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IL POTERE NORMATIVO DELLE REGIONI E IL DIRITTO PRIVATO
A cura di
GIUSEPPE VISCONTE
SOMMARIO: 1. Il decentramento e l'autonomia; 2.1 I poteri normativi di Comuni, Province e
Regioni; 2.2 Segue: la potestà statutaria; 2.3 Segue: la potestà regolamentare; 2.4 Segue: la
potestà di emanare ordinanze di necessità ed urgenza; 3. I limiti di ammissibilità del diritto privato
regionale.
1. Il decentramento e l'autonomia
Sia il decentramento1 che l’autonomia trovano espressa previsione nell’art. 5 Cost. Tuttavia
si tratta di due principi che si differenziano profondamente per la loro natura, in quanto il
decentramento
rappresenta
una
formula
organizzatoria,
mentre
l’autonomia
costituisce
un’esplicazione del principio di democraticità espresso dall’art. 1 Cost., che può trovare
realizzazione, oltre che attraverso la sovranità popolare che esprime gli organi di rappresentanza
diretta a livello nazionale, anche attraverso i vertici politici che sono a capo degli enti esponenziali
delle comunità locali. Infatti, il decentramento rappresenta uno strumento attraverso il quale lo Stato
distribuisce i poteri tra gli uffici centrali e gli uffici periferici, affidando a questi ultimi compiti di
gestione ed esecuzione e ai primi un potere di direzione e controllo, dando luogo ad una struttura
organizzativa più razionale e meno complessa, che, allo stesso tempo, si uniforma al principio del
buon andamento di cui all’art. 97 Cost., nella forma dei principi dell’efficienza e dell’efficacia. Il
principio di autonomia consiste nella capacità di un ente territoriale o locale, intendendosi per tale
un ente esponenziale che sia espressione di una comunità stanziata su un territorio definito, di darsi
delle norme (autonomia normativa), di dotarsi di una struttura organizzativa (autonomia
organizzativa), di dare esecuzione alle decisioni dei vertici politici (autonomia amministrativa) e di
assumere autonomamente impegni di spesa come di esercitare potere di esazione fiscale (autonomia
finanziaria e tributaria). Solitamente, secondo il linguaggio comune, se si ritiene che ci sia una
differenza tra ente territoriale e locale, questa può individuarsi nel fatto che, con il primo si intende
quell’ente che esprime una comunità che si trova su un territorio più ampio, quale può essere la
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Francesca Di Lascio, Decentramento amministrativo (art. 5 Cost.), su http://scienzepolitiche.uniroma3.it.
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Regione, mentre con i secondi si intendono i Comuni, le Province, le Città Metropolitane, tant’è che
a questi ultimi si dedica il d.lgs. 267/2000, infatti, denominato testo unico enti locali.
2.1 I poteri normativi di Comuni, Province e Regioni
In particolare, con riferimento all’autonomia normativa degli enti locali, si è assistito negli ultimi
decenni ad una profonda evoluzione normativa. La prima normativa organica, che ha reso effettiva
l’autonomia di detti enti, è stata la legge n. 142/1990. Ciò in attuazione di quanto disposto
dall’allora vigente art. 128 Cost., il quale prevede che “Le Province e i Comuni sono enti autonomi
nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni”.
A questa normativa hanno fatto seguito le tre leggi Bassanini (leggi n. 59 e 127/1997, nonché il
d.lgs. 112/1998), che hanno introdotto il c.d. federalismo a Costituzione invariata, oltre ad una serie
di principi fondamentali tra i quali il principio di sussidiarietà, secondo il quale le funzioni
amministrative devono essere eseguite dall’ente più vicino al cittadino e, solo in caso di inerzia o di
incapacità di quest’ultimo, tali compiti passano al livello superiore di governo.
Tale principio è stato poi costituzionalizzato con la legge cost. n. 3/2001, che, nel riformare il titolo
V, ha previsto nell’art. 118 Cost. che, di regola, le funzioni amministrative devono essere esercitate
dal Comune, salvo che sia necessario assicurarne l’esercizio unitario. Ancor prima della riforma
costituzionale erano intervenuti la legge n. 265/1999, con la quale è stata conferita delega al
Governo per elaborare un testo unico che raccogliesse tutte le norme in materia di ordinamento
degli enti locali, dando così origine al d.lgs. 267/2000, meglio noto come testo unico enti locali.
Alla riforma costituzionale ha dato poi attuazione la legge n. 131/2003.
