Quaderno n.1
Nero su Bianco edizioni
Luglio 2011
a cura di
Simone Caputo
Alessandra Cava
Hanno collaborato
Lorenzo Donati
Ludovico Orsini Baroni
Serena Terranova
Matteo Vallorani
Disegni di
Anna Deflorian
Brochendors Brothers
Impaginazione
Brochendors Brothers
Anna Deflorian
In collaborazione con
il Coordinamento critico-organizzativo di
Santarcangelo 2009/2011
Si ringrazia
Rodolfo Sacchettini
www.santarcangelofestival.com
www.altrevelocita.it
OCCHIO ALLA RADIO
Il suono crea uno spazio che è spazio d’attenzione, dove l’invisibile
può essere abisso da cui emergono colori, direzioni, distanze. Interrogarsi
oggi sulle potenzialità di un’arte radiofonica, sulla necessità dei suoi
materiali e dei suoi strumenti, vuol dire ripensarne i confini e mettere
alla prova la sua storia e la sua capacità di adesione al presente.
L’arte del radiodramma, l’“arte cieca” delle origini, torna oggi
nel teatro, inteso come spazio in cui agisce la visione, incontrando i
luoghi dell’ascolto collettivo. Abbiamo registrato qui alcuni segni di una
nuova sensibilità che cresce intorno al fenomeno a partire dal progetto
sul radiodramma portato avanti all’interno del triennio 2009/2011 del
Festival di Santarcangelo, che ha invitato gli artisti e il pubblico del
teatro a confrontarsi con il mezzo radiofonico.
«Il teatro è faccenda d’orecchio», scrive Claudio Morganti più
avanti in queste pagine, ma è un orecchio che accoglie visioni, un occhio
privato che coglie e produce immagini. Nello scarto tra la condivisione
dello spazio teatrale e l’intimità dell’ascolto sta forse l’intuizione poetica
da cui partire, nel punto di contatto tra il corpo e la voce dell’attore, tra
la parola e il suono, tra immagine e buio.
Santarcangelo 41 ci dà l’occasione di sostare in questa sospensione
programmando una grande “Festa della radio”: tre ore di radio dal vivo
(in collaborazione con Rai Radio3), quattro radiodrammi, un cinema ad
ospitare l’evento. Questo quaderno vuole essere un accompagnamento
per l’ascoltatore/spettatore in questo viaggio sonoro, raccogliendo
antiche domande, racconti di lavoro e nuove prospettive per l’arte
invisibile.
Alessandra Cava
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INDICE
Parole di radio
pag.5
2009-2011 / Santarcangelo in ascolto
pag.9
Radio days
pag.15
Radio, calcio, teatro in una “Finale del Mondo”
pag.17
Scene radiofoniche
pag.23
Bibliografia essenziale
pag.31
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RODOLFO SACCHETTINI (a cura di)
PAROLE DI RADIO
Si raccolgono qui alcune riflessioni di teorici, critici, artisti, dedicate alla radio,
o per meglio dire alle possibilità creative del mezzo radiofonico. Mettendone
in luce la natura invisibile o l’importanza e la complessità dell’ascolto, questi
pensieri (nati dalle primordiali esperienze italiane, francesi, inglesi, tedesche,
americane) continuano a risuonare ancora oggi e restituiscono l’idea di un
genere artistico sempre alla ricerca della propria forma.
Paul Deharme [1928]
Non è cosa assurda sperare di creare in noi un teatro analogo
a quello del sogno. […] Davanti alle manifestazioni della natura e
dell’arte è un istinto spontaneo quello che ci porta a chiudere gli occhi,
a creare in noi quello stato di assenza che tutti conosciamo. Certo, per
trovarsi a proprio agio in questo mondo immaginario gli ascoltatori
dovranno farsi un’educazione sensitiva. Ma ciò sarà facile perché [la
radio] ci offre il mezzo per neutralizzare ogni realtà tra la sorgente
della suggestione e l’animo dell’uditore che gira il suo film interno. […]
Abbiamo l’arte muta, ecco l’arte cieca.
Enzo Ferrieri [1930]
La riduzione delle opere di teatro a opere radiofoniche, a mio
giudizio deve essere fatta con la massima misura. Un’opera di teatro
può acquistare in una messa in scena radiofonica un carattere nuovo.
Ricordo che abbiamo fatto qualche esperimento per rappresentare
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Rodolfo Sacchettini
radiofonicamente I ciechi di Maeterlinck e che il risultato dal punto
di vista della suggestione e dell’intensità tragica era eccezionale. […]
In conclusione dunque, il punto che io vorrei chiarire è questo: che
l’idea di dare per radio o per cinematografo opere di teatro o romanzi,
presuppone che la trasformazione avvenga nelle forme e con i modi
che la radio o il cinematografo consigliano e pertanto – ripeto – più di
riduzione si può parlare di un’interpretazione diversa.
Bertolt Brecht [1932]
È potuto accadere che la tecnica fosse tanto progredita da
produrre la radio in un’epoca in cui la società non era ancora tanto
progredita da poterla accogliere. D’improvviso si aveva la possibilità
di dire tutto a tutti, ma, a pensarci bene, non si aveva nulla da dire.
E chi erano poi questi tutti?
Renzo Ricci [1934]
I tifosi del calcio ascoltano e seguono in ogni fase una partita
giocata dalla loro squadra preferita contro la squadra avversaria.
La seguono a tal punto che saprebbero descrivere con esattezza le
azioni svolte dai giocatori sul campo non per averle intese dalla bocca
del radiocronista, ma per averle intuite dagli urli della folla e da tutti gli
altri rumori che il microfono ha raccolto sul campo e che l’altoparlante
ha portato fino a loro [...] secondo me, una partita di calcio trasmessa
alla radio è l’esempio più evidente di come dovrebbe essere inteso il
radioteatro.
Carlos Larronde [1936]
Il radiodramma è un dramma rappresentato da anime nude, da
attori senza volto; un dramma che ci obbliga a chiudere gli occhi, non
perché la scena sia invisibile, ma perché una tutt’altra scena ideale
e astratta viene costruita nella nostra immaginazione alla radio, il
dramma si svolge nell’intimo dello spettatore. Si tratta non di rimediare
a una mancanza, ma di creare una presenza, attraverso una nuova
poesia: la poesia dello spazio.
Archibald MacLeish [1936]
Lo speaker è il personaggio drammatico più utile dai tempi del
coro della tragedia greca. Per anni i poeti moderni che scrivevano per
il palcoscenico sentivano la necessità di arrangiare una sorta di coro,
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Parole di radio
una sorta di commentatore. [...] Questo coro, questo commentatore,
ha sempre presentato un grande e imbarazzante problema pratico.
Come giustificarne l’esistenza dal punto di vista drammaturgico?
Come inserirlo? Come toglierlo? In radio questa difficoltà viene
rimossa, ancor prima che si presenti il problema. Il commentatore è
già parte integrante della radio. E questa stessa presenza, e niente
più, restituisce al poeta quell’obliquità, quella prospettiva, quella
terza dimensione senza la quale il grande poema drammatico non può
esistere.
