Drammaturgia musicale 3
calendario e argomenti delle lezioni
(aula III, giovedì 14.30-17.30, venerdì 10.30-13.30)
settembre 2016
giovedì 29
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14.30-17.30
I. INTRODUZIONE METODOLOGICA
1. Vero o verosimile?
La musica può ricreare la realtà, o solamente imitarla? GUSTAV MAHLER,
nel Tamboursg’sell (dal Knaben Wunderhorn, 1901) sonorizza uno spezzone di realtà attraverso il ritmo del tamburo e il colore degli ottoni, presentando una scena cruda dove campeggia un patibolo che attende un
tamburino. Sono altrettanti elementi che giocano un ruolo importante nel
neonato verismo musicale, dove regna la musica di carattere con forte carattere imitativo. Ad esempio in Mala vita di Umberto Giordano (1892),
scritta peraltro a distanza di otto mesi dal trionfo romano di Cavalleria
(1890) della quale segue il modello, specialmente nell’idea di musica di
carattere – che sia color locale partenopeo, come la festa a Piedigrotta
all’inizio dell’atto III, oppure legata alla ‘fede’, come nel voto pronunciato
dal protagonista di sposare una «donna perduta» strappandola al «peccato». Emergono così, e s’impongono i valori tradizionali di una religiosità
di cartapesta, che raccolgono espressioni del sentimento, le compulsano e
le sparano sul palcoscenico.
2. Lo stile della ‘realtà’
Cavalleria rusticana è stata eletta dal pubblico e dalla critica, a ragione,
opera-capostipite del ‘verismo’ italiano. Fin dal preludio appaiono con
chiarezza i segni di una maniera diversa, se non nuova certo molto rinnovata di fare teatro. La struttura del brano, infatti, segue la regola del genere pot-pourri, anticipando la confessione di Santuzza nella prima parte
e il seguito del duetto fra Santuzza e Turiddu nella seconda, ma pone al
centro di una progressione diatonica un inserto di musica in scena, ch’è
anche pezzo di carattere, e serenata. L’inserto spezza la continuità per far
spazio al tempo presente, e a un’informazione drammatica: il tenore non
è andato a ccomperare il vino a Francofonte, ma è rimasto a cantare la
serenata alla donna amata. L’intera articolazione del brano può anche essere letta come un ciclo narrativo, e il suo riverbero nell’azione come una
ripresa di questa struttura con inversioni fra le sezioni. Il testo dell’ottava
di endecasillabi in dialetto siciliano non garantisce solamente uno scorcio
di esotismo mediterraneo, ma imbocca la strada di una sensualità esasperata che congiunge eros e morte.
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3. Il verismo irrompe nel teatri europei
Uno sguardo alla pagina web del corso e alle informazioni che offre: le
cronologie teatrali della fin de siècle mostrano che il verismo non è un ca-
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so isolato nel sistema del rinnovamento, vero o presunto, delle scene liriche, anche in relazione alle esperienze del naturalismo letterario francese
(le opere di Alfred Bruneau su soggetto e/o libretto di Emile Zola) visto
che proietta alcune modalità espressive anche su correnti apparentemente
distanti, come l’espressionismo, che è un passo avanti verso una realtà imitata nell’arte, trattando l’interiorità dei personaggi. Persino in capolavori come Wozzeck (1921-25), e prima in Salome (1905) e/o Elektra
(1909), al di là della sintassi del tragico (dunque, queste ultime, opere coturnate), le modalità espressive del verismo nel decennio d’oro 1890-1899
(forte tensione vocale, ossessioni psicologiche, ambiente degenerato e di
basso livello sociale, tradimenti ecc.) confluiscono in una sorta di «opera
internazionale», divenendo, in armonia con un nuovo concetto di mise en
scène, parte del linguaggio cosmopolita di allora. Un’altra relazione emergente è quella con il teatro di prima donna, visto che interpreti come
Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse hanno prestato il loro talento a Sardou e Verga per lavori che hanno dato vita ad alcuni capolavori più o
meno legati al verismo.
