti non è nient'altro che il risultato dell'inevitabile mutamento delle forme
culturali, le quali compiono continue metamorfosi, ancora oggi in corso; forte di tale
concezione, Girard non rinuncia a risalire alla radice comune di tutte le forme culturali che,
nate da esigenze sociali ed umane, sono facilmente riconducibili al meccanismo che ha
generato l'umanità stessa: ancora una volta, è accattivante osservare il metodo 'darwiniano'.
Un'unica e sola genesi: in seguito, in base a semplici fattori contingenti, le istituzioni si
evolvono seguendo le più diverse strade, a seconda dell'aspetto dell'omicidio rituale
privilegiato; tramite la prospettiva mimetica, avendo in mano il meccanismo vittimario e il
rito vivente «si tengono le due estremità della catena e la «decostruzione», perché riesca
finalmente a compiersi, è anche una «ricostruzione» che si effettua a partire dalla matrice
comune»289. Si affrontano così le istituzioni come elementi puramente storici, umani ed
adattivi i quali, fin dal primo momento, sono sottoposti ad inevitabili
mutazioni e
differenziazioni. Un'ipotesi 'definitiva' e scientifica, come si propone quella girardiana,
287La cosa sarà più chiara quando si parlerà – ad es – della domesticazione, della monarchia ed, anche, del
sacrificio stesso.
288Cfr. R. Girard, Delle cose nascoste , cit., p. 81.
289Ivi., p. 84.
92
deve necessariamente ricondurre tutte le realtà sociali ancora poco comprensibili ad un
unico principio: dimostrato che il meccanismo del capro espiatorio ha condotto l'uomo ad
essere quello che è, esso deve esplicare i diversi passi compiuti dalla specie durante il suo
lungo cammino.
4.1 – Il significante trascendentale
La dimensione rituale dell'omicidio vittimario ha generato una vera e propria
discontinuità tra atteggiamenti animali ed 'umani', rendendo possibile la strutturazione di
un sistema di segni e significazione complesso, qual'è quello umano. Se dovessimo
focalizzarci sull'evento primordiale si deve notare, come sottolinea Girard, che il
meccanismo vittimario, sin dalla sue prime apparizioni, si presenta come «una prodigiosa
macchina per destare [..] la prima attenzione non istintuale»290. La frenesia sanguinaria
della crisi si nutre della vittima, la cui morte genera un momento eccezionale: cessata la
scarica distruttiva, la comunità conquista la calma e la pace, trovandosi immersa in un
silenzio la cui intensità è difficile da contenere: questa nuova situazione, creatasi
dall'uccisione unanime, è diametralmente opposta al delirio della crisi, ed è proprio tale
unicità che deve aver creato uno stupore ed un'attenzione non indifferente 291. Come un
centro gravitazionale, la vittima attrae a se tutto lo stupore, come prima aveva polarizzato
la violenza: «al di là dell'oggetto puramente istintuale [..] c'è il cadavere della vittima
collettiva ed è questo cadavere a costituire l'oggetto primario per questo nuovo tipo di
attenzione»292. Sul corpo della vittima, oltre ai colpi violenti inflitti dalla comunità, si
cristallizza un'attrazione quasi sacra: vi è qui l'origine dell'elaborazione dell'ambivalenza
sacra, il capro come unico principio di caos e di ordine 293. Nucleo dello stupore e
dell'attenzione, l'intero evento si radica nella mente dell'osservatore, pronto a riemerge in
tutta la sua forza ogni qualvolta il linciaggio unanime si ripeterà. Ecco perché, conclude
290R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 128.
291Ancora una volta possiamo gettare uno sguardo all'etologia: de Waal, ci dipinge il toccante atteggiamento
di 'lutto' che colpì una colonia da lui studiata; l'inaspettata morte dell'antropomorfa Dorothy, creò un vero
e proprio convoglio funebre: il gruppo, collettivamente, rimane in silenzio osservando il corpo mentre
veniva portato via. Ecco come egli descrive la scena: «Parecchie scimpanzé si raccolsero intorno alla
carriola sua cui era esposto il suo corpo, che suscitò un'attenzione intesa (ma stranamente silenziosa) da
parte della comunità della riserva». (Cfr. Frans de Waal, Il bonobo e l'ateo, cit., p. 237).
292R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 128.
293Altro interessante punto di vista è quello di Lorenz, il quale riflette sulle possibili implicazioni che il
primo Caino dovette provare di fronte al cadavere dell'assassinato: «il primo Caino, dopo aver atterrato un
membro della sua orda con una mazza, fosse profondamente scosso dalle conseguenze della sua azione.
[..] Ad ogni modo andiamo sul sicuro che il primo assassinio abbia subito riconosciuto tutta l'enormità
della sua azione.» (Cfr. K. Lorenz, L'aggressività, cit., p. 132). In Lorenz vi è una sottolineatura della
consapevolezza dell'omicidio, la cui unicità porterebbe alla creazione dei divieti d'assassinio.
93
Girard, tale evento «ha prodotto una specie di “cortocircuito” cognitivo e percettivo che
richiede una qualche forma di elaborazione »294.
Realisticamente, Girard non pensa ad un unico evento fondatore in grado di creare,
quasi d'incanto, una rete significativa che permetta l'emergere di un sistema di
classificazione: non ricadendo nell'idea della Genesi, dove l'uomo viene creato dal fango
con un singolo atto, si ritorna a quella logica evolutiva dove, sempre attraverso la
ripetizione, la vittima (sostitutiva) richiama una nuova attenzione, riportando alla luce il
ricordo di quell'evento fondamentale. Non si tratta quindi di un'elaborazione delle
significazioni del sacro come un effetto immediato, ma come un lungo processo, fatto di
«stadi, forse i più lunghi di tutta la storia umana, durante i quali queste significazioni non
sono ancora veramente presenti. [..] si è sempre in cammino verso il sacro, ma non vi sono
ancora concetti o rappresentazioni»295. Ogni singolo omicidio non fa altro che contribuire
cumulativamente a questa attenzione verso la vittima, che evoca la duplicità di sensazioni
di pharmakon, sensazioni via via più radicate nella mente.
Dal cadavere linciato, fuoriescono spinte ed attenzioni nuove con «un valore che
struttura ogni ulteriore differenza; il sacro, nella sua duplice accezione di benefico e di
malefico, scaturisce dal cadavere della vittima come una forza esterna e autonoma, da
maneggiare con grande cautela»296. L'elaborazione di un modo di pensare, la cui
organizzazione si costruisce attraverso la differenziazione che il sacro istituisce, ci permette
di definire la vittima come il primo significante trascendentale che emerge da uno strato di
totale indifferenza e confusione: l'unico fattore degno di nota che si staglia e che emerge
dall'indistinto. L'uccisione, lungi dal generare un senso di colpa fondante e retroattivo,
genera lo sviluppo di un sistema simbolico di significazione, che non funziona come lo
strutturalismo vorrebbe, e cioè come un sistema fatto di opposizioni binarie (l'idea lévistraussiana del Crudo e il Cotto) nel quale ogni significato è tale grazie al suo opposto, ma
piuttosto si struttura come l'emergere di un unico grande significante da una massa caotica
e confusionaria. L'apparato simbolico umano quindi non è binario, ma funziona tramite
un'eccezione che sorge dal magma confuso, eccezione che, in realtà, genera un significante
di per se ambiguo: il sacro nella sua duplice valenza, malvagia e salvifica, è un paradigma
in grado di sussumere le posizioni strutturaliste, superandole tramite una sintesi 'hegeliana',
capace cioè di mostrarne l'errore; l'opposizione binaria risiede nell'ambiguità del sacro, ma
di fatto, il sistema di significazione umana si costruisce per eccezione da confusione.
294R. Girard, Origine della Cultura ,cit., p.76.
295R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 129.
296G. Mormino, Il confronto con l'Altro, cit., p. 223.
94
Ancora una volta, non sarà dunque la primigenia uccisione ad essere fondamentale, quanto
piuttosto la sua commemorazione rituale: «la cultura nel suo complesso è un sistema
sacrificale fondato sulle rielaborazione emotiva di un'uccisione collettiva»
297
. Sventando
la crisi con una nuova vittima sostitutiva, essa non potrà che ricordare ed evocare quel
primo evento miracoloso; abbiamo di fronte così una nuova vittima sacrificale che si
manifesta come il simbolo di quel primo evento: «viene ad essere [questa vittima
sostitutiva] il primo segno inventato da questi ominidi; per la prima volta qualcosa sta al
posto di qualcos'altro»298. La complessità cognitiva di quest'operazione, da un lato richiede
una massa cerebrale molto sviluppata, ma, dall'altro dovette fungere da «forma di pressione
evolutiva, un elemento della selezione naturale che costringe i primi ominidi a diventare
sapiens»299. Il meccanismo del capro espiatorio è dunque un meccanismo che alimenta
l'evoluzione del cervello umano: come già definito in precedenza, è in queste dinamiche
che Girard identifica la 'soglia' che determina la nascita della soglia simbolica, fattore
tipicamente umano; inoltre il sistema rituale e culturale non fa altro che contribuire a
questo sviluppo: la ripetizione, che porta ad un 'rafforzamento cognitivo'300 può trovare
nell'imitazione un ottimo luogo di sviluppo, ed ecco come quell'efficace ed universale
costrutto sociale che è il rito, si rivela l'insegnante migliore del genere umano: «il rito [..]
da una parte rivela la struttura dei nostri meccanismi cognitivi, dall'altra funziona come uno
strumento pedagogico in mano alle società primitive»301.302
Inoltre a riprovare quest'idea di significazione (unicità/indistinto) è il rito stesso: nel
processo rituale troviamo un unico elemento (cioè la vittima o ciò che ritualmente appare
come tale) che emerge dalla massa, attraverso una selezione casuale e aleatoria, tipica della
maggior parte dei riti: «un tale modello si ritrova nei rituali proprio perché è ricalcato,
insieme a tutte le altre istituzioni rituali, sull'operazione della vittima espiatoria. Esso [..] è
un modello della simbolicità più rudimentale»303. Sulla scia delle riflessioni di Roger
297G. Mormino, Il confronto con l'Altro, cit., p. 224
298R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 77.