Rudolf Arnheim [1938]
È un trionfo dell’ingegno quando si riescono ad aprire ai nostri
sensi mondi nuovi dove non valgono più le relazioni spazio-temporali
reali, ma dove spetta invece all’intuizione con le sue associazioni
determinare quali impressioni e quali ragionamenti unire insieme. Quel
che succede, nel momento dell’ascolto, nei punti diversi di un campo
sportivo, di una città, di un paese, del mondo, la radio lo può captare e
montare in un modo tale che chi ascolta faccia esperienza, nei luoghi
più disparati, di quella successione temporale unica che è comune a
tutto il mondo. […] Egli può con il suo apparecchio passare in fretta da
una stazione all’altra, può abbandonarsi completamente all’ebbrezza
della vastità e molteplicità della vita terrena, oppure può trarre dai
numerosi programmi del momento ciò che gli piace per costruirsi con
questi prodotti di tutto il mondo un suo montaggio soggettivo.
Enrico Rocca [1938]
Come l’umidità atmosferica è l’agente che modifica i metalli
(l’aria provoca la ruggine nel metallo), così, immersi nell’invisibilità,
parola, suono e rumore diventano diversi dal solito perdendo
qualità che avevano e assumendo nuove possibilità d’espressione.
L’invisibilità li corrode, li menoma, li accresce, li trasforma, li trasfigura.
Più ancora dei suoni e dei rumori, la parola subisce per radio gli effetti
dell’invisibilità. Essa comincia, per così dire, a perder di peso specifico
e tende a volatilizzarsi. […] La radio dice ma non ascolta. Parla ma
non può rispondere. Appartiene ad un essere umano, ma non è che
voce, significato, espressione. L’elemento invisibile in cui la parola si è
immersa, lo spazio irraggiungibile in cui risuona l’hanno come sciolta
dalla persona fisica del parlatore.
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Rodolfo Sacchettini
Val Gielgud [1946]
Finora non c’è nulla che possa aiutare il radiodramma così
efficacemente quanto la musica, sempre presumendo che questa venga
adeguatamente scelta o composta, giustamente bilanciata e suonata
in modo competente. […] La musica può intensificare l’atmosfera
drammatica di una scena, può anche aiutare la sua concretizzazione
fisica. Per questo non è il caso, come invece era per gli effetti sonori,
di lasciarla in mano ai produttori. Le sceneggiature che richiedono
un’aggiunta musicale, devono essere scritte con un preciso indirizzo
musicale, e anche avendo in mente il nome di uno specifico compositore.
Leonardo Sinisgalli [1947]
Questo strumento che tra la luce e i rumori del giorno perde i suoi
attributi miracolosi, riattinge nel cuore della notte, simile a certi fiori e
a certi mostri, le sue incantevoli virtù. Direi che in quel silenzio la radio
diventa qualcosa come un medium, un medium cosmico che stimola
non solo il nostro udito, ma sommuove la nostra coscienza nelle facoltà
più indecifrabili: la memoria e il presentimento. […] I nostri libri più cari
stanno lì, accanto al letto. E noi ci siamo chiesti: non potrebbe la radio
periodicamente sostituirsi al libro che teniamo sul comodino? Portarci
tra veglia e sonno il conforto di parole assolute, legarci, senza filo, a un
cielo suggestivo, il cielo animato dalla Poesia?
Alberto Savinio [1948-1949]
Opera radiofonica è quella in cui tutto si ascolti e niente si veda.
E se il non vedere è un limite, l’opera radiofonica di quel limite fa la sua
forma. La radio è uno strumento – un mezzo. Ogni nuovo strumento
(ogni nuovo mezzo) è l’origine di una nuova forma (mentale, d’arte
ecc).
Carlo Emilio Gadda [1955]
Il pubblico che ascolta una conversazione è un pubblico per modo
di dire. In realtà si tratta di “persone singole”, di monadi ovvero unità,
separate le une dalle altre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave
delle ipotesi è in compagnia di “pochi intimi”. Seduto solo nella propria
poltrona, dopo aver inscritto in bilancio la profittevole mezz’ora e la
nobile fatica dell’ascolto, egli dispone di tutta la sua segreta suscettibilità
per potersi irritare del tono inopportuno onde l’apparecchio radio lo
catechizza.
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SIMONE CAPUTO E ALESSANDRA CAVA (a cura di)
2009-2011 / SANTARCANGELO
IN ASCOLTO
Rodolfo Sacchettini racconta tre anni di radio al Festival
L’arte dell’ascolto: domande essenziali
Nel 2009, il primo anno di Santarcangelo 2009-2011, ho proposto
a Chiara Guidi un progetto sul radiodramma. La mia intenzione
era di mettere in campo una domanda sull’uso creativo della radio,
partendo dalle prime interrogazioni che si sono posti i teorici, gli
artisti, i protagonisti dell’epoca delle origini, molte delle quali oggi
ancora valide. Ho recuperato i primi materiali disponibili negli archivi
Rai, risalenti all’immediato dopoguerra. Mi interessava rimettere in
circolo del materiale radiofonico, con la consapevolezza che se tutti
sanno genericamente cos’è un radiodramma, per le nuove generazioni
(compresa la mia) non c’è mai stata una vera esperienza di ascolto.
Proporre agli spettatori del Festival di Santarcangelo un materiale
così antico ha significato perciò riflettere su come è cambiato l’ascolto
oggi, a partire dai problemi relativi alla durata. Il confronto con Chiara
Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, che da anni si interroga sul
rapporto tra teatro e musica, sulla capacità immaginativa dell’ascolto,
è stato certamente il primo banco di prova.
L’altra questione che mi sono posto era: come ascoltare? Si
presentavano due possibilità: da una parte costruire una sorta di luogo
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Rodolfo Sacchettini
dell’ascolto, magari in fascia notturna, avvalendosi del buio; dall’altra
cercare un luogo conviviale, dove fosse possibile “appoggiare” lo
sguardo, avere una libertà minima di movimento per rendere più
naturale il momento dell’ascolto, e abbiamo pensato allo storico
Ristorante Zaghini. Questo ha permesso di facilitare la fruizione senza
creare una cornice troppo impegnativa che avrebbe spettacolarizzato
materiali non adatti a reggere un simile peso.
Entrando nello specifico, ho individuato due domande chiave che
si pone l’ascoltatore di fronte a un’opera radiofonica, due domande
“geneticamente” legate a questo mezzo espressivo: “chi parla?” e
“dove siamo?”. In particolare ho costruito un percorso in relazione
alla domanda sul luogo. Il radiodramma degli anni Trenta ambienta
l’azione in luoghi “parlanti”, cioè in ambientazioni che hanno delle
qualità sonore, come una nave, un treno, il mare, la montagna: luoghi
che hanno dei rumori ben riconoscibili e in cui una varia umanità
sia obbligata a conversare. Nel corso del dopoguerra uno dei grandi
cambiamenti è stata l’immersione nel mondo interiore, che ben si
adatta alla specificità acusmatica del mezzo radiofonico. Ovviamente
le possibilità sono tante: l’interiorità può essere il luogo della coscienza
o un luogo imprecisato, per citare il radiodramma di Giorgio Manganelli
con la regia di Carmelo Bene, oppure può essere l’Agenzia Fix di Alberto
Savinio, un aldilà metafisico dove scompaiono i problemi di realismo.
Finale del mondo, radiodramma a tre dimensioni
Il passaggio successivo è nato dal desiderio di stimolare una
compagnia alla produzione di un radiodramma. Occorreva inventare
un modo nuovo, che permettesse a un festival di ricerca come
Santarcangelo di spostare i limiti. Ho deciso così di coinvolgere una
compagnia teatrale, Teatro Sotterraneo, con l’idea che il “sangue” del
teatro, la forza del live, potesse essere una delle tante strade possibili
per rivitalizzare il genere del radiodramma. Volevo lavorare sulla diretta,
sull’accadimento, affinché il radiodramma potesse liberarsi da un
immaginario che lo blocca a un periodo lontano nel tempo, considerato,
un po’ troppo ingiustamente, polveroso e antiquato.
