Quaderno n.1 Nero su Bianco edizioni Luglio 2011 a cura di Simone Caputo Alessandra Cava Hanno collaborato Lorenzo Donati Ludovico Orsini Baroni Serena Terranova Matteo Vallorani Disegni di Anna Deflorian Brochendors Brothers Impaginazione Brochendors Brothers Anna Deflorian In collaborazione con il Coordinamento critico-organizzativo di Santarcangelo 2009/2011 Si ringrazia Rodolfo Sacchettini www.santarcangelofestival.com www.altrevelocita.it OCCHIO ALLA RADIO Il suono crea uno spazio che è spazio d’attenzione, dove l’invisibile può essere abisso da cui emergono colori, direzioni, distanze. Interrogarsi oggi sulle potenzialità di un’arte radiofonica, sulla necessità dei suoi materiali e dei suoi strumenti, vuol dire ripensarne i confini e mettere alla prova la sua storia e la sua capacità di adesione al presente. L’arte del radiodramma, l’“arte cieca” delle origini, torna oggi nel teatro, inteso come spazio in cui agisce la visione, incontrando i luoghi dell’ascolto collettivo. Abbiamo registrato qui alcuni segni di una nuova sensibilità che cresce intorno al fenomeno a partire dal progetto sul radiodramma portato avanti all’interno del triennio 2009/2011 del Festival di Santarcangelo, che ha invitato gli artisti e il pubblico del teatro a confrontarsi con il mezzo radiofonico. «Il teatro è faccenda d’orecchio», scrive Claudio Morganti più avanti in queste pagine, ma è un orecchio che accoglie visioni, un occhio privato che coglie e produce immagini. Nello scarto tra la condivisione dello spazio teatrale e l’intimità dell’ascolto sta forse l’intuizione poetica da cui partire, nel punto di contatto tra il corpo e la voce dell’attore, tra la parola e il suono, tra immagine e buio. Santarcangelo 41 ci dà l’occasione di sostare in questa sospensione programmando una grande “Festa della radio”: tre ore di radio dal vivo (in collaborazione con Rai Radio3), quattro radiodrammi, un cinema ad ospitare l’evento. Questo quaderno vuole essere un accompagnamento per l’ascoltatore/spettatore in questo viaggio sonoro, raccogliendo antiche domande, racconti di lavoro e nuove prospettive per l’arte invisibile. Alessandra Cava 3 INDICE Parole di radio pag.5 2009-2011 / Santarcangelo in ascolto pag.9 Radio days pag.15 Radio, calcio, teatro in una “Finale del Mondo” pag.17 Scene radiofoniche pag.23 Bibliografia essenziale pag.31 4 RODOLFO SACCHETTINI (a cura di) PAROLE DI RADIO Si raccolgono qui alcune riflessioni di teorici, critici, artisti, dedicate alla radio, o per meglio dire alle possibilità creative del mezzo radiofonico. Mettendone in luce la natura invisibile o l’importanza e la complessità dell’ascolto, questi pensieri (nati dalle primordiali esperienze italiane, francesi, inglesi, tedesche, americane) continuano a risuonare ancora oggi e restituiscono l’idea di un genere artistico sempre alla ricerca della propria forma. Paul Deharme [1928] Non è cosa assurda sperare di creare in noi un teatro analogo a quello del sogno. […] Davanti alle manifestazioni della natura e dell’arte è un istinto spontaneo quello che ci porta a chiudere gli occhi, a creare in noi quello stato di assenza che tutti conosciamo. Certo, per trovarsi a proprio agio in questo mondo immaginario gli ascoltatori dovranno farsi un’educazione sensitiva. Ma ciò sarà facile perché [la radio] ci offre il mezzo per neutralizzare ogni realtà tra la sorgente della suggestione e l’animo dell’uditore che gira il suo film interno. […] Abbiamo l’arte muta, ecco l’arte cieca. Enzo Ferrieri [1930] La riduzione delle opere di teatro a opere radiofoniche, a mio giudizio deve essere fatta con la massima misura. Un’opera di teatro può acquistare in una messa in scena radiofonica un carattere nuovo. Ricordo che abbiamo fatto qualche esperimento per rappresentare 5 Rodolfo Sacchettini radiofonicamente I ciechi di Maeterlinck e che il risultato dal punto di vista della suggestione e dell’intensità tragica era eccezionale. […] In conclusione dunque, il punto che io vorrei chiarire è questo: che l’idea di dare per radio o per cinematografo opere di teatro o romanzi, presuppone che la trasformazione avvenga nelle forme e con i modi che la radio o il cinematografo consigliano e pertanto – ripeto – più di riduzione si può parlare di un’interpretazione diversa. Bertolt Brecht [1932] È potuto accadere che la tecnica fosse tanto progredita da produrre la radio in un’epoca in cui la società non era ancora tanto progredita da poterla accogliere. D’improvviso si aveva la possibilità di dire tutto a tutti, ma, a pensarci bene, non si aveva nulla da dire. E chi erano poi questi tutti? Renzo Ricci [1934] I tifosi del calcio ascoltano e seguono in ogni fase una partita giocata dalla loro squadra preferita contro la squadra avversaria. La seguono a tal punto che saprebbero descrivere con esattezza le azioni svolte dai giocatori sul campo non per averle intese dalla bocca del radiocronista, ma per averle intuite dagli urli della folla e da tutti gli altri rumori che il microfono ha raccolto sul campo e che l’altoparlante ha portato fino a loro [...] secondo me, una partita di calcio trasmessa alla radio è l’esempio più evidente di come dovrebbe essere inteso il radioteatro. Carlos Larronde [1936] Il radiodramma è un dramma rappresentato da anime nude, da attori senza volto; un dramma che ci obbliga a chiudere gli occhi, non perché la scena sia invisibile, ma perché una tutt’altra scena ideale e astratta viene costruita nella nostra immaginazione alla radio, il dramma si svolge nell’intimo dello spettatore. Si tratta non di rimediare a una mancanza, ma di creare una presenza, attraverso una nuova poesia: la poesia dello spazio. Archibald MacLeish [1936] Lo speaker è il personaggio drammatico più utile dai tempi del coro della tragedia greca. Per anni i poeti moderni che scrivevano per il palcoscenico sentivano la necessità di arrangiare una sorta di coro, 6 Parole di radio una sorta di commentatore. [...] Questo coro, questo commentatore, ha sempre presentato un grande e imbarazzante problema pratico. Come giustificarne l’esistenza dal punto di vista drammaturgico? Come inserirlo? Come toglierlo? In radio questa difficoltà viene rimossa, ancor prima che si presenti il problema. Il commentatore è già parte integrante della radio. E questa stessa presenza, e niente più, restituisce al poeta quell’obliquità, quella prospettiva, quella terza dimensione senza la quale il grande poema drammatico non può esistere. Rudolf Arnheim [1938] È un trionfo dell’ingegno quando si riescono ad aprire ai nostri sensi mondi nuovi dove non valgono più le relazioni spazio-temporali reali, ma dove spetta invece all’intuizione con le sue associazioni determinare quali impressioni e quali ragionamenti unire insieme. Quel che succede, nel momento dell’ascolto, nei punti diversi di un campo sportivo, di una città, di un paese, del mondo, la radio lo può captare e montare in un modo tale che chi ascolta faccia esperienza, nei luoghi più disparati, di quella successione temporale unica che è comune a tutto il mondo. […] Egli può con il suo apparecchio passare in fretta da una stazione all’altra, può abbandonarsi completamente all’ebbrezza della vastità e molteplicità della vita terrena, oppure può trarre dai numerosi programmi del momento ciò che gli piace per costruirsi con questi prodotti di tutto il mondo un suo montaggio soggettivo. Enrico Rocca [1938] Come l’umidità atmosferica è l’agente che modifica i metalli (l’aria provoca la ruggine nel metallo), così, immersi nell’invisibilità, parola, suono e rumore diventano diversi dal solito perdendo qualità che avevano e assumendo nuove possibilità d’espressione. L’invisibilità li corrode, li menoma, li accresce, li trasforma, li trasfigura. Più ancora dei suoni e dei rumori, la parola subisce per radio gli effetti dell’invisibilità. Essa comincia, per così dire, a perder di peso specifico e tende a volatilizzarsi. […] La radio dice ma non ascolta. Parla ma non può rispondere. Appartiene ad un essere umano, ma non è che voce, significato, espressione. L’elemento invisibile in cui la parola si è immersa, lo spazio irraggiungibile in cui risuona l’hanno come sciolta dalla persona fisica del parlatore. 