CONTRATTO E INADEMPIMENTO Le tutele

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CONTRATTO E INADEMPIMENTO
Le tutele sostanziali e
processuali
a cura di Luca D’Apollo
Sommario
PARTE I - I CASI GIURISPRUDENZIALI .................................................................................... 3
1) ASSICURAZIONE. LA CLAUSOLA “CLAIMS MADE” NON È VESSATORIA: MA L’ULTIMA PAROLA SPETTA
AL GIUDICE ................................................................................................................... 3
Cassazione, sez. Unite Civili, 6 maggio 2016, n. 9140 ............................................................. 3
2) AREE A PARCHEGGIO: SI APPLICA LA DISCIPLINA VIGENTE AL MOMENTO DELLA COSTRUZIONE
DELL'IMMOBILE ............................................................................................................ 15
Cassazione, sez. II, 30 giugno 2016, n. 13445 ..................................................................... 15
3) ARRICHIMENTO SENZA GIUSTA CAUSA DELLA P.A.: CHI DEVE PAGARE LA PRESTAZIONE NON
CONTRATTUALIZZATA? .................................................................................................. 20
Cassazione, Sez. Unite, 26 maggio 2015, n. 10798 ................................................................ 20
4) IL CONTRATTO DI LOCAZIONE SENZA FORMA SCRITTA È NULLO? SECONDO LE SEZIONI UNITE SÌ,
SALVO UN CASO. .......................................................................................................... 28
Cassazione, Sez. Unite, 17 settembre 2015, n. 18214 ............................................................ 29
5)
È VALIDA LA PATTUIZIONE DI UN MAGGIORE CANONE DI LOCAZIONE IN NERO? ....................... 38
Cassazione, Sez. Unite, 17 settembre 2015, n. 18213 ............................................................ 38
6) LOCAZIONE DI IMMOBILI URBANI ADIBITI AD USO NON ABITATIVO: LA RINNOVAZIONE TACITA DEL
CONTRATTO ALLA PRIMA SCADENZA COSTITUISCE UN EFFETTO AUTOMATICO? ............................ 53
Cassazione, Sezioni Unite, 16 maggio 2013, n.11830 .............................................................. 55
7) LOCAZIONE DI UN IMMOBILE IN COMPROPRIETÀ: IL COMPROPRIETARIO NON STIPULANTE PUÒ
ESIGERE METÀ DEL CANONE? ........................................................................................... 64
Cassazione, Sez. Unite, 4 luglio 2012, n. 11135 .................................................................... 64
8) COMPRAVENDITA: E’ SUFFICIENTE UNA DENUNCIA GENERICA DEI VIZI DEL BENE OGGETTO DI
COMPRAVENDITA ......................................................................................................... 79
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Cassazione, sez. II, 11 dicembre2015, n. 25027 .................................................................. 79
9) COMPRAVENDITA IMMOBILIARE. NULLITÀ PER MANCANZA DELLA CONCESSIONE EDILIZIA: NON SI
APPLICA AL CONTRATTO PRELIMINARE .............................................................................. 83
Cassazione, sez. VI, 29 aprile 2016, n. 8483 ....................................................................... 83
10) COMPRAVENDITA IMMOBILIARE. ANCHE SE NELL'ATTO DI COMPRAVENDITA È SCRITTO CHE IL
PREZZO È STATO CORRISPOSTO, È POSSIBILE FORNIRE PROVA DEL CONTRARIO ............................ 88
Cassazione, sez. II, 5 settembre 2016, n. 17573 .................................................................. 88
11) PATTO COMMISSORIO. LA RETROVENDITA È NULLA SE STIPULATA PER CAUSA DI GARANZIA E NON
DI SCAMBIO................................................................................................................. 94
Cassazione, sez. II Civile, 21 gennaio 2016, n. 1075 ............................................................. 94
12) IL CONTRATTO ESTIMATORIO È UN CONTRATTO REALE, IL VINCOLO SORGE CON LA CONSEGNA
DELLA MERCE .............................................................................................................. 99
Cassazione, sez. III, 21 dicembre 2015, n. 25606................................................................. 99
13) QUAL È LA DIFFERENZA TRA CONTRATTO DI APPALTO E DI COMPRAVENDITA........................ 105
Cassazione, Sez. II, 17 gennaio 2014, n.872 ...................................................................... 105
14) CONTRATTO DI PARCHEGGIO E FURTO DELL’AUTO ........................................................ 110
Cassazione, Sez. Unite, 28 giugno 2011, n. 14319 ............................................................... 110
PARTE II - LE QUESTIONI PROCESSUALI ............................................................................. 121
15) AZIONE REDIBITORIA O ESTIMATORIA? QUESTO È IL PROBLEMA ......................................... 121
Cassazione, Sez. II, 26 agosto 2015, n. 17138 .................................................................... 121
16) LA DEDUZIONE DELL’INEFFICACIA DEL CONTRATTO CONCLUSO DAL FALSUS PROCURATOR
COSTITUISCE ECCEZIONE IN SENSO STRETTO O IN SENSO LATO? .............................................. 126
Cassazione, Sezioni Unite, 3 giugno 2015, n. 11377 ............................................................. 126
17) LE SEZIONI UNITE SUL RAPPORTO TRA RISOLUZIONE E RISARCIMENTO E LA QUANTIFICAZIONE DEL
DANNO ..................................................................................................................... 138
Cassazione, Sezioni Unite, 11 aprile 2014, n. 8510 .............................................................. 144
18) COMPRAVENDITA SIMULATA PER INTERPOSIZIONE FITTIZIA DELL’ACQUIRENTE: L’ALIENANTE È
SEMPRE LITISCONSORTE NECESSARIO? .............................................................................. 159
Cassazione, Sezioni Unite, 14 maggio 2013, n. 11523 ........................................................... 159
19) APPALTO. ELIMINAZIONE DEI VIZI E RIDUZIONE DEL PREZZO: LE DOMANDE PROPOSTE IN VIA
ALTERNATIVA SI ESCLUDONO A VICENDA ........................................................................... 170
Cassazione, sez. II, 2 marzo 2015, n. 4161 ........................................................................ 170
20) MANDATO ED AZIONI ESPERIBILI DAL MANDANTE ........................................................... 177
Cassazione, Sezioni Unite, 8 ottobre 2008, n. 24772 ............................................................ 177
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PARTE I - I CASI GIURISPRUDENZIALI
1) ASSICURAZIONE. LA CLAUSOLA “CLAIMS MADE”
NON È VESSATORIA: MA L’ULTIMA PAROLA
SPETTA AL GIUDICE
Nel contratto di assicurazione della responsabilità civile, la clausola che subordina
l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la
richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque,
entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. clausola claimes made
mista o impura) non è vessatoria; essa, in presenza di determinate condizioni, può tuttavia
essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero, nell’ambito della disciplina di
protezione del consumatore, per il fatto di determinare, a carico del consumatore stesso, un
significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; la relativa
valutazione, da effettuarsi dal giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, ove
congruamente motivata.
Cassazione, sez. Unite Civili, 6 maggio 2016, n. 9140
Con la sentenza a Sezioni Unite del 6 maggio 2016, n. 9140, il S.C. chiarisce alcuni aspetti in
ordine alla validità o meno della clausola “claims made”, chiarendo, preliminarmente, che la
stessa non è vessatoria e che quindi bisogna verificare in concreto l’applicazione della stessa
all’interno del tessuto contrattuale.
Il caso. La vicenda decisa dal S.C. consente di risolvere, almeno sotto un profilo, la questione
della validità o meno della clausola “claims made”, ovvero di quella clausola, spesso presente
nei contratti per la responsabilità civile, in forza della quale la copertura della responsabilità
è limitata al fatto che l’illecito o la domanda risarcitoria pervengano nel periodo di vigenza
del contratto. In primo grado, infatti, vi era stata la condanna di un ospedale per il danno
arrecato ad un paziente e la contestuale condanna delle compagnie assicurative dell’ospedale
stesso. Avverso tale pronuncia, una compagnia assicurativa ha fatto appello sostenendo che
erroneamente la clausola “claims made”, presente nei contratti per cui è causa, fosse
ritenuta vessatoria e, quindi, inapplicabile. Accolta in sede di gravame, tale domanda trova
accoglimento e conferma anche in sede di legittimità, sulla base del principio espresso dalla
massima di cui sopra.
Clausola claims made: come e perché. Pur se elaborata con diverse varianti nei contratti per
la responsabilità civile, può comunque affermarsi, in linea di principio, che la clausola
“claims made” prevede il possibile sfasamento fra prestazione dell'assicuratore, ovvero
l'obbligo di indennizzo in relazione all'alea del verificarsi di determinati eventi, e la
controprestazione dell'assicurato, consistente nel pagamento del premio. Ciò significa che
possono essere coperti da assicurazione comportamenti dell'assicurato antecedenti alla data
di conclusione del contratto, qualora la domanda di risarcimento del danno sia per la prima
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volta proposta dopo tale data. Viceversa, possono essere sforniti di garanzia comportamenti
tenuti dall'assicurato nel corso della piena validità ed efficacia della polizza, allorché la
domanda di risarcimento dei danni sia proposta successivamente alla cessazione degli effetti
del contratto. Tale clausola è stata oggetto di numerose e contrastanti interpretazioni della
giurisprudenza.
Clausole claims made: valide e legittime. Secondo una parte della giurisprudenza, sono
legittime le clausole claims made - che prevedono, come visto, il possibile sfasamento tra
prestazione dell'assicuratore e controprestazione dell'assicurato, per cui possono risultare
coperti da assicurazione comportamenti dell'assicurato anteriori alla data di conclusione del
contratto, qualora la domanda di risarcimento del danno sia per la prima volta proposta dopo
tale data - sui contratti di assicurazione della responsabilità professionale.
Clasola claims made: nullità per mancanza del rischio. Al contrario, alcune pronunce hanno
precisato che la clausola “claims made” apposta ad un contratto di assicurazione della
responsabilità civile, in virtù della quale l'assicuratore si obbliga a tenere indenne l'assicurato
non già dei danni causati durante la vigenza del contratto assicurativo, ma delle richieste
risarcitorie che gli pervengano durante tale periodo, costituisce assicurazione di un rischio
putativo, ed è pertanto nulla.
Clausola claims made: altera il sinallagma contrattuale. Analogamente, secondo altre
pronunce, la clausola “claims made” contenuta in un contratto di assicurazione per la
responsabilità civile altera il sinallagma contrattuale, contrastando con lo schema tipico
dell'assicurazione per i danni; è in contrasto con il principio di libera concorrenza europeo e
costituisce una limitazione di responsabilità dell'assicuratore, con conseguente sua nullità e
sostituzione con lo schema tipico del contratto di assicurazione previsto dall'art. 1917 c.c..
Clausola claims made: valida ma vessatoria. Secondo un altro orientamento, la clausola
“claims made” ha natura vessatoria, ed è nulla se non sottoscritta due volte. In particolare,
va distinta la vessatorietà in astratto di una clausola “claims made”, che non può ritenersi
sussistente per la mera contrarietà alla disciplina di cui all'art. 1917 c.c., da quella in
concreto, che è compito, invece, del giudice di merito valutare caso per caso anche mediante
un'interpretazione sistematica della varie clausole contrattuali.
Clausola claims made: necessaria una verifica in concreto. Nel solco della sentenza in
commento, in alcune pronunce i giudici hanno precisato che nei contratti assicurativi
disciplinati dagli artt. 1341 e 1342 c.c., la clausola “claims made” non va considerata
vessatoria qualora la sua funzione limitatrice della responsabilità si estrinsechi in una
previsione deputata all'individuazione dell'oggetto del contratto. Diversamente, quando tale
pattuizione venga predisposta separatamente da altra idonea a definire l'oggetto del
contratto, essa svolge una funzione chiarificatrice ulteriore a carattere limitativo della
garanzia, e pertanto necessita di apposita sottoscrizione ai sensi dell'art. 1341, comma 2,
c.c..
Clausola claims made: delimita (solo) l’oggetto del contratto. Il rifiuto della natura vessatoria
della clausola in questione, viene ravvisato, dalla sentenza in commento – ma anche da
ulteriori pregresse pronunce – dal fatto che la pattuizione cosiddetta “a richiesta fatta”
(“claims made”), inserita - a prescindere dalla sua veste grafica di clausola contrattuale (o
meno) - in un contratto assicurativo, non è apprezzabile in termini di vessatorietà quando
costituisce espressione di un accordo delle parti diretto a delimitare l'oggetto stesso del
contratto, dovendosi ritenere in tal caso realizzata una lecita deroga al modello legale tipico
previsto dall'art. 1917, comma 1, c.c.; essa, per contro, presenta natura vessatoria quando,
nell'economia complessiva della polizza, si atteggi a “condizione” volta a limitare l'oggetto
del contratto come definito da altra clausola, e ciò in ragione della funzione limitativa che
svolge, in tale ipotesi, della precedente e più ampia previsione contrattuale.
Cassazione, sez. Unite Civili, 6 maggio 2016, n. 9140
(Pres. Rordorf – Rel. Amendola)
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Svolgimento del processo
Con sentenza del 18 dicembre 2008 il Tribunale di Roma accolse la domanda proposta da P.A.
nei confronti della Provincia Religiosa di S. Pietro dell’Ordine Ospedaliero di S. Giovanni di
Dio Fatebenefratelli (di seguito anche solo Provincia Religiosa), domanda volta ad ottenere il
risarcimento dei danni da lui subiti per effetto della condotta dei medici della struttura che
lo avevano curato. E nel condannare l’ente al pagamento della somma liquidata al paziente a
titolo di ristoro dei pregiudizi patiti, dichiarò tutte le compagnie assicurative chiamate in
causa dalla convenuta tenute a manlevare la responsabile-assicurata nei limiti previsti dalle
rispettive polizze.
Propose appello la Società Cattolica di Assicurazioni s.p.a., anche quale delegataria delle
coassicuratrici Zurich Insurance PLC (per la quota del 30%) e di Reale Mutua (per la quota del
20%), censurando la ritenuta inoperatività della clausola c.d. claims made - letteralmente "a
richiesta fatta" - inserita nella polizza n. 11891, da essa stipulata con la Provincia Religiosa, in
quanto derogativa, secondo il giudice di prime cure, del primo comma dell’art. 1917 cod.
civ., e quindi del principio in base al quale la copertura assicurativa si estende a tutti i fatti
accaduti durante la vigenza del contratto. Sostenne segnatamente l’esponente che,
nell’adottare tale errata soluzione, il decidente non aveva considerato che la pattuizione
intitolata "Condizione speciale - Inizio e Termine della Garanzia", in base alla quale la
manleva valeva per le istanze risarcitorie presentate per la prima volta nel periodo di
efficacia dell’assicurazione, purché il fatto che aveva originato la richiesta fosse stato
commesso nello stesso periodo o nel triennio precedente alla stipula, era pienamente valida
ed efficace, anche in assenza di una specifica sottoscrizione, in quanto volta a delimitare
l’oggetto del contratto e non a stabilire una limitazione di responsabilità.
Con la sentenza ora impugnata, depositata il 16 dicembre 2011, la Corte d’appello di Roma ha
rigettato la domanda di manleva della Provincia nei confronti della Cattolica e delle
coassicuratrici.
In motivazione la Curia capitolina, affermata la piena validità della clausola, ne ha altresì
escluso il carattere vessatorio rilevando che la stessa, lungi dal rappresentare una limitazione
della responsabilità della società assicuratrice, estende la copertura ai fatti dannosi
verificatisi prima della stipula del contratto.
Il ricorso della Provincia Religiosa avverso detta decisione è articolato su tre motivi.
Si sono difese con controricorso la Società Cattolica Assicurazioni Coop. a r.l. e Zurich
Insurance PLC.
A seguito di istanza dell’impugnante, il Primo Presidente, ritenuto che la controversia
presentava una questione di massima di particolare importanza, ne ha disposto l’assegnazione
alle sezioni unite.
Fissata l’udienza di discussione, entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Va anzitutto sgombrato il campo dall’eccezione, sollevata in limine dalla Società Cattolica
di Assicurazione Coop. a r.l. e dalla Zurich Insurance PLC, di inammissibilità del ricorso per
violazione del principio di autosufficienza. Sostengono invero le resistenti che l’impugnazione
violerebbe il disposto dell’art. 366, primo comma, n. 6 cod. proc. civ., posto che non sarebbe
riportato il testo del contratto né ne sarebbe indicata l’esatta allocazione nel fascicolo
processuale.
Il rilievo non ha pregio.
La preliminare verifica evocata dalle società assicuratrici è destinata ad avere esito positivo a
condizione che il ricorso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità
in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto nonché di
cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle argomentazioni con le quali il
decidente ha giustificato la scelta decisoria adottata.
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Nello specifico, il nodo problematico sul quale è stato sollecitato l’intervento nomofilattico
delle sezioni unite, attiene alla validità di una clausola il cui contenuto è assolutamente
pacifico tra le parti ed è comunque stato trascritto in ricorso, di talché non avrebbe senso
sanzionare con l’inammissibilità l’omissione delle indicazioni necessarie alla facile reperibilità
del testo dell’intero contratto, considerato che nessun ausilio esso apporterebbe alla
soluzione delle questioni poste dalla proposta impugnazione. È sufficiente all’uopo
considerare che le deduzioni hinc et inde svolte a sostegno delle rispettive tesi difensive,
omettono qualsivoglia riferimento a pattuizioni diverse da quella racchiusa nella clausola in
contestazione, volta a circoscrivere, nei sensi che di qui a poco si andranno a precisare,
l’obbligo della garante di manlevare la garantita.
2.1. Per le stesse ragioni, e specularmente, l’eccezione di giudicato esterno sollevata da
entrambe le parti, nelle memorie ex art. 378 cod. proc. civ. e nel corso della discussione
orale, in relazione a sentenze definitive che, con riferimento alla polizza n. 11891 oggetto del
presente giudizio, avrebbero pronunciato sulla validità della contestata condizione, non può
sortire l’effetto di precludere la decisione di questa Corte sul merito della proposta
impugnazione.
Mette conto in proposito ricordare che, nel giudizio di legittimità, il principio della
rilevabilità del giudicato esterno va coordinato con i criteri redazionali desumibili dal disposto
dell’art. 366, n. 6, cod. proc. civ.. E tanto per la dirimente considerazione che
l’interpretazione del giudicato esterno, pur essendo assimilabile a quella degli elementi
normativi astratti, in ragione della sua natura di norma regolatrice del caso concreto, va
comunque effettuata sulla base di quanto stabilito nel dispositivo della sentenza e nella
motivazione che la sorregge, di talché la relativa deduzione soggiace all’onere della compiuta
indicazione di tutti gli elementi necessari al compimento del sollecitato scrutinio (cfr. Cass.
civ. 10 dicembre 2015, n. 24952).
2.2. Venendo al caso di specie, le contrapposte deduzioni delle parti in ordine all’esistenza di
sentenze passate in giudicato che, con esiti niente affatto coincidenti, si sarebbero
pronunciate sulle questioni oggetto del presente giudizio, non sono accompagnate dalla
indicazione degli elementi indispensabili alla verifica della fondatezza dell’eccezione, nei
sensi testè esplicitati.
Ne deriva che l’eccezione di giudicato esterno va disattesa.
3.1. Passando quindi all’esame della proposta impugnazione, con il primo motivo, la Provincia
Religiosa, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 1341, secondo comma, cod.
civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia,
ex art. 360, nn. 3, 4, 5 cod. proc. civ., contesta la negativa valutazione della natura
vessatoria della clausola.
Rileva segnatamente l’esponente che la stessa, non integrando l’oggetto del contratto, ma
piuttosto limitando la responsabilità della compagnia assicuratrice, ovvero prevedendo
decadenze, limitazioni alla facoltà di proporre eccezioni e restrizioni alla libertà contrattuale
nei rapporti con i terzi, facoltà di sospendere l’esecuzione, richiedeva una specifica
sottoscrizione, nella specie mancante. Aggiunge che, mentre la previsione pattizia non
infirma la tipicità dello schema negoziale, l’estensione della garanzia a sinistri occorsi in
periodi precedenti alla vigenza della polizza è ben possibile anche in contratti conformati sul
modello boss occurrence. In ogni caso - evidenzia - l’art. 1341 cod. civ. è norma che riguarda
tutti i contratti, tipici o atipici che siano.
3.2. Con il secondo mezzo l’impugnante lamenta violazione e falsa applicazione degli artt.
1341, 2964 e 2965 cod. civ., omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti
decisivi della controversia, ex art. 360 nn. 3, 4 e 5 cod. proc. civ.. Sostiene che la condizione
apposta al contratto sarebbe nulla, ex art. 2965 cod. civ., per l’eccessiva difficoltà che ne
deriverebbe all’esercizio del diritto alla manleva dell’assicurato, questione sulla quale la
Corte di merito non si era affatto pronunciata, benché la stessa fosse stata tempestivamente
sollevata sin dal primo grado del giudizio.
3.3. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1337, 1358,
1366, 1374 e 1375 cod. civ., nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su
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punti decisivi della controversia, ex art. 360 nn. 3, 4 e 5 cod. proc. civ. Sostiene l’esponente
che la clausola in contestazione sarebbe nulla per contrarietà ai principi di correttezza e
buona fede, poiché essa, intitolata inizio e termine della garanzia, non contiene alcun
richiamo espresso alla circostanza che viene assicurato non già il fatto foriero di danno, ma la
richiesta di danno che, insieme al fatto, deve intervenire nel corso di vigenza temporale della
polizza.
4. Le critiche, che si prestano a essere esaminate congiuntamente per la loro evidente
connessione, sono infondate.
Va premesso, per una più agevole comprensione delle ragioni della scelta operata in
dispositivo, che il contratto di assicurazione per responsabilità civile con clausola claims
made (a richiesta fatta) si caratterizza per il fatto che la copertura è condizionata alla
circostanza che il sinistro venga denunciato nel periodo di vigenza della polizza (o anche in un
delimitato arco temporale successivo, ove sia pattuita la c.d. sunset dose), laddove, secondo
lo schema denominato "loss occurrence", o "insorgenza del danno", sul quale è conformato il
modello delineato nell’art. 1917 cod. civ., la copertura opera in relazione a tutte le
condotte, generatrici di domande risarcitorie, insorte nel periodo di durata del contratto.
Senza addentrarsi nella "storia" della formula e del contesto giurisprudenziale ed economico
in cui essa ebbe a germogliare, in quanto esorbitante rispetto ai fini della presente
esposizione, mette conto nondimeno rilevare, per una migliore comprensione degli interessi
in gioco, che la sua introduzione, circoscrivendo l’operatività della assicurazione a soli sinistri
per i quali nella vigenza del contratto il danneggiato richieda all’assicurato il risarcimento del
danno subito, e il danneggiato assicurato ne dia comunicazione alla propria compagnia perché
provveda a tenerlo indenne, consente alla società di conoscere con precisione sino a quando
sarà tenuta a manlevare il garantito e ad appostare in bilancio le somme necessarie per far
fronte alle relative obbligazioni, con quel che ne consegue, tra l’altro, in punto di
facilitazione nel calcolo del premio da esigere.
5. Malgrado la variegata tipologia di clausole claims made offerte dalla prassi commerciale,
esse, schematizzando al massimo, appaiono sussumibili in due grandi categorie: a) clausole
c.d. miste o impure, che prevedono l’operatività della copertura assicurativa solo quando
tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano nel periodo di efficacia del
contratto, con retrodatazione della garanzia, in taluni casi, come quello dedotto in giudizio,
alle condotte poste in essere anteriormente (in genere due o tre anni dalla stipula del
contratto); b) clausole c.d. pure, destinate alla manleva di tutte le richieste risarcitorie
inoltrate dal danneggiato all’assicurato e da questi all’assicurazione nel periodo di efficacia
della polizza, indipendentemente dalla data di commissione del fatto illecito.
6.1. Tanto premesso e precisato, ragioni di ordine logico consigliano di partire dall’esame
delle censure con le quali l’impugnante contesta in radice la validità della clausola claims
made, segnatamente esposte nel secondo e del terzo motivo di ricorso.
Orbene, in relazione ai particolari profili di nullità ivi evocati, le critiche sono destituite di
fondamento, ancorché la problematica della liceità dei patti in essa racchiusi non possa
esaurirsi nella loro confutazione e necessiti di alcune, significative precisazioni.
Anzitutto non è condivisibile l’assunto secondo cui il decidente non avrebbe risposto alla
deduzione di nullità della clausola per contrarietà al disposto dell’art. 2965 cod. civ..
La Corte territoriale ha invero scrutinato la validità del patto, espressamente negando,
ancorché con motivazione estremamente sintetica, che lo stesso integrasse violazione di
alcuna norma imperativa. Il che significa che la prospettazione dell’appellata non è sfuggita
al vaglio critico del giudicante.
6.2. Deve in ogni caso escludersi che la limitazione della copertura assicurativa alle "richieste
di risarcimento presentate all’Assicurato, per la prima volta, durante il periodo di efficacia
dell’assicurazione", in relazione a fatti commessi nel medesimo lasso temporale o anche in
epoca antecedente, ma comunque non prima di tre anni dalla data del suo perfezionamento,
integri una decadenza convenzionale, soggetta ai limiti inderogabilmente fissati nella norma
codicistica di cui si assume la violazione.
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E invero l’istituto richiamato, implicando la perdita di un diritto per mancato esercizio dello
stesso entro il periodo di tempo stabilito, va inequivocabilmente riferito a già esistenti
situazioni soggettive attive nonché a condotte imposte, in vista del conseguimento di
determinati risultati, a uno dei soggetti del rapporto nell’ambito del quale la decadenza è
stata prevista. Invece la condizione racchiusa nella clausola in contestazione consente o
preclude l’operatività della garanzia in dipendenza dell’iniziativa di un terzo estraneo al
contratto, iniziativa che peraltro incide non sulla sorte di un già insorto diritto all’indennizzo,
quanto piuttosto sulla nascita del diritto stesso.
Ne deriva che non v’è spazio per una verifica di compatibilità della clausola con il disposto
dell’art. 2965 cod. civ..
7.1. Pure infondata è la deduzione di nullità per asserito contrasto della previsione pattizia
con le regole di comportamento da osservarsi nel corso della formazione del contratto e nello
svolgimento del rapporto obbligatorio. Non è qui in discussione che i reiterati richiami del
codice alla correttezza come regola alla quale il debitore e il creditore devono improntare il
proprio comportamento (art. 1175 cod. civ.), alla buona fede come criterio informatore della
interpretazione e della esecuzione del contratto (artt. 1366 e 1.375 cod. civ.), e all’equità,
quale parametro delle soluzioni da adottare in relazione a vicende non contemplate dalle
parti (art. 1374 cod. civ.), facciano della correttezza (o buona fede in senso oggettivo) un
metro di comportamento per i soggetti del rapporto, e un binario guida per la sintesi
valutativa del giudice, il cui contenuto non è a priori determinato; né che il generale
principio etico-giuridico di buona fede nell’esercizio dei propri diritti e nell’adempimento dei
propri doveri, insieme alla nozione di abuso del diritto, che ne è l’interfaccia, giochino un
ruolo fondamentale e in funzione integrativa dell’obbligazione assunta dal debitore, e quale
limite all’esercizio delle corrispondenti pretese; né, ancora, che, attraverso le richiamate
norme, possa venire più esattamente individuato, e per così dire arricchito, il contenuto del
singolo rapporto obbligatorio, con l’estrapolazione di obblighi collaterali (di protezione, di
cooperazione, di informazione), che, in relazione al concreto evolversi della vicenda
negoziale, vadano, in definitiva a individuare la regula iuris effettivamente applicabile e a
salvaguardare la funzione obbiettiva e lo spirito del regolamento di interessi che le parti
abbiano inteso raggiungere.
7.2. Ciò che tuttavia rileva, ai fini del rigetto delle proposte censure, è che, in disparte
quanto appresso si dirà (al n. 17.), in ordine al giudizio di meritevolezza di regolamenti
negoziali oggettivamente non equi e gravemente sbilanciati, la violazione di regole di
comportamento ispirate a quel dovere di solidarietà che, sin dalla fase delle trattative,
richiama "nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera
del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore", secondo l’icastica enunciazione
della Relazione ministeriale al codice civile, in nessun caso potrebbe avere forza ablativa di
un vincolo convenzionalmente assunto, essendo al più destinato a trovare ristoro sul piano
risarcitorio (confr. Cass. civ. 10 novembre 2010, n. 22819; Cass. civ. 22 gennaio 2009, n.
1618; Cass. civ. sez. un. 25 novembre 2008, n. 28056).
7.3. Ora, con specifico riguardo alle censure svolte nel terzo motivo, ciò di cui l’impugnante
Provincia Religiosa si duole è che l’inserimento della clausola sia avvenuta in maniera
asseritamente subdola, posto che la sua denominazione "inizio e termine della garanzia"
avrebbe fuorviato il consenso dell’aderente, affatto inconsapevole di un contenuto che
stravolge lo schema codicistico del contratto assicurativo, ispirato alla formula loss
occurence: da tanto inferendo non già l’esistenza di ipotesi di annullabilità per errore o dolo
o di variamente modulati diritti risarcitori dell’assicurato nei confronti dell’assicuratore, ma
la nullità radicale e assoluta della clausola sub specie di illiceità che vitiatur sed non vitiat,
con conseguente attivazione del meccanismo sostitutivo di cui all’art. 1419, secondo comma,
cod. civ., implicitamente, ma inequivocabilmente evocato.
E tuttavia, si ripete, è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, al quale si
intende dare continuità, che, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la
violazione di precetti inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di
determinarne la nullità, non già l’inosservanza di norme, quand’anche imperative, riguardanti
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il comportamento dei contraenti, inosservanza che può costituire solo fonte di responsabilità
per danni (cfr. Cass. civ. 10 aprile 2014, n. 8462; Cass. civ. 19 dicembre 2007, n. 26724).
Ne deriva che le censure poste nel primo e nel secondo motivo di ricorso non colgono nel
segno.
8.1. L’ampiezza dello scrutinio nomofilattico sollecitato e le peculiarità proprie della
fattispecie dedotta in giudizio, inducono queste sezioni unite a esaminare un ulteriore,
possibile profilo di invalidità della clausola in contestazione, per vero assai dibattuto,
soprattutto in dottrina e nella giurisprudenza di merito.
Merita evidenziare, sul piano fattuale: a) che il sinistro, e cioè l’omessa diagnosi dei cui
effetti pregiudizievoli P.A. ha chiesto di essere ristorato, si è verificato nell’agosto 1993; b)
che l’arco temporale di vigenza della polizza dedotta in giudizio andava dal 21 febbraio 1996
al 31 dicembre 1997, con effetto retroattivo al triennio precedente; c) che la copertura
assicurativa era in ogni caso limitata alle richieste di risarcimento presentate per la prima
volta all’assicurato durante il periodo di operatività dell’assicurazione, e quindi entro il 31
dicembre 1997; d) che nella fattispecie la domanda del paziente venne avanzata nel giugno
2001.
E allora, considerato che il sinistro di cui la chiamante ha chiesto di essere indennizzata si è
verificato in epoca antecedente alla stipula del contratto, risulta ineludibile il confronto con
la vexata quaestio della validità dell’assicurazione del rischio pregresso. Si ricorda all’uopo
che l’assicurabilità di fatti generatori di danno verificatisi prima della conclusione del
contratto, ma ignorati dall’assicurato, è stata ed è fortemente osteggiata da coloro che
ravvisano nella clausola claims made così strutturata una sostanziale mancanza dell’alea
richiesta, a pena di nullità, dall’art. 1895 cod. civ.. E invero - si sostiene - posto che il rischio
dedotto in contratto deve essere futuro e incerto, giammai il cd. rischio putativo potrebbe
trovare copertura.
9. Da tale opinione le Sezioni unite ritengono tuttavia di dovere dissentire, così confermando
l’orientamento già espresso da questa Corte negli arresti n. 7273 del 22 marzo 2013, e n.
3622 del 17 febbraio 2014.
Affatto convincente appare in proposito il rilievo che l’estensione della copertura alle
responsabilità dell’assicurato scaturenti da fatti commessi prima della stipula del contratto
non fa venir meno l’alea e, con essa, la validità del contratto, se al momento del
raggiungimento del consenso le parti (e, in specie, l’assicurato) ne ignoravano l’esistenza,
potendosi, in caso contrario, opporre la responsabilità del contraente ex artt. 1892 e 1893
cod. civ. per le dichiarazioni inesatte o reticenti. A ciò aggiungasi che, come innanzi
evidenziato, il rischio dell’aggressione del patrimonio dell’assicurato in dipendenza di un
sinistro verificatosi nel periodo contemplato dalla polizza, si concretizza progressivamente,
perché esso non si esaurisce nella sola condotta materiale, cui pur è riconducibile
causalmente il danno, occorrendo anche la manifestazione del danneggiato di esercitare il
diritto al risarcimento: ne deriva che la clausola claims made con garanzia pregressa è lecita
perché afferisce a un solo elemento del rischio garantito, la condotta colposa posta già in
essere e peraltro ignorata, restando invece impregiudicata l’alea dell’avveramento
progressivo degli altri elementi costitutivi dell’impoverimento patrimoniale del danneggianteassicurato.
Non a caso, del resto, il rischio putativo è espressamente riconosciuto nel nostro ordinamento
dall’art. 514 del codice navigazione, con disposizione che non v’è motivo di ritenere
eccezionale.
10. L’affermato carattere grandangolare del giudizio di nullità (cfr. Cass. civ. sez. un. 12
dicembre 2014, nn. 26242 e 26243), impone a questo punto di farsi carico degli ulteriori
rilievi - disseminati qua e là, nel corpo delle complesse e articolate argomentazioni formulate
dalla ricorrente a illustrazione della sua linea difensiva - volti a evidenziare la consustanziale
e invincibile contrarietà della clausola con la struttura propria del contratto di assicurazione,
posto che essa, legando la copertura dei sinistri alla condizione che ne venga chiesto il ristoro
entro un certo periodo di tempo, decorso il quale cessa ogni obbligo di manleva per la
compagnia, stravolgerebbe, a danno dell’assicurato, la struttura tipica del contratto, quale
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delineato nell’art. 1917 cod. civ. che, conformata, come si è detto, sul modello c.d. loss
occurrence, assicura la copertura di tutti i sinistri occorsi nel periodo di tempo di vigenza
della polizza. Secondo tale prospettiva, che ha trovato riscontro in talune pronunce della
giurisprudenza di merito e adesioni in dottrina, la clausola sarebbe nulla perché
vanificherebbe la causa del contratto di assicurazione, individuata, con specifico riferimento
all’assicurazione sulla responsabilità professionale, nel trasferimento, dall’agente
all’assicuratore, del rischio derivante dall’esercizio dell’attività, questa e non la richiesta
risarcitoria essendo oggetto dell’obbligo di manleva.
11. Sul piano strettamente dogmatico la tesi dell’intagibilità del modello codicistico si
scontra contro il chiaro dato testuale costituito dall’art. 1932 cod. civ., che tra le norme
inderogabili non menziona il primo comma dell’art. 1917 cod. civ. Il che, in via di principio,
consente alle parti di modulare, nella maniera ritenuta più acconcia, l’obbligo del garante di
tenere indenne il garantito "di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il
tempo dell’assicurazione", deve pagare a un terzo.
Si tratta piuttosto di stabilire fino a che punto i paciscenti possano spingersi nella
riconosciuta loro facoltà di variare il contenuto del contratto e quale sia il limite oltre il
quale la manipolazione dello schema tipico sia in concreto idonea ad avvelenarne la causa.
Non a caso, al riguardo, la tesi della nullità viene declinata nella ben più scivolosa chiave
della immeritevolezza di tutela dell’assicurazione con clausola claims made, segnatamente di
quella mista, in ragione della significativa delimitazione dei rischi risarcibili, del pericolo di
mancanza di copertura in caso di mutamento dell’assicuratore e delle conseguenti, possibili
ripercussioni negative sulla concorrenza tra le imprese e sulla libertà contrattuale.
12. In realtà, al fondo della manifesta insofferenza per una condizione contrattuale che
appare pensata a tutto vantaggio del contraente forte, c’è la percezione che essa snaturi
l’essenza stessa del contratto di assicurazione per responsabilità civile, legando l’obbligo di
manleva a una barriera temporale che potrebbe scattare assai prima della cessazione del
rischio che ha indotto l’assicurato a stipularlo, considerato che l’eventualità di un’aggressione
del suo patrimonio persiste almeno fino alla maturazione dei termini di prescrizione.
Peraltro una risposta soddisfacente e conclusiva a siffatto genere di dubbi non può
prescindere da una più approfondita esegesi della natura della contestata clausola,
operazione che, in quanto indispensabile alla identificazione del relativo regime giuridico,
deve necessariamente confrontarsi anche con le critiche svolte nel primo motivo di ricorso.
13. Si tratta invero di stabilire se essa vada qualificata come limitativa della responsabilità,
per gli effetti dell’art. 1341 cod. civ., ovvero dell’oggetto del contratto, tenendo conto che,
in linea generale, per clausole limitative della responsabilità si intendono quelle che limitano
le conseguenze della colpa o dell’inadempimento o che escludono il rischio garantito, mentre
attengono all’oggetto del contratto le clausole che riguardano il contenuto e i limiti della
garanzia assicurativa e, pertanto, specificano il rischio garantito (Cass. civ. 7 agosto 2014, n.
17783; Cass. civ. 7 aprile 2010, n. 8235; Cass. civ. 10 novembre 2009, n. 23741). In siffatta
prospettiva si predica che si ha delimitazione dell’oggetto quando la clausola negoziale ha lo
scopo di stabilire gli obblighi concretamente assunti dalle parti, laddove è delimitativa della
responsabilità quella che ha l’effetto di escludere una responsabilità che, rientrando, in
tesi,nell’oggetto, sarebbe altrimenti insorta.
14. Orbene, funzionale al divisato obbiettivo esegetico è anzitutto la considerazione che il
fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione di cui parla l’art. 1917 cod. civ. non può
essere identificato con la richiesta di risarcimento: non par dubbio infatti che il lemma inserito all’interno di un contesto normativo in cui sono espressamente esclusi dall’area della
risarcibilità i danni derivati dai fatti dolosi (art. 1917, primo comma, ultimo periodo); in cui
sono imposti all’assicurato, con decorrenza dalla data del sinistro, significativi oneri
informativi (art. 1913 cod. civ.); e in cui, infine, è espressamente sancito e disciplinato
l’obbligo di salvataggio (art. 1914 cod. civ.) - si riferisce inequivocabilmente alla vicenda
storica di cui l’assicurato deve rispondere (cfr. Cass. civ. 15 marzo 2005, n. 5624).
Il che, se vale a far tracimare i contratti assicurativi con clausola claims made pura fuori della
fattispecie ipotetica delineata nell’art. 1917 cod. civ., non è invece sufficiente a suffragare
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l’assunto secondo cui anche la clausola claims made mista inciderebbe sulla tipologia stessa
del rischio garantito nel senso che questo non sarebbe più la responsabilità tout court, ma la
responsabilità reclamata. L’affermazione che, si ripete, è certamente sostenibile con
riferimento ai contratti assicurativi con clausola claims made pura, non resiste, con riguardo
alle altre, al dirimente rilievo che, nell’ambito dell’assicurazione della responsabilità civile, il
sinistro delle cui conseguenze patrimoniali l’assicurato intende traslare il rischio sul garante,
è collegato non solo alla condotta dell’assicurato danneggiante, ma altresì alla richiesta
risarcitoria avanzata dal danneggiato, essendo fin troppo ovvio che ove al comportamento
lesivo non faccia seguito alcuna domanda di ristoro, nessun diritto all’indennizzo - e
specularmente nessun obbligo di manleva insorgeranno a favore e a carico dei soggetti del
rapporto assicurativo.
15. Se tutto questo è vero, il discostamento dal modello codicistico introdotto dalla clausola
clamis made impura, che è quella che qui interessa, mirando a circoscrivere la copertura
assicurativa in dipendenza di un fattore temporale aggiuntivo, rispetto al dato costituito
dall’epoca in cui è stata realizzata la condotta lesiva, si inscrive a pieno titolo nei modi e nei
limiti stabiliti dal contratto, entro i quali, a norma dell’art. 1905 cod. civ., l’assicuratore è
tenuto a risarcire il danno sofferto dall’assicurato. E poiché non è seriamente predicabile che
l’assicurazione della responsabilità civile sia ontologicamente incompatibile con tale
disposizione, il patto claims made è volto in definitiva a stabilire quali siano, rispetto
all’archetipo fissato dall’art. 1917 cod. civ., i sinistri indennizzabili, così venendo a
delimitare l’oggetto, piuttosto che la responsabilità.
16. Infine, e conclusivamente, nessuna consistenza hanno gli altri profili di vessatorietà
evocati dalla Provincia Religiosa, a sol considerare che la pretesa, pattizia imposizione di
decadenze è resistita dai medesimi rilievi svolti a proposito dell’eccepita nullità della
clausola per contrarietà al disposto dell’art. 2965 cod. civ.; che la deduzione di un’incisione
della libertà contrattuale del contraente non predisponente costituisce al più un
inconveniente pratico che, in quanto effetto riflesso delle condizioni della stipula, è semmai
passibile di valutazione in sede di scrutinio sulla meritevolezza della tutela, di cui appresso si
dirà; che inesistente, infine, è la prospettata limitazione alla facoltà dell’assicurato di
opporre eccezioni.
Ne deriva che correttamente il giudice di merito ha escluso sia le ragioni di nullità fatte
valere dall’esponente che il carattere vessatorio della clausola.
17. Ritenuta inoperante la tutela, del resto meramente formale, assicurata dall’art. 1341
cod. civ., e conseguentemente infondate le critiche svolte nel primo mezzo, si tratta ora di
considerare i possibili esiti di uno scrutinio di validità condotto sotto il profilo della
meritevolezza di tutela della deroga al regime legale contrattualmente stabilita, riprendendo
il discorso dal punto in cui lo si è lasciato (al n. 12.). Peraltro, se è approdo pacifico della
teoria generale del contratto la possibilità di estendere il sindacato al singolo patto atipico,
inserito in un contratto tipico, è di intuitiva evidenza che qualsivoglia indagine sulla
meritevolezza deve necessariamente essere condotta in concreto, con riferimento, cioè, alla
fattispecie negoziale di volta in volta sottoposta alla valutazione dell’interprete. E invero i
dubbi avanzati da questa Corte allorché, interrogandosi in un obiter dictum sulla validità
dell’esclusione dalla copertura assicurativa di un sinistro realizzato nel pieno vigore del
contratto, in quanto la domanda risarcitoria era stata per la prima volta proposta dopo la
scadenza della polizza, ebbe a ipotizzare problemi di validità della clausola, considerato che,
in casi siffatti, verrebbe a mancare, "in danno dell’assicurato, il rapporto di corrispettività fra
il pagamento del premio e il diritto all’indennizzo" (cfr. Cass. civ. 17 febbraio 2014, n. 3622),
non appaiono passibili di risposte univoche, in disparte il loro indiscutibile impatto emotivo. È
sufficiente al riguardo considerare che la prospettazione dell’immeritevolezza è, in via di
principio, infondata con riferimento alle clausole c.d. pure, che, non prevedendo limitazioni
temporali alla loro retroattività, svalutano del tutto la rilevanza dell’epoca di commissione
del fatto illecito, mentre l’esito dello scrutinio sembra assai più problematico con riferimento
alle clausole c.d. impure, a partire da quella, particolarmente penalizzante, che limita la
copertura alla sola ipotesi che, durante il tempo dell’assicurazione, intervengano sia il
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sinistro che la richiesta di risarcimento. Quanto poi alle clausole che estendono la garanzia al
rischio pregresso, l’apprezzamento non potrà non farsi carico del rilievo che, in casi siffatti, il
sinallagma contrattuale, che nell’ultimo periodo di vita del rapporto è destinato a funzionare
in maniera assai ridotta, quanto alla copertura delle condotte realizzate nel relativo arco
temporale, continuerà nondimeno a operare con riferimento alle richieste risarcitorie
avanzate a fronte di comportamenti dell’assicurato antecedenti alla stipula, di talché
l’eventualità, paventata nell’arresto n. 3622 del 2014, di una mancanza di corrispettività tra
pagamento del premio e diritto all’indennizzo, non è poi così scontata. Peraltro è evidente
che della copertura del rischio pregresso nulla potrà farsene l’esordiente, il quale non ha
alcun interesse ad assicurare inesistenti sue condotte precedenti alla stipula, di talché anche
tale circostanza entrerà, se del caso, nella griglia valutativa della meritevolezza.
18. Non è poi superfluo aggiungere che, laddove risulti applicabile la disciplina di cui al
decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, l’indagine dovrà necessariamente confrontarsi
con la possibilità di intercettare, a carico del consumatore, quel "significativo squilibrio dei
diritti e degli obblighi derivanti dal contratto" presidiato dalla nullità di protezione, di cui
all’art. 36 d.lgs. n. 206 del 2005. E ancorché la pacifica limitazione della tutela offerta dalla
menzionata fonte alle sole persone fisiche che concludano un contratto per la soddisfazione
di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale
eventualmente esercitata - dovendosi per contro considerare professionista il soggetto che
stipuli il contratto nell’esercizio di una siffatta attività o per uno scopo a questa connesso
(cfr. Cass. civ. Cass. civ. 12 marzo 2014, n. 5705; Cass. civ. 23 settembre 2013, n. 21763) escluda la possibilità che essa risulti applicabile ai contratti di assicurazione della
responsabilità professionale e marchi comunque di assoluta residualità l’ipotesi di una sua
rilevanza in parte qua, va nondimeno sottolineata la maggiore incisività del relativo scrutinio.
Questo, in quanto volto ad assicurare protezione al contraente debole, non potrà invero che
attestarsi su una soglia di incisione dell’elemento causale più bassa rispetto a quella
necessaria per il positivo riscontro dell’immeritevolezza, affidato ai principi generali
dell’ordinamento.
19. Va poi da sé che l’esegesi, ove non approdi a risultati appaganti sulla base di dati propri
della clausola, che risultino in sé di fulminante evidenza in un senso o nell’altro, non può
prescindere dalla considerazione, da un lato, dell’esistenza di un contesto caratterizzato
dalla spiccata asimmetria delle parti e nel quale il contraente non predisponente, ancorché in
tesi qualificabile come "professionista", è, in realtà, il più delle volte sguarnito di esaustive
informazioni in ordine ai complessi meccanismi giuridici che governano il sistema della
responsabilità civile; dall’altro, di tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresi altri
profili della disciplina pattizia, quali, ad esempio, l’entità del premio pagato dall’assicurato,
così in definitiva risolvendosi in un giudizio di stretto merito che, se adeguatamente
motivato, è insindacabile in sede di legittimità.
20. Quanto poi agli effetti della valutazione di immeritevolezza, essi, in via di principio esorbitando dall’area della mera scorrettezza comportamentale presidiata, per quanto
innanzi detto (al n. 7.2), dalla sola tutela risarcitoria - non possono non avere carattere reale,
con l’applicazione dello schema legale del contratto di assicurazione della responsabilità
civile, e cioè della formula loss occurence. E tanto sull’abbrivio degli spunti esegetici offerti
dal secondo comma dell’art. 1419 cod. civ. nonché del principio, ormai assurto a diritto
vivente, secondo cui il precetto dettato dall’art. 2 della Costituzione "che entra direttamente
nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis
normativa" (Corte cost. n. 77 del 2014 e n. 248 del 2013), consente al giudice di intervenire
anche in senso modificativo o integrativo sullo statuto negoziale, qualora ciò sia necessario
per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere
l’abuso del diritto (cfr. Cass. civ. 18 settembre 2009, n. 20106; Cass. sez. un. 13 settembre
2005, n. 18128).
21. Prima di chiudere, verificando la ricaduta degli esposti criteri sulla fattispecie dedotta in
giudizio, non possono queste sezioni unite ignorare la delicata questione della compatibilità
della clausola claims made con l’introduzione, in taluni settori, dell’obbligo di assicurare la
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responsabilità civile connessa all’esercizio della propria attività. Mette conto in proposito
ricordare: a) che l’art. 3, comma 5, decreto legge n. 138 del 2011, convertito con legge n.
148 dello stesso anno, nell’elencare i principi ai quali devono ispirarsi le riforme degli
ordinamenti professionali da approvarsi nel termine di un anno dall’entrata in vigore del
decreto, ha previsto alla lett. e), l’obbligo per tutti di stipulare "idonea assicurazione per i
rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale", nonché di rendere noti al cliente, al
momento dell’assunzione dell’incarico, gli estremi della polizza stipulata e il relativo
massimale; b) che il successivo d.P.R. n. 137 del 7 agosto 2012, nel ribadire siffatto obbligo la cui violazione costituisce peraltro illecito disciplinare - e nel precisare che la stipula dei
contratti possa avvenire "anche per il tramite di convenzioni collettive negoziate dai consigli
nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti", ha prorogato di un anno dall’entrata in
vigore della norma, e dunque fino al 15 agosto 2013, l’obbligo di assicurazione; c) che con
specifico riferimento agli esercenti le professioni sanitarie il decreto legge 13 settembre
2012, n. 158, convertito con la legge 8 novembre 2012, n. 189, ha poi demandato a un
decreto del Presidente della Repubblica la disciplina delle procedure e dei requisiti minimi e
uniformi per l’idoneità dei relativi contratti, mentre il decreto legge 21 giugno 2013, n. 69
(c.d. decreto fare), convertito dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, ha allungato al 13 agosto
2014 l’obbligo degli stessi di munirsi di assicurazione di responsabilità civile.
22. Ciò posto, e rilevato che è stata da più parti segnalata l’incongruenza della previsione di
un obbligo per il professionista di assicurarsi, non accompagnata da un corrispondente obbligo
a contrarre in capo alle società assicuratrici, quel che in questa sede rileva è che il giudizio di
idoneità della polizza difficilmente potrà avere esito positivo in presenza di una clausola
claims made, la quale, comunque articolata, espone il garantito a buchi di copertura. È
peraltro di palmare evidenza che qui non sono più in gioco soltanto i rapporti tra società e
assicurato, ma anche e soprattutto quelli tra professionista e terzo, essendo stato quel dovere
previsto nel preminente interesse del danneggiato, esposto al pericolo che gli effetti della
colpevole e dannosa attività della controparte restino, per incapienza del patrimonio della
stessa, definitivamente a suo carico. E di tanto dovrà necessariamente tenersi conto al
momento della stipula delle "convenzioni collettive negoziate dai consigli nazionali e dagli
enti previdenziali dei professionisti", nonché in sede di redazione del decreto presidenziale
chiamato a stabilire, per gli esercenti le professioni sanitarie, le procedure e i requisiti
minimi e uniformi per l’idoneità dei relativi contratti.
23. Tornando al caso dedotto in giudizio, si tratta a questo punto di verificare, alla stregua
degli stimoli critici contenuti in ricorso e alla luce dei criteri innanzi esposti in ordine al
controllo, immanente nella funzione giudiziaria, della compatibilità del regolamento di
interessi in concreto realizzato dalle parti con i principi generali dell’ordinamento (cfr. Cass.
civ. sez. un. nn. 26242 e 26243 del 2014; Cass. civ. 19 giugno 2009, n. 14343), la
meritevolezza della clausola claims made inserita nella polizza n. 118921 stipulata dalla
Provincia Religiosa con Cattolica Assicurazioni s.p.a..
A giudizio della Corte dirimente appare sul punto il rilievo che la Curia capitolina ha
segnatamente valorizzato, ancorché al fine di escludere la vessatorietà della clausola, la
condizione di favore per l’assicurato rappresentata dall’allargamento della garanzia ai fatti
dannosi verificatisi prima della conclusione del contratto. Il che dimostra, in maniera
inequivocabile, che il giudice di merito ha condotto lo scrutinio anche e soprattutto in chiave
di meritevolezza della disciplina pattizia che era chiamato ad applicare.
Il positivo apprezzamento della sua sussistenza, nella assoluta assenza di deduzioni volte ad
evidenziarne l’irragionevolezza e l’arbitrarietà, è, per quanto innanzi detto, incensurabile in
sede di legittimità.
18. Tirando le fila del discorso vanno enunciati i seguenti principi di diritto: nel contratto di
assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura
assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria
intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati
periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. clausola clams made mista o impura) non
è vessatoria; essa, in presenza di determinate condizioni, può tuttavia essere dichiarata nulla
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per difetto di meritevolezza ovvero, laddove sia applicabile la disciplina di cui al decreto
legislativo n. 206 del 2005, per il fatto di determinare, a carico del consumatore, un
significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; la relativa
valutazione, da effettuarsi dal giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, ove
congruamente motivata.
Il ricorso deve in definitiva essere rigettato.
La difficoltà delle questioni consiglia di compensare integralmente tra le parti le spese del
giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio.
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2) AREE A PARCHEGGIO: SI APPLICA LA DISCIPLINA
VIGENTE AL MOMENTO DELLA COSTRUZIONE
DELL'IMMOBILE
La Cassazione, accogliendo la richiesta del costruttore-venditore, precisa che la disciplina giuridica
relativa alla circolabilità delle aree a parcheggio è dettata dalla normativa vigente al momento del
rilascio del permesso di costruire e non quella in vigore al momento dell'atto di compravendita che, in
ipotesi, potrebbe intervenire anche a distanza di decenni dalla costruzione.
Cassazione, sez. II, 30 giugno 2016, n. 13445
Lo ha precisato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13445/16, depositata il 30 giugno.
Il caso in esame. La lite scoppia, come al solito, per la cronica mancanza di parcheggi. L'acquirente, come
da copione, cita in giudizio il costruttore-venditore chiedendo che venga riconosciuto il diritto ad ottenere
il posto auto. Scatta anche una doppia richiesta risarcitoria: non potendo utilizzare il posto auto,
l'acquirente era stato costretto a prendere in locazione un apposito spazio (danno emergente); se
l'acquirente fosse stato in possesso del posto auto, avrebbe potuto cederlo in locazione a terzi ottenendo
il relativo canone (lucro cessante). Di contro, il venditore, seguendo un canovaccio ormai ampiamente
consolidato, chiedeva che la domanda fosse rigettata in quanto l'atto di compravendita non prevedeva
alcun posto auto; nel caso di accoglimento della domanda, chiedeva fosse liquidato un equo compenso per
la vendita del posto auto.
Il parere del Tribunale. Come di consueto, il Tribunale riconosce il diritto reale d'uso dell'acquirente
sull'area a parcheggio vincolata ovvero su quella superficie costituente lo standard urbanistico.
Inaspettatamente, però, rigetta la domanda del venditore al compenso per l'esercizio di tale diritto. In
sostanza, secondo il giudice di primo grado, è come se il valore del posto auto fosse stato incorporato nel
prezzo di vendita dell'appartamento.
La Corte d'appello riequilibra la situazione. La Corte territoriale riequilibra i pesi modificando la sentenza
di primo grado in favore del venditore. Viene rigettata la domanda con cui il venditore invocava la l. n.
246/2005; tale norma, come noto, riconosce espressamente che i posti auto possano essere venduti
autonomamente e separatamente rispetto alle unità immobiliari abitative. Secondo la Corte, sarebbe
invece applicabile l'art. 2 della l. n. 122/1989, vigente all'epoca della compravendita, che vieta la vendita
delle aree vincolate a parcheggio in favore dei terzi. Bisogna peraltro sottolineare che la norma è del 2005
e non ha effetto retroattivo per cui non può essere applicata al caso in esame, in cui la vendita risaliva
agli anni '90.
In riforma della sentenza di primo grado, per ristabilire il sinallagma contrattuale, la Corte territoriale
non solo riconosce al venditore il diritto alla integrazione del prezzo, ma provvede ad aumentare la stima
effettuata dal C.T.U.. Viene ridotta, inoltre, la quantificazione del danno subito dall'acquirente in favore
del quale viene riconosciuto solo il c.d. danno emergente ovvero quanto versato per la locazione di un
posto auto e non (come aveva fatto il Tribunale) anche il lucro cessante ovvero la somma che l'acquirente
avrebbe incassato dalla locazione del posto auto qualora ne avesse avuto la disponibilità.
Il caso finisce in Cassazione: qual è la norma applicabile? Il costruttore-venditore gioca il tutto per tutto
con una vera e propria raffica di eccezioni di cui la principale, relativa all'applicabilità al caso concreto,
della l. n. 122/1989, fa breccia. Il processo logico seguito dal costruttore è semplice: la vendita finita
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sotto i riflettori risale all'agosto del 1998, ma il corpo di fabbricato di cui fa parte l'unità compravenduta,
è stato realizzato molto tempo prima, nel lontano 1968 (ovvero quasi cinquanta anni orsono). La
normativa applicabile alla compravendita, è quella vigente al tempo della realizzazione del fabbricato in
quanto è in quel momento che, con il rilascio del titolo edilizio, vengono fissate le “regole del gioco”. La
norma invocata dalla Corte d'appello, ovvero l'articolo 2 della l. n. 122/89, è entrata in vigore il 7 aprile
1989 e, quindi, in epoca successiva alla realizzazione dell'immobile per cui non potrebbe essere applicata
al caso in esame.
La tesi del venditore viene sposata dalla Seconda sezione della Corte di Cassazione che, con la sentenza in
esame, accoglie l'eccezione e rinvia alla Corte d'appello anche per la liquidazione delle spese.
Qual è la normativa applicabile al trasferimento dei posti auto? Il regime giuridico delle aree adibite a
parcheggio, al pari del “Cubo di Rubik”, costituisce un rompicapo apparentemente inestricabile in quanto
può risultare difficile incasellare il caso concreto nella marea di norme che disciplinano la materia.
Nel nostro ordinamento, almeno sotto il profilo urbanistico, gli spazi destinati a parcheggio privato
possono essere suddivisi almeno in sei diverse categorie, ciascuna delle quali dotata di specifiche
caratteristiche, soggetta ad una disciplina diversa ed a un differente regime di circolazione giuridico. Di
conseguenza, è di fondamentale importanza stabilire quale sia la normativa applicabile al caso in esame.
Potremmo avere, infatti:
a) parcheggi pertinenziali realizzati prima del 1967;
b) parcheggi regolati dalla c.d. "legge-ponte" (l. n. 765/67);
c) parcheggi disciplinati dalla c.d. legge Tognoli (l. n. 122/89);
d) parcheggi c.d. "liberi" ovvero realizzati oltre lo standard urbanistico;
e) parcheggi realizzati in base alla l. n.662/96;
f) parcheggi regolamentati da strumenti urbanistici comunali (Piano Regolatore Generale e Norme
Tecniche Attuazione).
Ma i parcheggi possono essere in qualche modo catalogati anche sotto altre angolazioni. Per esempio,
potremmo avere:
a) parcheggi pertinenziali delle costruzioni, disciplinati dall'articolo 41-sexies della l. n. 1150/1942 e
dall'articolo 26, comma 4, della l. n. 47/85, il quale ha stabilito che tali spazi costituiscano pertinenze
delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli artt. 817, 818 e 819 c.c..
b) parcheggi come standard urbanistici, regolamentati dall'articolo 41-quinquies della l. n. 1150/42 e dal
d.m. n. 1444/1968;
c) parcheggi come opere di urbanizzazione, disciplinati essenzialmente dalla l. n. 122/1989, che ha
affrontare il complesso problema della sosta urbana, introducendo, tra l’altro, un nuovo strumento
programmatorio: il P.U.G. (ovvero il Programma Urbano dei Parcheggi).
Urbanisticamente i parcheggi sono semplici standard. Dovendo affrontare il tema del regime giuridico dei
parcheggi privati occorre tener presente che, dal punto di vista urbanistico, essi rappresentano dei
semplici standard urbanistici. La Legge n.1150/1942, nella sua versione storica, non disciplinava questa
materia. Il primo intervento legislativo è costituito dall'art. 17 della l. n.765/1967, che ha introdotto
l'obbligo, a carico dei Comuni, di fissare in sede di redazione del P.R.G., il rapporto tra attività
edificatoria e aree da destinare obbligatoriamente a parcheggio pubblico e verde attrezzato. Il successivo
articolo 18 stabiliva la misura minima delle aree a parcheggio prevedendo uno standard non inferiore ad 1
mq ogni 20 mc di costruzione. Successivamente, il d.m. n. 1444/1968 ha fissato lo standard urbanistico
minimo per le zone territoriali omogenee prevedendo che, in aggiunta alle superfici private da realizzare
ex articolo 18 della l. n. 765/1967, fosse prevista una dotazione minima di 2,5 mq per ogni abitante
insediato.