L’idea è stata quella di confrontarsi con il grande evento mediatico
del 2010: la finale dei mondiali di calcio, che coincideva con la prima
domenica dei mondiali. Come per tutto il festival diretto da Enrico
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2009-2011 / Santarcangelo in ascolto
Casagrande di Motus, ci si voleva confrontare con la “realtà”, cercando
di tradurre, interpretare, trasformare sulla scena quello che accadeva
all’esterno.
Chi partecipava innanzitutto compiva una scelta: la finale c’era, ma
era la Finale del mondo (in diretta su Rai Radio3 con la collaborazione di
Antonio Audino) e si giocava in uno stadio di provincia, in collegamento
con il luogo più seguito in quel momento dai media di tutto il mondo.
Ho chiesto a Teatro Sotterraneo di lavorare pensando prima di tutto
alla costruzione del radiodramma, che poi avrebbe avuto una sua
realizzazione scenica: non uno spettacolo da mandare in radio, ma un
radiodramma da mettere “in campo”. I due momenti dovevano essere
assolutamente autonomi: anche gli ascoltatori a casa dovevano fruire
un’opera compiuta.
La scelta del luogo, lo stadio di Santarcangelo, portava la ricerca
su una strada sperimentale, una sorta di “tridimensionalità” del
radiodramma, perché il luogo dell’ascolto è dentro il radiodramma e
lo spettatore/ascoltatore è dentro la partita: quella sera il pubblico è
entrato con la voce nei microfoni non appena ha iniziato a esultare
davanti alla partita fittizia, uno contro uno, che i performer mettevano
in scena. In questo modo l’ascolto è entrato dentro la drammaturgia
stessa del radiodramma. Si teneva presente il celebre episodio di
Orson Welles, La guerra dei mondi, e la distorsione del presente di uno
scrittore come James Ballard.
Festa della radio: nuove strade per l’arte radiofonica
Per Santarcangelo 41, diretto da Ermanna Montanari del Teatro
delle Albe, sono ripartito con un’altra idea. L’esperimento del Teatro
Sotterraneo era stato entusiasmante, ma ha prodotto un’opera
unica, irripetibile, legata al momento in cui è accaduta. Quello che mi
interessava quest’anno era mostrare un ventaglio di strade possibili
per l’arte radiofonica, anche tramite la registrazione. Come rivitalizzare
il radiodramma oggi? In che forma, in che modalità, coinvolgendo chi?
Tenendo conto del fatto che il radiodramma nasce come arte ibrida, in
un crocevia di artisti provenienti da campi spesso molto differenti, ho
voluto lavorare sulla pluralità e sull’incrocio.
Ho coinvolto Claudio Morganti perché m’interessava l’opera di un
grande attore di oggi che si confronta col mezzo radiofonico per vera
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Rodolfo Sacchettini
passione e lo affronta da artista totale. A furor di popolo, ispirato a
un testo di Strindberg, è un breve radiodramma che riesce a essere
divertente e terribile allo stesso tempo, ed è composto con un’attenzione
specifica alla musica e al suono.
La partecipazione di Stefano Ricci è nata in modo casuale, quando
mi ha raccontato del suo progetto sonoro-musicale. Mi incuriosiva
molto l’immaginazione acustica di un artista visivo. Quando ho sentito
i primi frammenti mi è sembrato giusto spingerlo a pensare a un’opera
radiofonica. Chiedi alla scimmia è un percorso sonoro e rumoristico nel
quale le parole sono immersioni in un universo onirico. Per certi versi
mi fa pensare a Weekend, un radiodramma astratto degli anni trenta
di Walter Ruttmann: sia per il montaggio frenetico che per la qualità
sonora.
A Menoventi ho chiesto di iniziare a lavorare a partire da Postilla,
un loro lavoro per spettatore unico che prevede un contratto da firmare
prima di assistere allo spettacolo. Mi è sembrato un interessante punto
di inizio per la radio: la forma radiofonica può moltiplicare il suo carattere
singolare, senza per questo trasformare il pubblico in massa. Alla fine
degli anni Venti un teorico francese, Paul Deharme, si spinse a redigere
dodici regole per scrivere un radiodramma. L’idea di base consisteva
nel costruire un’opera nel quale l’ascoltatore fosse il vero protagonista
e quindi la drammaturgia doveva essere costruita sempre con la
seconda persona singolare, appellarsi direttamente all’ascoltatore. Una
posizione che, resa regola, diventa senz’altro estrema, ma comunque
un buon punto di partenza affinché i Menoventi iniziassero a costruire
la propria opera utilizzando anche lo spazio scenico. In linea alla loro
poetica viene fuori un sistema di scatole di cinesi, tra parti eseguite dal
vivo e voci registrate.
Per finire, il radiodramma di Fanny & Alexander 338171, TEL,
parte integrante ma autonoma di T.E.L., spettacolo ispirato alla figura
di Lawrence d’Arabia che si svolgerà contemporaneamente in due spazi
diversi (Santarcangelo e Ravenna) fra loro connessi in modo che possano
dialogare in contemporanea. È una sorta di trasmissione radiofonica di
cui io sono il conduttore. Ci sarà da un lato la trasmissione di lancio,
dall’altro i collegamenti con i due spazi, dove verranno colte in diretta le
voci e le sonorità. I Fanny & Alexander hanno lavorato sulla forma radio
nella radio: trasmissione radiofonica e connessione reale con quello
che accade. Il tutto è inserito all’interno di una cornice finzionale che si
ispira in parte ad Infinite jest di David Foster Wallace.
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2009-2011 / Santarcangelo in ascolto
Prospettive future per l’arte radiofonica
Rai Radio3 è l’unica emittente che attualmente investe sul
radiodramma. È sempre stata la radio pubblica a dare spazio a queste
esperienze: le radio private che hanno lavorato in modo creativo sul
radiodramma sono molto poche. Si parte da questo dato di fatto, che è
un grande limite. D’altronde per fare cose serie e belle ci vuole uno sforzo
produttivo, oltre che una maggiore sensibilità. Credo comunque che
nel panorama complessivo l’attenzione stia crescendo, sia per quanto
riguarda l’ascolto specifico del radiodramma, sia per quanto riguarda le
forme sperimentali che all’interno del teatro gli si avvicinano . La radio
mantiene nonostante tutto una sua freschezza e innesca una riflessione
sull’ascolto che sarebbe da potenziare, alimentare, rafforzare.
Grazie a un certo tipo di tecnologia che rende fattibili operazioni
fino a qualche tempo fa impensabili, qualcosa si sta muovendo. Le
potenzialità delle web-radio e degli archivi digitali ad esempio sono
enormi. Secondo me bisognerebbe prima di tutto trovare un modo
intelligente di rimettere in circolo il materiale esistente, esperienze
antiche e anche relativamente recenti, ma praticamente sconosciute.
Solo in questo modo si può alimentare un immaginario, abbattere
qualche stereotipo e creare un contesto, dentro il quale sia possibile
per il radiodramma riprodursi in forme nuove e vive.
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SIMONE CAPUTO
RADIO DAYS
Alcune annotazioni sui teatri alla radio negli ultimi anni
Per chi è chiamato a raccontare un Festival come quello di
Santarcangelo è fin troppo facile scrivere che in questi tre anni, negli
spazi e nei tempi del teatro, è stato ritagliato un posto centrale a percorsi
sul radiodramma. Eppure – o meglio purtroppo – a un osservatore
attento non sfuggirà qual è la situazione in cui versa l’invisibile arte
del radiodramma oggi, in Italia: se si escludono questo festival e altre
rare esperienze, anch’esse circoscritte nel tempo, l’unica realtà che con
continuità investe e ha investito sul radiodramma è Rai Radio3.