4. Gl’ingredienti del verismo: intertestualità e modelli
a. Il metateatro, procedimento di per sé sofisticato, è nelle corde di uno
dei titoli maggiori come Pagliacci (1892), e di lì traccia archi insospettati verso tutt’altre tendenze estetiche, visto che Ariadne auf Naxos
(1916) s’inscrive nel filone ‘oggettivistico’ del teatro di parola e musicale in area austro-tedesca;
b. sui segni scenici: la chiesa simboleggia il peccato, ed è immagine anche
musicale (lo stile a ‘corale’ del peludio di Cavalleria, la cadenza paraliturgica);
c. anche in questo ambito l’intertestualità gioca un ruolo importante: se il
brindisi, topos per ecellenza della musica di scena, gioca un ruolo fondamentale nel finale di Cavalleria, vale la pena di ripensare a quello intonato da Jago nell’atto I di Otello (1887), dove si tesse la trama che
porterà alla tragedia; dal canto suo Leoncavallo, nella frase tematica di
Canio «Ridi, pagliaccio», punto culminante dell’assolo «Vesti la giubba» punta anche lui sul ‘moro’, citando l’«A terra, e piangi!» che introduce il concertato dell’atto III, e così innestando lo scioglimento
drammatico dell’ultimo atto: la gelosia invade l’animo di entrambi.
5. Uno sguardo ai modelli
Insieme a Otello, cui vanno gravidi riferimenti musicali, è Carmen
(1875), e il suo atto quarto in particolare, il modello dei drammi veristi,
nonostante la distanza stilistica e di genere. Feste tragiche sono anche al
eentro dell’azione di cav-pag, insieme sin dal 1893, anch’esse coronati da
duelli e delitti mortali. L’impiego della musica in scena nel duetto finale
fra la protagonista e Don José ha inoltre fornito ai ‘veristi’ il più ampio
modello per immettere più ‘realtà’ sulle scene.
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2a. ancora sullo «stile della ‘realtà’»
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L’analisi del preludio di come ciclo formale in funzione narrativa, e in
rapporto all’azione dell’opera (dall’ultima sezione della «scena e romanza» di Santuzza al «duetto» e al «seguito del duetto fra Santuzza e Turiddu, con l’inserto dello stornello in Fa maggiore di Lola, il tutto riflesso
nell’articolazione del preludio, con la siciliana in Fa minore interpolata.
La forma della ripresa ciclica (e se ne veda un esempio intrigante nel finale di Suor Angelica) è al servizio di una maggior concentrazione drammatica degli eventi, tradotta spesso nella preferenza riservata in questo periodo dai veristi e dagli altri per l’atto unico. Nel monologo di Michele
nel Tabarro, pannello iniziale del Trittico (1918) di Puccini, e in quello di
Luigi si colgono scorci di critica sociale autentica, e nell’intera opera
l’ambiente fluviale diviene protagonista di una Parigi esotica, come la Sicilia di Mascagni.
II. TEMI E TITOLI
1. Opera, ‘verismo’ e sensualità.
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Un cardine della poetica ‘verista’ è la messa in ribalta del sentimento amoroso nella sua declinazione più schiettamente erotica, un dato pressoché sconosciuto ai personaggi verdiani fino a Aida (1871) e a Otello, e al
teatro francese prima di Carmen e dei capolavori successivi di Jules Massenet, da Manon (1884) a Thaïs (1892) ecc., ma ben noto alla protagonista di Louise di Gustave Charpentier, roman musical (1900), dove la sartina, cugina di Mimì nella Bohème di Puccini (1896) ed espressione della
classe ouvrière parigina del tempo, innalza un peana al rapporto amoroso
(«Depuis le jour où je me suis donnée»).
La sensualità è elemento dominante anche nel Tabarro, e si veda il duetto
(«Oh Luigi, Luigi») che spinge gli amanti a punte acute di parossismo,
degne di figurare accanto a quelle di Wozzeck nella scena dello stagno,
anche se con motivazioni diverse e stili differenti.