299Ibid.
300Ivi, p. 82.
301Ibid.
302Interessante notare un'osservazione derivata dal confronto tra bambini e scimpanzé durante un
esperimento riguardo alle scatole distributrici di caramelle; un soggetto umano, mostrava come prendere
le caramelle, eseguendo anche una serie di gesti inutili, che non apportavano i dolci; l'esperimento mostrò
che, se da un lato gli scimpanzé si mostrarono in grado di capire quali fossero i movimenti validi per
prendere le caramelle, mentre i bambini ripeterono tutto in modo identico: molti esperti parlarono qui di
'iperimitazione', ma a ciò de Waal pone una tendenza da parte dell'uomo, nell'agire mimeticamente,
seguendo una sorta di 'fede' nell'azione dello sperimentatore: tale credenza , che è fonte di una credenza
religiosa, è una caratteristica particolarmente umana; interessante affiancare tale pensiero con le
riflessioni sulle modalità di ritualizzazione compiuta dai primi ominidi nella riflessione girardiana (F. de
Waal, Il Bonobo e l'ateo, cit., pp. 247-248).
303R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 130.
95
Caillois304 Girard vede in quest'ordine di simbolicità l'origine dei giochi d'azzardo, nei quali
viene valorizzato solo il processo casuale che porta alla scelta dell'elemento rituale: unicum
dell'umanità, questi giochi d'azzardo non rappresentano altro che l'immolazione sacrificale;
infatti, «Anche nelle forme più attenuate di sorteggio, si vedono polarizzarsi sull'eletto le
significazioni multiple del sacro»305 ed il caratteristico caso del 'gâteau des rois' ne è un
innocua dimostrazione.
La vittima, fonte di significazione originaria e via via sempre più straordinaria,
appare dunque come il significante trascendentale, per cui «Il significante è la vittima. Il
significato è tutto il senso attuale e potenziale attribuito dalla comunità a questa vittima e ,
per suo tramite, ad ogni cosa»306. Quel primo corpo immolato come vittima, è quindi il
primigenio segno, ambivalente come il sacro: responsabilità della crisi e riconciliazione,
sono ciò che si cerca di riprodurre nella ritualità accennata nei primi gruppi umani!
«L'imperativo rituale fa tutt'uno dunque con la manipolazione dei segni»307. Costretti dal
mimetismo a rivivere le crisi, gli uomini non possono far altro che trovare la riconciliazione
nella ripetizione del segno, e cioè tramite sacrifici che rievochino la catarsi: ecco il
processo che porta allo sviluppo del linguaggio e della scrittura: «arriva il momento in cui
la vittima originaria, invece che da nuove vittime, sarà significata da qualcosa di diverso
dalle vittime»308 attraverso quel misconoscimento della violenza che pervade la società
umana.
Altra questione spinosa è quella linguistica:
«il linguaggio articolato[..] deve anch'esso costituirsi a partire dal rito, a partire
dalle urla e dalle grida che accompagnano la crisi mimetica e che il rito deve pure
riprodurre [..] queste grida dapprima inarticolate cominciano a ritmarsi e a
ordinarsi come i gesti della danza, attorno all'atto sacrificale, poiché tutti gli aspetti
della crisi sono riprodotti in uno spirito di collaborazione e di intesa»309.
Secondo Girard, un linguaggio – inteso come un sistema chiuso di fonemi e segni,
attraverso i quali si può riuscire a comunicare – è un sistema complesso che merita una
spiegazione; tramite lo studio dei primati, si è osservato che posseggono un insieme di
segni, attraverso i quali riescono a comunicare riferendosi al mondo esterno mentre non
304Autore di Les jeux et les hommes.
305R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 131.
306Ivi, p. 132.
307Ivi. p. 133.
308Ibid.
309Ibid.
96
riescono a comprendere i «segni che si riferiscono gli uni agli altri»310: questa dimensione,
che di fatto caratterizza il nostro modo di comunicare, è quello che potremmo definire la
'soglia simbolica'; anche Girard vede nel linguaggio un elemento fondamentale che ci
differenzia dal resto del mondo animale. Ma come la dimensione simbolica può sorgere?
La vittima sacrificale, si configura come un centro attraverso il quale diviene possibile una
comunicazione tra i membri del gruppo i quali possono riferirsi a quell'elemento, che
essendo percepito come esterno, permette una comunicazione ed un'interazione sociale
intorno e riguardo ad esso; non dobbiamo pensare che, cominciata tale comunicazione,
essa svanisca insieme al centro che l'ha evocata, tutt'altro: è necessaria la scomparsa di tale
centro, fatto che ha permesso un'elaborazione ed un'astrazione notevole, e di conseguenza
una complessità sempre più marcata. Centro d'attenzione e centro comunicativo: il primo
cadavere ucciso collettivamente appare come un sole, che irradia una luce di significazione,
contribuendo a creare il sistema linguistico e simbolico che «insegna alle persone a
comunicare, ad avere ognuna il proprio ruolo nella comunicazione con gli altri»311. Il ruolo
fondamentale di centro, però, sta nella sua scomparsa: «una volta che la comunicazione si è
stabilizzata in questo senso, il centro della significazione può anche dissolversi e
scomparire»312. Tramontando tal centro, ci lascia appunto il sistema simbolico, che
permette l'utilizzo del linguaggio e della dimensione rituale: la cultura, messa in moto da
questo nucleo religioso inizia la sua evoluzione da qui.
La prospettiva girardiana si giostra attorno alle difficoltà dei diversi settori del
sapere, incapaci di spiegare il salto che differenzia l'animale e l'uomo (un essere
'simbolico') : si deve trattare necessariamente di uno 'sconvolgimento' che ha portato ad una
rivoluzione nelle dinamiche sociali all'interno di questo gruppo, istituendo così un'insieme
di elementi sociali fortemente controintuitivi: ciò che determina la discontinuità nei
comportamenti animali deve quindi essere esplicato non come una semplice conseguenza
dell'encefalizzazione, ma piuttosto come una rottura radicale, che solo un evento
'traumatico' ha potuto generare! Per capire tale prospettiva, proficua è la riflessione sul
dono, difficile da pensare nella prospettiva animale, nella quale l'individuo dominante
prende tutto per se313: «Tutto il processo che ha visto non solo gli ominidi ma interi gruppi
310R. Girard Origine della cultura, cit., p. 77.
311R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 78.
312Ibid.
313Anche in questo caso, Girard continua a sottolineare la rottura tra l'umano e il non umano: tale
prospettiva riguardo al dono dovrebbe essere approfondita, proprio perchè forme di attenzioni, gesti
d'altruismo non sono assenti nella complessa vita dei primati: definire tali relazioni come dominate
esclusivamente dal dominio del più forte è comunque riduttivo.
97
sociali abbandonare l'usanza del prendere tutto per se e assumere il nuovo costume di dare
tutto all'altro con lo scopo di ricevere dall'altro è assolutamente controintuitivo»314.
Postulare una tendenza all'altruismo non è altro che eludere la domanda; ecco perchè,
ancora una volta, l'evento dell'uccisione collettiva s'impone come catastrofe necessaria che
portò ad una radicale rottura con i patterns comportamentali animali.
L'evoluzione cerebrale non può essere l'unico motore dell'emergenza del simbolico :
il temibile ricordo della crisi instilla nei membri del gruppo una rottura, che li porterà ad
agire diversamente dai modelli istintuali: «Solo se la gente si sente veramente minacciata
abbandonerà specifiche azioni; altrimenti l'appropriazione caotica avrà il sopravvento e la
violenza continuerò a crescere»315. Questa paura non può fare altro che nascere dal timore
di un'ulteriore crisi mimetica e per creare un legame sociale appare necessario la creazione
di una proibizione, che non potrà essere altro che una 'protezione dall'escalation
mimetica'316. Il primo omicidio è il calderone da cui fuoriesce tutto questo, ma soprattutto,
da cui si rivela la via della salvezza: «la scoperta della risoluzione attraverso un capro
espiatorio, che salva le proto-comunità da questa spaventosa crisi di violenza mimetica
viene poi disciplinata in un sistema rituale di norme e proibizioni»317 le quali
contribuiranno ad un'elaborazione sempre più sottile del sistema simbolico.
4.2 – Divieti e Riti
Oltre al linguaggio, Girard utilizza il meccanismo mimetico per esplicare due forme
universali delle società umane: il rito ed il divieto, baluardi della cultura. In tutte le società
che conosciamo, sappiamo che forme 'religiose' non sono mai mancate, connesse alle quali
si trovano sia dei tabù religiosi sia delle prescrizioni sacre e rituali.