Quello di Radio3 non è un ruolo facile, se si considerano gli
stereotipi che dipingono il radiodramma con un’arte fuori moda, se si
tiene presente il modello di ascolto frammentato dominante e se si
guarda all’assenza di un contesto che favorisca una ricezione curiosa.
In un sistema malato come quello dei finanziamenti alla cultura oggi
– in cui non si capisce più cosa debba essere finanziato e cosa no,
cosa necessiti di sostegno e cosa debba essere invitato a farcela
con le proprie gambe – non c’è certo posto per il radiodramma, che
andrebbe invece sostenuto con maggiori sforzi produttivi, per favorire
idee e potenziare sperimentazioni, per innescare incontri e intersezioni
necessarie con altre arti.
Per fare un paragone che rende bene l’idea dello stato delle cose
in Italia, un po’ più a nord, in Germania, oltre all’azione propositiva di
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Simone Caputo
alcune radio, si contano numerosi festival annuali dedicati a radiodrammi
e audiodrammi: la Berliner Hörspielwoche, l’Erlanger Hörkunstfestival,
l’Hörspielfest di Weimar, la Leipziger Hörspielsommer, per fare alcuni
nomi.
In Italia, l’attenzione al radiodramma di Rai Radio3 è un percorso
di lunga durata, e legato oggi ai nomi di Anna Antonelli, Antonio Audino,
Laura Palmieri, Lorenzo Pavolini, che insieme ad altri collaboratori sono
tra quanti hanno curato e proposto radiodrammi in questi anni. Spesso
questa attenzione si è sposata con l’interesse per il teatro, per quello
che può generare l’incontro tra un’arte drammatica visibile e un’arte
drammatica invisibile: andando indietro nel tempo si potrebbe fare il
nome del progetto Teatri alla radio, curato da Luca Ronconi nel 1997,
per uno sforzo numerico – 35 opere per 250 attori e 20 registi – e un
investimento – 30 milioni in media ad allestimento – oggi impensabile;
quindi quello di Teatri alla radio – Europa oggi, sui contemporanei
europei del teatro, curata da Franco Quadri nel 1999; e ancora quello
de Il Terzo Orecchio, a cura di Mario Martone, del 2002, viaggio sonoro
nel teatro attraverso nuove produzioni in cui testo, voce, suoni, musica
sono montati come un’unica scrittura radiofonica. E infine, lo scorso
anno, Radio3 ha festeggiato con Una festa lunga un mese i suoi sessanta
anni, proponendo i radiodrammi di Giosuè Calaciura, Carlo D’Amicis,
Nicola Lagioia, Chiara Valerio, quattro opere senza montaggio, messe in
onda dal vivo, come fossero spettacoli teatrali che avvenivano in luoghi
e momenti stabiliti. Un percorso, dunque, che nella produzione ha
sempre avuto il suo cardine, pur essendo mutato negli anni l’orizzonte
teatrale a cui riferirsi per generare un incontro con la radio.
Ci sarebbe, a questo punto, solo da chiedere un’ulteriore regalo a
Radio3: un archivio consultabile e ascoltabile on-line con i tanti e tanti
radiodrammi che RadioRai ha prodotto in molti anni di storia; perché
solo se esiste un contesto un’arte può vivere, e solo se esiste una
memoria può alimentare il proprio immaginario.
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LORENZO DONATI
RADIO, CALCIO, TEATRO IN UNA
“FINALE DEL MONDO”
Indagare i rapporti fra teatro, radio e calcio significa oggi affacciarsi
a un panorama da una parte vastissimo, data la mole di produzioni
che in certa misura potrebbero avere una proiezione radiofonica o
un contenuto calcistico, dall’altra piuttosto ristretto o inesistente, se
proviamo a cercare qualcuno che tenti davvero di mettere insieme
le prospettive senza prendere scorciatoie, senza mistificare, senza
considerarsi alla stregua di filosofi che discettano di un fenomeno
puramente sociologico. La questione è complessa e converrà delimitare
il campo.
I rapporti fra radio e teatro corrono paralleli con la nascita del
mezzo stesso, con il radiodramma a fungere da genere prodotto
e “inventato”, e non adattato da altri formati. Non si tratta qui però
di ripercorrere le sorti di un genere, né di inseguire la storia della
radio e della sua relazione con il teatro. Per provare a porci domande
radiofoniche osservando il panorama teatrale esistente possiamo
guardare alla “dimensione radiofonica nascosta” di alcune opere
teatrali, in particolare a chi sceglie di indagare la dimensione uditiva
come fonte primaria di un discorso drammaturgico che a tratti deve
fare a meno della vista, proprio come se si trattasse del celebre “teatro
per ciechi”, definizione delle origini del radiodramma. Non chi lavora
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Lorenzo Donati
sul suono e sulla voce con una particolare attenzione alla phonè, ma
chi ritiene di dovere fare a meno della vista per porre domande nuove
a chi guarda. In questo campo, non basta solamente “eliminare”, ma
occorre concentrarsi su uno specifico uditivo: non si tratta quindi di
concepire un ascoltatore in grado di «completare con la sua fantasia
quello che manca», come già ammoniva Rudolph Arnheim nel suo
“classico” La radio, l’arte dell’ascolto (1933), ma di ritenere completi
suono e ascolto, chiedendo lo stesso a chi ne fruisce.
Così è per Teatro Anatomico Infantile di Chiara Guidi e Scott
Gibbons, presentato nel 2009 al festival di Santarcangelo. Si era di
fronte a una porta chiusa, in una piazzetta del paese. Dentro, un gruppo
di bambini era alle prese con un mondo di cui ci era negata la vista.
L’incontro con una pianta, con un tacchino che si metteva a dialogare
con i bimbi, venivano a noi rimandati in forma di suoni provenienti da
un altrove invisibile, un mondo che procede per logiche differenti dalle
nostre e al quale si può solo credere o non credere: non c’è mediazione
possibile, o si è dentro o si sta fuori, e da fuori si ascolta. Dentro/fuori, a
ben vedere, potrebbe essere il nodo sul quale insistere, in tempi di patine
e superfici. In South di Fanny & Alexander, opera del ciclo sul Mago di
Oz che ha debuttato nel 2009, dopo una prima parte “visibile” occupata
dalla presenza di Dorothy, l’attrice Fiorenza Menni, si abbassano le luci
e lo spettacolo per quaranta minuti non si vede più. Il suono è a tratti
mimetico, e ci porta al fianco di Dorothy in strade deserte o al centro
di piazze affollate, a tratti si fa astratto, seguendo le ritmiche di un
ensemble di percussionisti. Il gruppo di Ravenna spinge gli spettatori
a guardare non più fuori ma dentro, “pilotando” alcune percezioni ma
poi lasciandoti solo, come a un bivio in cui la responsabilità di ciò che
accadrà è solo tua, vale a dire della capacità di chi ascolta di creare
un mondo. Altri ravennati sono i giovani Erosanteros (Davide Sacco e
Agata Tomsic), di cui asprakounelia (Treno Fantasma) è l’opera prima.