2. Il repertorio ‘verista’ italiano.
Uno sguardo alle tematiche trattate nelle opere dei bassifondi, e catalogate egregiamente da STEFANO SCARDOVI, conferma la natura effimera del
fenomeno verista in termini di vitalità qualitativa (conseguita da pochi titoli), ma mostra anche come il modello, ramificato per realtà regionali,
abbia fornito materia sovrabbondante ai circuiti minori (in parentela con
il genere minore dell’operetta di cui è la faccia ‘tragica’), per ritrarre di
volta in volta la Sicilia della Mala Pasqua di Gastaldon (1890) e proseguire cronologicamente fino all’appennino toscano dell’Ave Maria di Allegra
(1934), passando per Napoli, Venezia (A Cannaregio, 1893) e altri luoghi. L’eso-tismo come rappresentazione della realtà, colto da Dahlhaus
come tratto distintivo di un ‘verismo’ possibile nel teatro musicale, caratterizza questo fermento.
3. Ambivalenze formali.
L’atto unico è una forma congeniale alle vicende trattate di preferenza dai
veristi, ma calza a pennello pure a capolavori di tutt’altro ceppo, ad esempio Salome ed Elektra. L’intermezzo (o entr’acte) vi svolge la funzione
di incanalare la tensione e tradurre in un’immagine sonora situazioni in
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bilico fra realtà interiorità, come accade anche in opere affatto veriste
quali Thaïs (1894, 1898 n.v.) – e in questo caso la riflessione della mitica
protagonista, sacerdotessa di Venere ad Alessandria d’Egitto, che la porta sulla via della santità ma al suono di una delle musiche più sensuali
d’ogni tempo. Il Nocturne che separa i due brevissimi atti della Navarraise (1894) rafforza l’impressione che ebbe la critica di allora, che ribattezzò l’opera di Massenet Cavalleria española, o Calvélleria rusticana (in
riferimento a Emma Calvé, fra le maggiori cantanti attrici del tempo). In
effetti un calco strutturale del capolavoro di Mascagni è palese, ma anche
per Massenet si tratta di una puntata dentro un ‘genere’ che resterà isolata. Dall’analisi del finale che si chiude con le risate isteriche di Anita, fra
le ultime scene di pazzia dell’ottocento, risalta la raffinata tecnica compositiva dell’autore, e l’abilità di condurre l’azione in orchestra affatto familiare a un estroverso compositore verista, conferendo peraltro alle voci un
grande risalto in momenti di sonorità rarefatte, contrapposte a esplosioni
sonore di grande potenza (un procedimento retorico comune ai titoli del
naturalismo).
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4. Il metateatro.
Il problema va affrontato a partire da definizioni del fenomeno di più
ampio respiro, come quella fornita da PATRICE PAVIS nel suo Dizionario
del teatro, nel cui lemmario, pur pensato per il teatri di parola, si possono
reperire lemmi che forniscono categorie pertinenti anche a quello musicale. Si ha metateatro non solamente quando si fa teatro nel teatro (vedi
Hamlet, piuttosto che Midsummer Night’s Dream), ma anche quando le
vicende di una trama presuppongano una dimensione sceneggiata (si rifletta sul sogno del protagonista in Die Tote Stadt, 1920, di Korngold),
una sorta di «realtà teatralizzata». Qualche esempio, tenendo presente
che l’opera italiana, a differenza della francese e di quella in lingua tedesca, non conosce il parlato, e dispone quindi di un livello in meno per accampare funzioni di ‘realtà’, e che il grand-opéra francese ha legittimato
anche nell’Ottocento la presenza di un divertissement che interagisce con