Risalendo alla fine della storia si pone il problema della nascita della cultura e dei
suoi araldi: secondo Girard è possibile dare un'interpretazione unanime dell'origine di tutti i
divieti. I gruppi proto-umani sopravvivevano grazie alla ripetizione dei linciaggi vittimari,
unico mezzo per sventare le crisi mimetiche; con l'inevitabile pressione selettiva che esso
pone al cervello, è logico ipotizzare che questi gruppi tentino di porre rimedio alla terribili
crisi, che più volte li ha dilaniati; questo non solo tramite l'omicidio, ma anche prevenendo
314Ivi, p. 80.
315R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 78.
316Ibid.
317Ivi, p. 81.
98
il suo scoppio, evitando quindi di ripetere i diversi fattori scatenanti. Nella prospettiva
mimetica i soggetti agenti interpreteranno tutto secondo la 'mentalità primitiva' : di fronte
alla crisi e alla sua risoluzione per tramite della vittima, vi è una sorta di apprendimento
degli accadimenti, ed è chiaro che tali gruppi, incapaci di dare una spiegazione lucida,
tendano ad evitare il più possibile tutti i gesti che hanno suscitato la crisi, tra i quali si
distinguono anche i comportamenti mimetici! La minaccia della mimesi d'appropriazione,
forza in grado di disgregare una comunità, è arginata attraverso i divieti, il cui ruolo è
proibire e dissuadere la violenza e la mimesi che l'ha suscitata. Il rischio che minaccia la
comunità è sempre quello della violenza, fenomeno inevitabile: la violenza deve essere
eliminata dal gruppo, almeno nelle forme peggiori: «Non esiste cultura che non proibisca la
violenza all'interno dei gruppi di coabitazione. E insieme alla violenza effettiva sono
proibite tutte le occasioni di violenza, le rivalità troppo accese»318.
I divieti in primo luogo colpiranno tutte le violenze che si dirigono all'interno del
gruppo, punendole o vietandole; ma se in molti casi la ragione dei divieti è evidente –
vietare la violenza – in alcune società molti sono apparentemente inspiegabili e bizzarri: se
dunque l'antropologia si è sforzata di catalogare in modo coerente la totalità dei divieti,
spesso scontrandosi con l'incapacità di creare un'adeguata suddivisione, l'ipotesi girardiana
individua invece la radice comune che unisce tutti i divieti: i rituali che colpiscono i
gemelli, gli strani atteggiamenti riguardanti gli specchi o qualsivoglia comportamento
imitativo («Bisogna astenersi dal copiare i gesti di un altro membro della comunità, dal
ripetere le sue parole»319) , sebbene sembrino poter costituire una categoria a parte rispetto
ai divieti contro la violenza, in realtà, hanno formalmente la stessa matrice; particolari
rituali magici sono, a detta delle popolazioni 'primitive', creati per proteggersi dalla magia
definita 'imitativa'320 e questo sembra di gran lunga superare le molteplici suddivisioni
formali dei divieti degli osservatori. Se pensiamo ai divieti come a delle imposizioni atti ad
impedire il dilagare della violenza, è logico ipotizzare che il fine sia raggiunto a diversi
livelli: e dunque non solo bandire – per quanto possibile – direttamente la violenza, ma
anche impedire ciò che ha scatenato la crisi e cioè l'inevitabile scontro che deriva dall'avere
in comune l'oggetto dei desideri; è la mimesi d'appropriazione che scatena la crisi e dunque
i divieti mimetici «intendono scoraggiare la convergenza dei desideri sui medesimi oggetti
e proibiscono pertanto l'acquisizione di ciò che è più vicino e più facilmente
318R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 26.
319Ibid.
320Ibid.
99
conseguibile»321.
Ancora
una
volta,
quest'incapacità
dell'antropologia
è
un
frutto
del
misconoscimento, che comporta un diverso modo di catalogare la violenza: se per l'occhio
moderno «la violenza possiede un'autonomia concettuale, una specificità»322 e viene isolata
nell'ambito del legislativo, i popoli primitivi non la considerano come un fenomeno a se
stante: in modo saggio i divieti arcaici vedono laddove noi non vediamo più; la violenza
non si può isolare, ma essa vive in un contesto anch'esso mimeticamente violento, per cui
«allo stadio delle violenze esplicite il carattere imitativo è il più manifesto»323; se quindi i
'primitivi' vedono una linea di continuità tra vietare la violenza e vietare l'imitazione
eccessiva, essi dimostrano una notevole saggezza, in quanto comprendono come tutto ciò
che fa scaturire la degenerazione è collegato con il mimetismo e l'indifferenziazione (e tutto
ciò che fomenta la mimesi): per noi le due cose sono molto lontane 324; il misconoscimento è
però un fattore che agisce medianti diverse strade, ed anche i diversi fronzoli estetici e le
trasfigurazioni inevitabili del sacro rendono la comprensione dei divieti più complessa: «le
società primitive reprimono il conflitto mimetico vietando tutto ciò che può suscitarlo,
certo, ma anche dissimulandolo dietro i grandi simboli del sacro, come la contaminazione,
la sporcizia ecc»325.
Tutti i comportamenti mimetici, o tutto ciò che evoca la crisi d'indifferenziazione
sono elementi potenzialmente devastanti per la comunità, in quanto riflettono la
consapevolezza del rischio della spirale mimetica: il timore dei gemelli , che può essere
inteso come una radicale lotta tra fratelli (topos nella mitologia per rappresentare la lotta tra
doppi) altro non è il timore del contagio dell'indifferenza, scintilla che scatena la violenza:
il divieto si configura quindi come protezione dalla violenza mimetica, prevenendo la crisi
d'indifferenziazione. Interessante vedere come anche il timore dei doppi contribuisce a
spiegare strani rituali e credenze magiche, come il timore che il proprio nome o alcuni parti
del proprio corpo (capelli, unghie ecc) cadono in mano ai nemici, i quali avrebbero potuto
inviare maledizioni o creare statue da punzecchiare, i cui danni si ripercuotono sul
321G. Mormino, Il confronto con l'Altro, cit., p 226.
322 R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 26.
323Ivi, p. 27.
324Degno di nota è la riflessione di Girard sulla spirale della vendetta, la quale permette di comprendere il
legame tra violenza e mimesi; ogni uccisione non fa che rilanciare la violenza, che tramite un'escalation
porta velocemente alla distruzione: «la vendetta a catena appre come il parossismo e la perfezione della
mimesi. Riduce gli uomini alla ripetizione monotona dello stesso gesto assassino». (R. Girard, Delle Cose
nascoste, cit., p. 28).
325R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 33.
100
malcapitato; in questi casi, il doppio appare come raffigurazione del nemico, contro il quale
si può scaricare la propria violenza: «La magia non è altro che un cattivo uso delle
proprietà malefiche della mimesi»326.
Nonostante i fronzoli, capiamo che la raison d'être di tutti i divieti è la mimesi
d'appropriazione, la quale è «all'origine di tutto perché i principali divieti [..] divieti di
oggetti, i divieti sessuali per esempio, e anche i divieti alimentari, vertono sempre sugli
oggetti più vicini, sui più accessibili»327. Leggendo da questa prospettiva, sia i divieti
dell'incesto che i tabù alimentari (riguardanti l'animale o la pianta totemica) divengono
comprensibili, in quanto abbiamo di fronte oggetti 'a portata di mano', i più suscettibile di
istigare degli scontri interni al gruppo:
«Gli oggetti vietati sono sempre quelli più vicini e accessibili perché sono i più
suscettibili di provocare le rivalità mimetiche tra i membri del gruppo. Gli oggetti
sacralizzati, gli alimenti totemici, le divinità femminili, avendo in passato già
causato delle reali rivalità mimetiche, hanno conservato l'impronta del sacro. Per
questo motivo diventano oggetto del più rigoroso divieto»328.
Lungi dall'avere un importanza rilevante, l'oggetto non può essere il fulcro della
spiegazione in quanto, come spesso accade in Girard, è solo il pretesto del conflitto! Divieti
sessuali o alimentari sono in realtà tutti orientati a dissuadere lo scoppio della violenza,
impedendo la fruizione di oggetti vicini: «i più suscettibili a divenire una posta in gioco per
rivalità distruttrici dell'armonia del gruppo, e della sua stessa sopravvivenza»329 .
La realtà etologica sembra favorire la lettura girardiana: proprio come noi, anche gli
animali «non rinunciano mai a soddisfare i loro appetiti e i loro bisogni il più vicino
possibile, non vanno mai a cercare lontano ciò che possono trovare sul posto o nelle
immediate vicinanze; non rinunciano mai all'oggetto più disponibile»330. Per una tale
rinuncia 'universale' non si può postulare ne un 'desiderio della regola'331 ne una razionalità
creatrice, piuttosto una leva prodigiosa che portò una rottura; ancora una volta, proprio i
temibili ricordi della crisi mimetica fungono da spinta: «la paura delle rivalità mimetiche, a
paura di ricadere nella violenza interminabile»332. La paura del mimetismo porta ai divieti
che prescrivono di non compiere quelle stesse azioni che portarono – o che possono portare
326Ivi, p. 30.
327R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 101.
328Ivi., p. 101.
329Ivi., p. 33.
330 Ivi., p. 101.
331Ivi., p.98; l'obiettivo polemico in queste pagine è ovviamente Lévi-Strauss e lo strutturalismo.
332Ivi., p. 101.
101
– alla crisi; è chiaro che il cibo (in questo caso l'animale totemico, che, come spesso è stato
notato, è l'animale che si trova in maggior quantità nei pressi della popolazione che se ne
vieta l'alimentazione) e le donne (del gruppo) sono motivi di conflitti molto prossimi;
proprio come le donne del gruppo, anche l'animale totemico è avvolto dalla proibizione
sacra, e viene consumato proprio in seguito a particolari sacrifici (dinamica viene chiarita
tramite il rito).