Qui ci troviamo in una stretta tribuna che pare un piccolo vagone
ferroviario, in cui udiamo le voci di Presley e Haley, fratello e sorella
bambini ripresi dalla penna di Philip Ridley. Le loro ossessioni, l’irruzione
dell’enigmatico Cosmo Disney, i loro sogni inquinati arrivano a noi solo
in audio, perché dentro è tutto buio. È come se fossimo nella mente
dei due bambini: là dentro l’infanzia non finisce e non “cresce”, è una
mente che solo per subitanei momenti “manifesta” frammenti di visioni
distorte (una luce intermittente mostra lacerti di corpi, surreali danze
su canzonette infantili, numeri freak in cui l’ospite mangia scarafaggi).
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Radio, calcio, teatro in una “Finale del mondo”
Pieni di “io” che non fanno mai i conti con il pudore dell’interiorità,
manipolati e spinti a proiettarci nelle superfici delle figure massmediali,
queste proposte teatrali si affidano alla sfera uditiva e indicano una via
che ci obbliga a domandarci “chi siamo” noi di fronte all’opera, e anche
dove siamo, da che punto stiamo partecipando. Si tratta di tre esempi
crediamo significativi per avvicinarci a ciò che stiamo cercando, ma il
panorama è vasto e in buona parte ancora da esplorare.
Saltando sulla sponda del calcio, una questione preliminare
potrebbe avere a che fare con la “persuasione”. Manuel Vásquez
Montalbán sosteneva che l’epica del calcio, ossia un modo di raccontarlo
in grado di partecipare al racconto, e non solo di intellettualizzarlo alla
stregua di un mero dato sociologico, pertiene in particolar modo agli
scrittori sudamericani, quando invece in Europa una patina di “raziocinio”
aleggia in ogni discorso. Così, quello che oggi sembra più interessante
non sono tanto l’analisi, l’interpretazione. Cioè non chi prende il calcio
come pretesto per mettere al centro un’operazione speculativa che non
ha più nulla a che vedere con il sudore, con la fatica, con l’allegrezza
di una partita, ma chi davvero “gioca a calcio” con il teatro, con la
penna, con il cinema, in modo che solo dalle pieghe del gioco emerga
un discorso. Chi insomma si prende il rischio di guardarlo da dentro,
compresi i suoi deliri di onnipotenza, comprese le sue nefandezze,
senza voltare lo sguardo, senza ritenersi superiore. Specularmente, e
pare una contraddizione, occuparsi di calcio oggi ha davvero senso se si
riesce a parlare d’altro, a sganciarsi dal puro e semplice racconto, dalla
cronaca, per alzare lo sguardo a un contesto generale, a un mondo che
si sta sgretolando. Da queste duplice prospettiva il calcio può ancora
dirci molto: uno sguardo che sappia stare all’interno di un frammento,
che sappia assumerlo accettandone le regole, “giocando” sul serio,
come in altre lingue si gioca al teatro, come in inglese radiodramma
si traduce con Radioplay e infine, scomodando Carmelo Bene, come
l’abbandono che richiede l’atto, contrapposto alla progettata azione.
Giocare, dunque, per essere in grado di connettersi a discorsi più
generali. Viene in mente il campetto del Villaggio Anic disegnato da
Davide Reviati, metafora di una più generale crescita “nell’assurdo”
e in un magico che va quotidianamente inventato, in cui i dribbling
sono il punto di collegamento fra le nubi tossiche del petrolchimico e il
dialogo con Teodorico a cavallo; viene in mente «il calcio è un gioco e
lei è fondamentalmente un uomo triste», la frase che il presidente del
club rivolge all’Antonio Pisapia de L’uomo in più di Paolo Sorrentino,
19
Lorenzo Donati
che ha scelto di non vendere una partita sprofondando nella sconfitta,
quella di chi non trova posto in un mondo consumato da compromessi
e feste tutto l’anno. Non è facile trovare esempi teatrali che percorrano
questa strada perché quasi sempre il calcio è raccontato, come nelle
pur preziose prove d’attore di Davide Enia – che al calcio ha dedicato
uno spettacolo, un ciclo di trasmissioni radiofoniche e un libro – o si
presta a disamine filosofico-sociologiche dirette, in cui più dell’atto in
sé contano il pensiero, l’operazione dell’artista. Un esempio in senso
inverso sta nella scrittura di Marco Martinelli, che in Incantati (1994)
ha saputo ritrarre un paesino della provincia romagnola attraverso
le sorti di due fratelli e una sorella, proprietari, allenatori, giocatori e
custodi della locale squadra. Il calcio, a ben vedere, è qui linguaggio
che permette di raccontare l’oggi, i piccoli intrighi quotidiani di un
paesino di provincia (cioè dell’Italia), in cui il talento di un ragazzino di
nove anni vale esclusivamente come merce di scambio che garantisce
denari.
Chi in maniera mirabile è riuscito di recente a tenere insieme
tutte queste prospettive è il collettivo fiorentino Teatro Sotterraneo, nel
progetto Finale del Mondo. Si tratta di una commissione che l’ultimo
festival di Santarcangelo gli ha rivolto, inserita nel percorso “L’arte
invisibile. Radiodrammi” a cura di Rodolfo Sacchettini: misurarsi con
l’evento mediatico per eccellenza, la finale dei mondiali, immaginando
un formato a un tempo radiofonico e performativo, vale a dire un
radiodramma da trasmettere in diretta su Rai Radio3 in contemporanea
con la partita ma che fosse anche “visibile” dal pubblico nello stadio del
paese. Dato il carattere unico dell’evento proveremo a raccontare cosa
è accaduto a Santarcangelo 40.
Si attende fuori dal cancello finché un addetto alla sicurezza col
megafono c’invita a entrare. Siamo quasi trecento e ci sistemiamo sulle
gradinate della stadio Valentino Mazzola di Santarcangelo. Dietro a noi
udiamo delle voci, sono i conduttori di Radio 3 che dalla regia si stanno
collegando per la diretta. Mancano venti minuti al termine della finale, in
campo a Santarcangelo entrano due calciatori e iniziano un paradossale
match uno contro uno. Ai gol, noi in tribuna esultiamo e inveiamo,
anche se l’arbitro non c’è. Sulla tribuna opposta un solo tifoso inneggia,
lancia fumogeni, picchia bastoni, al suo fianco un micro-televisore
sembra essere sintonizzato sulla partita “vera”, quella al Soccer City di
Johannesburg. Nel nostro campo non c’è nessuno che racconta, non ci
sono attori che impersonano dei calciatori o personaggi che rimandano
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Radio, calcio, teatro in una “Finale del mondo”
a figure sportive: nel nostro campo si consuma un match “reale”, i due
si rincorrono, si producono in scivolate, arrancano esausti. D’improvviso
in tribuna giungono due cronisti che si collegano con un inviato in
Sudafrica, il quale sta seguendo un attentatore deciso a interrompere la
partita “vera” e a provocare una strage. Ora anche noi siamo semplici
ascoltatori e immaginiamo le strade deserte della capitale africana nei
pressi dello stadio gremito, poi il brulicare dei cancelli di sicurezza,
le cartacce a terra, i poliziotti che inspiegabilmente lasciano entrare
l’individuo in giacca e borsone scuri, con il cronista che ci informa di
averne perso le tracce nella calca. Ora neppure noi possiamo vedere
ciò che accade, ci è richiesto di ascoltare, di “credere o non credere”
a una voce che sostiene di essere nelle strade deserte del Sudafrica.