le vicende principali:
a. La prova di un’opera seria (1803) di Gnecco e Le convenienze e incovenienze teatrali (1831) di Donizetti; qui si recita in recita e si fa
dell’ironia sugli usi stilistici del tempo («Assisa ai pe’ d’un sacco» di
Agata, mamma-baritono);
b. Pikovaja Dama (1890) di Cajkovskij; nel n. 14 dell’atto III l’azione si
ferma, e il protagonista attende gli eventi, impotente; si canta e si balla, e l’aria di Prilepa (n. 14b) è una gemma di ricordi mozartiani, dal
concerto per pianoforte KV. 503 alle Nozze di Figaro fino alla Zauberflöte, dunque gli ipotesti non ci trasportano in un Settecento qualunque, ma in un’epoca mozartiana alla quale si rende omaggio grazie
all’intertestualità;
c. Andrea Chénier (1896) di Giordano prevede un divertissement danzante nel quadro iniziale («O pastorelle, addio») incastonato in una sequenza metateatrale dove si fa poesia e pure s’improvvisa, come fa il
protagonista («Un dì all’azzurro spazio»); non si tratta di
un’imitazione fedele dello stile dell’epoca, ma la funzione drammatica
di questo passo è di proporre un colore storicheggiante;
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d. Adriana Lecouvreur (1902) di Cilea offre una situazione più complessa, visto che la sequenza metateatrale si articola in tre parti: nell’atto
primo la progonista prova il monologo in camerino e discetta sull’arte
dell’attore («Del sultano Amuratte ... Io son l’umile ancella») indi esce
in scena e lo recita («Ecco il monologo»), ma quel che udiamo è la reminiscenza dell’aria precedente (dov’è dunque la realtà: nella declamazione o nell’intonazione?); infine, nella festa in casa della Princesse de
Bouillon finalmente scandisce il monologo della Fedra di Racine («E
Fedra sia ... “Giusto cielo! che feci in tal giorno”») tramite il quale addita al pubblico ludibrio la rivale adultera. La funzione di questa sequenza, e della terza parte in particolare, è simile a quella rivestita dalla recita in Hamlet: smascherare un colpevole;
e. Fedora (1898) di Giordano mostra all’opera un vero pianista polacco à
la Chopin, più vero della verità stessa; è un esempio che fa capire come
il metateatro (in questo caso legato alla musica in scena) si prestasse
bene alle esigenze drammatiche di accorciamento dei tempi, tipiche
dell’opera italiana del tempo, perché può consentire lo sviluppo sincronico di diverse realtà. Nella festa nel palazzo parigino di Fedora
Romazoff il notturno accompagna la confessione di Loris Ipanov;
f. Tosca (1900) e Il tabarro (1918) offrono due casi simili a quello di Fedora; nell’atto II dell’opera romana Scarpia apre la finestra di dove
provengono le gavotte e, poi, la cantata di Floria che verrà contrapposta al duro interrogatorio subito in scena da Cavaradossi, che ne riconosce la voce creando un cortocircuito spaziale ed emotivo, in quella
parigina gli scaricatori danzano con Giorgetta accompagnati da un organetto di barberia che stona (ottave diminuite), alludendo a maniere
stravinskijane; in ambo i casi l’azione prosegue inverandosi nel gesto
metateatrale;
g. Ariadne auf Naxos (1912 e 1916) di Strauss prevede invece una recita
tateatrale, come era accaduto in Pagliacci, che ne appaiono il modello,
nemmeno troppo occulto, al di là di generi, epoche e stili. Naturalmente le pretese estetiche del compositore e del librettista s’incarnano nei
personaggi dell’opera, sia a livello ideale sia a livello pratico.