Se ogni gruppo umano vivesse isolato, è chiaro che questa situazione porterebbe al
collasso sociale ed infine all'estinzione: fortunatamente, oltre ai tabù, nelle società c'è la
dimensione rituale: essa «spinge i membri di questi gruppi verso l'esterno, alla ricerca delle
vittime. E proprio a partire dai riti sacrificali si costituiscono le basi della cultura umana, in
particolare i modi dello scambio matrimoniale, i primi scambi economici»333. E' facile
ipotizzare che proprio da questi particolari divieti, sia nata una cooperazione tra gruppi
diversi, che ha permesso la nascita dell'esogamia e, potremmo dire, dello scambio rituale 334:
studi confermano che le popolazioni che cacciano ritualmente il totem, senza mangiarlo, lo
scambiano con altre cibarie che altri gruppi si sono proibiti.
I divieti sono nati in modo casuale e 'adattivo' dalla crisi mimetica, e proprio
quest'origine simile ma locata in gruppi diversi spiega la apparenti grandi differenze
esteriori di questi rituali, per i quali viene trovata una lente ermeneutica in grado di dare
una spiegazione unitaria che, togliendo i drappi estetici, esteriori e fuorvianti, riesce a
risalire al loro quid: ancora una volta scolaro di Freud, Girard vede come leva della società
il divieto e non la regola positiva e prescrittiva (come invece fa lo strutturalismo).
Data questa visione del divieto, la spiegazione girardiana sembra naufragare quando
si presenta la dimensione rituale: la follia che in essa dilaga, è sovente generata dalla
violazione ossessiva delle azioni che i divieti impediscono; se il divieto si configura come
mezzo per dissuadere la mimesi e quindi la violenza, le dinamiche rituali si caratterizzano
come
delle degenerazioni sociali, in cui la dimensione 'dionisiaca' e mimetica è la
preponderante: le danze, i canti e altri oggetti rituali – come le maschere – sono tutti
elementi che sembrano evocare l'indifferenziazione! Tra l'altro, questa contraddizione colpì
notevolmente la maggior parte dei primi etnografi: tali popolazioni venivano definite
'selvagge' proprio perchè violavano ritualmente tutti quei divieti 'insensati' che si davano;
333R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 102.
334Per capire il funzionamento e la genesi dello scambio, utile sono le riflessioni sul rituale, poste poco
dopo.
102
«l'abbandono a vere e proprie orge trasgressive che caratterizza soprattutto la fase iniziale
di certi rituali»335sembra trascinare la società nella spirale orgiastica e violenta della
mimesi.
In realtà, questa contraddizione è solo apparente: divieto e rito sono due diversi
modi di arginare la crisi mimetica. Nel momento in cui i divieti iniziano ad essere inefficaci
– nei momenti di escalation mimetica, infatti, difficilmente la violenza viene frenata dai
soli divieti e dalle prescrizioni – la società può esser concepita come un organismo in cui le
pressioni mimetiche innalzano la pressione interna, rischiando di far scoppiare il sistema:
onde evitare che ciò degeneri in una crisi generalizzata, ogni società non fa altro che
indirizzare in modo 'innocuo' (tranne che per la vittima) le tensioni aggressive: «I riti
consistono nel trasformare, paradossalmente, in atto di collaborazione sociale la
disgregazione conflittuale della comunità»336. Se quindi le rivalità iniziano a rendere la
tensione sociale e mimetica insostenibile, il 'pensiero religioso' non fa altro che tentare una
diversa risoluzione, ispirandosi a come quella prima volta fu risolta: il sacrificio (momento
che conduce ogni azioni rituale, a prescindere dalle diverse forme che assume) non è altro
che una rappresentazione voluta del linciaggio di 'tutti contro uno', che già quella prima
volta aveva portato la pace. Ripetendo tale omicidio, la crisi viene sventata ritualmente.
Per generare la catarsi un sacrificio dev'essere preceduto dalle stesse dinamiche che
portarono all'omicidio: ecco perchè in tutti i riti sono obbligatorie tutte quelle azioni che i
divieti proibiscono! Essendo quest'ultimi creati per evitare la mimesi che induce alla crisi,
tali gesti non sono che la ripetizione rituale degli atteggiamenti mimetici: le danze, le lotte
rituali e i tutti riti spettacolarmente coreografici, basandosi sempre sugli effetti speculari e
mimetici, non fanno che riprodurre uno schema, e cioè quello dei «doppi, vale a dire di
partners che si imitano reciprocamente»337.
Il binomio rito-sacrificio si può quindi leggere come una teatralizzazione della crisi
e del linciaggio: la violenza sempre più incontenibile viene ri-direzionata nell'unico modo
che le società hanno appreso, e cioè l'uccisione unanime di una vittima inerme; nella
ricreazione mimetica della crisi e nel sacrificio finale si tenta di creare quell'effetto
liberatorio – catartico – che la prima uccisione aveva creato e ciò avviene solo se la
raffigurazione della crisi dei doppi e dell'indifferenziazione avviene nel modo giusto;
335G. Mormino Il confronto con l'Altro , cit., p. 227.
336R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 37.
337Ivi., p. 38.
103
chiave ermeneutica della rituale è infine «l'immolazione di una vittima animale o
umana.»338. Particolarmente rivelatori sono quei riti che, non avendo un momento preciso
in cui sono eseguiti, vengono attuati «per allontanare una minaccia di crisi del tutto
immediata»339. Abbracciando totalmente la crisi, «tutto si svolge come se si pensasse che la
disintegrazione simulata potesse evitare la disintegrazione reale»340. Sono così spiegate sia
le trasgressioni eccessive delle feste rituali, sia le 'antifeste' particolarmente austere basate
su azioni di rinuncia: «essa rappresenta la conclusione del parossismo, ovvero il momento
che si trova all'altra estremità del processo che la società ha vissuto la prima volta e che
precede immediatamente la riconciliazione»341.
I riti, attraverso l'evoluzione culturale, assumono le forme più differenti ma la
riduzione ad un'unica radice è esemplificata dal corpo della vittima: essa è vista come il
veicolo che permette la metamorfosi della mimesi negativa (interna alla società) in una
mimesi positiva, la buona mimesi rituale; uno di questi due aspetti può essere evidenziato –
o meno – dal pensiero religioso, che focalizza la sua attenzione ora «[sull']aspetto malefico
dell'operazione sacrificale, la magnetizzazione del cattivo sacro sulla vittima, ora
sull'aspetto benefico, la riconciliazione della comunità»342. Nel primo caso, la vittima viene
considerata come fonte malvagia, fonte di pericolo e di contagio: avremo riti in cui il
sacrificio viene compiuto da uomini addetti ai lavori, come boia e sacerdoti; nel secondo
caso, il linciaggio sarà invece collettivo, come ogni sacrificio che sottolinei l'unità della
comunità. Dando attenzione ad un momento piuttosto che ad un altro, il rito andrà incontro
ad una metamorfosi diversa e, tramite l'opera di méconnaissance, lentamente perderà la
vicinanza con l'origine violenta da cui deriva. Ci troviamo di fronte ad una prospettiva
estremamente coerente ed efficace, non solo in grado di portare le istituzioni sociali ad
un'unica radice, ma anche di rendere conto delle inevitabili evoluzioni e metamorfosi che
essi assumono!
Come precedentemente accennato, il rito permette inoltre lo sviluppo delle
dinamiche interazionali tra i diversi gruppi: la ritualizzazione vittimaria, data la sua
funzione catartica rappresentativa, cerca vittime 'perfette', che permettano cioè il doppio
transfert del sacro, ma dotate delle diverse peculiarità che rendono una vittima tale: oltre ai
difetti fisici, in questa sede è utile pensare alla percezione della vittima come membro
338Ivi, p. 40.
339R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 39.
340Ivi, p. 40.
341G. Mormino, Il confronto con l'Altro, cit., p. 228.
342Ivi., p. 69.
104
esterno non più interno, come doveva essere all'inizio; data la vastità di questo fenomeno si
può ipotizzare che «l'impulso rituale, la ricerca delle vittime, orienti i gruppi verso l'esterno
nel momento stesso in cui l'impulso del divieto rende impossibile ogni interazione vitale tra
i membri del gruppo»343. La spinta data dalla ricerca della vittima come bersaglio esterno,
fa configurare il rito (ma anche il divieto), come fonte di un'articolazione generatrice di una
«interazione sociale tra gruppi originariamente separati, o tra gruppi separati di recente
dalla stessa crisi mimetica, e si può immaginare che tale nuovo tipo di interazione,
presentandosi come una serie di scambi differiti e simbolizzati dal gioco sacrificale [..] si
sostituirà alle interazioni immediate della vita animale»344.
Lo scambio rituale, come il resto della cultura, viene così visto come frutto di
continui linciaggi: l'usura sacrificale può valorizzare l'ambito degli scambi, e cioè l'aspetto
meramente economico, portando dunque ad una istituzionalizzazione dello scambio come
tale, spingendo invece le ritualità violenta ai margini dell'azione; però, «può accadere
tuttavia che la violenza originaria perduri intatta e sfoci in istituzioni come le guerre rituali,
i riti dei cacciatori di teste, o quelle forme di cannibalismo che vertono su catture di
prigionieri»345; abbiamo quindi il solito iter culturale, per cui scambi e guerre rituali non
sono nient'altro che un'unica realtà, che si differenzia in basi al prediligere un fattore (la
violenza sacrificale) piuttosto che un altro (lo scambio commerciale).