I poteri normativi delle Regioni sono certamente aumentati per effetto della riforma costituzionale,
cui testè si è fatto riferimento, che ha determinato un vero e proprio capovolgimento dei rapporti tra
Stato e Regioni in materia di riparto delle potestà normative. Infatti, mentre il testo originario varato
dall’Assemblea Costituente nel 1948, prevedeva nell’art. 117 Cost. che, solo con riferimento ad
alcune materie tassativamente elencate era previsto l’esercizio di un potere normativo delle Regioni,
seppur concorrente, che doveva essere esercitato nel rispetto dei principi fondamentali fissati con
legge nazionale, con la riforma costituzionale del 2001 lo Stato ha una potestà normativa esclusiva
solo con riguardo ad una serie di materie tassativamente elencate e le Regioni esercitano, oltre ad
una potestà normativa concorrente nell’ambito di un’altra serie di materie, una potestà normativa
residuale di carattere esclusivo su tutte le materie non ricompresse fra quelle elencate nell’art. 117
Cost.
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Anche i poteri normativi degli enti locali (i Comuni, le Province, le Città Metropolitane) hanno
visto accrescere la loro importanza. Ciò lo si desume dall’art. 114 Cost., che, nel porre all’inizio
dell’elenco degli enti che costituiscono la Repubblica, il Comune, in quanto ente più vicino al
cittadino, e, a seguito, tutti gli altri, ha evidenziato la pari dignità costituzionale dei vari livelli di
governo nei quali si esplica la sovranità popolare, nonché dall’abolizione dell’art. 128 Cost. che
prevedeva, in capo allo Stato, una potestà normativa esclusiva in materia di ordinamento degli enti
locali. Proprio l’abrogazione di tale norma costituzionale ha dato il via al riconoscimento di un
rilievo costituzionale alle norme emanate dagli enti locali, tanto da determinare un vero e proprio
processo di delegificazione della materia dell’ordinamento degli enti locali, restando riservato alla
potestà normativa esclusiva dello Stato solo la legislazione elettorale, gli organi di governo e le
funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città Metropolitane, ai sensi dell’art. 117, comma 2,
lett. p) Cost. Certamente l’abolizione dell’art.128 Cost. ha determinato una notevole perdita di ruolo
per il testo unico enti locali, che, in quanto legge organica dello Stato in materia, ha perso il proprio
referente costituzionale.
Il rilievo che ha assunto la potestà normativa dell’ente locale lo si ricava anche dal fondamentale
art. 114 Cost., comma 2, ai sensi del quale “I Comuni, le Province, le Città Metropolitane e le
Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla
Costituzione”.
2.2 Segue: la potestà statutaria
In materia di potestà statutaria si è discusso, utilizzando come parametro di riferimento proprio l’art.
114 Cost., comma 2, sul rango di tale fonte normativa. Alcuni hanno ritenuto si tratti comunque di
fonte secondaria, anche se dotata di maggiore autonomia rispetto ai regolamenti governativi e
ministeriali.
Altri l’hanno considerata una fonte subprimaria atipica che intrattiene con la legge nazionale un
rapporto che non è tanto di natura gerarchica, quanto di competenza. Altri ancora l’hanno
considerata una fonte primaria gerarchicamente superiore rispetto al regolamento e non inferiore
alla legge nazionale, proprio perché interpretano il testo dell’art. 114, comma 2, Cost. nel senso che
lo statuto ha come unica fonte sovraordinata alla quale si deve uniformare la Costituzione e i suoi
principi.
Passando al contenuto della fonte statutaria si è discusso se le materie elencate dall’art. 6 del testo
unico enti locali siano tassative. A riguardo l’opinione è nel senso che l’elenco previsto in questa
norma è da ritenersi meramente esemplificativo, potendo l’ente locale ampliare la gamma delle
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materie, inserendo nello statuto anche quelle che potrebbero essere assoggettate ad un regolamento.
Altra questione è poi se l’ente locale sia obbligato ad introdurre nello statuto le materie contenute
nell’elenco sopraddetto. Al riguardo, si ritiene che lo statuto debba ritenersi composto da un
contenuto obbligatorio, costituito dalle materie elencate nell’art. 6, comma 2, t.u.e.l., e da un
contenuto facoltativo, rappresentato da quelle materie che l’ente locale ha ritenuto di dover inserire
nello statuto, benché non vi fosse tenuto. Si è ritenuto, poi, da parte di alcuni, che i Comuni di più
piccole dimensioni, che non devono soddisfare particolari esigenze della collettività di cui sono
espressione, possono anche derogare all’art. 6, comma 2, t.u.e.l., sottoponendo alle norme
regolamentari, anziché a quelle statutarie, alcune delle materie inserite nell’elenco.