7 Rodolfo Sacchettini Val Gielgud [1946] Finora non c’è nulla che possa aiutare il radiodramma così efficacemente quanto la musica, sempre presumendo che questa venga adeguatamente scelta o composta, giustamente bilanciata e suonata in modo competente. […] La musica può intensificare l’atmosfera drammatica di una scena, può anche aiutare la sua concretizzazione fisica. Per questo non è il caso, come invece era per gli effetti sonori, di lasciarla in mano ai produttori. Le sceneggiature che richiedono un’aggiunta musicale, devono essere scritte con un preciso indirizzo musicale, e anche avendo in mente il nome di uno specifico compositore. Leonardo Sinisgalli [1947] Questo strumento che tra la luce e i rumori del giorno perde i suoi attributi miracolosi, riattinge nel cuore della notte, simile a certi fiori e a certi mostri, le sue incantevoli virtù. Direi che in quel silenzio la radio diventa qualcosa come un medium, un medium cosmico che stimola non solo il nostro udito, ma sommuove la nostra coscienza nelle facoltà più indecifrabili: la memoria e il presentimento. […] I nostri libri più cari stanno lì, accanto al letto. E noi ci siamo chiesti: non potrebbe la radio periodicamente sostituirsi al libro che teniamo sul comodino? Portarci tra veglia e sonno il conforto di parole assolute, legarci, senza filo, a un cielo suggestivo, il cielo animato dalla Poesia? Alberto Savinio [1948-1949] Opera radiofonica è quella in cui tutto si ascolti e niente si veda. E se il non vedere è un limite, l’opera radiofonica di quel limite fa la sua forma. La radio è uno strumento – un mezzo. Ogni nuovo strumento (ogni nuovo mezzo) è l’origine di una nuova forma (mentale, d’arte ecc). Carlo Emilio Gadda [1955] Il pubblico che ascolta una conversazione è un pubblico per modo di dire. In realtà si tratta di “persone singole”, di monadi ovvero unità, separate le une dalle altre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave delle ipotesi è in compagnia di “pochi intimi”. Seduto solo nella propria poltrona, dopo aver inscritto in bilancio la profittevole mezz’ora e la nobile fatica dell’ascolto, egli dispone di tutta la sua segreta suscettibilità per potersi irritare del tono inopportuno onde l’apparecchio radio lo catechizza. 8 SIMONE CAPUTO E ALESSANDRA CAVA (a cura di) 2009-2011 / SANTARCANGELO IN ASCOLTO Rodolfo Sacchettini racconta tre anni di radio al Festival L’arte dell’ascolto: domande essenziali Nel 2009, il primo anno di Santarcangelo 2009-2011, ho proposto a Chiara Guidi un progetto sul radiodramma. La mia intenzione era di mettere in campo una domanda sull’uso creativo della radio, partendo dalle prime interrogazioni che si sono posti i teorici, gli artisti, i protagonisti dell’epoca delle origini, molte delle quali oggi ancora valide. Ho recuperato i primi materiali disponibili negli archivi Rai, risalenti all’immediato dopoguerra. Mi interessava rimettere in circolo del materiale radiofonico, con la consapevolezza che se tutti sanno genericamente cos’è un radiodramma, per le nuove generazioni (compresa la mia) non c’è mai stata una vera esperienza di ascolto. Proporre agli spettatori del Festival di Santarcangelo un materiale così antico ha significato perciò riflettere su come è cambiato l’ascolto oggi, a partire dai problemi relativi alla durata. Il confronto con Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, che da anni si interroga sul rapporto tra teatro e musica, sulla capacità immaginativa dell’ascolto, è stato certamente il primo banco di prova. L’altra questione che mi sono posto era: come ascoltare? Si presentavano due possibilità: da una parte costruire una sorta di luogo 9 Rodolfo Sacchettini dell’ascolto, magari in fascia notturna, avvalendosi del buio; dall’altra cercare un luogo conviviale, dove fosse possibile “appoggiare” lo sguardo, avere una libertà minima di movimento per rendere più naturale il momento dell’ascolto, e abbiamo pensato allo storico Ristorante Zaghini. Questo ha permesso di facilitare la fruizione senza creare una cornice troppo impegnativa che avrebbe spettacolarizzato materiali non adatti a reggere un simile peso. Entrando nello specifico, ho individuato due domande chiave che si pone l’ascoltatore di fronte a un’opera radiofonica, due domande “geneticamente” legate a questo mezzo espressivo: “chi parla?” e “dove siamo?”. In particolare ho costruito un percorso in relazione alla domanda sul luogo. Il radiodramma degli anni Trenta ambienta l’azione in luoghi “parlanti”, cioè in ambientazioni che hanno delle qualità sonore, come una nave, un treno, il mare, la montagna: luoghi che hanno dei rumori ben riconoscibili e in cui una varia umanità sia obbligata a conversare. Nel corso del dopoguerra uno dei grandi cambiamenti è stata l’immersione nel mondo interiore, che ben si adatta alla specificità acusmatica del mezzo radiofonico. Ovviamente le possibilità sono tante: l’interiorità può essere il luogo della coscienza o un luogo imprecisato, per citare il radiodramma di Giorgio Manganelli con la regia di Carmelo Bene, oppure può essere l’Agenzia Fix di Alberto Savinio, un aldilà metafisico dove scompaiono i problemi di realismo. Finale del mondo, radiodramma a tre dimensioni Il passaggio successivo è nato dal desiderio di stimolare una compagnia alla produzione di un radiodramma. Occorreva inventare un modo nuovo, che permettesse a un festival di ricerca come Santarcangelo di spostare i limiti. Ho deciso così di coinvolgere una compagnia teatrale, Teatro Sotterraneo, con l’idea che il “sangue” del teatro, la forza del live, potesse essere una delle tante strade possibili per rivitalizzare il genere del radiodramma. Volevo lavorare sulla diretta, sull’accadimento, affinché il radiodramma potesse liberarsi da un immaginario che lo blocca a un periodo lontano nel tempo, considerato, un po’ troppo ingiustamente, polveroso e antiquato. L’idea è stata quella di confrontarsi con il grande evento mediatico del 2010: la finale dei mondiali di calcio, che coincideva con la prima domenica dei mondiali. Come per tutto il festival diretto da Enrico 10 2009-2011 / Santarcangelo in ascolto Casagrande di Motus, ci