5. Pagliacci: la realtà allo specchio
L’ambizione di snidare la verità dalla vita e trasferirla in teatro non impedì a Leoncavallo di valersi di un ipotesto dovuto a Catulle Mendès La
femme de Tabarin, molto probabilmente una conoscenza fatta negli anni
in cui lavorava come pianista di café chantant a Parigi (o della comédie di
Paul Ferrier Tabarin, e dell’opera omonima di Péssard, rappresentata
all’Opéra nel 1885). Pagliacci (1892) guadagnò sin dall’inizio un posto di
rilievo assoluto nel repertorio, secondo lavoro non verdiano (dopo Cavalleria) a far registrare un successo clamoroso di bottegnino – i titoli importanti che Verdi non scrisse nella seconda metà dell’Ottocento sono una
manciata: Mefistofele (1868-1875), La Gioconda (1876), La Wally
(1892). Dietro a questi trionfi vi è comunque la battaglia fra impresarieditori, Ricordi vs Sonzogno. Leoncavallo esibisce un’enorme capacità di
captare al volo gli umori delle platee coeve, e forgiò sulla base del modello di Cavalleria un testo più raffinato, sia per il gioco metateatrale in sé,
sia per la spiccata intertestualità nella diegesi: Otello è un punto di rife-
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rimento costante, anche perché il meccanismo che conduce alla catastrofe
finale è comune, salvo che nella colpevolezza della protagonista (Nedda
tradisce veramente), e le citazioni musicali stabiliscono rapporti ancor più
stretti. Citazioni non solo volte all’opera di Verdi ma anche, in due punti
significativi, a lavori di Mendelssohn. L’analisi del preludio mostra chiaramente come alla base della struttura vi sia quello di Cavalleria, ma
l’azione del prologo è una dichiarazione d’estetica vera e propria, mentre
la siciliana in dialetto è un ingrediente narrativo che lacera la forma
dell’ouverture pot-pourri. Nonostante fosse ispirato dal baritono Maurel,
primo Tonio (oltre che primo Jago), il prologo presenta un nodo ermeneutico. Il pagliaccio che appare a sipario chiuso enunciando le intenzioni
dell’autore determina una rottura anticipata dell’illusione teatrale, e
quando dà l’ordine di iniziare ci troviamo già in un dramma recitato. Il
‘vero’ poeticamente reclamato di quest’avvio è più reale della mimesi di
una vicenda autentica nell’azione dell’opera, dove la commedia introduce
un ulteriore livello, mentre il duplice omicidio ci riporta a quello precedente. «La commedia è finita» di Tonio [in partitura, non di Canio, come
attesta il libretto] chiude dunque il cerchio aperto dall’«Incominciate»
con la voce dello stesso personaggio, sempre falso ma anche reale.
L’autentica finzione dei versi del prologo giustifica ancor più il verismo di
Pagliacci, incarnato dal diritto rivendicato dagli artisti di essere considerati «uomini di carne e d’ossa».
Un confronto fra la struttura di Cavalleria e quella di Pagliacci, non limitata al prologo, mette in luce che le differenze formali sono più apparenti
che reali. In ambo i casi un intermezzo raccoglie il peso della vicenda e
smista la tensione verso il finale, attuando un accorciamento dei tempi
drammatici ch’è caratteristica delle opere brevi (uno o due atti) di allora.
E se Mascagni aderisce più scopertamente all’articolazione per numeri
chiusi, che da Aida Verdi si era lasciata alle spalle, Leoncavallo affida
all’unità della scena lo sviluppo di un’azione più coesa, ma guardano alla
segmentazione interna della prima scena dell’opera si potrà riscontrare
una divisione pentapartita assimilabile a quella della cosiddetta ‘solita
forma’ (Cfr. Powers, da Basevi). La coerenza interna dell’opera viene garantita dall’uso sapiente dei temi conduttori, che vengono variati alla maniera di Wagner, e che conducono il gioco con coerenza estrema sino alla
fine, dove la perorazione di «Ridi, Pagliaccio!» sancisce per l’ultima volta
il ritorno dalla recita alla vita reale.