Con riferimento alla tutela nei confronti dello statuto, si ritiene che rappresenti una fonte non in
grado di essere immediatamente lesiva per le situazioni giuridiche soggettive destinatarie
dell’attività amministrativa dell’ente. Ragion per cui si ritiene che detta fonte necessiti di un atto
applicativo perché si possa configurare una lesione di un diritto soggettivo o di un interesse
legittimo e quindi una legittimazione attiva a ricorrere in capo al soggetto amministrato che ha
subito la predetta lesione. La tutela giurisdizionale si potrà esplicare anche attraverso l’esercizio del
potere di disapplicazione dello statuto illegittimo, se si accetta la tesi della sua praticabilità da parte
del giudice amministrativo, dal momento che allo statuto si potrebbero applicare le stesse
argomentazioni sostenute riguardo alla disapplicabilità del regolamento governativo o ministeriale.
Infatti, si distinguono l’ipotesi in cui il regolamento è immediatamente lesivo per le situazioni
giuridiche soggettive ed in questo caso è necessaria l’impugnativa giurisdizionale immediata,
dall’ipotesi in cui il regolamento non è immediatamente lesivo e necessita di un atto applicativo,
solo una volta emanato il quale si potrà esercitare l’azione giurisdizionale, operando, quindi, la c.d.
doppia impugnativa. Ci si è chiesti cosa accada nell’ipotesi in cui il soggetto, la cui situazione
giuridica soggettiva è stata lesa, impugni solo l’atto applicativo e non anche il regolamento, e se il
giudice amministrativo possa, in questa occasione in cui il regolamento è divenuto inoppugnabile,
esercitare il potere della disapplicazione. Secondo un orientamento tradizionale sfavorevole tale
potere non può essere esercitato, perché gli artt. 4 e 5 della legge abolitiva del contenzioso
amministrativo prevedono espressamente tale potere solo in capo al giudice ordinario, perché il
potere di disapplicazione costituisce un minus rispetto al ben più incisivo potere di annullamento di
cui dispone il giudice amministrativo e, soprattutto, perché verrebbe eluso il principio di
inoppugnabilità del provvedimento amministrativo, una volta trascorsi i termini per esercitare
l’azione giurisdizionale, e di conseguenza il principio della certezza del diritto. Un altro
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orientamento favorevole contesta l’equiparazione del regolamento (o anche dello statuto) ai
provvedimenti amministrativi.
Infatti il regolamento, come anche lo statuto di un ente locale, è una fonte normativa, ragion per cui
allo stesso può applicarsi il principio di gerarchia delle fonti. Da ciò ne consegue che, in caso di
antipatia tra regolamento illegittimo e provvedimento legittimo, il giudice non terrà conto del
regolamento in quanto contrastante con una fonte superiore qual è la legge, nonostante sia divenuto
oramai inoppugnabile, perché ciò avrebbe significato tollerare una violazione della legge da parte
del regolamento. Si fa notare come se una norma di legge nazionale deve ritirarsi in caso di
contrasto con una norma comunitaria disciplinante la stessa materia, perché non deve avvenire
questo in caso di conflitto tra regolamento e norma di legge? Quanti sostengono la tesi favorevole
fanno soprattutto notare come, nell’ipotesi in cui il regolamento inoppugnabile violi una norma
comunitaria, non ammettere l’esercizio del potere di disapplicazione significherebbe consentire una
violazione del diritto comunitario. L’esercizio del potere di disapplicazione è stato alla fine
riconosciuto dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 222/1996.
2.3 Segue: la potestà regolamentare
Altra fonte attraverso la quale l’ente locale può esercitare il proprio potere normativo e che trova
riconoscimento nell’art. 117, comma 6, Cost., è il regolamento.
La stessa norma costituzionale riconosce il potere regolamentale alle Regioni, limitando quello
dello Stato alle sole materie nelle quali ha potestà esclusiva, con conseguente divieto per lo Stato
stesso di emanare nuovi regolamenti o di modificare quelli entrati in vigore prima della riforma in
materie nelle quali le Regioni hanno potestà concorrente, dovendo lo Stato dettare la normativa di
principio solo con legge, o potestà esclusiva, essendo in tali settori escluso anche addirittura
l’intervento con legge ordinaria.
Tuttavia, si è notato come le Regioni nelle materie in cui esercitano potestà normativa concorrente
dovranno esercitare il potere normativo ricorrendo alla legge, dal momento che con la legge
nazionale, che detta la normativa di principio, non potrà interagire il regolamento regionale, mentre
nelle materie in cui la Regione ha potestà esclusiva, la stessa sarà libera di far uso anche di
regolamenti indipendenti o di regolamenti delegati, potendo anche emanare una legge regionale
simile alla legge n. 400/1988, che ne preveda una disciplina generale.