si voleva confrontare con la “realtà”, cercando di tradurre, interpretare, trasformare sulla scena quello che accadeva all’esterno. Chi partecipava innanzitutto compiva una scelta: la finale c’era, ma era la Finale del mondo (in diretta su Rai Radio3 con la collaborazione di Antonio Audino) e si giocava in uno stadio di provincia, in collegamento con il luogo più seguito in quel momento dai media di tutto il mondo. Ho chiesto a Teatro Sotterraneo di lavorare pensando prima di tutto alla costruzione del radiodramma, che poi avrebbe avuto una sua realizzazione scenica: non uno spettacolo da mandare in radio, ma un radiodramma da mettere “in campo”. I due momenti dovevano essere assolutamente autonomi: anche gli ascoltatori a casa dovevano fruire un’opera compiuta. La scelta del luogo, lo stadio di Santarcangelo, portava la ricerca su una strada sperimentale, una sorta di “tridimensionalità” del radiodramma, perché il luogo dell’ascolto è dentro il radiodramma e lo spettatore/ascoltatore è dentro la partita: quella sera il pubblico è entrato con la voce nei microfoni non appena ha iniziato a esultare davanti alla partita fittizia, uno contro uno, che i performer mettevano in scena. In questo modo l’ascolto è entrato dentro la drammaturgia stessa del radiodramma. Si teneva presente il celebre episodio di Orson Welles, La guerra dei mondi, e la distorsione del presente di uno scrittore come James Ballard. Festa della radio: nuove strade per l’arte radiofonica Per Santarcangelo 41, diretto da Ermanna Montanari del Teatro delle Albe, sono ripartito con un’altra idea. L’esperimento del Teatro Sotterraneo era stato entusiasmante, ma ha prodotto un’opera unica, irripetibile, legata al momento in cui è accaduta. Quello che mi interessava quest’anno era mostrare un ventaglio di strade possibili per l’arte radiofonica, anche tramite la registrazione. Come rivitalizzare il radiodramma oggi? In che forma, in che modalità, coinvolgendo chi? Tenendo conto del fatto che il radiodramma nasce come arte ibrida, in un crocevia di artisti provenienti da campi spesso molto differenti, ho voluto lavorare sulla pluralità e sull’incrocio. Ho coinvolto Claudio Morganti perché m’interessava l’opera di un grande attore di oggi che si confronta col mezzo radiofonico per vera 11 Rodolfo Sacchettini passione e lo affronta da artista totale. A furor di popolo, ispirato a un testo di Strindberg, è un breve radiodramma che riesce a essere divertente e terribile allo stesso tempo, ed è composto con un’attenzione specifica alla musica e al suono. La partecipazione di Stefano Ricci è nata in modo casuale, quando mi ha raccontato del suo progetto sonoro-musicale. Mi incuriosiva molto l’immaginazione acustica di un artista visivo. Quando ho sentito i primi frammenti mi è sembrato giusto spingerlo a pensare a un’opera radiofonica. Chiedi alla scimmia è un percorso sonoro e rumoristico nel quale le parole sono immersioni in un universo onirico. Per certi versi mi fa pensare a Weekend, un radiodramma astratto degli anni trenta di Walter Ruttmann: sia per il montaggio frenetico che per la qualità sonora. A Menoventi ho chiesto di iniziare a lavorare a partire da Postilla, un loro lavoro per spettatore unico che prevede un contratto da firmare prima di assistere allo spettacolo. Mi è sembrato un interessante punto di inizio per la radio: la forma radiofonica può moltiplicare il suo carattere singolare, senza per questo trasformare il pubblico in massa. Alla fine degli anni Venti un teorico francese, Paul Deharme, si spinse a redigere dodici regole per scrivere un radiodramma. L’idea di base consisteva nel costruire un’opera nel quale l’ascoltatore fosse il vero protagonista e quindi la drammaturgia doveva essere costruita sempre con la seconda persona singolare, appellarsi direttamente all’ascoltatore. Una posizione che, resa regola, diventa senz’altro estrema, ma comunque un buon punto di partenza affinché i Menoventi iniziassero a costruire la propria opera utilizzando anche lo spazio scenico. In linea alla loro poetica viene fuori un sistema di scatole di cinesi, tra parti eseguite dal vivo e voci registrate. Per finire, il radiodramma di Fanny & Alexander 338171, TEL, parte integrante ma autonoma di T.E.L., spettacolo ispirato alla figura di Lawrence d’Arabia che si svolgerà contemporaneamente in due spazi diversi (Santarcangelo e Ravenna) fra loro connessi in modo che possano dialogare in contemporanea. È una sorta di trasmissione radiofonica di cui io sono il conduttore. Ci sarà da un lato la trasmissione di lancio, dall’altro i collegamenti con i due spazi, dove verranno colte in diretta le voci e le sonorità. I Fanny & Alexander hanno lavorato sulla forma radio nella radio: trasmissione radiofonica e connessione reale con quello che accade. Il tutto è inserito all’interno di una cornice finzionale che si ispira in parte ad Infinite jest di David Foster Wallace. 12 2009-2011 / Santarcangelo in ascolto Prospettive future per l’arte radiofonica Rai Radio3 è l’unica emittente che attualmente investe sul radiodramma. È sempre stata la radio pubblica a dare spazio a queste esperienze: le radio private che hanno lavorato in modo creativo sul radiodramma sono molto poche. Si parte da questo dato di fatto, che è un grande limite. D’altronde per fare cose serie e belle ci vuole uno sforzo produttivo, oltre che una maggiore sensibilità. Credo comunque che nel panorama complessivo l’attenzione stia crescendo, sia per quanto riguarda l’ascolto specifico del radiodramma, sia per quanto riguarda le forme sperimentali che all’interno del teatro gli si avvicinano . La radio mantiene nonostante tutto una sua freschezza e innesca una riflessione sull’ascolto che sarebbe da potenziare, alimentare, rafforzare. Grazie a un certo tipo di tecnologia che rende fattibili operazioni fino a qualche tempo fa impensabili, qualcosa si sta muovendo. Le potenzialità delle web-radio e degli archivi digitali ad esempio sono enormi. Secondo me bisognerebbe prima di tutto trovare un modo intelligente di rimettere in circolo il materiale esistente, esperienze antiche e anche relativamente recenti, ma praticamente sconosciute. Solo in questo modo si può alimentare un immaginario, abbattere qualche stereotipo e creare un contesto, dentro il quale sia possibile per il radiodramma riprodursi in forme nuove e vive. 13 SIMONE CAPUTO RADIO DAYS Alcune annotazioni sui teatri alla radio negli ultimi anni Per chi è chiamato a raccontare un Festival come quello di Santarcangelo è fin troppo facile scrivere che in questi tre anni, negli spazi e nei tempi del teatro, è stato ritagliato un posto centrale a percorsi sul radiodramma. Eppure – o meglio purtroppo – a un osservatore attento non sfuggirà qual è la situazione in cui versa l’invisibile arte del radiodramma oggi, in Italia: se si escludono questo festival e altre rare esperienze, anch’esse circoscritte nel tempo, l’unica realtà che con continuità investe e ha investito sul radiodramma è Rai Radio3. Quello di Radio3 non è un ruolo facile, se si considerano gli stereotipi che dipingono il radiodramma con un’arte fuori moda, se si tiene presente il modello di ascolto