4.3 – Domesticazione ed agricoltura
La spinta data dalla ricerca di vittime esterne e sicure costituì anche una feconda via
per le future trasformazioni dei gruppi umani: in primo luogo, essa sembra perfetta per
comprendere la domesticazione animale. Possiamo comprendere la modalità di sviluppo di
questa particolarità se la paragoniamo alla lettura che Girard da della guerra (e del
successivo cannibalismo rituale) presso i Tupinamba 346: in questo caso, come i guerrieri
stessi ammettono, la guerra ha come scopo principale l'approvvigionamento di vittime
sacrificali; essi, venivano integrati nella comunità, diventando membri realmente interni,
conservando però il marchio del loro cruento destino; reso abbastanza interno – ma non
troppo – egli diventava la vittima perfetta, garantendo l'identificazione tanto quanto il
343.R. Girard, Delle cose nascoste, cit.,103.
344Ibid.
345Ivi, p. 104.
346Cfr. R. Girard, La Violenza e il sacro, cit., pp. 380/382.
105
sacrificio richieda (non abbastanza per identificarsi 'empaticamente' con la vittima): il
prigioniero veniva così ucciso e poi mangiato ritualmente.
Questa 'spettacolare' azione, ha in realtà la stessa struttura formale dei riti sacrificali
che terminano con l'immolazione di un animale: quest'ultimi dovettero iniziare a vivere in
rapporto con gli uomini fungendo da riserva utile e sempre fruibile di vittime incapaci di
suscitare vendetta, ma abbastanza simili da poter generare la catarsi rituale; affinchè il
sacrificio funzioni, è chiaro che la vittima debba apparire abbastanza interna al gruppo ed
ecco cosa spinse i primi uomini a far soggiornare gli animali presso le società, a lavorarci
insieme ed a 'umanizzarli' (dunque renderli non sempre meno selvatici): «Penso che si sia
cominciato a trattare gli animali come esseri umani allo scopo di sacrificarli, sostituendo
vittime umane con vittime animali»347. Reso abbastanza interno, ma non troppo, la vittima
animale può facilmente sostituire quella umana, garantendo la scarica unanime
dell'aggressività.
Questo transfert è reso possibile anche dai fenomeni di metamorfosi 'mostruosa' che
la vittima assume agli occhi dei linciatori: la vittima espiatoria veniva spesso
inconsciamente rivestita di caratteri demoniaci e bestiali, e questi tratti sono facilmente
riscontrabili in modo trasfigurato presso gli animali. Il mostruoso, facile da costruire
intorno ad una vittima umana, può facilmente essere intravisto tra gli animali selvatici.
Dobbiamo inoltre ricordare cosa Girard afferma intorno alle vittime 'perfette': come detto in
precedenza, il rito (culminante sovente in forme sacrificali) avendo il ruolo di mettere in
scena il linciaggio fondatore, va alla ricerca di una vittima, la cui 'efficacia' si trova nella
sua capacità di sostituire il ruolo della vittima primigenia; scongiurando l'escalation delle
vendette violente, il sacrificio deve necessariamente essere l'ultimo assassinio, quello cioè
che non ne fa conseguire altri, proprio perchè la comunità è riunita in tale atto: questo
significa che la vittima ideale è la vittima che non fa nascere altra violenza; nessuno deve
prendere la parte della capro espiatorio, pena il malfunzionamento del sacrificio; ogni
sistema culturale, tende così inevitabilmente a selezionare quelle vittime della cui
debolezza si può confidare, e cioè vittime che non hanno voci a favore. Come sappiamo, in
molti dei sui testi Girard parla degli stereotipi della persecuzione 348, o dei segni vittimari,
cioè delle deformità fisiche o sociali (pensiamo ad Edipo, uno straniero che zoppica), tutte
caratteristiche che permettono una facile polarizzazione delle tensioni mimetiche ed
aggressive, come il rituale del pharmakos Ateniese dimostra. I segni vittimari di fatti
347R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 87.
348R. Girard, Il Capro espiatorio, cap. 2.
106
rendono la vittima abbastanza esterna per non permettere un legame empatico con essa,
salvaguardando la buona riuscita del sacrificio. Nel momento in cui comprendiamo che,
attraverso la domesticazione, alcuni animali sono riusciti a divenire in grado di suscitare
quel connubio tra identificazione/mostruosità comprendiamo quanto essi si configurino
come vittima ideale, proprio a causa della loro incapacità di vendetta: la domesticazione si
può quindi comprendere attraverso una 'mentalità religiosa', che scova negli allevamenti dei
sicuri serbatoi di vittime deboli, incapaci di vendicarsi349.
Spiegare la domesticazione in termini economici o programmatici è sciocco, anche
perchè, come nota Girard, «la domesticazione è all'inizio assolutamente anti-economica:
«gli animali addomesticati sono più piccoli di quelli selvatici, si ammalano più facilmente
di una serie di malattie da stress, e la quantità di germi e virus introdotti dagli animali
selvatici nella comunità umana è altissima»350. Solo col tempo, dimostrandosi un'ottima
fonte di risorse, la domesticazione sacrificale dovette diventare 'intensiva' ed alimentare,
secondo una logica sacrificale351. Durante il lungo periodo di 'preparazione sacrificale' –
quel momento che separa la scelta della vittima e la sua immolazione – l'animale può
dimostrare i segni di domesticazione (in base alle sue inclinazioni) ed è questo che può
portare il mutamento da animale solo sacrificale (diremmo quasi allo stato brado) ad
animale in grado di intrattenere rapporti positivi con l'uomo presso cui 'dimora': durante
questo lasso di tempo infatti, si può ipotizzare che l'osservazione dell'utilità dell'animale
abbia fatto in modo che esso venisse addomesticati con fini non solo sacrificali. Il fattore
tempo, legato alla tendenza dell'animale ad essere addomesticato, ha permesso la
comprensione di un possibile vantaggio economico: e come spesso accade «la
domesticazione [..] a poco a poco respinge ai margini la sua origine, [..] ma senza eliminare
349Prendendo seriamente le riflessioni girardiane, possiamo di fatto riflettere sulle modalità attraverso cui
l'uomo è entrato in contatto con quegli animali da lui addomesticati: la violenza si configura come il
primo contatto e la prima necessità che hanno spinto l'uomo ad entrare in 'comunità' (se così possiamo
dire) con alcuni esseri viventi, semplicemente dilaniati per utilità sociale; proprio come oggi, dunque, è
sul piano delle stragi che la domesticazione e l'allevamento esplicano il modo in cui le nostre società
entrano in contatto con gli altri esser senzienti. Infine, la duplice aura di maligno/salvifico alla base del
sacro che s'instaura su una vittima animale, può essere facilmente osservate nei nostri giorni
nell'immagine del roditore usato nei laboratori: storicamente il ratto è il simbolo delle grandi epidemie che
inducono a crisi sociali; tuttavia, fungendo da cavie per esperimenti medici, la loro morte li tramuta in
portatrici di cure e salvezza.
350R. Girard, Origine della cultura., p. 88.
351Interessante vedere come questa ricostruzione colleghi di fatto domesticazione con allevamento intensivo:
Plutarco si chiedeva perchè «non mangiamo di certo leoni e lupi per nostra difesa; al contrario, questi li
lasciamo stare, mentre catturiamo e uccidiamo le bestie innocue e manseute, prive di pungiglioni, e di
denti per morderci» (Cfr. Plutarco, Del mangiar carne, trad. Donatella Magini, Adelphi, Milano 20012011, p. 58); la risposta deriva immediatamente dalla nozione di domesticazione come granaio di vittime
innocenti, la cui efficacia deriva dall'incapacità di vendicarsi.
107
questa volta l'immolazione»352.
Proficua e rivelatrice è l'interpretazione girardiana del rituale scarificale dell'orso
presso gli Ainu: essa è totalmente identica ad altri riti sacrificali del bestiame, ma è utile per
dimostrarne la tetra origine, in quanto rivela come l'animale, reso interno alla società, ha 'la
parte' della vittima, e nel caso dell'orso questo è evidente a causa dell'incapacità di divenire
un animale domestico: «Si può dunque pensare che la domesticazione sia solo un effetto
secondario, un sottoprodotto di una pratica rituale pressoché identica ovunque»353. Sono
quindi le inclinazioni naturali delle specie poste nella società che determinano la possibilità
della domesticazione, la quale si rivela come un secondo passaggio rispetto all'uso di
animali come vittime sacrificali354.
A riprova di quest'origine sacrificale, è il numero esorbitante di sacrifici umani
compiuti ritualmente nelle popolazione prive di animali domestici: «il processo di
sostituzione di esseri umani con animali non aveva avuto luogo»355: ancora una volta, nelle
dinamiche espiatorie non è l'oggetto (la vittima) un'utile fonte per la comprensione rispetto
alle dinamiche sociali: i riti che terminano con il sacrificio umano non sono nient'altro che
semplici varianti dei rituali che immolano un animale innocente. La cosa che conta è la
potenza dell'uccisione, in grado di mantenere un rapporto di continuità tra uomo ed
animale, rendendo possibile una sostituzione; ciò che appare importante nella 'mentalità
primitiva' è la comprensione del nesso causale uccisione–riappacificazione sociale! La
forza che scaturisce dall'ucciso è facilmente paragonabile a quella di un dio che,
dall'esterno, riporta la pace e, come nota Girard, «un animale cacciato [può] venire
simbolicamente equiparato a una divinità sacrificale»356.