Il vincolo di pertinenzialità nasce con la l. n.47/1985. Il vincolo di pertinenzialità tra area a parcheggio ed
unità abitativa è stato introdotto negli anni '80, dalla c.d. legge sul condono edilizio e, in particolare,
dall'articolo 26 della l. n. 47/1985. La norma prevedeva che gli spazi di cui all'articolo 18 della l. n.
765/1967 (ovvero i parcheggi), costituiscono pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli
articoli 817, 818 e 819 del codice civile.
I problemi maggiori sono rappresentati dalle aree a parcheggio realizzate in forza della l. n. 765/67,
comunemente chiamata “legge ponte". L'articolo 18, modificando la “vecchia” legge urbanistica n. 1150
del 1942, aveva inserito al suo interno l’articolo 41-sexies. Tale norma stabiliva, testualmente, che «nelle
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nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati
appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di
costruzione». Successivamente lo standard veniva letteralmente raddoppiato dall’articolo 2, comma 2,
della l. n. 122/1989.
Rientrano in questa categoria i parcheggi facenti parte di edifici costruiti con Licenza Edilizia,
Concessione Edilizia, Permesso di Costruire o titolo equipollente rilasciata nella forbice temporale
compresa tra il 1° settembre 1967 e il 16 dicembre 2005. Si tratterebbe, in sostanza, di fabbricati recenti
ovvero realizzati in conseguenza ad addizioni e sopraelevazioni con conseguente aumento di volumetria
abitabile relativamente a corpi di fabbrica preesistenti.
Cassazione, sez. II, 30 giugno 2016, n. 13445
(Pres. Migliucci – Rel. Bianchini)
Svolgimento del processo
1 - L.E. citò innanzi al Tribunale di Bari la spa Nuova Gea Immobiliare, dalla quale aveva acquistato un
appartamento e le relative parti comuni, nello stabile sito in (omissis) , perché fosse accertato il suo
diritto all’utilizzo di uno spazio a parcheggio - alternativamente: a titolo di proprietà; di comproprietà
condominiale; quale esplicazione di un diritto di servitù o come diritto reale d’uso di cui all’art. 18 delle
legge 765/1967- sito nel seminterrato dell’edificio condominiale; chiese inoltre di esser risarcita dei danni
subiti, atteso che la privazione dell’esercizio del diritto a parcheggio l’avrebbe costretta a prendere in
affitto apposito spazio. La società convenuta si oppose all’accoglimento della domanda con l’osservare
che nella vendita dell’appartamento non veniva fatta menzione del trasferimento di un qualsiasi diritto
sullo spazio in questione. Espletata consulenza tecnica, l’adito Tribunale riconobbe in favore della L. il
solo diritto reale d’uso richiesto in via subordinata, liquidando anche il danno per la mancata disponibilità
dell’area; respinse inoltre la domanda riconvenzionale subordinata, volta al riconoscimento alla venditrice
di una integrazione del prezzo.
2 - La Corte di Appello di Bari, adita in via principale dalla Nuova Gea Immobiliare ed in via incidentale
dalla L. , stanti non esservi stata una pronuncia ultra petita - in ragione del fatto che il primo giudice
aveva riconosciuto in favore dell’attrice un diritto di uso oneroso e non già, come richiesto, a titolo
gratuito- richiamando la interpretazione di legittimità sui diritti autodeterminati e sulla conseguente non
vincolatività per l’interprete del titolo posto a base della domanda; negò che potesse applicarsi la
sopravvenuta legge 246/2005 che stabiliva che gli spazi a parcheggio potessero essere trasferiti in modo
autonomo rispetto alle unità abitative; riconobbe in favore dell’appellante principale il diritto
all’integrazione del prezzo di vendita, espressamente richiamando l’esigenza di ristabilire -se del caso,
anche d’ufficio- il sinallagma contrattuale; aumentò altresì la stima del valore dello spazio a parcheggio,
rispetto a quella formulata dal consulente di ufficio; riformò infine anche il capo di decisione relativo alla
quantificazione del danno liquidato L. in quanto ritenne che il riconoscimento del danno emergente commisurato al canone per la locazione di un parcheggio - non potesse essere aggiunto a quello per il
lucro cessante, atteso che la originaria attrice, se avesse avuto tempestivamente la disponibilità del
parcheggio, o non avrebbe sopportato le anzidette spese o avrebbe goduto di un reddito per la locazione a
terzi dello spazio in questione, non potendo invece trovare realizzazione contemporanea le due ipotesi
risarcitorie. Quanto all’appello incidentale - per quello che conserva di interesse in sede di legittimità - la
Corte di Appello ritenne applicabile alla fattispecie il regime dettato dall’art. 2 della legge n. 122 del
1989 che stabiliva la inalienabilità degli spazi a parcheggio in modo autonomo rispetto all’unità abitativa
alla quale appartenevano, in ciò distinguendosi dalla precedente disciplina – art. 18 della legge 765 del
1967 - così dunque escludendo, tra l’altro, la possibilità che gli spazi in questione potessero rientrare nella
previsione di afferenza condominiale secondo quanto disposto dall’art. 1117 cod. civ. - nella formulazione
all’epoca vigente - o che, come pure richiesto dall’appellata, potesse alla stessa riconoscersi la piena
proprietà o comproprietà sugli stessi spazi.
3 - Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la L. , facendo valere cinque motivi; la spa
Nuova Gea Immobiliare ha risposto con controricorso, svolgendo ricorso incidentale sulla base di un
motivo; la ricorrente ha proposto a sua volta controricorso; entrambe le parti hanno depositato memorie à
sensi dell’art. 378 cpc.
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Motivi della decisione
Ricorso principale.
I - Con il primo motivo viene dedotta la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2 della legge n
122/1989 e dell’art. 18 della legge 765 /1967 nonché dell’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale;
dell’art. 26, comma V della legge 47/1985; degli artt. 818 e seggi cod civ. nonché dell’art. 1117 cod. civ..
I.a - Assume in proposito la ricorrente che la Corte del merito avrebbe errato nell’individuare nella legge
n.122/1989 la normativa a governo della fattispecie.
II - Con il secondo motivo - proposto in via subordinata - le stesse violazioni di legge di cui sopra
persisterebbero, secondo la ricorrente, anche se si ritenesse applicabile la predetta normativa, attesa
l’erroneità della decisione della Corte fiorentina allorché ha statuito che, in tal caso, l’unico regime
applicabile sarebbe quello del vincolo pertinenziale pubblicistico, con un diritto d’uso ex lege in capo
all’acquirente dell’unità abitativa, senza dunque la possibilità di configurare un’alienazione autonoma o
una proprietà condominiale. In contrario la ricorrente sostiene che la mancanza di riserva di proprietà
degli spazi a parcheggio nel contratto di acquisto non sarebbe stata d’ostacolo all’acquisto pro quota del
diritto di proprietà su parti condominiali ex art. 1117 cod. civ. neppure sotto il (contestato) vigore della
legge n 122/1989, atteso che detta legge disciplinava due tipi di parcheggi: quelli minimi ed obbligatori di
cui all’ari 2 - con regolazione in tutto confermativa della c.d. legge Ponte - e quelli "facoltativi" contemplati nell’art. 9, comma V -, realizzabili, su edifici costruiti dopo il 1989, con vincolo di
inalienabilità separata dall’immobile residenziale: assume la ricorrente che, ratione temporis, la
fattispecie sarebbe rientrata nella prima ipotesi.
III - Con il terzo motivo - posto sempre in via subordinata al mancato accoglimento del primo mezzo - si
assume concretata la violazione degli artt. 872; 1218 e 1223 cod. civ. laddove la Corte distrettuale ritenne
non cumulabili il danno emergente - determinato in base al canone di affitto di spazio esterno ad uso
parcheggio - ed il lucro cessante - valutato con riferimento al reddito ricavabile dall’area di cui sarebbe
stata sottratta la disponibilità.
IV - Con il quarto motivo si denuncia la violazione dell’art. 167 cod. civ., laddove la Corte ha riconosciuto
la integrazione del contratto di vendita ex art. 1419 cod. civ., liquidando di ufficio un importo a favore
della venditrice, al fine di riequilibrare il sinallagma, non considerando però che la relativa domanda era
stata avanzata solo alla prima udienza di comparizione e non già nella comparsa di risposta.
V - Con il quinto motivo si denuncia la violazione dell’art. 1224, II comma e 2697 cod civ. laddove è stata
riconosciuta la rivalutazione del credito della venditrice, non considerando però che la Nuova Gea
Immobiliare non avrebbe mai perso la disponibilità della porzione di piano cantinato oggetto di domanda,
non avendola mai messa a disposizione della ricorrente che, dunque, non ne avrebbe mai usufruito;
osserva altresì la deducente che nella sentenza di appello la Corte distrettuale aveva dato atto che nelle
more del procedimento di impugnazione era intervenuto un accordo - al fine di evitare l’esecuzione della
precedente sentenza - in forza del quale la società venditrice aveva, da un lato, versato quanto in
precedenza deciso e, dall’altro, aveva messo a disposizione della stessa ricorrente un posto macchina in
luogo diverso da quello oggetto di domanda. Da ciò la L. trae la erroneità della decisione che ha
riconosciuto ex art. 345 cpc il danno da rivalutazione sulle somme esborsate per la locazione di uno spazio
a parcheggio, in epoca anteriore alla messa a disposizione della diversa area.
VI - Il primo motivo è fondato, atteso che la legge n. 122/1989 disciplina gli atti di disposizione relativi a
spazi a parcheggio realizzati dopo la sua entrata in vigore, mentre nella fattispecie in esame è rimasto
accertato che l’edificio in cui era stato ricavato il parcheggio era stato costruito nel 1968 e
l’appartamento alienato alla ricorrente aveva formato oggetto di vendita del 7 agosto 1998; la contestata
interpretazione avrebbe dunque comportato l’attribuzione di una efficacia retroattiva alla legge - così
contravvenendosi al disposto dell’ars 11 delle c.d. preleggi - altresì violando le norme che stabiliscono un
nesso pertinenziale tra bene principale e spazio a parcheggio (artt. 26, comma V della legge 47/1985).
VI.a - L’erronea individuazione del referente normativo, in luogo dell’art. 18 della legge n. 765/1967,
lascia dunque aperta la possibilità, per il giudice del rinvio, cassata in parte qua la gravata decisione, di
una divergente delibazione dell’atto di trasferimento dell’appartamento alla L. , al fine di verificare se la
inesistenza di una riserva di proprietà in capo al venditore degli spazi a parcheggio, unita alla
considerazione della locazione a terzi dell’intero piano seminterrato, da epoca precedente alla
compravendita (per come riportato a fol. 37 del controricorso ed a fol. 5 delle memorie ex art. 378 cpc),
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consentano il riconoscimento del più ampio diritto di comproprietà ex art. 1117 cod. civ. (v. ex militis
Cass. Sez. II n. 11261/2003; Cass. Sez. TI n 730/2008; Cass. Sez. II n. 1214/2012).
VII - L’accoglimento in parte qua del primo motivo comporta l’assorbimento del secondo; del quarto e del
quinto mezzo.
VIII - Infondato è invece il terzo motivo in quanto il risarcimento per equivalente del mancato utilizzo
dello spazio a parcheggio per l’uso personale, presupponeva l’inesistenza di un diverso uso speculativo
dello stesso e dunque impediva l’insorgere di ulteriori e concorrenti profili di pregiudizio patrimoniale.
Ricorso incidentale.
IX - Con unico motivo la società controricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione degli arti
112 e 183 cpc laddove la Corte territoriale aveva confermato la sentenza di primo grado che aveva
riconosciuto un diritto d’uso a titolo oneroso mentre la L. aveva concluso innanzi al Tribunale - sia pure in
via subordinata - per il riconoscimento di un diritto d’uso gratuito.
IX.a - Il motivo risulta assorbito essendo dipendente dalla soluzione che in sede di rinvio si darà al
problema della identificazione del diritto spettante alla L. sullo spazio a parcheggio.
X. Il giudice del rinvio, che si designa in diversa sezione della Corte di Appello di Bari, provvederà altresì
alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale; dichiara assorbiti il secondo; il quarto ed il quinto
mezzo; rigetta il terzo; dichiara assorbito il ricorso incidentale; rinvia a diversa sezione della Corte di
Appello di Bari per la regolazione delle spese anche del giudizio di legittimità.
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3) ARRICHIMENTO SENZA GIUSTA CAUSA DELLA
P.A.: CHI DEVE PAGARE LA PRESTAZIONE NON
CONTRATTUALIZZATA?
TRACCIA
Nel gennaio 1986 alla ditta Alfa viene contrattualmente affidata l'esecuzione di lavori di
manutenzione ordinaria degli edifici scolastici della zona 167 di Lucera per € 20 mila.
L'Ufficio tecnico comunale richiedeva alla Alfa anche ulteriori lavori non previsti in contratto,
ma ritenuti necessari per assicurare la funzionalità degli edifici scolastici", in base a una
perizia di variante.
Nel giugno 1987 termini i lavori, la Alfa inoltra richiesta di pagamento.
Il comune corrisponde la somma di € 20 mila come contrattualizzata ma ritiene di non dover
pagare più nulla, in quanto in difetto di deliberazioni da parte del Consiglio o della Giunta,
difettava il necessario requisito del riconoscimento dell'utilità della prestazione da parte del
Sindaco, organo rappresentativo del Comune.
Ogni anno la Alfa invia raccomandata al Comune con la richiesta di pagamento dei lavori
eseguiti anche al fine di interrompere la prescrizione.
Il candidato assunta la difesa della ditta Alfa rediga parere motivato.


In tema di rapporti negoziali instaurati con dipendenti pubblici privi di poteri ad hoc
e quindi di obbligazioni tra privato e P.A., il mancato rifiuto della prestazione non
prevista in contratto ovvero la consapevolezza della stessa genera, a carico della
P.A., l’obbligo di retribuire il privato: così, quest’ultimo ovvero il suo erede ha
diritto di esperire, entro i termini prescrizionali, l’azione di arricchimento sine
titulo nei confronti della P.A. ed anche a prescindere dal riconoscimento dell’utilitas
da parte della stessa P.A.
La regola di carattere generale secondo cui non sono ammessi arricchimenti
ingiustificati né spostamenti patrimoniali ingiustificabili trova applicazione paritaria
nei confronti del soggetto privato come dell'ente pubblico; e poiché il riconoscimento
dell'utilità non costituisce requisito dell'azione di indebito arricchimento, il privato
attore ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. deve provare - e il giudice
accertare - il fatto oggettivo dell'arricchimento, senza che l'amministrazione possa
opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo essa, piuttosto, eccepire e
dimostrare che l'arricchimento non fu voluto o non fu consapevole.
Cassazione, Sez. Unite, 26 maggio 2015, n. 10798
(Pres. Santacroce – Rel. Ambrosio)
Svolgimento del processo
Nel gennaio 1995 P.M. , vedova ed erede di R.D. , convenne in giudizio il Comune di Reggio
Calabria chiedendone la condanna al pagamento di L. 23.967.034, oltre accessori, a titolo di
arricchimento senza causa. Espose che il marito, cui nel 1986 era stata contrattualmente
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affidata l'esecuzione di lavori (poi regolarmente retribuiti) di manutenzione ordinaria degli
edifici scolastici della zona sud di (omissis), aveva eseguito anche ulteriori lavori non previsti
in contratto e per questo mai pagati, che l'Ufficio tecnico comunale gli aveva, tuttavia,
richiesto in base a una perizia di variante, ritenendoli "indispensabili per assicurare la
funzionalità degli edifici scolastici".
Il Comune resistette e l'adito Tribunale di Reggio Calabria, con sentenza n. 383/2003, rigettò
la domanda.
L'appello dell'originaria attrice è stato respinto dalla Corte d'appello reggina con sentenza n.
131/2010 sull'assorbente rilievo che, in difetto di deliberazioni da parte del Consiglio o della
Giunta, difettava il necessario requisito del riconoscimento dell'utilità della prestazione da
parte del Sindaco, organo rappresentativo del Comune.
Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione P.M. affidandosi a due motivi, cui il
Comune di Reggio Calabria ha resistito con controricorso illustrato anche da memoria.
All'esito della pubblica udienza innanzi alla terza sezione di questa Corte, con ordinanza
interlocutoria del 23 settembre 2014 è stata rilevata la sussistenza di un contrasto di
giurisprudenza sulla questione di cui si dirà in parte motiva, per cui gli atti sono stati rimessi
al Primo Presidente, che ha assegnato il giudizio a queste Sezioni unite.
Il resistente Comune ha depositato ulteriore memoria.
Motivi della decisione
1. La domanda attrice, intesa - come si legge nella decisione impugnata - ad “accertare e
dichiarare l'utilitas delle opere indiscutibilmente eseguite dalla ditta R. ”, nonché alla
condanna del Comune di Reggio Calabria al pagamento, a tale titolo, della somma di L.
23.967.034, risulta qualificata, in termini non più in discussione, come azione di indebito
arricchimento ex art. 2041 cod. civ.. Essa è stata rigettata, con doppia decisione conforme,
per il difetto di prova in ordine al riconoscimento dell'utilitas da parte dell'ente pubblico e,
segnatamente, da parte dei suoi organi rappresentativi.
In particolare la Corte di appello - premesso in fatto che i lavori di cui trattasi (riparazione
dei servizi igienici, impermeabilizzazione dei solai e coloritura), riguardanti alcune scuole
della parte sud della città, erano stati disposti dall'Ufficio tecnico del Comune di Reggio
Calabria, verosimilmente su segnalazione dei dirigenti degli uffici scolastici e precisato,
altresì, che la delibera in sanatoria, pur predisposta, non risultava mai deliberata dalla Giunta
- è pervenuta alla conferma della statuizione di rigetto della domanda di arricchimento, in
forza della dichiarata adesione alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il
riconoscimento dell'utilitas costituisce requisito speciale di ammissibilità dell'azione di cui
all'art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A., segnalando che, nella specie, il
riconoscimento, sia pure implicito, avrebbe dovuto provenire dal sindaco ovvero da un atto
deliberativo della giunta o del consiglio comunale.
2. Col primo motivo (il secondo è al primo correlato, in quanto attiene alla mancata
ammissione della prova articolata sul punto della conoscenza da parte degli "amministratori"
dei lavori di cui trattasi), la ricorrente si duole, deducendo violazione e falsa applicazione
dell'art. 2041 cod. civ., che la Corte d'appello abbia disatteso il principio, patrocinato da
alcune decisioni di questa Corte di legittimità, secondo il quale il giudizio di utilità può essere
compiuto anche dal giudice, che ha il potere di accertare se ed in quale misura l'opera o la
prestazione siano state effettivamente utilizzate dalla pubblica amministrazione.
2.1. Il ricorso richiama un orientamento minoritario di questa Corte, stigmatizzando il
mancato accertamento giudiziale della fruizione delle opere di manutenzione da parte
dell'ente pubblico nella piena consapevolezza della relativa esecuzione, sebbene nell'assenza
di un riconoscimento implicito o esplicito dei suoi organi rappresentativi.
La sezione terza, assegnataria del ricorso, ne ha, dunque, promosso la devoluzione alle
Sezioni unite, rilevando nell'ordinanza interlocutoria che sussiste un contrasto interno alla
giurisprudenza di legittimità, “tra l'orientamento (prevalente) che assume come
assolutamente ineludibile la necessità che il riconoscimento anche implicito dell'utilitas
provenga da organi quanto meno rappresentativi dell'ente pubblico e quello (minoritario, ma
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significativo e fondato su solide argomentazioni) che offre invece spazi all'apprezzamento
diretto da parte del giudice”.
2.2. Non è, invece, in discussione la sussistenza del requisito della sussidiarietà
dell'azione imposto dall'art. 2042 cod. civ., non essendo qui applicabile ratione temporis
la normativa di cui D.L. n. 66 del 1989, art. 23 (conv. in L. 24 aprile 1989, n. 144,
abrogato dall'art. 123, comma primo, lett. n, del d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77, ma
riprodotto senza sostanziali modifiche dall'art. 35 del medesimo decreto e infine rifluito
nell'art. 191 del D.Lgs. n. 267 del 2000) che, per i casi di richiesta di prestazioni o
servizi, non rientranti nello schema procedimentale di spesa tipizzato dalla stessa
normativa, ha previsto la costituzione di un rapporto obbligatorio diretto con
l'amministratore o funzionario responsabile, correlativamente rimettendo all'ente
pubblico la valutazione esclusiva circa l'opportunità o meno di attivare il procedimento
del riconoscimento del debito fuori bilancio nei limiti degli accertati e dimostrati utilità
ed arricchimento per l'ente stesso (cfr. lett. e) art. 194 D. Lgs. n. 267 del 2000).
Invero, non potendosi, in difetto di espressa previsione normativa, affermare la retroattività
del cit. d.l. n. 66 del 1989 art. 23, deve ritenersi l'esperibilità dell'azione di indebito
arricchimento nei confronti della P.A. per tutte le prestazioni e i servizi resi alla stessa
anteriormente all'entrata in vigore di tale normativa (ex plurimis, tra le più recenti: Cass.
26 giugno 2012, n. 10636; Cass. 11 maggio 2007, n. 19572). E poiché i lavori in contestazione
vennero eseguiti nell'anno 1986, è indubbio che il depauperato non aveva la possibilità di farsi
indennizzare del pregiudizio subito agendo, ai sensi della normativa cit. direttamente nei
confronti dell'amministratore o del funzionario che aveva consentito l'acquisizione.
2.3. Il punto nodale della controversia si rinviene sulla necessità o meno di un requisito
ulteriore - quello del riconoscimento dell'utilità dell'opera o della prestazione - rispetto a
quelli standards fissati dagli artt. 2041 e 2042 cod. civ., allorché l'azione venga proposta
nei confronti della P.A..
Strettamente connessa a detta questione si rivela, poi, quella evidenziata nell'ordinanza
interlocutoria del ruolo assegnato al giudice nell'accertamento dell'arricchimento; ciò in
quanto individuare l'elemento qualificante dell'azione, in ragione della qualificazione
pubblicistica dell'arricchito, in un atto di volontà o di autonomia dell'amministrazione
interessata, significa confinare il ruolo giudiziale all'accertamento di un utile "soggettivo" e,
cioè, riconosciuto come tale (esplicitamente o implicitamente) dagli organi rappresentativi
dell'ente pubblico; all'inverso, consentire al giudice di sostituirsi alla pubblica
amministrazione nella valutazione dell'utilitas finisce per spostare l'indagine sul fatto
oggettivo dell'arricchimento, giacché solo questo dovrebbe essere l'elemento costitutivo della
fattispecie, ove non si ammettano deroghe all'esercizio dell'azione in relazione alla
qualificazione pubblicistica dell'arricchito.
3. Così definito l'ambito della questione all'esame delle Sezioni Unite, si impone una sintesi
delle argomentazioni a sostegno dell'uno e dell'altro indirizzo di legittimità, come individuati
dall'ordinanza interlocutoria, osservando sin da ora che nella giurisprudenza di questa Corte
ricorre un ulteriore approccio intepretativo, più risalente nel tempo, che offre una sorta di
tertium genus tra le soluzioni astrattamente praticabili in materia.
3.1. La tesi prevalente muove dalla considerazione delle specifiche condizioni e limitazioni,
costituite dalle regole c.d. dell'evidenza pubblica che presidiano l'attività negoziale della P.A.
e si radica sul rilievo che l'azione di arricchimento comporta, di fatto, il superamento della
regola assoluta a tutela del buon andamento della pubblica amministrazione, secondo cui non
si può dar luogo a spese non deliberate dall'ente nei modi previsti dalla legge e senza la
previsione dell'apposita copertura finanziaria. Di qui l'esigenza - avvertita dalla
giurisprudenza, ancor prima che il legislatore a partire dal già cit. D.L. n. 66 del 1989
segnasse drasticamente l'ambito di operatività dell'azione - di marcare di "specialità" la
domanda di arricchimento proposta nei confronti della P.A., posto che il relativo oggetto è
costituito quasi sempre da prestazioni o opere eseguite da privati in dipendenza di contratti
irregolari, nulli o addirittura inesistenti.
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È, dunque, ricorrente nella giurisprudenza di legittimità l'affermazione che per l'utile
esperimento dell'azione nei confronti della P.A. occorre la prova di un duplice requisito, e
cioè, non solo il fatto materiale dell'esecuzione di un'opera o di una prestazione vantaggiosa
per l'ente pubblico, ma anche il c.d. riconoscimento, espresso o tacito e, in sostanza, che
l'amministrazione interessata abbia compiuto una cosciente e consapevole valutazione
dell'utilità dell'opera, del servizio, o della prestazione, e che li abbia considerati rispondenti
alle proprie finalità istituzionali.
In particolare - secondo l'orientamento giurisprudenziale all'esame - la configurazione del
riconoscimento dell'utilità dell'opera o della prestazione come un atto di volontà o di
autonomia della P.A. comporta che la stessa configurabilità di un arricchimento senza
causa resti affidata alla valutazione discrezionale della sola amministrazione, unica
legittimata a esprimere il relativo giudizio, che presuppone il doveroso apprezzamento
circa la rispondenza diretta o indiretta della cosa o della prestazione al pubblico interesse
(Cass. 18 aprile 2013, n. 9486; Cass. 11 maggio 2007, n.10884; Cass. 20 agosto 2004, n.16348;
Cass. 23 aprile 2002, n. 5900); inoltre detta valutazione non solo non può essere sostituita da
quella di amministrazioni terze, pur se interessate alla prestazione, ma neanche provenire da
atti e comportamenti imputabili a qualsiasi soggetto che faccia parte della struttura dell'ente
di esse destinatario (Cass. 18 aprile 2013 n. 9486), essendo necessariamente rimessa solo agli
organi rappresentativi di detta amministrazione o a quelli cui è istituzionalmente devoluta la
formazione della sua volontà (Cass. 27 luglio 2002, n. 11133; Cass. 17 luglio 2001, n. 9694). E
sebbene non si richieda che il riconoscimento avvenga necessariamente in maniera esplicita cioè con un atto formale (il quale, peraltro, può essere assistito dai crismi richiesti per farne
un atto amministrativo valido ed efficace, ovvero può anche essere carente delle formalità e
dei controlli richiesti, come nel caso in cui l'organo di controllo lo annulli) e si sia predicata la
sufficienza del riconoscimento implicito - l'una e l'altra forma di riconoscimento sono ritenute
soggette alle medesime regole dell'evidenza pubblica (sul riconoscimento come atto di
volontà, cfr Cass. 24 ottobre 2011, n. 21962; Cass. 31 gennaio 2008 n. 2312; Cass. 24
settembre 2007 n. 19572), richiedendosi che l'utilizzazione dell'opera o della prestazione sia
consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi dell'ente (cfr. Cass. Sez. un. 25
febbraio 2009, n. 4463; Cass. 20 ottobre 2004, n. 16348; nonché Cass. 11133/2002 già cit.).
3.2. Secondo questa tesi, che esalta i limiti istituzionali della giurisdizione ordinaria, fissati
dall'art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, a presidio della discrezionalità
amministrativa, il giudice ordinario non può giudicare dell'utilitas, dal momento che la
necessità del riconoscimento è tradizionalmente impostata sulla discrezionalità
amministrativa che la valutazione del vantaggio comporta. L'utiliter versum non può essere
altro che un utile soggettivo, cioè relativo all'interesse dell'accipiens e la valutazione
dell'utilità dell'ente pubblico si risolve in una valutazione dell'interesse pubblico, come tale
necessariamente affidata alla P.A..
La tesi si radica sull'evidente timore che - in specie nel caso assai frequente di indebito
arricchimento derivante da rapporti negoziali instaurati da dipendenti pubblici privi dei
necessari poteri - la pubblica amministrazione possa essere chiamata a rispondere ex art.
2041 cod. civ. di tutte le iniziative arbitrarie assunte al di fuori del controllo degli organi
amministrativi responsabili della spesa, quando il riconoscimento dell'utilità sia ravvisato
nella stessa utilizzazione dell'opera o del servizio acquisito, da parte di coloro che hanno
abusivamente speso il nome dell'ente o dell'ufficio. Senonchè essa - oltre ad apparire
espressiva di esigenze di tutela della P.A., di cui si è fatto carico, nel tempo, il legislatore,
facendo leva, come si è visto, sul carattere sussidiario dell'azione - rivela la sua criticità sol
che si consideri che, portata alle sue naturali conseguenze, essa comporta che il giudice,
mentre dovrebbe condannare l'ente pubblico per un arricchimento riconosciuto, ancorché non
provato, dovrebbe assolverlo per un arricchimento provato, ma non riconosciuto.
Soprattutto l'orientamento risulta fortemente penalizzante per il depauperato, allorquando
l'arricchimento si risolva in un risparmio di spesa (come nel caso che qui ricorre di esecuzione
di opere di manutenzione), dal momento che un riconoscimento implicito da parte degli
organi rappresentativi dell'ente pubblico appare ravvisabile solo in relazione a opere e
23
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prestazioni comportanti un incremento patrimoniale, e quindi suscettibili di appropriazione;
mentre, nel caso che l'opera risulti già esistente e già a disposizione della collettività, si è
ritenuto che il perdurare - od il riprendere dopo gli interventi - della pubblica fruizione non
possa costituire riconoscimento implicito dell'utilitas, perché non implica alcuna valutazione
consapevole da parte dell'ente (Cass. 02 settembre 2005, n. 17703 in motivazione).
3.3. Non mancano tuttavia pronunce improntate a un approccio più duttile, nelle quali, in
ragione del fondamento equitativo che permea tutta l'azione di ingiustificato arricchimento,
si evidenzia che il riconoscimento, da parte di enti pubblici, dell'utilità di una prestazione
professionale, con conseguente loro arricchimento, si realizza con la mera utilizzazione
della stessa, indipendentemente dal fatto che i fini alla cui realizzazione la prestazione
poteva essere diretta non fossero stati realizzati dall'ente cui il progetto era stato
destinato (Cass. Sez. un. 10 febbraio 1996, n. 1025; e più di recente Cass. 18 giugno 2008, n.
16596). In tale prospettiva, l'utilità è stata ritenuta ravvisabile allorché la P.A., ad esempio,
si sia servita della prestazione del privato per corredare pratiche amministrative, ovvero ne
abbia ricavato un risparmio di spesa (v. Cass. 12 dicembre 2003, n. 19059; e ancora Cass. n.
10576 del 1997; Cass. n. 1025 del 1996; Cass. n. 12399 del 1992), ridimensionandosi la
necessità della provenienza dagli organi formalmente qualificati della P.A. (cfr. Cass. 16
settembre 2005, n. 18329) e precisandosi che, seppure il giudizio sull'utilità per la P.A.
dell'opera o della prestazione del privato è riservato in via esclusiva all'amministrazione e non
può essere compiuto, in sostituzione di quella, del giudice, spetta pur sempre a quest'ultimo
il compito di accertare se e in che misura l'opera o la prestazione siano state effettivamente
utilizzate dalla pubblica amministrazione (cfr. Cass. 02 settembre 2005, n. 17703).
3.4. Si tratta di un orientamento minoritario, che non abbandona il tradizionale argomento,
secondo cui l'esperimento dell'azione di arricchimento nei confronti della P.A. richiede un
quid pluris, qual è il riconoscimento dell'utilitas, sebbene al fatto dell'utilizzazione venga
attribuita una valenza probatoria di detto riconoscimento; in tal modo esso presta il fianco
alla critica dell'incongruenza di legittimare soggetti diversi in ragione del fatto che il
riconoscimento sia esplicito (per il quale si afferma la necessità che provenga dagli organi
rappresentativi della pubblica amministrazione) o implicito (nel qual caso si ritiene che il
riconoscimento può provenire da organi non qualificati dell'amministrazione), vale a dire in
ragione della forma del riconoscimento, che dovrebbe essere un elemento neutro sotto
questo profilo (così Cass. 07 marzo 2014, n. 5397 in motivazione).
In realtà l'avere svincolato il riconoscimento dalla provenienza dagli organi formalmente
qualificati ad esprimere la volontà dell'ente pubblico ha finito per incrinare fortemente lo
stesso principio della relatività soggettiva dell'utilitas, consentendo di recuperare la
connotazione ordinaria dell'azione, giacché il baricentro dell'indagine risulta spostato sulla
salutazione in fatto dell'arricchimento, che deve essere accertato con la regola paritaria di
diritto comune, sia quando riguarda il privato che quando si riferisce alla pubblica
amministrazione (così Cass. 16 maggio 2006, n. 11368), affidando al saggio apprezzamento
del giudice lo scrutinio sull'intervenuto riconoscimento ovvero la vantazione, in fatto,
dell'utilità dell'opus (così Cass. 21 aprile 2011, n. 9141).
3.5. Come evidenziato nell'ordinanza interlocutoria, soprattutto l'ultima delle sentenze citate
si è fatta carico di rimarcare l'insufficienza dell'approccio ermeneutico che confina il ruolo
giudiziale all'esterno della valutazione di utilità, ritenendo che il giudice non possa accertare
se la prestazione del depauperato sia stata utile all'ente pubblico, ma solo se l'ente pubblico
l'abbia riconosciuta come tale. In contrario senso si è osservato che il richiedere sempre e
comunque comportamenti inequivocabilmente asseverativi dell'utilità dell'opera o della
prestazione da parte degli organi rappresentativi dell'ente è scelta interpretativa che
depotenzia fortemente il diritto del privato ad essere indennizzato dell'impoverimento subito,
svuotando di fatto i poteri di accertamento del giudice, in vista della tutela delle posizioni
soggettive in sofferenza; e si è, quindi, ritenuto che “il criterio idoneo a mediare tra tutti gli
interessi in conflitto è l'affidamento al saggio apprezzamento del giudice dello scrutinio
sull'intervenuto riconoscimento ovvero la valutazione, in fatto, dell'utilità dell'opus, utilità
desunta dal contesto fattuale di riferimento, senza pretendere di imbrigliare l'ineliminabile
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discrezionalità del relativo giudizio in schemi predefiniti, ma solo esigendo che del suo
convincimento il decidente dia adeguata e congrua motivazione” (cfr. Cass. n. 9141 del 2011
cit. in motivazione).
Occorre, tuttavia, rilevare che la pista interpretativa indicata dalla sentenza da ultima citata,
tendente a marcare di autonomia il sindacato giudiziale e a spostare decisamente l'oggetto
dell'indagine dalla qualificazione soggettiva dell'arricchito al fatto dell'arricchimento, non
risulta seguita dalla successiva giurisprudenza di legittimità che, anche da recente, ha
privilegiato una connotazione negoziale dell'istituto, contrapponendo alla regola paritaria di
diritto comune nemo locupletari potest cum aliena iactura la normativa di diritto pubblico
che regola la contabilità della pubblica amministrazione, con efficacia anche per i soggetti
esterni che vengono in contatto con essa, e che si giustifica oltre che con vincoli di spesa
imposti da norme di rango primario nell'impiego di denaro pubblico, anche con le dimensioni
e la complessità dell'articolazione interna della pubblica amministrazione (così Cass. n. 5397
del 2014 sopra cit.).
3.6. Mette conto a questo punto evidenziare che la previsione di un'azione generale di
arricchimento era ignota al codice del 1865; l'istituto venne, quindi, accolto dal progetto di
codice delle obbligazioni del 1936 e, infine, codificato dal legislatore del 1942, accanto a
numerosi altre fattispecie particolari di arricchimento (artt. 31 co. 3, 535, 821, co. 2, 935,
940, 1150, 1185, co. 2, 1190, 1443, 1769, 2037, co. 3, 2038 co. 3 cod. civ.), assolutamente
eterogenee e, comunque, ispirate al medesimo principio e accomunate dall'obbligo di
"restituire" all'impoverito esclusivamente perdite, esborsi, spese, prestazioni ed altri
elementi, utilità o valori già sussistenti nel suo patrimonio "nei limiti dell'arricchimento".
Orbene - mentre nel vigore del codice del 1865, la prefigurazione della specialità dell'azione
nei confronti della P.A. si giustificava in considerazione dell'elaborazione giurisprudenziale
dell'actio de in rem verso sugli schemi della gestione di affari e dell'attribuzione al
riconoscimento dell'utilitas dello stesso fondamento dell'utiliter gestum - l'intervenuta
codificazione dell'istituto ad opera del legislatore del 1942 ne ha privilegiato una
connotazione oggettivistica, fatta palese dall'impiego dei concetti materiali di
“arricchimento” e “diminuzione patrimoniale”, senza richiamo alcuno al parametro
soggettivistico dell'”utilità”, ponendo così il problema se vi sia ancora spazio per postulare
una valutazione discrezionale da parte dell'arricchito in ragione della sua qualificazione
pubblicistica.
Orbene il terzo e più risalente orientamento giurisprudenziale di cui si è detto sub 3. muove
proprio dalla considerazione della sopravvenuta inclusione della disciplina nel codice del 1942
per postulare la necessità di abbandonare “il remoto principio”, secondo cui l'azione è
esperibile nei confronti della P.A. soltanto se questa ha riconosciuto la locupletazione,
evidenziando non solo il superamento degli schemi su cui era stata costruita la fattispecie
giurisprudenziale dell'actio de in rem verso, ma anche e soprattutto la necessità di una
lettura costituzionalizzante dell'istituto, che assicurasse la piena tutela della garanzia di agire
in giudizio contro l'amministrazione pubblica, assicurata a chiunque dagli artt. 24 e 113 Cost.
(cfr. Cass. Sez. unite sentenze 28 maggio 1975, n. 2157; Cass. Sez. unite 19 luglio 1982, n.
4198). Sulla base di tali premesse si è esclusa, in radice, la tesi che all'ente pubblico possa
essere riservato non solo di riconoscere il vantaggio in sé, ma anche la relativa entità
economica: tesi ritenuta inaccettabile per la considerazione che essa pone il giudice nella
condizione di dover unicamente prendere atto delle determinazioni del convenuto,
contraddicendo alla stessa funzione dell'azione consistente nell'apprestare un rimedio
"generale" per i casi in cui sia possibile risolvere sul piano economico il contrasto tra legalità e
giustizia. In luogo della questione del riconoscimento dell'utilità, è stato evidenziato un
problema di imputabilità dell'arricchimento, paventandosi il pericolo che l'ente pubblico
possa subire iniziative che i terzi, pur presentandosi come ingiustamente depauperati,
abbiano assunto conto il volere dell'ente o comunque senza che i suoi organi rappresentativi
ne avessero contezza.
In tale prospettiva il problema risulta ridotto unicamente a quello dell'”attribuzione” del
vantaggio all'ente pubblico e risolto nel senso che si debba indagare “non tanto se
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quest'ultimo abbia riconosciuto l'arricchimento, quanto se sia stato almeno consapevole della
prestazione indebita e nulla abbia fatto per respingerla, sicché nell'avvenuta utilizzazione
della prestazione è da ravvisare, invece che un atto di riconoscimento - difficilmente
definibile nei suoi caratteri e soprattutto giuridicamente inammissibile, non potendo mai
condizionarsi la proponibilità di un'azione ad una preventiva manifestazione di volontà del
soggetto contro cui essa è diretta - un mero fatto dimostrativo dell'imputabilità giuridica a
tale soggetto della situazione dedotta in giudizio” (così, Cass. n. 4198 del 1982 in
motivazione).
4. Questi, in estrema sintesi, i principali argomenti a sostegno delle opzioni ermeneutiche a
confronto, le Sezioni unite, nel risolvere il contrasto, intendono proseguire sulla strada
tracciata nelle sentenze da ultime citate e, in parte, ripercorsa da quell'indirizzo minoritario
(sub 3.4. e 3.5.) che ha rimarcato la connotazione ordinaria dell'azione anche nei confronti
della P.A., predicando una valutazione oggettiva dell'arricchimento che prescinda dal
riconoscimento esplicito o implicito dell'ente beneficiato. A questi risultati conduce una
lettura dell'istituto più aderente ai principi costituzionali e a quelli specifici della materia che
assegnano una dimensione fattuale di evento oggettivo all'arricchimento di cui all'art. 2041
cod. civ. e alla relativa azione una funzione di rimedio generale a situazioni giuridiche
altrimenti ingiustamente private di tutela, tutte le volte che tale tutela non pregiudichi in
alcun modo le posizioni, l'affidamento, la buona fede dei terzi (cfr. Cass. Sez. un. 08
dicembre 2008, n. 24772). In tale prospettiva il diritto fondamentale di azione del
depauperato può adeguatamente coniugarsi con l'esigenza, altrettanto fondamentale, del
buon andamento dell'attività amministrativa, affidando alla stessa pubblica amministrazione
l'onere di eccepire e provare il rifiuto dell'arricchimento o l'impossibilità del rifiuto per la sua
inconsapevolezza (c.d. arricchimento imposto).
Del resto sulla qualificazione dell'arricchimento come istituto civilistico che da luogo a
situazioni di diritto soggettivo perfetto anche quando parte sia una P.A., salvo il limite
interno del divieto di annullamento e di modificazione degli atti amministrativi, la
giurisprudenza ha mostrato di non dubitare, allorché ha costantemente affermato la
giurisdizione ordinaria in materia (Cass. Sez. un. 18 novembre 2010, n. 23284; Cass. Sez. un.
20 novembre 1999 n. 807).
4.1. Valga considerare che l'impostazione fondata sulla necessità di un riconoscimento
esplicito o implicito degli organi rappresentativi è sostanzialmente ancorata ad una lettura
dell'istituto in chiave contrattuale che è stata già stigmatizzata da queste Sezioni Unite in
occasione della risoluzione di altro contrasto sul tema dell'arricchimento nei confronti della
P.A., rilevandosi che se è indubbio che l'arricchimento che dipende da fatto dell'impoverito
presenta punti di contatto con la responsabilità contrattuale, ciononostante non se ne
giustifica l'assimilazione (cfr. sentenza 11 settembre 2008, n. 23385).
Invero il principio secondo cui “chi senza una giusta causa, si è arricchito a danno di
un'altra persona, è tenuto, nei limiti dell'arricchimento, a indennizzare quest'ultima della
correlativa diminuzione patrimoniale” è stato dettato dal legislatore del 1942, accanto ad
altre fattispecie particolari di cui già si è dato conto, con la funzione di norma di chiusura
onde coprire - come si legge nella Relazione al progetto del codice - anche i casi “che il
legislatore non sarebbe in grado di prevedere tutti singolarmente”. L'istituto risulta, così,
configurato come un rimedio unitario, idoneo a ricomprendere tutte le ipotesi di
arricchimento di un soggetto e di correlativo impoverimento di un altro soggetto in
mancanza di una giusta causa e, quindi, sia i casi di arricchimento conseguito
appropriandosi di utilità insite nell'altrui situazione protetta, sia quelli che dipendono da
comportamenti dell'impoverito. E sebbene la prima categoria presenti innegabili punti di
contatto con la responsabilità civile e la seconda con il regime di esecuzione dei contratti,
l'istituto non si presta ad essere letto né in una chiave, né nell'altra, avendo una precisa
identità di autonoma fonte di obbligazione restitutoria e l'esclusiva finalità di
indennizzare lo spostamento di ricchezza senza giusta causa dall'uno all'altro soggetto.
4.2. In particolare la lettera della norma, che - come sopra evidenziato - adopera un lessico
oggettivistico nell'individuazione dei presupposti dell'azione, nonché la funzione dell'istituto
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che è quella di eliminare l'iniquità prodottasi mediante uno spostamento patrimoniale privo di
giustificazione di fronte al diritto, sancendone la restituzione, riconducono l'arricchimento ad
una dimensione fattuale di evento oggettivo, escludendo che la qualificazione pubblicistica
del soggetto arricchito possa essere evocata a fondamento di una riserva di discrezionalità in
punto di riconoscimento dell'arricchimento e/o del suo ammontare. Ne consegue che ciò che
il privato attore ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. deve provare è il fatto
dell'arricchimento; e il relativo accertamento da parte del giudice non incorre nei limiti di
cognizione ai sensi dell'art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, trattandosi di
verificare un evento patrimoniale oggettivo, qual è l'arricchimento, senza che
l'amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, perché altrimenti si
riconoscerebbe all'amministrazione una posizione di vantaggio che è priva di base normativa.
In tale prospettiva il riconoscimento da parte della P.A. dell'utilità della prestazione o
dell'opera può rilevare non già in funzione di recupero sul piano del diritto di una fattispecie
negoziale inesistente, invalida o comunque imperfetta - trattandosi di un elemento estraneo
all'istituto - bensì in funzione probatoria e, precisamente, ai soli fini del riscontro
dell'"imputabilità dell'arricchimento all'ente pubblico. Mentre le esigenze di tutela delle
finanze pubbliche e la considerazione delle dimensioni e della complessità dell'articolazione
interna della pubblica amministrazione, che l'espediente giurisprudenziale del riconoscimento
dell'utilitas ha inteso perseguire, possono essere adeguatamente coniugate con la piena
garanzia del diritto di azione del depauperato, nell'ambito del principio di diritto comune
dell'arricchimento imposto, in ragione del quale l'indennizzo non è dovuto se l'arricchito ha
rifiutato l'arricchimento o non abbia potuto rifiutarlo, perché inconsapevole dell'eventum
utilitatis.
In definitiva va accolto il primo motivo, assorbito il secondo, avendo la Corte territoriale
erroneamente ritenuto necessario ai fini dell'azione di arricchimento il riconoscimento
dell'utilità dell'opera da parte dell'ente pubblico e, in specie, dei suoi organi rappresentativi;
ciò comporta la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e il rinvio
alla Corte di appello di Reggio Calabria in diversa composizione, che dovrà fare applicazione
del seguente principio: la regola di carattere generale secondo cui non sono ammessi
arricchimenti ingiustificati né spostamenti patrimoniali ingiustificabili trova applicazione
paritaria nei confronti del soggetto privato come dell'ente pubblico; e poiché il
riconoscimento dell'utilità non costituisce requisito dell'azione di indebito arricchimento,
il privato attore ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. deve provare - e il giudice
accertare - il fatto oggettivo dell'arricchimento, senza che l'amministrazione possa
opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo essa, piuttosto, eccepire e
dimostrare che l'arricchimento non fu voluto o non fu consapevole.
Il Giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata
in relazione e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte di appello di
Reggio Calabria in diversa composizione.
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4) IL CONTRATTO DI LOCAZIONE SENZA FORMA
SCRITTA È NULLO? SECONDO LE SEZIONI UNITE SÌ,
SALVO UN CASO.
TRACCIA
Tizio concede in locazione un immobile di sua proprietà, a Ciao, fin dal febbraio 1997, verso
un canone di locazione pari ad attuali € 100, poi aumentato ad € 250 a seguito di alcuni
interventi di manutenzione
Tizio intende ottenere il pagamento dei canoni arretrati da Caio
Questi gli contesta che il contratto non ha forma scritta per scelta imposta dal locatore. Ne
sarebbe conseguiva la inefficacia di qualsiasi procedura esecutiva per rilascio dell’immobile.
Il candidato premessi bevi cenni sulla locazione di fatto, stipulato soltanto verbalmente, e sui
profili di nullità del contratto di locazione ai sensi della I. n.431 del 1998, assuma la difesa
del sig. Caio e rediga parere motivato
La Massima



28
Il giudice dovrà accertare, da un canto, l'esistenza del contratto di locazione
stipulato verbalmente in violazione dell'art. 1, comma 4, della I. n.431 del 1998, e,
dall'altro, la circostanza che tale forma sia stata imposta da parte del locatore e
subita da parte del conduttore contro la sua volontà, così determinando ex tunc il
canone dovuto nei limiti di quello definito dagli accordi delle associazioni locali della
proprietà e dei conduttori ai sensi del comma 3 dell'articolo 2, con il conseguente
diritto del conduttore alla restituzione della eccedenza pagata.
Né la innegabile difficoltà probatoria di tale circostanza (gravando il relativo onere
sul conduttore, in ossequio alle tradizionali regole del relativo riparto) può condurre
a soluzione diversa, non potendo un principio (e una maggior difficoltà) di carattere
processuale incidere sulla ricostruzione sostanziale della fattispecie.
In conformità con la lettera della legge, la nullità di protezione, e le relative
conseguenze, sarà pertanto predicabile solo in presenza dell'abuso, da parte del
locatore, della sua posizione "dominante", imponendosi il tal caso, e solo in esso, a
causa della eccessiva asimmetria negoziale, un intervento correttivo ex lege a tutela
del contraente debole. In concreto, sarà pertanto necessario che il locatore ponga in
essere una inaccettabile pressione (una sorta di violenza morale) sul conduttore al
fine di costringerlo a stipulare il contratto in forma verbale, mentre, nel caso in cui
tale forma sia stata concordata liberamente tra le parti (o addirittura voluta dal
conduttore), torneranno ad applicarsi i principi generali in tema di nullità. Il
locatore potrà agire in giudizio per il rilascio dell'immobile occupato senza alcun
titolo, e il conduttore potrà ottenere la (parziale) restituzione delle somme versate
a titolo di canone nella misura eccedente quella del canone «concordato» - poiché la
restituzione dell'intero canone percepito dal locatore costituirebbe un ingiustificato
arricchimento dell'occupante.
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Cassazione, Sez. Unite, 17 settembre 2015, n. 18214
(Pres.. Rovelli - Rel. Travaglino)
I FATTI E I MOTIVI DI RICORSO
1.I. P. concesse in locazione un immobile di sua proprietà, sito in Fondi, al padre C., con
facoltà di sublocazione.
1.1. Questi concesse a sua volta in godimento l'appartamento a G. T. e a S. C..
2. La P. ottenne, in data 26 giugno 2006, un provvedimento di convalida di sfratto per
morosità nei confronti del padre, che pose in esecuzione estromettendo la C. dal possesso
dell'immobile.
2.1. Nel proporre opposizione all'esecuzione, quest'ultima espose di aver ricevuto in locazione
l'appartamento da C. P. fin dal febbraio 2003, verso un canone di locazione pari € 100, poi
aumentato ad € 250 a seguito di alcuni interventi di manutenzione, sostenendo che la
convalida di sfratto era effetto di dolo e collusione dei P. ai suoi danni.
2.2. C. P., con autonomo ricorso, poi riunito al procedimento di opposizione, agì a sua volta
per la risoluzione del contratto concluso con G. T. e la convivente S. C., a suo dire morosi nel
pagamento dell'indennità mensile di occupazione dal gennaio 2006.
3. Il Tribunale di Latina, riuniti i giudizi, dichiarò che tra S. C. e C. P. era stato stipulato, fin
dal maggio 2003, un contratto di locazione per il canone mensile di euro 250.
3.1. In particolare, con riguardo alla mancanza di forma scritta, il giudice di primo grado
affermò che l'eventuale nullità del negozio poteva essere fatta valere dalla sola parte
conduttrice, trattandosi di una nullità relativa. Ne conseguiva la inefficacia della procedura
esecutiva per rilascio proposta da I. P. nei confronti della C., potendo quest'ultima vantare un
diritto di godimento opponibile a colei che agiva per il rilascio, oltre a quello al risarcimento
dei danni, patrimoniali e non, patiti a causa del trasloco in altra abitazione.
3.2. C. e I. P. furono pertanto condannati a reimmettere la C. nel possesso dell'immobile, e il
solo C. P. anche al risarcimento del danno, mentre le sue domande nei confronti della C. e
del T. furono rigettate.
4. Propose appello C. P., chiedendo, previa declaratoria di nullità del contratto per mancanza
della forma scritta, il rigetto delle domande svolte da S. C. e la risoluzione del rapporto
intercorso con il T., oltre alla sua condanna al pagamento dei canoni/indennità di
occupazione per dieci mensilità.
5. La Corte d'Appello di Roma, chiamata a decidere sull'appello principale del P. e su quello
incidentale del T., relativo alle sole spese del giudizio, rigettò tutte le domande proposte da
S. Cotuna (già S. C.) e dallo stesso P..
5.1. Ritenne il giudice di secondo grado che il contratto di locazione intercorso tra il C. e la
C.-Cotuna fosse nullo per difetto dell'imprescindibile requisito della forma scritta, richiesta
ad substantiam dall'art. 1, comma 4, della legge n. 431 del 1998, con la conseguenza che
nessun risarcimento del danno poteva essere accordato alla conduttrice, non legittimata ad
opporre un valido titolo di godimento a cagione del rilevato difetto di forma del contratto.
5.2. Specificò la Corte capitolina che, nonostante la forma scritta non fosse espressamente
prevista «sotto pena di nullità», secondo quanto disposto dall'art. 1325 n. 4 cod. civ.,
un'interpretazione di tipo sistematico induceva a ritenere che la prescrizione del citato art. I,
comma 4, secondo cui «... per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma
scritta» imponesse per essi l'adozione di una forma ad substantiam, attesa la regola di
qualificazione di cui all'art. 1352 cod. civ., alla stregua della quale, in difetto di univoche
prescrizioni, la forma deve intendersi imposta per la validità del contratto, piuttosto che
soltanto ad probationem, mentre l'art. 2739, comma 1, in tema di fattispecie sottratte al
giuramento, richiamava «il contratto per la validità del quale sia richiesta la forma scritta»,
con univoco riferimento proprio ai casi nei quali la forma è prevista ad essentiam.
5.3. La ratio della normativa di cui alla legge del 1998 doveva rinvenirsi, secondo il giudice di
appello, nell'esigenza di certezza e trasparenza del rapporto sia tra le parti che nei confronti
del fisco, al fine di fronteggiare un mercato caratterizzato da una consolidata prassi di
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contratti in tutto od in parte simulati, mentre lo stesso fondamento costituzionale di tale
limite all'autonomia negoziale doveva individuarsi nell'art. 41, terzo comma, Cost., e nel
successivo art. 53 quanto ai conseguenti obblighi tributari. La tesi secondo la quale il difetto
della forma scritta avrebbe dato luogo ad una nullità soltanto relativa, suscettibile di essere
fatta valere solo dalla parte debole del contratto (Le. dal conduttore), non trovava quel
tassativo riscontro normativo che, ai sensi dell'art. 1421 cod. civ. ("Salve diverse disposizioni
di legge, ..."), doveva ritenersi imprescindibile per derogare alla regola della nullità assoluta.
5.4. Né appariva utilmente evocabile, a giudizio della Corte territoriale, l'art. 13, comma 5
della citata legge n. 431 del 1998, che abilitava il solo conduttore ad agire per la cd.
"riconduzione del rapporto di fatto", in quanto la norma non aveva attinenza con la disciplina
della validità del contratto, mirando piuttosto a sanzionare la condotta del locatore volta ad
imporre alla controparte l'instaurazione di un rapporto di mero fatto (a tacere della
circostanza che, nel caso di specie, la domanda di riconduzione non era stata concretamente
esperita).
6. La sentenza è stata impugnata con ricorso per cassazione da S. Cotuna, che lo illustra con
due motivi.
6.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione delle norme di cui
alla legge n. 431 del 1998, con riferimento all'art. 360 cod. proc. civ., primo comma, nn. 3 e
5.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto in
relazione all'art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 3 e 5, anche per omessa, insufficiente e/o
contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
6.2. Secondo la ricorrente, la mancanza di forma scritta di un contratto di locazione ad uso
abitativo comportava una nullità soltanto relativa, con la conseguenza che la violazione del
relativo obbligo spiegava effetti sfavorevoli per il solo locatore e non anche per il conduttore,
come implicitamente desumibile dal quinto comma dell'art. 13della legge n. 431 del 1998,
che ammetteva espressamente la legittimità della locazione di fatto.
6.2.1. Resiste I. P. sostenendo che la legge n. 431 del 1998 richiede invece tout court la
forma scritta ad substantiam, ed evidenziando che la Cotuna non aveva promosso alcuna
azione di riconduzione del contratto ex art. 13, comma 5, legge n. 431 del 1998.
7. Resistono ancora con controricorso C. P. e G. T., proponendo, il primo, ricorso incidentale
condizionato affidato ad un motivo, il secondo, ricorso incidentale illustrato da due motivi.
7.1. Il P. denuncia la violazione e falsa applicazione della legge n. 431 del 1998 e
dell'art.1453 c.c., avendo egli già dedotto in sede appello che i conviventi Cotuna e T. erano
rimasti morosi nel pagamento del canone, con conseguente richiesta di risoluzione del
rapporto per grave inadempimento: anche qualora il contratto di locazione fosse stato
ritenuto valido nonostante la mancanza della forma prescritta ad substantiam, la risoluzione
avrebbe dovuto essere comunque pronunciata per grave inadempimento della controparte.
7.2. Il T. propone a sua volta due motivi di ricorso incidentale, il primo relativo alla mancata
pronuncia sulla domanda di risarcimento danni ex art. 96 cod. proc. civ., il secondo con
riferimento alla compensazione delle spese nel giudizio in violazione degli artt. 91 e 92 cod.
proc. civ.
8. Con ordinanza interlocutoria n. 20480 del 2014 la terza sezione di questa Corte,
nell'esaminare preliminarmente e congiuntamente i motivi del ricorso principale, osserverà
che la Corte di merito aveva ritenuto inapplicabile, nel caso di specie, l'istituto della c.d.
nullità di protezione, ritenendo la ratio della legge n. 431 del 1998 non già funzionale a
tutelare i diritti del conduttore, ma piuttosto a garantire una posizione di equidistanza tra le
parti contraenti.
8.1. Nell'ordinanza di rimessione si evidenza ancora come la giurisprudenza di legittimità
(diversamente da quella di merito, non unanime sul punto) non si fosse mai pronunciata sui
temi in questione se non marginalmente affermando che la previsione di nullità per ipotesi
determinate prevista dall'art. 13 della stessa legge non si applica agli immobili inclusi nella
categoria catastale A/8 (abitazioni in villa) per i quali, non essendo prevista alcuna nullità
collegata a limiti di durata del rapporto o di misura del canone, resta esclusa la speciale
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azione del conduttore di riconduzione del rapporto a condizioni conformi allo schema della
valida locazione (Cass. 29 settembre 2004 n. 19568).
9. Si rammenta ancora, con il provvedimento interlocutorio, come, con una precedente
ordinanza (n. 37 del 2014), la stessa terza sezione avesse ravvisato la necessità di rimeditare
l'orientamento interpretativo delineato dalla sentenza n. 16089 del 2003 (e seguito da tutta la
giurisprudenza successiva) secondo cui, "in tema di locazioni abitative, l'art. 13, primo
comma, della legge 9 dicembre 1998, n. 431, nel prevedere la nullità di ogni pattuizione volta
a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto
scritto e registrato (e nel concedere in tal caso al conduttore, al secondo comma, l'azione di
ripetizione), non si riferisce all'ipotesi della simulazione relativa del contratto di locazione
rispetto alla misura del corrispettivo (né a quella della simulata conclusione di un contratto di
godimento a titolo gratuito dissimulante una locazione con corrispettivo), in tal senso
deponendo una lettura costituzionalmente orientata della norma. E ciò perché, essendo
valido il contratto di locazione scritto ma non registrato (non rilevando, nei rapporti tra le
parti, la totale omissione dell'adempimento fiscale), non può sostenersi che essa abbia voluto
sanzionare con la nullità la meno grave ipotesi della sottrazione all'imposizione fiscale di una
parte soltanto del corrispettivo (quello eccedente il canone risultante dal contratto scritto e
registrato) mediante una pattuizione scritta, ma non registrata. La nullità prevista dal citato
art. 13, primo comma, è volta piuttosto a colpire la pattuizione, nel corso di svolgimento del
rapporto di locazione, di un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto
originario (scritto, come impone, a pena di nullità, l'art. I, quarto comma, della medesima
legge, e registrato, in conformità della regola della generale sottoposizione a registrazione di
tutti i contratti i di locazione indipendentemente dall'ammontare del canone), la norma
essendo espressione del principio della invariabilità, per tutto il tempo della durata del
rapporto, del canone fissato nel contratto" (la questione è stata oggetto di discussione alla
medesima udienza pubblica del 13 gennaio 2015, ed è stata risolta da queste sezioni unite
con sentenza depositata in pari data a quella della presente pronuncia).
10. Con l'ordinanza di rimessione, il collegio della terza sezione civile ha pertanto
rappresentato l'opportunità - per ragioni di completezza e sistematicità - di trattare anche il
problema della portata dell'azione di riconduzione nell'ottica della ricorrenza o meno di una
nullità che invalida il rapporto locativo, perché la materia delle locazioni si presenta di
rilevante impatto sociale ed una valutazione unitaria dei problemi indicati mira a prevenire
potenziali, diverse visioni interpretative fornendo all'interprete un valido e sicuro ausilio per
la loro pronta risoluzione.