frammentato dominante e se si guarda all’assenza di un contesto che favorisca una ricezione curiosa. In un sistema malato come quello dei finanziamenti alla cultura oggi – in cui non si capisce più cosa debba essere finanziato e cosa no, cosa necessiti di sostegno e cosa debba essere invitato a farcela con le proprie gambe – non c’è certo posto per il radiodramma, che andrebbe invece sostenuto con maggiori sforzi produttivi, per favorire idee e potenziare sperimentazioni, per innescare incontri e intersezioni necessarie con altre arti. Per fare un paragone che rende bene l’idea dello stato delle cose in Italia, un po’ più a nord, in Germania, oltre all’azione propositiva di 15 Simone Caputo alcune radio, si contano numerosi festival annuali dedicati a radiodrammi e audiodrammi: la Berliner Hörspielwoche, l’Erlanger Hörkunstfestival, l’Hörspielfest di Weimar, la Leipziger Hörspielsommer, per fare alcuni nomi. In Italia, l’attenzione al radiodramma di Rai Radio3 è un percorso di lunga durata, e legato oggi ai nomi di Anna Antonelli, Antonio Audino, Laura Palmieri, Lorenzo Pavolini, che insieme ad altri collaboratori sono tra quanti hanno curato e proposto radiodrammi in questi anni. Spesso questa attenzione si è sposata con l’interesse per il teatro, per quello che può generare l’incontro tra un’arte drammatica visibile e un’arte drammatica invisibile: andando indietro nel tempo si potrebbe fare il nome del progetto Teatri alla radio, curato da Luca Ronconi nel 1997, per uno sforzo numerico – 35 opere per 250 attori e 20 registi – e un investimento – 30 milioni in media ad allestimento – oggi impensabile; quindi quello di Teatri alla radio – Europa oggi, sui contemporanei europei del teatro, curata da Franco Quadri nel 1999; e ancora quello de Il Terzo Orecchio, a cura di Mario Martone, del 2002, viaggio sonoro nel teatro attraverso nuove produzioni in cui testo, voce, suoni, musica sono montati come un’unica scrittura radiofonica. E infine, lo scorso anno, Radio3 ha festeggiato con Una festa lunga un mese i suoi sessanta anni, proponendo i radiodrammi di Giosuè Calaciura, Carlo D’Amicis, Nicola Lagioia, Chiara Valerio, quattro opere senza montaggio, messe in onda dal vivo, come fossero spettacoli teatrali che avvenivano in luoghi e momenti stabiliti. Un percorso, dunque, che nella produzione ha sempre avuto il suo cardine, pur essendo mutato negli anni l’orizzonte teatrale a cui riferirsi per generare un incontro con la radio. Ci sarebbe, a questo punto, solo da chiedere un’ulteriore regalo a Radio3: un archivio consultabile e ascoltabile on-line con i tanti e tanti radiodrammi che RadioRai ha prodotto in molti anni di storia; perché solo se esiste un contesto un’arte può vivere, e solo se esiste una memoria può alimentare il proprio immaginario. 16 LORENZO DONATI RADIO, CALCIO, TEATRO IN UNA “FINALE DEL MONDO” Indagare i rapporti fra teatro, radio e calcio significa oggi affacciarsi a un panorama da una parte vastissimo, data la mole di produzioni che in certa misura potrebbero avere una proiezione radiofonica o un contenuto calcistico, dall’altra piuttosto ristretto o inesistente, se proviamo a cercare qualcuno che tenti davvero di mettere insieme le prospettive senza prendere scorciatoie, senza mistificare, senza considerarsi alla stregua di filosofi che discettano di un fenomeno puramente sociologico. La questione è complessa e converrà delimitare il campo. I rapporti fra radio e teatro corrono paralleli con la nascita del mezzo stesso, con il radiodramma a fungere da genere prodotto e “inventato”, e non adattato da altri formati. Non si tratta qui però di ripercorrere le sorti di un genere, né di inseguire la storia della radio e della sua relazione con il teatro. Per provare a porci domande radiofoniche osservando il panorama teatrale esistente possiamo guardare alla “dimensione radiofonica nascosta” di alcune opere teatrali, in particolare a chi sceglie di indagare la dimensione uditiva come fonte primaria di un discorso drammaturgico che a tratti deve fare a meno della vista, proprio come se si trattasse del celebre “teatro per ciechi”, definizione delle origini del radiodramma. Non chi lavora 17 Lorenzo Donati sul suono e sulla voce con una particolare attenzione alla phonè, ma chi ritiene di dovere fare a meno della vista per porre domande nuove a chi guarda. In questo campo, non basta solamente “eliminare”, ma occorre concentrarsi su uno specifico uditivo: non si tratta quindi di concepire un ascoltatore in grado di «completare con la sua fantasia quello che manca», come già ammoniva Rudolph Arnheim nel suo “classico” La radio, l’arte dell’ascolto (1933), ma di ritenere completi suono e ascolto, chiedendo lo stesso a chi ne fruisce. Così è per Teatro Anatomico Infantile di Chiara Guidi e Scott Gibbons, presentato nel 2009 al festival di Santarcangelo. Si era di fronte a una porta chiusa, in una piazzetta del paese. Dentro, un gruppo di bambini era alle prese con un mondo di cui ci era negata la vista. L’incontro con una pianta, con un tacchino che si metteva a dialogare con i bimbi, venivano a noi rimandati in forma di suoni provenienti da un altrove invisibile, un mondo che procede per logiche differenti dalle nostre e al quale si può solo credere o non credere: non c’è mediazione possibile, o si è dentro o si sta fuori, e da fuori si ascolta. Dentro/fuori, a ben vedere, potrebbe essere il nodo sul quale insistere, in tempi di patine e superfici. In South di Fanny & Alexander, opera del ciclo sul Mago di Oz che ha debuttato nel 2009, dopo una prima parte “visibile” occupata dalla presenza di Dorothy, l’attrice Fiorenza Menni, si abbassano le luci e lo spettacolo per quaranta minuti non si vede più. Il suono è a tratti mimetico, e ci porta al fianco di Dorothy in strade deserte o al centro di piazze affollate, a tratti si fa astratto, seguendo le ritmiche di un ensemble di percussionisti. Il gruppo di Ravenna spinge gli spettatori a guardare non più fuori ma dentro, “pilotando” alcune percezioni ma poi lasciandoti solo, come a un bivio in cui la responsabilità di ciò che accadrà è solo tua, vale a dire della capacità di chi ascolta di creare un mondo. Altri ravennati sono i giovani Erosanteros (Davide Sacco e Agata Tomsic), di cui asprakounelia (Treno Fantasma) è l’opera prima. Qui ci troviamo in una stretta tribuna che pare un piccolo vagone ferroviario, in cui udiamo le voci di Presley e Haley, fratello e sorella bambini ripresi dalla penna di Philip Ridley. Le loro ossessioni, l’irruzione dell’enigmatico Cosmo Disney, i loro sogni inquinati arrivano a noi solo in audio, perché dentro è tutto buio. È come se fossimo nella mente dei due bambini: là dentro l’infanzia non finisce e non “cresce”, è una mente che solo per subitanei momenti “manifesta” frammenti di visioni distorte (una luce intermittente mostra lacerti di corpi, surreali danze su canzonette infantili, numeri freak in cui l’ospite mangia scarafaggi). 