Ebbene, a tutto questo ci crediamo, nonostante l’evidente raggiro:
siamo lì a esultare per una partita di due disperati in un campo deserto;
attendiamo che l’inviato faccia qualcosa, che provi a fermarlo, ma
diamo per buona una semplice intervista in cui alla domanda «perché
lo fai?» segue un laconico silenzio; infine, quando l’attentatore entra sul
campo, la cronaca ci dice che «in questo momento Wesley Sneijder ha
bloccato il pallone con le mani», ma di fronte a noi c’è Daniele Villa del
Teatro Sotterraneo a eseguire gli stessi gesti. Quando a Johannesburg
il cronista perde le tracce, ecco che a Santarcangelo un uomo vestito
di nero trasporta al centro del campo un borsone. La voce porta avanti
la cronaca, dice di uno stadio attonito, in cui pubblico e calciatori
attendono e osservano muti, come nel nostro stadio, in cui il silenzio si
può tagliare. Al centro del campo, estratta un’asta microfonica, l’uomo
canta The Show Must go on, una voce ruvida, un grido che esplode in
un onomatopeico Bum.
«Questa è la fine della finale dei mondiali, è il modo in cui la
finale finisce, e non finisce. Qua il tempo si è fermato. Questa è l’ultima
telecronaca e c’è un solo risultato possibile». Quell’uomo è “davvero”
un attentatore, perché l’arte rende il suo Bum molto più tangibile delle
immagini dei Tg; quell’uomo è “davvero” un cantante (Claudio Tosi), e il
brivido lungo la schiena mentre le sue corde vocali grattano è la riprova
di come l’arte, in pochi casi ancora in vita, sia in grado di spazzare via
con un grido molti “discorsi sull’arte”, e restare così impressa nella
mente di chi c’era. Il Sotterraneo non ha fatto uno spettacolo sul calcio,
ha davvero giocato una partita. Dalla partita ha poi saputo alzare lo
sguardo, per aprirsi a tutto quello che calcio non è ma comunque gli
ruota attorno, cioè il mondo di oggi nella sua interezza: il terrorismo,
21
Lorenzo Donati
l’ansia e l’attesa quotidiana di un accadimento “finale” che scuota
il nostro presente tetro, il sistema mediale compresi i suoi tic e le
sue narrazioni, come quando i cronisti lasciano intendere che dietro
all’attentato potrebbe esserci un qualche «sistema» all’opera, una
struttura narrativa classica dei serial statunitensi Sci-Fi. Il collettivo
fiorentino ha anche raccolto la sfida della radiofonia, concependo
un’azione visibile per chi era a Santarcangelo ma all’interno della
quale molto non si poteva vedere, con una voce lontana a rimandare
a un altrove per davvero credibile perché invisibile. Ed è grazie alla
dimensione radiofonica live, al suo particolare statuto di accadimento
che deve essere in grado di arrivare a un qui ed ora di chi guarda e
all’imprecisabile distanza di chi ascolta, che Finale del Mondo ha saputo
rielaborare gli assilli della dicotomia verità/finzione, dimostrando che è
vero ciò che riteniamo tale, quindi anche un atto di terrorismo poetico
su frequenze radio che da Johannesburg si manifesta in Romagna.
Infine, più di tutto, il Sotterraneo ha saputo guardare ciò che accade
prendendolo sul serio, merito da spartire con uno dei pochi festival che
tenta la via di un progetto culturale: artisti e organizzatori hanno fatto i
conti con l’intrattenimento, con le sporcizie della melma mediatica che
ci avviluppa, sapendo che là dentro spesso ci si diverte, perché negarlo,
ma anche e soprattutto che è indispensabile restare vigili, non spegnere
il cervello, non farsi abbacinare, per metterla in un angolo, quella
melma, farle uno sgambetto, gabbarla e così superarla. Di questo, oggi,
abbiamo bisogno più che mai, e i punti di crisi e di apertura dati dagli
incroci fra calcio, teatro e radio possono essere delle porte per tornare
a parlare al mondo – e non solo del mondo – e per inventare una forma
che contenga continue domande su cosa stiamo vedendo.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero
n. 126/127 del dicembre 2010/gennaio 2011 della rivista “Lo Straniero”
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SIMONE CAPUTO, ALESSANDRA CAVA (a cura di)
SCENE RADIOFONICHE
Questa sezione raccoglie le parole di alcuni artisti che hanno risposto
sollecitati a riflettere sull’utilizzo creativo della radio. Le righe che seguono
partono dall’esperienza concreta e affrontano la relazione tra la scena e
il mezzo radiofonico, immaginando le aperture di prospettiva per l’arte del
radiodramma. Per Ermanna Montanari, direttrice artistica di Santarcangelo
41, il festival stesso fornirà alcune delle risposte possibili: «La Festa della
radio, questa sontuosità che accoglierà quattro opere radiofoniche, o
Radio Gun Gun, che incontrerà gli artisti durante il dopofestival all’Odeon.
Le risposte sono nella concretezza del fare, la visione è sempre là dove la
cosa esiste. Questo ci permette di inseguire, imparare, procedere».
Gianni Farina / Menoventi
La capacità di produrre immagini è l’elemento comune tra
radiodramma e teatro che più ci interessa. Il radiodramma può essere
considerato come una iconoteca, come una stanza in cui si producono,
si ricevono e si consumano immagini. La sua cifra consiste nell’ascolto,
quindi le immagini sono senz’altro immagini mentali, ma le scienze
cognitive ci insegnano che per la mente umana non esistono sostanziali
differenze tra immagini provenienti dall’esterno e immagini interiori.
A livello neuronale la differenza non esiste: chi dice quindi che debba
subentrare uno scarto nella profondità del pensiero? Se c’è differenza,
23
Simone Caputo, Alessandra Cava
essa esiste solo nella parte più superficiale del processo cognitivo, la
coscienza. Il radiodramma quindi sconfina sempre nel regime scopico
abitualmente attribuito alle arti figurative e al teatro, generando
immagini vivissime dalle possibilità evocative illimitate. Questo non
significa che non esistano sostanziali differenze: per quanto ci riguarda,
il lavoro di “traduzione” da Postilla a Il Contratto ha richiesto una totale
riscrittura e rimodellamento dell’opera, che ci ha portato a cambiare lo
stesso titolo.
Quel che allo stesso tempo ci interessa è lo scarto che esiste
tra teatro e radiodramma nell’interazione con lo spettatore. Mentre a
teatro è sempre possibile costruire un rapporto bidirezionale tra palco
e platea, la radio complica la situazione: la relazione tra l’opera e
l’ascoltatore diventa monodirezionale. È proprio questa barriera che
cerchiamo, con un piccolissimo primo passo, di incrinare con Il Contratto.