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Va considerato, altresì, che i regolamenti regionali non sono soggetti ai vincoli previsti per i
regolamenti governativi e ministeriali, tra i quali l’obbligatorietà del parere del Consiglio di Stato,
in occasione della loro emanazione.
Passando alla trattazione dei regolamenti degli enti locali, l’art. 117, comma 6 Cost., prevede che,
con questa fonte, Comuni, Province e Città Metropolitane dettano norme in materia di disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Ci si è chiesti se su queste materie possa configurarsi una riserva di regolamento. Si ritiene che,
mentre lo statuto si occupa degli aspetti fondamentali che riguardano l’organizzazione e il
funzionamento degli enti locali, il regolamento detta una disciplina di dettaglio, ragion per cui,
anche in considerazione della superiorità gerarchica dello statuto rispetto al regolamento, deve
ritenersi che, tutt’al più, possa configurarsi una riserva relativa e non assoluta di regolamento nelle
materie indicate dalla norma costituzionale. Con riferimento alle materie nelle quali può intervenire
il regolamento dell’ente locale, ci si è chiesti se gli ambiti elencati dall’art. 7 t.u.e.l. siano tassativi.
Al riguardo l’opinione generale in dottrina è quella del carattere non esaustivo di detta elencazione
sulla base di una serie di argomenti di carattere testuale, in quanto la norma dice che gli enti locali
“adottano regolamenti”, riconoscendo quindi una potestà regolamentare generale che potrà
riguardare un numero indeterminato di materie, perché altrimenti il legislatore avrebbe detto
“adottano i seguenti regolamenti”, se avesse voluto limitare l’esercizio di tale potere normativo e
poi in quanto, proseguendo, nel testo della stessa norma si dice che gli enti locali “adottano
regolamenti nelle materie di propria competenza e in particolare …”. L’utilizzo dell’espressione “
… e in particolare … ” ha fatto pensare che le materie successivamente elencate rappresentino solo
un’esemplificazione. Oltre agli argomenti di carattere testuale, vi è un argomento di carattere
sostanziale, secondo cui agli enti locali è riconosciuto un ampio e generale potere di
autorganizzazione, che trova estrinsecazione nel potere regolamentare, che può essere limitato solo
dalla legge e dallo Statuto.
Con riferimento al rango della fonte regolamentare, il grado che questa assume viene fatto
dipendere dalla posizione attribuita alla fonte statutaria, essendo quest’ultima gerarchicamente
sovraordinata rispetto alla prima. Quanti ritengono lo statuto una fonte primaria, interpretano il
regolamento come fonte secondaria. Quanti interpretano lo statuto come fonte secondaria, ritengono
che il regolamento sia una fonte terziaria.
Riguardo al rapporto tra statuto e regolamento, si tratta di fonti contigue, le cui competenze non
sono nettamente separate da un criterio chiaro di riparto, come può essere quello tra legge nazionale
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e regolamento governativo o ministeriale o quello tra leggi e regolamenti regionali, ma sono il più
delle volte rimesse alle scelte dei vertici politi degli enti locali, ragion per cui ci possono essere
ipotesi in cui un Comune o una Provincia può aver uno statuto “breve”, che disciplina solo alcuni
aspetti essenziali della propria organizzazione e del proprio funzionamento, lasciando al
regolamento la disciplina di dettaglio, oppure ipotesi in cui lo statuto entra nei particolari e può,
quindi, definirsi “lungo”.
Ci si è chiesti come debbano risolversi eventuali conflitti tra statuto e regolamento. Al riguardo, la
giurisprudenza amministrativa è chiara nello stabilire che, in caso di contrasto tra queste due fonti,
prevale lo statuto.
Altra questione è poi se siano ammissibili, nell’ambito degli enti locali, regolamenti delegati alla
stessa stregua di quelli previsti dalla legge n. 400/1988 a livello nazionale. Sul punto, alcuni sono
dell’idea che tale tipo di regolamenti siano inammissibili, in quanto si violerebbero i principi
fondamentali dell’ordinamento giuridico. Altri li ritengono ammissibili nella misura in cui la legge
ne stabilisca l’ambito di applicazione, i criteri e i profili contenutistici della norma regolamentare
che determina l’effetto abrogativo.