18 Radio, calcio, teatro in una “Finale del mondo” Pieni di “io” che non fanno mai i conti con il pudore dell’interiorità, manipolati e spinti a proiettarci nelle superfici delle figure massmediali, queste proposte teatrali si affidano alla sfera uditiva e indicano una via che ci obbliga a domandarci “chi siamo” noi di fronte all’opera, e anche dove siamo, da che punto stiamo partecipando. Si tratta di tre esempi crediamo significativi per avvicinarci a ciò che stiamo cercando, ma il panorama è vasto e in buona parte ancora da esplorare. Saltando sulla sponda del calcio, una questione preliminare potrebbe avere a che fare con la “persuasione”. Manuel Vásquez Montalbán sosteneva che l’epica del calcio, ossia un modo di raccontarlo in grado di partecipare al racconto, e non solo di intellettualizzarlo alla stregua di un mero dato sociologico, pertiene in particolar modo agli scrittori sudamericani, quando invece in Europa una patina di “raziocinio” aleggia in ogni discorso. Così, quello che oggi sembra più interessante non sono tanto l’analisi, l’interpretazione. Cioè non chi prende il calcio come pretesto per mettere al centro un’operazione speculativa che non ha più nulla a che vedere con il sudore, con la fatica, con l’allegrezza di una partita, ma chi davvero “gioca a calcio” con il teatro, con la penna, con il cinema, in modo che solo dalle pieghe del gioco emerga un discorso. Chi insomma si prende il rischio di guardarlo da dentro, compresi i suoi deliri di onnipotenza, comprese le sue nefandezze, senza voltare lo sguardo, senza ritenersi superiore. Specularmente, e pare una contraddizione, occuparsi di calcio oggi ha davvero senso se si riesce a parlare d’altro, a sganciarsi dal puro e semplice racconto, dalla cronaca, per alzare lo sguardo a un contesto generale, a un mondo che si sta sgretolando. Da queste duplice prospettiva il calcio può ancora dirci molto: uno sguardo che sappia stare all’interno di un frammento, che sappia assumerlo accettandone le regole, “giocando” sul serio, come in altre lingue si gioca al teatro, come in inglese radiodramma si traduce con Radioplay e infine, scomodando Carmelo Bene, come l’abbandono che richiede l’atto, contrapposto alla progettata azione. Giocare, dunque, per essere in grado di connettersi a discorsi più generali. Viene in mente il campetto del Villaggio Anic disegnato da Davide Reviati, metafora di una più generale crescita “nell’assurdo” e in un magico che va quotidianamente inventato, in cui i dribbling sono il punto di collegamento fra le nubi tossiche del petrolchimico e il dialogo con Teodorico a cavallo; viene in mente «il calcio è un gioco e lei è fondamentalmente un uomo triste», la frase che il presidente del club rivolge all’Antonio Pisapia de L’uomo in più di Paolo Sorrentino, 19 Lorenzo Donati che ha scelto di non vendere una partita sprofondando nella sconfitta, quella di chi non trova posto in un mondo consumato da compromessi e feste tutto l’anno. Non è facile trovare esempi teatrali che percorrano questa strada perché quasi sempre il calcio è raccontato, come nelle pur preziose prove d’attore di Davide Enia – che al calcio ha dedicato uno spettacolo, un ciclo di trasmissioni radiofoniche e un libro – o si presta a disamine filosofico-sociologiche dirette, in cui più dell’atto in sé contano il pensiero, l’operazione dell’artista. Un esempio in senso inverso sta nella scrittura di Marco Martinelli, che in Incantati (1994) ha saputo ritrarre un paesino della provincia romagnola attraverso le sorti di due fratelli e una sorella, proprietari, allenatori, giocatori e custodi della locale squadra. Il calcio, a ben vedere, è qui linguaggio che permette di raccontare l’oggi, i piccoli intrighi quotidiani di un paesino di provincia (cioè dell’Italia), in cui il talento di un ragazzino di nove anni vale esclusivamente come merce di scambio che garantisce denari. Chi in maniera mirabile è riuscito di recente a tenere insieme tutte queste prospettive è il collettivo fiorentino Teatro Sotterraneo, nel progetto Finale del Mondo. Si tratta di una commissione che l’ultimo festival di Santarcangelo gli ha rivolto, inserita nel percorso “L’arte invisibile. Radiodrammi” a cura di Rodolfo Sacchettini: misurarsi con l’evento mediatico per eccellenza, la finale dei mondiali, immaginando un formato a un tempo radiofonico e performativo, vale a dire un radiodramma da trasmettere in diretta su Rai Radio3 in contemporanea con la partita ma che fosse anche “visibile” dal pubblico nello stadio del paese. Dato il carattere unico dell’evento proveremo a raccontare cosa è accaduto a Santarcangelo 40. Si attende fuori dal cancello finché un addetto alla sicurezza col megafono c’invita a entrare. Siamo quasi trecento e ci sistemiamo sulle gradinate della stadio Valentino Mazzola di Santarcangelo. Dietro a noi udiamo delle voci, sono i conduttori di Radio 3 che dalla regia si stanno collegando per la diretta. Mancano venti minuti al termine della finale, in campo a Santarcangelo entrano due calciatori e iniziano un paradossale match uno contro uno. Ai gol, noi in tribuna esultiamo e inveiamo, anche se l’arbitro non c’è. Sulla tribuna opposta un solo tifoso inneggia, lancia fumogeni, picchia bastoni, al suo fianco un micro-televisore sembra essere sintonizzato sulla partita “vera”, quella al Soccer City di Johannesburg. Nel nostro campo non c’è nessuno che racconta, non ci sono attori che impersonano dei calciatori o personaggi che rimandano 20 Radio, calcio, teatro in una “Finale del mondo” a figure sportive: nel nostro campo si consuma un match “reale”, i due si rincorrono, si producono in scivolate, arrancano esausti. D’improvviso in tribuna giungono due cronisti che si collegano con un inviato in Sudafrica, il quale sta seguendo un attentatore deciso a interrompere la partita “vera” e a provocare una strage. Ora anche noi siamo semplici ascoltatori e immaginiamo le strade deserte della capitale africana nei pressi dello stadio gremito, poi il brulicare dei cancelli di sicurezza, le cartacce a terra, i poliziotti che inspiegabilmente lasciano entrare l’individuo in giacca e borsone scuri, con il cronista che ci informa di averne perso le tracce nella calca. Ora neppure noi possiamo vedere ciò che accade, ci è richiesto di ascoltare, di “credere o non credere” a una voce che sostiene di essere nelle strade deserte del Sudafrica. Ebbene, a tutto questo ci crediamo, nonostante l’evidente raggiro: siamo lì a esultare per una partita di due disperati in un campo deserto; attendiamo che l’inviato faccia qualcosa, che provi a fermarlo, ma diamo per buona una semplice intervista in cui alla domanda «perché lo fai?» segue un laconico silenzio; infine, quando l’attentatore entra sul campo, la cronaca ci dice che «in questo momento Wesley Sneijder ha bloccato il pallone con le mani», ma di fronte a noi c’è Daniele Villa del Teatro Sotterraneo a eseguire gli stessi gesti. Quando a Johannesburg il cronista perde le tracce, ecco che a Santarcangelo un uomo vestito di nero trasporta al centro del campo un borsone. La voce porta avanti la cronaca, dice di uno stadio attonito, in cui pubblico e calciatori attendono e osservano muti, come nel nostro stadio, in cui il silenzio si può tagliare. Al centro del campo, estratta un’asta microfonica, l’uomo canta The Show Must go on, una voce ruvida, un grido che esplode in un onomatopeico Bum. «Questa