10.1. La questione rimessa a queste sezioni unite è, pertanto, la seguente: se, in materia di
locazioni abitative, l'art. 1, comma 4, della legge n. 431 del 1998, nella parte in cui prevede
che «per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta», prescriva il
requisito della forma scritta ad substantiam ovvero ad probationem, e, nel primo caso, se
l'eventuale causa di nullità sia riconducibile alla categoria delle nullità di protezione alla luce
della disposizione di cui all'art. 13, comma 5 della stessa legge, a mente del quale "Nei casi di
nullità di cui al comma 4 il conduttore, con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla
riconsegna dell'immobile locato, può richiedere la restituzione delle somme indebitamente
versate. Nei medesimi casi il conduttore può altresì richiedere, con azione proponibile dinanzi
al pretore, che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto dal
comma 1 dell'articolo 2 ovvero dal comma 3 dell'articolo 2. Tale azione è altresì consentita
nei casi in cui il locatore ha preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto, in
violazione di quanto previsto dall'articolo 1, comma 4, e nel giudizio che accerta l'esistenza
del contratto di locazione il pretore determina il canone dovuto, che non può eccedere quello
definito ai sensi del comma 3 dell'articolo 2 ovvero quello definito ai sensi dell'articolo 5,
commi 2 e 3, nel caso dí conduttore che abiti stabilmente l'alloggio per i motivi ivi regolati;
nei casi di cui al presente periodo il pretore stabilisce la restituzione delle somme
eventualmente eccedenti".
LE RAGIONI DELLA DECISIONE
1.I ricorsi, principale e incidentali, proposti avverso la medesima sentenza,
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devono essere riuniti.
1.1. Il ricorso principale è infondato.
1.2. Al rigetto del ricorso principale conseguono l'assorbimento del ricorso
incidentale condizionato di C. P. e il rigetto del ricorso di G.T..
2. All'esame del ricorso principale vanno premesse le considerazioni che seguono.
2.2. La disciplina codicistica della locazione di immobili urbani è stata integrata, negli ultimi
decenni, da numerosi interventi di legislazione speciale, concernente in particolare i contratti
aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo.
2.3. La materia, come è noto, ha trovato una sua prima disciplina organica nella legge n. 392
del 1978, ispirata all'esigenza di realizzare un meccanismo di determinazione legale del
contenuto del contratto - e, in particolare, del canone di locazione -, calcolato sulla base di
una serie di parametri oggettivi.
2.3.1. Come pressoché unanimemente ritenuto dai commentatori della normativa, la scelta
del legislatore, di forte stampo dirigistico, ha prodotto risultati estremamente negativi,
causando gravi distorsioni del mercato delle abitazioni. I proprietari, - salvo far ricorso alla
sistematica prassi dei cd. affitti in nero - preferirono togliere dal mercato i propri
appartamenti, ritenendo oltremodo antieconomico concederli in locazione ad un canone
spesso irrisorio, assai lontano dal vero valore di mercato e con alti rischi di perdita della
relativa disponibilità per lungo tempo.
2.3.2. Il fenomeno del ritiro del mercato delle locazioni di un considerevole numero di
immobili rese così necessario un nuovo intervento del legislatore, dapprima timidamente
derogatorio rispetto alla ratio sottesa alla legge del 1978 (il riferimento è all'art. 11 del
decreto legge 11 luglio 1992 n. 333, contenente la normativa dei cd. «patti in deroga»), e poi
del tutto speculare ad essa, a far data dalla legge n. 431 del 1998.
2.3.3. Il primo intervento, del 1992, consentì, nei contratti di locazione ad uso abitativo, la
libera pattuizione del corrispettivo, bilanciata da un sostanziale raddoppio della durata del
contratto, mentre tutti gli altri aspetti del rapporto contrattuale continuarono ad essere
regolati dalla precedente disciplina
2.4. La legge n. 431 del 1998 ha reso definitiva la scelta del legislatore di abbandonare
definitivamente l'idea del canone «equo» imposto per legge, e di fronteggiare, eliminandolo
in radice, il fenomeno del cd. "sommerso".
2.4.1. Venne così sancita in via definitiva la liberalizzazione del canone delle locazioni ad uso
abitativo, bilanciata da una maggiore stabilità del rapporto contrattuale, con espressa
previsione dell'obbligo della forma scritta e della registrazione del contratto.
2.4.2. I contratti che ricadono nell'ambito applicativo della legge sono le locazioni di immobili
adibiti ad uso abitativo che non abbiano ad oggetto beni vincolati o che non siano costruiti
nell'ambito dell'edilizia residenziale pubblica o che non siano alloggi locati per finalità
esclusivamente turistiche (art. 1).
2.4.3. La legge prevede due possibili modalità di contrattazione: una prima, libera, una
seconda strutturata secondo modelli-tipo, frutto di accordi definiti in sede locale fra le
organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente
rappresentative (art. 2, comma 3).
2.5. Il legislatore detterà pochissime prescrizioni, limitandosi a richiedere la forma scritta e a
disciplinare la durata del contratto, che varia a seconda si sia scelto il modello a forma libera
oppure quello concordato tra associazioni. Nel primo caso, infatti, è prevista una durata
minima di quattro anni rinnovabili per ulteriori quattro, mentre nel secondo la durata minima
è di tre anni rinnovabili per altri due.
3. Con specifico riguardo al problema della forma negoziale dei contratti di locazione, va
premesso come, nel nostro sistema codicistico, viga, secondo l'opinione dominante
(peraltro non condivisa da autorevole dottrina), un principio generale di libertà della
forma, in applicazione del quale, in linea generale, la manifestazione di volontà
contrattuale non richiederebbe forme particolari, potendo realizzarsi attraverso qualsiasi
modalità idonea a manifestarla, ivi compresi comportamenti cd. concludenti.
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3.1. Il (presunto) principio della libertà di forma non è privo di eccezioni. E' noto che, per
alcuni atti la legge, richiede che la volontà sia manifestata attraverso particolari modalità
espressamente stabilite, attraverso la stipula di contratti a forma cd. vincolata: l'art. 1350
elenca quelli per i quali la forma scritta è prevista a pena di nullità.
3.2. La forma vincolata risponde ad una molteplicità di esigenze: quella di garantire certezza
sull'esistenza e sul contenuto del contratto, oltre che sulla stessa volontà delle parti; quella
di rendere possibili i controlli sul contenuto contratto previsti nell'interesse pubblico (come
per la contrattazione con la pubblica amministrazione); quella di rendere trascrivibile il
contratto a fini di pubblicità, per rendere opponibili a terzi i diritti che ne scaturiscono;
quella di protezione del contraente che, con l'adozione della forma scritta, viene reso edotto
e consapevole delle obbligazioni assunte.
3.4. Tra le molte teorie elaborate sulla complessa tematica della forma negoziale, va posto
l'accento su quelle che ne valorizzano il contenuto, privilegiando il valore funzionale alla
forma, da valutarsi in concreto, in relazione alla ratio espressa dallo specifico "tipo"
contrattuale. Di qui, l'impredicabilità di una automatica applicazione della disciplina della
nullità in mancanza della forma prevista dalla legge ad substantiam, essendo piuttosto
necessario procedere ad un'interpretazione assiologicamente orientata, nel rispetto dei valori
fondamentali del sistema. Così, il carattere eccezionale o meno della norma sulla forma,
ovvero il suo carattere derogabile o inderogabile, non potrà essere definito in astratto e in via
generale, ma dovrà risultare da un procedimento interpretativo che dipende dalla
collocazione che la norma riceve nel sistema, dalla ratio che esprime, dal valore che per
l'ordinamento rappresenta.
3.5. Tali, condivisibili tendenze cd. "neoformaliste" tendono a favorire l'emersione del
rapporto economico sottostante a ciascun atto negoziale, evolvendo verso una vera e propria
mutazione genetica del ruolo stesso della forma del contratto, non più soltanto indice di
serietà dell'impegno obbligatorio, o mezzo di certezza o idoneità agli effetti pubblicitari, ma
strumento che consenta anche di rilevare l'eventuale squilibrio esistente tra i contraenti e di
tutelare la parte debole del rapporto (anche se, in senso opposto, altra parte della dottrina
continua a ritenere che l'art. 325 n. 4 cod. civ. evochi il requisito della forma, sic et
simpliciter, come mero elemento necessario nella struttura del contratto, senza attribuire
alcun rilievo all'elemento teleologico, di tal che, sul piano sostanziale, sarebbe preclusa
quell'attività ermeneutica - consentita invece dal diritto processuale - volta alla valutazione
sull'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo).
4. Tanto premesso sul piano generale, va ancora ricordato come, in epoca antecedente alla
legge n. 431 del 1998, tanto la disciplina codicistica quanto la legge n. 392 del 1978 non
imponevano alcuna forma particolare al contratto di locazione, tanto ad uso abitativo
quanto per uso diverso (l'unica ipotesi di obbligo di forma scritta era, difatti, quella
relativa ai contratti di durata ultranovennale, ex art. 1350 n. 8 cod. civ., interpretato,
peraltro, in senso assai restrittivo da questa stessa Corte di legittimità).
4.1. La legge n. 431 del 1998 - funzionale, come già ricordato, all'esigenza di far emergere
l'enorme numero di contratti in nero determinatosi a seguito dell'imposizione dell'equo
canone, all'art. 1 comma 4 - ha invece previsto, testualmente, che, a decorrere dalla data
della sua entrata in vigore, "per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la
forma scritta".
4.2. La necessità della forma scritta apparve, illico et immediate, ispirata a tutte quelle
esigenze poc'anzi evidenziate.
4.2.1. In primo luogo, si volle assicurare certezza a rapporti giuridici che coinvolgono un così
importante bene della vita.
4.2.2. In secondo luogo, si decise di "stabilizzare" un canone che, seppure liberalizzato,
doveva incondizionatamente rimanere quello indicato nel contratto per tutta la durata del
rapporto.
4.2.3. Infine, e soprattutto, si volle assicurare la più ampia pubblicità al rapporto, al fine di
contrastare l'evasione fiscale.
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La prescrizione della forma scritta, difatti, appare volta essenzialmente a tutelare
l'interesse alla trasparenza del mercato delle locazioni in funzione dell'esigenza di un più
penetrante controllo fiscale, esigenza avvertita in modo significativo in un settore dove,
come poc'anzi ricordato, a causa della precedente disciplina dirigistica il fenomeno
dell'evasione era divenuto inarginabile. E proprio il collegamento funzionale (anche se non
strutturale) tra forma scritta e registrazione del contratto apparve a tuttora appare
particolarmente significativo in tal senso.
4.2.4. La stessa relazione di accompagnamento della VIII Commissione permanente Ambiente
territorio e lavori pubblici (presentata alla Presidenza il 25.11.1998) indica con chiarezza
come l'obiettivo della legge n. 431 del 1998 fosse quello di «introdurre misure atte a
combattere il fenomeno dell'evasione fiscale che appare particolarmente presente in questo
settore», in aggiunta alla volontà di realizzare una liberalizzazione controllata del mercato
locativo.
4.3. Si è così osservato che l'interesse generale, di rilevanza pubblicistica, troverebbe
ulteriore conferma proprio nella previsione del requisito della forma scritta anche nei casi in
cui manchi un'esigenza di protezione del conduttore riconducibile alla stabilità del rapporto di
locazione o ad una specifica posizione di debolezza - come nel caso delle locazioni stipulate
per finalità esclusivamente turistiche e di quelle che hanno ad oggetto immobili di lusso,
espressamente sottratte all'applicazione dell'art. 13, comma 5, della I.n. 431 del 1995.
5. Tale la conclusione cui perviene la pressoché unanime dottrina, che, salvo alcune
isolate voci contrarie, ritiene che la legge n.431 del 1998 richieda per i contratti di
locazione ad uso abitativo la forma scritta a pena di nullità.
6. Dal suo canto, la giurisprudenza di merito sembra aver privilegiato quasi unanimamente
l'interpretazione secondo la quale la forma scritta del contratto di locazione sia richiesta
ad substantiam. La norma speciale, difatti, secondo alcune pronunce, andrebbe letta in
combinato disposto con l'art. 1418 cod. civ. - che sanziona con la nullità la mancanza di
uno dei requisiti di cui all'art. 1325 cod. civ. ivi compresa la forma del contratto se
prevista a pena di nullità -, mentre, secondo altre, andrebbe coniugata con il disposto
dell'art. 1350 n. 13 - che contempla, tra gli atti che devono farsi per iscritto a pena di
nullità, anche quelli "specificamente indicati dalla legge" -. Un ultimo gruppo di sentenze
evocano, infine, le norme di cui agli artt. 1352 e 2739 cod. civ. quanto al significato da
attribuire al requisito di forma in difetto di univoche prescrizioni.
6.1. Del tutto isolate appaino, per converso, le interpretazioni di segno opposto offerte da
altra parte della giurisprudenza di merito, secondo cui la mancanza di una espressa
previsione della sanzione della nullità dovrebbe indurre a ritenere che la forma scritta
richiesta per il contratto di locazione di immobile ad uso abitativo sia soltanto ad
probationem, e non un requisito essenziale del contratto.
6.2. Un terzo filone interpretativo ritiene, infine, necessaria la forma scritta ad
essentiam, limitando, peraltro, la rilevabilità della nullità in favore del solo conduttore
nella specifica ipotesi di cui all'art. 13, comma 5 della I. n. 431 del 1998, che gli accorda
una speciale tutela nel caso in cui gli sia stato imposto, da parte del locatore, un rapporto
di locazione di fatto, stipulato soltanto verbalmente. Il conduttore potrebbe, cioè far
valere egli solo la nullità qualora il locatore abbia imposto la forma verbale, abusando
della propria posizione dominante all'interno di un rapporto giocoforza asimmetrico.
7. E' convincimento di queste sezioni unite che l'ultima delle soluzioni proposte dalla
giurisprudenza di merito debba essere condivisa.
7.1. A tale conclusione deve pervenirsi, innanzitutto, sulla base di una interpretazione
letterale della disposizione di cui all'art. 13, comma 5 della legge n. 431 del 1998, che
limita all'elemento caratterizzante costituito dall'«abuso» del locatore la necessità di un
riequilibrio del rapporto mediante l'introduzione di un'ipotesi di nullità relativa: ne
consegue, logicamente, che, in mancanza di tale «abuso», la nullità debba ritenersi
assoluta (e, quindi, non sanabile) e rilevabile da entrambe parti, oltre che d'ufficio ex art.
1421 cod. civ.
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7.2. Se la forma scritta risponde alla finalità di attribuire alle parti, ed in specie al
conduttore, uno status di certezza dei propri diritti e dei propri obblighi, la sua funzione
primaria (coerente con la ratio dell'intero dettato normativo di cui alla legge 431) deve
comunque ritenersi quella di trarre dall'ombra del sommerso - e della conseguente
evasione fiscale - i contratti di locazione.
7.3. Il comma 5 dispone, difatti, testualmente, che «nei casi di nullità di cui al comma 4 il
conduttore, con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell'immobile
locato, può richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate. Nei medesimi casi
il conduttore può altresì richiedere, con azione proponibile dinanzi al pretore, che la
locazione venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto dal comma 1 dell'articolo
2 ovvero dal comma 3 dell'articolo 2. Tale azione è altresì consentita nei casi in cui il
locatore ha preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto, in violazione di
quanto previsto dall'articolo 1, comma 4, e nel giudizio che accerta l'esistenza del
contratto di locazione il pretore determina il canone dovuto, che non può eccedere quello
definito ai sensi del comma 3 dell'articolo 2 ovvero quello definito ai sensi dell'articolo 5,
commi 2 e 3, nel caso di conduttore che abiti stabilmente l'alloggio per i motivi ivi regolati;
nei casi di cui al presente periodo il pretore stabilisce la restituzione delle somme
eventualmente eccedenti».
7.4. La norma opera un espresso riferimento all'art. 1, comma 4, ovvero all'ipotesi di un
contratto nullo per mancanza di forma scritta che abbia dato luogo ad un rapporto di
locazione di fatto. Si richiede, tuttavia, espressamente, un ulteriore presupposto, ovvero
che sia il locatore ad aver preteso l'instaurazione del rapporto di fatto, e che quindi la
nullità del contratto sia a lui attribuibile, mentre il conduttore deve averla solo subita. Si
disciplina, pertanto, la fattispecie concreta del locatore che ponga in essere una coazione
idonea ad influenzare il processo di formazione della volontà del conduttore,
condizionando alla forma verbale l'instaurazione del rapporto di locazione in violazione
dell'articolo 1, comma 4.
7.5. E' in tal caso che il conduttore sarà il (solo) soggetto legittimato a chiedere che la
locazione di fatto, nulla per vizio di forma, venga ricondotta a condizioni conformi a
quanto previsto in relazione al canone predeterminato in sede di accordi definiti ai sensi
del comma 3 dell'articolo 2 ovvero ai sensi dell'articolo 5, commi 2 e 3.
7.6. In deroga ai principi generali della insanabilità del contratto nullo, pertanto, la norma
di cui all'art. 13, comma 5, riconosce al conduttore la possibilità di esperire una specifica
azione finalizzata alla sanatoria del rapporto contrattuale di fatto venutosi a costituire in
violazione di una norma imperativa. Ma proprio la portata eccezionalmente derogatoria
ad un principio-cardine dell'ordinamento (La insanabilità del contratto nullo) non
consente un'interpretazione della norma diversa da quella rigorosamente letterale.
7.7. Il giudice dovrà pertanto accertare, da un canto, l'esistenza del contratto di locazione
stipulato verbalmente in violazione dell'art. 1, comma 4, della I. n.431 del 1998, e,
dall'altro, la circostanza che tale forma sia stata imposta da parte del locatore e subita da
parte del conduttore contro la sua volontà, così determinando ex tunc il canone dovuto
nei limiti di quello definito dagli accordi delle associazioni locali della proprietà e dei
conduttori ai sensi del comma 3 dell'articolo 2, con il conseguente diritto del conduttore
alla restituzione della eccedenza pagata.
8. Né la innegabile difficoltà probatoria di tale circostanza (gravando il relativo onere sul
conduttore, in ossequio alle tradizionali regole del relativo riparto) può condurre a
soluzione diversa, non potendo un principio (e una maggior difficoltà) di carattere
processuale incidere sulla ricostruzione sostanziale della fattispecie.
8.1. In conformità con la lettera della legge, la nullità di protezione, e le relative
conseguenze, sarà pertanto predicabile solo in presenza dell'abuso, da parte del locatore,
della sua posizione "dominante", imponendosi il tal caso, e solo in esso, a causa della
eccessiva asimmetria negoziale, un intervento correttivo ex lege a tutela del contraente
debole. In concreto, sarà pertanto necessario che il locatore ponga in essere una
inaccettabile pressione (una sorta di violenza morale) sul conduttore al fine di
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costringerlo a stipulare il contratto in forma verbale, mentre, nel caso in cui tale forma
sia stata concordata liberamente tra le parti (o addirittura voluta dal conduttore),
torneranno ad applicarsi i principi generali in tema di nullità. Il locatore potrà agire in
giudizio per il rilascio dell'immobile occupato senza alcun titolo, e il conduttore potrà
ottenere la (parziale) restituzione delle somme versate a titolo di canone nella misura
eccedente quella del canone «concordato» - poiché la restituzione dell'intero canone
percepito dal locatore costituirebbe un ingiustificato arricchimento dell'occupante.
8.2. Non può, pertanto darsi seguito alla tesi, pur sostenuta da parte della giurisprudenza di
merito e da alcuni autori in dottrina, secondo cui il collegamento tra l'art. 13, comma 5 e
l'art. 1, comma 4, della legge n.431 del 1998 integrerebbe tout court gli estremi della nullità
di protezione o relativa anche nel caso l'uso della forma verbale sia stato deciso
volontariamente da entrambe le parti contraenti.
8.3. Pur vero che il riconoscimento, in tal caso, di una fattispecie di natura di nullità assoluta
avrebbe come conseguenza l'obbligo di restituzione dell'immobile con effetto immediato dalla
dichiarazione di nullità del contratto, venendo meno il suo titolo giustificativo (e così
determinandosi un indebolimento della posizione del conduttore, esposto all'azione di nullità
del locatore che, evitando la forma scritta prescritta dalla legge, avrebbe così un permanente
strumento di pressione nei confronti del contraente più debole), va di converso considerato
che tale assunto muove da un presupposto infondato in diritto, quello, cioè, dell'assimilabilità
della suddetta disposizione con altre che introducono obblighi di forma (nelle varie fasi della
formazione del contratto, dalle trattative alla stipulazione definitiva) in funzione di
protezione del contraente maggiormente esposto al rischio contrattuale (nei contratti bancari
di investimento, ad esempio, la forma scritta è dettata in funzione del superamento di uno
squilibrio informativo che caratterizza il rapporto tra le parti ed è diretta a fornire al
contraente debole tutte le informazioni necessarie per assumere consapevolezza del rischio
cui si espone nell'investimento e per avere la possibilità di verificare la conformità del
contratto definitivo con quanto è stato oggetto di informativa preliminare).
8.4. Tali finalità non possono ritenersi predicabili con riguardo al requisito di forma scritta del
contratto di locazione. In primo luogo, non può ravvisarsi un collegamento tra prescrizione di
forma e obblighi informativi in quanto non vi sono particolari rischi connessi allo svolgimento
del contratto e non è dato riscontrare quello squilibrio informativo che tipicamente
caratterizza le relazioni che intercorrono tra contraenti deboli e contraenti professionali. In
secondo luogo, la prescrizione di forma non è dettata in funzione strumentale del contenuto,
il quale, nell'ordinaria modalità di svolgimento delle relazioni contrattuali, risulta
agevolmente comprensibile dal conduttore.
8.5. Queste considerazioni, coniugate con la già ricordata esigenza di procedere ad
un'interpretazione rigorosamente letterale della norma in esame, sebbene non escludano una
più generale intentio legis di tutelare il conduttore - che pur risulta da una pluralità di norme
dettate nel suo esclusivo interesse - inducono a ritenere definitivamente esclusa la possibilità
di applicazione analogica delle norme che prevedono nullità relative.
9. L'interpretazione letterale della norma in parola non consente, in definitiva, soluzione
diversa. Sancire che, per la stipula di validi contratti di locazione, è necessaria la forma
scritta, significa a contrario affermare che il contratto di locazione privo di tale requisito è
invalido (i.e., nullo). Nè vale obiettare che nella categoria dell'invalidità rientra anche il
contratto annullabile, perché nel territorio della disciplina positiva non si rinvengono ipotesi
di annullabilità per vizio di forma.
10. Non senza osservare ancora, su di un più generale piano etico/costituzionale, e nel
rispetto della essenziale ratio della legge del 1998, che la soluzione adottata impedisce che,
dinanzi ad una Corte suprema di un Paese europeo, una parte possa invocare tutela
giurisdizionale adducendo apertamente e impunemente la propria qualità di evasore fiscale,
volta che l'imposizione e il corretto adempimento degli obblighi tributari, lungi dall'attenere
al solo rapporto individuale contribuente-fisco, afferiscono ad interessi ben più generali, in
quanto il rispetto di quegli obblighi, da parte di tutti i consociati, si risolve in un miglior
funzionamento della stessa macchina statale, nell'interesse superiore dell'intera collettività.
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Il ricorso principale è pertanto rigettato, con conseguente rigetto di quello incidentale del T.
e con assorbimento di quello condizionato del P..
Le spese del giudizio di Cassazione possono essere integralmente compensate, attesa la
complessità delle questioni trattate, l'assenza di precedenti di legittimità e il contrasto
esistente in seno alla giurisprudenza di merito.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta quello principale, assorbito il ricorso incidentale
condizionato del P., rigetta il ricorso incidentale del T. e compensa le e spese del giudizio di
cassazione.
Così deciso in Roma, li 13.1.2015
Depositato in cancelleria 17 SET 2015
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5) È VALIDA LA PATTUIZIONE DI UN MAGGIORE
CANONE DI LOCAZIONE IN NERO?
TRACCIA ATTO GIUDIZIARIO
Tizio proprietario di un villino locato a Caio, intima al conduttore, lo sfratto per morosità,
contestando l'omesso pagamento dei canoni dei mesi di dicembre e gennaio, per un totale di
Euro 3.400.
Il conduttore, nega l'esistenza della denunciata morosità in quanto l'importo del canone
mensile, risultante dal contratto stipulato il primo marzo 2003 e registrato il successivo 31
marzo, era stato convenuto in Euro 387,35, di tal che la scrittura privata redatta a latere, che
prevedeva il pagamento della maggior somma di Euro 1700, doveva ritenersi nulla ai sensi
della L. 9 dicembre 1998, n. 431, art. 13, comma 1.
Il candidato assunte le vesti del legale di Caio rediga parere motivato
Cassazione, Sez. Unite, 17 settembre 2015, n. 18213
(Pres.. Rovelli - Rel. Travaglino)
Svolgimento del processo
1. F.E., proprietario di un villino locato a S. C.V., B.J., e M.P., intimò ai conduttori, in data
30 gennaio 2004, lo sfratto per morosità, contestando loro l'omesso pagamento dei canoni dei
mesi di dicembre 2003 e gennaio 2004, per un totale di Euro 3.400.
1.1. Si costituirono i conduttori, negando l'esistenza della denunciata morosità in quanto
l'importo del canone mensile, risultante dal contratto stipulato il primo marzo 2003 e
registrato il successivo 31 marzo, era stato convenuto in Euro 387,35, di tal che la scrittura
privata redatta a latere, che prevedeva il pagamento della maggior somma di Euro 1700,
doveva ritenersi nulla ai sensi della L. 9 dicembre 1998, n. 431, art. 13, comma 1.
1.1.2. Essi vantavano, pertanto, un credito verso il locatore pari ad Euro 11.813,85 a titolo di
somme versate in eccesso sino al dicembre del 2003.
1.2. Con ricorso del 9 marzo 2004 i conduttori ribadirono l'illiceità della pretesa del F.,
chiedendo che l'entità del canone dovuto fosse definitivamente accertato nella misura di Euro
387,35 mensili, con condanna del locatore al pagamento della somma di Euro 11.813,85,
versata in eccesso.
1.3. Il F., costituendosi nel secondo giudizio, sostenne che il contratto contenente la
previsione di un canone più basso era stato redatto e registrato "a fini soltanto fiscali" (i.e.,
per sua esplicita ammissione, al fine di consentirgli di evadere in parte qua le imposte
dovute), mentre il "vero contratto" (e il canone reale voluto dalle parti) era quello indicato
"nel contratto dissimulato" (successivamente registrato in data 24 maggio 2004).
Non essendo la registrazione, ratione temporis, un requisito di validità della convenzione
negoziale di locazione, questa doveva ritenersi pienamente efficace nella sua forma (e
sostanza) di contratto dissimulato.
2. Il Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia, riuniti implicitamente i giudizi, ritenne
nullo, con riferimento al canone dissimulato, la convenzione stipulata in difformità da quella
del primo marzo 2003, recante il canone di Euro 387,35.
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2.1. Secondo il giudice di prime cure, nella specie, non poteva configurarsi una fattispecie di
simulazione, in quanto nel secondo "contratto" era previsto che, in deroga al punto 3 della
convenzione di locazione regolarmente registrata, il canone mensile fosse integrato con altri
Euro 1262,65 di modo che l'importo totale (comprensivo delle spese consortili) ammontasse a
Euro 1700,00.
Si trattava, a suo giudizio, di una modifica del precedente contratto, da ritenersi nulla a
fronte del chiaro tenore letterale della L. n. 431 del 1998, art. 13.
2.2. Rigettate le domande del F., il Tribunale stabilì, pertanto, che il canone dovuto dai
conduttori era pari ad Euro 387,35, condannando il locatore al pagamento, in favore dei
predetti, della somma di Euro 11.813,85 (oltre agli interessi legali dalla messa in mora), a
titolo di indebito oggettivo.
3. Nel proporre appello, F.E. lamentò, da un canto, l'errore di fatto in cui era incorso il
giudice di primo grado ritenendo che la scrittura privata fosse successiva al contratto
registrato il 31 marzo 2003, laddove il maggior canone era stato coevamente e liberamente
accettato sin dall'inizio dalle controparti; dall'altro, la falsa interpretazione della L. n. 431
del 1998, art. 13, poichè la registrazione del contratto di locazione rappresentava un
adempimento di carattere esclusivamente fiscale, e non un ostacolo al diritto di agire in
giudizio.
4. La Corte d'Appello capitolina respinse l'impugnazione, confermando l'interpretazione
adottata dal Tribunale - predicativa della inconfigurabilità di una simulazione del canone
stabilito nel primo dei due contratti -, versandosi piuttosto in tema di integrazione negoziale
per effetto del secondo contratto.
4.1. Il giudice di secondo grado preciserà, peraltro, in motivazione, che, anche volendo
considerare "il secondo contratto alla stregua di un negozio dissimulato", esso sarebbe stato
comunque affetto da nullità, con piena vigenza del primo, in applicazione della L. n. 431 del
1998, art. 13, a mente del quale doveva considerarsi nulla "ogni pattuizione volta a
determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto
scritto e registrato".
5. Avverso la sentenza d'appello il F. ha proposto ricorso per cassazione.
5.1 Sostiene il ricorrente che la fattispecie oggetto del giudizio riguardava la locazione di un
immobile ad uso abitativo in relazione alla quale si era proceduto ad uno sfratto per morosità
nel pagamento del canone, il cui reale ammontare era stato indicato e convenuto tra le parti
in una separata scrittura privata, stipulata contestualmente al contratto di locazione
registrato con un canone di minore importo.
5.1.1. Aveva dunque errato la Corte d'Appello nel ritenere inconfigurabile una fattispecie di
simulazione negoziale, discorrendo invece di "integrazione successiva del canone" - per poi
aggiungere ad abundantiam che, in ogni caso, quand'anche di vera e propria simulazione fosse
stato lecito discorrere, il "contratto dissimulato" sarebbe risultato nullo L. n. 431 del 1998, ex
art. 13.
5.2. Nella specie, difatti, si era in presenza di una vera e propria intesa simulatoria, relativa
al prezzo, concordato tra le parti per meri fini fiscali, posto che l'accordo originario recante
la previsione del canone realmente dovuto risaliva addirittura alla proposta di locazione
formulata dalla parte conduttrice e successivamente accettata dal ricorrente.
5.3. Il primo motivo di ricorso, con il quale si lamenta la violazione e falsa applicazione degli
artt. 1414, 1417, 2697, 2733 e 2735 cod. civ., si conclude con i seguenti quesiti di diritto:
- Se, nel caso di specie, le parti abbiano posto in essere un contratto relativamente simulato
quanto al prezzo, fissando il canone di locazione di Euro 1700 come risulta dal contratto
integrativo dissimulato, che era diretto a produrre effetti tra le parti ai sensi dell'art. 1414
c.c., comma 2;
- Se, nel caso di stipulazione di due atti in pari data, il secondo dei quali stabilisca un canone
di locazione maggiore di quello risultante dal primo, ai fini della valutazione degli obblighi
delle parti il giudice non debba tener conto anche dell'importo fissato nel secondo accordo;
- Se, in tema di interpretazione del contratto, il giudice non debba tener conto di tutte le
pattuizioni intercorse tra le parti stabilendo il rapporto tra le stesse.
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5.4. Il secondo motivo di ricorso denuncia un vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Il ricorrente lamenta, sotto altro aspetto, l'illogicità e la contraddittorietà della motivazione
della sentenza con riferimento alla qualificazione della scrittura privata non registrata (fino
al momento della lite) non come contratto dissimulato bensì come integrazione del primo
contratto quanto al canone pattuito.
Dall'insieme della documentazione prodotta, invece, sarebbe emerso che, sin dalla fase delle
trattative, la volontà delle parti era quella di stipulare un contratto simulato, senza
possibilità di individuare una successione temporale tra i due contratti, redatti
contestualmente nello stesso arco temporale.
Si sottolinea ancora che la cosiddetta controdichiarazione costituisce atto di riconoscimento e
di accertamento della simulazione e non atto richiesto ad substantiam per l'esistenza
dell'accordo simulatorio, di modo che, mentre è necessario per l'esistenza della simulazione
che l'accordo simulatorio sia coevo all'atto simulato, e vi partecipino tutte le parti contraenti,
la controdichiarazione può essere successiva all'atto e può provenire anche da una sola delle
parti contraenti.
Il motivo si conclude con la formulazione dei seguenti quesiti di diritto - il cui contenuto,
nella sostanza, può ritenersi equivalente alla "chiara indicazione del fatto controverso" (c.d.
"quesito di fatto") imposta dall'art. 366 bis c.p.c. nella formulazione antecedente alla sua
abrogazione ex L. n. 69 del 2009:- Se l'atto comprovante l'accordo simulatorio in ordine ad un
canone di locazione di maggiore e diverso importo rispetto a quello risultante dal contratto
scritto e registrato può essere sia coevo perchè stipulato in pari data, sia successivo al
negozio apparente;
- Se la controdichiarazione costituisce atto di riconoscimento o di accertamento della
simulazione e non atto richiesto ad substantiam per l'esistenza dell'accordo simulatorio, che
può essere successivo a quello simulato e provenire anche da una sola delle parti contraenti;
- Se la controdichiarazione può risultare anche da un atto, quale il ricorso ex art. 447-bis cod.
proc. civ., sottoscritto dalla sola parte contro nel cui interesse è redatta ed avente valore
confessorio.
5.5. Il terzo motivo di ricorso lamenta, infine, la violazione e falsa applicazione della L. n.
431 del 1998, art. 13, comma 1, norma che, al contrario di quanto affermato in sentenza, non
eleverebbe la registrazione a requisito di validità del contratto, come già affermato da questa
Corte con la sentenza n. 16809 del 2003.
Questi i quesiti di diritto formulati a conclusione dell'esposizione della censura:
- Se deve ritenersi valido ed efficace tra le parti il patto, non registrato o (come nel caso di
specie) registrato tardivamente, con il quale si determina un canone di locazione superiore a
quello risultante dal contratto scritto e registrato;
- Se la L. n. 431 del 1998, art. 13, comma 1 si riferisca all'ipotesi di simulazione del canone di
locazione oppure esclusivamente a quella in cui, nel corso dello svolgimento del rapporto,
venga pattuito un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario, che
deve restare invariato salvo l'eventuale aggiornamento ISTAT per tutta la durata del rapporto.
- Se l'occultamento a fini fiscali di parte del canone di locazione determini o meno la nullità
della relativa pattuizione.
6. La terza sezione di questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 37/2014, ha rimesso alle
Sezioni Unite gli atti del procedimento, evidenziando la necessità di rimeditare
l'orientamento espresso da Cass. 16089 del 2003, secondo cui, in tema di locazioni abitative,
la L. 9 dicembre 1998, n. 431, art. 13, comma 1, nel prevedere la nullità di ogni pattuizione
volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal
contratto scritto e registrato (e nel concedere in tal caso al conduttore, al comma 2, l'azione
di ripetizione), non si riferisce all'ipotesi della simulazione relativa del contratto di locazione
rispetto alla misura del corrispettivo (nè a quella della simulata conclusione di un contratto di
godimento a titolo gratuito dissimulante una locazione con corrispettivo), in tal senso
deponendo una lettura costituzionalmente orientata della norma, giacchè, essendo valido il
contratto di locazione scritto ma non registrato (non rilevando, nei rapporti tra le parti, la
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totale omissione dell'adempimento fiscale), non può sostenersi che essa abbia voluto
sanzionare con la nullità la meno grave ipotesi della sottrazione all'imposizione fiscale di una
parte soltanto del corrispettivo (quello eccedente il canone risultante dal contratto scritto e
registrato) mediante una pattuizione scritta ma non registrata. La nullità prevista dal citato
art. 13, comma 1, è volta piuttosto a colpire la pattuizione, nel corso di svolgimento del
rapporto di locazione, di un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto
originario (descritto, come impone, a pena di nullità, l'art. 1, comma 4, della medesima
legge, e registrato, in conformità della regola della generale sottoposizione a registrazione di
tutti i contratti di locazione indipendentemente dall'ammontare del canone), la norma
essendo espressione del principio della invariabilità, per tutto il tempo della durata del
rapporto, del canone fissato nel contratto (salva la previsione di forme di aggiornamento,
come quelle ancorate ai dati Istat).
6.1. Nell'ordinanza di rimessione, il collegio della terza sezione rammenta che, al tale
pronuncia, ne sono seguite altre del medesimo tenore (ex aliis, Cass. n. 8230 del 07 aprile
2010, n. 8148 del 3 aprile 2009, n. 19568 del 29 settembre 2004), ma ritiene di non poter
ulteriormente confermare tale orientamento (peraltro formatosi in contrapposizione
all'opposto indirizzo interpretativo adottato dalla giurisprudenza di merito, secondo la quale
la registrazione costituirebbe un vero e proprio requisito di validità del contratto di
locazione).
6.2. Dopo aver evocato il percorso argomentativo con la quale questa Corte, con la sentenza
del 2003, era giunta alla conclusione sopra indicata, si rammenta ancora che la pronunzia
aveva, a suo tempo, condiviso e fatta propria una isolata tesi dottrinaria - peraltro disattesa
dalla pressochè unanime dottrina specialistica -, sottolineandosi poi come la norma introdotta
dal legislatore nel 1998 fosse funzionale a promuovere l'emersione delle locazioni in nero per
contrastare il mercato sommerso degli affitti e il fenomeno dell'evasione o dell'elusione
fiscale, con l'intento di superare la tesi dell'irrilevanza degli obblighi tributari ai fini della
validità del contratto.
6.2.1. La tesi accolta dalla sentenza n. 16089 del 2003 appariva, pertanto, in contrasto con la
stessa lettera della legge, in quanto la L. n. 431 del 1998, art. 13, comma 1, non consentiva
alcuna distinzione tra pattuizioni cronologicamente anteriori o posteriori, ovvero tra contratti
"liberi" e a "canone fisso". Diversamente da quanto anche di recente affermato (da ultimo,
Cass. 7/4/2010, n. 8230), non poteva fondatamente sostenersi che soltanto all'esito
dell'entrata in vigore della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 346, la norma tributaria fosse
stata elevata al rango di norma imperativa, con conseguente nullità del negozio ai sensi
dell'art. 1418 c.c. in caso di relativa violazione.
6.4. Non apparivano condivisibili al collegio remittente, in particolare, gli assunti secondo
cui:
a) la mancata registrazione del contratto di locazione non determinava alcuna nullità
negoziale (non essendo stata la registrazione del contratto di locazione elevata a requisito di
validità del contratto);
b) la correlazione della nullità della pattuizione di un canone superiore a quello risultante dal
contratto scritto e registrato con l'omessa registrazione del patto recante la maggiorazione
non era desumibile dal tenore della L. n. 431 del 1998, art. 13, commi 1 e 2;
c) il contratto scritto ma non registrato doveva ritenersi valido, stante la pretesa, "palese
irragionevolezza" della tesi secondo cui si sarebbe voluto sanzionare con la nullità la meno
grave ipotesi della sottrazione alla imposizione fiscale di una parte soltanto del corrispettivo
(quella eccedente il canone risultante dal contratto scritto e registrato) mediante una
pattuizione scritta ma non registrata, laddove tale sanzione non era viceversa prevista in caso
di totale omissione dell'adempimento;
d) si configurava piuttosto (come sostenuto dall'odierno ricorrente), una legittima ipotesi di
simulazione relativa, con la conseguenza che il canone dovuto non poteva che essere quello
effettivamente "voluto" dalle parti, e risultante dalla controdichiarazione.
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6.5. L'auspicato revirement avrebbe potuto, inoltre, affermarsi, alla luce di due fondamentali
e recenti approdi giurisprudenziali, quello sulla causa in concreto e quello in tema di abuso
del diritto.
6.5.1. Sotto il primo profilo, si osserva che, in considerazione della segnalata "finalità fiscale"
della normativa, dovrebbe aversi riguardo alla sostanza dell'operazione posta in essere dalle
parti, in quanto la pattuizione di un canone superiore rispetto a quello indicato nel contratto
scritto e registrato risulta funzionalmente volta a realizzare proprio il risultato vietato dalla
norma, a garantire cioè al locatore di ritrarre dalla locazione dell'immobile un reddito
superiore rispetto a quello assoggettato ad imposta. La causa concreta del negozio, dunque,
andrebbe ricercata nello scopo di ottenere uno specifico risultato vietato dalla legge, onde la
impredicabilità di una sua validità/efficacia (si sottolinea, in proposito, come questa stessa
Corte, in altre occasioni, abbia avuto modo di affermare che la norma volta alla tutela di
interessi pubblicistici si profila per ciò stesso come imperativa ed inderogabile, non soltanto
nei rapporti tra P.A. e privato - Cass. ss.uu. 17/6/1996, n. 5520-, ma anche in quelli tra
privati -Cass. ss.uu. 17/12/1984, n. 6600; Cass. 17/12/1993, n. 12495, e, in tema di locazioni,
Cass. 4/2/1992, n. 1155-, anche se l'orientamento non poteva dirsi pacifico -in senso
contrario, difatti, si sono espresse Cass. 22/3/2004, n. 5672; Cass. 20/3/1985, n. 2034, e, in
tema di locazioni, Cass., 17/12/1985, n. 7412-).
6.5.2. Sotto il secondo profilo si rammenta che, in epoca successiva all'affermarsi
dell'orientamento de quo, questa stessa Corte aveva più volte affermato e applicato il
principio del divieto di abuso del diritto (Cass. 18/9/2009, n. 20106; Cass. 15/10/2012, n.
17642), specie in tema di imposte, in particolare precisando che l'esame delle operazioni
poste in essere dal contribuente deve essere in ogni caso compiuto alla stregua del principio
desumibile dal relativo concetto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria (in materia
fiscale, ex aliis, Corte di Giustizia 21/2/2006, in causa C-255/02), secondo cui non possono
trarsi benefici da operazioni che, seppure realmente volute e quand'anche immuni da
invalidità, risultino, alla stregua di un insieme di elementi obiettivi, compiute essenzialmente
allo scopo di ottenere un indebito vantaggio fiscale, in difetto di ragioni economicamente
apprezzabili che le giustifichino, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale (tra
le altre, Cass. 29/9/2006, n. 21221; Cass. ss.uu. 23/12/2008, n. 30055; Cass. 9/3/2011, n.
5583; Cass. 28/6/2012, n. 10807; Cass., 30/11/2012 n. 21390, e, tra le più recenti, Cass.
6/12/2013, n. 27352). Tale, generale principio "antielusivo" trovava il suo fondamento
nell'art. 53 della Costituzione, la cui ratio rendeva ultroneo l'eventuale accertamento della
simulazione o del carattere fraudolento dell'operazione, da valutare, viceversa, nella sua
reale essenza, non potendo al riguardo influire ragioni economiche meramente marginali o
teoriche, inidonee a fornire una spiegazione alternativa dell'operazione rispetto al mero
risparmio fiscale, come tali quindi manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti
rispetto alla predetta finalità (Cass. 21/4/2008, n. 10257).
7. Sulla base di queste argomentazioni, che hanno indotto il collegio remittente a ritenere
che negozio posto in essere al fine di realizzare la vietata finalità di evasione o elusione
fiscale non potrebbe più, sotto plurimi profili, (continuare a) ritenersi ammissibile e lecito,
l'ordinanza interlocutoria ravvisa la necessità di rimeditare l'orientamento affermatosi in seno
alla giurisprudenza di questa Corte all'indomani della ricordata pronuncia n. 16089 del 2003,
sollecitando l'intervento di queste sezioni unite in considerazione della circostanza che "il
rigetto del ricorso, con conseguente conferma dell'impugnata decisione, comporterebbe la
necessità di farsi luogo ad un radicale revirement di un orientamento interpretativo ormai
consolidato presso il giudice di legittimità, al fine di evitarsi -in una materia connotata da una
diffusissima contrattazione e caratterizzata da un'accentuata litigiosità- un contrasto
potenzialmente foriero di disorientanti oscillazioni interpretative che potrebbero conseguirne
e comunque quale questione di massima di particolare importanza".
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato.
2. Vanno premesse al suo esame le considerazioni che seguono.
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3. La norma di cui alla L. n. 431 del 1998, art. 13 trova applicazione nel caso di specie in
quanto il contratto è stato stipulato nel marzo del 2003, in epoca, cioè, antecedente
all'entrata in vigore della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 346, (legge finanziaria
2005), a mente del quale "I contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti
relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono
nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati", disposizione destinata a trovare
applicazione solo per i contratti stipulati a partire dal 1 gennaio 2005.
3.1. La L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 346, prevede che i contratti di locazione
sono nulli se non sono registrati.
3.2. Il D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale)
ha ulteriormente innovato la disciplina della registrazione dei contratti di locazione ad uso
abitativo con l'art. 3, commi 8 e 9, che testualmente recita: "Ai contratti di locazione degli
immobili ad uso abitativo, comunque stipulati, che, ricorrendone i presupposti, non sono
registrati entro il termine stabilito dalla legge, si applica la seguente disciplina:
a) la durata della locazione è stabilita in quattro anni a decorrere dalla data della
registrazione, volontaria o d'ufficio; b) al rinnovo si applica la disciplina di cui alla della citata
L. n. 431 del 1998, art. 2, comma 1; c) a decorrere dalla registrazione il canone annuo di
locazione è fissato in misura pari al triplo della rendita catastale, oltre l'adeguamento, dal
secondo anno, in base al 75 per cento dell'aumento degli indici ISTAT dei prezzi al consumo
per le famiglie degli impiegati ed operai. Se il contratto prevede un canone inferiore, si
applica comunque il canone stabilito dalle parti. 9. Le disposizioni di cui alla L. 30 dicembre
2004, n. 311, art. 1, comma 346, ed al comma 8 del presente articolo si applicano anche ai
casi in cui: a) nel contratto di locazione registrato sia stato indicato un importo inferiore a
quello effettivo; b) sia stato registrato un contratto di comodato fittizio (sull'esito del giudizio
di costituzionalità di tali norme, amplius, infra, sub 4.4).
3.3. Norma di carattere generale risulta, infine, quella di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212,
art. 10, commi 1 e 3, (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), secondo
cui: "I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio
della collaborazione e della buona fede" e "Le violazioni di disposizioni di rilievo
esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto".
4. Va poi ricordato come la stessa Corte costituzionale sia stata più volte investita della
questione in esame o di questioni ad essa connesse.
4.1. La prima pronuncia che merita di essere segnalata è quella relativa alla L. n. 431 del
1998, art. 7 (che poneva quale condizione per la messa in esecuzione del provvedimento di
rilascio dell'immobile locato, adibito ad uso abitativo, la dimostrazione, da parte del
locatore, della regolarità della propria posizione fiscale quanto al pagamento dell'imposta di
registro sul contratto di locazione, dell'ICI e dell'imposta sui redditi relativa ai canoni).
Il giudice delle leggi (con la sentenza n. 333 del 2011) ritenne costituzionalmente illegittima
la norma perchè l'onere in parola, imposto al locatore a pena di improcedibilità dell'azione
esecutiva, aveva finalità esclusivamente fiscali, prive di qualsivoglia connessione con il
processo esecutivo e con gli interessi che lo stesso è diretto a realizzare, traducendosi così in
una preclusione o in un ostacolo all'esperimento della tutela giurisdizionale, in violazione
dell'art. 24 Cost..
4.2. Con l'ordinanza n. 420 del 2007, la Corte costituzionale, investita della questione di
costituzionalità della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 346, nella parte in cui
prevede che i contratti di locazione sono nulli se non sono registrati, pronunciò ordinanza di
manifesta infondatezza della questione, per avere il remittente evocato l'art. 24 Cost. che
costituiva nella specie parametro non conferente, stante il carattere sostanziale della norma
denunciata, non attinente alla materia delle garanzie di tutela giurisdizionale. In tale
occasione, tuttavia, la Corte ritenne di dovere affermare che la L. n. 311 del 2004, art. 1,
comma 346, non introduce ostacoli al ricorso alla tutela giurisdizionale, ma eleva la norma
tributaria al rango di norma imperativa, la cui violazione determinava la nullità del negozio ai
sensi dell'art. 1418 cod. civ..
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4.3. La Consulta si è poi occupata ex professo dell'art. 13 della L. n. 431 nella parte in cui,
rispettivamente, si sanciva la nullità delle pattuizioni volte a determinare un importo del
canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato (comma 1) e consentiva
al conduttore di chiedere la restituzione delle somme indebitamente corrisposte (comma 2).
Con l'ordinanza n. 242 del 2004, la questione venne dichiarata manifestamente inammissibile
perchè il rimettente, pur alla luce delle diverse tesi predicate in giurisprudenza circa la
natura e gli effetti della registrazione del contratto di locazione e la corrispondente pluralità
di opinioni dottrinarie, aveva omesso quel doveroso tentativo di ricercare un'interpretazione
adeguatrice del testo di legge denunciato.
4.4. Vanno infine essere segnalate due ulteriori pronunce di manifesta inammissibilità della
questione di costituzionalità della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 346, con
riferimento ai parametri di cui agli artt. 3 e 41 Cost., e di manifesta infondatezza e on
riferimento al parametro di cui all'art. 24 Cost. (ord. nn. 389 del 2008 e 110 del 2009),
nonchè la sentenza n. 50 del 2104, con la quale il giudice delle leggi ha dichiarato la
incostituzionalità per eccesso di delega del D.Lgs. n. 23 del 2011, art. 3, commi 8 e comma 9.
5. Appare opportuno rammentare ancora (sia pur con inevitabile sintesi) le riflessioni della
dottrina specialistica in subiecta materia, atteso che il problema dell'incidenza della
violazione delle norme fiscali o tributarie sulla validità o efficacia degli atti negoziali dei
privati ebbe a porsi sin da epoca assai risalente (in particolare, nel pensiero di un autore che,
nel 1874, si sarebbe espresso con toni fortemente critici nei confronti del progetto di legge
Minghetti del novembre 1873, poi respinto dal voto della Camera del 24 maggio 1874, con il
quale si proponeva di introdurre la sanzione della nullità civilistica per gli atti non registrati).
5.1. Il dibattito dottrinario, sviluppatosi dopo l'approvazione della L. n. 431 del 1998, art. 13,
commi 1 e 2, è poi proseguito con riferimento, dapprima, all'art. 1, comma 346, della legge
finanziaria del 2005, e, successivamente, al D.Lgs. n. 23 del 2011, art. 3.
5.2. Si è così sostenuto:
- da un canto, che la norma di cui al citato art. 13, nella parte in cui sancisce la nullità delle
pattuizioni volte a determinare un importo del canone superiore a quello risultante dal
contratto scritto e registrato (comma 1) e consente al conduttore di chiedere la restituzione
delle somme indebitamente corrisposte (comma 2), si applicherebbe anche nell'ipotesi di un
contratto di locazione rispettoso della forma scritta e debitamente registrato al quale acceda
una controdichiarazione scritta indicativa di un canone di importo superiore a quello indicato
nel contratto registrato (si ritiene, cioè, sulla base di una interpretazione letterale della
norma, certamente ricompresa nel suo ambito di applicazione l'ipotesi di simulazione relativa
di uno degli elementi del contratto, da ritenersi nullo e improduttivo, in parte qua, di alcun
effetto tra le parti);
- dall'altro, che la registrazione non potrebbe essere considerata un requisito strutturale del
contratto in aggiunta a quelli indicati dall'art. 1325 cod. civ., di talchè la sua mancanza non
dovrebbe incidere sulla validità del medesimo - di qui, i dubbi di costituzionalità sia per
l'irragionevolezza intrinseca della norma, sia per violazione dell'art. 53 Cost.: e ciò perchè il
principio quod nullum est nullum producit effectum impone di considerare che, in presenza di
un contratto nullo, il fisco non potrebbe esigere i periodi di imposta antecedenti a tale
rilevamento, mentre non potrebbe esservi interferenza tra violazioni di ordine fiscale e la
disciplina della validità del contratto (tale impostazione trova fondamento sulla distinzione
tra frode alla legge, determinativa, ai sensi del 1344 c.c., dell'illiceità della causa - con
conseguente nullità del contratto ex art. 1418 c.c. -, e frode al fisco, i cui effetti rimangono
confinati entro l'ambito dell'ordinamento tributario, poichè, si aggiunge, la nullità è collegata
alla tutela di interessi "superindividuali" e non particolari come quelli di cui è portatore il
fisco);
- dall'altro ancora, che il sintagma "nullità di ogni pattuizione" sarebbe predicativo di una
nullità atipica, speciale, ed estranea al paradigma della nullità come disegnata dal codice
civile: nonostante la formula utilizzata dal legislatore, si dovrebbe pertanto ritenere che la
norma abbia inteso introdurre una condicio iuris diretta a negare l'efficacia di un contratto ex
se perfetto. La registrazione avrebbe, conseguentemente, l'effetto di sanare il rapporto
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locatizio con efficacia ex nunc, così che i canoni dovuti dal conduttore, se non ancora pagati,
sarebbero inesigibili e, se già corrisposti, ripetibili ex lege;
- infine, che la registrazione del contratto sarebbe un presupposto legale estrinseco di
validità del negozio: tale interpretazione prende le mosse dalla necessità di una lettura
sistematica della materia, che tenga conto anche dell'art. 1, comma 346, L. finanziaria del
2005 (il quale sancisce, come già accennato, che "i contratti di locazione, o che comunque
costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni,
comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati"). La
risposta al problema dell'efficacia ex nunc o ex tunc della registrazione tardiva della
pattuizione dissimulata postulerebbe, dunque, coerenza con la disciplina della fattispecie,
ancor più grave, dell'omissione integrale dell'onere di registro, ribaltandosi, altrimenti,
nell'ambito del regime civilistico della violazione fiscale il generale principio di uguaglianza di
cui all'art. 53 Cost.. In considerazione, quindi, della più grave fattispecie della omessa
registrazione, si dovrebbe ritenere che il legislatore abbia comminato una nullità espressa e
tassativa, idonea a rientrare, tra "quei casi stabiliti dalla legge" di cui è menzione nell'art.
1418 c.c., u.c..
5.3. All'indomani dell'entrata in vigore della norma, venne poi formulata una diversa (e
isolata) tesi, secondo cui il legislatore avrebbe inteso introdurre esclusivamente il principio di
invarianza del canone, destinato a concretizzarsi nel divieto di ogni successivo aumento del
canone inizialmente pattuito, a pena di nullità: tesi, quest'ultima, come si pone in evidenza
nell'ordinanza interlocutoria, seguita e fatta propria da questa Corte (nel tentativo di offrire
un'interpretazione costituzionalmente orientata alla norma), cui in seguito altri autori
aderiranno, ritenendo che il giudice di legittimità, nel proporre una lettura della disposizione
di legge e del suo ambito di operatività volta ad allontanarne i dubbi di costituzionalità,
prospettasse la condivisibile interpretazione in base alla quale un contratto di locazione
concluso in forma scritta, ma non registrato, è valido e vincolante per le parti, e può essere
fatto valere in giudizio.
6. Il primo e secondo motivo di ricorso, che lamentano sotto molteplici aspetti un'erronea
applicazione di norme di legge e un'erronea interpretazione della fattispecie concreta da
parte del giudice di appello - che, in via principale, aveva ritenuto inconferente il richiamo
all'istituto della simulazione oggettiva parziale (di prezzo) -, pur nella fondatezza in diritto di
buona parte delle relative argomentazioni, non possono essere accolti.
6.1. Afferma, in sintesi, il ricorrente:
- che non si sarebbe potuto in alcun modo dubitare della predicabilita di una intesa
simulatoria vertente sul prezzo per meri fini fiscali, posto che l'accordo originario con
indicazione del canone realmente dovuto risaliva addirittura alla proposta di locazione
formulata dalla parte conduttrice il 4.12.2002, accettata dal locatore il successivo
24.12.2002;
- che da tale "testo negoziale" si sarebbero poi diramate le due ulteriori pattuizioni, una
contenuta nel contratto di locazione dell'1.3.2003, contenente la previsione di un canone pari
ad Euro 387,35, l'altra consegnata ad una scrittura privata a latere (così testualmente definita
dal ricorrente al folio 6 dell'odierno atto di impugnazione, e così altrettanto testualmente
definita nell'intestazione dell'atto in parola), coeva al primo contratto, recante la previsione
di un "canone integrato" pari ad Euro 1262,65, il tutto per un corrispettivo totale di Euro
1700, comprensivo di Euro 50 per spese consortili;
- che la ricordata proposta prevedeva l'obbligo del conduttore di garantire il locatore con una
fideiussione bancaria a prima richiesta per l'importo di Euro 25.000, nonchè di procedere ad
un deposito cauzionale pari a Euro 4.950 (corrispondente all'importo di tre mensilità del
canone realmente dovuto);
che, contestualmente all'immissione in possesso dell'immobile, i conduttori avevano versato al
F. due assegni di 1700 Euro ciascuno (pari a due mensilità del canone effettivo di locazione);
che, in data 1.3.2003, venivano contestualmente redatti tanto il contratto di locazione con
indicazione del canone apparente, quanto la scrittura privata a latere nella quale era indicato
il canone aggiuntivo per complessivi Euro 1700;
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che una corretta analisi della complessa vicenda non avrebbe potuto condurre a soluzione
diversa da quella dall'accertamento della simulazione parziale del contratto relativamente al
corrispettivo della locazione (così, testualmente, parte ricorrente, ancora al folio 6
dell'impugnazione), non essendovi alcuna incompatibilità "tra simulazione relativa e
integrazione negoziale, essendo la seconda niente altro che l'effetto della prima, posto che il
negozio dissimulato integra o modifica il contratto simulato, così che, della scrittura a latere,
il giudice avrebbe dovuto tenere debitamente conto in quanto idonea ad indicare l'oggetto del
contratto realmente voluto" (come si legge al folio 8 del ricorso);
che, contraddittoriamente, il giudice di merito, dopo avere escluso la simulazione, aveva poi
ritenuto pienamente vigente tanto il primo quanto il secondo "contratto", senza peraltro
tener conto dell'importo fissato nell'accordo a latere (testualmente definito, al folio 9,
"negozio dissimulato"), essendo chiaro l'intento di occultamento del corrispettivo a fini fiscali;
che palesemente erronea in punto di fatto appariva la stessa ricostruzione cronologica degli
eventi operata dalla Corte territoriale, discorrendosi, in motivazione di "patto successivo al
primo" - con ciò omettendosi del tutto di considerare che il contratto di locazione e la
scrittura privata a latere erano stati stipulati contestualmente; che la controdichiarazione, in
base al meccanismo simulatorio, doveva ritenersi "una specie di negozio ausiliario che fa
corpo con il contratto simulato, nel senso di determinare il significato e la portata della
dichiarazione apparente, che costituisce atto di riconoscimento o di accertamento della
simulazione, e non atto richiesto ad substantiam per l'esistenza dell'accordo simulatorio". Di
tal che, si prosegue, "se è necessario, per l'esistenza della simulazione che l'accordo
simulatorio sia coevo all'atto simulato e vi partecipino tutte le parti contraenti, nulla
impedisce, viceversa, che la controdichiarazione sia posteriore a tale atto, e provenga anche
da una sola delle parti;
- che, nel caso in esame, l'assetto voluto dai contraenti era quello di tenere celato al fisco
l'effettivo importo del canone tramite la contestuale stipulazione di due accordi, nel secondo
dei quali le parti dichiaravano il reale contenuto del rapporto.
7. Osserva il collegio che l'inquadramento della fattispecie concreta nell'ambito dell'istituto
della simulazione non appare seriamente revocabile in dubbio.
7.1. La ricostruzione che, della complessa vicenda, compie l'odierno ricorrente, in larga
misura conforme a diritto, deve peraltro essere in parte corretta, in parte precisata.
7.2. E' conforme a diritto la tesi del ricorrente secondo cui, nella specie, ci si troverebbe al
cospetto di un procedimento simulatorio (attesa la natura sostanzialmente "procedimentale"
dell'istituto disciplinato dagli artt. 1414 c.c. e ss.), mentre va respinta la conseguente
ricostruzione in termini di vera e propria "duplicazione" negoziale - i.e. di attuazione di tale
procedimento attraverso la attuazione di un primo negozio simulato e di un secondo,
autonomo negozio dissimulato.
7.2.1. Il procedimento simulatorio si sostanzia, difatti, sul piano morfologico, in un accordo
simulatorio e in una successiva, quanto unica, convenzione negoziale, tanto nell'ipotesi di
simulazione assoluta (assenza di effetti negoziali) quanto di simulazione relativa (produzione
di effetti diversi da quelli riconducibili al negozio apparente).