La tutela giurisdizionale nei confronti dei regolamenti locali è sottoposta alla classica distinzione tra
i regolamenti che producono effetti immediatamente lesivi per le situazioni giuridiche soggettive
degli amministrati, per i quali è necessaria l’immediata impugnazione, e quelli che questa medesima
caratteristica non hanno e devono essere nell’impugnativa accompagnati del necessario atto
applicativo, perché l’effetto lesivo e, di conseguenza, la legittimazione a ricorrere si possano
configurare.
2.4 Segue: la potestà di emanare ordinanze di necessità ed urgenza
Con riferimento alle ordinanze di necessità e urgenza, l’art. 50, comma 5, t.u.e.l. attribuisce al
sindaco o al presidente della provincia la competenza ad emanarle. Ma bisogna fare delle premesse
sulla rilevanza della necessità nell’ambito del diritto amministrativo.
La necessità, infatti, viene vista in vario modo.
Alcuni ritengono costituisca di per sé una fonte del diritto e, in particolare, una fonte-fatto simile
alla consuetudine, nel senso che l’ingenerarsi di una situazione di necessità impegna gli organi di
governo di un ente locale ad adottare delle misura per fronteggiare l’emergenza e, quindi, determina
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il prodursi di norme. Tuttavia, si fa notare come, in questo modo, si confonde quella che è una fonte
di produzione, la consuetudine, con una fonte sulla produzione, la necessità, nel senso che, mentre
la consuetudine, cioè l’osservanza generale nel tempo di un comportamento, che sia costante e
uniforme, nella convinzione che sia obbligatoria, di per sé, produce diritto, la necessità è, invece,
l’occasione che determina gli organi di vertice degli enti locali ad emanare le ordinanze contingibili
ed urgenti.
Altri ritengono che la necessità legittimi le autorità ad emanare le suddette ordinanze per
fronteggiare la stessa, anche in deroga alle norme di legge. Tale tesi, tuttavia, sembra essere un
retaggio della concezione dello “stato di polizia”, secondo la quale il sovrano deve fare quanto è
necessario per assicurare il benessere della collettività, anche a costo di violare la legge. Ma questa
concezione non si adatta più al nostro attuale ordinamento costituzionale, che invece si fonda sul
contrario principio di legalità, in base al quale le autorità amministrative possono esercitare i soli
poteri che attribuisce loro la legge, per il perseguimento delle finalità che la stessa legge individua.
La tesi prevalente è quella secondo la quale, per effetto dell’emanazione delle ordinanze di
necessità e urgenza, si verifica una rottura dell’ordine legale o costituzionale e, in via eccezionale,
sulla base di altre norme di legge, si considerano legittimi provvedimenti che, di regola, non lo
sarebbero.
Dalle ordinanze di necessità e urgenza vanno distinti gli atti necessitati, che si caratterizzano per il
fatto che la norma di legge che li tipizza prevede l’autorità legittimata ad emanarle ed il presupposto
per la loro emanazione, rappresentato dalla necessità, oltre all’individuazione delle modalità in base
alle quali tale tipo di potere deve essere esercitato, ovverosia il contenuto del provvedimento. Le
ordinanze di necessità ed urgenza hanno in comune con gli atti necessitati il fatto che la legge
prevede il presupposto e l’autorità emanante, ma se ne differenziano per la mancata tipizzazione del
loro contenuto, la cui definizione è rimessa alle scelte discrezionali dell’autorità amministrativa.
Le ordinanze di necessità e urgenza rappresentano una modalità di esercizio del potere che si
caratterizza per la sua eccezionalità, nel senso che, come è al di fuori dell’ordinario e naturale
svolgersi degli eventi la situazione che le autorità amministrative sono chiamate a fronteggiare, così
i provvedimenti, atipici per i loro contenuti, che le stesse emanano, possono definirsi extra ordinem,
intendendosi per ordo, l’ordine naturale dello svolgersi dell’azione amministrativa.
Discussa è la natura giuridica delle ordinanze di necessità e urgenza.
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Alcuni ritengono che abbiano natura normativa perché hanno le caratteristiche delle fonti
normative, ovverosia la generalità, l’astrattezza e l’innovatività dell’ordinamento giuridico, in
quanto, come i regolamenti delegati, in presenza di una situazione di emergenza, si sostituirebbero
alle norme di legge.