Questo permette un'ulteriore riflessione intorno al fenomeno della caccia: essa, nelle
società primitive , è spesso condita con segni rituali; se, grazie alla costituzione del nostro
organismo, possiamo dire che la caccia umana non fu originata da motivi analoghi alla
caccia degli animali carnivori, possiamo ipotizzare che anch'essa sia originata da spinte
sacrificali: «Per capire l'impulso che ha potuto lanciare gli uomini all'inseguimento degli
animali più voluminosi e temibili, perchè si crei il tipo di organizzazione richiesto dalle
352Ivi., p. 93.
353R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 94.
354Interessante notare come tutte queste riflessioni sono investite dall'idea di un'evoluzione culturale, ma
anche di una evoluzione di carattere strettamente darwiniana, nelle quali casualmente alcuni animali
vengono addomesticati altri no, e questo in base al tipo di animale con cui si entra in contatto; lo stesso
sarà nel caso del re, il quale potrà assumere un potere centrale ed assoluto, oppure si presenterà solo come
vittima, utile solo come capro espiatorio e senza alcun tipo di potere.
355R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 88.
356Ivi., p. 91.
108
cacce preistoriche, è necessario e sufficiente ammettere che anche la caccia inizialmente è
un'attività sacrificale»357.
Si può però notare una tensione interna nelle riflessioni di Girard sulla caccia: non
si riesce bene a comprendere dove si possa istituire il discrimine tra una caccia sacrificale
ed una caccia che dovette precedere la ripetizione rituale del linciaggio; nelle osservazioni
etologiche, Girard definiva la caccia come una di quelle attività che acuivano la violenza in
seno ai gruppi pre-umani; sembra possibile ipotizzare una soluzione: dato che la violenza
unanime – e la successiva paura della crisi – genera diverse modalità comportamentali,
diverse da quelle istintuali, si può supporre che la caccia con fini sacrificali sia stata una
caccia sviluppatasi successivamente, mantenendo però le forme della caccia dei gruppi preumani, laddove essa fungeva da sfogo dell'aggressività, non ancora con forme riconducibili
a quelle del capro espiatorio.
Proprio come per l'addomesticamento degli animali, anche l'agricoltura sembra
trovare la sua origine nel meccanismo sacrificale: anche più della domesticazione, la
scommessa insita nel processo dell'agricoltura, (rinuncia a del cibo sicuro ed immediato per
la speranza di un possibile cibo futuro) si presenta da un lato come una scelta azzardata, e
dall'altro sembra presupporre una capacità razionale notevole; anche la semina è
inizialmente un'azione anti-economica! Non dobbiamo dare per scontato che il legame
seme piantato/pianta futura sia una dinamica di semplice comprensione, basti solo pensare
al lasso di tempo che intercorre tra un'azione ed un'altra; ma dunque «che cos'è stato a dare
agli esseri umani l'idea di mettere dei semi sottoterra? Li hanno sepolti sperando che
risorgessero, come la comunità era rinata grazie al sacrificio»358. Prova di questo sembra
essere l'intimo legame che unisce riti sacrificali con l'agricoltura, oltre che l'interpretazione
rituale che molte società danno al ciclo vegetativo e stagionale: nascita e morte sono i due
poli fondamentali; lungi dall'essere un'interpretazione metaforica, questa esplicazione è la
stessa che ogni individuo apprende all'interno della scuola rituale. Il ciclo sepoltura e
speranza della resurrezione, imparato nell'ambito rituale, appare una spiegazione sensata
per la mentalità primitiva, certamente superiore a chi esplichi la semina come una azione
che sottintende una comprensione dei nessi biologici.
Fu dunque proprio grazie alla ripetizione rituale ed alla mentalità 'sacrificale' che si
arrivò a «incoraggiare (e quindi selezionare) questo comportamento (l'agricoltura) che non
357R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 97.
358R Girard, Origine della cultura, cit., p. 91.
109
offriva ricompense di adattamento migliori di quelle già ottenute nelle economie di cacciaraccolta o di pastorizia»359. I gruppi di cacciatori-raccoglitori, iniziarono a stanziarsi
stabilmente intorno ai luoghi sacri, la cui forza d'attrazione venne resa possibile dalla
potenza sacra che ogni immolazione doveva perpetuare: ben presto, tale luogo diveniva il
centro delle attività rituali, sacre e simboliche, come «seppellire semi insieme agli essere
umani, per esempio»360: fu seguendo questa strada che la logica dell'agricoltura e della
domesticazione dovette radicarsi, rendendo i gruppi di cacciatori e raccoglitori in grado di
approvvigionarsi maggiormente e quindi di stabilirsi. Possiamo quindi dire che tutti i
progressi portati dalla macchina sacrificale sembrano dare adito alla sua definizione come
'meccanismo che genera conoscenza'361 in quanto lo spazio rituale è «uno spazio dove la
manipolazione di oggetti e di segni acquista un valore esplorativo e comunicativo»362. Dallo
spazio delle prime tombe che l'uomo vide ed imparò a maneggiare in modo sempre più
abile le sue abilità cerebrali che, insieme alla società in cui viveva, venivano continuamente
accresciute dal meccanismo vittimario: «la tomba è al limite il primo e l'unico simbolo
culturale»363.
4.4 – Regalità
La spiegazione girardiana avanza imperterrita in una serie di istituzioni complesse e
particolari: in primo luogo possiamo pensare alla concezione della 'giustizia' che,
muovendosi in modo coerente con le sue riflessioni, viene presenta come una potenza in
grado di mettere fine all'escalation della vendetta 364; interessante anche la sua sottile
notazione intorno alla figura del fabbro la cui marginalità rispetto alla società viene
esplicata grazie al ruolo di fomentatore di possibili violenze. Molto interessante appare
invece la dimostrazione dell'origine sacrificale della monarchia. Le osservazioni sulle
monarchie africane permettono una dimostrazione del fatto che «come ogni istituzione
umana la regalità è innanzitutto la volontà di riprodurre il meccanismo riconciliatore»365.
Ne La Violenza e il sacro Girard da una chiara lettura di queste particolari e complesse
monarchie: durante la cerimonia d'intronizzazione il re è obbligato a compiere una serie di
atti solitamente vietati; si osservano rapporti incestuosi (reali o teatralizzati), atti violenti,
banchetti di cibi proibiti! Queste trasgressioni non sono altro che mezzi rituali per fare del
359Ivi., 93.
360R. Girard, Origine della cultura, cit., p. 93.
361Ivi, p. 94.
362Ibid.
363R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 109.
364«L'ultima parola della vendetta» (Cfr. La Violenza e il sacro, p. 32).
365R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 72.
110
re la perfetta vittima: «se si fa del re un trasgressore [è per] castigarlo con la massima
severità»366. Se le accuse paranoiche che avevano suscitato il primo linciaggio erano
strumentali per giustificare l'uccisione della vittima, ora esse sono incarnate dal re e
confermano la sua colpevolezza agli occhi del popolo: non sono che deterrenti per
permettere una scarica aggressiva 'giustificata' contro tale monarca. «Le regole di quella
che chiamiamo l' «intronizzazione regale» sono le stesse del sacrificio; mirano a fare del re
una vittima capace di incanalare l'antagonismo mimetico» 367. Reso un meritevole
colpevole, ben presto il re diviene il centro degli impulsi violenti, presentandosi come
quello che fu in origine, e cioè la vittima della violenza unanime.
Ma la regalità è anche e soprattutto potere e sovranità: secondo Girard, l'enorme
potere risiede nelle mani del monarca, è il frutto del retaggio del potere 'sovrumano e
terrificante'368 che la folla vede nella vittima; come questo potere diviene durevole?
Interessante vedere che, proprio come nel caso della domesticazione, anche un semplice
ritardo o rinvio sacrificale può incidere in modo notevole: «è necessario e sufficiente che la
vittima approfitti di un eventuale rinvio dell'immolazione per trasformare in potere effettivo
la venerazione atterrita che le portano i suoi fedeli» 369. Nel semplice fluire del tempo, più il
re riesce a non essere sacrificato, più può usare la sua 'aura sacra' per influenzare la
comunità, sempre di più, finché «deve arrivare il momento in cui questa influenza è così
effettiva, la sottomissione della comunità così servile, che il sacrificio reale del monarca
diviene di fatto impossibile se non ancora impensabile» 370. Il meccanismo di usura
sacrificale funziona legato alla temporalità: più ci si allontana dall'origine violenta, più il
linciaggio diventa di second'ordine e marginale rispetto all'istituzione vera e propria: il
misconoscimento e l'efficacia di tale forma politica dovette condurre alla forma monarchica
moderna. Ma questa non è l'unica strada che tale istituzione può percorrere: la contingenza
e le biforcazioni istituzionali permettono di privilegiare diversi fattori nelle istituzioni; se la
regalità può radicare il suo potere, altrove fu più efficace un'altra forma: dove la vittima
non riesce a 'depositare' il suo potere, sarà la realtà sacrificale quella privilegiata dal
pensiero religioso, per cui «La potenza religiosa della vittima si ridurrà a poco a poco a
privilegi insignificanti»371.
Definire le figure imponenti delle monarchia assolute originate da un meccanismo
366R. Girard, La Violenza e il sacro, cit., p. 152.
367R. Girard, Delle cose nascoste, cit. p. 72.
368Ivi, p. 74.
369Ibid.
370Ivi., p. 72.
371Ivi., p. 75.