7.2.2. Tanto nel caso della simulazione assoluta, quanto in quello della simulazione relativa,
difatti, l'atto stipulato dalle parti è unico (mentre, come di qui a breve meglio si dirà, la c.d.
controdichiarazione non è altro che uno strumento probatorio idoneo a fornire la "chiave di
lettura" del negozio apparente, caratterizzata dalla eventualità e dalla irrilevanza della
contestuale partecipazione alla sua stesura di tutti i soggetti protagonisti dell'accordo, tanto
che essa può anche provenire da uno solo di essi, e sostanziarsi in una dichiarazione
unilaterale, perciò solo priva di ogni veste contrattuale).
7.2.3. Non appare, pertanto, corretto in punto di diritto discorrere di contratto simulato e
contratto dissimulato come di due diverse e materialmente separate convenzioni negoziali
(nè tantomeno appare corretto ricondurre il c.d. negozio dissimulato alla
controdichiarazione, come talora si suole affermare).
7.2.3. Tale unità strutturale della simulazione è poi destinata ad evolvere, sul piano
funzionale: o nella improduttività di effetti (simulazione assoluta) ovvero nella produzione di
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effetti diversi da quelli riconducibili, pur sempre, a quell'unica convenzione negoziale
stipulata dalle parti. Il caso paradigmatico dell'istituto della simulazione, difatti - la
compravendita destinata a celare una donazione - è palese conferma della bontà di tale
ricostruzione dell'istituto, volta che i protagonisti dell'accordo, recatesi da un notaio,
presenziano e partecipano alla redazione di un unico contratto -apparentemente, una
compravendita -, che in realtà costituisce esso stesso (di qui la dissimulazione negoziale)
donazione, a condizione che, di tale contratto, quell'atto di (apparente) compravendita
contenga i requisiti di sostanza e di forma.
7.2.4. E' questo il senso della disposizione di cui all'art. 1414 c.c., comma 2, nella parte in
cui, consentendo la produzione degli effetti del contratto "diverso da quello apparente" che
"le parti abbiano voluto concludere", impone, di tale contratto dissimulato, la sussistenza "
dei requisiti di sostanza e di forma", che non possono essere ricercati se non nell'unica
convenzione negoziale materialmente stipulata (nell'esempio poc'anzi ricordato, nel contratto
di compravendita, che produrrà gli effetti della donazione a condizione, che, di esso,
contenga appunto "i requisiti di sostanza e di forma", e cioè risulti redatto per atto pubblico,
in presenza di due testimoni, e sia caratterizzato, sul piano causale, dall'indispensabile
intento di liberalità).
7.3. Così precisati gli aspetti terminologici (oltre che sostanziali) del procedimento
simulatorio, con riferimento, rispettivamente, al contratto simulato e a quello dissimulato,
nel senso della relativa uni(ci)tà morfologica (unità che, diversamente, il ricorrente mostra a
più riprese di non cogliere appieno, discorrendo di negozio simulato e di negozio dissimulato
con riferimento, rispettivamente, al primo contratto di locazione recante l'indicazione del
canone apparente e alla "scrittura privata a latere", della quale, peraltro, egli riconosce
altrove la natura di controdichiarazione), va ulteriormente indagata la fattispecie (quale
quella in esame) della simulazione relativa oggettiva parziale.
7.3.1. Non è questa la sede per esaminare funditus la questione della riconducibilità tout
court di tale fattispecie all'istituto della simulazione, ovvero (come più pensosamente
suggerito da autorevole, risalente dottrina) di estrapolarne tutte le ipotesi di c.d. simulazione
(soggettiva per interposizione fittizia e) oggettiva parziale, come la stessa dizione normativa
sembrerebbe suggerire (l'art. 1414 c.c. limita, difatti, l'operatività dell'istituto all'area
dell'intera struttura negoziale sub specie della produzione/non produzione di effetti, poichè i
due sintagmi "contratto simulato" e contratto dissimulato" sembrano destinati a circoscriverne
l'ambito di applicazione alle sole ipotesi di convenzioni negoziali valutate nel loro complesso,
e non attraverso la scomposizione dei relativi elementi di validità/efficacia).
7.3.2. Nel convenirsi con la tradizionale impostazione - che estende anche ai singoli elementi
negoziali l'applicabilità delle regole della simulazione - deve comunque osservarsi che la
innegabile unità strutturale del procedimento simulatorio (i.e. l'unicità della convenzione
negoziale, oggetto di simulazione tanto assoluta quanto relativa) va a più forte ragione
predicata con riferimento alla simulazione oggettiva di prezzo.
7.4. Il relativo procedimento simulatorio consta, difatti, di un previo accordo tra tutte le
parti e di un unico negozio (nella specie, il contratto di locazione contenente l'indicazione di
un canone fittizio), cui accede (in guisa di elemento non essenziale del procedimento) una
controdichiarazione contenente l'indicazione del prezzo realmente convenuto.
7.5. La natura della controdichiarazione, all'interno di tale procedimento, è pertanto quella,
e solo quella, di un atto destinato, in caso di controversia tra le parti, alla prova della
(dis)simulazione parziale dell'oggetto dell'obbligazione (nella specie, il prezzo della
locazione).
7.5.1. Tale natura, sul piano morfologico, non consente di indagare (attesa la sostanziale
inutilità di tale indagine) sulla forma, contrattuale o meno, che la controdichiarazione è
destinata a rivestire nel caso concreto: come lo stesso ricorrente non omette di rammentare,
difatti, tale controdichiarazione può assumere perfino la veste della dichiarazione
unilaterale, addirittura non coeva, ma successiva, alla stipula del negozio (Cass. n. 14590 del
2003, ex aliis).
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7.5.2. All'interno del procedimento simulatorio, risulta, pertanto, del tutto irrilevante che la
controdichiarazione assuma forma di atto unilaterale, ovvero (come nella specie) forma e
sostanza di contratto - del tutto sovrapponibile al primo, ma contenente l'indicazione del vero
prezzo dovuto.
7.5.3. La sua funzione resta, difatti, rigorosamente limitata al piano interpretativo (quello
che consente, cioè, di disvelare e far prevalere la realtà sull'apparenza) e al piano probatorio
(attesane la indefettibilità in caso di controversia insorta successivamente tra le parti, cui
non è consentita la prova per testimoni o per presunzioni, salva illiceità del negozio).
7.6. La morfologia e la funzione di quello che viene impropriamente definito da parte del
ricorrente come "secondo contratto" (nella specie, addirittura registrato, all'indomani
dell'inadempimento dei conduttori all'obbligo di corrispondere il canone dissimulato), restano,
pertanto rigorosamente circoscritte a tale, duplice piano di indagine (onde, va ripetuto, la
irrilevanza della forma contrattuale), e non ne mutano, appunto, morfologia e funzione:
quella, esclusiva, di controdichiarazione (come a più riprese mostra, per altro verso, di
ritenere lo stesso ricorrente nel discorrere di "scrittura privata a latere"), che, una volta
redatta, completa e conclude il procedimento di simulazione relativa oggettiva parziale.
7.7. Alla luce di tali premesse, la ricostruzione della fattispecie concreta può essere compiuta
nei termini che seguono:
a) Parte locatrice e parte conduttrice convengono, con accordo simulatorio, di stipulare un
contratto di locazione indicando, in seno ad esso - destinato alla registrazione - un canone
inferiore a quello realmente pattuito;
b) Le parti redigono materialmente un contratto di locazione contenente l'indicazione di tale
canone fittizio;
c) Le stesse parti, con controdichiarazione scritta (coeva alla stipula), alla cui redazione
partecipano tutte e contestualmente, convengono che il canone indicato nel contratto
registrato deve essere modificato in aumento, secondo quanto indicato nella
controdichiarazione stessa, avendo il locatore manifestato il proprio intento di frodare il
fisco.
7.7.1. Cosi completatosi il procedimento simulatorio, la prima delle due funzioni di tale
controdichiarazione, quella interpretativa del contratto (dis)simulato in parte qua, consente
di "rileggere" la convenzione negoziale (l'unica convenzione esistente e rilevante sul piano
contrattuale) nel senso che il canone dovuto era pari a 1700 Euro e non agli apparenti 365
indicati nell'atto registrato.
7.8. Tale sostituzione deve ritenersi nulla, ai sensi e per gli effetti della L. n. 431 del 1998,
art. 13.
7.8.1. Non può, difatti, darsi ulteriore seguito all'interpretazione della norma adottata da
questa Corte con la più volte ricordata sentenza n. 16089 del 2003.
8. E ciò ritiene il collegio di poter affermare alla stregua delle considerazioni che seguono.
8.1. La sentenza n. 16089 poneva in stretta relazione, comparandole, due fattispecie
apparentemente omogenee, quella della elusione fiscale parziale e quella (più grave)
dell'evasione totale delle imposte, affermando che la mancata previsione, ex L. n. 431 del
1998, di una nullità testuale per il contratto non registrato (vicenda funzionale alla più grave
violazione fiscale costituita dalla evasione totale) impediva di considerare nullo il contratto
registrato con un canone inferiore a quello realmente pattuito, volta che tale ipotesi
(funzionale alla realizzazione di una meno grave elusione parziale), se ricondotta nell'alveo
dell'art. 1418 c.c., avrebbe implicato non pochi problemi di costituzionalità della norma di cui
all'art. 13 della L. del 1998.
8.1.2. L'accento veniva posto, pertanto, sulle conseguenze e sulla rilevanza della
registrazione del negozio rispetto alla eventuale declaratoria di nullità dello stesso: sulla
possibilità, in altri termini, che proprio la (mancata) registrazione fosse il parametro di
riferimento per valutare l'eventuale effetto di nullità del contratto di locazione.
8.2. Posta in questi termini la questione, la soluzione adottata dal collegio della 3 sezione
civile nel 2003 non poteva che essere quella predicata in sentenza, poichè la L. del 1998
conteneva disposizioni testualmente volte ad escludere che la mancata registrazione del
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contratto ne comportasse ipso facto la nullità: di qui, la insuperabile difficoltà di ritenere
nullo il contratto registrato con canone fittizio, attesa la minor gravità, sul piano fiscale,
dell'elusione parziale rispetto all'evasione totale.
9. E' convincimento di queste sezioni unite che la quaestio nullitatis debba, peraltro, essere
posta in termini affatto diversi rispetto a quelli delineati dalla sentenza del 2003 con
riferimento alla fattispecie in esame - salvo quanto in seguito si andrà esponendo con
riferimento alla ipotesi (quale quella di specie) di registrazione successiva del contratto
contenente l'indicazione del canone realmente pattuito e realmente versato dal conduttore.
9.1. La ritenuta omogeneità delle fattispecie astratte esaminate dalla pronuncia del 2003,
difatti, risulta soltanto apparente.
9.2. L'ipotesi disciplinata dall'art. 13 commi 1 e 2, e la relativa previsione di nullità del patto
volto a determinare un maggior canone rispetto a quello dichiarato nel contratto registrato
con canone fittizio, correttamente ricondotta nell'alveo del procedimento simulatorio, come
si è avuto modo di chiarire, non consente alcuna comparazione con la fattispecie del
contratto non registrato.
9.3. L'interpretazione dell'art. 13 deve, difatti, condursi alla stregua della più generale
riflessione secondo cui già nel 1998 la volontà del legislatore era quella di sanzionare di
nullità la sola previsione occulta di una maggiorazione del canone apparente, così come
indicato nel contratto registrato, in guisa di vera e propria lex specialis, derogativa ratione
materiae, alla lex generalis (benchè posteriore) costituita dal c.d. statuto del contribuente.
9.4. La corretta evocazione, compiuta dal collegio remittente con l'ordinanza interlocutoria,
dell'istituto della causa negoziale sì come rivisitato da questa Corte con la sentenza
10490/2006, predicativa del carattere c.d. "concreto" dell'elemento causale, consente di
affermare che lo scopo del procedimento simulatorio è indiscutibilmente quello
dell'occultamento al fisco della differenza tra la somma indicata nel contratto registrato e
quella effettivamente percepita dal locatore.
9.5. Ma ciò non significa che il legislatore del 1998 abbia voluto sancire un obbligo di
registrazione del contratto con norma imperativa la cui violazione comporterebbe la nullità
dell'intero contratto.
9.5.1. Iscritta tout court nell'orbita della simulazione, la fattispecie è difatti destinata ad
essere esaminata sotto il profilo della validità del contratto di locazione registrato, e della
invalidità della sola pattuizione contenente l'indicazione del canone maggiorato, così come
indicata nella controdichiarazione, della quale, come si è già più volte sottolineato, non
rileva in alcun modo, sotto l'aspetto funzionale, la forma adottata.
9.5.2. Il procedimento simulatorio, difatti, nell'operare secondo la scansione diacronica
poc'anzi indicata, si sostanzia nella stipula dell'unico contratto di locazione (registrato), cui
accede, in guisa di controdichiarazione - che consente la sostituzione, in via interpretativa,
dell'oggetto del negozio (i.e. il prezzo reale in luogo di quello apparente) -, la scrittura (nella
specie, coeva alla locazione, e redatta in forma contrattuale) con cui il locatore prevede di
esigere un corrispettivo maggiore da occultare al fisco.
9.5.3. La sostituzione, attraverso il contenuto della controdichiarazione, dell'oggetto
apparente (il prezzo fittizio) con quello reale (il canone effettivamente convenuto) contrasta
con la norma imperativa che tale sostituzione impedisce, e pertanto lascia integra la (unica)
convenzione negoziale originaria, oggetto di registrazione.
9.5.4. Non la mancata registrazione dell'atto recante il prezzo reale (attesane la funzione già
in precedenza specificata di controdichiarazione), ma la illegittima sostituzione di un prezzo
con un altro, espressamente sanzionata di nullità, è colpita dalla previsione legislativa,
secondo un meccanismo del tutto speculare a quello previsto per l'inserzione automatica di
clausole in sostituzione di quelle nulle: nel caso di specie, l'effetto diacronico della
sostituzione è impedito dalla disposizione normativa, sì che sarà proprio la clausola
successivamente inserita in via interpretativa attraverso la controdichiarazione ad essere
affetta da nullità ex lege, con conseguente, perdurante validità di quella sostituenda (il
canone apparente) e dell'intero contratto.
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10. S'intende come, all'interno di tale procedimento simulatorio, nessun rilievo assuma la
forma adottata dalle parti per la controdichiarazione.
10.1. Anche se (come nella specie) tale forma assuma veste contrattuale tout court, non per
questo essa perde la sua duplice (ed esclusiva) funzione interpretativa e probatoria.
10.2. L'atto contenente l'indicazione del reale oggetto della convenzione negoziale, difatti,
non va valutato, ex se, sul piano morfologico, come avulso dal più complesso procedimento
simulatorio, onde, all'interno di esso, la sua funzione nasce e si esaurisce al tempo stesso
esclusivamente sui due piani poc'anzi ricordati (non senza considerare che la stessa
controdichiarazione, in ipotesi astratta, potrebbe addirittura mancare, non essendo elemento
essenziale del procedimento simulatorio, la sua funzione risultando in stretta dipendenza
soltanto con le eventuali necessità probatorie in caso di lite).
10.3. Nessun rilievo, dunque, può assumere la veste contrattuale eventualmente divisata
dalle parti, nè tampoco spiega influenza, all'interno del divisato procedimento simulatorio, la
sua successiva registrazione, estranea e non rilevante in seno al quello stesso procedimento,
come accaduto nel caso di specie.
10.4. L'adempimento formale (ed extranegoziale) dell'onere di registrazione dell'atto
controdichiarativo, difatti, non vale a farne mutare sostanza e funzione rispetto alla
simulazione: la sua eventuale, diversa rilevanza andrà invece valutata successivamente, sul
piano della sua validità e della sua efficacia, in caso di registrazione tardiva, come meglio di
qui a breve si dirà.
11. Si pone, difatti, in astratto (e il ricorrente pone in concreto), la ulteriore questione della
validità e della efficacia (in ipotesi, retroattiva o meno) dell'atto de quo, contenente
l'indicazione del reale canone di locazione, una volta che il locatore abbia proceduto alla sua
tardiva registrazione.
11.1. Va premesso che, a seguito della registrazione dell'atto controdichiarativo avente forma
contrattuale successivamente registrato, si è in presenza della prosecuzione di quello stesso
rapporto di locazione, così che, sostituendosi a quello originario il prezzo realmente pattuito
tra le parti, sarebbe consentito al fisco di esigere quanto realmente dovuto dal fraudolento
locatore.
11.2. Nell'ambito del procedimento simulatorio, la sostituzione dell'importo del canone
fittizio con quello realmente pattuito e riscosso pro tempore, vietata ex lege, con
conseguente nullità del patto contenente la previsione del canone effettivamente preteso dal
locatore, non può influire sulla pretesa impositiva, volta che il prezzo versato in eccedenza
può essere oggetto di ripetizione, anch'essa ex lege, da parte del conduttore (il quale, sul
piano probatorio, potrà giovarsi, nel formulare domanda riconvenzionale di ripetizione a
fronte della domanda di sfratto per morosità intentata dal locatore, della presunzione di
pagamento dei canoni arretrati fino alla data in cui il locatore stesso abbia, come nella
specie, giudizialmente lamentato l'inadempimento della relativa obbligazione, così
esonerandosi lo stesso conduttore dall'onere -ai limiti della materiale impossibilità- di
dimostrare il versamento del canone in eccedenza fino a quella data rispetto a quello indicato
nel contratto registrato, versamento del quale, comprensibilmente, egli non potrà dar prova,
avendo il locatore avuto cura di non lasciare tracce documentali di tale illegittima ricezione).
11.3. La soluzione della nullità di tale patto non può essere diversa in presenza
dell'adempimento tardivo dell'obbligo di registrazione, la quale, attesone, ratione temporìs, il
carattere extranegoziale, è inidonea a spiegare influenza sull'aspetto civilistico della sua
validità/efficacia - diversamente finendo per incidere, del tutto inammissibilmente, sulla sua
struttura e sulla sua morfologia.
11.4. Se la sanzione della nullità derivasse dalla violazione dell'obbligo di registrazione, allora
sembrerebbe ragionevole ammettere un effetto sanante al comportamento del contraente
che, sia pur tardivamente, adempia a quell'obbligo (nel sistema tributano è previsto, difatti,
il cosiddetto "ravvedimento" D.Lgs. n. 471 del 1997, ex art. 13, comma 1, - disciplina poi
confermata ex D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 -, consistente nel versamento di una sanzione
pecuniaria ridotta per correggere errori ed omissioni o per versare in ritardo l'imposta dovuta,
alla condizione che la violazione non sia già stata constatata e comunque non siano iniziati
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accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento delle quali
l'autore o i soggetti solidalmente obbligati abbiano avuto formale conoscenza).
11.5. Tale soluzione è stata adottata da parte della giurisprudenza di merito, che si è fatta
portatrice di numerose interpretazioni "correttive" del testo legislativo del 1998 (sovente
operando uno specifico riferimento alla L. n. 431 del 2004, art. 1, comma 346),
interpretazioni tendenti a qualificare la nullità ivi prevista come sanabile, ovvero a ritenere
che il legislatore, pur facendo riferimento alla categoria della nullità, volesse in realtà
sanzionare di inefficacia l'atto de quo (le tesi che ammettono l'efficacia sanante si sono poi a
loro volta divise tra quelle che attribuiscono alla registrazione un'efficacia sanante ex nunc e
quelle predicative di efficacia sanante ex tunc).
11.6. Si è altresì osservato che il riconoscimento di una efficacia sanante alla tardiva
registrazione consentirebbe al fisco di evitare il danno derivante dalla preclusione alla
tassabilità del nuovo contratto registrato recante l'indicazione del canone maggiore rispetto a
quello risultante nel contratto originariamente registrato.
12. Risulta evidente, alla luce delle considerazioni sinora esposte, che la questione
dell'efficacia sanante della tardiva registrazione è questione del tutto mal posta.
12.1. La autonomia e diacronia del procedimento simulatorio rispetto al contratto
successivamente registrato - sia pur nella singolarità di una vicenda in cui il medesimo atto
partecipa al tempo stesso della natura di controdichiarazione (all'interno di quel complesso
procedimento) e di vero e proprio contratto quale risultante dalla successiva registrazione - si
pone, nondimeno, come del tutto ostativa a qualsiasi ricostruzione della fattispecie volta a
predicare, della registrazione, un effetto di sanatoria, poichè, come si è esposto sinora,
manca proprio l'oggetto (e il presupposto) di tale sanatoria.
12.2. L'atto negoziale avente funzione contro-dichiarativa, inserita nell'ambito del
procedimento simulatorio, risulta, come già detto, insanabilmente affetto da nullità per
contrarietà a norma imperativa.
13.3. Di quel medesimo atto nullo non può, pertanto predicarsi una ipotetica validità
sopravvenuta (i.e., una sia pur impropria forma di conversione negoziale) in presenza di un
requisito extraformale (la registrazione) di un negozio che, sul piano morfologico, resta
identico salva la indicazione del canone diverso e maggiore.
13.4. Lo scopo tout cort dissuasivo dell'intento di elusione fiscale, di cui la legge del 1998
costituisce indiscutibile ratio (secondo quanto risulta dalla stessa relazione di
accompagnamento della Vili Commissione permanente ambiente territorio e lavori pubblici,
che indica con chiarezza come l'obiettivo della legge n. 431 del 1998 fosse quello di
"introdurre misure atte a combattere il fenomeno dell'evasione fiscale che appare
particolarmente presente in questo settore", in aggiunta alla volontà di realizzare una
liberalizzazione controllata del mercato locativo), sarebbe difatti fortemente attenuata, se
non del tutto vanificata, dal riconoscimento di una qualsivoglia efficacia sanante alla
registrazione tardiva: il legislatore, sanzionando di nullità ogni patto volto alla previsione di
un maggior canone, aveva inteso, in via principale, contrastare proprio il fenomeno del c.d.
mercato sommerso degli affitti, perseguendo incondizionatamente l'emersione del fenomeno
delle locazioni c.d. "in nero". La causa concreta di tale patto, ricostruita alla luce del
precedente procedimento simulatorio, si rivela, pertanto, come ineluttabilmente
caratterizzata dalla vietata finalità di elusione fiscale, e conseguentemente affetta dalla
medesima nullità che la caratterizzava all'interno del detto procedimento.
14. Soltanto un nuovo accordo (del tutto teorico) di tipo novativo rispetto al precedente
contratto scritto e registrato consentirà, pertanto, alle parti di modificare il precedente
assetto negoziale, con conseguente, relativo assoggettamento alla corrispondente imposizione
fiscale.
14. La soluzione così adottata ha il pregio di porsi in armonia, quoad effecta (anche se non
sotto il profilo formale dell'efficacia endonegoziale della registrazione, predicabile solo a far
data dalla L. n. 311 del 2004) con la successiva legislazione intervenuta in subiecta materia,
di cui è cenno in precedenza.
14.1. Tanto è a dirsi per ragioni di ermeneutica di tipo letterale, logica e storico/sistematica.
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14.1.1. Ragioni di tipo letterale, in quanto il comma 1 dell'art. 13 non lascia spazio, sotto tale
profilo, a dubbi interpretativi di sorta: è testualmente sancita la nullità di ogni pattuzione
volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quella risultante dal
contratto scritto e registrato, al di là ed a prescindere da qualsivoglia elemento esterno
all'atto (i.e. la sua registrazione);
14.1.2. Ragioni di tipo logico, in quanto una diversa interpretazione -quella, cioè, predicativa
della tutela soltanto ex post dell'invarianza del canone - si risolverebbe, al di la di quanto
sinora si è andati esponendo, nella sostanziale vanificazione della duplice ratio sottesa alla
disposizione in esame, volta, in via principale, a colpire in radice l'elusione fiscale, ma nel
contempo intesa, sia pur in via subordinata, a tutelare la parte contrattualmente "debole" al
momento della stipula del negozio - al momento in cui, cioè, al locatore è attribuito un
potere contrattuale fortemente asimmetrico, che gli consente di pretendere e di imporre un
canone maggiorato (e occultato) quale unica condizione per la concessione del godimento
dell'immobile alla controparte, condizione cui il conduttore non potrebbe che sottostare se
comunque interessato ad ottenere la disponibilità di quell'immobile -. Il criterio della
successiva invarianza del canone, difatti, risulta in larga misura irrilevante e sostanzialmente
inutile agli indicati fini di tutela, volta che qualsivoglia successiva pretesa di aumento dello
stesso sarebbe facilmente paralizzata, in caso di controversia, dalla semplice eccezione di
adempimento dell'obbligo contrattuale risultante dal canone fittiziamente convenuto e
indicato nel contratto registrato.
14.1.3. Ragioni di tipo storico-sistematico, se si pensa che le disposizioni di legge successive
al 1998 introducono un principio generale di inferenza/interferenza dell'obbligo tributario con
la validità del negozio, principio generale di cui è sostanziale conferma nel dictum dello
stesso giudice delle leggi (Corte cost. 420 del 2007, sopra ricordata sub 4.2), il che consente
di rendere omogenea (sia pur per altra via, che non impinge nell'efficacia delle registrazione)
la soluzione adottata con quella scaturente dalla normativa successiva al 1998.
15. Soluzione che, infine, su di un più generale piano etico/costituzionale, impedisce altresì
che, dinanzi ad una Corte suprema di un Paese Europeo, una parte possa invocare tutela
giurisdizionale adducendo apertamente e impunemente la propria qualità di evasore fiscale,
volta che l'imposizione e il corretto adempimento degli obblighi tributari, lungi dall'attenere
al solo rapporto individuale contribuente-fisco, afferiscono ad interessi ben più generali, in
quanto il rispetto di quegli obblighi, da parte di tutti i consociati, si risolve in un miglior
funzionamento della stessa macchina statale, nell'interesse superiore dell'intera collettività.
16. Il terzo motivo di ricorso, con il quale si denuncia una pretesa violazione e falsa
applicazione del principio secondo cui la registrazione non è stata elevata dal legislatore
speciale a requisito di validità del contratto o di patti inerenti il canone di locazione: in
particolare, violazione e falsa applicazione degli artt. 1414 e 1417 c.c., nonchè della L. n.
431 del 1998, art. 13 (amplius, supra, sub 5.5.), non ha giuridico fondamento, per le ragioni
esposte nel corso dell'esame delle censure che precedono.
Il ricorso, previa correzione della motivazione della sentenza impugnata (il cui dispositivo
risulta conforme a diritto) è pertanto rigettato.
Nessun provvedimento deve essere adottato in ordine alla spese del presente giudizio, non
avendo le parti intimate svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2015.
Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2015
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6) LOCAZIONE DI IMMOBILI URBANI ADIBITI AD USO
NON ABITATIVO: LA RINNOVAZIONE TACITA DEL
CONTRATTO ALLA PRIMA SCADENZA COSTITUISCE
UN EFFETTO AUTOMATICO?
Cassazione, Sezioni Unite, 16 maggio 2013, n.11830
(Pres. Preden – est. Vivaldi)
RICOGNIZIONE
In tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, disciplinata dalla legge
sull'equo canone, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza contrattuale, per il
mancato esercizio da parte del locatore, della facoltà di diniego della rinnovazione stessa
costituisce un effetto automatico che scaturisce direttamente dalla legge, e non da una
manifestazione di volontà negoziale. Qualora dunque l’immobile sia pignorato ed il locatore
successivamente fallisca, tale rinnovazione non necessita dell'autorizzazione del giudice
dell'esecuzione, ex art. 560, comma 2, c.p.c.
Questo il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione.
Con una chiara ed esaustiva trama argomentativa, il Supremo Collegio ne spiega le
motivazioni.
La legge sull'equo canone costituisce un microsistema autonomo rispetto al sistema generale
sulle locazioni disciplinato dal codice civile e consente l'integrazione delle disposizioni
normative di quest'ultimo soltanto quando la materia non sia specificamente disciplinata.
La stessa legge, all'art. 28, prevede che per le locazioni di immobili adibiti alle attività
indicate nei commi primo e secondo dell'art. 27 il contratto si rinnova tacitamente... di nove
anni in nove anni; tale rinnovazione non ha luogo se sopravviene disdetta... Alla prima
scadenza contrattuale... il locatore può esercitare la facoltà di diniego della rinnovazione
soltanto per i motivi di cui all'art. 29...".
Specificando la norma le ipotesi nella stessa ricomprese.
Un tale assetto normativo conduce a considerare la rinnovazione tacita del contratto, alla
prima scadenza quale fattispecie speciale ed autonoma rispetto alla rinnovazione tacita del
contratto di cui all'art. 1597 c.c., il quale fa riferimento alla fine della locazione per lo
spirare del termine di cui al precedente art. 1596 c.c..
Il che comporta che la rinnovazione - nel caso in cui il locatore non si trovi nelle condizioni di
cui dell'art. 29, secondo comma, o, comunque, pur ricorrendo, non le comunichi al
conduttore -, si configura come mero effetto automatico in assenza di disdetta.
Quindi, il secondo periodo di rapporto locatizio, sulla base della disciplina prevista dagli artt.
28 e 29 della legge n. 392/1978 - così come nel sistema che riguarda le locazioni abitative, a
norma
degli artt. 2 e 3, L. 9 dicembre 1998, n. 431 -, non presuppone, in alcun modo, un successivo
contratto.
Esso deriva, non da un implicito accordo tra i contraenti, ma dal semplice fatto negativo
sopravvenuto della mancanza della disdetta.
Ed il contenuto contrattuale, che disciplina il nuovo periodo di rapporto, non presenta alcun
specifico elemento di novità.
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Restano, infatti, operanti le clausole del contratto originario, quelle relative alla misura del
canone e quelle relative alla durata della locazione, in ogni caso, integrate nel minimo
dall'art. 28, L. n. 392/1978 e dall'art. 2, L. n. 431/1998.
Diversamente, nelle ipotesi di successive scadenze contrattuali, rispetto alle quali l'esercizio
della disdetta, da parte del locatore, è svincolato da qualsiasi presupposto o condizione.
La conclusione cui si è pervenuti - vale a dire che si è presenza di un effetto automatico ex
lege - esclude l'applicabilità dell'art. 560 c.p.c..
E ciò perché la norma in questione, vietando al debitore ed al terzo custode di dare in
locazione l'immobile pignorato se non sono autorizzati dal giudice delegato" fa esplicitamente
riferimento ad un atto negoziale di volontà che, nella specie, non ricorre.
Nell'ipotesi in esame, inoltre, vi erano ulteriori profili che giustificavano l'inapplicabilità
dell'art. 560, secondo comma c.p.c..
Il custode, a fronte del rinnovo ex art. 28, L. n. 392/1978, per l'assoluta tipicità dei motivi
legittimanti il diniego, si trova nella posizione di subire il rinnovo automatico,
indipendentemente da qualunque autorizzazione ex art. 560 c.p.c..
La speciale disciplina, d'altronde, non è tanto finalizzata a tutelare l'interesse prettamente
individuale del conduttore, ponendosi, viceversa, nell'ottica del perseguimento dell'interesse
generale dell'economia alla stabilità delle locazioni non abitative.
In tal modo, bypassa l'interesse particolare del conduttore alla continuazione del rapporto
locatizio, andando ad incidere su interessi generali di rilevanza sociale e produttiva.
In questa ottica, l'autorizzazione da parte del giudice di cui all'art. 560, secondo comma,
c.p.c. è finalizzata ed è in funzione del processo esecutivo, al fine di garantire il buon
andamento della procedura, al cui interno si pone la questione della gestione del bene
pignorato.
La necessità dell'autorizzazione da parte del giudice dell'esecuzione è, quindi, funzionale
all'esercizio della custodia, da parte del soggetto investito di un tale potere processuale che,
diversamente, non può locare il bene.
E, sotto questo profilo, ben si coglie la natura dei poteri del giudice che, nell'ambito della
procedura che dirige, opera scelte discrezionali in ordine alle modalità di custodia del bene.
Ed in questo ambito, rientra anche l'opportunità di dare in locazione il bene.
Quel che si vuoi dire è che l'autorizzazione del giudice è necessitata quando si tratti di
adottare le misure più vantaggiose relative alla gestione temporanea del bene all'interno
della procedura esecutiva.
Ma una tale autorizzazione è superflua quando la rinnovazione tacita della locazione ad uso
diverso da quello di abitazione alla prima scadenza, di cui agli artt. 28 e 29, L. n. 392/1978,
derivi direttamente dalla legge, la quale rende irrilevante la disdetta del locatore, se non
giustificata dal ricorrere delle cause specificamente indicate dall'art. 29, quali motivi
legittimi di diniego della rinnovazione.
Da ultimo, la Corte ricorda che la ricostruzione in termini di effetto legale è avallata anche
dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 24.7.2007 n. 16321; v. anche cass. 10.6.2005 n.
12323) in tema di contratti di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di
abitazione, conclusi dallo Stato o da altri enti pubblici territoriali in qualità di conduttori, ai
sensi dell'art. 42 L. 27.7.1978 n. 392.
È stata, infatti, affermata l'applicabilità della disciplina dettata dagli artt. 28 e 29 in tema di
rinnovazione, che accorda al conduttore una tutela privilegiata in termini di durata del
rapporto.
Ribadendo che, a differenza dell'ipotesi regolata dall'art. 1597 c.c., la protrazione del
rapporto alla sua prima scadenza, in base alle norme della legge n. 392 del 1978, non
costituisce l'effetto di una tacita manifestazione di volontà - successiva alla stipulazione del
contratto, e che la legge presume in virtù di un comportamento concludente e, quindi,
incompatibile con il principio secondo il quale la volontà della P.A. deve essere
necessariamente manifestata in forma scritta -, ma deriva direttamente dalla legge.
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Con la conseguente irrilevanza della disdetta, da parte del locatore, quando la stessa non sia
basata su una delle giuste cause specificamente indicate dalla legge, quali motivi legittimi di
diniego della rinnovazione.
MASSIMA
In tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, disciplinata dalla legge
sull'equo canone, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza contrattuale, per
il mancato esercizio da parte del locatore, della facoltà di diniego della rinnovazione stessa
(artt. 28 e 29 della legge 27 luglio 1978, n. 392) costituisce un effetto automatico che
scaturisce direttamente dalla legge, e non da una manifestazione di volontà negoziale.
Ne consegue che, in caso di pignoramento dell'immobile e di successivo fallimento del
locatore, tale rinnovazione non necessita dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione,
prevista dal secondo comma dell'art. 560 cod. proc. civ..
Cassazione, Sezioni Unite, 16 maggio 2013, n.11830
(Pres. Preden – est. Vivaldi)
Svolgimento del processo
La srl Pro Genia intimò sfratto per morosità, ai sensi dell'art. 658 c.p.c, alla srl G. and G.
Service, al fine di ottenere il rilascio dell'immobile da quest'ultima condotto in locazione, con
contestuale citazione per la convalida.
Evidenziò di avere acquistato, con contratto di cessione del 19.7.2005, i diritti derivanti dal
contratto di locazione dell'immobile sito in (omissis) , dato in conduzione dalla srl
Pro.Cen.Co. all'intimata srl G. and G. Service che si era resa morosa, nel pagamento dei
canoni, per il complessivo importo di Euro 46.110,50.
L'intimata si oppose alla convalida eccependo la carenza di legittimazione attiva
dell'intimante e l'inesistenza del diritto della stessa a percepire i canoni di locazione, per
essere stati gli stessi pignorati con atto antecedente al contratto di cessione.
Il tribunale di Latina, in accoglimento della domanda, dichiarò la risoluzione del contratto di
locazione per inadempimento della conduttrice srl G. and G. Service.
A diversa conclusione pervenne la Corte d'Appello che, con sentenza del 24.3.2010, in riforma
della sentenza di primo grado, rigettò la " domanda di sfratto per morosità proposta dalla
S.r.L. Pro Genia nei confronti della S.r.L. G. and G. Service, e la domanda di pagamento dei
canoni insoluti".
Ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi la srl Pro Genia.
L'intimata non ha svolto attività difensiva.
Fissata la trattazione del ricorso per l'udienza del 12.4.2012, la Terza Sezione civile della
Corte ha emesso ordinanza interlocutoria (n. 7826), depositata il 17.5.2012, di rimessione
degli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione della causa alle sezioni unite.
Il Primo Presidente ha provveduto in tal senso.
Motivi della decisione
1. La questione di diritto posta dall'ordinanza di rimessione.
La Terza Sezione civile della Corte di Cassazione, chiamata a decidere l'impugnazione
proposta dalla società Pro Genia srl, ha rimesso gli atti al primo presidente per l'eventuale
assegnazione alle sezioni unite della Corte per la composizione del contrasto, sottoponendo la
seguente questione di diritto:
Se, in caso di pignoramento dell’immobile e di successivo fallimento del locatore, operi,
quale effetto ex lege, la rinnovazione tacita di cui agli artt. 28 e 29 della legge n. 392 del
1978, e se poi la stessa rinnovazione tacita necessiti, o meno, dell’autorizzazione del giudice
dell’esecuzione ex art. 560, secondo comma, c.p.c..
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Sottolinea l'ordinanza interlocutoria che la giurisprudenza della Corte di cassazione si era
espressa in senso favorevole alla necessità dell'autorizzazione, con orientamento costante da
Cass. 2576/1970 a Cass. 1639/1999, fino alla pronuncia della stessa terza sezione civile n.
10498 del 2009, che aveva affermato l'opposto principio secondo cui, in tema di locazione di
immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, disciplinata dalla legge sull'equo canone, la
rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza contrattuale, per il mancato esercizio
da parte del locatore, della facoltà di diniego della rinnovazione stessa, costituisce un effetto
automatico scaturente direttamente dalla legge, e non da una manifestazione di volontà
negoziale. A quest'ultima impostazione conseguirebbe che, in caso di pignoramento
dell'immobile e di successivo fallimento del locatore, la rinnovazione non necessiterebbe
dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, prevista dall'art. 560, secondo comma, c.p.c..
2. I precedenti alla base del contrasto.
Nella giurisprudenza della Corte di legittimità hanno affermato la necessità
dell'autorizzazione del giudice, ai sensi dell'art. 560, secondo comma, c.p.c., per la
rinnovazione tacita della locazione avente ad oggetto l'immobile pignorato (o sottoposto a
sequestro giudiziario), sull'assunto che essa integri un nuovo negozio giuridico bilaterale,
Cass. 5.12.1970 n. 2576; Cass. 4.9.1998 n. 8800; Cass. 25.2.1999 n. 1639; Cass. 30.10.2002 n.
15297; Cass. 13.12.2007 n. 26238.
Ha, invece, ritenuto superflua l'autorizzazione giudiziale ex art. 560, secondo comma, c.p.c.,
costituendo la rinnovazione tacita alla prima scadenza un effetto automatico, scaturente
direttamente dalla legge, e non da una manifestazione di volontà negoziale Cass. 7.5.2009 n.
10498.
L'automaticità di quest'effetto legale escluderebbe, pertanto, l'applicabilità del disposto
dell'art. 560 c.p.c..
In questa prospettiva, la sentenza negava di porsi in contrasto coi precedenti qui richiamati
poiché relativi, questi ultimi, o a contratti di locazione antecedenti all'entrata in vigore della
legge sull'equo canone o a rapporti pervenuti a scadenza successiva alla prima.
L'ordinanza di questa Corte 2.11.2011 n. 22711 ha poi, enunciato il seguente principio di
diritto:
"In difetto di valida eccezione di inopponibilità del contratto di locazione abitativo anteriore
al pignoramento, ai sensi dell’art. 2923, terzo comma, cod. civ., l'aggiudicatario è tenuto a
riconoscerlo fino alla prima scadenza contrattuale successiva, alla quale però non si opera - in
difetto di autorizzazione del giudice dell'esecuzione, ai sensi dell’art. 560 cod. proc. civ. alcuna rinnovazione; e spetta all'aggiudicatario, da tale scadenza e fino all'effettivo rilascio,
in mancanza di valide allegazioni sulla sussistenza di un danno maggiore, una somma pari al
canone".
Con il che il Collegio riteneva di aderire alla prevalente giurisprudenza, ritenendo
inconferente il "diverso caso della rinnovazione automatica alla prima scadenza", esaminato
da Cass. 7.5.2009 n. 10498 ", solo in apparenza contrario.
3. L'esame della questione.
L'art. 560, secondo comma, c.p.c. prevede il divieto, per il debitore e per il terzo nominato
custode, di dare in locazione l'immobile pignorato in difetto dell'autorizzazione da parte del
giudice dell'esecuzione.
Ai sensi dell'art. 676, terzo comma, cod. proc. civ., la locazione di un bene sottoposto a
sequestro giudiziario necessita, egualmente, dell'autorizzazione del giudice.
In forza dell'art. 104-bis L. Fall., analoga disciplina vige nel fallimento per le locazioni di
immobili compresi nella massa attiva, che il curatore non può stipulare senza autorizzazione
del giudice delegato.
L'art. 2923 c.c., infine, dispone che le locazioni consentite da chi ha subito l'espropriazione
sono opponibili all'acquirente se hanno data certa anteriore al pignoramento, salvo che,
trattandosi di beni mobili, l'acquirente ne abbia conseguito il possesso in buona fede; le
locazioni immobiliari eccedenti i nove anni, che non sono state trascritte anteriormente al
pignoramento, non sono opponibili all'acquirente, se non nei limiti di un novennio dall'inizio
della locazione; in ogni caso, l'acquirente non è tenuto a rispettare la locazione qualora il
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prezzo convenuto sia inferiore di un terzo al giusto prezzo o a quello risultante da precedenti
locazioni; se la locazione non ha data certa, ma la detenzione del conduttore è anteriore al
pignoramento della cosa locata, l'acquirente non è tenuto a rispettare la locazione che per la
durata corrispondente a quella stabilita per le locazioni a tempo indeterminato; se nel
contratto di locazione è convenuto che esso possa risolversi in caso di alienazione,
l'acquirente può intimare licenza al conduttore secondo le disposizioni dell'articolo 1603 c.c..
La giurisprudenza ha, al riguardo, chiarito che le due previsioni dell'art. 2923, primo comma,
c.c. e dell'art. 560, secondo comma, c.p.c. operano in rapporto di reciproca esclusione,
perché la prima riguarda le locazioni risalenti a data certa anteriore al pignoramento (o alla
sentenza dichiarativa di fallimento), mentre la seconda è, per definizione, relativa a locazioni
poste in essere dopo l'instaurazione del processo esecutivo individuale o concorsuale.
In sostanza, la disciplina sostanziale dell'opponibilità della locazione viene esclusivamente
dettata dall'art. 2923 c.c., mentre l'art. 560 c.p.c. si riferisce, piuttosto, ad una modalità di
esercizio della custodia del bene, ma a fini soltanto processuali e, quindi con effetti limitati,
anche temporalmente, al processo esecutivo.
L'art. 2923 c.c., quindi, si riferisce alle "locazioni consentite da chi ha subito
l'espropriazione", vale a dire concluse dal debitore esecutato (o dal fallito) in quanto tale, e
risolve il problema di natura sostanziale dell'opponibilità di tali locazioni all'acquirente in
base al criterio dell'anteriorità rispetto al pignoramento (o al fallimento).
Nell'art. 560, secondo comma, c.p.c, invece, la figura del debitore è rilevante perché
quest'ultimo è investito della funzione di custodia ed, in questo più ristretto ambito,
s'inquadra il tema, di natura processuale, relativo alla gestione del bene nel processo
esecutivo.
La locazione conclusa dal custode o dal curatore del fallimento, destinata a non superare i
limiti temporali propri della procedura e ad esaurirsi, pertanto, con la vendita forzata, è, per
la sua peculiare natura, sottratta ai vincoli di durata posti dalla legge n. 431/1998 e dalla
legge n. 392/1978.
Inoltre, la locazione di un bene sottoposto a pignoramento o a sequestro giudiziario, conclusa
senza premunirsi dell'autorizzazione del giudice, a norma dell'art. 560, secondo comma,
c.p.c., non è invalida, ma soltanto inopponibile ai creditori e all'assegnatario (Cass. 14.7.2009
n. 16375; Cass. 13.7.1999 n. 7422; Cass. 10.10.1994 n. 8267).
Diversamente, il sistema di norme imperative in tema di durata e di rinnovazione delle
locazioni amplia i suoi effetti fino a ricomprendervi anche l'acquirente in executivis, quando
si tratti di locazione avente data certa anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento (o al
pignoramento);
e ciò perché l'acquirente subentra in tutte le componenti convenzionali e legali che
costituiscono il contenuto del rapporto locativo (S.U. 20.1.1994 n. 459; Cass. 28.9.2010 n.
20341; v. anche Cass. 15.3.1990 n.2119).
Corollario di quanto si è fin qui detto è che la rinnovazione tacita della locazione abitativa o
commerciale dell'immobile pignorato, alle scadenze successive alla prima, debba essere
autorizzata dal giudice, per effetto dell'art. 560, secondo comma, c.p.c..
Il rinnovo tacito non alla prima scadenza è conseguenza di una nuova manifestazione
negoziale proveniente dal locatore e dal conduttore.
Ne deriva che, qualora il pignoramento sopravvenga prima della scadenza del termine (di sei,
dodici o diciotto mesi, ex artt. 2 e 5, L. n. 431/1998 e 28, L. n. 392/1978) per dare disdetta,
ed il giudice dell'esecuzione non autorizzi il custode a rinnovare la locazione, il conduttore
rimane privo di valido titolo di detenzione del bene, senza che il custode stesso debba
comunicare alcuna disdetta; e ciò, perché l'estinzione del rapporto si produce ex se in
sintonia con la funzione pubblicistica dell'amministrazione dei beni pignorati.
La questione controversa è se identica conclusione - vale a dire sussistenza di una nuova
manifestazione negoziale, e conseguente necessità di autorizzazione del giudice
dell'esecuzione -sia predicabile quando la rinnovazione tacita della locazione abitativa o
commerciale intervenga alla prima scadenza, per non ricorrere alcuno dei motivi tassativi che
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la legge reputa meritevoli al sopravvenire del primo quadriennio, sessennio o novennio di
rapporto.
4. Rinnovazione alla prima scadenza e nuovo contratto.
Ragioni di priorità logica e di coerenza argomentativa inducono a prendere l'abbrivo
dall'esame della norma dell'art. 1597 c.c., secondo la quale si verifica la rinnovazione tacita
della locazione nell'ipotesi in cui il conduttore rimane ed è lasciato, pur dopo la scadenza del
termine contrattuale o legale, nella detenzione della cosa locata.
Secondo un'interpretazione condivisa, il semplice fatto della permanenza del conduttore
nell'immobile, però, non vale a realizzare la fattispecie della rinnovazione, essendo
necessario un concorde comportamento di entrambe le parti, dal quale desumere la loro
implicita, ma inequivoca, volontà di mantenere in vita il rapporto locativo (da ultimo Cass.
ord. 23.6.2011 n. 13886).
Nell'ipotesi di rinnovazione tacita del contratto di locazione, sempre ai sensi dell'art. 1597
c.c., la nuova locazione è regolata dalle stesse condizioni della precedente, ma la sua durata
è quella stabilita per le locazioni a tempo indeterminato; ciò, in virtù del rinvio all'art. 1574
c.c..
La rinnovazione si differenzia, poi, dalla novazione della locazione, che presuppone il
mutamento dell'oggetto o del titolo della prestazione, a norma dell'art. 1230 c.c., e deve
essere connotata dall'inequivoca manifestazione dell'intento novativo delle parti, nonché dal
loro comune interesse all'effetto estintivo e costitutivo.
Animus e causa novandi sono requisiti, ovviamente, estranei alla rinnovazione tacita della
locazione, la quale si concreta nella conclusione di un nuovo contratto, e non nella semplice
proroga di quello originario, mentre le sole garanzie prestate da terzi non si estendono alle
obbligazioni derivanti dal contratto rinnovato (art. 1598 c.c.).
Il sistema differisce con riferimento alle locazioni di immobili nei quali siano esercitate le
attività indicate nel primo e secondo comma dell'art. 27, L. n. 392/1978, o che siano adibiti
ad uso abitativo.
In questi casi, si applica l'istituto speciale della rinnovazione dettato dall'art. 28, L. n.
392/1978, e dall'art. 2, L. n. 431/1998, secondo cui il contratto si rinnova tacitamente di sei
anni in sei anni (o di nove anni in nove anni per le locazioni di immobili adibiti ad attività
alberghiere e assimilate ai sensi dell'art. 1786 c.c.), ovvero per un periodo di quattro anni. La
rinnovazione è impedita dalla disdetta del locatore, da comunicarsi al conduttore almeno sei,
dodici o diciotto mesi prima della scadenza.
Aggiunge testualmente il secondo comma dell'art. 28: Alla prima scadenza contrattuale,
rispettivamente di sei o di nove anni, il locatore può esercitare la facoltà di diniego della
rinnovazione soltanto per i motivi di cui all’art. 29 con le modalità e i termini ivi previsti.
Analogamente, l'art. 3, L. n. 431/1998 dispone: Alla prima scadenza dei contratti stipulati ai
sensi del comma 1 dell’articolo 2 e alla prima scadenza dei contratti stipulati ai sensi del
comma 3 del medesimo articolo, il locatore può avvalersi della facoltà di diniego del rinnovo
del contratto, dandone comunicazione al conduttore con preavviso di almeno sei mesi, per i
seguenti motivi...
Il nodo da sciogliere, in questa prospettiva, è se il rapporto che s'instaura dopo la
rinnovazione tacita alla scadenza del sessennio (o novennio) delle locazioni commerciali e dei
quattro (o tre) anni delle locazioni abitative dia luogo, quale effetto di quella rinnovazione,
ad un nuovo contratto, concluso per facta concludentia, ovvero ad un nuovo titolo negoziale,
che, sostituendo il vecchio contratto, provochi la nascita di un nuovo rapporto, per il quale si
ripresenti, quindi, l'esigenza di un'autorizzazione del giudice ai sensi dell'art. 560, secondo
comma, c.c.. Il punto è oggetto di controverse soluzioni sottolineandosi, peraltro, che in sede
giurisprudenziale è stato affermato che, sia la rinnovazione tacita del contratto di locazione,
sia la novazione dello stesso, darebbero luogo ad un altro, distinto rapporto.
Con la fondamentale differenza, però, che mentre dalla rinnovazione tacita deriverebbe una
locazione, certamente nuova, ma di contenuto identico a quella precedentemente in vigore,
diversamente, la novazione darebbe vita ad un rapporto diverso da quello cessato, le cui
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clausole non potrebbero, perciò, intendersi riportate nel nuovo rapporto se non
espressamente richiamate (Cass. 11.6.1983 n.4028).
5. La decisione di questa Suprema Corte.
Va affermato il seguente principio di diritto:
In tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, disciplinata dalla legge
sull'equo canone, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza contrattuale, per il
mancato esercizio da parte del locatore, della facoltà di diniego della rinnovazione stessa
(artt. 28 e 29 della legge 27 luglio 1978, n. 392) costituisce un effetto automatico che
scaturisce direttamente dalla legge, e non da una manifestazione di volontà negoziale. Ne
consegue che, in caso di pignoramento dell'immobile e di successivo fallimento del locatore,
tale rinnovazione non necessita dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, prevista dal
secondo comma dell'art. 560 cod. proc. civ..
Con ciò le Sezioni Unite ritengono che si debba dare continuità al principio affermato da Cass.
7.5.2009 n. 10498.
Queste le ragioni.
La legge sull'equo canone costituisce un microsistema autonomo rispetto al sistema generale
sulle locazioni disciplinato dal codice civile e consente l'integrazione delle disposizioni
normative di quest'ultimo soltanto quando la materia non sia specificamente disciplinata.
La stessa legge, all'art. 28, prevede che per le locazioni di immobili adibiti alle attività
indicate nei commi primo e secondo dell'art. 27 il contratto si rinnova tacitamente... di nove
anni in nove anni; tale rinnovazione non ha luogo se sopravviene disdetta... Alla prima
scadenza contrattuale... il locatore può esercitare la facoltà di diniego della rinnovazione
soltanto per i motivi di cui all'art. 29...".
Specificando la norma le ipotesi nella stessa ricomprese.
Un tale assetto normativo conduce a considerare la rinnovazione tacita del contratto, alla
prima scadenza quale fattispecie speciale ed autonoma rispetto alla rinnovazione tacita del
contratto di cui all'art. 1597 c.c., il quale fa riferimento alla fine della locazione per lo
spirare del termine di cui al precedente art. 1596 c.c..
Il che comporta che la rinnovazione - nel caso in cui il locatore non si trovi nelle condizioni di
cui dell'art. 29, secondo comma, o, comunque, pur ricorrendo, non le comunichi al
conduttore -, si configura come mero effetto automatico in assenza di disdetta.
Quindi, il secondo periodo di rapporto locatizio, sulla base della disciplina prevista dagli artt.
28 e 29 della legge n. 392/1978 - così come nel sistema che riguarda le locazioni abitative, a
norma degli artt. 2 e 3, L. 9 dicembre 1998, n. 431 -, non presuppone, in alcun modo, un
successivo contratto.
Esso deriva, non da un implicito accordo tra i contraenti, ma dal semplice fatto negativo
sopravvenuto della mancanza della disdetta.
Ed il contenuto contrattuale, che disciplina il nuovo periodo di rapporto, non presenta alcun
specifico elemento di novità.
Restano, infatti, operanti le clausole del contratto originario, quelle relative alla misura del
canone e quelle relative alla durata della locazione, in ogni caso, integrate nel minimo
dall'art. 28, L. n. 392/1978 e dall'art. 2, L. n. 431/1998.
Diversamente, nelle ipotesi di successive scadenze contrattuali, rispetto alle quali l'esercizio
della disdetta, da parte del locatore, è svincolato da qualsiasi presupposto o condizione.
La conclusione cui si è pervenuti - vale a dire che si è presenza di un effetto automatico ex
lege - esclude l'applicabilità dell'art. 560 c.p.c..
E ciò perché la norma in questione, vietando al debitore ed al terzo custode di dare in
locazione l'immobile pignorato se non sono autorizzati dal giudice delegato" fa esplicitamente
riferimento ad un atto negoziale di volontà che, nella specie, non ricorre.
Vanno anche sottolineati ulteriori profili che giustificano, nell'ipotesi in esame,
l'inapplicabilità dell'art. 560, secondo comma c.p.c..
Il custode, a fronte del rinnovo ex art. 28, L. n. 392/1978, per l'assoluta tipicità dei motivi
legittimanti il diniego, si trova nella posizione di subire il rinnovo automatico,
indipendentemente da qualunque autorizzazione ex art. 560 c.p.c..
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La speciale disciplina, d'altronde, non è tanto finalizzata a tutelare l'interesse prettamente
individuale del conduttore, ponendosi, viceversa, nell'ottica del perseguimento dell'interesse
generale dell'economia alla stabilità delle locazioni non abitative.
In tal modo, bypassa l'interesse particolare del conduttore alla continuazione del rapporto
locatizio, andando ad incidere su interessi generali di rilevanza sociale e produttiva.
In questa ottica, l'autorizzazione da parte del giudice di cui all'art. 560, secondo comma,
c.p.c. è finalizzata ed è in funzione del processo esecutivo, al fine di garantire il buon
andamento della procedura, al cui interno si pone la questione della gestione del bene
pignorato.
La necessità dell'autorizzazione da parte del giudice dell'esecuzione è, quindi, funzionale
all'esercizio della custodia, da parte del soggetto investito di un tale potere processuale che,
diversamente, non può locare il bene.
E, sotto questo profilo, ben si coglie la natura dei poteri del giudice che, nell'ambito della
procedura che dirige, opera scelte discrezionali in ordine alle modalità di custodia del bene.
Ed in questo ambito, rientra anche l'opportunità di dare in locazione il bene.
Quel che si vuoi dire è che l'autorizzazione del giudice è necessitata quando si tratti di
adottare le misure più vantaggiose relative alla gestione temporanea del bene all'interno
della procedura esecutiva.
Ma una tale autorizzazione è superflua quando la rinnovazione tacita della locazione ad uso
diverso da quello di abitazione alla prima scadenza, di cui agli artt. 28 e 29, L. n. 392/1978,
derivi direttamente dalla legge, la quale rende irrilevante la disdetta del locatore, se non
giustificata dal ricorrere delle cause specificamente indicate dall'art. 29, quali motivi
legittimi di diniego della rinnovazione.
Da ultimo, merita ricordare che la ricostruzione in termini di effetto legale è avallata anche
dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 24.7.2007 n. 16321; v. anche cass. 10.6.2005 n.
12323) in tema di contratti di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di
abitazione, conclusi dallo Stato o da altri enti pubblici territoriali in qualità di conduttori, ai
sensi dell'art. 42 L. 27.7.1978 n. 392.
È stata, infatti, affermata l'applicabilità della disciplina dettata dagli artt. 28 e 29 in tema di
rinnovazione, che accorda al conduttore una tutela privilegiata in termini di durata del
rapporto.
Ribadendo che, a differenza dell'ipotesi regolata dall'art. 1597 c.c., la protrazione del
rapporto alla sua prima scadenza, in base alle norme della legge n. 392 del 1978, non
costituisce l'effetto di una tacita manifestazione di volontà - successiva alla stipulazione del
contratto, e che la legge presume in virtù di un comportamento concludente e, quindi,
incompatibile con il principio secondo il quale la volontà della P.A. deve essere
necessariamente manifestata in forma scritta -, ma deriva direttamente dalla legge.
Con la conseguente irrilevanza della disdetta, da parte del locatore, quando la stessa non sia
basata su una delle giuste cause specificamente indicate dalla legge, quali motivi legittimi di
diniego della rinnovazione.
3. L'esame del ricorso.
Alla luce dei principii enunciati va, ora, esaminato il ricorso per cassazione.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di legge. Violazione
degli artt. 27 e ss. L. 392/1978 nonché dell'art. 560 c.p.c. in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.
Contesta l'erroneità della sentenza impugnata, per avere ritenuto necessaria, ai sensi dell'art.
560, secondo comma c.p.c, l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, per il rinnovo del
contratto di locazione, applicandosi, invece, nella specie, la norma dell'art. 28 L. n.392 del
1978 per le locazioni ad uso diverso da quello di abitazione, che afferma che il contratto si
rinnova automaticamente alla prima scadenza.
Il motivo è fondato per le ragioni che seguono.
La Corte di merito, dopo avere accertato che il contratto di locazione fra la proprietaria
dell'immobile e la PRO.CEN.CO srl era stato concluso il 10.5.1996 e che, quindi, la prima
scadenza era intervenuta in data 9.5.2002, ha affermato che, essendo intervenuto il
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pignoramento dello stesso immobile in data 8.4.2002, fosse necessaria l'autorizzazione del
giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 560, comma 2, c.p.c, per il rinnovo del contratto.
Ne ha tratto la conseguenza che la PRO GENIA srl, pur subentrata alla PRO.CEN.CO srl nel
contratto di sublocazione con la G. & G. srl, non avesse la qualità di locatore - custode, e,
quindi, difettasse di legittimazione attiva ad intimare lo sfratto per morosità.
Ma, sulla base dei principi enunciati, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza,
ai sensi degli artt. 27 e 28 L. n. 392 del 1978, per il mancato esercizio, da parte del locatore,
della facoltà di diniego della rinnovazione stessa, costituisce un effetto automatico,
scaturente direttamente dalla legge, e non da una manifestazione di volontà negoziale.
Ne deriva che l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, come previsto dall'art. 560, comma
2, c.p.c., in questo caso, non era necessaria.
Corollario di quanto affermato è che l'attuale ricorrente era legittimata attiva ad intimare lo
sfratto per morosità alla G.& G. srl..
E ciò perché il contratto di locazione concluso il 10.5.1996, si era rinnovato automaticamente
alla prima scadenza del 9.5.2002.
Non è, quindi, pertinente il richiamo, contenuto nella sentenza impugnata, al precedente di
questa Corte - Cass. 14.7.2009 n. 16375 (pag. 7 della sentenza) - riguardando, questo, il
diverso caso in cui ad agire per il pagamento dei canoni di una locazione di un bene
pignorato, conclusa senza autorizzazione del giudice dell'esecuzione, era il locatore,
proprietario esecutato, in proprio, e non quale custode.
In questo caso, correttamente, la Corte di legittimità ha ritenuto l'attore privo di
legittimazione sostanziale e processuale, per appartenere la relativa azione al locatorecustode, e non al locatore proprietario esecutato in proprio.
Diversamente, nella specie, era il sublocatore, estraneo alla procedura esecutiva, a
promuovere il giudizio di sfratto per morosità nei confronti del subconduttore, per il mancato
pagamento dei canoni relativi al contratto di sublocazione.
Con il secondo motivo si denuncia violazione di legge. Decisione del giudice su eccezione
nuova. Art. 360 n. 4 e 5 cpc.. Artt. 112, 115 e 116 c.p.c..
Contesta la ricorrente che l'eccezione di difetto di legittimazione passiva della srl G. & G..