Altri ritengono che sono provvedimenti amministrativi, in quanto le caratteristiche che, secondo gli
autori della tesi opposta, ne denoterebbero la natura normativa, non sono sufficienti ad individuare
un atto di natura normativa e quindi a dare una soluzione della questione, dal momento che i
caratteri della generalità, dell’innovatività e dell’astrattezza potrebbero essere posseduti anche dai
provvedimenti amministrativi, come, al contrario, ci sono leggi che si occupano di situazioni
particolari, tanto da essere chiamate leggi-provvedimento. Poi si nega da parte di costoro che le
ordinanze di necessità ed urgenza possano produrre un effetto simile al regolamento delegato, in
quanto anche quest’ultimo non abroga direttamente la norma di legge, ma è un’altra norma di legge,
che abroga la norma di legge che disciplina una determinata materia, ad autorizzare il regolamento
ad intervenire.
Prevale la tesi mista che le ritiene dei provvedimenti generalmente di natura amministrativa, ma che
possono contenere delle norme atte a disciplinare determinate fattispecie. Quanti sostengono
(Sandulli) questa tesi fanno notare come vada distinta la capacità di derogare la norma di legge dal
valore di legge, perché, anche se le norme contenute nelle ordinanze di necessità e urgenza sono in
grado di derogare le norme di legge, non sono sottoponibili, ai sensi dell’art. 134 Cost., al sindacato
della Corte costituzionale.
La Corte costituzionale più volte si è occupata della questione, addivenendo alla soluzione di
ritenere le ordinanze di necessità e urgenza dei provvedimenti amministrativi. Ha, altresì,
individuato le condizioni in presenza delle quali le stesse derogherebbero legittimamente ad una
norma di legge. In particolare, è necessario: 1) che l’autorizzazione a derogare la norma di legge
trovi legittimazione in un’altra norma di legge, 2) che l’ordinanza di necessità ed urgenza, in quanto
extrema ratio ed in quanto modalità di esercizio del potere, cui si deve fare ricorso quando non è
possibile per l’autorità amministrativa avvalersi dei provvedimenti amministrativi tipici, sia fornita
di adeguata e congrua motivazione idonea a giustificare la scelta per i provvedimenti extra ordinem,
3) che si sostanzi in un provvedimento adeguato e proporzionato al raggiungimento dei fini per
realizzare i quali viene emanato, 4) che soddisfi i requisiti formali imposti dalle norme di legge,
ovverosia, se si ritengono norme di legge, dovrebbero essere osservate e formalità previste per la
pubblicazione di una legge, se si ritengono dei provvedimenti amministrativi, dovrebbero essere
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osservate le modalità in base alle quali vengono resi noti quei provvedimenti destinati a produrre
effetti verso numerosi destinatari.
Come sopra detto, il sindaco o il presidente della provincia sono gli organi legittimati ad emanare le
ordinanze contingibili ed urgenti ex art. 50, comma 5, t.u.e.l., in materia di sanità, igiene pubblica,
edilizia popolare e al riguardo si è posta la questione se i ricorsi giurisdizionali promossi davanti al
giudice amministrativo contro tali tipi di provvedimenti nelle ipotesi in cui il sindaco opera quale
ufficiale del Governo ex art. 54 t.u.e.l., possano legittimamente notificarsi nei confronti del
Comune. Al riguardo la giurisprudenza amministrativa ha dato la soluzione positiva, in quanto,
anche se opera come ufficiale del Governo, il sindaco resta pur sempre incardinato come vertice
politico dell’ente locale e come capo dell’amministrazione comunale, ragion per cui il ricorso va
notificato non all’Avvocatura dello Stato, ma al Comune.
Altra questione ha riguardato i provvedimenti di requisizione della proprietà privata in presenza di
una situazione di emergenza e ci si è chiesti se il sindaco possa emanare tali provvedimenti in forma
di ordinanze di necessità ed urgenza. Al riguardo la giurisprudenza amministrativa ha dato una
soluzione negativa, ritenendo che il sindaco possa emanare tali provvedimenti solo in materia di
igiene pubblica, sanità ed edilizia popolare, ma non possa adottare provvedimenti requisitori, che
restano riservati alle autorità governative.
In merito alla tutela nei confronti delle ordinanze di necessità ed urgenza, essendo state queste
considerate dalla Corte costituzionale dei provvedimenti amministrativi, ne consegue la loro piena
giustiziabilità ex art. 24 Cost., che potrà avvenire da parte del giudice ordinario o del giudice
amministrativo in base all’ordinario criterio di riparto della giurisdizione. Se ci sarà stata un’erronea
valutazione o un travisamento dei fatti che legittimano l’esercizio del potere, ci sarà un cattivo uso
del potere e quindi una giurisdizione del giudice amministrativo. Se, invece, non c’erano i
presupposti per adottare le ordinanze di necessità ed urgenza, ci sarà una carenza di potere e quindi
la giurisdizione del giudice ordinario, perché l’autorità amministrativa avrà operato in assenza di
potere.