è la fine della finale dei mondiali, è il modo in cui la finale finisce, e non finisce. Qua il tempo si è fermato. Questa è l’ultima telecronaca e c’è un solo risultato possibile». Quell’uomo è “davvero” un attentatore, perché l’arte rende il suo Bum molto più tangibile delle immagini dei Tg; quell’uomo è “davvero” un cantante (Claudio Tosi), e il brivido lungo la schiena mentre le sue corde vocali grattano è la riprova di come l’arte, in pochi casi ancora in vita, sia in grado di spazzare via con un grido molti “discorsi sull’arte”, e restare così impressa nella mente di chi c’era. Il Sotterraneo non ha fatto uno spettacolo sul calcio, ha davvero giocato una partita. Dalla partita ha poi saputo alzare lo sguardo, per aprirsi a tutto quello che calcio non è ma comunque gli ruota attorno, cioè il mondo di oggi nella sua interezza: il terrorismo, 21 Lorenzo Donati l’ansia e l’attesa quotidiana di un accadimento “finale” che scuota il nostro presente tetro, il sistema mediale compresi i suoi tic e le sue narrazioni, come quando i cronisti lasciano intendere che dietro all’attentato potrebbe esserci un qualche «sistema» all’opera, una struttura narrativa classica dei serial statunitensi Sci-Fi. Il collettivo fiorentino ha anche raccolto la sfida della radiofonia, concependo un’azione visibile per chi era a Santarcangelo ma all’interno della quale molto non si poteva vedere, con una voce lontana a rimandare a un altrove per davvero credibile perché invisibile. Ed è grazie alla dimensione radiofonica live, al suo particolare statuto di accadimento che deve essere in grado di arrivare a un qui ed ora di chi guarda e all’imprecisabile distanza di chi ascolta, che Finale del Mondo ha saputo rielaborare gli assilli della dicotomia verità/finzione, dimostrando che è vero ciò che riteniamo tale, quindi anche un atto di terrorismo poetico su frequenze radio che da Johannesburg si manifesta in Romagna. Infine, più di tutto, il Sotterraneo ha saputo guardare ciò che accade prendendolo sul serio, merito da spartire con uno dei pochi festival che tenta la via di un progetto culturale: artisti e organizzatori hanno fatto i conti con l’intrattenimento, con le sporcizie della melma mediatica che ci avviluppa, sapendo che là dentro spesso ci si diverte, perché negarlo, ma anche e soprattutto che è indispensabile restare vigili, non spegnere il cervello, non farsi abbacinare, per metterla in un angolo, quella melma, farle uno sgambetto, gabbarla e così superarla. Di questo, oggi, abbiamo bisogno più che mai, e i punti di crisi e di apertura dati dagli incroci fra calcio, teatro e radio possono essere delle porte per tornare a parlare al mondo – e non solo del mondo – e per inventare una forma che contenga continue domande su cosa stiamo vedendo. Questo articolo è stato pubblicato sul numero n. 126/127 del dicembre 2010/gennaio 2011 della rivista “Lo Straniero” 22 SIMONE CAPUTO, ALESSANDRA CAVA (a cura di) SCENE RADIOFONICHE Questa sezione raccoglie le parole di alcuni artisti che hanno risposto sollecitati a riflettere sull’utilizzo creativo della radio. Le righe che seguono partono dall’esperienza concreta e affrontano la relazione tra la scena e il mezzo radiofonico, immaginando le aperture di prospettiva per l’arte del radiodramma. Per Ermanna Montanari, direttrice artistica di Santarcangelo 41, il festival stesso fornirà alcune delle risposte possibili: «La Festa della radio, questa sontuosità che accoglierà quattro opere radiofoniche, o Radio Gun Gun, che incontrerà gli artisti durante il dopofestival all’Odeon. Le risposte sono nella concretezza del fare, la visione è sempre là dove la cosa esiste. Questo ci permette di inseguire, imparare, procedere». Gianni Farina / Menoventi La capacità di produrre immagini è l’elemento comune tra radiodramma e teatro che più ci interessa. Il radiodramma può essere considerato come una iconoteca, come una stanza in cui si producono, si ricevono e si consumano immagini. La sua cifra consiste nell’ascolto, quindi le immagini sono senz’altro immagini mentali, ma le scienze cognitive ci insegnano che per la mente umana non esistono sostanziali differenze tra immagini provenienti dall’esterno e immagini interiori. A livello neuronale la differenza non esiste: chi dice quindi che debba subentrare uno scarto nella profondità del pensiero? Se c’è differenza, 23 Simone Caputo, Alessandra Cava essa esiste solo nella parte più superficiale del processo cognitivo, la coscienza. Il radiodramma quindi sconfina sempre nel regime scopico abitualmente attribuito alle arti figurative e al teatro, generando immagini vivissime dalle possibilità evocative illimitate. Questo non significa che non esistano sostanziali differenze: per quanto ci riguarda, il lavoro di “traduzione” da Postilla a Il Contratto ha richiesto una totale riscrittura e rimodellamento dell’opera, che ci ha portato a cambiare lo stesso titolo. Quel che allo stesso tempo ci interessa è lo scarto che esiste tra teatro e radiodramma nell’interazione con lo spettatore. Mentre a teatro è sempre possibile costruire un rapporto bidirezionale tra palco e platea, la radio complica la situazione: la relazione tra l’opera e l’ascoltatore diventa monodirezionale. È proprio questa barriera che cerchiamo, con un piccolissimo primo passo, di incrinare con Il Contratto. Il radiodramma lancia una sfida che cogliamo partendo proprio da questo progetto, investigando i limiti e i punti di forza della relazione via etere. Il Contratto tenta di sfruttare le peculiarità della radio agendo su tre livelli di relazione: il live, il registrato e il registrato nel registrato, cercando di ricreare una selva di cornici comunicative in cui perdere il contatto con... l’etere. Sì, questa è la cosa più divertente: il radiodramma in un certo senso non esiste, è una cosa invisibile e intangibile che viaggia nell’aria. Dov’è? Non è solo nella sede di trasmissione o a casa dell’ascoltatore: ci circonda, è ubiquo. Quando diciamo “a casa dello spettatore” in realtà operiamo un’approssimazione poco convincente, altro spunto di riflessione che ci interessa moltissimo. Oggi la fruizione del radiodramma è cambiata; mentre fino a pochi anni fa lo si ascoltava unicamente alla radio, quindi a volte quasi casualmente o quantomeno con modalità e tempi determinati dall’esterno, dal palinsesto, le odierne tecnologie permettono di effettuare una scelta: il radiodramma è sempre più fruito attraverso computer, iPod e mezzi simili, quindi è spesso scaricato da internet, in podcast o peer-to-peer, come un oggetto di scambio tra amici. L’incontro con l’opera quindi cambia: la possiamo cercare, possiamo scegliere esattamente dove e quando ascoltarla. L’influenza di questa scelta e delle condizioni di fruizione dell’opera sono alla base di Postilla; da cui lo sviluppo naturale da spettacolo a radiodramma. Le nuove tecnologie permettono di ascoltare il programma in viaggio, durante lunghi spostamenti; ecco quindi che ritorniamo sulla dislocazione: dov’è lo spettatore? Una bella sfida, che a un primo approccio ci sembrava una limitazione insormontabile: noi 24 Scene Radiofoniche parliamo a lui direttamente, ma non sappiamo in