Service, sollevata soltanto nel giudizio di appello, sulla base di documentazione anch'essa
prodotta solo in tale giudizio, sia stata presa in esame - in violazione degli artt. 345 e 437
c.p.c. - conducendo la Corte di merito a riformare, sul punto, la sentenza di primo grado che
- peraltro - quella questione non aveva neppure esaminata, per non essere stata, in quel
giudizio, proposta.
Il motivo è fondato.
Con l'atto di appello la G. & G. srl ha introdotto un'eccezione - quella del suo difetto di
legittimazione passiva - che presuppone un accertamento dei fatti; in particolare, quello
della posizione di conduttrice a seguito della cessione del contratto ai sensi dell'art. 36 L. n.
392 del 1978, precluso in sede di impugnazione.
L'eccezione avrebbe dovuto essere disattesa dalla Corte di merito per ragioni di rito, le quali per essere relative a questione rilevabile d'ufficio, che non ha formato oggetto di decisione
nei gradi di merito e che, quindi, non è coperta da alcuna preclusione da giudicato interno devono essere rilevate in questa sede.
La G.& G. srl - come risulta dalla sentenza impugnata - con il terzo motivo di appello ha
contestato al primo giudice di non avere affermato il suo difetto di legittimazione passiva in
ordine all'intimazione di sfratto "poiché, essendo stata liberata dalle proprie obbligazioni [a
seguito di cessione di ramo d'azienda da parte della G. & G. alla srl Gruppo Pandoc che era
succeduta anche nel contratto di locazione, dapprima con la Pro.Cen.Co srl, e, quindi, con la
Pro. Genia srl, subentrata a quest'ultima, e che non aveva comunicato il subentro ed i relativi
acquisti, né alla G.& G. Service srl, né alla srl Gruppo Pandoc], non poteva essere considerata
morosa nel pagamento dei canoni, che, per costante giurisprudenza, fanno carico all’ultimo
cessionario con esclusione della sua condanna al detto pagamento anche perché non deteneva
più l'immobile".
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Ora, questa deduzione, con il motivo di appello, si è concretata nella contestazione della
legittimazione passiva in senso sostanziale, per l'introduzione nel processo di un fatto
impeditivo della stessa - la mancata qualità di conduttrice a seguito della cessione di ramo di
azienda e del relativo contratto di locazione -, in tal modo contestando la legittimazione
passiva sotto un profilo nuovo, che era rimasto estraneo al giudizio di primo grado.
Peraltro, il difetto di legittimazione passiva, non solo non era stata contestato in primo
grado, ma la stessa intimata, avendo sostenuto - come risulta dagli atti difensivi - di non
avere versato i canoni di locazione ritenendoli oggetto di pignoramento, aveva
implicitamente riconosciuto la propria legittimazione passiva.
Tale prospettazione, per quanto attiene alla deduzione di un fatto impeditivo della
legittimazione passiva sostanziale, si è concretata nella introduzione, nel processo d'appello,
di un'eccezione di merito nuova, in violazione dell'art. 437, secondo comma, c.p.c., che, nel
rito del lavoro e, quindi, anche in quello locatizio, in forza del richiamo di cui all'art. 447 bis
c.p.c., esclude la proponibilità di nuove eccezioni in appello.
Nello stesso tempo, la sostanziale, connessa contestazione della mancanza della qualità di
conduttrice, si è concretata, sia pure subordinatamente alla introduzione della nuova
eccezione, nello svolgimento di un'attività di contestazione dei fatti rilevanti per la decisione
(e particolarmente - come detto - del fatto della insussistenza della posizione di conduttrice
per effetto della successione nel contratto locativo ai sensi dell'art. 36 L. n. 392 del 1978) del
tutto nuova, in evidente violazione del sistema delle preclusioni anche del potere di
contestazione scaturente dagli artt. 415, 416 e 420, primo comma, c.p.c. (v. anche Cass.
13.3.2012 n. 3974; Cass. 9.3.2012 n. 3727; Cass. 3.7.2008 n. 1802).
Ora, la Corte di merito avrebbe dovuto d'ufficio rilevare la novità dell'eccezione e
l'inammissibilità della contestazione e, quindi, non avrebbe dovuto esaminare, nel merito, la
questione, dovendosi limitare a dichiarare l'inammissibilità del motivo di appello (v. anche
Cass. 29.9.2005 n. 19170).
L'errore in cui è incorso il giudice di appello deve essere rilevato d'ufficio in questa sede,
poiché la violazione del divieto dello ius novorum in appello, previsto, nel rito del lavoro,
dall'art. 437 c.p.c., è rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimità (Cass. 28.7.2005 n.
15810; Cass. 2.4.1999 n. 3190; Cass. 17.12.1997 n. 12764; Cass. 18.9.1995 n. 9874).
Ciò perché le preclusioni sono relative a materia non disponibile dalle parti, e diretta a
garantire l'ordinato svolgimento del servizio giustizia; alla cui logica, peraltro, è ormai
ispirato lo stesso rito ordinario (v. anche Cass. 28.7.2005 n. 15810).
Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge. Difetto di motivazione. Art. 360 n. 3 e n. 5
cpc. Art. 115 e 116 cpc. Art. 1455 c.c..
Contesta la ricorrente che la Corte di merito abbia considerato che i canoni di sublocazione
dovuti dalla G. & G. Service srl alla Pro.Genia srl dovessero essere considerati frutti civili dei
beni pignorati senza darne alcuna motivazione; e ciò "nonostante che il Giudice di primo
grado avesse chiarito, nella motivazione della sentenza, che il rapporto tra il subconduttore
G. & G. Service S.r.l. ed il sublocatore PRO GENIA S.r.l. fosse del tutto estraneo alle vicende
del pignoramento".
Il motivo è fondato.
Sono dati che emergono dalla sentenza impugnata i seguenti.
La proprietaria dell'immobile in esame concluse con la PRO.CEN.CO srl, in data 10.5.1996, un
contratto di locazione ad uso diverso da quello abitativo.
Successivamente, alla data della prima scadenza del 9.5.2002 [data in cui il contratto si era
rinnovato per le ragioni esposte con l'esame del primo motivo], la PRO.CEN.CO srl cedette il
contratto di locazione alla PRO GENIA srl.
Sulla base del contratto di locazione, la PRO.CEN.CO srl era tenuta a corrispondere i canoni di
locazione al proprietario.
Con il pignoramento, il proprietario era stato nominato custode ed, in tale veste, aveva
l'obbligo di incassare i canoni, dapprima dovuti dalla PRO.CEN.CO srl e, poi, dalla PRO GENIA
srl.
Tale canone di locazione costituiva, sotto il profilo civilistico, i frutti del pignoramento.
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Ma, con il pignoramento, nulla aveva a che vedere il canone che la subconduttrice G.& G.
Service srl doveva versare alla sublocatrice PRO GENIA srl.
Costoro, infatti, erano soggetti estranei alla procedura esecutiva, sottoposti ai soli obblighi
derivanti dal negozio giuridico fra gli stessi concluso.
Alla PRO GENIA srl incombeva l'onere di pagare all'avente diritto - sulla base del contratto di
locazione concluso con il proprietario - il suo canone di locazione.
Alla G. & G. Service srl incombeva l'obbligo di pagare il canone di sublocazione in favore della
PRO GENIA srl.
E, sulla base del mancato pagamento di tali ultimi canoni, la PRO GENIA srl ha intimato lo
sfratto per morosità, chiedendo la risoluzione del contratto di sublocazione.
Erroneamente, la Corte di merito ha, quindi, ritenuto - senza, peraltro, neppure motivare sul
punto - che i canoni rappresentassero i frutti del pignoramento, essendo, invece, la procedura
esecutiva estranea, e terza, rispetto a tale assetto contrattuale.
Il sublocatore ha, quindi, agito, nei confronti del subconduttore sulla base di un proprio ed
autonomo titolo contrattuale.
E, sotto questo profilo, nessuna utilità presenta il richiamo all'art. 2912 c.c. - in base al quale
il pignoramento si estende anche ai frutti della cosa rappresentati, nella specie, dai canoni di
locazione quali frutti civili dell' immobile - operato dalla Corte di merito, al fine di
affermarne l'inesigibilità da parte della Pro Genia srl, per la mancata prova della sua qualità
di custode dell'immobile pignorato.
Come già visto, una tale prova era ultronea, perché l'attuale ricorrente fondava la sua
richiesta di pagamento dei canoni sul contratto di sublocazione concluso con la G.& G. srl,
estraneo alla procedura esecutiva; come tale soggetto alle sue specifiche pattuizioni.
Con il quarto motivo si denuncia violazione di legge. Decisione del giudice ultra petita. Art.
360 n. 4 e 5 cpc. Artt. 112, 115 e 116 c.p.c..
La ricorrente contesta l'erroneità della decisione, per avere pronunciato su di un punto non
oggetto del giudizio che aveva avuto, fin dal primo grado, ad oggetto la risoluzione del
contratto di sublocazione e non il pagamento dei canoni, "oggetto di diverso procedimento,
ormai definito".
Anche in questo caso, il motivo è fondato.
Non risulta dagli atti - che possono essere esaminati direttamente, in questa sede, per essere
denunciato un vizio del procedimento, ai sensi degli artt. 112 e 360 n. 4 c.p.c. (v. anche S.U.
22.5.2012 n. 8077) - che la domanda di pagamento dei canoni sia mai stata formulata
dall'odierna ricorrente nel presente giudizio, il cui oggetto era costituito dallo sfratto per
morosità e dalla risoluzione del contratto di sublocazione per inadempimento della
subconduttrice.
La statuizione di rigetto della "domanda di pagamento dei canoni insoluti", contenuta nella
motivazione della sentenza (pag. 10) e nel dispositivo (pag. 11), costituiscono, pertanto,
un'evidente ultrapetizione, per avere la Corte di merito violato il principio della
corrispondenza fra chiesto e pronunciato (v. da ultimo Cass. 24.3.2011 n. 6757).
Conclusivamente, il ricorso è accolto.
La sentenza è cassata, e la causa è rinviata alla Corte d'Appello di Roma in diversa
composizione.
Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte, pronunciando a sezioni unite, accoglie il ricorso. Cassa e rinvia, anche per le spese,
alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.
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7) LOCAZIONE DI UN IMMOBILE IN COMPROPRIETÀ:
IL COMPROPRIETARIO NON STIPULANTE PUÒ
ESIGERE METÀ DEL CANONE?
TRACCIA
Tizia e Sempronio sottoscrivono un contratto di locazione relativo ad un immobile
commerciale. L’immobile è in proprietà pro-indiviso di Tizia e della sorella Caia.
Il proprietario non firmatario del contratto, Caia, intima al conduttore, Sempronio, il
pagamento del 50% del canone di locazione, da versare mensilmente direttamente a lei.
Il conduttore ritiene di essere tenuto esclusivamente a pagare unitariamente il canone alla
locatrice secondo il vincolo contrattuale assunto, ma si dichiara disponibile a stipulare nuovo
contratto con entrambe le comproprietarie o a provvedere al versamento del canone su un
libretto bancario o postale a cui le sorelle potranno accedere anche disgiuntamente.
Il candidato rediga parere motivato in favore di Caia soffermandosi in particolare sulla
natura giuridica della fattispecie descritta, sulla validità del contratto stipulato soltanto
dalla sorella Tizia, e sulla legittimità della richiesta di pagamento frazionata fatta da Caia
al conduttore.
Cassazione, Sez. Unite, 4 luglio 2012, n. 11135
La Cassazione, sez. Unite Civili, 4 luglio 2012, n. 11135 risponde al quesito suddetto con una
bellissima sentenza che analizza la particolare articolazione del contratto di locazione
quando vi siano due comproprietari ma il contratto sia stipulato da uno soltanto di essi. La
condotta del comproprietario non stipulante che richieda metà del canone al conduttore è
giuridicamente lecita? e come dovrà essere qualificata? Mandato senza rappresentanza o
amministrazione utile di affare comune, o ancora gestione di affari?
Ed in ultima battuta: il conduttore può lecitamente (ovvero in pieno diritto) rifiutare il
pagamento parziale del canone di locazione al comproprietario non stipulante?
Secondo il Supremo Collegio: la locazione della cosa comune da parte di uno dei
comproprietari rientra nell'ambito di applicazione della gestione di affari ed è soggetta alle
regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all'art. 2032 cod. civ., sicché, nel caso di
gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore potrà ratificare l'operato del
gestore e, ai sensi dell'art. 1705, secondo comma, cod. civ., applicabile per effetto del
richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 cod. civ., esigere dal conduttore, nel
contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla
quota di proprietà indivisa
Cassazione, sez. Unite, 4 luglio 2012, n. 11135
(Pres. Vittoria – Rel. Petitti)
Svolgimento del processo
C..F. , in qualità di comproprietaria, nella misura della metà, di un immobile adibito ad uso
commerciale, locato dall'altra comproprietaria A..N. a C..T. , chiedeva, con ricorso ex art.
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447-bis cod. proc. civ., l'accertamento del diritto a ricevere la metà del canone di locazione e
la condanna del conduttore al pagamento di tale quota a far data dalla domanda giudiziale.
Il conduttore si costituiva assumendo di essere tenuto esclusivamente a pagare unitariamente
il canone alla locatrice secondo il vincolo contrattuale assunto, dichiarandosi disponibile a
stipulare nuovo contratto con entrambe le comproprietarie o a provvedere al versamento del
canone su un libretto bancario o postale.
Anche la comproprietaria locatrice N. si costituiva chiedendo il rigetto delle domande
proposte nei suoi confronti e proponendo, in via subordinata, domanda riconvenzionale volta
alla condanna dell'attrice al risarcimento dei danni.
Il giudice di primo grado accoglieva la domanda ritenendo applicabile alla fattispecie il
modello negoziale del mandato senza rappresentanza e in particolare l'art. 1705 cod. civ.,
che consente al mandante, sostituendosi al mandatario, di esercitare i diritti di credito
derivanti dal mandato. Condannava, pertanto, il T. a corrispondere all'attrice il 50% dei
canoni maturati tra il mese di agosto del 2002 e la cessazione della locazione, con gli
interessi legali sui canoni scaduti dalle scadenze al saldo; respingeva altresì le domande
riconvenzionali della N. , compensando tra le parti te spese processuali.
La sentenza veniva impugnata in via principale dal conduttore, il quale deduceva che il
Tribunale aveva errato nel fare riferimento, ai fini della decisione, agli istituti della
comunione e del mandato.
Resistevano all'impugnazione sia F.C. che N.A. ; quest'ultima, oltre ad aderire alla
impugnazione proposta dal T. , proponeva appello incidentale condizionato.
La Corte d'appello di Genova, con sentenza depositata il 18 dicembre 2004, in riforma della
pronuncia di primo grado, respingeva la domanda proposta dalla F. e rigettava l'impugnazione
incidentale condizionata.
La Corte d'appello disattendeva, in primo luogo, l'eccezione di carenza di interesse
all'impugnazione principale in capo al T. , formulata dalla F. . La Corte d'appello rilevava che,
non essendo stata disposta l'estromissione del conduttore nel giudizio di primo grado, non
poteva dirsi venuto meno l'interesse di quest'ultimo a conseguire una situazione di certezza
processuale idonea ad elidere la concorrenza della pretesa della N. , fondata sul contratto di
locazione, e della F. , fondata sulla sua qualità di comproprietaria, e a sottrarlo al rischio di
essere esposto a una duplicazione del pagamento di una quota pari alla metà del canone
locativo.
La Corte d'appello rilevava quindi che la proprietà o la titolarità di altro diritto reale su un
immobile non costituisce presupposto necessario e indefettibile per l'assunzione della qualità
di locatore, essendo sufficiente, per la valida stipulazione di un contratto di locazione, che
dell'immobile il locatore abbia la disponibilità e sia in grado di trasferirne la detenzione.
Affermava quindi che, in presenza di una situazione di comproprietà, la locazione della cosa
comune da parte di uno dei proprietari si perfeziona validamente e produce i suoi effetti
contrattuali anche se il comproprietario locatore abbia travalicato i limiti dei poteri a lui
spettanti a norma dell'art. 1105 cod. civ., nell'ambito della fruizione della cosa comune.
Rilevava quindi che, poiché il contratto non produce effetti diretti nei confronti dei soggetti
che di esso non siano parti, se non nei casi espressamente previsti dalla legge, il
comproprietario non locatore non acquista, come tale, la titolarità delle situazioni giuridiche
attive e passive scaturenti dal contratto; né acquista la legittimazione all'esercizio di azioni o
comunque di pretese fondate sul contratto. Per converso, il conduttore adempie la
fondamentale obbligazione di pagamento del canone mediante il pagamento dell'intera entità
pecuniaria dovuta al comproprietario locatore, quali che siano i criteri in base ai quali, per
legge o per convenzione, debbano essere ripartiti tra i comproprietari i frutti del bene.
La Corte d'appello affermava quindi di non condividere la soluzione adottata dal Tribunale,
che aveva fondato la propria decisione sull'art. 1705, secondo comma, cod. civ., a norma del
quale, nel mandato senza rappresentanza, il mandante può agire contro il terzo per ottenere
il soddisfacimento dei crediti sorti a favore del mandatario stesso in relazione alle
obbligazioni assunte dal terzo con la conclusione del contratto, in tal modo sostituendosi al
mandatario e ponendo in essere una revoca tacita del mandato. In particolare, la Corte
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territoriale riteneva che l'indicata disposizione non fosse stata citata in modo pertinente,
atteso che nella fattispecie non poteva ravvisarsi alcun mandato, ma una gestione nel
presunto interesse comune (validamente ed efficacemente compiuta, se del caso, anche
all'insaputa degli altri interessati), fondata, nei rapporti tra l'autore della gestione e i
destinatari dell'utilità di essa, sulla disciplina interna della comunione, rispetto alla quale il
terzo, che abbia validamente conseguito la posizione giuridica di conduttore, versava in
condizione di indifferenza e dalla cui evoluzione non poteva ricevere alcun pregiudizio.
Pertanto, concludeva sul punto la Corte d'appello, fino a quando la struttura soggettiva della
parte locatrice non fosse stata modificata con l'ingresso nella medesima del comproprietario
originariamente non locatore, quest'ultimo non poteva esigere, nemmeno limitatamente alla
parte corrispondente alla propria quota, il pagamento del canone nei confronti del
conduttore. Da qui l'accoglimento dell'appello e la riforma della sentenza impugnata, con
elisione della condanna del conduttore T.C. al pagamento di una somma pari al 50% del
canone a favore di F.C. .
Per la cassazione di questa sentenza la F. ha proposto ricorso sulla base di cinque motivi, cui
hanno resistito, con distinti controricorsi, la N. e il T. .
La seconda sezione civile della Corte ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite, osservando
che le due contrapposte soluzioni assunte in primo e secondo grado si fondavano su
orientamenti distinti di legittimità e che la questione della qualificazione giuridica del
rapporto tra i comproprietari nel caso di locazione stipulata da uno solo di essi con
riferimento alla produzione (o esclusione) degli effetti del contratto in capo al
comproprietario non locatore, dovesse essere ritenuta questione di massima di particolare
importanza.
La causa è quindi stata assegnata alle Sezioni Unite.
In prossimità dell'udienza di discussione la ricorrente ha depositato memoria.
Motivi del ricorso
1. Con il primo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione o falsa
applicazione dell'art. 100 cod. proc. civ., nonché per vizio logico ed insufficiente, erronea o
contraddittoria motivazione, dolendosi del fatto che la Corte d'appello abbia ritenuto
sussistente l'interesse all'impugnazione in capo all'appellante principale. Atteso che il
conduttore, nel costituirsi in giudizio aveva professato una posizione di sostanziale
indifferenza rispetto alla individuazione del beneficiario del pagamento del canone, sempre
che, ovviamente, si convenisse sul fatto che, una volta effettuato il pagamento dell'importo
dell'intero canone anche mediante versamento su un libretto di deposito, egli non fosse
esposto al rischio della duplicazione del pagamento del 50% del detto importo in favore della
originaria attrice, risultava chiaro, secondo la ricorrente, il difetto di interesse alla
impugnazione della sentenza del Tribunale di Massa, che quella certezza aveva offerto,
ponendo a suo carico l'obbligo di pagare, a far data dal mese di agosto 2002, il 50% del canone
alla locatrice e alla comproprietaria.
1.1. Il primo motivo, all'esame del quale occorre procedere prima ancora della esposizione
dei motivi ulteriori del ricorso e delle ragioni per le quali la questione è stata rimessa
all'esame di queste Sezioni Unite, è infondato.
Invero, il conduttore, il quale aveva puntualmente adempiuto alla propria obbligazione di
pagare il canone in favore della locatrice anche nella pendenza del giudizio di primo grado,
essendo stato condannato dal Tribunale di Massa a corrispondere all'attrice il 50% del canone
anche per i mesi dall'agosto 2002 al marzo 2004, per i quali il pagamento era stato già
interamente effettuato alla locatrice, aveva senz'altro interesse a una revisione della
statuizione della decisione di primo grado.
2. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione degli artt.
832, 1100, 1101, 1102, 1103, 1104, 1105, 1108, 1372, 1703, 1705, 1710 e 1722 cod. civ.,
nonché vizio logico e omessa, insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione su punti
decisivi della controversia.
2.1. La ricorrente sostiene che la Corte d'appello, pur partendo dalla corretta affermazione
che la stipulazione di un contratto di locazione da parte di uno dei comproprietari può essere
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validamente realizzata solo con il consenso ed il rilascio della disponibilità del bene da parte
dell'altro e, dunque, per conto di quest'ultimo con riferimento alla quota di sua spettanza,
avrebbe poi errato nell'escludere l'applicabilità del regime giuridico del mandato senza
rappresentanza e il legittimo esercizio del potere del mandante di richiedere direttamente
l'esecuzione delle obbligazioni contrattuali nonché la legittimazione attiva a richiedere la
risoluzione del contratto ed il rilascio e quella passiva a resistere alle pretese del conduttore.
2.2. La ricorrente rileva poi che la Corte d'appello ha affermato il principio per cui, in
presenza di una situazione di comproprietà, la locazione della cosa comune da parte di uno
dei comproprietari si perfeziona validamente e produce i suoi effetti contrattuali,
quand'anche il comproprietario locatore abbia travalicato i limiti dei poteri a lui spettanti a
norma dell'art. 1105 cod. civ., nell'ambito della fruizione della cosa comune. Ritiene, quindi,
che tale principio potrebbe essere condiviso a condizione che si dia per presupposto che il
comproprietario-locatore abbia previamente ottenuto il consenso degli altri condomini (o
quanto meno della maggioranza di essi) all'amministrazione e alla locazione dei bene comune
e la disponibilità del bene stesso per la locazione; che il medesimo comproprietario-locatore
operi su mandato senza rappresentanza degli altri comproprietari, sicché il contratto di
locazione apparirà stipulato in nome del comproprietario locatore, ma anche per conto degli
altri comproprietari, i quali avranno diritto a percepire i frutti o tramite il mandante ovvero
direttamente dal momento in cui si sostituiranno al mandante; che non risultino pregiudicati i
diritti di ciascun singolo comproprietario. La Corte d'appello, invece, ha deciso la controversia
in contrasto con tali presupposti di validità del principio applicato, e quindi in contrasto con i
principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alle facoltà spettanti al
comproprietario non locatore, quanto meno con riferimento alla diretta percezione del
canone di locazione.
2.3. Sotto altro profilo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte
d'appello ritenuto che, poiché il contratto non produce effetti diretti nei confronti dei
soggetti che di esso non siano parti se non nei casi espressamente previsti dalla legge, il
comproprietario non locatore non acquista, come tale, la titolarità delle situazioni giuridiche
attive e passive scaturenti dal contratto e non acquista la legittimazione all'esercizio di azioni
o comunque di pretese fondate sul contratto. Il principio sarebbe errato sia in linea generale,
atteso che nei contratti stipulati dal mandatario senza rappresentanza questi acquista i diritti
e assume gli obblighi derivanti dal contratto stipulato con il terzo a meno che il mandante,
sostituendosi al mandatario, eserciti direttamente nei confronti del terzo i diritti di credito
derivanti dal contratto stipulato in esecuzione del mandato; sia in riferimento al caso
specifico del comproprietario non locatore che, sostituendosi al comproprietario locatore
nella posizione concernente la sua quota di proprietà, può esercitare direttamente nei
confronti del conduttore i correlativi diritti di credito, purché non risultino lesi i diritti del
conduttore e del mandatario. In sostanza, la Corte d'appello avrebbe errato nell'escludere in
capo ad essa ricorrente ogni legittimazione all'esercizio di pretese e azioni fondate sul
contratto di locazione.
2.4. Da ultimo, la ricorrente sostiene che la Corte d'appello avrebbe errato anche là dove ha
ricordato che è stato escluso che ai comproprietari diversi dal locatore possa competere
l'azione di rilascio nei confronti del conduttore, salvo il loro diritto al risarcimento del danno
verso il comproprietario locatore qualora la sua attività risulti pregiudizievole agli interessi
della comunione, richiamando a tal proposito, ma in modo incompleto e quindi non
pertinente, Cass. n. 6292 del 1992.
3. Con il terzo motivo, la ricorrente, oltre alle disposizioni del codice menzionate nel secondo
motivo, denuncia violazione degli artt. 2028, 2030, 2032 cod. civ. e degli artt. 99, 329 e 342
cod. proc. civ., nonché vizio logico e omessa, insufficiente, erronea o contraddittoria
motivazione su punti decisivi della controversia.
La censura si riferisce alla parte della sentenza impugnata nella quale la Corte d'appello ha
illustrato le ragioni per le quali non può trovare applicazione in relazione alla presente
fattispecie la disciplina di cui all'art. 1705 cod. civ. In proposito, la ricorrente rileva, da un
lato, che la Corte d'appello, nel ritenere non pertinente il principio affermato da Cass. n.
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4587 del 1995 (“Il proprietario di un immobile locato ad un terzo da un mandatario senza
rappresentanza può, nel revocare il mandato e sostituendosi al mandatario, esercitare ex art.
1705, cod. civ., secondo comma, ogni diritto di credito derivante dal rapporto obbligatorio
posto in essere e, quindi, anche il diritto di ricevere il pagamento dei canoni dal conduttore e
legittimamente può, altresì agire in giudizio a tutela dei diritti stessi”), in base al quale il
giudice di primo grado aveva invece risolto la controversia, avrebbe errato atteso che tale
principio si attaglierebbe perfettamente al caso di specie; dall'altro, che la Corte d'appello ha
affermato ricorrere una ipotesi di gestione nel presunto interesse comune, come se la
comproprietaria locatrice avesse posto in essere una gestione d'affari nell'interesse comune,
valida anche se compiuta all'insaputa dell'altra comproprietaria.
Tale ultima ricostruzione, peraltro, sarebbe inammissibile, atteso che l'appellante principale
aveva criticato la sentenza di primo grado per avere applicato al caso di specie la disciplina
del mandato, ma mai aveva fatto riferimento all'istituto della gestione d'affari; errata, in
quanto l'asserito gestore, senza il previo consenso e la disponibilità del bene comune non
avrebbe potuto legittimamente né amministrare né disporre, e certamente non avrebbe
potuto trasferire la detenzione della quota di proprietà di essa ricorrente attraverso la
stipulazione di un contratto di locazione, che certamente non sarebbe stato valido se non
ratificato dalla parte interessata; ed irrilevante, in quanto la gestione di affari si fonda
proprio sul mandato senza rappresentanza e cioè su quell'istituto che la Corte d'appello ha
invece ritenuto non applicabile nel caso di specie.
Ed ancora, la ricorrente rileva che la Corte d'appello avrebbe confusamente affermato che la
gestione nell'interesse comune avrebbe dovuto trovare la propria regolamentazione nella
disciplina interna della comunione fra l'autore della gestione e la destinatala dell'utilità
stessa, senza investire il terzo, che verserebbe in una condizione di indifferenza e non
potrebbe perciò ricevere pregiudizio. Ed avrebbe ulteriormente errato nell'affermare che la
prova che nel caso di specie non si versasse in tema di mandato senza rappresentanza e che
non potesse nemmeno trovare applicazione, e in via analogica, la norma dettata in tema di
mandato, emergerebbe chiaramente dal rilievo che alla disciplina della comunione non
potrebbe efficacemente sovrapporsi l'iniziativa unilaterale di un comproprietario qualificata
alla stregua di revoca del mandato ai sensi e per gli effetti di cui al secondo comma dell'art.
1705 cod. civ. In proposito, la ricorrente richiama la sentenza n. 4587 del 1995, sottolineando
che ciò che può fare un proprietario per l'intero, lo può certamente fare anche un
comproprietario per la quota di canone corrispondente alla quota di comproprietà.
Da ultimo, la ricorrente rileva che l'esclusione dal contratto della comproprietaria e
l'immodificabilità soggettiva del rapporto ex parte locatoris determinerebbe una limitazione
ingiustificata dei diritti di godimento e patrimoniali rispetto all'immobile della
comproprietaria non compatibile con il regime giuridico della comunione.
4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 81,
100, 105, 416, 419, 434, 435, 436, 447-bis cod. proc. civ., nonché vizio logico e omessa,
insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.
Sul rilievo che la sentenza di primo grado non aveva accolto la domanda subordinata ed
alternativa da essa proposta nei confronti della N. ed aveva rigettato le domande
riconvenzionali che quest'ultima aveva proposto subordinatamente all'accoglimento della
domanda alternativa, la ricorrente ritiene che la N. non avesse interesse a contraddire con lei
nel giudizio di appello. E tuttavia, la N. aveva proposto un appello incidentale proprio nei
confronti di essa ricorrente che era stato erroneamente esaminato dalla Corte d'appello
ancorché fosse inammissibile perché tardivo.
5. Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione dell'art. 91 cod.
proc. civ., nonché vizio logico e omessa, insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione
su punti decisivi della controversia.
La ricorrente si duole del fatto che l'accoglimento dell'appello avversario non abbia consentito
alla Corte d'appello di esaminare il suo appello incidentale con il quale aveva censurato la
sentenza di primo grado per avere compensato le spese di lite pur essendo ella risultata
vittoriosa.
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6. Con riferimento alla questione sollevata con il secondo e il terzo motivo di ricorso, la
Seconda Sezione ha rimesso gli atti al Primo Presidente della Corte per l'assegnazione del
ricorso a queste Sezioni Unite.
Premesso che la questione relativa alla legittimazione del comproprietario non locatore ad
agire direttamente per l'esercizio dei diritti e dei poteri contrattuali derivanti dalla
stipulazione del contratto da parte dell'altro comproprietario può essere giuridicamente
qualificata secondo i due modelli prescelti rispettivamente dalla sentenza di primo grado
(mandato senza rappresentanza - esercizio diretto da parte del mandante locatore non
comproprietario del diritto ad esigere la quota del canone corrispondente alla titolarità del
diritto reale pro quota) e di secondo grado (gestione utile nell'interesse comune con
esclusione di qualsiasi interferenza del locatore non comproprietario nell'esercizio dei diritti
contrattuali), l'ordinanza interlocutoria ha posto in evidenza che entrambe le prospettazioni
si ritrovano negli orientamenti di legittimità e che si è delineato anche un terzo indirizzo,
sull'equivalenza dei poteri gestori dei comproprietari in ordine al bene comune anche quando
uno solo dei comunisti ne abbia trasferito il diritto di godimento.
In particolare, con riferimento all'applicabilità dell'art. 1705 cod. civ. ai rapporti di
locazione, sul quale si è fondato il giudice di primo grado, esiste un orientamento secondo
il quale il proprietario di un immobile locato ad un terzo da un suo mandatario senza
rappresentanza può, nel revocare il mandato, esercitare ex art. 1705, secondo comma,
cod. civ. ogni diritto di credito derivante dal rapporto negoziale nonché essere legittimato
ad agire in giudizio per la riscossione del canone. Il mandante ai sensi dell'art. 1705 cod.
civ. esercita in via diretta e non surrogatoria i diritti di credito sorti in capo ai mandatario
sulla base del contratto concluso, con la sola condizione di non pregiudicarlo. Oltre ai
diritti di credito, nella giurisprudenza meno recente il diritto del mandante a sostituirsi al
mandatario nell'esecuzione del contratto è stato esteso all'azione di risoluzione del
contratto e al risarcimento dei danni nel confronti del terzo contraente.
L'altro orientamento sul quale si è fondato, invece, il giudice di secondo grado, formatosi
specificamente in tema di comunione e di diritti del comproprietario non locatore, ha
configurato la fattispecie come gestione utile nell'interesse comune. Le conseguenze
della diversa impostazione sono di estrema rilevanza. I rapporti tra l'autore della
gestione, che può aver validamente agito anche all'insaputa degli altri comunisti, sono
direttamente ed esclusivamente regolati dalle norme della comunione e non possono
incidere sulla sfera giuridica del terzo che rimane vincolato in via esclusiva con il locatore
e non può subire interferenze o pregiudizio dai rapporti tra i comunisti stessi.
La locazione svolge pienamente i suoi effetti anche quando il locatore abbia violato i limiti
dei poteri che gli spettano ex art. 1105 cod. civ. e seguenti del codice civile, essendo
sufficiente ai fini della stipula della locazione che abbia la disponibilità della cosa locata. Gli
altri comproprietari non possono agire per il rilascio o la rivendica del bene, salvo il diritto al
risarcimento del danno nei confronti dell'altro comunista. Secondo questa impostazione, il
pagamento del canone nelle mani del locatore ha pieno effetto liberatorio mentre l'altro
comproprietario non è legittimato ad agire in giudizio per esercitare questo diritto.
Questa conclusione, abbracciata integralmente dal giudice d'appello, secondo l'ordinanza
interlocutoria, contrasta con il più recente ma consolidato orientamento giurisprudenziale
secondo il quale sugli immobili oggetto di comunione, in difetto di prova contraria,
concorrono pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari in virtù della presunzione che
ognuno operi con il consenso degli altri. Da queste premesse consegue che ogni
comproprietario è legittimato a stipulare il contratto ma anche ad agire per il rilascio
dell'immobile comune, senza che sia necessaria la partecipazione degli altri condomini.
Gli elementi di contrasto sono, in conclusione, secondo l'ordinanza interlocutoria:
l'applicabilità del regime giuridico dei mandato senza rappresentanza alla locazione stipulata
da uno dei comproprietari; i poteri di gestione dei comunisti in ordine alla locazione della
cosa comune.
7. Prima di procedere alla disamina dei diversi orientamenti ora richiamati, appare opportuno
rilevare che alla base di tutte e tre le prospettive interpretative vi sono due premesse
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comuni: che condizione necessaria per stipulare il contratto di locazione è la disponibilità
della cosa comune da parte del comproprietario, corrispondente alla detenzione esclusiva
e qualificata dell'immobile, trattandosi di un presupposto comune ad ogni locazione (Cass.
n. 470 del 1997; Cass. n. 539 del 1997; Cass. n. 8411 del 2006); che, indipendentemente dalla
qualificazione giuridica del potere del singolo comproprietario che pone in essere un atto di
ordinaria amministrazione sul bene comune, il contratto di locazione dell'intero bene
comune stipulato da uno solo dei comunisti è valido ed efficace senza la necessità della
preventiva allegazione o dimostrazione dell'esistenza di un idoneo potere
rappresentativo. Invero, la locazione può essere convenuta dal singolo comproprietario,
anche all'insaputa degli altri, purché il suddetto comproprietario abbia la disponibilità del
bene comune e sia in grado di adempiere la fondamentale obbligazione del locatore, e cioè
quella di consentire il godimento del bene al conduttore; la concessione in locazione di un
immobile non costituisce, quindi, atto esclusivo del proprietario, potendo legittimamente
assumere veste di locatore anche colui che abbia la mera disponibilità del bene medesimo
(Cass. n. 14395 dei 2004), sempre che tale disponibilità sia determinata da titolo non
contrario a norme d'ordine pubblico (Cass. n. 4764 del 2005; Cass. n. 8411 del 2006; Cass. n.
12976 del 2010).
A fronte di questi tratti comuni vi sono differenze d'impostazione e di regime giuridico che
conseguono in particolare dall'assunzione del modello della negotiorum gestio o del mandato,
indifferentemente qualificato tacito o presunto anche se dal punto di vista dell'onere
probatorio le differenze di disciplina non sono modeste, potendosi applicare la presunzione di
consenso degli altri comunisti o quanto meno della maggioranza solo nel mandato presunto,
mentre in quello tacito il potere di agire in qualità di mandatario è soggetto alle ordinarie
regole di allegazione e prova dei fatti costitutivi dell'azione (od eccezione).
Appare opportuno altresì premettere che le pronunce di legittimità che hanno applicato l'art.
1705 cod. civ. al contratto di locazione stipulato dal locatore uti non dominus non si
riferiscono ad un bene in comunione, del quale il locatore sia comproprietario, ma
specificamente ad un bene altrui, con conseguente più agevole applicazione dell'istituto del
mandato senza rappresentanza, e in particolare dell'art. 1705, secondo comma, cod. civ.
Questa norma stabilisce, infatti, in deroga al principio espresso nella prima parte del
medesimo secondo comma, a tenore del quale "i terzi non hanno alcun rapporto con il
mandante", che quest'ultimo possa esercitare i diritti di credito derivanti dall'esecuzione del
mandato. Si tratta dell'esercizio di un potere di sostituzione piena del mandante al
mandatario e non, come invece accade nella comunione, della partecipazione di un altro
cointeressato titolare dello stesso potere di disposizione sul bene del "mandatario" locatore.
La norma invocata non è dettata per disciplinare una fattispecie di titolarità comune di
poteri gestori su un diritto o su un bene ma per ripristinare, attraverso la revoca del
mandato, l'esclusiva titolarità del mandante in ordine all'atto di disposizione del proprio
diritto o bene.
Coerentemente con la segnalata difficoltà di adattamento dell'effetto sostitutivo disciplinato
dall'art. 1705 cod. civ. con il regime giuridico dell'amministrazione della cosa comune, le
pronunce di questa Corte che hanno riconosciuto il potere del singolo comunista di stipulare
un contratto di locazione relativo all'intero bene comune non hanno mai utilizzato l'art. 1705
cod. civ., né per giustificare l'ingerenza nel contratto degli altri comproprietari, né per
escludere l'opponibilità ad essi del regolamento negoziale. La validità ed efficacia della
locazione è stata tratta da una lettura integrata dell'art. 1102 e del primo comma dell'art.
1105 cod. civ., dalla quale si desume una pari legittimazione a contrarre dei
comproprietari e, per talune pronunce, una conseguente contitolarità del rapporto di
locazione unita ad un pari potere di esercitare le azioni contrattuali anche dirette alla
estinzione del vincolo negoziale. Gli orientamenti che si sono succeduti più che contrapporsi
hanno costituito l'uno il substrato logico giuridico dell'altro. Eccentrico rispetto alla
comunione rimane esclusivamente il ricorso all'art. 1705 cod. civ. che, come osservato, non è
stato utilizzato per giustificare l'esercizio, da parte dei comproprietari esclusi, dei diritti e
delle azioni relative all'atto di disposizione sul bene comune.
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7.1. Prendendo dunque le mosse da quest'ultimo orientamento, recepito dalla sentenza di
primo grado, occorre rilevare che lo stesso presenta aspetti problematici.
L'esame delle singole pronunce, infatti, evidenzia differenze significative in ordine
all'ampiezza del potere di sostituzione del mandante. In pronunce meno recenti (Cass. n.
1306 del 1969; Cass. n. 3626 del 1980; Cass. n. 92 del 1990, con riferimento alla vendita di
azioni) si ritiene che tale potere vada riferito a qualsivoglia categoria di diritti derivanti da un
rapporto obbligatorio fino a poter esercitare le azioni volte all'estinzione del vincolo
contrattuale (fattispecie in tema di azione di rilascio di immobile locato) in quanto si
verrebbe a determinare la definitiva modificazione soggettiva di una parte del contratto.
Il principio, con riferimento espresso al diritto alla riscossione dei canoni, è confermato da
Cass. n. 2029 del 1993 e da Cass. n. 4587 del 1995. Nella giurisprudenza più recente, però, la
portata della regola, derogatoria rispetto al generale principio dell'ininfluenza nei confronti
dei terzi del mandato senza rappresentanza, viene fortemente temperata con la limitazione
alle azioni endocontrattuali dirette al soddisfacimento dei crediti derivanti dalle pattuizioni
negoziali e con l'esclusione delle azioni di risoluzione del contratto e delle azioni di
risarcimento dei danni (Cass. n. 7820 del 1998; Cass. n. 11118 del 1998; Cass. n. 1312 del
2005; Cass. n. 13375 del 2007; Cass., S.U., n. 24772 del 2008).
In particolare, nella citata pronuncia delle Sezioni Unite, si è stabilito, componendo il
precedente contrasto, che la regola derogatoria è di stretta interpretazione e deve essere
limitata all'esercizio dei diritti sostanziali acquistati dal mandatario con esclusione delle
azioni di annullamento, rescissione, risoluzione e risarcimento del danno, in funzione sia del
rispetto del principio sancito dall'art. 1372 cod. civ. che della tutela dell'affidamento del
terzo che ha contratto esclusivamente con il mandatario.
In una linea interpretativa intermedia si pone Cass. n. 11014 del 2004, nella quale la Corte ha
esteso il potere del mandante di sostituirsi al mandatario, nell'esercizio delle azioni rivolte al
soddisfacimento dei crediti contrattuali alle ipotesi previste nell'art. 1588 cod. civ., ovvero al
recupero della perdita e del deterioramento della cosa locata anche dovuti ad incendio.
Tuttavia, la richiamata pronuncia di queste Sezioni Unite pone l'accento proprio sulla tutela
dell'affidamento del terzo affermando che "il vero, insuperabile ostacolo che si frappone
all'accoglimento della tesi (...) è dunque quello che vede totalmente pretermessa l'analisi
della posizione contrattuale del terzo. Se nell'ottica mandante/mandatario la rilevanza
sostanziale dell'interesse può far premio sulla titolarità (soltanto) formale (oltre che
istantanea) del mandatario non può per converso trascurarsi che il terzo, nel contrattare con
quest'ultimo (e soltanto con quest'ultimo) ripone un legittimo affidamento nel fatto che tutte
le vicende successive al contratto, sul piano della fisiologia come della patologia degli effetti,
andranno a dipanarsi tra di esse parti, senza alcun intervento ipotetico di terzi mandanti
(....) (sicché) ammettere la legittimità della translatio non solo sotto il profilo attivo del
credito (sicuramente cedibile senza consenso) ma dell'intera posizione contrattuale
formalmente costituitasi in capo al mandatario si risolve, nella sostanza (...) nell'ipotizzare
una fattispecie di cessione senza consenso del contraente ceduto".
7.1.1. Con riferimento a tale orientamento deve rilevarsi che la concezione restrittiva del
potere sostitutivo del mandante, nel mandato senza rappresentanza, in ordine all'esercizio
dei diritti di credito derivanti dal contratto stipulato dal mandatario, per le complessive
caratteristiche evidenziate, non sembra uno strumento agevolmente applicabile ai rapporti
tra partecipanti alla comunione e terzi contraenti nell'ambito dei poteri di gestione del bene
comune. In particolare, può qui rilevarsi che il potere esercitato dal mandante ex art. 1705
cod. civ. è di natura sostitutiva, ancorché non surrogatoria, mentre il comunista esercita
il potere di coamministrazione che gli deriva dalla titolarità del diritto reale sul bene
comune e, conseguentemente, non si pone in una relazione di netta alterità rispetto al
mandatario che ha agito (anche e non solo) per suo conto; la limitazione, stabilita nella
richiamata sentenza di queste Sezioni Unite, al solo esercizio dei diritti di credito derivanti
dal contratto della translatio stabilita dall'art. 1705 cod. civ., in deroga alla regola generale,
risulta fortemente riduttiva rispetto all'incisività, ampiamente riscontrata negli orientamenti
della giurisprudenza di legittimità, degli interventi dei partecipanti alla comunione alle
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vicende del contratto concluso solo da uno di essi; la tutela dell'affidamento del terzo è del
tutto pretermessa dall'applicazione dell'art. 1705 cod. civ. alla comunione, in quanto è
esclusa la possibilità che il modello assunto possa reciprocamente favorire il terzo nel
rapporto diretto col mandante, essendo prevista dalla norma codicistica esclusivamente la
sua soggezione all'esercizio della facoltà potestativa del mandante ma non il correlativo
potere di rivolgersi direttamente ad esso per le prestazioni cui sarebbe contrattualmente
tenuto il mandatario (la regola generale contenuta nell'incipit del capoverso dell'art. 1705
cod. civ. "i terzi non hanno rapporto con il mandante" impedisce questa estensione della
deroga che segue); qualsiasi interpretazione estensiva dell'indicato regime derogatorio che
possa adattarsi al regime giuridico della comunione è attualmente impedito dall'intervento
regolatore, univocamente restrittivo di cui alla citata sentenza n. 24772 dei 2008.
7.2. L'orientamento nettamente maggioritario (Cass. n. 2158 del 1983; Cass. n. 250 del 1984;
Cass. n. 3275 del 1996; Cass. n. 9113 del 1995; Cass. n. 7416 del 1999; Cass. n. 12327 del
1999; Cass. n. 537 del 2002; Cass. n, 14772 del 2004; Cass. n. 8996 del 2005; Cass. n. 2399 del
2008; Cass. n. 19929 del 2008; Cass. n. 480 del 2009; Cass. n. 6427 del 2009; Cass. n. 14530
del 2009; Cass. n. 11589 del 2010) presuppone un reciproco rapporto di rappresentanza tra i
comunisti sottostante agli atti di ordinaria amministrazione compiuti dal singolo
comproprietario e la presunzione del consenso fondata sul modello del mandato presunto o
tacito. Il principio risulta espresso nei sensi seguenti: “sugli immobili oggetto di comunione
concorrono, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori da parte di tutti i
comproprietari, in virtù della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri.
Ne consegue che il singolo condomino può stipulare il contratto di locazione avente ad
oggetto l'immobile in comunione e che un condomino diverso da quello che ha assunto la
veste di locatore è legittimato ad agire per il rilascio del bene stesso (senza che sia
necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini), purché non
risulti l'espressa ed insuperabile volontà contraria degli altri comproprietari, la quale fa
venire meno il presunto consenso della maggioranza” (così, Cass. n. 9113 del 1995).
Ciascuno dei comproprietari può, quindi, richiedere il rilascio del bene immobile
presumendosi anche con riferimento alla vicenda estintiva del rapporto, il consenso degli altri
(Cass. n. 2986 del 1987; Cass. n. 7416 del 1999; Cass. n. 12327 del 1999, Cass. n. 480 del
2009, avente ad oggetto una fattispecie di stipulazione comune del contratto ma di rilascio
promosso da uno solo dei comproprietari; Cass. n. 6427 del 2009); la legittimazione è estesa
allo sfratto per necessità (fondato sull'esclusiva esigenza di uno dei comunisti, Cass. n. 537
del 2002); la presunzione del consenso deve essere superata dall'espressa prova contraria del
dissenso (Cass. n. 14772 del 2004; Cass. n. 8996 del 2005; Cass. n. 2399 del 2008); nell'azione
contrattuale promossa da uno dei comproprietari non è necessaria l'integrazione del
contraddittorio nei confronti degli altri (Cass. n. 19929 del 2008); anche nelle locazioni
ultranovennali (e in particolare negli affitti di fondi rustici) si applicano gli stessi principi e
ciascuno dei comproprietari può agire per il rilascio dell'immobile (Cass. n. 250 del 1984;
Cass. n. 14772 del 2004).
Il reciproco potere di rappresentanza posto a fondamento del potere di ciascuno dei
comproprietari di compiere atti di ordinaria e straordinaria amministrazione (locazione
ultranovennale di natura agraria) trova indifferentemente giustificazione nel mandato
presunto o tacito (Cass. n. 480 del 2009). In quest'ultima pronuncia, in particolare si afferma
che la legittimazione ad agire del singolo comunista si fonda "sulla presunzione del consenso,
insita nel comportamento passivo dei comproprietari in relazione ad un atto di ordinaria
amministrazione, effettuato dal comproprietario resosi attivo a tutela di comuni interessi e
così venuto ad assumere la figura del tacito mandatario o utile gestore". La presunzione del
consenso può dunque costituire la base sia del mandato tacito che, invece, dovrebbe fondarsi
sulla manifestazione del consenso per fatti concludenti, sia per la negotiorum gestio ove tale
requisito non è necessario, essendo invece indispensabile che il gestor agisca in sostituzione
di un interessato "che non sia in grado di provvedervi" (art. 2028, primo comma, cod. civ.).
L'intercambiabilità e la concorrenza dei modelli utilizzati nella giurisprudenza di legittimità si
giustifica su un'interpretazione del primo comma dell'art. 1105 cod. civ. che depotenzia il
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principio dell'amministrazione congiuntiva in funzione dell'interesse, di indubbio rilievo, di
favorire la circolazione del bene comune e l'affidamento dei terzi contraenti. Attraverso la
presunzione del consenso, fondato sull'inerzia dei non partecipi all'atto (ma, come può
agevolmente riscontrarsi dalla lettura delle pronunce citate, spesso si tratta di non
conoscenza e non di vera e propria inerzia, in quanto tale condizione presuppone la scelta di
non intervenire), si limita, in concreto, l'applicabilità del principio maggioritario all'esercizio
di un potere di veto, successivo all'atto di gestione del singolo, riducendo l'efficacia
invalidante della mancanza preventiva della maggioranza alla sola ipotesi della prova del
dissenso, conosciuto dal terzo, nella fase preparatoria e genetica dell'atto (Cass. n. 480 del
2009).
Il principio ha trovato applicazione in numerose pronunce che, pur prendendo le mosse da
contratti stipulati da tutti i comproprietari, hanno avuto ad oggetto l'esercizio di azioni
endocontrattuali o rivolte all'estinzione del rapporto poste in essere da uno solo di essi (Cass.
n. 14772 del 2004 e Cass. n. 19929 del 2008, entrambe relative alla validità della disdetta
inviata da uno solo dei comproprietari locatori). Anche in queste pronunce, la derivazione
della legittimazione del singolo proprietario non viene desunta dalla stipulazione congiunta
del contatto e dall'espressa qualità di parte contrattuale dell'agente, ma dall'applicazione del
generale principio della parità dei poteri gestori tra comproprietari e dalla presunzione del
consenso da parte del non partecipante all'esercizio dell'azione, senza distinzioni tra atti
meramente conservativi come la disdetta alla scadenza o azioni tendenti ad una modifica del
regime contrattuale (azione di rilascio per necessità, diniego di rinnovo alla prima scadenza
etc.).
Al riguardo si devono segnalare Cass. n. 8996 del 2005, relativa alla validità ed efficacia della
disdetta di un comproprietario pro quota in ordine ad un affitto agrario e Cass. n. 5077 del
2010, che utilizza il principio dei pari poteri gestori dei comproprietari in funzione
dell'affidamento del terzo. In tale pronuncia viene ritenuta valida ed efficace la cessione del
contratto da parte del conduttore originario ad un terzo ancorché tardivamente contestata
dai locatori, perché medio tempore i canoni corrisposti (per due mensilità) dal cessionario
erano stati accettati da parte di uno dei locatori. Sempre a tutela dell'affidamento dei
conduttori, Cass. n. 2399 del 2008 ha ritenuto che gli effetti dell'intimazione di sfratto per
morosità eseguita da uno dei locatori potessero essere paralizzati dalla successiva lettera di
dissenso dell'altro comproprietario, peraltro contitolare del contratto, ritenendo sufficiente a
tal fine non la partecipazione in giudizio del comunista dissenziente ma la produzione da
parte del conduttore della lettera costituente la prova contraria alla presunzione del
consenso che sorregge le iniziative negoziali unilaterali del comproprietario.
La tutela dell'affidamento del terzo conduttore è quindi basata proprio sul tradizionale
principio del reciproco rapporto di rappresentanza tra i comunisti. Questa configurazione
dei rapporti interni alla comunione non ha più soltanto la funzione di estendere gli effetti
del contratto anche ai comunisti che non lo abbiano stipulato, fornendo loro il potere di
esercitare le conseguenti azioni contrattuali, ma risulta idonea a garantire
all'adempimento del terzo contraente piena efficacia liberatoria. La presunzione del
consenso dovrebbe operare in suo favore nell'ipotesi in cui si trovi esposto ad iniziative od
azioni contrattuali da parte di un comproprietario (non rileva se contitolare del contratto)
riferite ad obbligazioni già adempiute. Allo stesso modo può operare la manifestazione
espressa del dissenso in ordine ad iniziative unilaterali di uno dei comunisti volte a far cessare
gli effetti del contratto o a creare, in altro modo, un pregiudizio al conduttore.
Un'utilizzazione equilibrata del principio della parità dei poteri dei comproprietari può, per
l'orientamento in esame, operare anche a favore del terzo per la rilevanza dei comportamenti
negoziali adottati reiteratamente nella concreta regolazione degli interessi, in sede di
esecuzione del contratto. Secondo questa linea interpretativa, non è quindi più necessario
ricorrere alla negotiorum gestio con la obbligata forzatura di equiparare i comproprietari
ignari all'interessato impossibilitato a provvedere ai propri affari, per tutelare l'affidamento
del terzo.
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L'applicazione del principio, apparentemente contrapposto, del consenso presunto e reciproco
di ciascuno dei comproprietari, all'atto di amministrazione compiuto dal singolo può
determinare effetti analoghi. All'interno di questa più ampia concezione della parità dei
poteri gestori dei comproprietari, che consente anche al terzo di confidare sulla
legittimazione (derivante dalla presunzione del consenso) a contrarre del comproprietario
locatore, problema aperto è quello di come debba essere disciplinato l'esercizio diretto dei
diritti contrattuali da parte di un comproprietario diverso dai locatore. Il principio del
consenso presunto potrebbe fornire un criterio di equilibrio nel rapporto tra gli interessi dei
comunisti e l'affidamento del terzo con riferimento alla manifestazione della volontà di
contrarre o di estinguere il vincolo, ma risulterebbe meno efficace se si tratti di valutare la
validità e l'efficacia della unilaterale imposizione di modalità di adempimento del contratto
diverse da quelle pattuite o usualmente praticate e divenute negoziali per facta
concludentia.
Al riguardo la Corte ha ritenuto la legittimazione passiva di uno qualsiasi dei comproprietari
di un immobile locato ad uso commerciale in ordine all'indennità di avviamento commerciale.
In particolare nella motivazione è stato affermato che "se il singolo condomino può stipulare
un contratto di locazione obbligatorio anche per gli altri ogni condomino, anche diverso dal
locatore, è direttamente obbligato con riferimento all'intero svolgimento del rapporto
locativo. Anche se i precedenti specifici riguardano la legittimazione attiva del condomino
non locatore per l'azione di rilascio, poiché tale legittimazione dipende dalla diretta
imputazione a tutti i condomini degli effetti ordinari del contratto stipulato da uno di loro, ne
consegue che tutti devono ritenersi egualmente legittimati anche passivamente nei confronti
delle istanze e delle azioni del conduttore". In questo senso, sembra riemergere il regime
giuridico della negotiorum gestio, che pone a carico dell'interessato le obbligazioni assunte in
suo nome nonché i costi patrimoniali della gestione dell'affare, fornendo al terzo contraente
una tutela pressoché integrale.
7.2.1. L'orientamento ora esaminato muove da una premessa che ha prestato e presta il
fianco ad una critica sostanzialmente radicale, che il Collegio condivide. Desta invero
perplessità la prospettazione dei rapporti tra comunisti in termini di mandato disgiuntivo
presunto, da escludersi in un sistema fondato sulla regola organizzativa opposta
dell'amministrazione congiuntiva; così come il ricorso al mandato tacito risulta
inappagante in quanto nell'ipotesi, molto frequente, della locazione stipulata da uno dei
comunisti all'insaputa degli altri, non vi è alcuna possibilità di identificare il
comportamento concludente di questi ultimi rivolto a consentire la stipula della
locazione. In particolare, tale orientamento muove dal fatto noto, costituito dalla
stipulazione del contratto di locazione da parte di un solo comproprietario, per risalire, quale
conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, al fatto ignoto,
costituito dalla esistenza di un mandato tacito conferito dagli altri condomini. Orbene, una
simile presunzione non appare adeguatamente motivata, atteso che la stessa è destinata ad
operare in presenza di una norma che per gli atti di ordinaria amministrazione, tra i quali
rientra la stipulazione di un contratto di locazione infranovennale della cosa comune,
richiede una deliberazione dei partecipanti alla comunione e quindi una manifestazione
espressa di volontà.
7.3. Il terzo dei richiamati orientamenti (espresso da Cass. n. 5890 del 1982; Cass. n. 2158 del
1983; Cass. n. 6292 del 1992, ma che è stato recentemente riproposto da Cass. n. 483 del
2009) si fonda sui comuni presupposti della validità della locazione della cosa comune
stipulata soltanto da uno dei compro-prietari (Cass. n. 5890 del 1982 cit.) e sull'esistenza di
un reciproco rapporto di rappresentanza tra i partecipanti alla comunione, ma si differenzia
dall'altro o-rientamento in ordine agli effetti della contitolarità del diritto di proprietà nei
confronti del terzo conduttore.
Nella pronuncia più rilevante ed ampiamente argomentata (Cass. n. 6292 del 1992), si
afferma il principio per cui "la locazione della cosa comune da parte di uno dei
comproprietari sorge validamente e svolge i suoi effetti contrattuali, anche se il locatore
abbia violato i limiti dei poteri spettantigli ex art. 1105 e ss. cod. civ., senza che agli altri
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partecipanti che gli hanno lasciato la completa disponibilità della cosa possa competere
azione di rilascio o di rivendica nei confronti del conduttore, il quale di conseguenza resta
obbligato alla esecuzione del contratto ed al pagamento del canone fino alla riconsegna del
bene al comproprietario locatore e non può derogarvi in ragione della successiva opposizione
degli altri comproprietari del bene locato, configurando questa una molestia di diritto di cui
dare comunicazione al locatore ai sensi e per gli effetti previsti dagli artt. 1585 e 1586 cod.
civ.". Ai comproprietari non locatori spetta esclusivamente, secondo tale pronuncia, il
risarcimento del danno.
L'orientamento enunciato è radicale in ordine alla estraneità degli altri comproprietari
rispetto al contratto di locazione. Nella motivazione viene spiegato che il terzo non è liberato
dalle sue obbligazioni contrattuali (compreso il rilascio del bene alla cessazione degli effetti
del contratto) se le adempie nei confronti degli altri comproprietari, essendo tenuto,
nell'ipotesi di sostituzione dei medesimi nell'esercizio dei diritti endocontrattuali, a
sollecitare l'intervento del locatore al fine di tenerlo garantito dalle molestie di diritto ai
sensi dell'art. 1585 cod. civ.. Nella fattispecie decisa dalla richiamata pronuncia, il
conduttore, nonostante l'avvenuto rilascio del bene su intimazione dei comproprietari non
locatori, è stato dichiarato tenuto a pagare il canone fino al rilascio nelle mani della parte
locatrice risultante dal contratto con la quale si era negozialmente vincolato.
Questo orientamento risulta confermato nella recente pronuncia n. 483 del 2009, secondo la
quale "l'affitto di un fondo rustico per la durata minima di legge (quindici anni, ai sensi
dell'art. 1 della legge n. 203 del 1982) stipulato, ancorché verbalmente, da parte di uno dei
comproprietari che ne abbia la disponibilità, sorge validamente e svolge i suoi effetti
contrattuali, anche se il locatore abbia violato i limiti dei poteri di amministrazione a lui
spettanti a norma degli artt. 1105 e 1108 cod. civ., senza che agli altri partecipanti possa
competere azione di rilascio e tantomeno di revindica nei confronti del conduttore, salvo il
diritto al risarcimento dei danni verso il condomino locatore, qualora la sua attività risulti
pregiudizievole agli interessi della comunione". Questa sentenza, estendendo l'efficacia della
locazione stipulata da un solo comproprietario anche ai contratti di durata ultranovennale,
incontestatamente rientranti negli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, in primo luogo,
si allontana ulteriormente dal principio maggioritario stabilito nell'art. 1105 cod. civ. In
secondo luogo, ribadisce il principio della presunzione del consenso del comproprietario non
partecipante alla stipula del contratto, con riferimento ad una fattispecie in cui il terzo
conduttore (fratello del comunista non locatore e figlio del comproprietario locatore) era
incontestatamente al corrente della contitolarità del diritto di proprietà sull'immobile. In
terzo luogo, precisa che la prova contraria, nonostante la equivocità dei fatti noti da cui
desumere il consenso presunto, poteva essere fornita esclusivamente mediante la
dimostrazione da parte del comproprietario non locatore della propria manifestazione di
dissenso prima della stipula del contratto. Essendo mancata questa prova, il contratto di
affitto è pienamente efficace ed opponibile al comproprietario non locatore che ne aveva
invocato la nullità. Peraltro, a sostegno della soluzione adottata, la Corte indica gli
orientamenti che fondano la validità ed efficacia del contratto di locazione stipulato da uno
solo dei comproprietari, sul reciproco rapporto di rappresentanza tra di essi e sulla
concorrenza di pari poteri gestori, giustificata sulla base della comunanza d'interessi tra tutti
i contitolari del bene, anche se, da queste premesse non fa discendere un potere d'ingerenza
diretta dei comunisti non locatori sul contratto ma, al contrario, con riferimento all'art. 1108
cod. civ., che richiede maggioranze qualificate per gli atti che eccedono l'ordinaria
amministrazione, afferma che "in caso di violazione del precetto unici rimedi a favore del
comproprietario che non ha prestato il consenso alla locazione ultranovennale dell'intero
bene sarebbero di natura risarcitoria, stanti i principi dell'apparenza del diritto,
dell'affidamento del terzo e della buona fede".