Il radiodramma lancia una sfida che cogliamo partendo proprio da
questo progetto, investigando i limiti e i punti di forza della relazione
via etere. Il Contratto tenta di sfruttare le peculiarità della radio agendo
su tre livelli di relazione: il live, il registrato e il registrato nel registrato,
cercando di ricreare una selva di cornici comunicative in cui perdere il
contatto con... l’etere. Sì, questa è la cosa più divertente: il radiodramma
in un certo senso non esiste, è una cosa invisibile e intangibile che
viaggia nell’aria. Dov’è? Non è solo nella sede di trasmissione o a casa
dell’ascoltatore: ci circonda, è ubiquo. Quando diciamo “a casa dello
spettatore” in realtà operiamo un’approssimazione poco convincente,
altro spunto di riflessione che ci interessa moltissimo. Oggi la fruizione
del radiodramma è cambiata; mentre fino a pochi anni fa lo si ascoltava
unicamente alla radio, quindi a volte quasi casualmente o quantomeno
con modalità e tempi determinati dall’esterno, dal palinsesto, le
odierne tecnologie permettono di effettuare una scelta: il radiodramma
è sempre più fruito attraverso computer, iPod e mezzi simili, quindi
è spesso scaricato da internet, in podcast o peer-to-peer, come un
oggetto di scambio tra amici. L’incontro con l’opera quindi cambia:
la possiamo cercare, possiamo scegliere esattamente dove e quando
ascoltarla. L’influenza di questa scelta e delle condizioni di fruizione
dell’opera sono alla base di Postilla; da cui lo sviluppo naturale da
spettacolo a radiodramma. Le nuove tecnologie permettono di ascoltare
il programma in viaggio, durante lunghi spostamenti; ecco quindi che
ritorniamo sulla dislocazione: dov’è lo spettatore? Una bella sfida, che
a un primo approccio ci sembrava una limitazione insormontabile: noi
24
Scene Radiofoniche
parliamo a lui direttamente, ma non sappiamo in quale contesto si trovi
mentre le nostre voci lo raggiungono. Dopo un primo stallo, abbiamo
capito una cosa semplicissima, che ci ha permesso di proseguire con il
lavoro. Anche l’ascoltatore non sa dove siamo noi, e potremmo essere
più vicini di quello che immagina...
Chiara Guidi / Socìetas Raffaello Sanzio
Ciò che avvicina il mio lavoro alla radiofonia è un comune desiderio
di riuscire a vedere attraverso il suono: attraverso il suono realizzare lo
sguardo, la visione, cioè il teatro.
Ci sono tuttavia delle differenze tra teatro e radiodramma che
vanno rispettate e sulle quali non va fatta confusione. Il radiodramma
porta con sé la forza e la potenza delle parole: scrivere un testo teatrale
pensato per la lettura alla radio è ancora più complesso che pensarlo
per la scena. Alla radio il significato è preponderante come all’interno
di una poesia, dove la parola e il suono sono allineati. Mentre il teatro
è un luogo che si sceglie di varcare, il radiodramma non ha un pubblico
pagante. Questo obbliga a concepire radiodrammi specifici per fasce
d’orario e adatti alle situazioni quotidiane di ascolto: condizioni che
non abbassano il livello della tensione, ma ne accentuano la forza. Il
radiodramma ha a che fare con una tecnica che è quella radiofonica,
e con un pubblico occasionale, episodico, abituato ad ascoltare della
musica con equalizzazioni molto particolari: non è più possibile pensare
che possa essere soddisfatto dalla linearità di un racconto; occorre
forse creare una visione più complessa utilizzando al meglio le tecniche
avanzate. Spesso si usano in radio macchine di altissima qualità che
però rendono la voce chirurgica, irriconoscibile rispetto alla varietà e
alla fragilità della vita.
Mai come in questo momento sarebbe bene lavorare per la
radio come se non la si conoscesse. Penso alle prime esperienze fatte
nella radio italiana negli anni Quaranta e Cinquanta, quando la voce
veniva utilizzata per la pura sperimentazione, per ritrovare la verginità
dell’ascolto radiofonico attraverso la ricerca sul suono.
Deve inoltre esistere un’etica nei confronti del pubblico della
radio: gli ascoltatori non possono guardare in faccia chi parla e questo
richiede una chiarezza ulteriore nella relazione. La radio ha a che
fare con un suono che non sappiamo dove vada a finire, che l’artista
25
Simone Caputo, Alessandra Cava
produce prima di tutto per se stesso, primo spettatore, non conoscendo
la reazione degli altri. Si lancia, ma non si sa dove va a finire quello
che si è lanciato. La scrittura per la radio, la sua drammaturgia, non
può occuparsi solo della trama, ma deve contenere al suo interno ogni
indicazione di tono, timbro, altezza e intensità della voce. Occorre avere
consapevolezza del fatto che le parole che si pronunciano sono prima
di tutto suoni che producono immagini. Vanno calibrati in funzione di
ciò che si vuol far vedere, non in base al significato delle parole: la
drammaturgia che le mette in campo è una drammaturgia musicale.
Una voce deve permetterti di vedere un corpo. È questo il centro
della ricerca sonora, che va di pari passo con la fabbricazione delle
parole, perché alla radio le parole possono davvero essere costruite
come dei manufatti.
È possibile scrivere un radiodramma dove ci sono
contemporaneamente dieci voci, come nella musica? È possibile una
partitura musicale fatta di parole? Occorre azzardare. Oltre la semplice
messa in voce di un testo, occorre cogliere la visione che si ha di quel
testo attraverso la voce, strumento che suona, perché la radio non è
per i non vedenti, ma per chi predilige vedere attraverso l’ascolto.
Chiara Lagani / Fanny & Alexander
Che cos’ha in comune il teatro con l’invisibile arte radiofonica?
Il teatro è forse l’arte che coltiva e alimenta maggiormente il rapporto
con l’invisibile in un fronteggiamento molto serio e appassionante, che
richiede la più particolare tra le competenze: quella per le cose che
non esistono. Chi si dedica a quest’agone, spettatore o attore, rinnova
collettivamente un’occasione di stupore, perfino di sgomento, insieme
a quella specie di trauma originario che innesca il rapporto con un
mondo o una lingua dimenticata. È una sorta di squarcio che si apre
di colpo su un mistero profondo, un buco. A leggere le cronache degli
ascoltatori dei primi radiodrammi, la paura (e l’erotismo della paura),
lo spavento patito nel buio, tra le coperte del proprio letto o al “sicuro”
nella propria stanza, somigliano straordinariamente a questo buco.
Un’emozione che ridisegna i confini della domanda sul rapporto tra
realtà e rappresentazione. Un medium è sempre nuovo alla sua nascita
e poi nel corso della sua vita rinasce infinite volte, perché le forme
artistiche sollevano sempre questioni infinite. Ed è strano, perché è
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Scene Radiofoniche
proprio nel suo agonistico rapporto con la realtà che il radiodramma
finisce per scoprire mezzi e vie “non reali”.
Altra caratteristica che affraterna evento teatrale e radiodramma
sta nel fatto che entrambi non aspirano ad essere “capiti”, ma accolti,
come ogni fatto misterioso e forte: si tratta infatti di puri mostri
e vitalissimi, fatti di presenza, di fantasmi, di parole pronunciate,
fonicamente plastiche, dunque di corpi, di luoghi sonori, mentali,
transmentali, di invenzioni di inesistenti, epifanie, magherìe.
Come possiamo domandare a un fantasma, a una visione, di
spiegarci cos’è?
Come accingersi oggi a comporre un radiodramma? Chi si
avventura per questa strada avverte forse un po’ di solitudine al
principio. Perché il radiodramma sembra a tratti un’arte dimenticata,
caduta in disuso. Ha una storia forte, ma non sempre prossima. Ha il
forte sapore di una lingua di cui abbiamo quasi dimenticato il significato,
come la strana lingua fatta di fascino e mistero, luci e colori, cantata
da Landolfi.
Eppure chi deve comporre una scrittura in questa lingua nuova
e dimenticata ha una grande occasione. In 338171, TEL al principio
regnava una specie di libertà e di disordine, selvaggia e imperiosa:
qualcosa di molto diverso da quello che si può trovare in una pagina
scritta, o anche in quella viva e imprendibile del teatro. Un radiodramma
è un animale che ha un suo respiro, che va assecondato, forse questo
respiro si può chiamare ritmo radiofonico.