Ci si è chiesti poi se il giudice possa sindacare la presenza dei presupposti di necessità e urgenza,
che l’ente locale ha ritenuto sussistere a tal punto da emanare le ordinanze contingibili e urgenti. Al
riguardo, sia dottrina che giurisprudenza sono concordi nell’escludere tale possibilità, in quanto il
giudice finirebbe col sindacare scelte di opportunità riservate all’autorità amministrativa, con il
rischio di una violazione del principio costituzionale della separazione dei poteri.
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3. I limiti di ammissibilità del diritto privato regionale
In merito all’ammissibilità del c.d. diritto privato regionale, bisogna premettere che
tradizionalmente il nostro diritto privato è stato sempre unitario. Infatti, anche prima dell’Unità
d’Italia, gli Stati preunitari avevano adottato come modello del codice civile il codice napoleonico,
ragion per cui l’unificazione del diritto civile, con l’emanazione del codice civile del 1865 non ha
suscitato particolari difficoltà. Ciò a differenza di stati federati come la Germania, il Canada, gli
Stati Uniti o la Spagna, che hanno avuto antiche tradizioni di diritti privati regionali, che addirittura,
come in Spagna, ricevono una tutela a livello costituzionale. All’indomani dell’Unità d’Italia, oltre
che per la disciplina del diritto privato, il Regno d’Italia aveva assunto a modello la Francia anche
per quanto riguarda la struttura dello Stato, che ricalcava lo schema prefettizio profondamente
centralizzato. Per avere le Regioni, bisognerà attendere la Costituzione del 1948 e la successiva
attuazione negli anni ’70 fino all’accentuazione dell’autonomia regionale con la riforma del titolo V
avvenuta nel 2001.
La questione dell’ammissibilità di un diritto privato regionale era stata affrontata dalla Corte
costituzionale nel 2001, prima della riforma costituzionale.
Il Giudice delle Leggi, se, da un lato, aveva escluso che le Regioni potessero legiferare in materia di
diritto privato, in quanto sarebbe stata messa in pericolo l’uguaglianza dei cittadini, dall’altro aveva
ritenuto che per le esigenze delle comunità locali si sarebbe potuto operare un adattamento del
diritto privato purché fosse stato caratterizzato dalla ragionevolezza e avesse riguardato materie
nelle quali era prevista una competenza regionale.
Tuttavia, questa sentenza che sembrava aver dato una soluzione che mediava tra le esigenze
dell’eguaglianza e quelle dell’autonomia, ritenendo che solo la ragionevolezza potesse derogare
all’eguaglianza, era stata disattesa dal legislatore costituzionale, il quale ha individuato, tra le
materie nelle quali lo Stato esercita una potestà legislativa esclusiva, ai sensi dell’art. 117, comma
2, lett. p), l’ordinamento civile, escludendo un intervento delle Regioni, e ciò determinava anche
seri problemi con riguardo a svariate materie nell’ambito delle quali le Regioni esercitano potestà
legislativa concorrente, quali l’ordinamento sportivo, l’edilizia, il commercio con l’estero, il
turismo, le professioni, ecc.
Come sopra accennato, il diritto privato regionale doveva sopportare due pregiudizi alla sua
ammissibilità, rappresentati dall’idea che il diritto privato è stato tradizionalmente unitario e dalla
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presunta violazione del principio di eguaglianza, ma, secondo la migliore dottrina, l’ammissibilità
di un intervento del legislatore regionale doveva farsi dipendere dal settore del diritto privato nel
quale il legislatore regionale andava ad operare. Bisognava distinguere il diritto privato
patrimoniale, ovverosia tutte le norme sui contratti, sulle imprese, sul lavoro, in cui un intervento
del legislatore doveva ritenersi ammissibile, non fosse altro per la stretta connessione di tali settori
del diritto privato con svariate materie nelle quali le Regioni hanno potestà normativa concorrente,
dal diritto privato non patrimoniale, che riguarda le persone, la famiglia, la successione o comunque
norme di diritto privato che proteggono diritti di rilevanza costituzionale, nelle quali l’intervento del
legislatore regionale andava escluso.
Nel valutare la legittimità di una norma regionale, la Corte costituzionale doveva verificare se la
stessa avesse superato il limite rappresentato dall’ordinamento civile.
Tale verifica andava effettuata, secondo la migliore dottrina che aveva recuperato i suggerimenti
della sentenza della Corte costituzionale pre - riforma, sulla base del criterio della ragionevolezza.