7.2.1. Secondo questo indirizzo giurisprudenziale (seguito dalla sentenza impugnata), il
comproprietario locatore assume rispetto ai comunisti che non hanno partecipato al momento
genetico del contratto la qualità giuridica del gestore di affari e non del mandatario
(all'interno della duplice, concorrente prospettazione del mandato presunto o del mandato
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tacito). Da questa configurazione del rapporto tra comproprietari deriva, ai sensi dell'art.
2031, primo comma, cod. civ., che gli altri comunisti sono tenuti all'adempimento delle
obbligazioni conseguenti alla stipula del contratto, salvo che il gestor abbia agito nonostante
il divieto della maggioranza dei comproprietari o dell'altro titolare della medesima quota.
L'assunzione delle obbligazioni contrattuali (prima tra tutte, nella locazione, il trasferimento
della detenzione della cosa comune) non determina, però, come nel mandato la contitolarità
della posizione di locatori da parte dei comunisti. Essi non divengono parti del contratto
stipulato dal gestore le violazioni, commesse da quest'ultimo, delle regole di formazione della
volontà all'interno della comunione, non sono opponibili al terzo che resta vincolato, fino alla
cessazione degli effetti del contratto, al regolamento d'interessi originario.
Questa prospettazione ha il vantaggio di tutelare l'affidamento del terzo nel regolamento
d'interessi originariamente sottoscritto, in quanto solo dalla ratifica si determinano gli effetti
propri del mandato (art. 2032 cod. civ.). Nella fase della gestione utile, il terzo che non sia a
conoscenza, nel momento genetico del contratto, del divieto della maggioranza dei comunisti
o del veto del comproprietario titolare di quota di pari valore di quella dello stipulante, non è
tenuto a subire gli effetti delle sopravvenute modifiche della volontà di contrarre che si
verificano tra i comproprietari dell'immobile locato.
8. Tale essendo il quadro delle soluzioni giurisprudenziali offerte in materia da questa Corte,
il Collegio ritiene che la fattispecie in esame debba essere ricondotta nell'ambito di
applicazione delle disposizioni concernenti la gestione di affari altrui, consentendo tale
disciplina di offrire una soluzione che valga a contemperare gli interessi e le posizioni dei
vari soggetti coinvolti.
8.1. Occorre innanzitutto rilevare che l'esistenza di una situazione di contitolarità del bene da
parte del gestore non è di ostacolo all'applicazione dell'art. 2028 cod. civ., atteso che risulta
impossibile negare che il partecipante della comunione che amministra la cosa comune curi
l'interesse non solo proprio ma anche degli altri (Cass. n. 10732 del 1993).
Ciò premesso, “elemento caratterizzante la gestione di affari è il compimento di atti
giuridici spontaneamente ed utilmente nell'interesse altrui, in assenza di un obbligo
legale o convenzionale di cooperazione; a tal fine, si richiede innanzitutto l’absentia
domini, da intendersi non già come impossibilità oggettiva e soggettiva di curare i propri
interessi, bensì come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il gestore
sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo
intervento senza opposizione e/o divieto del dominus; tale requisito non è peraltro
sufficiente ai fini della configurabilità della gestione di affari, occorrendo altresì l'utilità della
gestione (cosiddetta utiliter coeptum), la quale sussiste quando sia stata esplicata un'attività
che, producendo un incremento patrimoniale o risolvendosi in un'evitata diminuzione
patrimoniale, sarebbe stata esercitata dallo stesso interessato quale buon padre di famiglia,
se avesse dovuto provvedere efficacemente da sé alla gestione dell'affare” (Cass. n. 12280
del 2007; con riferimento al concetto di absentia domini, Cass. n. 12304 del 2011). La
gestione di affari consiste, dunque, nel compimento di atti giuridici spontaneamente ed
utilmente posti in essere dal gestore nell'altrui interesse in assenza di ogni rapporto
contrattuale in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui
(Cass. n. 4623 del 2001; Cass. n. 18626 del 2003).
Gli elementi della gestione d'affari sono, quindi, l’animus aliena negotia gerendi; l'utilità
della gestione; la impossibilità dell'interessato di svolgere l'affare o, comunque, la mancanza
della prohibitio domini; l'esistenza dell'interesse altrui.
Con riferimento al primo, in una risalente ma ancora attuale pronuncia di questa Corte, si è
affermato che “nella gestione d'affari l’animus aliena negotia gerendi, cioè il proposito di
agire per conto e vantaggio di altri, non deve necessariamente risultare da dichiarazione
espressa del dominus negotii, ma può risultare anche dalle circostanze di fatto; quanto poi al
requisito dell'utiliter coeptum, e sufficiente che la gestione sia utilmente intrapresa, e cioè
sia stata spiegata un'attività che lo stesso dominus avrebbe esercitato agendo da buon padre
di famiglia se avesse dovuto provvedere efficacemente da sé alla gestione dell'affare” (Cass.
n. 550 del 1964; in senso conforme, v. anche Cass. n. 4821 del 1980; Cass. n. 1365 del 1989).
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Può quindi ritenersi che sussista l'indicato requisito nel caso in cui chi sia nella disponibilità di
un bene in parte di altri ne disponga concedendolo in locazione, essendo siffatta iniziativa
contrattuale, in assenza di opposizioni da parte degli altri comproprietari, chiaramente
riferibile anche all'interesse di questi ultimi. D'altra parte, non può non rilevarsi che l'art.
2032 cod. civ., nel consentire la ratifica dell'operato del gestore da parte dell'avente diritto,
anche se la gestione è stata compiuta da persona che credeva di gestire un affare proprio,
vale a ridimensionare seriamente la rilevanza del requisito soggettivo con il quale il gestore
ha proceduto alla gestione.
Quanto agli altri due requisiti dell'istituto in esame, la loro ricorrenza è senz'altro verificabile
nel caso del contratto di locazione, trattandosi di atto di disposizione in genere di ordinaria
amministrazione (ma, si è visto, che in alcune pronunce di questa Corte l'utilità dell'affare è
stata ravvisata anche in ipotesi di contratti ultranovennali) destinato a far fruttare il bene
comune e rispetto al quale deve ritenersi sussistente anche l'interesse del comproprietario
non locatore che non abbia manifestato opposizione.
Nell'ambito della gestione d'affari può inoltre aggiungersi, riguardo al presupposto della
absentia domini, che tale requisito è stato ritenuto sussistente non solo allorché l'interessato
versi in una condizione di impedimento, che si traduca in una impossibilità materiale rispetto
alla cura dei propri affari, ma anche qualora l'interessato stesso non manifesti, espressamente
o tacitamente, il divieto a che altri si ingerisca nei propri affari (Cass. n. 3143 del 1984).
Non vi è, pertanto, ostacolo formale a ricondurre la fattispecie della locazione del bene
comune da parte di un solo comproprietario nell'ambito della disciplina della gestione
d'affari.
8.2. In più, deve osservarsi che la soluzione offerta dalle disposizioni in tema di gestione di
affari appare poi la più idonea a contemperare le posizioni di tutti i soggetti coinvolti.
Il contratto sottoscritto dal comproprietario locatore e il conduttore è infatti efficace,
rilevando l'opposizione del comproprietario non locatore solo nel caso in cui venga
manifestata e portata a conoscenza del conduttore prima della stipula del contratto (art.
2031, secondo comma, cod. civ.), sicché, come si è appena osservato, il conduttore è posto al
riparo da sopravvenuti contrasti che dovessero insorgere tra i comproprietari in ordine alla
gestione del bene comune.
Il comproprietario non locatore, da parte sua, ove sia a conoscenza della intenzione del
gestore di addivenire ad una locazione del bene comune, può manifestare preventivamente il
proprio dissenso, il che lo esonererebbe, ai sensi dell'art. 2031, secondo comma, dal dovere di
adempiere le obbligazioni che il gestore abbia assunto, anche in nome proprio, e di
rimborsargli le spese sostenute. Il comproprietario non locatore, inoltre, ai sensi dell'art.
2032 cod. civ., ed è questo l'aspetto che maggiormente rileva ai fini della soluzione del
caso di specie, ha la facoltà di ratificare il contratto stipulato dal comproprietario
locatore, e l'esercizio di tale potere comporta gli effetti che sarebbero derivati da un
mandato, anche se la gestione è stata compiuta da un soggetto che credeva di gestire un
affare proprio.
Nella giurisprudenza di questa Corte si è ripetutamente affermato che “ai sensi degli artt.
2031 e 2032 cod. civ., la gestione di affari, che non abbia comportato la spendita del nome
del dominus, può produrre, ancorché ratificata, effetti nei rapporti fra il dominus ed il
gestore, ma non può in alcun caso valere a far subentrare il primo nel rapporto negoziale che
il secondo abbia instaurato in nome proprio con il terzo” (Cass. n. 3479 del 1978; Cass. n.
11637 del 1991; Cass. n. 12102 del 2003) e che, proprio in base a tale principio si è precisato
che “il contratto che il comproprietario di un immobile abbia stipulato nell'asserita qualità di
proprietario esclusivo è inidoneo a produrre effetti diretti nei rapporti fra gli altri
comproprietari ed il terzo contraente, in quanto nella gestione di affari non rappresentativa
la ratifica non fa subentrare il dominus in luogo del gestore nel rapporto costituito da
quest'ultimo in nome proprio con i terzi e i soggetti del rapporto restano quelli originari”
(Cass. n. 3479 del 1978 cit). In questo senso, si è quindi affermato, con riguardo ad un
fabbricato appartenente per porzioni distinte a due proprietari, che “il comportamento
dell'uno, consistente nel concedere in locazione l'intero immobile e nel provvedere a
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riscuoterne il canone, è qualificabile come negotiorum gestio di tipo rappresentativo,
secondo la previsione degli artt. 2028 e segg. cod. civ., fino a quando il secondo non
manifesti, espressamente o tacitamente, il divieto a che altri si ingerisca nel proprio affare,
con la conseguenza che, ove intervenga tale divieto, deve riconoscersi a detto secondo
proprietario, divenuto anch'egli locatore e creditore del canone (per la parte di sua
spettanza) per effetto di quella gestione, il diritto di ottenere direttamente dal locatario il
pagamento della quota del canone medesimo, tenendo conto che fra più creditori di una
prestazione divisibile non si presume il vincolo di solidarietà” (Cass. n. 3143 del 1984).
Dalla motivazione di tale pronuncia si evince che, in quel caso, la gestione rappresentativa
era stata desunta implicitamente dal mero dato oggettivo che il comproprietario locatore
avesse concesso in locazione l'intero bene (nel caso di specie, un'attività alberghiera);
appare, peraltro, evidente come la soluzione della implicita rappresentatività della gestione
non possa essere seguita, comportando essa ancora il riferimento ad un mandato presunto, in
assenza di contemplatio domini; il che presterebbe il fianco alle critiche già riferite in
precedenza.
Tuttavia, è innegabile che, pur in presenza di una gestione non rappresentativa, che si svolga
quindi senza alcuna contemplatio domini, la ratifica determina, dal suo manifestarsi, gli
effetti che sarebbero derivati da un mandato (art. 2032 cod. civ.). E tra gli effetti del
mandato vi è proprio quello di cui all'art. 1705, secondo comma, cod. civ., che abilita il
comproprietario non locatore a richiedere, per il tempo successivo alla ratifica, il pagamento
pro quota del canone al conduttore. La ratifica, giova soggiungere, non necessita di formalità
particolari, ben potendo essere espressa dalla domanda che, come nella specie, il
comproprietario non locatore rivolga al conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario
locatore, di vedersi attribuito il 50% dei canoni per il periodo successivo alla ratifica.
Ovviamente, ove si tratti di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore non
potrà svolgere altre azioni derivanti dal contratto, essendo la facoltà del mandatario di
sostituirsi al mandante limitata dall'art. 1705, secondo comma, cod. civ., ai crediti derivanti
dal contratto stipulato dal mandatario.
8.3. In conclusione, la questione sottoposta all'esame di queste Sezioni Unite deve essere
risolta con l'affermazione del seguente principio di diritto: “La locazione della cosa comune
da parte di uno dei comproprietari rientra nell'ambito di applicazione della gestione di
affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all'art. 2032 cod.
civ., sicché, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore
potrà ratificare l'operato del gestore e, ai sensi dell'art. 1705, secondo comma, cod. civ.,
applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 cod. civ.,
esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei
canoni corrispondente alla quota di proprietà indivisa”.
9. In applicazione del principio ora richiamato, il ricorso deve essere accolto, atteso che la
Corte d'appello di Genova ha del tutto omesso di verificare se nella condotta della
comproprietaria non locatrice fosse ravvisabile una ratifica del contratto di locazione
sottoscritto dall'altra comproprietaria.
L'accoglimento del ricorso comporta la cassazione della sentenza impugnata con rinvio, per
nuovo esame della controversia alla luce dell'indicato principio di diritto, ad altra sezione
della Corte d'appello di Genova.
10. La cassazione con rinvio della sentenza impugnata comporta l'assorbimento delle ulteriori
censure svolte dalla ricorrente, atteso che le stesse involgono questioni relative allo
svolgimento del giudizio di appello e all'omesso esame delle stesse da parte di quel giudice,
che potranno essere prese in considerazione in sede di rinvio.
Al giudice di rinvio è demandata altresì la regolamentazione delle spese del giudizio di
legittimità.
P.Q.M.
La Corte di cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il primo motivo di ricorso,
accoglie il secondo e il terzo, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche
per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte d'appello di Genova.
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8) COMPRAVENDITA: E’ SUFFICIENTE UNA
DENUNCIA GENERICA DEI VIZI DEL BENE
OGGETTO DI COMPRAVENDITA
La denunzia dei vizi della cosa venduta ai sensi degli art. 1492 e 1495 c.c. non deve consistere
necessariamente in una esposizione dettagliata dei vizi che presenta la res venduta, poichè in
considerazione della finalità della denunzia consistente nel mettere il venditore sull'avviso in ordine alle
intenzioni del compratore e contemporaneamente in condizione di verificare tempestivamente la
veridicità della doglianza, una denuncia generica può essere idonea allo scopo, sempreché con essa il
venditore sia reso edotto che il compratore ha riscontrato, seppure in maniera non ancora chiara e
completa, che la cosa è affetta da vizi che la rendono inidonea all'uso cui è destinata o ne diminuiscano in
modo apprezzabile il valore.
Cassazione, sez. II, 11 dicembre2015, n. 25027
Con la pronuncia dell’11 dicembre 2015, n. 25027, emessa in tema di compravendita, il S.C. chiarisce che
la denuncia sull’esistenza di vizi da parte del compratore non deve necessariamente contenere nel
dettaglio i vizi riscontrati nel bene oggetto di compravendita, essendo sufficiente rendere edotto il
venditore, in maniera comunque chiara, che il bene in questione è affetto da vizi tali da renderlo inidoneo
all’uso cui è destinato.
Il caso. La vicenda decisa dalla Cassazione con la sentenza in commento nasce dall’opposizione a decreto
ingiuntivo promossa dalla società acquirente avverso l’ingiunzione di pagamento emessa nei suoi confronti
relativa al pagamento di alcuni beni oggetto di compravendita. L’opposizione si basa sull’esistenza di una
serie di vizi riscontrati nei beni in questione: vizi che avrebbero dovuto comportare una riduzione del
prezzo di vendita. L’opposizione viene rigettata in primo e secondo grado, con conferma del decreto
ingiuntivo opposto, sul rilievo che la denuncia dei vizi sarebbe stata eccessivamente generica. La società
acquirente promuove ricorso per cassazione, ponendo come motivo principale la circostanza che non sia
necessario un dettagliato elenco dei vizi del bene, essendo per contro sufficiente una generica denuncia,
dalla quale si comprenda, comunque, la natura dei vizi denunciati. Il S.C. accoglie tale motivo di ricorso e
rimette alla Corte territoriale per un nuovo esame della causa.
Contratto di compravendita ed obblighi del venditore. Secondo quanto previsto dall’art. 1490 c.c. in tema
di compravendita, il venditore deve agire con diligenza assicurando stato e qualità della merce oggetto
del trasferimento giacché questi è obbligato a consegnare all'acquirente dei beni che presentino le
caratteristiche promesse e risultino immuni da vizi in grado di incidere sull'idoneità del loro uso.
Vizi del bene del bene venduto e onere della prova. Sul punto, l'onere della prova per i vizi e difetti della
stessa incombe sul compratore il quale dovrà fornire gli elementi da cui desumere un nesso causale tra i
difetti rinvenuti e le conseguenze dannose subite mentre al venditore, per contro, spetterà la prova
liberatoria della mancanza di colpa. In ogni caso, nell'ipotesi in cui non siano rispettati i termini di
decadenza e di prescrizione per la denuncia dei vizi ai sensi dell'art. 1495 c.c. e risulti carente la prova sul
nesso causale degli accadimenti, non potrà essere accolta la richiesta risarcitoria avanzata ai sensi
dell'art. 1494 c.c..
Garanzia per i vizi: la tutela del compratore. Secondo la prevalente giurisprudenza – come anche secondo
la sentenza in commento - la disciplina della garanzia per vizi si esaurisce negli artt. 1490 ss. c.c., che
pongono il venditore in una situazione non tanto di obbligazione, quanto di soggezione, esponendolo
all'iniziativa del compratore, intesa alla modificazione del contratto od alla sua caducazione mediante
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l'esperimento, rispettivamente, della actio quanti minoris o della actio redhibitoria. Da ciò discende che il
compratore non dispone - neppure a titolo di risarcimento del danno in forma specifica - di un'azione "di
esatto adempimento" per ottenere dal venditore l'eliminazione dei vizi della cosa venduta, rimedio che gli
compete soltanto in particolari ipotesi di legge (garanzia di buon funzionamento, vendita dei beni di
consumo) o qualora il venditore si sia specificamente impegnato alla riparazione del bene.
Riconoscimento dei vizi da parte del venditore: non è richiesta una forma specifica. Sotto un diverso
profilo, ossia con riferimento alla prospettiva del venditore, il riconoscimento dei vizi della cosa venduta
da parte dello stesso venditore - che rende superflua la denunzia dei vizi stessi o la comunicazione della
denunzia entro i prescritti termini - non è soggetto ad una forma determinata e può esprimersi attraverso
qualsiasi manifestazione, purchè univoca e convincente, senza alcuna necessità che ad esso si accompagni
l'ammissione di una responsabilità o l'assunzione di obblighi.
Garanzia del bene: non prevista per il contratto preliminare. La disciplina relativa alla garanzia per
mancanza di qualità della cosa venduta (art. 1497 c.c.), al pari di quella relativa alla garanzia per vizi
della cosa venduta (art. 1490 c.c.), è propria del contratto definitivo di compravendita ed è invece
estranea al contratto preliminare di compravendita.
Compravendita e responsabilità extracontrattuale. In caso di inadempimento degli obblighi derivanti dal
contratto di compravendita, oltre alla responsabilità contrattuale, potrebbe configurarsi anche una
responsabilità extracontrattuale del venditore, ma soltanto qualora il pregiudizio arrecato al compratore
abbia leso interessi di quest'ultimo che, essendo sorti al di fuori del contratto, abbiano la consistenza di
diritti assoluti.
Risoluzione e risarcimento: i diversi presupposti per l’alienante. Fermo quanto precede, deve però
precisarsi, in punto di onere probatorio, che l'azione di risoluzione per i vizi della cosa venduta non
presuppone l'esistenza della colpa dell'alienante, contrariamente alla diversa ipotesi dell'azione di
risarcimento dei danni, nella quale l'art. 1494 c.c. presuppone la colpa del venditore ponendo a suo carico
una presunzione di conoscenza dei vizi.
Cassazione, sez. II, 11 dicembre2015, n. 25027
(Pres. Piccialli – Rel. Nuzzo)
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 26.4.2002, la società Elettrikro s.n.c. proponeva opposizione avverso il
decreto ingiuntivo con cui il Tribunale di Mantova le aveva ingiunto il pagamento di Euro 51.339,76, in
favore di Unical A.G., quale residuo corrispettivo per la fornitura di alcuni condizionatori.
L'opponente chiedeva la revoca del D.I., previo accertamento dell'inadempimento dell'opposta all'obbligo
di garanzia di buon funzionamento dei beni compravenduti, con conseguente riduzione del loro prezzo.
L'opposta si costituiva chiedendo il rigetto dell'opposizione. Con sentenza 10.3.2005 il Tribunale di
Mantova rigettava l'opposizione e le domande proposte da Elettrikro, condannandola alle spese di lite.
Avverso tale sentenza la soccombente proponeva appello cui resisteva l'Unical AG s.p.a..
Con sentenza depositata il 3.5.2010 la Corte di Appello di Brescia rigettava l'appello condannando
l'appellante al pagamento delle spese del grado.
Osservava la Corte di merito: che la testimonianza del P. non valeva a contrastare quanto affermato dal
primo Giudice in punto di estrema genericità della contestazione dei vizi; che il materiale per la
riparazione dei climatizzatori era stato montato dal terzi estranei sicché difettava la prova, a carico
dell'opponente, "non solo dell'esistenza dei vizi ma anche della imputabilità degli stessi alla parte nei cui
confronti é diretta la pretesa ad essi connessa".
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la s.n.c. Elettrikro formulando sette motivi.
Resiste con controricorso e memoria Unical AG s.p.a..
Motivi della decisione
La ricorrente deduce:
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1) falsa applicazione dell'art. 1495 c.c., per avere la sentenza impugnata erroneamente affermato la
necessità di una denuncia dei vizi analitica fin dal momento della denuncia stessa, escludendo che le
caratteristiche dei vizi potessero essere specificate in corso di causa;
2) falsa applicazione dell'art.1495 c.c., non avendo la giudice di appello tenuto conto che non occorre la
denuncia dei vizi quando il venditore, "anche per facta concludentia" (come l'effettuazione di riparazioni o
l'invio di pezzi di ricambio da parte del venditore), abbia riconosciuto l'esistenza dei vizi;
3) falsa applicazione degli artt. 1494-1512 e 2697 c.c., posto che, a fronte del difettoso funzionamento
dei condizionatori fatto pacifico), sarebbe stato onere dell'Unical dimostrare il venir meno del nesso
eziologico tra la garanzia di buon funzionamento dei climatizzatori ed il loro mancato funzionamento;
4) manifesta contraddittorietà della motivazione in ordine ad un fatto decisivo per il giudizio, quale il
contenuto della denunzia dei vizi delle cose vendute in quanto, da un lato, si affermava in sentenza che
non erano stati specificati i vizi, e dall'altro, che questi consistevano nel mancato funzionamento dei
climatizzatori;
5) insufficiente motivazione in ordine ad un fatto decisivo per il giudizio, avendo il giudice di appello
rigettato la richiesta di C.T.U., necessaria per accertare se il mancato funzionamento dei beni venduti
fosse ascrivibile a vizi redibitori o ad errori di installazione;
6) insufficiente motivazione sul fatto decisivo per il giudizio costituito dalla sussistenza dei vizi e dal loro
riconoscimento da parte dell'Unical AG, come desumibile dall'esame delle testimonianze il cui esame era
stato omesso;
7) omessa motivazione in ordine al fatto decisivo per il giudizio, riguardante l'obbligo di garanzia della
Unical AG per i rapporti tra Eletrikro e tale S.F. ; in particolare, la sentenza impugnata aveva omesso di
prendere in esame il fatto che la Elettrikro era stata chiamata in giudizio dallo S. , onde la Unical AG era
tenuta alla garanzia di cui all'art. 1490 c.c. "in regresso rispetto all'azione intentata nei confronti della
deducente dall'installatore".
I primi cinque motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente in quanto connessi, sono fondati.
Va, innanzitutto, evidenziato che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, la denuncia
dei vizi della cosa venduta, sensi dell'art. 1492 e 1495 c.c., non richiede necessariamente una dettagliata
esposizione dei vizi da cui sarebbe inficiata la "res vendita", consistendo la finalità della denuncia nel
mettere il venditore sull'avviso in ordine alle intenzioni del compratore e, contemporaneamente, nel
consentirgli di ve-rificare tempestivamente la veridicità della doglianza, sicché una denuncia, sia pure
generica, può esser idonea a detto fine, ove con essa il venditore sia reso edotto che il compratore ha
riscontrato, benché in modo non ancora esauriente e completo, che la cosa da lui acquistata è affetta da
vizi che la rendono inidonea all'uso cui è destinata e ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore (Cfr.
Cass. n. 6234/2000).
Consegue che è errata la motivazione del giudice di appello sul mancato riconoscimento dei vizi da parte
della venditrice, laddove afferma che gli interventi effettuati dalla Unical o l'invio di pezzi di ricambio, "in
difetto di specifica individuazione del dedotto vizio", non possono essere apprezzati quale comportamento
concludente al fine del riconoscimento stesso.
Va aggiunto che, inquadrata l'azione proposta nell'ambito della garanzia per vizi, come si desume dal
rigetto dell'appello, fondato essenzialmente sulla genericità della denuncia dei vizi, non poteva poi, la
Corte territoriale fare riferimento alla diversa garanzia di buon funzionamento dei beni venduti
(climatizzatori), escludendone il vizio costruttivo per la estraneità della venditrice Unical alla fase della
"installazione" dei beni. Al riguardo questa Corte ha, infatti, ribadito che la disciplina della garanzia per
vizi si esaurisce negli artt. 1490 e ss. c.c. che pongono il venditore in una situazione non tanto di
obbligazione, quanto di soggezione rispetto all'iniziativa del compratore, intesa alla modificazione del
contratto od alla sua caducazione mediante l'esperimento, rispettivamente, dell'azione "quanti minoris" o
"redhibitoria", sicché il compratore non dispone di un'azione "di esatto adempimento" per ottenere dal
venditore l'eliminazione dei vizi della cosa venduta, rimedio che gli compete solo in particolari ipotesi di
legge (garanzia di buon funzionamento, vendita di beni di consumo) o qualora il venditore si sia
specificamente impegnato alla riparazione del bene (Cass. S.U. n. 19702/2012).
Va rilevato sul punto che la garanzia per i vizi della cosa venduta disciplinata dagli artt. 1490 e segg. c.c.,
differisce da quella di buon funzionamento prevista dall'art. 1512 c.c., invocabile solo previa deduzione e
dimostrazione dell'esistenza nel contratto di compravendita di un tale patto che, con l'assicurazione di un
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determinato risultato (il buon funzionamento della cosa per il tempo convenuto) determina una più forte
garanzia del compratore, in via autonoma ed indipendente rispetto alla garanzia per vizi ed alla
responsabilità per mancanza di qualità. Anche sotto il profilo dell'onere probatorio dette garanzie si
differenziano in quanto la garanzia di cui all'art. 1512 c.c. impone all'acquirente solo l'onere di dimostrare
il cattivo funzionamento della cosa venduta, restando a carico del garante provare l'estraneità del cattivo
funzionamento alla struttura della res, per essere esso dipendente da fatto del compratore o di terzi
(Cass. n. 2328/72). La garanzia per vizi, invece, cui il venditore è tenuto per legge, impone all'acquirente
l'onere di provare il vizio che rende la cosa venduta inidonea all'uso cui è destinata pur presumendosi la
colpa del venditore in relazione alla sua conoscenza del vizio (Cass. n. 14665/2008; n. 4464/1997).
Tanto chiarito, considerata la non necessità di una denuncia dettagliata dei vizi della cosa venduta, non è
precluso accertarne, mediante C.T.U., la natura intrinseca o meno e la loro sussistenza già al momento
della consegna, potendo l'esatta identificazione del vizio intervenire anche all'esito di un accertamento
tecnico in sede giudiziale. Alla stregua dei rilievi svolti vanno accolti i primi cinque motivi residui,
rimanendo assorbiti gli altri due residui motivi. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio ad
atra sezione della Corte di Appello di Brescia che dovrà provvedere anche sulle spese del presente giudizio
di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi cinque motivi del ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia
ad altra sezione della Corte di Appello di Brescia anche per le spese del presente giudizio.
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9) COMPRAVENDITA IMMOBILIARE. NULLITÀ PER
MANCANZA DELLA CONCESSIONE EDILIZIA: NON SI
APPLICA AL CONTRATTO PRELIMINARE
Va dichiarata la nullità di un contratto preliminare che abbia ad oggetto la promessa di vendita di un
immobile irregolare dal punto di vista urbanistico; invero, il fatto che l'art. 40, comma 2, legge n.
47/1985, faccia riferimento agli atti di trasferimento, cioè agli atti che hanno una efficacia immediata,
mentre il contratto preliminare ha efficacia semplicemente obbligatoria, non elimina dal punto di vista
logico che non può essere valido il contratto preliminare il quale abbia ad oggetto la stipulazione di un
contratto nullo per contrarietà alla legge.
Deve pertanto ritenersi che il contratto preliminare avente ad oggetto la promessa di vendita di un
immobile irregolare dal punto di vista urbanistico è da considerare nullo per contrarietà alla legge,
trattandosi di questione che non può trovare rimedio nella disciplina dell'inadempimento.
Cassazione, sez. VI, 29 aprile 2016, n. 8483
Con la sentenza n. 8483 del 29 aprile 2016, il S.C. precisa il proprio orientamento in materia, chiarendo
che la sanzione della nullità relativa ad immobili oggetto di compravendita privi della necessaria
autorizzazione trova applicazione solo nei contratti ad efficacia traslativa e non si applica ai contratto
preliminari di compravendita.
Il caso. La vicenda decisa dalla Cassazione verte sulla validità o meno di un contratto preliminare avente
ad oggetto la compravendita di un immobile per il quale era stata accertata una irregolarità urbanistica,
successivamente sanata. Le parti, infatti, sostenevano la reciproca inadempienza alle obbligazioni del
contratto preliminare e, in particolare, il promissario acquirente sosteneva che l’immobile de quo fosse
irregolare dal punto di vista urbanistico, con conseguente nullità del preliminare. Il S.C., confermando le
decisioni dei giudizi di merito, evidenzia la validità del preliminare ed accoglie la domanda ex art. 2932
c.c. promossa in giudizio, rilevando che, successivamente al preliminare, l’immobile era stato sanato e
che comunque la nullità non poteva riferirsi al preliminare ma solo al contratto definitivo in quanto
traslativo di diritti reali.
Irregolarità urbanistica: quale conseguenza per il contratto? Da quanto espresso dal S.C. con la sentenza
in esame, l'irregolarità urbanistica di un immobile promesso in vendita non determina la nullità del
contratto preliminare, ma eventualmente ove si tratti di totale difformità dalla concessione, solo del
contratto definitivo se tale irregolarità non viene sanata dopo la stipula del preliminare. La sanzione di
nullità degli atti traslativi di immobili abusivi posta in essere dall'art. 40 della legge n. 47 del 1985, infatti,
trova applicazione in ordine ai soli contratti ad effetti reali, dato che le relative previsioni non possono
essere estese ai contratti ad efficacia meramente obbligatoria, quali i preliminari di vendita. Si osserva, al
riguardo, che in seguito al contratto preliminare, può intervenire la concessione in sanatoria di eventuali
abusi edilizi commessi. Ne deriva l'esclusione della predetta sanzione per il successivo contratto definitivo
di vendita.
Concessione in sanatoria e trasferimento dell’immobile. Fermo quanto precede, deve però precisarsi
che, anche se l'art. 40 l. n. 47 del 1985 consenta la stipula di un atto tra vivi con il quale venga trasferita
la proprietà di un immobile costruito senza la necessaria licenza o concessione (o in difformità dalla
stessa), purché l'alienante dichiari gli estremi della concessione in sanatoria o alleghi agli atti copia della
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relativa domanda, è tuttavia necessario che la situazione dell'immobile venga resa nota in sede di
preliminare di vendita e accettata dal provvisorio acquirente, essendo evidente che un tale immobile,
ancorchè commerciabile, è pur sempre esposto al rischio del rigetto della domanda di concessione in
sanatoria. Da ciò discende che il promissario alienante che abbia taciuto in sede di preliminare sulla
pendenza della pratica di condono deve ritenersi inadempiente, con conseguente legittimazione del
promissario acquirente all'azione di risoluzione, a nulla rilevando che la concessione in sanatoria sia stata
successivamente ottenuta.
Contratti a prestazioni corrispettive e reciproca indipendenza. Il tema in esame consente altresì un
chiarimento sull’attribuzione delle responsabilità in caso di inadempimento reciproco posto che, come
anche richiamato nella pronuncia in commento, qualora, dagli atti del processo, emerga una reciprocità di
inadempienze tra le parti, è necessario, al fine di una corretta pronuncia di risoluzione per
inadempimento, il ricorso a un giudizio di comparazione che tenga conto del comportamento complessivo
di ciascuno dei contraenti, onde stabilire quale di essi, in relazione ai rispettivi interessi ed alla oggettiva
entità degli inadempimenti, possa legittimamente predicarsi come responsabile delle trasgressioni
maggiormente rilevanti ai fini della alterazione funzionale del sinallagma; il relativo accertamento rientra
nei poteri del giudice di merito ed è, pertanto, incensurabile in sede di legittimità, se congruamente
motivato.
Preliminare e definitivo: l’offerta del residuo prezzo. Ulteriore profilo di interesse del tema in esame
riguarda le modalità di offerta del prezzo residuo; nel caso in cui le parti di un contratto preliminare di
vendita immobiliare, infatti, abbiano convenuto che il pagamento del residuo prezzo debba essere
effettuato all'atto della stipulazione del contratto definitivo, l'offerta di cui al comma 2 dell'art. 2932 c.c.
è da ritenersi soddisfatta con la domanda di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere il contratto,
essendo tale offerta necessariamente implicita nella domanda, così che, in tale ipotesi, deve senz'altro
essere emessa la sentenza produttrice degli effetti del contratto non concluso, ed il pagamento del
residuo prezzo deve essere imposto come condizione per il verificarsi dell'effetto traslativo derivante dalla
pronuncia del giudice.
Quando il pagamento del prezzo? Ne consegue, ancora, che, ove la prestazione a carico del promissario
acquirente del bene preveda, al momento della stipula dell'atto definitivo, non solo il pagamento del
residuo prezzo, ma anche l'accollo, da parte del promissario acquirente, del mutuo bancario gravante su
detto immobile, questi non è tenuto a pagare il prezzo ovvero ad accollarsi il mutuo prima del contratto
definitivo (o della domanda di esecuzione in forma specifica, o della stessa sentenza ex art. 2932), pur
dovendosi l'esecuzione di dette prestazioni imporsi, in sentenza, come condizione dell'effetto traslativo
divisato dalle parti.
Nullità applicabile anche al preliminare? La sentenza in esame smentisce un diverso orientamento, anche
di legittimità, richiamato in motivazione, per il quale, contrariamente alla massima di cui sopra, va
dichiarata la nullità di un contratto preliminare che abbia ad oggetto la promessa di vendita di un
immobile irregolare dal punto di vista urbanistico; invero, il fatto che l'art. 40, comma 2, legge n.
47/1985, faccia riferimento agli atti di trasferimento, cioè agli atti che hanno una efficacia immediata,
mentre il contratto preliminare ha efficacia semplicemente obbligatoria, non elimina dal punto di vista
logico che non può essere valido il contratto preliminare il quale abbia ad oggetto la stipulazione di un
contratto nullo per contrarietà alla legge. Deve pertanto ritenersi che il contratto preliminare avente ad
oggetto la promessa di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico è da considerare
nullo per contrarietà alla legge, trattandosi di questione che non può trovare rimedio nella disciplina
dell'inadempimento.
Cassazione, sez. VI, 29 aprile 2016, n. 8483
(Pres. Manna – Rel. Scalisi)
Svolgimento del processo
Pe.Gi. , con atto di citazione del 23 maggio 2000, conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Tivoli, L.F.
e, premesso di aver stipulato con il convenuto, in data 3 giugno 1996, una scrittura privata per la vendita
di un immobile sito in (omissis) (appartamento e locale garage) chiedeva che accertato l’integrale
pagamento del prezzo fosse emessa sentenza costitutiva ex art. 2932 cc., con vittoria di spese.
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Si costituiva L.F. , eccependo la nullità del contratto per indeterminatezza dell’oggetto, che il prezzo
versato di i 20.000.000 doveva considerarsi solo come anticipo del corrispettivo, tenuto conto del valore di
mercato dei beni; che era il promissario acquirente inadempiente all’obbligo di corresponsione del prezzo
e, pertanto, il contratto andava risolto per colpa dell’attore, che il contratto era nullo dato che il diritto
di superficie che si assumeva essere stato trasferito non era accompagnato dalla forma scritta. Insisteva,
in definitiva, per il rigetto della domanda o per la risoluzione del contratto, con vittoria delle spese di
lite.
La difesa del convenuto chiedeva che venisse integrato il contraddittorio nei confronti del coniuge del
convenuto in regime di comunione dei beni, ma la domanda veniva respinta.
La causa veniva rimessa sul ruolo per l’acquisizione di documentazione sulla regolarità edilizia degli
immobili. All’esito del giudizio, il Tribunale di Tivoli, con sentenza n. 72 del 2006, accoglieva la domanda
attrice e per l’effetto dichiarava trasferito, in favore del Pe. , l’appartamento ed il garage. Rigettava le
domande riconvenzionali proposte dal convenuto e condannava lo stesso al pagamento delle spese del
giudizio. A fondamento di questa decisione, il Tribunale di Tivoli riteneva che la scrittura intercorsa tra le
parti, in data 3 giugno 1996, avesse tutti i requisiti di un contratto preliminare di vendita; accertava che
l’abitazione era stata oggetto di concessione in sanatoria e quanto al garage era stata presentata
domanda di condono con i relativi pagamenti dell’oblazione ai sensi della legge n. 326 del2003, a nulla
rilevando che la regolarizzazione urbanistica dell’immobile fosse avvenuta successivamente alla stipula
del preliminare, sulla base della sopravvenuta disciplina del condono degli abusi edilizi.
Avverso questa sentenza interponeva appello L.F. , chiedendo che venisse dichiarata la nullità assoluta ed
insanabile del contratto intercorso tra le parti, non essendo stata provata la regolarità urbanistica e la
commerciabilità del bene immobile promesso in vendita ai sensi della legge n. 47 del 1985, nonché venisse
dichiarata la nullità, anche perché trattavasi di un bene di cui il convenuto dichiarava di essere
superficiario e mancava la prova documentate del dedotto diritto di superficie, per l’inesistenza del
prezzo derivante dall’irrisorietà dello stesso.
Si costituiva Pe.Gi. , resistendo al gravame e chiedendo la conferma della sentenza impugnata.
La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 4430 del 2013, rigettava l’appello e confermava la sentenza
di primo grado, condividendo le ragioni già espresse dal Tribunale di Tivoli.
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da P.L. , quale erede del marito L.F. per due motivi.
Pe.Gi. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1.- P.L. denuncia:
a) Con il primo motivo del ricorso, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1376 cc e dell’art. 17 e 40
della legge n. 47 del 1985 in relazione all’art. 360 n. 3 cpc. Secondo la ricorrente, la Corte romana
avrebbe errato nel qualificare il contratto intercorso tra le parti quale contratto preliminare, non
considerando che il contenuto di quell’accordo era definitivo (ad effetti reali come previsto dall’art. 1376
cc) tant’è che le parti non erano, neanche, impegnate a riprodurlo nella forma del rogito notarile proprio
nella considerazione della definitività della loro pattuizione. Piuttosto, la Corte distrettuale qualificando
il contratto, di cui si dice, quale contratto definitivo, avrebbe dovuto applicare l’art. 40 della legge n.47
del 1985 e dichiarare nullo tale contratto perché l’immobile risultava privo della necessaria concessione
edilizia. Tuttavia, aggiunge la ricorrente, anche ammesso che l’accordo di che trattasi fosse un contratto
preliminare, allo stesso andrebbe applicata la normativa di cui all’art. 40 della legge n. 47 del 1985
perché come è stato affermato da questa Corte con la sentenza n. 23591 del 2013, anche, il contratto
preliminare di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico, deve essere ritenuto nullo.
b) Con il secondo motivo, l’omessa motivazione per travisamento del fatto, circa un punto decisivo per il
giudizio in relazione all’art. 360 n. 5 cpc. Secondo la ricorrente, la Corte romana avrebbe omesso di
indicare le ragioni per cui la scrittura privata del 3 giugno 1996 fosse un contratto preliminare e non un
contratto definitivo.
1.1.- I motivi, che per la innegabile connessione tra gli stessi vanno esaminati congiuntamente, sono in
parte inammissibili ed in parte infondati.
1.1.a) È inammissibile la deduzione in ordine alla qualificazione del contratto intercorso tra le parti, quale
contratto definitivo, essendo stata dedotta per la prima volta nel giudizio di cassazione, posto che dalla
sentenza impugnata risulta che l’attuale ricorrente eccepiva: a) la nullità del contratto preliminare del 3
giugno 1996, per mancanza di causa; b) la nullità assoluta del contratto derivante dalla violazione delle
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norme urbanistiche ai sensi dell’art. 40 della legge n. 47 del 1985; c) che il giudice non si era pronunciato
in ordine all’irrisorietà del prezzo. Comunque, e tuttavia, va qui osservato che nell’ipotesi in cui con il
ricorso per cassazione sia contestata la qualificazione attribuita dal giudice di merito al contratto
intercorso tra le parti, le relative censure, per essere esaminabili, non possono risolversi nella mera
contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, ma
debbono essere proposte sotto il profilo della mancata osservanza dei criteri ermeneutici di cui agli artt.
1362 e ss. cod. civ. o dell’insufficienza o contraddittorietà della motivazione, e, in ossequio al principio di
autosufficienza del ricorso, debbono essere accompagnate dalla trascrizione delle clausole individuative
dell’effettiva volontà delle parti (la cui ricerca, che integra un accertamento di fatto, è preliminare alla
qualificazione del contratto), al fine di consentire, in sede di legittimità, la verifica dell’erronea
applicazione della disciplina normativa.
1.1.b) Sono infondati nella parte in cui si ritiene che la normativa di cui all’art. 40 della legge n. 47 del
1985 sia estensibile anche al contratto preliminare di vendita. E principio consolidato nella giurisprudenza
di questa Suprema Corte quello secondo cui la nullità prevista dall’art. 40 della legge 28 febbraio 1985 n.
47 riguarda esclusivamente i contratti ad effetti traslativi, e non coinvolge il preliminare di vendita che
abbia ad oggetto un immobile abusivo; e ciò, non soltanto, per un motivo di carattere letterale, in quanto
la norma in questione attiene solo agli atti traslativi dei diritti reali sull’immobile, e non agli atti ad
efficacia obbligatoria, ma per il rilievo che, successivamente al contratto preliminare, può intervenire la
concessione in sanatoria degli abusi edilizi commessi o essere prodotta la dichiarazione prevista dalla
stessa norma, ove si tratti di immobili costruiti anteriormente al 1 settembre 1967, con la conseguenza
che - in queste ipotesi - rimarrebbe esclusa la sanzione di nullità per il successivo contratto definitivo di
vendita (Cass. n. 59/2002, n.6018/1999, n. 1501/1999, n. 8335/1997). Nella fattispecie in esame,
successivamente alla stipulazione del preliminare, è intervenuta, come non è contestato e come è stato
indicato dalla stessa sentenza impugnata, la concessione in sanatoria, per l’abitazione e quanto al garage
era stata presentata domanda di condono con i relativi pagamenti dell’oblazione ai sensi della legge 326
del 2003, e, pertanto, deve ritenersi che, come era consentito stipulare validamente il contratto
definitivo, allo stesso modo poteva essere emessa sentenza che producesse gli effetti di questo ai sensi
del citato ad. 2932 c.c.. (Cass. n. 2204 del 30/01/2013; n. 28456 del 19/12/2013;n. 13117, del
28/05/2010 n. 14489 del 2005);
1.1.b) Questa Corte conosce la sentenza n. 23591 del 17 ottobre 2013, la quale interrompendo la
continuità dell’orientamento costante espresso nella materia da questa Corte ha affermato il principio
secondo cui "il contratto preliminare di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico è
nullo perla comminatoria di cui all’art. 40, secondo comma, della L. 28/02/1985 n. 47 che, sebbene
riferita agli atti di trasferimento con immediata efficacia reale, si estende al preliminare, con efficacia
meramente obbligatoria, in quanto avente ad oggetto la stipulazione di un contratto definitivo nullo per
contrarietà a norme imperative".
Tuttavia, questo Collegio, approfondendo ulteriormente la questione, ritiene di dover confermare
l’orientamento costante di questa Corte, intanto, perché: l’affermazione di cui alla sentenza indicata,
integra gli estremi di un obiter dictum, la situazione esaminata dalla sentenza citata attiene ad un’ipotesi
diversa da quella in esame dato che, in quel caso, l’irregolarità urbanistica riguardava un opera abusiva e
non risultava fosse stata sanata, comunque, perché non può non esser rilevato che rimane insuperabile
l’indicazione letterale di cui all’art. 40, più volte citato, laddove si afferma che la nullità riguarda
esclusivamente i contratti ad effetti traslativi e il contratto preliminare è un tipico contratto ad effetti
obbligatori. E di più, va ancora ribadito che secondo la normativa in esame, successivamente al contratto
preliminare (che è pur sempre un contratto temporaneo), può intervenire la concessione in sanatoria degli
abusi edilizi commessi o essere prodotta la dichiarazione prevista dalla stessa norma, ove si atti di
immobili costruiti anteriormente al 1 settembre 1967, con la conseguenza che in queste ipotesi - rimane
esclusa la sanzione di nullità per il successivo contratto definitivo di vendita.
Fermo restando il principio che qui si afferma, la nullità del preliminare di vendita avente ad oggetto un
immobile irregolare dal punto di vista urbanistico, può, tutt’al più, sostenersi di fronte ad una irregolarità
urbanistica grave, come può essere l’assenza di permesso a costruire (o l’equiparata difformità totale),
attesa, in ragione del combinato disposto, dagli art. 1346 e 1418 cc., l’impossibilità giuridica dell’oggetto,
tale da giustificare legittimamente il rifiuto del promittente acquirente alla conclusione dell’atto
definitivo di compravendita.
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In definitiva, il ricorso va rigettato e la ricorrente, in ragione del principio di soccombenza ex art. 91 cpc,
va condannata al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che vengono liquidate con il
dispositivo.
Il Collegio da atto che, ai sensi dell’art. 13 comma I del DPR n. 113 del 2002, sussistono i presupposti per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condanna la ricorrente al pagamento in favore di Pe.Gi. , delle spese del
presente giudizio che liquida in Euro 2.500,00di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed
accessori come per legge, dichiara la sussistenza delle condizioni per il pagamento dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1-bis dello
stesso art. 13. del DPR 115 del 2002.
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10) COMPRAVENDITA IMMOBILIARE. ANCHE SE
NELL'ATTO DI COMPRAVENDITA È SCRITTO CHE IL
PREZZO È STATO CORRISPOSTO, È POSSIBILE
FORNIRE PROVA DEL CONTRARIO
La prova del dolo può acquisirsi mediante testimoni. L'atto pubblico ha efficacia probatoria
privilegiata limitatamente ai fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza,
nonché, relativamente alla fonte-provenienza delle dichiarazioni, mentre, non è attestazione
di veridicità delle dichiarazioni e di effettiva rispondenza alla intenzione delle parti.
Cassazione, sez. II, 5 settembre 2016, n. 17573
Il Caso. I comproprietari di un immobile vendevano il cespite ad una società che,
successivamente, convenivano in giudizio al fine di accertare il dolo della parte acquirente
nel corso delle trattative con conseguente richiesta di annullamento del contratto. Spiegava
parte attrice che nel contratto si affermava che il prezzo di vendita era stato corrisposto per
intero ma, in realtà, le somme dovevano essere corrisposte con un prodotto finanziario
consegnato nelle mani dei venditori al momento della stipula con data di scadenza per
l'incasso successiva. Tuttavia, il prezzo non era mai stato effettivamente corrisposto.
Il Tribunale, accertato il dolo dell'acquirente, dichiarava la nullità assoluta della transazione
e condannava alla restituzione dell'immobile.
La Corte d'appello confermava la sentenza di primo grado e rilevava che, pur essendo scritto
nel contratto che il prezzo era stato corrisposto anticipatamente, tempi, natura e importo del
prodotto finanziario, lasciavano presumere che effettivamente la somma non era stata
versata.
Prova di ciò era stata acquisita anche mediante testimonianza.
Parte acquirente ha proposto ricorso per cassazione.
Attività giudiziale e formazione del giudicato. La Cassazione, riportandosi a principio
consolidato, ha chiarito che il giudicato non si forma, nemmeno implicitamente, sugli aspetti
del rapporto che non hanno costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del
giudice, cioè di un accertamento effettivo, specifico e concreto, come accade allorquando la
decisione sia stata adottata alla stregua del principio della "ragione più liquida", basandosi la
soluzione della causa su una o più questioni assorbenti (Cass. Civ. n. 5264/2015). Pertanto, il
giudicato si formerà solo e soltanto con riferimento alle questioni oggetto di espressa
trattazione-pronuncia giudiziale.
Pagamento del prezzo. I Giudici di legittimità hanno rilevato che il giudice territoriale ha
affermato che la veridicità del documento contrattuale (atto pubblico) pur dichiarando non
corrispondente a verità la dichiarazione afferente il versamento del prezzo. Sul punto, la S.C.
ha ribadito che l'efficacia probatoria privilegiata dell'atto pubblico è limitata ai fatti che il
pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza e alla provenienza delle dichiarazioni,
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senza implicare l'intrinseca veridicità di esse o la loro rispondenza all'effettiva intenzione
delle parti (Cass. 11012/2013). Per vero, oggetto dell'accertamento territoriale, osservano i
giudici, non è l'adempimento/inadempimento del prezzo bensì la condotta dolosa perpetrata
dall'acquirente in danno dell'attore. Se questa è, come effettivamente è, la materia del
contendere, la prova del dolo, contrariamente a quanto affermato da parte convenuta, può
essere correttamente fornita mediante testimoni e non incorre nel limite di cui all'art. 2722
c.c.. Con queste argomentazioni la Cassazione ha respinto il ricorso.
Cassazione, sez. II, 5 settembre 2016, n. 17573
(Pres. Matera – Rel. Cosentino)
Svolgimento del processo
Con citazione del 21/11/86 i signori P.R. e P.G. , quest’ultimo anche quale procuratore
speciale di R.N. , R.F. , P.P. e P.O. convenivano davanti al tribunale di Lamezia Terme
Euromanagement Italia International Selettive Brokers spa (da ora, Euromanagement spa),
Reno spa e Previdenza spa in l.c.a. - società tutte collegate tra loro e riferibili al signor S.L. per sentir annullare il contratto 28/12/81 con il quale essi attori avevano venduto alla
Euromanagement spa un edificio di loro proprietà per il prezzo di 200 milioni di Lire.
A fondamento della domanda gli attori deducevano il dolo della parte acquirente, assumendo
che il loro consenso sarebbe stata viziato da errore essenziale sull’oggetto del contratto,
indotto da un complesso di manovre e raggiri attuati subdolamente dagli agenti del suddetto
S. .
In particolare, per quanto qui ancora interessa, gli attori esponevano che:
- nonostante la fittizia dichiarazione contrattuale secondo cui il prezzo dell’immobile sarebbe
stato interamente corrisposto prima della stipula del rogito di trasferimento, essi in realtà
avevano accettato, quale corrispettivo della vendita, un certificato di investimento e prelievo
automatico di 200 milioni di Lire, con scadenza 4 settembre 1984, loro rimesso dalla Reno spa
il 9/1/82;
alla consegna di tale certificato aveva fatto seguito la nota 7/3/84 della Previdenza spa con
la quale quest’ultima attestava di aver ricevuto dalla Reno spa l’incarico relativo alla
posizione fiduciaria in questione, con il riepilogo delle quote investite dagli attori nella
somma di 200 milioni di Lire;
- nonostante le richieste formulate dagli attori secondo le previsioni contrattuali, la
Previdenza s.p.a. non ha mai provveduto al rimborso del capitale.
Nel corso del giudizio di primo grado - nel quale la Previdenza spa in l.c.a. si era costituita in
persona del commissario liquidatore, professor Filippo Sarta, mentre non si erano costituite
Euromanagement spa e Reno spa - quest’ultime venivano a loro volta poste in liquidazione
coatta amministrativa e il contraddittorio veniva integrato nei confronti del loro commissario
liquidatore (per entrambe, il medesimo professor Sa. ), il quale si costituiva in giudizio.
Il tribunale di Lamezia Terme accoglieva la domanda degli attori e dichiarava "la nullità
assoluta e l’inefficacia" della compravendita 28/12/81 per dolo dell’acquirente, disponendo
la restituzione dell’immobile venditori.
La Corte d’appello di Catanzaro, adita con l’impugnativa della Previdenza spa in l.c.a., della
Euromanagement spa in l.c.a. e della Reno spa in l.c.a., rigettava i gravami e confermava
interamente la sentenza di primo grado.
In primo luogo la Corte territoriale disattendeva il motivo di appello concernente la
statuizione di primo grado di rigetto dell’eccezione di prescrizione quinquennale dell’azione
di annullamento contrattuale ex art. 1442 c.c., seguendo però un percorso argomentativo
diverso da quello seguito dal primo giudice e censurato dalle appellanti. La Corte infatti
giudicava erronea l’affermazione del tribunale secondo cui la notifica della citazione
introduttiva alla Previdenza spa in l.c.a. avrebbe interrotto la prescrizione nei confronti della
Euromanagement spa in l.c.a., sottolineando come gli attori avessero proposto una domanda
di annullamento contrattuale e non una domanda risarcitoria, cosicché il richiamo del primo
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giudice all’estensione dell’effetto interruttivo nei confronti dei condebitori solidali di cui
all’articolo 1310 c.c. doveva giudicarsi fuori luogo. Essa, tuttavia premesso che la scoperta
del dolo, momento di decorrenza del termine di prescrizione, risaliva al 23/9/85, data in cui
P.G. protestò per la prima volta per il mancato versamento delle somme dovutegli affermava che la prescrizione doveva ritenersi validamente interrotta dalla citazione
introduttiva notificata alla Euromanagement spa in bonis. In proposito - precisato che dagli
atti risultava che a quest’ultima la citazione introduttiva era stata notificata mediante
spedizione del plico a mezzo posta presso la sede di XXXXXX il 12/12/86 e che in atti non vi
era traccia di una seconda notifica (apparentemente menzionata nel verbale dell’udienza del
giudizio di primo grado del 14/3/90) - la Corte argomentava come non fosse necessario
verificare la validità della notifica del 12/12/86, in quanto, non avendo Euromanagement spa
in l.c.a. contestato la ricezione della citazione del 1986 da parte della destinataria, non
sarebbe stato possibile rilevare di ufficio la questione di un’eventuale invalidità di tale
notifica, "sia perché non eccepita dalla parte interessata nella prima difesa successiva alla
propria costituzione in giudizio (art. 157 c.p.c.) sia perché non fatta oggetto di motivo di
impugnazione, in ottemperanza al principio della conversione delle nullità i motivi di
gravame".
In secondo luogo la Corte territoriale dichiarava l’appello inammissibile, per difetto di
specificità, nella parte in cui le appellanti si limitavano a rinviare agli assunti difensivi svolti
in primo grado, mentre lo rigettava nella parte in cui le appellanti lamentavano l’assenza di
prova del mancato pagamento corrispettivo contrattuale. A quest’ultimo riguardo la Corte
territoriale affermava che, ancorché nell’atto di compravendita i venditori avessero dato
quietanza del pagamento del corrispettivo convenuto, la stretta concomitanza cronologica tra
la cessione dell’immobile e l’emissione del certificato di investimento, nonché la perfetta
corrispondenza tra la somma indicata nel certificato e quella indicata quale corrispettivo
della vendita, ragionevolmente dimostravano che il trasferimento dell’immobile non era stato
accompagnato dal versamento del corrispettivo, ma dalla mera assunzione di un debito,
attraverso la consegna del documento attestante il transito della somma in un programma di
investimento.
Previdenza spa in l.c.a., Euromanagement spa in l.c.a. e Reno spa in l.c.a. ricorrono per
cassazione avverso la sentenza della Corte catanzarese proponendo quattro motivi di
doglianza.
I signori P.G. e P.R. resistono con controricorso.
La sola Euromanagement spa in l.c.a. ha depositato memoria.
Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza dell’8.3.16, nella quale il Procuratore
Generale ha concluso come in epigrafe.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso le ricorrenti denunciano la violazione dell’articolo 2909 c.c. in
cui la corte territoriale sarebbe incorsa non tenendo conto del giudicato interno
asseritamente formatosi sulla statuizione del primo giudice, non impugnata con l’appello
incidentale degli attori, con la quale - respingendo l’eccezione di prescrizione dell’azione di
annullamento del contratto proposta Euromanagement spa in l.c.a. sul presupposto che il
relativo decorso era stato interrotto dalla notifica della citazione alla Previdenza spa in l.c.a.
- sarebbe stato implicitamente accertato che tale decorso non era stato interrotto dalla
notifica della citazione alla Euromanagement spa in bonis.
Il motivo non può trovare accoglimento perché l’affermazione, contenuta nella sentenza di
primo grado, che la prescrizione quinquennale ex art. 1442 c.c. era stata interrotta, nei
confronti della Euromanagement spa, dalla notifica della citazione introduttiva del 1986 alla
Previdenza spa in l.c.a. non determina, contrariamente a quanto dedotto nel mezzo di
ricorso, la formazione di alcun giudicato implicito sul fatto che la notifica di detta citazione
alla stessa Euromanagement spa fosse priva di efficacia interruttiva della prescrizione perché
viziata di nullità. Il primo giudice non ha accertato esplicitamente l’invalidità (e quindi la
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inidoneità ad interrompere la prescrizione) dalla notifica della citazione introduttiva del 1986
alla Euromanagement spa, né tale accertamento costituisce un antecedente logico necessario
dell’affermazione che la notifica della medesima citazione alla Previdenza spa in l.c.a. era
idonea ad interrompere la prescrizione anche nei confronti della Euromanagement spa. La
tesi dei ricorrenti, secondo cui, in mancanza di appello incidentale degli attori, si sarebbe
formato un giudicato implicito sulla invalidità, e quindi sulla inidoneità ad interrompere la
prescrizione, della notifica della citazione del 1986 alla Euromanagement spa va quindi
disattesa, perché si pone in contrasto con il principio, costantemente affermato da questa
Corte (da ultimo Cass. 5264/15), che il giudicato non si forma, nemmeno implicitamente,
sugli aspetti del rapporto che non abbiano costituito oggetto di specifica disamina e
valutazione da parte del giudice, cioè di un accertamento effettivo, specifico e concreto,
come accade allorquando la decisione sia stata adottata alla stregua del principio della
"ragione più liquida”, basandosi la soluzione della causa su una o più questioni assorbenti.
Né, giova precisare, il motivo di ricorso in esame potrebbe trovare accoglimento alla stregua
delle argomentazioni svolte della Euromanagement spa in l.c.a. nella memoria illustrativa
depositata ai sensi dell’articolo 378 c.p.c. In tale memoria si lamenta che la Corte di appello,
nell’affermare che la notifica della citazione del 1986 nei confronti della Euromanagement
spa era idonea ad interrompere la prescrizione dell’azione di annullamento, avrebbe omesso
di verificare la validità di tale notifica, sull’erroneo presupposto che l’eventuale nullità della
stessa non potesse essere da lei rilevata, perché non rilevabile di ufficio e perché comunque
sanata. In proposito il Collegio rileva che dette argomentazioni non si limitano ad illustrare la
censura proposta nel mezzo di ricorso in esame - la quale concerne esclusivamente la pretesa
violazione dell’articolo 2909 c.c. in cui la Corte distrettuale sarebbe incorsa trascurando il
giudicato interno formatosi, secondo le ricorrenti, sulla invalidità della notifica alla
Euromanagement spa della citazione del 1986 - ma propongono censure (concernenti l’errore
in cui la Corte di appello sarebbe incorsa ritenendosi di poter rilevare la nullità della suddetta
notifica in difetto di tempestiva eccezione e di specifica impugnazione al riguardo da parte
della Euromanagement spa in l.c.a.) ulteriori e diverse rispetto a quella dispiegata nel
ricorso, non ammissibili perché avanzate dopo la scadenza del termine di impugnazione.