6. Cavalleria rusticana: ciclo diegetico e ricezione
L’ambito della ricezione del ‘verismo’ è assai più ampio di quello spaziotemporale europeo. Se si guarda, ad esempio, a Porgy & Bess (1935) non
sarà difficile notare i numerosi punti di convergenza fra Gershwin e la
poetica di Mascagni: argomenti impregnati di passione, amore e gelosia e
vicende ambientate fra la povera gente, fortemente connotate in una sorta
di presente distante, ‘esotico’ rispetto alle attese occidentali – anche se il
color locale siciliano («Gli aranci olezzano», quinari) è meno facilmente
coglibile rispetto al Giappone di Madama Butterfly e allo slang nero di
Porgy (piuttosto che ai ritmi jazz, blues e all’impiego di Spirituals) –, il
tutto sorretto da struttura tematica basilare, prevalentemente basata su
cicli e motivi di reminiscenza. Questa combinazione appare chiara se si
analizza la partitura del capolavoro di Mascagni, e si mettono in fila i po-
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chi temi ricorrenti, alcuni dei quali (come quello che risuona al principio
del n. 3: vedi diagramma) sono costruiti inmaniera tale da offrire campo
utile alla variazione, come accade nella confessione di Santuzza a mamma
Lucia, una sorta di nodo drammatico inestricabile, perché dalla sequenza
introduttiva scaturiscono i temi d’amore e gelosia nella romanza n. 5, fino alla «Mala Pasqua!» del duetto n. 6 e alla catastrofe finale. Questa
impostazione tematico-ciclica richiede il rispetto della concezione formale
dell’autore, e in particolare della forma-prologo(-preludio), ed è peraltro
violata nelle regie atutali che, alla meglio, sceneggiano in maniera didascalica l’antefatto (Karajan, 1968), alla peggio attribuisono un figlio a
Turiddu (Stolzl, 2015) o, peggio ancora, inscenano un flashback, partendo dal cadavere tenorile insanguinato (Michieletto, 2015), scelte sbagliate
che però confermano il fascino diegetico del preludio. Nel considerare la
struttura dell’opera in relazione all’ipotesto emerge la natura dei cambiamenti per trasformare l’incunabolo del verismo letterario in un libretto
d’opera: le motivazioni che spingono Lola fra le braccia di Alfio sono la
sua agiatezza (contro la povertà di Turiddu), la vendetta della Santuzza di
Verga è lucidamente predestinata mentre sembra occasionale nel libretto
(riducendo la responsabilità della donna); nel duello Alfio vince scorrettamente, inoltre la prima riduzione del concetto di realismo è immediatamente coglibile nel passaggio dalla prosa ai versi, in un impianto dove
persino l’urlo «Hanno ammazzato a compare Turiddu» è un endecasillabo.
Un’ultima considerazione sulla struttura di Cavalleria riguarda il ruolo
della musica di scena nel processo diegetico. Fino al n. 8, che precede il
finale, il reticolo tematico, e la costruzione ciclica, hanno retto l’intero
impianto, ma in chiusura Turiddu intona due musiche di scena, una propriamente detta (il brindisi) l’altra è l’addio alla madre, forte di
un’impostazione retorica che perviene all’enfasi. Utile vederne la versione
datane da Beniamino Gigli in un filmato del Met (1927), il grande tenore,
vittima della sua non eccezionale statura umana, che lo aveva portato in
braccio al fascismo in nome della conservazione. Lo stacco, immediatamente percepibile, fra l’esposizione, la peripezia e la catastrofe non potrebbe essere più netto, e al tempo stesso portatore di quei valori tradizionali esaltati dale esigenze di patria. Di lì in poi, e per tutta l’ultima parte della sua vita, Mascagni avrebbe servito, senza vergogna, ai banchetti
della dittatura.
6. Giordano: il ‘verismo’ in costume
La struttura diegetica di Andrea Chénier è innervata nella musica
dell’Improvviso intonato dal protagonista nel quadro iniziale. Il tentativo
è quello di seguire il modello verista nell’espressione vocale e drammatica,
coprendolo della patina storica dovuta al vero Chénier, i cui versi (à la
France) vengono parafrasati da Illica nel libretto. Giordano adatta la poesia di Illica in modo che l’assolo colga una naturalezza espressiva che avvicini il monologo a un brano di prosa. Ma proprio l’impiego del tema in
funzione di reminiscenza, nei quadri II e III, è lì per garantire che al compositore non interessi una possibile dimensione ‘politica’ del uso lavoro,
in cui viene messa al centro la Rivoluzione francese, ma che risalti con il
massimo di luce il sentimento fra uomoe donna come unico vero valore.