quale contesto si trovi mentre le nostre voci lo raggiungono. Dopo un primo stallo, abbiamo capito una cosa semplicissima, che ci ha permesso di proseguire con il lavoro. Anche l’ascoltatore non sa dove siamo noi, e potremmo essere più vicini di quello che immagina... Chiara Guidi / Socìetas Raffaello Sanzio Ciò che avvicina il mio lavoro alla radiofonia è un comune desiderio di riuscire a vedere attraverso il suono: attraverso il suono realizzare lo sguardo, la visione, cioè il teatro. Ci sono tuttavia delle differenze tra teatro e radiodramma che vanno rispettate e sulle quali non va fatta confusione. Il radiodramma porta con sé la forza e la potenza delle parole: scrivere un testo teatrale pensato per la lettura alla radio è ancora più complesso che pensarlo per la scena. Alla radio il significato è preponderante come all’interno di una poesia, dove la parola e il suono sono allineati. Mentre il teatro è un luogo che si sceglie di varcare, il radiodramma non ha un pubblico pagante. Questo obbliga a concepire radiodrammi specifici per fasce d’orario e adatti alle situazioni quotidiane di ascolto: condizioni che non abbassano il livello della tensione, ma ne accentuano la forza. Il radiodramma ha a che fare con una tecnica che è quella radiofonica, e con un pubblico occasionale, episodico, abituato ad ascoltare della musica con equalizzazioni molto particolari: non è più possibile pensare che possa essere soddisfatto dalla linearità di un racconto; occorre forse creare una visione più complessa utilizzando al meglio le tecniche avanzate. Spesso si usano in radio macchine di altissima qualità che però rendono la voce chirurgica, irriconoscibile rispetto alla varietà e alla fragilità della vita. Mai come in questo momento sarebbe bene lavorare per la radio come se non la si conoscesse. Penso alle prime esperienze fatte nella radio italiana negli anni Quaranta e Cinquanta, quando la voce veniva utilizzata per la pura sperimentazione, per ritrovare la verginità dell’ascolto radiofonico attraverso la ricerca sul suono. Deve inoltre esistere un’etica nei confronti del pubblico della radio: gli ascoltatori non possono guardare in faccia chi parla e questo richiede una chiarezza ulteriore nella relazione. La radio ha a che fare con un suono che non sappiamo dove vada a finire, che l’artista 25 Simone Caputo, Alessandra Cava produce prima di tutto per se stesso, primo spettatore, non conoscendo la reazione degli altri. Si lancia, ma non si sa dove va a finire quello che si è lanciato. La scrittura per la radio, la sua drammaturgia, non può occuparsi solo della trama, ma deve contenere al suo interno ogni indicazione di tono, timbro, altezza e intensità della voce. Occorre avere consapevolezza del fatto che le parole che si pronunciano sono prima di tutto suoni che producono immagini. Vanno calibrati in funzione di ciò che si vuol far vedere, non in base al significato delle parole: la drammaturgia che le mette in campo è una drammaturgia musicale. Una voce deve permetterti di vedere un corpo. È questo il centro della ricerca sonora, che va di pari passo con la fabbricazione delle parole, perché alla radio le parole possono davvero essere costruite come dei manufatti. È possibile scrivere un radiodramma dove ci sono contemporaneamente dieci voci, come nella musica? È possibile una partitura musicale fatta di parole? Occorre azzardare. Oltre la semplice messa in voce di un testo, occorre cogliere la visione che si ha di quel testo attraverso la voce, strumento che suona, perché la radio non è per i non vedenti, ma per chi predilige vedere attraverso l’ascolto. Chiara Lagani / Fanny & Alexander Che cos’ha in comune il teatro con l’invisibile arte radiofonica? Il teatro è forse l’arte che coltiva e alimenta maggiormente il rapporto con l’invisibile in un fronteggiamento molto serio e appassionante, che richiede la più particolare tra le competenze: quella per le cose che non esistono. Chi si dedica a quest’agone, spettatore o attore, rinnova collettivamente un’occasione di stupore, perfino di sgomento, insieme a quella specie di trauma originario che innesca il rapporto con un mondo o una lingua dimenticata. È una sorta di squarcio che si apre di colpo su un mistero profondo, un buco. A leggere le cronache degli ascoltatori dei primi radiodrammi, la paura (e l’erotismo della paura), lo spavento patito nel buio, tra le coperte del proprio letto o al “sicuro” nella propria stanza, somigliano straordinariamente a questo buco. Un’emozione che ridisegna i confini della domanda sul rapporto tra realtà e rappresentazione. Un medium è sempre nuovo alla sua nascita e poi nel corso della sua vita rinasce infinite volte, perché le forme artistiche sollevano sempre questioni infinite. Ed è strano, perché è 26 Scene Radiofoniche proprio nel suo agonistico rapporto con la realtà che il radiodramma finisce per scoprire mezzi e vie “non reali”. Altra caratteristica che affraterna evento teatrale e radiodramma sta nel fatto che entrambi non aspirano ad essere “capiti”, ma accolti, come ogni fatto misterioso e forte: si tratta infatti di puri mostri e vitalissimi, fatti di presenza, di fantasmi, di parole pronunciate, fonicamente plastiche, dunque di corpi, di luoghi sonori, mentali, transmentali, di invenzioni di inesistenti, epifanie, magherìe. Come possiamo domandare a un fantasma, a una visione, di spiegarci cos’è? Come accingersi oggi a comporre un radiodramma? Chi si avventura per questa strada avverte forse un po’ di solitudine al principio. Perché il radiodramma sembra a tratti un’arte dimenticata, caduta in disuso. Ha una storia forte, ma non sempre prossima. Ha il forte sapore di una lingua di cui abbiamo quasi dimenticato il significato, come la strana lingua fatta di fascino e mistero, luci e colori, cantata da Landolfi. Eppure chi deve comporre una scrittura in questa lingua nuova e dimenticata ha una grande occasione. In 338171, TEL al principio regnava una specie di libertà e di disordine, selvaggia e imperiosa: qualcosa di molto diverso da quello che si può trovare in una pagina scritta, o anche in quella viva e imprendibile del teatro. Un radiodramma è un animale che ha un suo respiro, che va assecondato, forse questo respiro si può chiamare ritmo radiofonico. Chi si avventura in questo strano rapporto con i fantasmi, insomma, sa oscuramente, come si sa solo nei sogni, che la parola viva occupa sempre uno spazio, ha veste e colore e un suono imprevedibile. Il teatro ritrova da sempre nel suo spazio profondo l’incomprensibilità e la violenza attiva del suono e della parola dei fantasmi. E il radiodramma, forse, ha la possibilità di spingere questo rapporto ancora più in là, in forme ancora misteriose, che necessitano forse di più tempo e di nuove, avventurose esplorazioni. Claudio Morganti Molti anni fa, Carlo Cecchi seguì una nostra intera prova de Il calapranzi a testa bassa, con gli occhi chiusi. 