Con il secondo motivo di ricorso le ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione
dell’articolo 1442 c.c. in cui la corte territoriale sarebbe incorsa affermando che la notifica
della citazione del 1986 nei confronti della Euromanagement spa era idonea ad interrompere
la prescrizione dell’azione di annullamento contrattuale esercitata dagli attori senza tener
conto del fatto che il giudice istruttore del tribunale di Lamezia Terme aveva accertato la
nullità di tale notifica, come emerge dal rilievo che, appreso che la Euromanagement spa era
stata posta in liquidazione coatta amministrativa, esso giudice non aveva dichiarato
l’interruzione del giudizio, ma aveva disposto la rinnovazione della notifica della citazione a
Euromanagement spa in l.c.a..
Anche questo motivo va disatteso.
Il fatto che il giudice istruttore del tribunale, acquisita contezza dell’intervenuta apertura
della liquidazione coatta amministrativa della Euromanagement spa, abbia ordinato il rinnovo
della citazione al commissario liquidatore, invece di dichiarare l’interruzione del giudizio,
non costituisce di per sé accertamento della declaratoria di nullità della notifica della
citazione 1986 alla società in bonis, giacché l’ordine di rinnovo della citazione al commissario
liquidatore della società è un provvedimento privo del carattere della decisorietà.
Con il terzo motivo le ricorrenti propongono tre distinte censure - una riferita alla violazione
dell’articolo 2700 c.c., una riferita alla violazione dell’articolo 2722 c.c. e una riferita alla
violazione degli articoli 2727 e 2729 c.c. - in cui la Corte territoriale sarebbe incorsa
rigettando l’unico motivo d’appello dalla stessa riconosciuto ammissibile, vale a dire quello
con cui le appellanti avevano censurato la sentenza di primo grado per avere ritenuto non
pagato il corrispettivo della vendita, nonostante che nel contratto i venditori avessero
rilasciato quietanza del prezzo. Le ricorrenti assumono:
a) che, a mente dell’articolo 2700 c.c., per rimuovere l’efficacia probatoria della
dichiarazione di quietanza rilasciata in contratto sarebbe stata necessaria la querela di falso;
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b) che l’affermazione della Corte territoriale secondo cui, contrariamente a quanto
dichiarato in contratto dai venditori, il prezzo dell’immobile non sarebbe stato pagato
risulterebbe non supportata da alcuna prova, fondandosi esclusivamente "su tutta una teoria
di presunzioni" (pag. 37, secondo cpv., del ricorso), priva di valore probatorio ai sensi degli
articoli 2727 e 2729 c.c.;
c) che la prova per presunzioni della non veridicità della dichiarazione di quietanza del
pagamento del prezzo dell’immobile sarebbe comunque inammissibile ai sensi dell’articolo
2722 c.c., in quanto contrastante con il contenuto di un documento.
Le suddette censure non possono trovare accoglimento.
Quanto alla dedotta violazione dell’articolo 2700 c.c., la censura non risulta pertinente alla
motivazione della sentenza gravata, giacché in tale sentenza non si nega che i venditori
abbiano dichiarato in contratto di aver ricevuto il pagamento del prezzo pattuito, ma si
afferma la non corrispondenza al vero di tale dichiarazione. La Corte distrettuale. in altri
termini, nega la veridicità non del documento contrattuale, ma della dichiarazione di parte
ivi documentata, la quale non è assistita da fede privilegiata, giacché, come questa Corte ha
più volte affermato, l’efficacia probatoria privilegiata dell’atto pubblico è limitata ai fatti
che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza e alla provenienza delle
dichiarazioni, senza implicare l’intrinseca veridicità di esse o la loro rispondenza all’effettiva
intenzione delle parti (si veda, tra le tante, Cass. n. 11012/13, proprio in tema di efficacia
probatoria della dichiarazione contrattuale di versamento del prezzo). Quanto alla dedotta
violazione degli articoli 2722 e 2729 c.c., la censura va giudicata inammissibile, perché non
individua alcuna specifica violazione del disposto delle norme che si pretendono violate, ma si
risolve in una manifestazione di dissenso rispetto all’apprezzamento delle risultanze di causa
operato dal giudice di merito, non censurabile in questa sede se non sotto il profilo di cui
all’articolo 360 n. 5 c.p.c..
Quanto alla dedotta violazione dell’articolo 2722 c.c., la censura va disattesa perché nel
presente giudizio il mancato pagamento del prezzo viene in considerazione non come
inadempimento contrattuale, ma come mero fatto storico. La domanda degli attori accolta
nella sentenza gravata, infatti, non è né una domanda di adempimento (pagamento del
prezzo), né una domanda di risoluzione per inadempimento, bensì una domanda di
annullamento per dolo. Tale domanda - con la quale si mette in discussione la validità del
contratto sin dalla sua nascita (cfr. Cass. 1573/68) - non implica alcun accertamento in punto
di adempimento del contratto di cui si chiede l’annullamento, potendo riguardare
egualmente tanto un contratto già completamento adempiuto da entrambe le parti, quanto
un contratto rimasto in tutto o in parte inseguito. La circostanza del mancato pagamento del
prezzo è quindi assunta dalla Corte di appello come mero fatto dimostrativo del dolo
contrattuale della venditrice, con la conseguenza che la relativa dimostrazione processuale
non incorre nei limiti di cui all’articolo 2722 c.c. (cfr. Cass. 6346/94, nella cui motivazione si
legge: "Conseguentemente, la Corte di merlo ha errato nel ritenere sic et simpliciter che - per
contrasto con contenuto dell’atto di compravendita - non potesse essere provata per
testimoni e/o per presunzioni... la fittizietà del pagamento del prezzo della compravendita
immobiliare... prova, invece, ammissibile... (ma, ovviamente, come mero fatto storico,
avente un puro valore indiziario da utilizzare senza affatto rimettere in discussione il
trasferimento della proprietà della casa)". Può ancora aggiungersi che, se è vero che nel
presente giudizio il trasferimento della proprietà dell’oggetto del contratto viene rimesso in
discussione, ciò tuttavia dipende non dal mancato pagamento del prezzo, ma dal dolo della
venditrice, di cui il mancato pagamento del prezzo costituisce fatto indiziario, come tale
apprezzato nella sentenza gravata e, in quanto tale, suscettibile di essere dimostrato per
testi o per presunzioni.
Con il quarto motivo le ricorrenti denunciano la violazione dell’articolo 90 c.p.c. in cui la
Corte territoriale sarebbe incorsa condannando alle spese la Previdenza spa in l.c.a., e la
Reno spa in l.c.a, pur avendo riconosciuto la loro estraneità all’azione annullamento
contrattuale esercitato dagli attori.
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Anche tale motivo va disatteso, perché dalla narrativa di fatto della sentenza gravata, sul cui
contenuto non è stata sollevata alcuna contestazione nel ricorso per cassazione, non risulta
che la Previdenza spa in l.c.a., e la Reno spa in l.c.a. avessero proposto alla Corte di
Catanzaro motivi di appello diversi da quelli, rigettati, proposti dalla Euromanagement spa in
l.c.a. cosicché al rigetto di tali motivi non poteva che conseguire la loro condanna alle spese
anche del secondo grado. Né, può aggiungersi, nel ricorso per cassazione si lamenta cha la
Corte distrettuale abbia omesso di pronunciarsi su specifiche censure mosse alla sentenza di
primo grado dalle suddette società in relazione alla loro legittimazione a resistere alla
domanda di annullamento contrattuale proposta dagli attori.
Il ricorso va quindi in definitiva rigettato in relazione a tutti i motivi nei quali esso si articola.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna le ricorrenti a rifondere ai contro ricorrenti le spese del giudizio di cassazione, che
liquida in Euro 5.000, oltre Euro 200 per esborsi ed oltre accessori di legge.
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11) PATTO COMMISSORIO. LA RETROVENDITA È
NULLA SE STIPULATA PER CAUSA DI GARANZIA E
NON DI SCAMBIO
La vendita con patto di riscatto o retrovendita, anche se prevede il trasferimento del bene, è
nulla se stipulata per una causa di garanzia nell’ambito della quale il pagamento del
corrispettivo, da parte dell’acquirente, non costituisce versamento del prezzo ma esecuzione
di un mutuo ed il trasferimento del bene serve solo a integrare una causa di garanzia
provvisoria, capace di evolversi a seconda che il debitore adempia, o meno, l’obbligo di
restituire le somme ricevute.
Cassazione, sez. II Civile, 21 gennaio 2016, n. 1075
Muovendo da tali premesse, la Seconda sezione Civile della Corte di Cassazione, con la
sentenza n. 1075 del 21 gennaio 2016, ha rigettato il ricorso promosso dai venditori di un
immobile che avevano tentato di dimostrare la sussistenza di un patto commissorio, sotteso
alla compravendita.
I fatti. Nell’anno 1986 due coniugi vendevano il proprio immobile ad una società, riservandosi
il godimento del bene, a titolo di comodato gratuito, con accollo di tutte le spese relative
alla sua manutenzione, sia ordinaria che straordinaria, e con diritto di esercitare il riscatto al
31.12.1989, previa restituzione del prezzo rivalutato.
Allo spirare di tale termine, pur non avendo esercitato il diritto di riscatto, la coppia si
rifiutava di rilasciare l’appartamento, in conseguenza, l’acquirente si era visto costretto a
citarli innanzi al Tribunale civile di Roma, per la declaratoria di cessazione del rapporto di
comodato e condanna alla restituzione del bene.
I coniugi si erano opposti eccependo che la vendita era avvenuta al solo fine di garantire la
restituzione di un prestito maturato nei confronti del legale rappresentante della società
acquirente, che l’immobile aveva un valore commerciale superiore a quello indicato nel
rogito, che vi era una contemporanea scrittura chiarificatrice, con la quale le parti avevano
convenuto che l’acquirente avrebbe versato la residua parte del prezzo ad altre società, ed a
garanzia di cessioni di pagamento, e che varie somme di denaro erano state restituite
mediante effetti cambiari e assegni accettati dalla società acquirente, in tempi prossimi alla
stipula della compravendita. A parere dei venditori, dunque, la fattispecie presentava tutti
gli aspetti di un patto commissorio, conseguentemente nullo.
Il Tribunale rigettava la tesi di parte convenuta e la condannava al rilascio dell'immobile per
non aver esercitato, nei termini, il diritto di riscatto.
Anche il giudizio di gravame subiva la medesima sorte, in quanto l’adita Corte d’appello dava
atto della mancanza di prova della dedotta esistenza di un patto commissorio.
La vendita con patto di riscatto, o retrovendita. I coniugi hanno interposto ricorso innanzi alla
Suprema Corte, lamentando, nell’ordine: a) mancata applicazione dell’art. 2744 c.c. per
sussistenza del dedotto patto commissorio, posto che, in tesi, la vendita costituiva la garanzia
per la restituzione dei crediti sorti tra le parti; b) mancata applicazione dell’art. 1418 c.c.
poiché, dal rogito, il prezzo della compravendita risultava quietanzato mentre dalla scrittura
dissimulata emergevano le dilazioni di pagamento; c) omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione per non aver ricondotto le dilazioni di pagamento a patto commissorio, essendo
legate ad accadimenti futuri ed incerti.
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Gli Ermellini hanno trattato congiuntamente il I ed il III motivo, ritenendoli tra loro connessi
ed entrambi infondati.
Premettendo che il divieto di patto commissorio sancito dall’art. 2744 c.c. si estende a
qualsiasi negozio, ancorchè astrattamente lecito, hanno chiarito che la vendita con patto di
riscatto, o retrovendita, è nulla se stipulata per una causa di garanzia, pur se prevede il
trasferimento del bene.
Infatti, se il versamento del denaro non costituisce pagamento del prezzo ma esecuzione di
un mutuo ed il trasferimento del bene serve solo per costituire una posizione di garanzia
provvisoria, capace di evolversi a seconda che il debitore adempia, o meno, l’obbligo di
restituire le somme ricevute, la vendita è caratterizzata dalla causa di garanzia propria del
mutuo con patto commissorio ed esprime, dunque, una causa illecita che rende applicabile la
sanzione dell’art. 1344 c.c..
Esclusione del patto compromissorio. Nel caso di specie, tuttavia, la Corte di legittimità ha
ritenuto corretta l’esclusione del patto commissorio applicata dalla Corte d’appello, poiché
l’operazione non era finalizzata ad uno scopo di garanzia.
Invero, il debito dei venditori nei confronti dell’acquirente era precedente alla
compravendita e parte del prezzo era stata utilizzata per il ripianamento dei debiti
precedenti verso terzi e verso l’acquirente, in proprio, per modo che il contratto non poteva
avere avuto lo scopo di garanzia della restituzione del mutuo, ma quello di fornire ai
venditori la provvista per estinguere i debiti scaduti.
Quanto ai debiti non ancora esigibili alla data del rogito, trattavasi di rapporti verso società
terze, la cui rateizzazione mensile dimostrava una delegazione di pagamento da parte del
debitor debitoris, piuttosto che un finanziamento diretto della società acquirente.
In definitiva non era emersa la prova della connessione dei vari rapporti finalizzati al comune
scopo di garanzia, pertanto, la decisione della Corte territoriale di merito è risultata immune
da vizi logici e, nel merito, non sindacabile in sede di legittimità.
Il secondo motivo di diritto, invece, è stato giudicato inammissibile, ponendo una questione
che non risultava dedotta in appello.
Per tutte le sopra esposte ragioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso formulato dai
coniugi, condannandoli al pagamento delle spese di lite.
Cassazione, sez. II Civile, 21 gennaio 2016, n. 1075
(Pres. Piccialli – Rel. Matera)
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato la P.O.F. s.r.l. esponeva di avere acquistato il 291-1986 un appartamento in Roma, via (omissis) , del quale i venditori F.M. e R.S. avevano
mantenuto il godimento, a titolo di comodato gratuito, con accollo di tutte le spese di
riparazione e di manutenzione ordinaria e straordinaria, sino al 31-12-1989, e con riserva del
diritto di esercitare a tale data il diritto di riscatto dell'immobile, previa restituzione del
prezzo rivalutato secondo indici ISTAT e rimborso delle spese inerenti al contratto di vendita.
L'attrice assumeva che, al termine previsto, il diritto di riscatto non era stato esercitato, il
prezzo della compravendita non era stato restituito e ciò nonostante i venditori si erano
rifiutati di consegnarle l'immobile a seguito del formale invito comunicato il 31-12-1990.
Tanto premesso, essa chiedeva dichiararsi l'avvenuta scadenza del termine pattuito senza che
fosse stato esercitato il diritto di riscatto e la cessazione del rapporto di comodato, con
ordine ai convenuti di rilascio dell'immobile e condanna degli stessi al risarcimento del danno
per l'illegittima detenzione del bene.
Nel costituirsi, i convenuti eccepivano che la compravendita del suddetto immobile era
avvenuta all'esclusivo fine di garantire la restituzione di un debito di lire 135.000.000
maturato nei confronti di Po.Fr. per forniture di materiale e attrezzature strumentali
all'attività didattica da essi esercitata; che l'immobile aveva un valore di mercato ben
superiore al prezzo di vendita indicato nel contratto; che con una contemporanea scrittura di
chiarimento era stato altresì convenuto che l'acquirente P.O.F. avrebbe versato la residua
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parte del prezzo pattuito (lire 42.940.536) ad altre società controllate dal Po. ed a garanzia
di cessioni di pagamento versate da F. ; che varie somme di danaro erano state restituite
mediante effetti cambiari e assegni accettati con le firme autentiche degli amministratori
della P.O.F., Po.Fr. in tempi prossimi alla stipulazione della compravendita e G.M.
successivamente. Nel sostenere, pertanto, che la fattispecie presentava tutti gli aspetti di un
patto commissorio, i convenuti chiedevano che venisse dichiarata la nullità dell'atto di
compravendita per difetto di causa, con conseguente rigetto della domanda attrice e
condanna della società istante alla restituzione delle maggiori somme versate dai convenuti
rispetto a quelle ricevute in mutuo, oltre agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria.
Con sentenza in data 25-6-2004 il Tribunale di Roma condannava i convenuti al rilascio
dell'immobile in favore dell'attrice, dichiarando il mancato esercizio del diritto di riscatto e la
cessazione del comodato; rigettava, invece, ogni altra domanda.
Avverso la predetta decisione proponevano appello i convenuti.
Con sentenza in data 25-2-2010 la Corte di Appello di Roma rigettava il gravame, dando atto
della mancanza di prova della dedotta esistenza di un patto commissorio.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso F.M. e R.S. , sulla base di tre
motivi.
La P.O.F. s.r.l. ha resistito con controricorso e in prossimità dell’udienza ha depositato una
memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1) Con il primo motivo i ricorrenti, lamentando l'erronea interpretazione e la mancata
applicazione dell'art. 2744 c.c., deducono che, alla luce dei principi affermati in materia
dalla giurisprudenza, nella specie deve ritenersi la sussistenza del dedotto patto commissorio.
Dalla documentazione acquisita, infatti, si evince chiaramente che le somme considerate
come prezzo della vendita costituivano, in realtà, una serie di prestiti, effettuati da Po.Fr.
(anche per mezzo di società a lui riconducibili) al F. , e successivamente restituiti a mezzo
assegni e titoli cambiari da quest'ultimo e dalla sua società (Cisat Italia) al Po. . La vendita,
pertanto, costituiva la garanzia per la restituzione dei crediti; tanto che il F. veniva lasciato
nella piena disponibilità dell'immobile, a dimostrazione del fatto che al Po. (ergo, alla P.O.F.)
nulla interessava dell'immobile, essendo la causa negoziale la restituzione dei debiti e non la
compravendita.
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano l'erronea interpretazione e la mancata
applicazione dell'art. 1418 c.c..
Deducono che, mentre nell'art. 2 del contratto di compravendita il prezzo, indicato in lire
190.0000.000, viene dichiarato "completamente quietanzato" alla data del rogito, viceversa la
scrittura di chiarimento evidenzia che ciò non è, in quanto, oltre a condizionare il pagamento
di una quota parte del prezzo ad eventi futuri e incerti, rateizza il residuo importo di lire
52.940.536 in una prima rata di lire 10.000.000 e in successive rate mensili di lire 5.000.000
ciascuna. Sostengono che tale discrasia rende nullo il contratto, destituendo di verità la
dichiarazione di quietanza e dimostrando, quindi, che il contratto non si è mai perfezionato.
Con il terzo motivo, articolato in due censure, i ricorrenti lamentano l'omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione. In primo luogo (3.1.), sostengono che la Corte di Appello ha
erroneamente interpretato le somme contenute nella scrittura di chiarimento come
imputabili ad un prezzo per intero definito e quietanzato, e di conseguenza estranee ad un
patto commissorio.
Affermano, infatti, che alcune voci imputate costituiscono un accadimento futuro e incerto.
Le stesse, pertanto, non potevano costituire semplici rate di pagamento, e il giudice di
merito non poteva attribuire ad esse il semplice valore di delegazione di pagamento. In
secondo luogo (3.2.), i ricorrenti deducono che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte
di Appello, il comodato concesso ai simulati alienanti costituisce indice evidente dello scopo
di garanzia perseguito dalle parti.
2) Il primo e il terzo motivo, che per ragioni di connessione possono essere trattati
congiuntamente, sono infondati.
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Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il divieto del patto commissorio, sancito
dall'art. 2744 c.c., si estende a qualsiasi negozio, ancorché di per sé astrattamente lecito,
che venga impiegato per conseguire il concreto risultato, vietato dall'ordinamento, di
assoggettare il debitore all'illecita coercizione da parte del creditore, sottostando alla volontà
del medesimo di conseguire il trasferimento della proprietà di un suo bene, quale
conseguenza della mancata estinzione di un debito (v., tra le tante, Cass. 12-1-2009 n. 437;
Cass. 11-6-2007 n. 13621; Cass. 19-5-2004 n. 9466; Cass. 2, 20-7-1999 n. 7740).
In particolare, è stato puntualizzato che la vendita con patto di riscatto o di retrovendita,
anche quando sia previsto il trasferimento effettivo del bene, è nulla se stipulata per una
causa di garanzia (piuttosto che per una causa di scambio), nell'ambito della quale il
versamento del danaro, da parte del compratore, non costituisca pagamento del prezzo ma
esecuzione di un mutuo, ed il trasferimento del bene serva solo per costituire una posizione
di garanzia provvisoria capace di evolversi a seconda che il debitore adempia o meno l'obbligo
di restituire le somme ricevute. La predetta vendita, infatti, in quanto caratterizzata dalla
causa di garanzia propria del mutuo con patto commissorio, piuttosto che dalla causa di
scambio propria della vendita, pur non integrando direttamente un patto commissorio vietato
dall'art. 2744 c.c., costituisce un mezzo per eludere tale norma imperativa ed esprime,
perciò, una causa illecita che rende applicabile, all'intero contratto, la sanzione dell'art. 1344
c.c. (Cass. 4-3-1996 n. 1657; Cass. 20-7-2001 n. 9900; Cass. 8-2-2007 n. 2725).
E stato rilevato, al contrario, che va esclusa la violazione del divieto del patto commissorio in
caso di mancanza di prova del mutuo (cfr. Cass. 5635/05), oppure qualora la vendita sia
pattuita allo scopo, non già di garantire l'adempimento di un'obbligazione con riguardo
all'eventualità non ancora verificatasi che rimanga inadempiuta, ma di soddisfare un
precedente credito rimasto insoluto (cfr. Cass. 19950/04, Cass. 7885/01), o quando manchi
l'illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando
preventivamente il trasferimento di un suo bene come conseguenza della mancata estinzione
del debito che viene a contrarre (cfr. Cass. 8411/03); e che il divieto di tale patto non è
applicabile allorquando la titolarità del bene passi all'acquirente con l'obbligo di
ritrasferimento al venditore se costui provvederà all'esatto adempimento (Cass. 17-3-10/4 n.
6175).
Nel caso in esame, la Corte territoriale, nel ritenere che, in relazione alla fattispecie dedotta
in giudizio, non erano configurabili gli estremi di un patto commissorio, non si è discostata
dagli enunciati principi di diritto, avendo escluso che l'operazione fosse finalizzata ad uno
scopo di garanzia.
La sentenza impugnata, infatti, nel premettere che il contratto di compravendita è stato
stipulato dagli appellanti con la società acquirente P.O.F., allorché già sussisteva il debito dei
venditori verso Po.Fr. (che, all'epoca, era amministratore unico della società acquirente), ha
accertato che il prezzo di compravendita di lire 190.000.000 è stato pagato in parte (lire
137.059.464) mediante il ripianamento di debiti precedenti verso terzi e verso il Po. in
proprio, di modo che, per il relativo ammontare, il contratto di compravendita non poteva
avere avuto lo scopo di garanzia della restituzione del mutuo, ma quello di fornire ai
venditori la provvista per estinguere i debiti scaduti. Quanto ai debiti non ancora esigibili alla
data del contratto di vendita (21-6-1986), il giudice del gravame ha rilevato che si trattava di
debiti verso terze società, e che la rateizzazione mensile del prezzo residuo, eventualmente
da versare alle società creditrici, prevista nel contratto di vendita, dimostrava una
delegazione di pagamento di tali preesistenti obbligazioni da parte del debitor debitoris,
piuttosto che un finanziamento diretto della società acquirente P.O.F. in favore dei venditori.
Secondo la Corte territoriale, infatti, non risulta provato alcun collegamento o preordinazione
negoziale tra la società acquirente e le società creditrici del F. , né vi è prova dell'asserita
sproporzione tra il prezzo pattuito e il valore di mercato del bene alienato.
In definitiva, secondo il giudice di appello, non vi è alcuna prova che i vari rapporti negoziali
siano stati concepiti e voluti come funzionalmente connessi e tra loro interdipendenti, in
modo da risultare idonei al raggiungimento di un comune scopo di garanzia.
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Con l'ulteriore rilievo che, nel complessivo equilibrio dei contrapposti interessi, la
concessione in comodato gratuito dell'appartamento ai venditori, per un periodo di tre anni
sino alla data dell'eventuale esercizio del diritto di riscatto, costituisce il naturale
completamento della definizione economica del corrispettivo di vendita e il contrappeso della
rateizzazione del residuo prezzo dovuto dalla controparte.
La valutazione espressa al riguardo dal giudice di appello costituisce espressione di un
apprezzamento in fatto che, in quanto sorretto da una motivazione immune da vizi logici, si
sottrae al sindacato di questa Corte.
E, in realtà, con i motivi in esame, i ricorrenti propongono sostanziali censure di merito,
basate su una ricostruzione della vicenda diversa rispetto a quella posta a base della
decisione impugnata. In tal modo, peraltro, si sollecita a questa Corte una diversa valutazione
in fatto delle emergenze processuali, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di
legittimità. L'accertamento della effettiva volontà delle parti e della concreta portata degli
atti dalle stesse posti in essere, infatti, è compito esclusivo del giudice di merito, che nella
specie ha fondato il proprio giudizio su argomentazioni immuni da vizi logici.
3) Il secondo motivo è inammissibile, ponendo una questione che non risulta dedotta in
appello e che, implicando la necessità di indagini di fatto, non può essere prospettata per la
prima volta in questa sede.
Il motivo, inoltre, difetta di autosufficienza, non trascrivendo, per la parte che qui rileva,
l'esatto contenuto della clausola contrattuale e della scrittura di chiarimento.
4) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna dei
ricorrenti al pagamento delle spese sostenute dalla resistente nel presente giudizio di
legittimità, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese, che liquida in
Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
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12) IL CONTRATTO ESTIMATORIO È UN
CONTRATTO REALE, IL VINCOLO SORGE CON LA
CONSEGNA DELLA MERCE
Elemento essenziale del contratto estimatorio è l'accordo in ragione del quale una parte
consegna all'altra una certa quantità di beni mobili con l'intesa che il ricevente potrà
acquistare e pagare la merce o restituirla materialmente. L'individuazione del termine di
restituzione/pagamento non è essenziale a qualificare l'intesa come contratto estimatorio
come anche non è essenziale la predeterminazione del prezzo di restituzione.
Cassazione, sez. III, 21 dicembre 2015, n. 25606
Il caso. Un operatore commerciale otteneva da un fornitore una certa quantità di beni mobili
in ragione di contratto estimatorio. Il fornitore, rilevata la mancata restituzione dei beni,
chiedeva ed otteneva decreto ingiuntivo per importo corrispondente. Il convenuto si
difendeva rilevando l'inesistenza del contratto estimatorio e precisando che aveva acquisito il
possesso della merce al solo fine di ricercare, nell'interesse del fornitore, partner
commerciali.
Il Tribunale accoglieva la difesa di parte convenuta e revocava il decreto ingiuntivo. Il giudice
osservava che il rapporto non poteva essere ricondotto alla fattispecie del contratto
estimatorio, non risultava pattuito tra le parti alcun termine per la restituzione e, parte della
merce, in conformità a quanto dichiarato dal convenuto, risultava ordinata dallo stesso ma
inviata direttamente a terze parti.
La Corte d'appello riformava la decisione del Tribunale e condannava il convenuto a pagare in
favore dell'attore una somma pari al valore della merce consegnata e mai restituita e/o
pagata al fornitore.
Parte convenuta ha proposto ricorso per cassazione.
Elemento essenziale e caratterizzante del contratto estimatorio. La Corte d'appello ha
chiarito che l'elemento essenziale del contratto estimatorio è l'accordo in ragione del quale
una parte consegna all'altra una certa quantità di beni mobili con l'intesa che il ricevente
potrà acquistare e pagare la merce o restituirla materialmente. L'individuazione del termine
di restituzione/pagamento non è essenziale a qualificare l'intesa come contratto estimatorio,
dunque, la sua assenza non determina la nullità della fattispecie contrattuale. Il giudice di
merito, in assenza di atto scritto, ha correttamente dedotto l'esistenza del contratto
estimatorio a seguito di accertamento giudiziale fondato sulla corrispondenza intercorsa tra
le parti (in cui si parlava espressamente di contratto estimatorio) nonché dai documenti di
trasporto (in cui si faceva riferimento a contratto estimatorio).
Il contratto estimatorio non trasferisce il diritto di proprietà dei beni. Il contratto
estimatorio è un contratto reale, dunque il vincolo nasce con la consegna della merce, ma
con il trasferimento dei beni non si trasferisce il diritto di proprietà che resta in capo al
cedente. Chi riceve la merce materialmente non ne diventa proprietario. Il contratto
estimatorio regolamenta l'interesse del cedente di vendere la propria merce a più soggetti a
fronte dell'interesse del ricevente di ricavare un profitto dalla "intermediazione" e, in caso di
mancata vendita, decidere se restituire i beni o acquistarli.
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Forma libera. Il contratto estimatorio non ha vincoli di forma. Pertanto, l'accertamento della
esistenza/inesistenza del contratto è lasciata ad una indagine fattuale di competenza del
giudice. Non è essenziale l'individuazione originaria del termine di restituzione della merce
che, ineliminabile per l'esecuzione della fattispecie, se assente, potrà essere determinato con
le modalità di cui all'art. 1183 c.c.. Non è essenziale la pre determinazione del prezzo di
vendita-restituzione che potrà essere quantificato ex post.
Con queste argomentazioni la Cassazione ha respinto i motivi di ricorso e confermato
l'operato del giudice territoriale.
Cassazione, sez. III, 21 dicembre 2015, n. 25606
(Pres. Petti – Rel. D’Amico)
Svolgimento del processo
Con decreto ingiuntivo la Antonio Songa s.p.a. intimò ad C.E. il pagamento della complessiva
somma di Euro 142.418,50 quale prezzo di articoli di oreficeria forniti nel marzo precedente
in esecuzione di un contratto estimatorio asseritamente concluso tra le parti, senza che ne
fossero sin lì avvenuti il pagamento o la restituzione.
Il C. propose opposizione avverso il decreto contestando l'inesistenza e/o l'inesigibilità del
credito monitoriamente azionato. In particolare contestò la conclusione del suddetto
contratto estimatorio in quanto l'attività da lui svolta a favore della Songa Antonio s.p.a. si
limitava alla ricerca di soggetti interessati ad intraprendere una partnership commerciale con
la stessa resistente.
Si costituì l'opposta Songa Antonio s.p.a. la quale chiese di respingere la domanda dell'attore
opponente in quanto infondata in fatto e in diritto e quindi confermare il decreto ingiuntivo
opposto.
In data 19/20 settembre 2007 fu pronunciata la sentenza n. 430/2007 con la quale il
Tribunale di Vigevano accolse l'opposizione al decreto ingiuntivo proposta da C.E. quale
titolare della ditta Ital Craft, revocò il decreto ingiuntivo n. 94/2006 e rigettò le domande
della Songa Antonio s.p.a..
Il Tribunale ritenne che le risultanze processuali non avessero comprovato la preventiva e
necessaria fissazione di un termine finale per la restituzione della merce, ovvero ed in
alternativa per il suo pagamento, e che era irrilevante la dicitura espressa di contratto
estimatorio apposta sui documenti di trasporto degli articoli, apparendone la ricorrenza
smentita inoltre da un fax inviato dalla società Songa al C. con il quale si invitava quest'ultimo
a consegnare parte della merce ad un terzo soggetto.
Avverso la sentenza del Tribunale di Vigevano propose appello la Songa Antonio s.p.a.,
deducendo l'erroneità della denegatavi sussistenza di un contratto estimatorio, intervenuto
fra le parti, con un ingiusto premio risultatone al comportamento illegittimo di controparte
che in prosieguo aveva effettuato la restituzione di una minima parte della merce
consegnata, e così chiedeva la conseguente sua condanna alla corresponsione della somma di
Euro 98.856,86 più iva.
Con sentenza n. 1765/2012 la Corte d'appello di Milano ha condannato C.E. al pagamento
della somma di Euro 98.856,86, oltre interessi legali dalla scadenza delle fatture al saldo ed
al pagamento delle spese processuali.
Propone ricorso per cassazione C.E. in proprio e quale titolare della società Italcraft di C.E. .
Resiste con controricorso la Songa Antonio s.p.a..
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente lamenta “omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione - omessa decisione su punti essenziali della controversia - divieto di nuove
domande in appello (ex art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c.)”.
Sostiene il C. che la sua eccezione preliminare, formulata in comparsa di costituzione e
risposta in appello e reiterata in comparsa conclusionale, non ha trovato alcuna motivazione
nell'intero corpo della sentenza oggetto del gravame; ritiene inoltre che la sentenza
impugnata ha accolto domande nuove formulate dalla Songa per la prima volta in appello.
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Il ricorrente sostiene altresì che nel giudizio di prime cure la Songa Antonio ha chiesto il mero
rigetto delle sue istanze, mentre solo in sede di atto di citazione in appello, ha formulato
domanda di condanna al pagamento della somma di Euro 98.856,86 più iva.
Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente imputa alla Corte d'appello l'omessa considerazione di due questioni sollevate in
quel grado del giudizio. Tale profilo di critica è estraneo ai vizi motivazionali di cui al n. 5
dell'art. 360, in quanto attiene a un error in procedendo.
Per giurisprudenza di questa Corte costituisce causa di inammissibilità del ricorso per
cassazione l'erronea sussunzione del vizio che il ricorrente intende far valere in sede dì
legittimità nell'una o nell'altra fattispecie di cui all'art. 360 c.p.c., come pure 1 ' incongruenza
fra le norme di legge di cui si prospetta la violazione e le argomentazioni di supporto (Cass.,
17 settembre 2013, n. 21165). Nella specie, proposto ricorso ai sensi dei numeri 3 e 5 dell'art.
360 c.p.c., il ricorrente si doleva, in realtà, di una omessa pronuncia.
Con il secondo motivo si denuncia “omessa e/o insufficiente motivazione su un punto
controverso decisivo”.
Lamenta il ricorrente che la Corte d'appello non ha motivato circa il rigetto della sua
ricostruzione della fattispecie contrattuale. Egli ritiene in particolare che la mancata
pattuizione di elementi quali il prezzo e il termine sia la dimostrazione della volontà delle
parti di concludere un contratto di intermediazione commerciale.
Con il terzo motivo C.E. denuncia “violazione e falsa applicazione del combinato disposto
degli artt. 1474, 1325 n. 3 e 1183 c.c. in relazione con l'art. 1556 c.c.: elementi essenziali contraddittorietà, illogicità ed insufficienza della motivazione”.
Sostiene il ricorrente che la sentenza impugnata, con motivazione insufficiente e/o illogica e
contraddittoria, ha ritenuto sussistenti, nel caso in esame, tutti gli elementi essenziali ex art.
1556 c.c. per la qualificazione del negozio giuridico inter partes, quale contratto estimatorio,
provvedendo, in mera via interpretativa, a sopperire alla mancanza degli stessi, fornendo una
ricostruzione errata e non conforme alla realtà della volontà delle parti.
Con il quarto motivo si denuncia “illogicità della sentenza difetto di elementi essenziali ex
art. 1556 c.c. - determinazione o determinabilità del prezzo - omessa e/o insufficiente
motivazione in ordine alla prospettazione dell'esponente”.
Sostiene il ricorrente che non si può rinvenire nel caso in esame alcuna predeterminazione del
prezzo di acquisto dei beni da parte dell'accipiens, apparendo che la Corte d'appello, per
giustificare l'illogica conclusione della sussistenza di un contratto estimatorio, ha interpretato
il requisito del prezzo quale elemento unilateralmente determinabile da una delle parti, ossia
dal tradens.
Per il ricorrente la Corte d'appello non ha verificato quale volontà le parti hanno manifestato
mediante la non pattuizione del prezzo. Se la Corte d'appello avesse effettuato tale
valutazione, certamente non avrebbe concluso per la sussistenza di un contratto estimatorio
fra le parti in quanto, ai fini della figura de qua, il requisito del prezzo è essenziale ai fini del
concorde raggiungimento di un equilibrio contrattuale che le parti suggellano mediante la
stipulazione di tutti gli elementi della figura giuridica prescelta.
Con il quinto motivo il ricorrente denuncia “illogicità della motivazione - qualificazione del
rapporto ex art. 1556 c.c. violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1474 c.c.”.
Sostiene C.E. che la Corte d'appello non solo ha errato nel qualificare il rapporto in essere fra
le parti riconducendolo alla fattispecie regolata ex art. 1556 c.c., ma, nell'errore, ha omesso
l'applicazione dell'art. 1474 c.c. in quanto ha ritenuto determinabile il prezzo del negozio
mediante atto unilaterale del tradens o comunque lo ha falsamente applicato in quanto,
sebbene il prezzo del bene sia ricavabile dai listini di borsa, il giorno di riferimento ai fini
della quantificazione della prestazione deve essere quello concordemente stabilito dalle parti
o, in caso di disaccordo, quello in cui interviene una determinazione giurisdizionale che
sancisce la traslazione della proprietà della cosa.
Con il sesto motivo si denuncia “insufficiente ed illogica motivazione su un punto essenziale e
determinante per la decisione”.
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Sostiene il ricorrente che la sentenza impugnata è errata per aver accolto la quantificazione
del valore della merce oggetto di contratto così come unilateralmente effettuata da Songa
Antonio spa, senza fornire motivazione alcuna circa i criteri utilizzati al fine di ritenere la
quantificazione, essendosi limitata a richiamare pedissequamente quella effettuata
arbitrariamente da controparte. In altri termini, l'impugnata sentenza, per il ricorrente, si è
limitata ad accogliere la richiesta di controparte, senza tuttavia nulla dire su quale criterio
sia stato utilizzato e senza avere indicato l'effettiva quotazione.
Con il settimo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione dell'art. 1556 c.c. - difetto
di elementi essenziali - il termine”.
Sostiene il ricorrente che la previsione di un termine nel contratto estimatorio ha la finalità
di segnare il tempo ultimo per l'esercizio del diritto potestativo di risolvere il contratto
restituendo la merce consegnata, ma anche di segnare il momento traslativo della proprietà
della cosa all'accipiens.
Per il ricorrente la mancanza di una pattuizione in tal senso è dunque di per sé idonea ad
escludere un contratto estimatorio, apparendo pertanto che la mancanza dello stesso è la
chiara prova della volontà delle parti di escludere la pattuizione di una fattispecie negoziale,
quale quella ex art. 1556 c.c..
Con l'ottavo motivo C.E. lamenta “illogica ed insufficiente motivazione circa la
determinabilità del termine - violazione del combinato disposto degli artt. 1183 e 1556 c.c.”.
Sostiene il ricorrente che la Corte d'appello ha errato nel ricondurre il negozio stipulato fra le
parti alla figura del contratto estimatorio, prevista dall'art. 1556 c.c.; che la Corte d'appello
ha inoltre illogicamente sostenuto che il termine di cui alla figura in commento, sebbene non
prefissato mediante trattativa ed accordo fra le parti, può essere legittimamente imposto
unilateralmente ed arbitrariamente dal creditore.
Ritiene pertanto il C. che la Corte d'appello, dapprima ha ritenuto applicabile il disposto di
cui al primo comma dell'art. 1183 c.c., ma successivamente ha completamente contraddetto
le osservazioni effettuate, tanto da concludere per la disapplicazione della norma richiamata
e per la possibilità di fissazione da parte del tradens.
Con il nono motivo il ricorrente denuncia “omessa e/o insufficiente motivazione su un punto
decisivo della controversia - congruità del termine”.
Ad avviso del ricorrente la Corte d'appello non ha motivato né circa la tipologia di mercato
nel quale si è inserito il rapporto tra C.E. e la Songa Antonio s.p.a., né, tantomeno, i rapporti
usualmente praticati tra gli stessi, ovvero tutte circostanze che avrebbero certamente
portato ad escludere la conclusione di un contratto estimatorio fra le parti.
Con i molteplici motivi viene censurata la sentenza sotto il profilo dell'erronea applicazione
delle norme in tema di contratto estimatorio e di difetto di motivazione.
In particolare, il ricorrente, premesso che nel contratto mancava la determinazione del
prezzo e del termine - entrambi elementi essenziali del contratto estimatorio - censura la
sentenza per: a) l'assunta determinazione del prezzo unilateralmente da parte del tradens venditore; b) la erronea applicazione della norma del contratto estimatorio o, meglio, la non
corretta applicazione in via analogica dell'art. 1474 c.c. con riferimento alla mancata
previsione del prezzo nell'accordo intervenuto; c) l'essenzialità della previsione del termine
nel contratto estimatorio e la insufficienza ed illogicità della motivazione di cui poi si censura
la contraddittorietà nella parte in cui essa richiama, al fine di stabilire il termine, l'art. 1183,
1 comma, per poi, viceversa, prevedere che in mancanza di accordo il termine debba essere
fissato dal giudice.
Tutti i suddetti motivi sono infondati.
La sentenza impugnata ha evidenziato che l'elemento essenziale e caratterizzante del
contratto estimatorio è la facoltà del consegnatario di restituire la merce in alternativa
all'obbligo di pagamento del prezzo, senza che a tale configurazione sia di ostacolo la
mancata prefissione splicita di un termine per l'esercizio dell'indicata facoltà di restituzione.
La Corte d'appello, dopo aver esaminato, con un accertamento in fatto, i documenti di
trasporto recanti la scritta "contratto estimatorio", in cui si indicava chiaramente il criterio
destinato alla determinazione del corrispettivo da pagarsi in caso di mancata restituzione
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degli oggetti consegnati e la raccomandata inviata dalla Songa Antonio alla ditta Italcraft di
C.E. , avente ad oggetto "contratto estimatorio", nella quale si chiedeva il pagamento delle
merci consegnate il 17 marzo precedente, se vendute, e la immediata restituzione di quanto
invenduto, ha ritenuto che la volontà delle parti era quella di stipulare un contratto
estimatorio.
Tale assunto è corretto.
Con il contratto estimatorio il proprietario (tradens) consegna una o più cose mobili
determinate ad un soggetto (accipiens) che si obbliga a pagare il prezzo, salvo restituire
quanto ricevuto nel termine stabilito. L’accipiens non acquista la proprietà della res né
assume l'obbligazione di venderla, ma è tenuto al pagamento del prezzo di stima, ove alieni,
per proprio conto e nel proprio interesse, a terzi, le cose consegnate, oppure non provveda,
nel termine convenuto, alla restituzione.
L'operazione economica trova giustificazione, da una parte, nell'interesse del proprietario di
avvalersi dell'organizzazione di altri imprenditori per far conoscere i propri prodotti;
dall'altra, nell'interesse dell'accipiens di avere a disposizione beni in vista della rivendita, con
la sicurezza di poter restituire entro il termine stabilito, l'invenduto, andando così esente dal
pagamento del prezzo (Cass., 17 luglio 2003, n. 1196).
Va precisato che il contratto estimatorio è un contratto reale: ciò significa che l'accordo delle
parti non è ancora sufficiente per dirsi formato il vincolo negoziale che viene ad esistenza
solo al momento della consegna delle cose dal tradens all'accipiens.
L'art. 1556 c.c. prevede che oggetto del contratto siano beni mobili. Si è osservato che la
struttura del rapporto, al fine di rendere effettiva la facoltà dell'accipiens di restituire in
tutto o in parte le cose ricevute, impone che le parti individuino i beni in modo specifico,
avvalendosi quantomeno di criteri di identificazione delle cose consegnate. Affinché il
contratto sia qualificabile come estimatorio non è necessario che le parti abbiano provveduto
ad identificare il termine di restituzione e neppure che i beni siano stati oggetto di stima. È
invece essenziale che le parti si siano accordate sulla facoltà dell'accipiens di restituire la
cosa anziché pagarne il prezzo. Posto che il contratto non richiede forma scritta, la
giurisprudenza ha osservato che la clausola "al venduto" che compaia nell'ambito della
corrispondenza che le parti si siano scambiate costituisce, ove non contraddetta da altri
elementi di prova, fattore utile a qualificare il rapporto come contratto estimatorio (Cass., 29
ottobre 1991, n. 11504; Cass. 21 aprile 1979, n. 2235).
Secondo Cass. 4 gennaio 1974, n. 9, la precisazione del termine non è essenziale, ma lo stesso
è ugualmente necessario per l'esecuzione del contratto. Nell'ipotesi che non sia stato
individuato alcun termine, né questo sia stabilito dagli usi, la legge - che, in linea di massima,
non richiede che il tempo dell'adempimento sia fissato nel contratto - prevede all'art. 1183
c.c. il modo di determinare il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita.
Parimenti non essenziale risulta la circostanza che le parti abbiano provveduto alla stima dei
beni, purché il prezzo sia determinabile, o siano fissati dei prezzi minimi ai quali l'accipiens si
debba attenere.
La mancanza del termine e le modalità particolari di determinazione del prezzo non portano,
pertanto, automaticamente ad escludere l'esistenza del contratto estimatorio, bensì
impongono solo una maggiore attenzione nella valutazione di tutti gli elementi sintomatici
che possano ricostruire l'originaria volontà delle parti, quali le qualità professionali delle parti
e la natura dei beni.
L'impugnata sentenza ha correttamente applicato i suddetti principi di diritto per inquadrare
la fattispecie in esame come contratto estimatorio, ritenendo che i documenti di trasporto e
le raccomandate inviate dalla Songa alla Italcraft di C.E. , indicavano una chiara volontà delle
parti di porre in essere un tale contratto, non essendo necessaria né una espressa pattuizione
del termine, né una espressa pattuizione del prezzo purché lo stesso sia determinabile.
In tema di ermeneutica contrattuale l'accertamento della volontà delle parti, in relazione al
contenuto del negozio, si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito ed
incensurabile in sede di legittimità.
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Quanto ai denunciati vizi di motivazione, sotto il profilo di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c., si
osserva che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex
art. 360, n. 5, c.p.c., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta
dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della
controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso
difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di
legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di
controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la
valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del
proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la
concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i
fatti in discussione (Cass., 18 marzo 2011, n. 6288).
Il ricorrente, con i motivi di ricorso, critica la ricostruzione della volontà negoziale operata
dal giudice di merito, ma non offre elementi idonei a superare le argomentazioni della
sentenza impugnata.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con condanna di parte ricorrente alle spese del
giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione
che liquida in Euro 5.200, di cui Euro 200,00 per esborsi.
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13)
QUAL È LA DIFFERENZA TRA CONTRATTO DI
APPALTO E DI COMPRAVENDITA
Cassazione, Sez. II, 17 gennaio 2014, n.872
MASSIMA
1. Oggetto del contratto di appalto è il risultato di un facere (anche se comprensivo di un
dare) che può concretarsi sia nel compimento di un’opera che di un servizio che
l’appaltatore assume verso il committente dietro corrispettivo, mentre oggetto del
contratto di vendita è il trasferimento di un bene a cui può essere connessa un’obbligazione
di fare, cioè, l’obbligazione di mettere in opera il bene venduto.
2. Nel contratto di appalto vi è un fare che può essere comprensivo di un dare, mentre nel
contratto di compravendita vi è un dare che può comportare anche un fare. Pertanto, sono
sempre da considerarsi contratti di vendita (e non di appalto) i contratti concernenti la
fornitura ed eventualmente anche la posa in opera qualora l’assuntore dei lavori sia lo stesso
fabbricante o chi fa abituale commercio dei prodotti e dei materiali di che trattasi, salvo,
ovviamente, che le clausole contrattuali obbligano l'assuntore degli indicati lavori a
realizzare un quid novi rispetto alla normale serie produttiva, perché in questo caso
dovrebbe ritenersi prevalente l'obbligazione di facere, in quanto si configurano elementi
peculiari del contratto di appalto e, precisamente, l’intuitus personae e l'assunzione del
rischio economico da parte dell'appaltatore. Qualora, invece, l'assuntore dei lavori non è né
il fabbricatore, né il rivenditore del bene da installare o mettere in opera, l'attività di
installazione di un bene svolta dal prestatore, risultando autonoma rispetto a quella di
produzione e vendita, identifica o rinvia ad un contratto di appalto, dato che la materia
viene in considerazione quale strumento per la realizzazione di un'opera o per la prestazione
di un servizio.
CASUS DECISUS
L.V. con atto di citazione dell'8 luglio 1997 conveniva in giudizio davanti alla Pretura di
Messina C.S. titolare della ditta SMA Siciliana Montacarichi Ascensori nonché G.M.
amministratore pro tempore del Condominio (omissis) e, premesso di aver concluso nel
gennaio 1992 un contratto per la fornitura e la messa in opera di un ascensore completo di
accessori da installare nella costruzione eseguita dalla ditta Livoti, di aver versato il
corrispettivo ad eccezione del 10% della complessiva somma che avrebbe dovuto essere
corrisposta solo al collaudo, di aver provveduto a versare all'ISPESL le somme dovute, ma il C.
non aveva provveduto ad effettuare il collaudo né a fornire la certificazione indicata,
chiedeva che lo stesso fosse obbligato ad effettuare l'attività occorrente per il collaudo
dell'ascensore e a consegnare la dichiarazione di conformità dell'impianto elettrico di
alimentazione.
Si costituiva il C. eccependo l'incompetenza del giudice adito e nel merito evidenziava che ai
fini del collaudo l'attore avrebbe dovuto pagare all'ente preposto al collaudo dell'ascensore la
somma prevista e che non poteva rilasciare la certificazione di conformità dell'impianto
elettrico perché non era la sua ditta ad averlo realizzato, con domanda riconvenzionale,
chiedeva il pagamento di lire 28.000.000 quale saldo per la fornitura dell'ascensore.
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Si costituiva l'amministratore del condominio chiedendo la nullità della citazione per omessa
determinazione dell'oggetto della domanda.
Il Tribunale di Messina, subentrato al Pretore a seguito della riforma sul c.d. Giudice unico,
con sentenza n. 1493 del 2002 dichiarava nullo il contratto stipulato tra le parti, rigettava la
domanda proposta da L. nonché quella esperita in riconvenzionale da C. , dichiarava
compensate le spese e condannava L. , a rimborsare le spese all'amministratore del
condominio.
Avverso tale sentenza proponeva appello L. anche quale rappresentante della società Livoti
Vincenzo e Livoti Mario costruzioni snc. cui L.V. aveva conferito la propria ditta individuale,
per due motivi.
Con separato atto ha proposto appello anche C. .
La Corte di appello di Messina, riuniti i giudizi con sentenza n. 211 del 2006 dichiarava
cessata la materia del contendere in ordine alle domande del L. , condannava il L. a
corrispondere al C. la somma di Euro 1446,07 con interessi legali dal 25 maggio 2000 ed a
rimborsare allo stesso le spese dei due gradi del giudizio. Compensava tra il L. e il
Condominio XXXXXX le spese di entrambi i gradi del giudizio. Secondo la Corte peloritana il
rapporto intercorso tra L. e C. , come correttamente aveva evidenziato il Tribunale andava
qualificato quale appalto e non come vendita, considerato che il contratto di cui si dice non
considerava solo un dare, ma anche un facere. Dal verbale provvisorio del 15 maggio
emergeva che l'impianto installato era stato collaudato dalla ditta IVG di Taranto e il L.
deduceva che, essendo stato collaudato l'ascensore, avrebbe dovuto essere dichiarata cessata
la materia del contendere. Il L. non aveva provato d'aver corrisposto il residuo di lire
2.800.000.
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da L.V. anche quale legale rappresentate
della snc. Livoti Vincenzo e Livoti Mario costruzioni, per due motivi, illustrati con memoria.
La ditta Cannavò Ascensori ha resistito con controricorso proponendo, a sua volta, ricorso
incidentale per un motivo. All'udienza dell'8 maggio 2013 questa Corte avendo rilevato che il
ricorso non era stato notificato al Condominio litisconsorte necessario disponeva la notifica
del ricorso al suddetto nel termine di 60 giorni e rinviava la causa a nuovo ruolo. L.V. ha
provveduto a notificare il ricorso al Condominio in data 4 giugno 2013.
Cassazione, Sez. II, 17 gennaio 2014, n.872
(Pres. Oddo – est. Scalisi)
Motivi della decisione
Preliminarmente i rincorsi, principale e incidentale, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., vanno riuniti
atteso che sono stati proposti contra la stessa sentenza.
A.= Ricorso principale.
1.= Con il primo motivo L.V. anche quale legale rappresentate della snc. Livoti Vincenzo e
Livoti Mario costruzioni, lamenta la violazione e falsa applicazione e dell'art. 1476 cc. e
dell'art. 17 DPR n. 1497 del 1063, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione
sui fatti controversi e decisoli del giudizio (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.). Secondo il ricorrente:
a) sia il Tribunale che la Corte di Appello di Messina avrebbero errato nel ritenere che nella
fattispecie si vertesse in ipotesi di appalto, anziché di vendita, disattendendo il principio di
cui all'art. 1367 cc, nonché il principio secondo cui il negozio misto che presenta i caratteri
della compravendita e dell'appalto deve ritenersi assoggettato alla disciplina unitaria del
contratto i cui elementi costitutivi debbono, nella specie considerarsi prevalenti.
b) la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto di alcuni elementi decisori acquisiti al
processo. In particolare, sostiene il ricorrente, di aver fornito la prova del proprio
adempimento esibendo in giudizio i bollettini postali di pagamento in favore di ISPELS delle
somme occorrenti per il collaudo dell’ascensore installato della ditta Cannavò, nonché con la
fattura relativa al collaudo emessa dal C. nella quale non sono indicati e, quindi, richiesti gli
importi per le spese.
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Posto ciò il ricorrente conclude formulando i seguenti quesiti:
dica la Corte ai fini dell’accertamento della soccombenza virtuale se il mancato collaudo
dell’impianto ascensore, in rapporto alle previsioni di cui all’art. 1476 cc. e dall’art. 7 del
DPR 1963/1497 sia imputabile al C. .
Dica la Corte, conseguentemente, se le spese ed i compensi dei due gradi di giudizio
andavano posti a carico del L. e non, piuttosto, a carico del C. .
1.1.= Il motivo è infondato.
1.1.a).= Nella realtà non è agevole distinguere se una determinata operazione possa rientrare
nello schema del contratto d’appalto d’opera o della fornitura con posa in opera. Tuttavia,
oggetto del contratto di appalto è il risultato di un facere (anche se comprensivo di un dare)
che può concretarsi sia nel compimento di un’opera che di un servizio che l’appaltatore
assume verso il committente dietro corrispettivo, mentre oggetto del contratto di vendita è il
trasferimento di un bene a cui può essere connessa un’obbligazione di fare, cioè,
l’obbligazione di mettere in opera il bene venduto. In altri termini, nel contratto di appalto vi
è un fare che può essere comprensivo di un dare, mentre nel contratto di compravendita vi è
un dare che può comportare anche un fare. Pertanto, sono sempre da considerarsi contratti di
vendita (e non di appalto) i contratti concernenti la fornitura ed eventualmente anche la posa
in opera qualora l’assuntore dei lavori sia lo stesso fabbricante o chi fa abituale commercio
dei prodotti e dei materiali di che trattasi, salvo, ovviamente, che le clausole contrattuali
obbligano l'assuntore degli indicati lavori a realizzare un quid novi rispetto alla normale serie
produttiva, perché in questo caso dovrebbe ritenersi prevalente l'obbligazione di facere, in
quanto si configurano elementi peculiari del contratto di appalto e, precisamente, l’intuitus
personae e l'assunzione del rischio economico da parte dell'appaltatore. Qualora, invece,
l'assuntore dei lavori di cui si dice non è né il fabbricatore, né il rivenditore del bene da
installare o mettere in opera, l'attività di installazione di un bene svolta dal prestatore,
risultando autonoma rispetto a quella di produzione e vendita, identifica o rinvia ad un
contratto di appalto, dato che la materia viene in considerazione quale strumento per la
realizzazione di un'opera o per la prestazione di un servizio.
Ora, nel caso in esame, come evidenzia la sentenza impugnata, la ditta SMA non era né il
produttore, né il rivenditore dell'ascensore, e non aveva venduto un ascensore con l'impegno
di installarlo, ma si era impegnata ad installare un ascensore, o meglio, a realizzare un
impianto ascensore funzionante, mediante la fornitura dello stesso ascensore. Pertanto, come
correttamente ha affermato il Tribunale prima e la Corte di appello di Messina dopo, il
rapporto tra L. e C. era riconducibile al contratto di appalto e non a quello della vendita,
proprio perché nel caso in esame vi era un fare cui si accompagnava un dare e non, invece,
un dare cui si accompagnava un facere.
1.1.b) Non merita censura neppure la sentenza impugnata laddove afferma che il L. non ha
provato di aver corrisposto anticipatamente gli oneri necessari per il collaudo considerato che
lo stesso ricorrente non ha escluso che le ricevute di conto corrente postale del versamento
dei proventi in favore della tesoreria dello Stato in conto ISPESL, che avrebbero dovuto
provare il pagamento degli oneri di cui si dice, facevano riferimento all'ascensore (OMISSIS),
mentre la matricola dell'ascensore (installato dalla Cannavò Ascensori) portava il numero
(OMISSIS), né, in questa sede, di legittimità, può essere accertata la circostanza dedotta dal
ricorrente, cioè, che la fattura n. (OMISSIS) (documento n. 21 allegato al fascicolo di
produzione aventi la Pretura di Messina) identifichi l'adempimento dell'obbligo del L. di cui si
dice, considerato pure, come lo stesso ricorrente evidenzia, che non vi è corrispondenza
formale tra il debitore (L.V. ) e il nome (Condominio (OMISSIS) ), cui risulta riferita la fattura
di che trattasi.
1.1.c).= Pertanto, considerato che l'art. 8 della legge 1415 del 1942 pone a carico del
proprietario dello stabile l'onere di pagare i contributi previsti per il collaudo dell'impianto di
ascensore, e che il L. non aveva fatto tutto quello che era di sua esclusiva competenza ai fini
del collaudo dell'impianto dell'ascensore installato dalla ditta Cannavò, correttamente, la
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Corte di Appello di Messina, ha ritenuto il L. soccombente virtuale rispetto alla sua domanda
proposta e correttamente ha posto a carico del L. i compensi e le spese dei due gradi di
giudizio.
2.= Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art.
1219 cc, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e
decisoti del giudizi (art. 360 n. 3 e 5 cpc).
Secondo il ricorrente, la Corte peloritana avrebbe errato nel condannare L.V. a pagare al C.S.
gli interessi legali dal 25 maggio 2000 sull'importo di Euro 1446,07 costituente il saldo della
fornitura dell'ascensore perché l'assenza del certificato definitivo di collaudo, la mancata
consegna del suddetto documento al Livori e la necessità di intraprendere l'azione giudiziaria
per ottenere l'adempimento avrebbero dovuto indurre la Corte di Messina a ritenere
l'insussistenza di mora in capo al L. , relativamente al pagamento della somma di Euro
1.446,07. Pertanto, conclude il ricorrente, dica la Corte se sussiste, o meno, la mora del L.V.
nel pagamento del saldo del prezzo della fornitura dell'impianto dell'ascensore. E Dica
conseguentemente la Corte se L. è tenuto, o meno, al pagamento degli interessi legali su
Euro 1.446,07 a far data dal 20 maggio 2000.
2.1.= Il motivo è infondato.
È affermazione pacifica in dottrina e nella giurisprudenza anche di questa Corte che a norma
dell'art. 1219, comma secondo, n. 3, cod. civ., alla scadenza del termine in cui un pagamento
deve essere eseguito si verifica la mora del debitore senza bisogno di intimazione ('mora ex
re'), e per effetto della mora sono applicabili le disposizioni in tema di interessi e di obbligo
di risarcimento del maggior danno dettate dall'art. 1224, comma primo e secondo. Ora, nel
caso in esame, al momento del collaudo dell'ascensore avvenuto il 25 maggio 2000, il L. era
tenuto a corrispondere al C. , come afferma la stessa sentenza impugnata, il residuo prezzo
concordato contrattualmente, pari ad Euro 1.446,07 e da quel momento, senza la necessità di
intimazione, lo stesso L. , era costituito in mora.