La rivoluzione, infatti, precipitando nel Terrore (dal fatidico 1789 al
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1794 nel quadro successivo), ed è quindi condannabile in un mondo che
si avvia verso i nazionalismi e di lì alla prima guerra mondiale. In questo
processo gioca un ruolo di prjmo piano l’analogia con il finale di Aida,
che s’intravede dietro al triangolo tenore-soprano vs baritono, così come
lì fra tenore-soprano vs mezzosoprano, con l’amante (donna) che conquista la sua felicità andando morte insieme all’amato. Ma in Verdi, in linea
con la tradizione melodrammatgica, è rinuncia, mentre Giordano, in armonia con i valori del suo tempo, esalta la morte come sacrificio, in un
contesto che prefigura un conflitto bellico. Un’enfasi poco sopportabile
permea partitura e libretto, la quale non è altro che il suggello di un programmatico ‘ritorno all’ordine’.
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III. IL ‘REALISMO’ EUROPEO
Nonostante i tratti comuni è possibile operare una distinzione fra opere che
seguono principi di realismo e opere veriste e/o naturaliste. La tendenza si afferma nelle grandi letterature di Francia e Russia, soprattutto, dove gli artisti
iniziano a mettere al centro delle loro attenzioni le classi più umili, e sulla
scorta della produzione letteraria e poetica di Victor Hugo e Aleksandr Puskin, iniziano ad abbattere gli steccati che dividevano i generi in alti, medi e
bassi, promuovendo manifestazioni di realtà sempre più esplicite, come si
legge nelle opere di Balzac, Flaubert, Maupassant, piuttosto che di Tolstoj o
Dostoevskij, Gogol, Turgenev e tanti altri. Per mostrare gli effetti di queste
scelte nel teatro musicale, che producono titoli in un arco temporale che precede i verismi, ma si sviluppano contemporaneamente e conoscono un espressioni successive, analizzeremo tre titoli, accomunati dalla ricerca (lucidamente
individuata da Carl Dahlhaus) di una «prosa musicale», sia pure in maniere
tra loro differenti: se tutti e tre, animati da principi ‘socialisti’, cercano la realtà dello stile, Musorski e Janácek producono Literaturopern, la prima in
costume storico, mentre Bizet si vale delle regole del genere opéra-comique
per adattare uno stile musicale ‘alto’ alle esigenze di una scena dove si pratica
l’amore libero fra zingari, contrabbandieri, soldati e popolo.
a. Boris Godunov (1869, 1872) è un capolavoro a lungo misconosciuto
nella sua veste originale, stroncato anche in seno al cosiddetto possente
mucchietto, e conosciuto in occidente dal 1908, nella versione rielaborata e sconciata dall’amico Rimskij-Korsakov. Musorgski travolge le
unità pseudo-aristoteliche e cerca la verità nella storia della Russia,
mettendo per la prima volta in scena il popolo come componente attiva della narrazione, al centro di una struttura ad arco. Infrange anche
le regole formali della tragedia, di cui pure l’opera porta i connotati: la
vicenda del potere in realazione ai singoli si chiude con la catastrofe
(morte di Boris) nella prima scena dell’atto IV, ma l’opera prosegue, lasciando il finale al popolo sconvolto che sale alla ribalta e si avvia verso una battaglia contro un simulacro, guidato da un usurpatore e in
compagnia di avversari politici e religiosi. Mai prima di quest’opera,
che esercitò un influsso a posteriori sull’estetica teatrale e musicale europea, si era discussa la posizione delle masse, né si erano uditi suoni
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in orchestra così singolari e adattati in maniera duttile alla situazione
scenica.
b. Carmen (1875)
c. Jenufa (1904-1928)
d. La bohème (1896)
e. Louise (1900)