27 Simone Caputo, Alessandra Cava Era a caccia di stonature, incerti ritmi, tempi morti e sbagliati, pause e silenzi privi di consistenza. È un ottimo sistema. Se siete cacciatori di stonature chiudete gli occhi e ascoltate. In principio fu il movimento e tutti vollero guardarlo e dissero: “Che spettacolo!” Poi alcuni (molto pochi invero) dissero: “Spegnete le luci che vogliamo sentire il suono di quel movimento!” e nacque così il teatro. Il teatro è faccenda d’orecchio. Provate. Sedetevi in sala e chiudete gli occhi. Fate attenzione però a non farvi vedere dagli attori. Potrebbe sembrar loro che state dormendo e questo non sarebbe carino. Ma potrebbe accadere anche di peggio. Cullati da giusti suoni e felici intonazioni potreste addormentarvi davvero, magari russare e questo sarebbe uno sconvenientissimo atto di grande maleducazione (a volte si è maleducati senza volerlo). Compito del teatro non è mostrare ma piuttosto evocare. Favorire la nascita di visioni, individuali, private. Ma molte volte il teatro si confonde e crede di essere qualcosa di spettacolare e tristemente perde competizioni con cinema e tecnologie. È per questo che molte volte è meglio tornarsene a casa e accendere la radio. Stefano Ricci Le ragioni per le quali ho iniziato a interessarmi di registrazioni sonore sono consequenziali al disegno, di cui mi occupo, e non basate su una progettualità inizialmente legata al radiodramma. Di fatto ho cominciato un anno fa a riprendere con la macchina fotografica sequenze di movimento di persone, animali, cose, luoghi, per poi usarle come base per piccoli film di animazione. Così facendo mi sono ritrovato tra le mani i suoni derivanti dalle sequenze: da qui è cominciato, con l’aiuto di Cristiano Pinna, un lavoro di montaggio che mi ha dato la possibilità di sperimentare i suoni stessi e di scoprire, anche in un formato di breve durata, il piacere del montaggio sonoro. Ho proseguito poi questi esperimenti, affascinato dalla potenza che il suono ha di restituire l’esistente, la forza visiva che il suono restituisce all’udito. Registrando i suoni ho scoperto la meraviglia dello spegnere il senso più allenato, quello della vista, per concentrarmi sulla vita organica, cogliendola, studiandola, ascoltandola senza vederla. 28 Scene Radiofoniche Disegnare o avere occasioni diverse, come questa che mi ha portato a lavorare sul radiodramma, per me significa ogni volta cercare una pista mossa dalla curiosità verso l’esistente. Tempo fa ho scritto una canzone sulla società italiana di oggi dal titolo Chiedi alla Scimmia: una sorta di fiaba nera che ha inizio con il ritrovamento di una zampa di scimmia nel parcheggio di un supermercato. Quando l’ho proposta al mio amico musicista Zeus, mi ha rivelato che in passato anch’egli aveva fatto un sogno proprio su una scimmia, un sogno molto forte che gli ho chiesto di leggere e registrare di prima mattina, appena sveglio, ancora steso sul letto. Il risultato è stato molto bello. Così ho fatto ascoltare la registrazione alla mia fidanzata, la quale a sua volta mi ha raccontato che a sette anni aveva sognato una scimmia: ha preso il quaderno su cui ancora oggi raccoglie i suoi sogni e ha iniziato a leggere e a tradurre il sogno dal tedesco, che è la sua lingua d’origine. A partire da questi materiali e dal testo iniziale di Chiedi alla scimmia è nato poi il radiodramma che presento alla Festa della radio: un insieme di racconti, sogni, visioni e suoni, espressione di una curiosità verso l’esistente. Teatro Sotterraneo Quel che sin da subito ci ha affascinato lavorando al progetto Finale del mondo, messo in scena lo scorso anno a Santarcangelo 40, sono le due relazioni completamente diverse che un radiodramma messo in scena instaura con lo spettatore: quella dell’ascolto, e quella teatrale. La prima ha a che fare con una dimensione che induce attraverso l’ascolto alla visione; l’altra pone la visione come dato fondativo della relazione. E se il teatro può evocare mondi, il radiodramma ha un’ampiezza di racconto che consente di sconfinare oltre l’orizzonte della menzogna o della simulazione, chiedendo allo spettatore una credibilità totale, laddove il teatro invece pone convenzioni. Nella dimensione di puro ascolto il radiodramma amplia le possibilità di menzogna, che sono al contempo possibilità di verità altre: questo lo scarto che ci ha maggiormente affascinato. Con Finale del mondo abbiamo posto la visione al centro del discorso svolto in un momento preciso, la finale dei campionati del mondo di calcio, e in un luogo preciso, uno stadio di calcio, quello di Santarcangelo, e la credibile menzogna al centro del racconto radiofonico, radiocronaca di una ambigua finale, per poi far 29 Simone Caputo, Alessandra Cava collassare attraverso l’incontro tra l’azione performativa e la visione uditiva le due rette che avevamo portato avanti in parallelo. Due mondi e due pubblici hanno fruito lo stesso evento, liberi di poter reinterpretare e reinventare ciò che veniva evocato: ciò che ci ha affascinato dell’incontro tra teatro e radiodramma è stata anche la sfida che la coesistenza coerente tra i due mondi pone: contemplare entrambi gli aspetti, quello del radiodramma e quello del teatro, compenetrando visione e racconto, giocando sulla questa distanza che collassa in un luogo e in un momento comuni, modo e misura per mettere in relazione i due dispositivi. Quando ci si avvicina all’arte del radiodramma la prima sensazione che si prova è quella di essere un po’ come degli intrusi se la propria specificità è il teatro. Si tratta, dunque, di mettere in relazione questi dispositivi diversi, cercando un equilibrio tra i due. Il punto di partenza di chi si avvicina al radiodramma dal teatro è per certi versi distante; una distanza che però è anche una possibilità di porsi attraverso un punto di vista più ampio. Ciò che affascina di un radiodramma, ciò che gli consente di suscitare nuovi interessi, non è forse la possibiltà di raccontare in sé, l’arte dell’affabulazione, quanto invece la possibilità di aprire a tante realtà altre, di mentire e di destabilizzarmi piuttosto che incantarmi, suggerire prospettive diverse che la visione attraverso l’ascolto del mezzo radiofonico rende possibile. Perché il radiodramma può mettere l’ascoltatore in crisi, può ancora indurlo a chiedersi: “ma sta accadendo davvero?”. 30 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Rudolf Arnheim, La radio, l’arte dell’ascolto e altri saggi, pref. di Emilio Garroni, post. di Alberto Abruzzese, Roma, Editori Riuniti, 2003, [1936]. Enrico Rocca, Panorama dell’arte radiofonica, Milano, Bompiani, 1938. Gian Francesco Luzi, Radiodramma, in Enciclopedia dello spettacolo, fondata da Silvio D’Amico, Roma, Le maschere, 1954-1962. Franco Malatini, Cinquant’anni di teatro radiofonico in Italia, 19291979, Torino, ERI, 1981. Franco Monteleone, Per sola voce. Il radiodramma nel Novecento italiano, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, direzione Roberto Alonge e Guido Davico Bonino, III, Torino, Einaudi, 2001. Enciclopedia della radio, a cura di Peppino Ortoleva e Barbara Scaramucci, Milano, Garzanti, 2003. Angela Ida De Benedictis, Radiodramma e arte radiofonica: storia e funzioni della musica per radio in Italia, Torino, EDT, 2004. Rodolfo Sacchettini, La radiofonica arte invisibile. Il radiodramma italiano prima della televisione, Titivillus, 2011. 31 Nero su Bianco edizioni Luglio 2011