Doveva prima formularsi un giudizio di ragionevolezza intrinseca, consistente nel verificare se
l’adattamento del diritto privato nazionale era congruo ed adeguato alle esigenze della comunità
regionale e se avesse riguardato materie nelle quali la Regione aveva una potestà normativa.
Dopodiché andava fatta una valutazione in termini di ragionevolezza estrinseca, nel senso che
andava verificato se tale adattamento superava i limiti rappresentati dall’ordinamento civile e se
riguardava settori del diritto privato nei quali si fosse ritenuto ammissibile un intervento del
legislatore regionale in termini di violazione del principio di eguaglianza.
Uno dei settori del diritto privato riguardo al quale si è posta la questione della ammissibilità di un
intervento del legislatore regionale, è stato quello del diritto della montagna e, in particolare, in
materia di sport invernali2.
Tale settore è stato interessato inizialmente dalla produzione di norme interne formulate all’interno
della federazione sciistica sulla base dell’esperienza e del buon senso, più che sulla base del principi
giuridici e solo nel 2003, poco dopo la riforma costituzionale, è stata varata la prima legge sugli
sport invernali. Tale legge è stata formulata in maniera piuttosto generica, sia con riferimento ai
principi fondamentali che doveva dettare, visto che l’ordinamento sportivo è un di quelle materie
che, ai sensi dell’art. 117, comma 3, Cost., nelle quali le Regioni hanno una potestà normativa
concorrente, sia con riferimento al diritto privato. Questo atteggiamento del legislatore nazionale è
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Waldemaro Flick, L'influenza del diritto privato regionale sul diritto della montagna: diritto residuale o fonte
primaria? Problemi e prospettive (Bormio 2008), su www.bormioforumneve.eu.
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stato letto dalla dottrina come favorevole a consentire alle Regioni di poter legiferare in maniera
piuttosto libera in materia, visto che la norma locale poteva risultare in questi settori più efficace
della norma nazionale.
In materia di diritto della montagna e di sport invernali, le Regioni hanno, tuttavia, dettato delle
norme che mai si porrebbero in contrasto con le norme del diritto privato nazionale, dal momento
che non derogano alle stesse, ma si pongono in posizione integrativa. Infatti, in alcuni casi dettano
delle regole cautelari su come praticare gli sport invernali oppure, tutt’al più individuano le ipotesi
in cui i gestori degli impianti sciistici vanno esonerati da responsabilità civile, come quando viene
praticata l’attività sportiva fuori dai percorsi segnalati da adeguati cartelli. In altri casi, hanno
previsto le ipotesi in cui si configura la responsabilità della guida alpina, che si sottrae dal prestare
adeguato soccorso a chi versi in una situazione di difficoltà in zone montane, ponendo, come unico
limite, il dovere di prestare soccorso ai propri clienti. In questo modo il legislatore regionale
definisce gli obblighi di protezione di tali categorie di soggetti, la cui inosservanza determina una
responsabilità che presenta alcuni tratti della responsabilità extracontrattuale e altri di quella
contrattuale.
In queste ipotesi l’intervento del legislatore regionale non si pone in contrapposizione con le norme
del diritto privato nazionale, né deroga ad esso, ma lo integra, individuando delle regole cautelari da
osservare, dei comportamenti doverosi, delle regole di diligenza o degli obblighi di protezione, che
valgono a definire il contenuto di un’eventuale ipotesi di responsabilità extracontrattuale, sia che la
si identifichi in responsabilità per illecito aquiliano ex art. 2043 c.c., sia che la si identifichi in
responsabilità extracontrattuale di tipo speciale, come può essere quella per esercizio di attività
pericolose, se tali si considerano le attività sportive che si svolgono in montagna.
In questi casi non si può dire che vengano violati i limiti della potestà normativa regionale per
travalicare i confini, rappresentati dalla materia chiamata dal legislatore costituzionale
“ordinamento civile”, all’interno dei quali il solo legislatore nazionale può dettare norme di diritto
privato. Quindi, si deve ritenere che i limiti dell’ammissibilità di un intervento del legislatore
regionale, in materia di diritto privato, siano da confinare nell’introduzione di norme integrative
delle norme di diritto privato nazionale, come quelle testé descritte.
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BIBLIOGRAFIA
DI LASCIO F., Decentramento amministrativo (art. 5 Cost.), su http://scienzepolitiche.uniroma3.it.
FLICK W., L'influenza del diritto privato regionale sul diritto della montagna: diritto residuale o
fonte primaria? Problemi e prospettive (Bormio 2008), su www.bormioforumneve.eu.
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