Chi si avventura in questo strano rapporto con i fantasmi,
insomma, sa oscuramente, come si sa solo nei sogni, che la parola viva
occupa sempre uno spazio, ha veste e colore e un suono imprevedibile. Il
teatro ritrova da sempre nel suo spazio profondo l’incomprensibilità e la
violenza attiva del suono e della parola dei fantasmi. E il radiodramma,
forse, ha la possibilità di spingere questo rapporto ancora più in là, in
forme ancora misteriose, che necessitano forse di più tempo e di nuove,
avventurose esplorazioni.
Claudio Morganti
Molti anni fa, Carlo Cecchi seguì una nostra intera prova de Il calapranzi
a testa bassa, con gli occhi chiusi.
27
Simone Caputo, Alessandra Cava
Era a caccia di stonature, incerti ritmi, tempi morti e sbagliati,
pause e silenzi privi di consistenza.
È un ottimo sistema. Se siete cacciatori di stonature chiudete gli
occhi e ascoltate.
In principio fu il movimento e tutti vollero guardarlo e dissero:
“Che spettacolo!”
Poi alcuni (molto pochi invero) dissero: “Spegnete le luci che
vogliamo sentire il suono di quel movimento!” e nacque così il teatro.
Il teatro è faccenda d’orecchio. Provate. Sedetevi in sala e
chiudete gli occhi. Fate attenzione però a non farvi vedere dagli attori.
Potrebbe sembrar loro che state dormendo e questo non sarebbe carino.
Ma potrebbe accadere anche di peggio. Cullati da giusti suoni e felici
intonazioni potreste addormentarvi davvero, magari russare e questo
sarebbe uno sconvenientissimo atto di grande maleducazione (a volte
si è maleducati senza volerlo).
Compito del teatro non è mostrare ma piuttosto evocare. Favorire
la nascita di visioni, individuali, private.
Ma molte volte il teatro si confonde e crede di essere qualcosa di
spettacolare e tristemente perde competizioni con cinema e tecnologie.
È per questo che molte volte è meglio tornarsene a casa e accendere
la radio.
Stefano Ricci
Le ragioni per le quali ho iniziato a interessarmi di registrazioni
sonore sono consequenziali al disegno, di cui mi occupo, e non basate
su una progettualità inizialmente legata al radiodramma. Di fatto ho
cominciato un anno fa a riprendere con la macchina fotografica sequenze
di movimento di persone, animali, cose, luoghi, per poi usarle come base
per piccoli film di animazione. Così facendo mi sono ritrovato tra le mani i
suoni derivanti dalle sequenze: da qui è cominciato, con l’aiuto di Cristiano
Pinna, un lavoro di montaggio che mi ha dato la possibilità di sperimentare
i suoni stessi e di scoprire, anche in un formato di breve durata, il piacere
del montaggio sonoro. Ho proseguito poi questi esperimenti, affascinato
dalla potenza che il suono ha di restituire l’esistente, la forza visiva che il
suono restituisce all’udito. Registrando i suoni ho scoperto la meraviglia
dello spegnere il senso più allenato, quello della vista, per concentrarmi
sulla vita organica, cogliendola, studiandola, ascoltandola senza vederla.
28
Scene Radiofoniche
Disegnare o avere occasioni diverse, come questa che mi ha
portato a lavorare sul radiodramma, per me significa ogni volta cercare
una pista mossa dalla curiosità verso l’esistente. Tempo fa ho scritto
una canzone sulla società italiana di oggi dal titolo Chiedi alla Scimmia:
una sorta di fiaba nera che ha inizio con il ritrovamento di una zampa
di scimmia nel parcheggio di un supermercato. Quando l’ho proposta
al mio amico musicista Zeus, mi ha rivelato che in passato anch’egli
aveva fatto un sogno proprio su una scimmia, un sogno molto forte
che gli ho chiesto di leggere e registrare di prima mattina, appena
sveglio, ancora steso sul letto. Il risultato è stato molto bello. Così ho
fatto ascoltare la registrazione alla mia fidanzata, la quale a sua volta
mi ha raccontato che a sette anni aveva sognato una scimmia: ha preso
il quaderno su cui ancora oggi raccoglie i suoi sogni e ha iniziato a
leggere e a tradurre il sogno dal tedesco, che è la sua lingua d’origine.
A partire da questi materiali e dal testo iniziale di Chiedi alla scimmia è
nato poi il radiodramma che presento alla Festa della radio: un insieme
di racconti, sogni, visioni e suoni, espressione di una curiosità verso
l’esistente.
Teatro Sotterraneo
Quel che sin da subito ci ha affascinato lavorando al progetto Finale
del mondo, messo in scena lo scorso anno a Santarcangelo 40, sono le
due relazioni completamente diverse che un radiodramma messo in
scena instaura con lo spettatore: quella dell’ascolto, e quella teatrale. La
prima ha a che fare con una dimensione che induce attraverso l’ascolto
alla visione; l’altra pone la visione come dato fondativo della relazione.
E se il teatro può evocare mondi, il radiodramma ha un’ampiezza di
racconto che consente di sconfinare oltre l’orizzonte della menzogna
o della simulazione, chiedendo allo spettatore una credibilità totale,
laddove il teatro invece pone convenzioni. Nella dimensione di puro
ascolto il radiodramma amplia le possibilità di menzogna, che sono
al contempo possibilità di verità altre: questo lo scarto che ci ha
maggiormente affascinato. Con Finale del mondo abbiamo posto la
visione al centro del discorso svolto in un momento preciso, la finale
dei campionati del mondo di calcio, e in un luogo preciso, uno stadio di
calcio, quello di Santarcangelo, e la credibile menzogna al centro del
racconto radiofonico, radiocronaca di una ambigua finale, per poi far
29
Simone Caputo, Alessandra Cava
collassare attraverso l’incontro tra l’azione performativa e la visione
uditiva le due rette che avevamo portato avanti in parallelo. Due mondi
e due pubblici hanno fruito lo stesso evento, liberi di poter reinterpretare
e reinventare ciò che veniva evocato: ciò che ci ha affascinato
dell’incontro tra teatro e radiodramma è stata anche la sfida che la
coesistenza coerente tra i due mondi pone: contemplare entrambi gli
aspetti, quello del radiodramma e quello del teatro, compenetrando
visione e racconto, giocando sulla questa distanza che collassa in un
luogo e in un momento comuni, modo e misura per mettere in relazione
i due dispositivi.
Quando ci si avvicina all’arte del radiodramma la prima sensazione
che si prova è quella di essere un po’ come degli intrusi se la propria
specificità è il teatro. Si tratta, dunque, di mettere in relazione questi
dispositivi diversi, cercando un equilibrio tra i due. Il punto di partenza
di chi si avvicina al radiodramma dal teatro è per certi versi distante;
una distanza che però è anche una possibilità di porsi attraverso un
punto di vista più ampio. Ciò che affascina di un radiodramma, ciò che
gli consente di suscitare nuovi interessi, non è forse la possibiltà di
raccontare in sé, l’arte dell’affabulazione, quanto invece la possibilità
di aprire a tante realtà altre, di mentire e di destabilizzarmi piuttosto
che incantarmi, suggerire prospettive diverse che la visione attraverso
l’ascolto del mezzo radiofonico rende possibile. Perché il radiodramma
può mettere l’ascoltatore in crisi, può ancora indurlo a chiedersi: “ma
sta accadendo davvero?”.
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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Garroni, post. di Alberto Abruzzese, Roma, Editori Riuniti, 2003, [1936].
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Franco Malatini, Cinquant’anni di teatro radiofonico in Italia, 19291979, Torino, ERI, 1981.
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Rodolfo Sacchettini, La radiofonica arte invisibile. Il radiodramma
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Nero su Bianco edizioni
Luglio 2011