111
sacrificale, sembra una spiegazione molto fantasiosa, ma basta soffermarsi poco per
sciogliere le diverse difficoltà; una delle celebri frasi che succedevano alla morte dei re –
“Il re è morto, viva il re” – con Girard si può guardare con sospetto: che sia
un'esemplificazione del meccanismo sacrificale, che vede nella figura del monarca morto
un essere da glorificare in quanto è con la sua morte che riporta la pace? Altro interessante
esempio è l'aura sacra della monarchia, fattore molto diffuso. Dire che la monarchia è
sacra non vuol dire altro che perpetuare il misconoscimento della sua origine: al re non si
aggiunge una divinità, ma si può tranquillamente supporre che avvenga proprio il contrario,
per cui la sacralità della vittima sia il primo passo, a cui si lega immediatamente la regalità,
la quale potrà (o meno) diventare una carica istituzionale. Interessante osservare la
differenza tra il monarca e la divinità strettamente intesa: quando un sacrificio viene
compiuto per una divinità, viene accentuato l'aspetto del sacro già espulso dalla società, ed
ogni sacrificio si produrrà come un sacrificio che nutre la divinità: «esso in genere evolverà
nell'idea di una ripetizione affievolita, destinata a produrre del sacro, ma in più debole
quantità, e che sarà anch'esso espulso, andando ad accrescere e nutrire la divinità. Da ciò
deriva l'idea del sacrificio come offerta alla potenza sacra»372. Ecco perchè in origine è
necessario che rituale monarchico e divino sia necessariamente distinti, per cui se spesso si
dice che il re è un dio vivente, deve essere ricordato, con Girard, che il Dio è una specie di
«re morto o per lo meno “assente” »373.
372R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 77.
373Ivi, p. 79.
112
Conclusione
Secondo la teoria di Girard, l'uomo conquista la sua attuale immagine attraverso la
ripetizione rituale di un primo linciaggio fondatore, generato dagli antagonismi mimetici; il
ritorno della pace – risultato dell'assassinio di una vittima – dovette generare uno stupore
eccezionale, nuovo, non istintuale, permettendo la creazione di un terreno fertile sul quale
l'edificio culturale umano poté esser innalzato. L'ipotesi di Girard, muovendo dalla fiducia
che l'autore ripone nella verità della teoria mimetica è estremamente suggestiva, nonostante
presenti alcune lacune: il mio lavoro si è appunto focalizzato su alcune di esse, nel
tentativo di mettere alla prova e, parallelamente, esplicitare alcuni punti non
completamente tematizzati.
Girard tratteggia grossolanamente un percorso, tenta di ritrarre i nostri lontani
antenati nel loro passato ancestrale, ricercandone i punti di forza e di debolezza: la
presenza di un cervello molto sviluppato necessita un lungo periodo di svezzamento e di
conseguenza di un duraturo legame madre-figlio; alla stregua della maggior parte dei
primati a noi più simili, possiamo legittimamente ipotizzare l'esistenza di piccoli gruppi,
costituito da ambo i sessi, in cui gli esemplari maschili detenevano una superiorità basata
prevalentemente – ma non esclusivamente – sulla forza; pensando in generale agli animali
sociali, il primo problema che si staglia all'orizzonte, forse il più grande – una volta
'domato' l'ambiente esterno – è il controllo della violenza, la cui forza distruttiva ha un
andamento centripeto: è infatti dalle dinamiche sociali che l'evoluzione culturale deve aver
preso forma.
Qui subentra il grande contributo dell'etologia. Condivido totalmente la
preoccupazione dello stesso autore nei confronti dei comportamenti animali, fonti di molta
verità riguardanti l'uomo, ma allo stesso tempo considero le osservazioni dai lui riportate
non molto sostanziose; nonostante Girard affronti il tema in modo superficiale – anche a
causa di una scarsità di opere, rispetto ad oggi – non possiamo comunque negare la validità
delle sue ipotesi; soffermandomi maggiormente – ma non unicamente – sugli studi
primatologici (da opere di J. Goodall e di F. de Waal) ho potuto saggiare e confrontare le
tesi girardiane: moltissimi autori riconoscono un ruolo fondamentale all'imitazione, sia
come fonte di apprendimento per la mera sopravvivenza, sia come mezzo in grado di
uniformare l'esemplare al resto del branco: nel terreno dei mammiferi 'superiori'
l'importanza dell'imitazione viene considerata fondamentale, ed oggi – a seguito della
scoperta di neuroni specchio in alcuni primati – l'attenzione al tema sta aumentando; da tali
113
considerazioni, sono così passato alle dinamiche conflittuali: questo binomio, assoluta
novità ricavata dalle opere di Girard, mi ha permesso una peculiare visione sia della
violenza sia dei rapporti sociali nei sistemi gerarchici, permettendo di verificare l'immagine
dell'uomo primitivo che l'autore del mimetismo ci presenta; scolaro di Lorenz, Girard
determina la centralità dei dominance patterns come forma delle società animali: sistemi
sociali gerarchici, basati sulla forza (del dominante) e sulla paura (dei dominati) 374 : le
realtà sociali animali riescono a funzionare proprio perché sono favorite le imitazioni
innocue e pedagogiche, ma sono vietate quelle potenzialmente conflittuali, in quanto il
maschio (od il gruppo) di rango più elevato ne detiene la proprietà; nel caso dei bonobo e
degli scimpanzé – sia in natura che in cattività – sono documentate vere e proprie 'regole di
precedenza e supremazia' , soprattutto nel caso dell'accoppiamento o durante i pasti: i
maschi di rango elevato, raggiungendo i compagni intenti a mangiare, esibiscono la loro
forza per poi appropriarsi dell'alimento che più li aggrada, anche sottraendolo a chi lo
detiene; lo stesso vale per l'accoppiamento: è il rango che determina la precedenza,
eliminando il più possibile la lotta. Tutte queste 'regole sociali' contribuiscono a dissuadere
il conflitto; questo non vuol dire afferma l'inesistenza della dimensione aggressiva: è su di
essa che si basa la gerarchia, ed è proprio quando lo status quo viene minacciato da
atteggiamenti che invadono le 'proprietà' del maschio di rango elevato che le tensioni e i
conflitti aumentano di livello; l'osservazione dei primati ci permette una comprensione
complessiva delle diverse possibilità di 'ritorno alla pace' (ordine) in seguito ad uno
scontro; quando – ad esempio – un giovane eccede il suo rango, può essere rimesso al suo
posto da una semplice carica di esibizione dell'esemplare alfa, la cui ferocia (dimostrativa)
genera una paura (e una conseguente rinuncia dei propri desideri) da parte
dell'insubordinato; se motivato, però, il giovane risponde alla minaccia aggressiva del
maschio dominante, inaugurando un periodo di tensioni e di manifestazioni di potenza
rituali: è chiaro che qui abbiamo di fronte delle dinamiche 'mimetiche' e conflittuali molto
simili a quelle osservate negli uomini. I maschi che si sfidano non perdono occasione per
minacciare il rivale con cariche dimostrative sempre più pericolose e spettacolari; la
tensione aumenta notevolmente, ed ai primi 'rituali' di minaccia reciproca, segue lo scontro
vero e proprio: raramente, però, questo si conclude con la morte dei duellanti e ciò grazie ai
complessi segnali d'inibizione e di sottomissione, che determinano la fine repentina dello
374Nel caso degli scimpanzé e dei bonobo si è spesso parlato di una vera e propria vita politica
'machiavellica': bisogna ancora una volta notare che, proprio come noi, anche tali primati hanno subito
una notevole evoluzione, e possiamo identificare in questi 'giochi di corte' dei primati un ulteriore punto
in comune con tali affascinanti esseri: ma stando così le cose, bisogna tentare di spiegare l'evoluzione di
questi atteggiamenti (proprio come il caso dell'empatia e dell'altruismo).
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scontro e il ritorno ad una gerarchia precisa. Tutte queste osservazioni etologiche,
permettono una più limpida riflessione intorno all'immagine che Girard da dell'uomo:
affermare – senza molte prove – che l'uomo si configura come un assassino incapace di
fermare la sua violenza, potrebbe far sorgere un dubbio sulla credibilità di tale ipotesi; la
particolarità dell'uomo è l'ipermimetismo (indotto da una maggior massa cerebrale) fattore
che induce ad una maggiore violenza all'interno dei gruppi pre-umani, nei quali l'intensità
del desiderio fa crollare la paura derivante dalla dimostrazione di forza: l'azione violenta
non fa altro che determinare una risposta altrettanto violenta; ecco il puro elemento
girardiano, il quale garantisce la coerenza del binomio crisi sociale–capro espiatorio:
quando il mimetismo è spasmodico, la violenza trova un libero sfogo difficilmente
arrestabile! L'ipermimetismo, in primis, non fa altro che innescare delle dinamiche
maggiormente violente, proprio a causa della continua imitazione di azioni sanguinarie.
Inoltre, comprendiamo che nel momento in cui – in un gruppo di scimpanzé – l'imitazione
superasse una soglia normale, i segnali inibitori potrebbero non avere effetto, conducendo
a veri e propri omicidi (alcuni fonti registrano casi del genere); analogamente, nel caso dei
gruppi pre-umani, un'esponenziale brama desiderativa conduce a scontri sempre più
cruenti, che degenerano in omicidio. Questa fine cruenta è acuita – nel caso degli uomini –
da un'insieme di fattori confluenti: in primo luogo, come sappiamo l'ipermimetismo, che
genera un'imitazione spietata degli atteggiamenti aggressivi; la violenza non fa altro che
chiamare se stessa, producendo un continum di azioni violente, inducendo anche a forti
scariche di adrenalina nel sangue, conducendo sia al crollo dei livelli inibitori, sia il venir
meno della paura; infine l'avvento delle armi artificiali – nei confronti dei quali mancano
segnali d'inibizione e capacità di controllo – rende estremamente più facile un assassinio.
Sia Girard che Lorenz giungono alla medesima conclusione: l'uomo dovette dotarsi di
nuovi sistemi gerarchici, nuove forme per controllare questa violenza: in una parola, di un
armatura culturale. L'ipotesi del capro espiatorio quindi, appare ancor quasi teleologica,
dotata cioè di un'aria di necessità, ma può mantenere ancora un'aurea fantasiosa: una
comunità che lincia un singolo, è davvero possibile? Può davvero tutto questo generare
della 'pace'? Sempre l'etologia, garantisce credibilità a tutto ciò: Lorenz dimostra, senza
ombra di dubbio, l'esistenza di un legame indissolubile frutto di un'aggressione comune a
danni di terzi; nel momento in cui delle forti tensioni sorgono all'interno di una coppia – ad
esempio di Oche – è affascinante osservare la ri-direzione comune dell'attacco ai danni di
una povera sfortunata che vaga nelle vicinanze: molti studiosi di Girard, parlano – in questi
casi – di forme istintuali di capro espiatorio! La ri-direzione delle tendenze aggressive che,
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nate in un gruppo, vengono scaricate all'esterno, è definita da Lorenz la via che
l'evoluzione ha scovato per convertire le scariche violente all'esterno dei membri più vicini,
garantendo una buona pace sociale ed una scarica 'buona' di aggressività; siamo di fronte,
dunque, ad un modulo comportamentale comune negli esseri viventi, basato su di una sorta
di istinto 'vittimario', che viene ridisegnato dagli umani per delle nuove esigenze. Questo
'rimedio sovrano' viene osservato da Lorenz in moltissimi uccelli e in diversi pesci;
secondo Girard, una notevole capacità cerebrale permette una dimensione maggiormente
comunitaria, per cui la partecipazione al linciaggio assume una dimensione collettiva:
l'ipermimetismo umano fornisce quindi l'aspetto comunitario; molti esempi del genere si
trovano inoltre nei resoconti dei primatologi, soprattutto nel caso dei bonobo: quando una
madre percepisce che il figlio è in pericolo, a causa di un'eccessiva vicinanza di qualche
giovanotto curioso, è sconvolgente osservare la metamorfosi di una comunità di questi
pacifici esseri, riuniti ed urlanti alla caccia di un solo individuo; tutto questo contribuisce a
dare spessore alle intuizioni geniali enunciate in Delle cose nascoste. Mimetismo, protoforme di capri espiatori istintivi, grandi azioni violente collettive: l'etologia comparata
sembra dare maggior credito alle potenti intuizioni di Girard; con questo non penso sia
legittimo dipingere la natura come 'rossa di zanne e artigli' come diceva il poeta Alfred
Tennyson: la volontà di dissuadere i conflitti è comune a noi ed ai primati, ma è nei rari
momenti di violenza e crisi che si generano, i mutamenti e, nel caso dell'uomo, la crisi
diviene opportunità, apertura per un nuovo mondo culturale.
Il secondo aspetto valutato dal mio lavoro, è quello evolutivo; può detta ipotesi
ritenersi coerente con l'approccio darwiniano? In primo luogo, molti studiosi hanno messo
a confronto entrambe le teorie, osservando diverse somiglianze metodologiche e formali: la
teoria mimetica viene spesso definita una teoria darwiniana della cultura, ed è seguendo
tale atteggiamento che Girard definisce il linguaggio, il rito, il divieto e altre forme
culturali (quali l'addomesticamento animale, l'agricoltura, la monarchia ecc) come frutti
generati da un unico grande meccanismo, quello vittimario. Osservando però l'ipotesi
dell'ominizzazione, notiamo che il linciaggio unanime, oltre che fonte di tutte le forme
culturali, genera una nuova spinta evolutiva, presentandosi come il fattore che permise la
sopravvivenza del genere umano: se così non fosse, le pressioni determinate dalle violenze
interne avrebbero dilaniato i diversi gruppi dei primati ipermimetici; nel momento in cui
comprendiamo che l'attuazione e la ritualizzazione del linciaggio – sotto forma di sacrificio
rituale – garantirono ai gruppi umani il controllo delle eccessive dosi di violenza che
116
dominano l'uomo, comprendiamo perché la 'Cultura' (ancora un tutt'uno con la religione)
viene definita come uno strumento di aumento della fitness; in tali termini il meccanismo
non può essere definito teleologico, ma puramente meccanico, e cioè un modulo
comportamentale la cui attuazione-ripetizione casuale ha determinato il successo di alcuni
gruppi, mentre altri venivano scomparendo a causa dell'eccessiva violenza; lo studio
'archeologico-culturale' ci permette d'identificare un atteggiamento rituale come un modulo
comportamentale particolarmente efficace; ecco perchè Girard si affianca al dibattito
moderno intorno all'evoluzionismo, parlando di selezione di gruppo: solo quei gruppi in
grado di ritualizzare il linciaggio sono riusciti a sopravvivere, perchè si sono dotati di
un'armatura culturale, che garantisse il buon uso della violenza.
Pensando all'ipotesi girardiana in termini evoluzionistici, l'aspetto più interessante
emerge dal confronto con la teoria dei sistemi complessi; sotto la guida di Edgar Morin,
possiamo pensare alle società umane in termini di un 'sistema complesso', cioè un sistema
costituito da diversi elementi che interagiscono tra loro, in un dato ambiente esterno; da tali
interazioni, si genera una determinata dose di 'rumore', di entropia, cioè di disordine, sotto
la cui pressione i sistemi artificiali mostrano il loro limite: la grandezza dei sistemi viventi,
invece, è di riuscire a generare una nuova organizzazione, un nuovo ordine muovendo da
un iniziale disordine, potenzialmente fatale! Non è detto che questo avvenga: i sistemi
incapaci di gestire dosi sempre maggiori di disordine collassano; un sistema vivente, per
poter sopravvivere all'inevitabile disordine che egli stesso produce, deve riuscire a
riorganizzare gli elementi che lo compongono, in modo da generare un nuovo ordine in
grado di gestire dosi sempre massicce di rumore, di errore: in questa direzione,
comprendiamo come la nuova organizzazione presenti una maggiore complessità, generata
da tale crisi. Secondo questa teoria, due sono i principi che si possono applicare ai sistemi
viventi complessi (definiti sistemi auto-organizzatori): si parla di order from noise e
complexity from noise. Questa ricostruzione sembra calzare a pennello all'ipotesi teorizzata
da Girard: i gruppo sociali umani, a causa dell'ipermimetismo, generano crisi mimetiche
potenzialmente fatali per la sopravvivenza; come sappiamo, ogni crisi generata dalla
mimesi è una crisi che fa crollare le differenze e le gerarchie (i principi d'ordine). Da tale
momenti di crisi–disordine non c'è altra strada che il crollo del gruppo, a meno che gli
elementi interni al sistema riescano, autonomamente, a generare una soluzione che
permetta il superamento della crisi, costituendo un nuovo ordine stabile: come dice Girard,
solo determinati gruppi riescono ad attuare il linciaggio collettivo, cioè riescono a gestire le
scariche violente mimetiche, polarizzandole su di un unico obiettivo il cui assassinio
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determina un nuovo ordine (culturale), che è a tutti gli effetti nato da un disordine. Non è
tutto: il nuovo ordine culturale, si presenta necessariamente più complesso di quello
precedente, garantendo una fonte inesauribile di complessità: è ciò che chiamiamo Cultura!
La teoria di Girard, vista in quest'ottica, riesce a spiegare il cammino dell'uomo, che,
nonostante le tante atrocità compiute nella storia, è riuscito a raggiungere delle vette
intellettuali, artistico-produttive davvero eccezionali; questo grazie alla Cultura, un
principio d'organizzazione, nato dal disordine ed in grado di garantire una complessità
apparentemente inesauribile: tutto questo, senza appellarsi (almeno in queste opere) ad
alcuna entità superiore, ma semplicemente a considerazioni contingenti e sociali.
L'interesse che quest'ipotesi può dimostrare è facilmente comprensibile: non resta altro che
completare sempre più il quadro ancestrale, nel tentativo di trovare conferme o smentite.
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Risorse in rete
Paper redatti dai diversi simposi dedicati al rapporto fra Girard e Darwin: sito di
riferimento: http://www.thinkingthehuman.org/
http://www.imitatio.org/uploads/tx_rtgfiles/Rene_Girard_Fudamantal_Anthropo.pdf
http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Naturalizing%20Mimetic
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http://www.imitatio.org/uploads/tx_rtgfiles/Pre-symposium_Briefing.pdf
http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Thinking%20the%20human.pdf
http://www.imitatio.org/thinkingthehuman/Papers_files/Atlandraft.pdf
http://www. science.societe.free.fr/documents/pdf/STS5_Dupuy_et_Dumouchel.pdf
Altre:
http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/li-futuro-dei-neuroni-specchio
http://cultura-nuova.blogspot.it/2012/09/evoluzione-intervista-ian-tattersall.html
http://www.lescienze.it/news/2013/02/14/news/tradimento_e_nella_societ_dei_babbuini1506763/
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http://www.lescienze.it/news/2008/10/13/news/il_bonobo_a_caccia_di_primati-578065/
http://www.australiangirardseminar.org/?p=149
http://www.vitellaro.it/silvio/aggiornamento/Compless_CIDI/Compless_gen.doc
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