Pertanto, la Corte peloritana, avendo accertato che il L. non ha corrisposto al C. il residuo
prezzo concordato corrispondente alla somma di Euro 1.446,07 correttamente ha condannato
lo stesso L. al pagamento della somma di Euro 1.446.07, e, ai sensi dell'art. 1219 cc.,
unitamente, al pagamento degli interessi legali sulla stessa somma residua a decorrere dalla
messa in mora e cioè dal 25 maggio 2000 fino all'integrale soddisfo.
B.= Ricorso incidentale.
3.= Con l'unico motivo del ricorso incidentale la ditta Cannavò Ascensori denuncia un error in
procedendo da omessa pronuncia, ai sensi dell'art. 360 n. 4 cpc, in riferimento alla violazione
dell'art. 112 cpc. Secondo il ricorrente incidentale la Corte di Appello di Messina pur
condannando il L. al pagamento della somma di Euro 1446,07 e agli interessi legali sulla
stessa somma dal 25 maggio 2000 al soddisfo avrebbe omesso la pronuncia sulla richiesta di
pagamento dell'IVA così come era previsto nel contratto di fornitura. Il ricorrente incidentale
conclude formulando il presente quesito di diritto: nel caso in cui come nel procedimento de
quo il giudice omette di pronunciarsi sulla domanda di pagamento IVA unitamente alla somma
imponibile ricorre l'ipotesi di omessa pronuncia.
3.1= Il motivo è inammissibile per carenza di interesse.
Salvo che non sia espressamente stabilito dalle parti, il compenso dovuto all'appaltatore ed
indicato dal contratto deve ritenersi al netto dell'IVA essendo, questa ai sensi del DPR 26
ottobre 1972, n. 633 e successive modifiche, un'imposta applicata sul valore aggiunto di ogni
fase della produzione, scambio di beni e servizi, dovuta per legge. Pertanto, nonostante
l'omissione di esplicita pronuncia da parte della Corte di Appello di Messina in merito alla
corresponsione anche dell'IVA relativa al pagamento del residuo prezzo deve ritenersi che il
L., per legge, deve al C. l'importo di Euro 1446.07 oltre interessi dal 25 maggio 2000 al
soddisfo ed oltre IVA.
In definitiva, riuniti i ricorsi entrambi vanno rigettati. La reciproca soccombenza giustifica la
compensazione delle spese giudiziali del presente giudizio di cassazione
P.Q.M.
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La Corte riuniti i ricorsi, li rigetta entrambi. Compensa le spese.
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14)
CONTRATTO DI PARCHEGGIO E FURTO
DELL’AUTO
TRACCIA
Tizio lavora in centro e visto il traffico caotico decide di lasciare la propria auto nel nuovo
“Parcheggio Alfa”, sito nel centro cittadino e completamente automatizzato: la barra di
accesso si sblocca dopo aver ritirato il cd tagliando di parcheggio, che indica il posto
assegnato. Il pagamento avviene solo al ritiro del veicolo, con l’introduzione del denaro in
un’apposita macchinetta, che rilascia il cd “tagliando di uscita”.
Al ritorno dal lavoro Tizio non trova la propria vettura al posto indicato nel tagliando di
parcheggio ed è costretto a constatare che gli è stata rubata.
Decide pertanto di chiedere spiegazioni al custode: tuttavia i locali del parcheggio sono
deserti.
In varie parti dell'infrastruttura era affisso il regolamento contenente l'offerta della sosta,
ottimizzata da semafori, impianti video e recinzione, e munita di dispositivi di controllo per
disciplinare le modalità di accesso e uscita e rilasciare un contrassegno, non identificativo
dell'auto o del conducente, ma misuratore dei tempi d'uso dell'area, in cui era espressamente
richiamata la delibera comunale n. 1740/1993 che esclude la responsabilità della società
concessionaria per il furto del veicolo, contemplata invece per i danni arrecati alle strutture
e attrezzature e per l’incendio
Tizio, così, si rivolgi all’amministrazione del Parcheggio Alfa, la ATAlfa Srl, ma gli viene
risposto che il parcheggio è comunale e che la società è solo gestore: il servizio viene erogato
in maniera completamente automatizzata e pertanto non è necessario un custode. Alle sue
rimostranze gli viene esibito il regolamento comunale dei parcheggi (regolarmente approvato
dalla Giunta Comunale) e il contratto di parcheggio, riportato sul tagliando di parcheggio e
affisso prima dell’ingresso e nei locali del Parcheggio Alfa, che indicano chiaramente che “la
la ATAlfa Srl non risponde del furto totale o parziale del veicolo, e degli oggetti ivi
presenti”.
Tizio si rivolge ad un legale perché non ha copertura assicurativa per il furto del veicolo.
Il candidato, dopo breve analisi del contratto di parcheggio, rediga parere motivato.
Cassazione, Sez. Unite, 28 giugno 2011, n. 14319

Tra i due tipi di parcheggio [custodito e non custodito] normativamente disciplinati nei
centri urbani è rimessa all'utente: se il suo interesse concreto prevalente è di concludere un
contratto che gli assicura uno spazio per lo stazionamento del veicolo in prossimità di luoghi
di interscambio con sistemi di trasporto collettivo a cui intende accedere velocemente e
senza incorrere in divieti sanzionati dal codice della strada (art. 158 d.lgs del 1992 n. 285),
pagando la somma corrispettiva della prestazione del gestore - mettere a disposizione
un'area – senza trasferire la detenzione del veicolo al personale eventualmente preposto alla
sorveglianza del parcheggio, e purché l’avviso dell'esclusione della custodia sul veicolo sia
apposto in modo da esser adeguatamente percepibile prima della conclusione del contratto
secondo le modalità predisposte dal proponente (artt. 1326, primo comma, e 1327 cod. civ.),
si configura il contratto di parcheggio senza custodia, e senza che l’esclusione di questa
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


attività debba esser contenuta in una clausola da sottoscrivere ai sensi art. 1341, secondo
comma, cod. civ. poiché è oggetto di proposta negoziale, manifestata prima
dell'accettazione di essa, e perciò, se richiamata in una clausola negoziale, è efficace a
norma della legge 6 febbraio 1996 n. 52 [e valida a norma dell'art. 33, secondo comma,
lettera 1) d.lgs dei 2005 n. 206], non potendosi presumere nessuna vessatorietà di essa
poiché le caratteristiche del servizio da fornire secondo le modalità indicate non sono
determinate successivamente alla conclusione del contratto stesso, né attengono ai suoi
effetti o garanzie legali, ovvero alla limitazione di adempimento di obblighi o esonero di
responsabilità (Cass. 7 febbraio 2003 n. 1833).
Qualora invece l’utente intenda assicurarsi non solo l’utilizzazione dell'area, ma anche la
conservazione e la restituzione del veicolo nello stesso i stato in cui lo ha consegnato - anche
senza le chiavi (Cass. 3 dicembre 1990 n. 11568), se il posteggiatore non è incaricato del
posizionamento di esso, e ancorché chiuso con inserimento di sistemi di allarme e sicurezza,
accorgimenti di solito necessari ai fini della validità della polizza assicurativa e idonei ad
escludere la custodia degli oggetti all'interno dell'abitacolo – si configura il contratto di
parcheggio con custodia a cui è applicabile la disciplina sul deposito, contratto a struttura
reale (art. 1766 cod. civ.: "...il contratto con il quale una parte riceve dall'altra una cosa
mobile con l’obbligo di custodirla e di restituirla in natura" - Cass. 14 gennaio 1977 n. 189,
16 novembre 1979 n. 5959, 25 febbraio 1981 n. 1144, 22 dicembre 1983 n. 7557, 2 marzo
1985 n. 1787, 12 dicembre 1989 n. 5546/1989, 23 agosto 1990 n. 8615) perché funzione
prevalente dei contratto ed obbligazione caratteristica del gestore del parcheggio è
l’espletamento della custodia dell'auto, e perciò egli deve adottare cure e cautele – come ad
esempio apporre videocamere o personale per la sorveglianza a distanza, installare sistemi
dotati di allarme per l’uscita da vie diverse da quelle indicate - e svolgere attività idonee
all'adempimento di tale obbligo e a tutelare l’utente dal rischio di furto del veicolo (art.
1177 cod.civ.), il cui costo questi paga anche in proporzione al valore del veicolo, che incide
sulla difficoltà della prestazione, ed in cui il danaro è anche misura della diligenza
nell'esecuzione di essa (criterio analogico desumibile dall'art. 1768, secondo comma, cod.
civ.)
L'istituzione da parte dei Comuni, previa deliberazione della Giunta, di aree di sosta a
pagamento ai sensi dell'art. 7, primo comma, lettera f), d. lgs. 30 aprile 1992 n. 285 (codice
della strada), non comporta l'assunzione dell'obbligo del gestore di custodire i veicoli su di
esse parcheggiati se l’avviso "parcheggio incustodito" è esposto in modo adeguatamente
percepibile prima della conclusione del contratto (artt. 1326, primo comma, e 1327 cod.
civ.) perché l’esclusione della custodia attiene all'oggetto dell'offerta al pubblico (art. 1336
cod. civ.), e l’univoca qualificazione contrattuale del servizio, reso per finalità di pubblico
interesse, normativamente disciplinate, non consente il ricorso al sussidiario criterio della
buona fede, ovvero al principio della tutela dell'affidamento incolpevole sulle modalità di
offerta del servizio (quali ad esempio l'adozione di recinzioni, di speciali modalità di accesso
ed uscita, dispositivi o personale di controllo), per costituire l’obbligo della custodia,
potendo queste costituire organizzazione della sosta.
L'istituzione da parte dei Comuni, previa deliberazione della Giunta, di aree di sosta a
pagamento ai sensi dell'art. 7, primo comma, lettera f), d. lgs. 30 aprile 1992 n. 285 (codice
della strada), non comporta l'assunzione dell'obbligo del gestore di custodire i veicoli su di
esse parcheggiati se l’avviso "parcheggio incustodito" è esposto in modo adeguatamente
percepibile prima della conclusione del contratto (artt. 1326, primo comma, e 1327 cod.
civ.) perché l’esclusione della custodia attiene all'oggetto dell'offerta al pubblico (art. 1336
cod. civ.), e l’univoca qualificazione contrattuale del servizio, reso per finalità di pubblico
interesse, normativamente disciplinate, non consente il ricorso al sussidiario criterio della
buona fede, ovvero al principio della tutela dell'affidamento incolpevole sulle modalità di
offerta del servizio (quali ad esempio l'adozione di recinzioni, di speciali modalità di accesso
ed uscita, dispositivi o personale di controllo), per costituire l’obbligo della custodia,
potendo queste costituire organizzazione della sosta
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Cassazione, Sez. Unite, 28 giugno 2011, n. 14319
(Pres Vittoria – Rel. Chiarini)
Svolgimento del processo
La società Axa assicurazioni conveniva nel 1999 dinanzi al Tribunale di Milano l’azienda
Trasporti Municipali chiedendone la condanna, a titolo di rivalsa, al pagamento di lire 50
milioni, indennizzate al proprio assicurato, L..B., per il furto dell'auto Jeep Grand Cherokee,
da lui utilizzata in leasing, parcheggiata dal medesimo chiusa a chiave con l’antifurto
inserito, nell'area (omissis), in prossimità della stazione della metropolitana milanese,
stazione (omissis) , gestita a pagamento dalla suddetta azienda.
La domanda era respinta dal Tribunale perché nella specie era stato concluso un contratto
atipico di parcheggio, disciplinato dalle norme sulla locazione, di area e di qui l'inesistenza di
un obbligo di custodia dell'auto da parte del parcheggiatore.
Con sentenza del 30 aprile 2004 la Corte di appello di Milano rigettava il gravame dell'Axa
assicurazioni sulle seguenti considerazioni: 1) l’area di parcheggio Cascina Gobba, realizzata
dal Comune di Milano in attuazione del programma di decongestionamento dei centri urbani,
imposto dall'art. 6 della legge 24 marzo del 1989 n. 122 ai Comuni di 15 città, era finalizzata
"all'interscambio con sistemi di trasporto collettivo", nella specie con la metropolitana,
stazione (omissis) ; 2) l'art. 15 di detta legge aveva aggiunto la lettera d) al quinto comma
dell'art. 4 decreto del Presidente della Repubblica 15 giugno 1959 n. 393, riprodotto nell'art.
7 lettera f) decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285, recante il nuovo codice della strada, che
prevede il parcheggio del veicolo anche senza custodia, subordinato al pagamento di una
somma da calcolare mediante dispositivi di controllo della durata, previa fissazione delle
relative condizioni e tariffe; 3) in attuazione di detta normativa il Comune aveva deliberato atto n. 1740/1993 - di destinare le aree di interscambio di linea a parcheggio "sorvegliato
senza custodia dei veicolo", in tal modo tutelando l’interesse pubblico, in città di intenso
traffico, a reperire uno spazio per parcheggiare l'auto, senza i costi derivanti dalla custodia,
ed ha concesso il relativo servizio all'azienda Trasporti Milanesi; 4) perciò, avendo il B. optato
per il parcheggio incustodito, la causa del contratto non è la custodia, ma la locazione
dell'area, il cui corrispettivo, a tempo, è determinato da dispositivi automatici, senza
rilevanza né del tipo di struttura adibito a parcheggio - silos, strada, recinzione - né della
presenza di personale addetto a riscuotere il corrispettivo o alla sorveglianza della sicurezza
e manutenzione ed integrità delle strutture ed attrezzature, del flusso dei veicoli, e del
rispetto della disciplina della sosta nelle aree, e legittimato a ricevere la denunzia dei danni
di cui l’ente deve rispondere, ma senza espletare attività di custodia dei veicoli; 5) in varie
parti dell'infrastruttura ove aveva parcheggiato il B. era affisso il regolamento contenente
l'offerta della sosta, ottimizzata da semafori, impianti video e recinzione, e munita di
dispositivi di controllo per disciplinare le modalità di accesso e uscita e rilasciare un
contrassegno, non identificativo dell'auto o del conducente, ma misuratore dei tempi d'uso
dell'area, in cui era espressamente richiamata la delibera comunale n. 1740/1993 che esclude
la responsabilità dell'A.T.M. per furto del veicolo, contemplata invece per i danni arrecati alle
strutture e attrezzature e per l’incendio; 6) questa offerta è stata accettata dall'utente con
l’introduzione, del veicolo nel parcheggio secondo le modalità prescritte, ponendolo in sosta
in qualsiasi spazio libero, senza affidarlo in custodia a nessuno, e ritirando il biglietto al fine
di pagare l'utilizzazione dell'area all'A.T.M., che ha adempiuto l’obbligo di assicurare
l’occupazione dello spazio per il tempo richiesto.
Ha proposto ricorso per cassazione l'Axa Assicurazioni cui ha resistito la s.p.a. A.T.M..
La causa, a seguito di ordinanza 683/2010 della III sezione civile di segnalazione del contrasto
di giurisprudenza all'interno della medesima - Cass. 27 gennaio 2009 n. 1957, contra Cass. 13
marzo 2009, n. 6169 - sull disciplina applicabile nel caso di furto di un veicolo parcheggiato in
un'area recintata, gestita da una società privata, e sulla natura ed efficacia delle clausole di
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esclusione della responsabilità ex recepto stabilite nel regolamento di parcheggio in
attuazione del potere amministrativo conferito al Comune dal precitato art. 7, comma primo,
lett. f) dlgs n. 285 del 1992 di istituire apposite aree a pagamento anche senza obbligo della
custodia dei veicoli - indipendentemente dalle modalità di organizzazione dei parcheggio
[recinzioni, accesso e uscita, dispositivi di controllo] – secondo le modalità manifestate con
apposito regolamento esposto prima di accedere all'apposita area - e così assimilando questo
tipo di contratto di parcheggio a quello di locazione di area - da valutare alla luce delle
norme sulla tutela dei consumatore, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale
assegnazione alle Sezioni Unite sulla questione se "in caso di parcheggio istituito dal Comune,
previa deliberazione della Giunta, in un'area recintata a ciò predisposta e gestita da una
società privata, al contratto atipico di parcheggio stipulato dall'utente con la predetta società
siano applicabili le norme relative al deposito, con la conseguente responsabilità del gestore
nel caso di furto del veicolo, oppure le norme relative al contratto di locazione (di area), con
esclusione della responsabilità del gestore per la custodia dei veicoli in essa parcheggiati".
Il Pubblico Ministero ha concluso per il rigetto del ricorso. La ricorrente ha depositato
memoria.
Motivi della decisione
1.- I difensori della ricorrente Vinci ed Ottavi, all'odierna udienza, hanno lamentato di non
aver ricevuto la comunicazione prescritta dall'art. 377 cod. proc. civ., secondo comma.
Il rilievo è infondato.
Infatti l'Axa Assicurazioni con comparsa, autenticata, del 17 aprile 2007, nel revocare il
mandato all'avv. Domenico Mugnano, con studio in Milano conferito a questi e all'avv. Luigi
Ottavi del foro di Roma presso il quale aveva eletto domicilio con procura speciale in calce al
ricorso - non soltanto ha nominato in sua sostituzione l'avv. Paolo Vinci, con studio in Milano,
ma ha altresì eletto domicilio in Roma presso io studio dell'avv. Maria Concetta Trovato.
Pertanto la notifica dell'udienza dinanzi a queste Sezioni Unite è stata effettuata dall'ufficiale
giudiziario in data 15 settembre 2010 a questo nuovo domicilio eletto dalla ricorrente.
2.- Con il primo motivo la ricorrente deduce: "Violazione di norme di diritto ex artt. 1766 1782 c.c.. Del deposito in generale e falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 1571 1606 c.c.. Della locazione. Disposizioni generali".
2.1 - Con il secondo motivo: "Violazione e falsa applicazione della norma di diritto ex art. 7,
comma primo, lettera f) dlgs del 1992 n. 285".
2.2 - Con il terzo motivo: "Erronea interpretazione e/o valutazione dei documenti probatori e
violazione degli artt. 1341, secondo comma, c.c. (Condizioni generali di contratto) e 1362,
secondo comma, c.c. (Intenzione dei contraenti)".
2.3 - Erroneamente la Corte di merito ha ricondotto il contratto alla locazione di area anziché
al deposito disconoscendo il reale contenuto del rapporto e ignorando il dato normativo di cui
agli artt. 1766 - 1782 c.c., relativi al contratto atipico di parcheggio, in cui il veicolo è
affidato al gestore dietro il pagamento del corrispettivo con conseguente applicabilità della
disciplina del deposito. Assiomaticamente quindi la Corte di merito, richiamando l’art. 15
della l. n. 122 del 1989 e l’art. 7 del C.d.S., ha ritenuto il parcheggio di Cascina Gobba senza
custodia, ossia un parcheggio a monete o con dispositivo cartaceo di sosta, c.d. gratta e
sosta, definibile anche come locazione di area. Invece dovrà esser confermato il consolidato
orientamento di legittimità, secondo il quale il contratto di affidamento al gestore di un
parcheggio di un automezzo è deposito o contratto atipico, con obbligo di custodia,
poiché il servizio offerto attraverso la predisposizione di un'area di sosta, automatizzata
per l'accesso, per il pagamento della prestazione e per il ritiro del veicolo, modalità che
l'automobilista accetta all'atto dell'immissione - in particolare in prossimità di aeroporti,
ospedali, supermercati, onde liberarsi del veicolo - lo inducono a confidare nel servizio di
custodia, elemento essenziale del deposito, in cui il titolare dell'aerea di parcheggio, nel
mettere a disposizione uno spazio, contemporaneamente assume la detenzione del
veicolo, e questo comportamento oggettivo prevale su eventuali condizioni generali
predisposte dall'impresa escludenti la custodia le quali, se richiamate nello scontrino o
scheda rilasciati dagli apparecchi automatici, è legittimo ritenere sfuggano alla
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conoscenza dell'utente dato il modo rapidissimo con cui il contratto si è realizzato. Né la
chiusura dell'auto a chiave, né la recinzione dell'aerea finalizzata alla riscossione del
prezzo nella sosta a tempo, possono escludere la custodia ed il ragionevole affidamento
dell'automobilista su di essa, pur se manca il personale addetto alla consegna e riconsegna
delle auto, perché la moderna tecnologia ha sostituito i dipendenti con dispositivi
automatizzati di accesso e uscita mediante schede magnetizzate, soprattutto nei grandi
parcheggi metropolitani per quei viaggiatori che hanno interesse ad avvalersi non solo di
un'area di sosta, ma anche della custodia. Il gestore quindi avrebbe potuto provvedere
adottando un unico scontrino automatizzato per l'entrata e l’uscita, indicando la targa dei
veicoli in modo da consentire il controllo della corrispondenza del numero all'uscita. Peraltro
la struttura protettiva perimetrale dell'area utilizzata dal B. denotava la funzione di custodia
e la sicurezza dei veicoli immessi, ed infatti egli aveva denunciato il furto di un'auto
all’interno di un parcheggio custodito, mentre la locazione dell'area - che non ricorre nel caso
di stazionamento di veicolo anche perché il depositante non consegna l'area ai depositario,
ma questi gli consegna l'auto - non può esser recintata e deve consentire una molteplicità di
vie di uscita, non protette e custodite.
2.4 - La delibera comunale n. 1740/1993 richiamata dalla Corte di merito è un atto politico e
la normativa del 1989 n. 122 si riferiva ai parcheggi regolamentati con parchimetri. Ed infatti
nella stessa delibera il Comune di Milano precisa che dopo l’entrata in vigore di detta legge,
con delibera di urgenza del giugno 1989, la Giunta aveva deciso di far cessare il servizio di
custodia nei parcheggi regolamentati da parchimetri estendendo poi la normativa speciale
anche ai parcheggi di interscambio gestiti dall'ATM per attenuare il deficit di gestione. L'art. 7
del n.C.d.S, al primo comma, lettera f), precisa che nei centri abitati i Comuni possono con
ordinanza del sindaco stabilire, previa deliberazione della giunta, aree destinate al
parcheggio sulle quali la sosta dei veicoli è subordinata al pagamento di una somma da
riscuotere mediante dispositivi di controllo della sosta, anche senza custodia del veicolo,
fissando le relative condizioni e tariffe, e questa norma, come la legge delega, si riferisce a
parcheggi regolati con meccanismi funzionanti con l’introduzione di monete, mentre nel caso
vi siano una struttura protettiva perimetrale, le sbarre di ingresso e di uscita, le videocamere
a circuito chiuso e il personale addetto alla sorveglianza, il parcheggio non può esser
ricondotto a quello "gratta e sosta" poiché ingenera l’affidamento in custodia. Né d'altra parte
alla configurabilità di un contratto di parcheggio privato osta l'affidamento da parte del
Comune della gestione del parcheggio. Quindi, poiché nel caso di specie l'auto non era stata
immessa in un'area aperta, ma integralmente recintata, significa che non era destinata
soltanto alla sosta e del resto anche la Corte di legittimità ha ritenuto che il pagamento
progressivo e differenziato secondo la durata è legittimo soltanto per il parcheggio con
custodia. Dunque il depositario si libera dalla responsabilità ex recepto provando che
l'inadempimento è dovuto a causa a lui non imputabile.
2.5 - Nel regolamento dell'area di parcheggio di (omissis) si afferma che è istituito un servizio
di sosta regolamentata entro spazi delimitati dall'apposita segnaletica o indicati dal personale
di sorveglianza a cui possono esser denunciati i danni. Pertanto il personale di sorveglianza
espleta attività di custodia e quindi il B. ha accettato un servizio che, secondo le modalità di
esecuzione, era con sorveglianza, come ha dichiarato nella denuncia di furto, e poiché il
contratto deve esser interpretato secondo il principio di buona fede, la limitazione di
responsabilità indicata nel regolamento non ha effetto ai sensi dell'art. 1341, secondo
comma, cod. civ. se non espressamente approvata per iscritto e neppure conosciuta o
conoscibile prima della conclusione, per adesione, del contratto, a norma degli artt. 1469
bis n. 10 e 1469 quinquies c.c. poiché la clausola affissa alle casse del parcheggio e sul
biglietto di ingresso non poteva esser conosciuta prima della conclusione del contratto,
che avviene proprio con l'immissione nel parcheggio dell'auto, e dovendo il
comportamento della P.A., allorché fornisce servizi pubblici mediante contratti di diritto
comune, esser improntato ai principi di correttezza e buona fede.
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3.- I motivi, che possono esaminarsi congiuntamente, sono infondati. Il quadro normativo di
riferimento che disciplina il contratto di parcheggio a pagamento senza custodia è costituito
da norme di rilevanza pubblica e di diritto privato.
Infatti, la legge [Tognoli] del 1989, n. 122 (Disposizioni in materia di parcheggi, programma
triennale per le aree urbane maggiormente popolate, nonché modificazioni di alcune norme
del Testo Unico sulla disciplina della circolazione stradale, approvato con d.P.R. del 1959, n.
393. Ecologia) - emanata (cfr. Relazione governativa sul disegno di legge e dibattito
parlamentare che ne ha preceduto l'approvazione) per ovviare ad una situazione di grave
disagio e di concreti danni, divenuta "all'improvviso polo di riferimento dell'attenzione
collettiva" per la gravità che nelle aree a grande intensità, in specie negli ultimi anni, a
seguito dell'aumento dei veicoli circolanti, ha assunto il problema "della paralisi della
circolazione che, rallentando i tempi delle comunicazioni e del trasporto, influisce
direttamente e negativamente sulla produzione nazionale... danneggia lo svolgimento degli
affari e delle relazioni commerciali... mette a rischio le stesse condizioni di salute dei
cittadini a cagione dell'aumento dell'inquinamento atmosferico e di quello acustico, tale da
compromettere in modo serio e forse irreparabile lo sviluppo dell'intero Paese ed il
benessere, non soltanto fisico, dei suoi abitanti" - ha stabilito (art. 3) "di consentire la
realizzazione e l'organizzazione di un servizio essenziale per le città e per i loro abitanti, a
salvaguardia di esigenze primarie dei singoli e dell'intera collettività nazionale". A tal fine "le
Regioni, entro 150 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, individuano i Comuni... i
quali, sulla base di una preventiva valutazione del fabbisogno e tenendo conto del piano
urbano del traffico... sono tenuti alla realizzazione del programma urbano dei parcheggi. Tale
programma deve tra l'altro indicare le localizzazioni ed i dimensionamenti, le priorità di
intervento ed i tempi di attuazione, privilegiando le realizzazioni volte a favorire il
decongestionamento dei centri urbani mediante la creazione di parcheggi finalizzati
all'interscambio con sistemi di trasporto collettivo e dotati anche di aree attrezzate per
veicoli a due ruote, nonché le disposizioni necessarie per la regolamentazione della
circolazione e dello stazionamento dei veicoli nelle aree urbane", (art. 5.1) Pertanto, "Per
l'attuazione del piano il Comune interessato provvede alla progettazione ed alla esecuzione
dei lavori, nonché alla gestione del servizio direttamente ovvero mediante concessione di
costruzione e gestione con affidamento a società, imprese di costruzione anche cooperative,
loro consorzi. Per le opere da ammettere ai contributi previsti dall'articolo 4, la concessione è
subordinata alla stipula di una convenzione redatta secondo gli schemi-tipo predisposti dal
Ministro per i problemi delle aree urbane di concerto con il Ministro del Tesoro e diretta, tra
l'altro, a garantire l'equilibrio economico della gestione. A tal fine il Comune è tenuto ad
inviare al Ministro per i problemi delle aree urbane copia dell'atto di concessione e della
convenzione stipulata". Perciò (art. 6.1) "I Comuni [di quindici maggiori città]., tra cui
Milano., formulano entro 150 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge un
programma urbano dei parcheggi per il triennio 1989 - 1991. Il programma deve essere
redatto... indicando, tra l'altro, le localizzazioni, i dimensionamenti, le priorità di intervento
nonché le opere e gli interventi da realizzare in ciascun anno; il programma dovrà privilegiare
le realizzazioni più urgenti per il decongestionamento dei centri urbani mediante la creazione
di parcheggi finalizzati all'interscambio con sistemi di trasporto collettivo e dotati anche di
aree attrezzate per veicoli a due ruote...." (art. 8). "Per l’attuazione degli interventi la Cassa
depositi e prestiti è autorizzata a concedere ai Comuni i mutui occorrenti. Per le medesime
finalità il Fondo centrale di garanzia per le autostrade e ferrovie metropolitane,... è
autorizzato ad erogare... contributi in conto interessi a ( fronte di contratti di mutuo da essi
stipulati per il finanziamento delle infrastrutture".
Quindi la suddetta legge, al fine di coordinare le norme precitate con la disciplina del codice
della strada, con l’art. 15 ha disposto: "Al quinto comma dell'articolo 4 del Testo Unico delle
norme sulla disciplina della circolazione stradale, approvato con d.P.R. del 1959, n. 393 e
successive modificazioni, è aggiunta infine la seguente lettera: Comuni possono... d) stabilire
con deliberazione del consiglio comunale aree destinate al parcheggio sulle quali la sosta dei
veicoli è subordinata al pagamento di una somma da riscuotere mediante dispositivi di
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controllo della durata, anche senza custodia dei veicolo, fissando le relative condizioni e
tariffe", e "i commi ottavo e decimo dell'articolo 4 del medesimo Testo unico sono
rispettivamente sostituiti dai seguenti: qualora il Comune assuma l'esercizio diretto del
parcheggio con custodia o lo dia in concessione ovvero disponga l'installazione dei dispositivi
di controllo della sosta di cui al quinto comma, lettera d) - precitato - su parte della stessa
area o su altra parte nelle immediate vicinanze deve essere autorizzato un adeguato
parcheggio rispettivamente senza custodia o senza dispositivi di controllo della sosta.
3.1- Le disposizioni contenute nel d.P.R. del 1959, n. 393, sono state confermate dal dlgs del
1992, n. 285 e successive modificazioni. Infatti l'art. 4, quinto comma, lett. a, b, c, dei primo
decreto contenente le norme sulla circolazione stradale conferivano al Sindaco il potere di
stabilire con ordinanza aree sulle quali autorizzare il parcheggio dei veicoli con e senza
custodia, ma - art. 3, sesto comma del regolamento approvato con decreto del Presidente
della Repubblica 30 giugno 1959, n. 420 - anche in quest' ultimo caso con possibilità di "uso di
mezzi e dispositivi atti al controllo del tempo di sosta" (definito dall'art. 115 "arresto del
veicolo protratto nel tempo con possibilità di allontanamento da parte del conducente") [fermo l’obbligo di destinare anche aree autorizzate a parcheggio libero non a pagamento
(art. 3, quinto comma d.P.R. del 1959, n. 420]. L'art. 3, primo comma, n. 34, del dlgs del
1992 n. 285, definito il parcheggio come "area o infrastruttura posta fuori della carreggiata,
destinata alla sosta regolamentata o non dei veicoli" - nel ribadire che "la sosta è la
sospensione della marcia del veicolo protratta nel tempo, con possibilità di allontanamento
da parte del conducente (art. 157, comma 1, lett. c)", ha riaffermato il potere del Sindaco di
regolamentare la circolazione nei centri abitati stabilendo [art. 7. 1 - lett. f]: ".. previa
deliberazione della Giunta, aree destinate al parcheggio - da ubicare preferibilmente fuori
della carreggiata (art. 7.6, omologo dell'art. 4, settimo comma d.P.R. del 1959, n. 393 "le
aree indicate nel quinto comma debbono essere ubicate possibilmente fuori della carreggiata
e comunque in modo che il parcheggio non ostacoli lo scorrimento del traffico") - sulle quali
la sosta dei veicoli è subordinata al pagamento di una somma da riscuotere mediante
dispositivi di controllo di durata della sosta - le cui caratteristiche, modalità costruttive,
procedura di omologazione e criteri di installazione e di manutenzione sono stabiliti con
decreto del Ministro dei LL.PP., di concerto con il Ministro per i problemi delle aree urbane
(art.7.5, omologo dell'art. 3, ultimo comma del regolamento approvato con d.P.R. del 1959 n.
420) - anche senza custodia del veicolo, fissando le relative condizioni e tariffe in conformità
alle Direttive dei Ministero dei LLPP di concerto con la Presidenza del Consiglio dei Ministri.,
ed i cui "proventi.. sono destinati alla installazione, costruzione e gestione di parcheggi.. e le
somme eccedenti ad interventi per migliorare la mobilità urbana (art.7.7)", ribadendo che
(art. 7.8). "Qualora il Comune assuma l'esercizio diretto del parcheggio con custodia o lo dia
in concessione, ovvero disponga l’installazione dei dispositivi di controllo di durata della sosta
di cui al comma 1, lett. f), su parte della stessa area, o nelle immediate vicinanze, deve
riservare una adeguata area destinata a parcheggio rispettivamente senza custodia o senza
dispositivi di controllo di durata della sosta", da appositamente segnalare (art. 7.10).
Quindi, dai complesso di norme surrichiamate si evince che il legislatore ha rimesso la
regolamentazione della sosta e del parcheggio e il pagamento per il tempo di sosta - termini
equivalenti, come si desume anche dall'art. 157, comma 6, del DLGS 285 del 1992 secondo il
quale nella sosta a tempo limitato deve esser segnalata l’ora di inizio - al potere deliberante
della giunta comunale e del Sindaco per motivi di pubblico interesse.
Questo assetto normativo, compresa la possibilità di sosta a pagamento senza custodia del
veicolo, è stato ritenuto conforme alle norme (artt. 76, 16 e 23) e ai principi costituzionali Corte Costituzionale sentenza 29 gennaio 2005 n. 66 - poiché "il precetto di cui all'art. 16 non
preclude al legislatore la possibilità di adottare, per ragioni di pubblico interesse, misure che
influiscano sul movimento della popolazione. In particolare l'uso delle strade, specie con
mezzi di trasporto, può essere regolato sulla base di esigenze che, sebbene trascendano il
campo della sicurezza e della sanità, attengono al buon regime della cosa pubblica, alla sua
conservazione, alla disciplina che gli utenti debbono osservare ed alle eventuali prestazioni
che essi sono tenuti a compiere. La tipologia dei limiti (divieti, diversità temporali o di
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utilizzazioni, subordinazione a certe condizioni) viene articolata dalla pubblica autorità
tenendo conto dei vari elementi in gioco: diversità dei mezzi impiegati, impatto ambientale,
situazione topografica o dei servizi pubblici, conseguenze pregiudizievoli derivanti dall'uso
indiscriminato del mezzo privato. Si tratta pur sempre, però, di una disciplina funzionale alla
pluralità degli interessi pubblici meritevoli di tutela ed alle diverse esigenze, e sempre che
queste rispondano a criteri di ragionevolezza".
Peraltro, prosegue la Corte Costituzionale "il pagamento per la sosta del veicolo sfugge sia
alla nozione di tributo che a quella di prestazione patrimoniale imposta; esso è configurabile
piuttosto come corrispettivo, commisurato ai tempi e ai luoghi della sosta, di una
utilizzazione particolare della strada, rimessa ad una scelta dell'utente non priva di
alternative; sicché il corrispettivo risulta privo di uno dei fondamentali requisiti che questa
Corte ha ritenuto indispensabile affinché possa individuarsi una prestazione patrimoniale
imposta; e ciò esclude che debba essere assistito dalla garanzia prevista dall'art. 23
Costituzione".
La giurisprudenza di legittimità ha poi aggiunto che (Cass. 15 settembre 2009 n. 19841) il
suddetto costo è legittimo anche perché l’area pubblica, pur se concessa ad un'impresa, non
è sottratta all'uso generalizzato, che permane pur se la gestione persegue un reddito,
peraltro da investire nell'installazione, costruzione e gestione di parcheggi e per migliorare la
mobilità urbana (art. 7.7 dlgs del 1992 n. 285).
3.1 - È dunque evidente che nelle zone urbane ad alta densità in cui sussiste la finalità sociale
e pubblica di snellire il traffico la disciplina applicabile al contratto di autoparcheggio trova
fondamento nell'interesse primario del conducente di parcheggiare l’auto in zone in una certa
misura sorvegliate, e nell'interesse pubblico di incentivare la sosta dei veicoli a tariffe
contenute, fissando le relative condizioni in modo da prestare un servizio non
particolarmente oneroso né per il gestore, né per l’utente, salvaguardando l’equilibrio
economico delle parti e il reciproco principio di buona fede, nonché il potere normativo di
impresa se il servizio è concesso dal Comune ad un professionista (art. 33, primo comma,
decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206).
Ne consegue che la scelta tra i due tipi di parcheggio normativamente disciplinati nei
centri urbani dalla surrichiamata legislazione è rimessa all'utente: se il suo interesse
concreto prevalente è di concludere un contratto che gli assicura uno spazio per lo
stazionamento del veicolo in prossimità di luoghi di interscambio con sistemi di trasporto
collettivo a cui intende accedere velocemente e senza incorrere in divieti sanzionati dal
codice della strada (art. 158 dlgs del 1992 n. 285), pagando la somma corrispettiva della
prestazione del gestore - mettere a disposizione un'area – senza trasferire la detenzione
del veicolo al personale eventualmente preposto alla sorveglianza del parcheggio, e
purché l’avviso dell'esclusione della custodia sul veicolo sia apposto in modo da esser
adeguatamente percepibile prima della conclusione del contratto secondo le modalità
predisposte dal proponente (artt. 1326, primo comma, e 1327 cod. civ.), si configura il
contratto di parcheggio senza custodia, e senza che l’esclusione di questa attività debba
esser contenuta in una clausola da sottoscrivere ai sensi art. 1341, secondo comma,
cod.civ. poiché è oggetto di proposta negoziale, manifestata prima dell'accettazione di
essa, e perciò, se richiamata in una clausola negoziale, è efficace a norma della legge 6
febbraio 1996 n. 52 [e valida a norma dell'art. 33, secondo comma, lettera 1) dlgs dei
2005 n. 206], non potendosi presumere nessuna vessatorietà di essa poiché le
caratteristiche del servizio da fornire secondo le modalità indicate non sono determinate
successivamente alla conclusione del contratto stesso, né attengono ai suoi effetti o
garanzie legali, ovvero alla limitazione di adempimento di obblighi o esonero di
responsabilità (Cass. 7 febbraio 2003 n. 1833).
Qualora invece l’utente intenda assicurarsi non solo l’utilizzazione dell'area, ma anche la
conservazione e la restituzione del veicolo nello stesso i stato in cui lo ha consegnato anche senza le chiavi (Cass. 3 dicembre 1990 n. 11568), se il posteggiatore non è
incaricato del posizionamento di esso, e ancorché chiuso con inserimento di sistemi di
allarme e sicurezza, accorgimenti di solito necessari ai fini della validità della polizza
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assicurativa e idonei ad escludere la custodia degli oggetti all'interno dell'abitacolo – si
configura il contratto di parcheggio con custodia a cui è applicabile la disciplina sui
deposito, contratto a struttura reale (art. 1766 cod. civ.: "...il contratto con il quale una
parte riceve dall'altra una cosa mobile con l’obbligo di custodirla e di restituirla in natura"
- Cass. 14 gennaio 1977 n. 189, 16 novembre 1979 n. 5959, 25 febbraio 1981 n. 1144, 22
dicembre 1983 n. 7557, 2 marzo 1985 n. 1787, 12 dicembre 1989 n. 5546/1989, 23
agosto 1990 n. 8615) perché funzione prevalente dei contratto ed obbligazione
caratteristica del gestore del parcheggio è l’espletamento della custodia dell'auto, e
perciò egli deve adottare cure e cautele – come ad esempio apporre videocamere o
personale per la sorveglianza a distanza, installare sistemi dotati di allarme per l’uscita da
vie diverse da quelle indicate - e svolgere attività idonee all'adempimento di tale obbligo
e a tutelare l’utente dal rischio di furto del veicolo (art. 1177 cod.civ.), il cui costo questi
paga anche in proporzione al valore del veicolo, che incide sulla difficoltà della
prestazione, ed in cui il danaro è anche misura della diligenza nell'esecuzione di essa
(criterio analogico desumibile dall'art. 1768, secondo comma, cod. civ.). Ed infatti nel
caso di autorimessa, in cui l’obbligo di dare l’utilizzazione di area delimitata è accessorio alla
prevalente prestazione di espletare il servizio di custodia, questo è proporzionalmente
remunerato.
Pertanto operazione ermeneutica preliminare per individuare la disciplina applicabile è
accertare il tipo di contratto di parcheggio concluso - con o senza custodia - in base alla
volontà manifestata dalle parti che si integra e si coordina, funzionalmente, giuridicamente
ed economicamente con le prestazioni individuanti l’oggetto di esso: offerta di godimento di
un'area a pagamento - riservata per legge con provvedimento dell'autorità competente (artt.
4, secondo comma, lettera a) del d.P.R. del 1959 n. 393 e 3 del Regolamento approvato con
d.P.R. del 1959 n. 420) - per parcheggiare per prevalenti finalità di pubblico interesse - e cioè
decongestionare il traffico privato nelle grandi città e agevolare il collegamento pubblico da e
con località limitrofe - desumibili anche dall'ubicazione dell'area in prossimità di servizi di
trasporto pubblico (stazioni auto pubbliche o ferroviarie, metropolitane) - o offerta di area di
sosta per parcheggiare un'auto in uno spazio in cui, ancorché sussista un interesse collettivo
ad accedere ad un servizio limitrofo, pubblico o privato, il costo remuneri il gestore dal
rischio del trafugamento del veicolo, che egli assume.
Ne consegue che se invece le parti si sono accordate sulla qualificazione del contratto come
parcheggio senza custodia, significa che hanno escluso l’obbligo del gestore di controllare che
il veicolo venga prelevato soltanto da colui che lo ha parcheggiato, e perciò non può essergli
richiesta in fase esecutiva del rapporto una prestazione ulteriore a quella offerta ed
accettata dall'utente, rimasta estranea al procedimento di contrattazione, e su cui è stato
parametrato il corrispettivo da pagare, né, in presenza di tale espressa volontà negoziale, la
responsabilità ex recepto del gestore può trovare il suo fondamento nel criterio sussidiario
della buona fede dell'utente, ovvero esser originata dall'obbligo di protezione del medesimo
derivante dall'art. 1177 cod.civ. sul presupposto che comunque nel contratto di parcheggio è
ravvisabile una funzione prevalente di deposito derivante dal controllo altrui sul luogo in cui è
lasciato il veicolo, che perciò è esposto ad uno specifico rischio di danno, non essendo
ipotizzabile tale principio di ordine generale prevalente sul perseguimento di un interesse
pubblico sociale rilevante qual'è lo stazionamento di un veicolo in una zona di sosta a costo
sostenibile, senza custodia.
Né può ritenersi che i presupposti per tutelare l’affidamento incolpevole dell'utente sulla
custodia sono costituiti dalle modalità con cui è offerta al pubblico la prestazione, e cioè
l’apparente predisposizione del servizio - area recintata o chiusa, autosilo, sbarra meccanica
di entrata e uscita del parcheggio - perché se la custodia è univocamente esclusa, le strutture
ed i meccanismi predisposti costituiscono modalità organizzativa del gestore per lo
stazionamento dei veicoli, volte a delimitare l’area ad esso destinata per escluderla dalla
viabilità - come prescrive la normativa innanzi richiamata del codice della strada - e ad
impedire, mediante meccanismi automatizzati di controllo o personale a tal fine addetto, la
gratuita utilizzazione dell'area, garantendo invece al gestore la riscossione del corrispettivo
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della sosta - progressivo e differenziato secondo la durata, e perciò rapportato al tempo
dell'occupazione del suolo altrui - prima di consentire l’uscita del veicolo, conformemente
alle indicazioni solitamente scritte nello scontrino, automatizzato e non personalizzato poiché non è richiesto nessun riconoscimento personale per ritirare il veicolo – tipico mezzo
per lo scambio delle prestazioni negli affari di massa a conclusione rapida e semplice (mass
market transactions), senza possibilità di adottare particolari accorgimenti identificativi del
fruitore del servizio - e documento di prova del tempo dell'utilizzazione dello spazio messo a
disposizione.
4.- Nella fattispecie la Corte di merito di Milano ha accettato che il Comune di questa città,
con delibera del 6 agosto 1993, ha predisposto un'area di parcheggio sorvegliato senza
custodia, concessa in gestione all’A.T.M., nella zona di (omissis), in prossimità della stazione
della metropolitana milanese, e che il B. ha accettato questo servizio posteggiando l’auto in
detta area. Perciò ha ritenuto concluso tra dette parti un contratto di parcheggio incustodito,
e, poiché fondato nelle innanzi richiamate norme dei codice della strada volte al
perseguimento del pubblico interesse allo snellimento del traffico e all'incentivazione all'uso
del mezzo pubblico, e nell'interesse concreto del B., prevalente su quello alla custodia del
veicolo, a reperire velocemente uno spazio di stazionamento in prossimità di mezzi di
trasporto pubblico, a costi proporzionati al servizio reso, l’ha ritenuto valido ed efficace.
Accertato poi che il gestore ha adempiuto agli obblighi assunti, ha ritenuto il rapporto
giuridico che ne è derivato rispettoso del sinallagma tra le rispettive prestazioni (corrispettivo
per la locazione o comodato del c.d. posto auto e responsabilità limitata alla struttura
dell'area). Di conseguenza la Corte ambrosiana ha legittimamente confermato l’esclusione
della responsabilità dell'A.T.M. per il danno derivato dal furto dell'auto parcheggiata dai B.
nell'area di (OMISSIS)
e il rigetto della domanda risarcitoria che l’assicurazione ha proposto
nei confronti dell'azienda di trasporto surrogandosi al danneggiato.
La decisione è conforme a diritto ed immune da vizi logici dovendosi osservare inoltre che la
mancanza di sperequazione tra le prestazioni ed il contenimento delle tariffe permette la
fruizione diffusa del servizio di parcheggio che il Comune offre anche senza custodia per
perseguire i suddetti interessi pubblici, poiché se invece il costo del parcheggio dovesse
remunerare una custodia idonea ad assicurare la persistente vigilanza del veicolo da parte del
gestore fino al ritiro di esso da parte dell'utente, il servizio diverrebbe limitato soltanto a
coloro che pagano una tariffa proporzionata agli strumenti e meccanismi di ordine tecnico,
ambientale e strutturale adottati.
Pertanto il ricorso va respinto ed il contrasto di giurisprudenza è composto con l’affermazione
del seguente principio di diritto: "L'istituzione da parte dei Comuni, previa deliberazione
della Giunta, di aree di sosta a pagamento ai sensi dell'art. 7, primo comma, lettera f), d.
lgs. 30 aprile 1992 n. 285 (codice della strada), non comporta l'assunzione dell'obbligo del
gestore di custodire i veicoli su di esse parcheggiati se l’avviso "parcheggio incustodito" è
esposto in modo adeguatamente percepibile prima della conclusione del contratto (artt.
1326, primo comma, e 1327 cod. civ.) perché l’esclusione della custodia attiene
all'oggetto dell'offerta al pubblico (art. 1336 cod. civ.), e l’univoca qualificazione
contrattuale del servizio, reso per finalità di pubblico interesse, normativamente
disciplinate, non consente il ricorso al sussidiario criterio della buona fede, ovvero al
principio della tutela dell'affidamento incolpevole sulle modalità di offerta del servizio
(quali ad esempio l'adozione di recinzioni, di speciali modalità di accesso ed uscita,
dispositivi o personale di controllo), per costituire l’obbligo della custodia, potendo
queste costituire organizzazione della sosta”.
Ne consegue che il gestore concessionario dei Comune di un parcheggio senza custodia non è
responsabile del furto del veicolo in sosta nell'area all'uopo predisposta".
Si compensano le spese del giudizio di cassazione per le oscillazioni anche recenti della
giurisprudenza di legittimità e le frastagliate pronunce di merito sulla questione.
P.Q.M.
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La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.
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PARTE II - LE QUESTIONI PROCESSUALI
15)
AZIONE REDIBITORIA O ESTIMATORIA? QUESTO È
IL PROBLEMA
Cassazione, Sez. II, 26 agosto 2015, n. 17138
MASSIMA
in tema di garanzia per vizi della cosa venduta, e per il caso in cui l'azione di riduzione del
prezzo sia accordata al compratore non in via esclusiva (art. 1492 terzo comma cod. civ.), ma
in via concorrente con funzione di risoluzione (art. 1492 citato, primo comma), deve negarsi
l’ammissibilità della domanda di riduzione in modo subordinato, rispetto alla proposizione a
titolo principale dell'adone di risoluzione, atteso che entrambe le azioni si ricollegano ai
medesimi presupposti, cioè la sussistenza di vizi con le caratteristiche fissate dall’art. 1490
cod. civ. (il quale detta una disciplina della materia completa e non integrabile con le regole
dell’art. 1455 cod. civ. sull’importanza dell'inadempimento), restando radicalmente esclusa
la configurabilità di un rapporto di subordinazione fra le rispettive domande, sicché il
compratore deve scegliere fra l'una o l'altra”.
Cassazione, Sez. I, 26 agosto 2015, n. 17138
(Pres. Bursese – Rel. Parziale)
Svolgimento del processo
1. La Royal Fish srl fornisce nel 1996 alla ditta dell'odierno ricorrente “un consistente
quantitativo di prodotti” congelati, di cui alle fatture n. (…) del marzo e 853 dell'aprile del
1996. Nell'agosto dello stesso anno vengono individuati gravi vizi per una parte della
fornitura, relativamente a 60 scatoloni di calamari non vendibili. Tale circostanza viene
immediatamente rilevata con riguardo a 1641 chili di prodotto con richiesta di restituzione
del prezzo di acquisto e con l'espletamento di un accertamento tecnico preventivo.
2. Il giudizio viene iniziato l'anno successivo, nel luglio del 1997, da parte del G. che chiede,
come risulta dalla sentenza impugnata, “di dichiarare la risoluzione parziale del contratto di
compravendita relativamente a n. 60 colli di calamari viziati e, conseguentemente, di
ordinare la restituzione della somma complessiva di L. 8.861.400; in subordine di determinare
la riduzione del prezzo nello stesso importo ed in ogni caso di condannare la convenuta al
risarcimento dei danni, quantificati nell'importo di L. 30.000.000 ovvero in quello diverso
accertato in giudico, da liquidarsi eventualmente in via equitativa”.
3. Il Tribunale di Ancona dichiarava inammissibile la domanda, posto che “l'anione redibitoria
e quella estimatoria non possono essere proposte congiuntamente, essendo tra loro
incompatibili” (sentenza impugnata, pag. 5).
4. L'appello proposto dal G. viene respinto.
4.1 - Ritiene la Corte locale, correggendo sul punto la motivazione del primo giudice, che la
domanda subordinata di riduzione del prezzo era da intendersi inammissibile, essendo stata
proposta la domanda principale di risoluzione del contratto.
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Al riguardo, la Corte locale richiama i principi affermati da Cass. Sezioni Unite 1988 n. 2565.
Aggiunge la Corte locale che la rinuncia effettuata, in sede di conclusioni, alla domanda di
risoluzione, stante l'irrevocabilità della scelta operata, “non consente di far rivivere
processualmente la domanda di riduzione del prezzo”.
Rileva ancora la Corte locale che i principi affermati restano applicabili anche nel caso di
“risoluzione parziale del contratto... in presenza di una domanda concretamente diretta ad
ottenere la restituzione dell'intero pretto della parte di fornitura vietata”. Aggiunge che la
domanda di risoluzione, tacitamente rinunciata in primo grado, “non può essere riproposta in
appello”.
4.2 - La Corte territoriale, infine, rigetta anche la domanda di risarcimento del danno, sia
perché da ritenersi strettamente connessa con quella di riduzione del prezzo e a questa
"cumulata", sia perché, comunque, priva di qualsiasi prova.
Al riguardo, la motivazione della Corte è la seguente: “la domanda di risarcimento del
danno all'immagine non potrebbe comunque trovare accoglimento, essendo del tutto
generica la sua allegazione; del pari il danno derivante dal mancato guadagno
conseguente alla impossibilità di rivendere la mercé è stato chiesto dall'attore senza
indicare concreti elementi che consentano di quantificarlo ed al mancato assolvimento
di tale onere non può supplirsi con una valutazione equitativa; infine il danno
commisurato al prezzo delle merce affetta da vizi non potrebbe trovare riconoscimento,
non potendo lo stesso essere fatto consistere nella utilità tipicamente conseguibile con
l'adone di risoluzione del contratto o di riduzione del previo”.
5. Impugna tale decisione il G. , che articola sei motivi. Resiste con controricorso la parte
intimata.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato e va rigettato per quanto di seguito si chiarisce con riguardo a ciascun
motivo.
1. Col primo motivo di ricorso si deduce: “Omessa, insufficiente e comunque contraddittoria
motivazione su un fatto controverso e decisivo del giudizio: il punto 1) dell'atto d'appello — la
qualificazione giuridica del contratto”.
Secondo il ricorrente, la Corte d'appello ha errato a ritenere assorbita la questione della
qualificazione del contratto, posto che alla vendita con consegne ripartite (art. 1518, secondo
comma, codice civile) resta applicabile la risoluzione parziale con conseguente possibilità di
ulteriore applicazione dell'articolo 1455 codice civile, quanto alla valutazione della non scarsa
importanza dell'inadempimento. Osserva che, nel caso in questione, si trattava di 140 colli di
cui solo 60 viziati e tra questi 41 assolutamente non commerciabili.
1.1 - Il motivo è inammissibile e, comunque, infondato. È inammissibile perché la censura è
formulata con riguardo al vizio di motivazione ed è carente del necessario momento di
sintesi, di cui all'art. 366-bis cod. proc. civ., ratione temporis applicabile, (che svolge
l'omologa funzione del quesito di diritto per i motivi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 4 dell'art. 360 cod.
proc. civ.). Tale momento di sintesi ha la funzione di circoscrivere puntualmente i limiti della
censura, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di
valutazione della sua ammissibilità (v. S.U. sent. n. 20603/2007 e, successivamente, le
ordinanze della sez. 3 n. 4646/2008 e n. 16558/2008, nonché le sentenze delle S.U. nn.
25117/2008 e n. 26014/2008). In ogni caso è infondato, perché al riguardo la corte d'appello
ha correttamente rilevato l'ininfluenza della questione relativa alla qualificazione giuridica
del contratto, avanzata dall'appellante, avendo applicato al contratto in questione i principi
in materia di risoluzione parziale, così come del resto chiesto dallo stesso acquirente. La
Corte di appello ha, infatti, ritenuto che fosse stata avanzata una domanda di risoluzione
parziale del contratto di vendita, ritenuta ammissibile. Né si comprende il rilievo che avrebbe
la diversa qualificazione ai fini del giudizio, posto che la domanda di risoluzione è stata poi
rinunciata in sede di conclusioni.
2 - Col secondo motivo di ricorso si deduce: “Violazione e falsa applicazione dell'art. 1492
c.c., anche in relazione agli arti. 1455 c.c. e 1490 c.c.”.
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Ritiene il ricorrente che, nonostante l'arresto delle Sezioni unite del 1988, la più recente ed
autorevole dottrina e parte della giurisprudenza (Cass. 2000 n. 9098) ritiene ammissibile la
proponibilità di entrambe le azioni in citazione in assenza di "esplicite disposizioni di legge".
L'articolo 1492 codice civile non vieta la simultanea proposizione di entrambe le domande,
limitandosi a prevedere che "la scelta è irrevocabile quando è fatta con la domanda
giudiziale". Quindi, la norma non impone una scelta, pone solamente l'irretrattabilità della
medesima, se e quando viene effettuata. Secondo il ricorrente dovrebbe essere consentita la
cumulabilità dei due rimedi anche in ragione della necessità da parte di colui che è favorito
dalla norma di adeguare le sue scelte in relazione alla durata del processo. Nel caso in
questione il giudizio di primo grado era durato ben sei anni. Secondo il ricorrente non appare
giustificabile una differente disciplina tra la scelta libera che è consentita al compratore
prima di iniziare il giudizio e la scelta vincolata che sarebbe imposta al momento della
proposizione della domanda. Ciò anche alla luce della conservazione da parte del venditore
dell'intera tutela riconosciutagli dal terzo comma dell'articolo 1492 codice civile. In
definitiva, un'interpretazione sistematica dell'articolo 1492 codice civile, in relazione
all'articolo 1455 codice civile, non può che portare alle conclusioni affermate e cioè quelle
della cumulabilità delle due azioni con possibilità di scelta effettuata in sede di conclusioni.
Vengono formulati i seguenti quesiti “a) Valutare se in materia di compravendita l’art. 1492,
II comma c.c. che, in caso di presenta di vizi che rendono la cosa inidonea all'uso e che ne
diminuiscano il valore in modo apprezzabile, stabilisce l'irrevocabilità della scelta tra le
anioni edilizie di ad al primo comma, ossia l'azione di risoluzione e l’azione di riduzione del
pretto, pone altresì l'obbligo per fattore di scegliere tra le due anioni, pena la rinuncia
implicita all'anione esperita in via subordinata, con la conseguente impossibilità di spiegare in
via cumulativa, eventualmente subordinata, le due domande, anche in considerazione del
persistente contrasto giurisprudenziale esistente;
b) Valutare se alla speciale disciplina della compravendita si applichi la generale disciplina in
materia di risoluzione del contratto, ivi compreso l'art. 1455 c.c. relativo all'importanza
dell'inadempimento, anche in considerazione del persistente contrasto giurisprudenziale
esistente;
c) Valutare se nell'ambito della fattispecie prevista dal l’art. 1518, II comma c.c. sia possibile
la risoluzione parziale e la compatibilità di tale domanda con una subordinata di riduzione del
prezzo e se la rinuncia alla prima faccia venir meno anche l'interesse della parte alla seconda
senza entrare nel merito della questione”.
2.1 - Il motivo è infondato. Tenuto conto anche delle perplessità espresse in sede di
conclusioni dal procuratore generale di udienza, questo Collegio ritiene di aderire
convintamente al consolidato orientamento di legittimità che afferma che “in tema di
garanzia per vizi della cosa venduta, e per il caso in cui l'azione di riduzione del prezzo
sia accordata al compratore non in via esclusiva (art. 1492 terzo comma cod. civ.), ma in
via concorrente con fazione di risoluzione (art. 1492 citato, primo comma), deve negarsi
l’ammissibilità della domanda di riduzione in modo subordinato, rispetto alla proposizione
a titolo principale dell'adone di risoluzione, atteso che entrambe le azioni si ricollegano ai
medesimi presupposti, cioè la sussistenza di vizi con le caratteristiche fissate dall’art.
1490 cod. civ. (il quale detta una disciplina della materia completa e non integrabile con
le regole dell’art. 1455 cod. civ. sull’importanza dell'inadempimento), restando
radicalmente esclusa la configurabilità di un rapporto di subordinazione fra le rispettive
domande, sicché il compratore deve scegliere fra l'una o l'altra”.
Si tratta di un orientamento che risale al primo arresto delle Sezioni unite del 1988 (la n.
2565), citato anche dalla sentenza impugnata e contrastato dalle argomentazioni dell'odierno
ricorrente, orientamento che ha trovato successive conferme, tra le altre, in Cass. 1996 n.
3299, Cass. 1996 n. 3398, Cass. 2004 n. 22415.
Gli argomenti di diverso segno, complessivamente prospettati dal ricorrente, non appaiono
convincenti, perché non attengono alla ratio decidendi su cui si fonda il richiamato
orientamento, sostanzialmente, prospettandosi una soluzione in fatto, legata alla possibile
durata del giudizio, che possa stimolare l'acquirente ad operare una scelta diversa da quella
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compiuta al momento della proposizione della domanda. Ritiene il collegio che tale
argomentazione non possa essere condivisa, proprio perché non attiene alla sistematica
ricostruzione del contenuto e della attivazione dei rimedi posti a disposizione dell'acquirente
in materia di vizi della cosa venduta. Ricostruzione che, come operata dalle SU richiamate,
ancora oggi appare coerente e giuridicamente fondata sull'incompatibilità logico-giuridica dei
due rimedi e sulla necessaria prevalenza da attribuirsi alla scelta per la risoluzione (ove
prospettata per prima), che si pone in netta ed inconciliabile antitesi con quella relativa alla
riduzione del prezzo. La prima, infatti, comporta il venir meno del contratto, mentre la
seconda necessariamente lo presuppone. Né vanno trascurate le diverse conseguenze
collegate alle due ipotesi alla luce dell'esigenza, pure processualmente garantita, di una
chiara definizione dei limiti e delle conseguenze del giudizio intrapreso con riguardo a tutte
le parti.
3 - Col terzo motivo di ricorso si deduce: “Omessa, insufficiente e comunque contraddittoria
motivazione su un fatto controverso e decisivo del giudizio: il punto 2) - La presunta
infondatezza dell'azione di riduzione del presso per rinuncia all'azione di risoluzione”.
Osserva il ricorrente che la decisione assunta sul punto dalla Corte d'appello si presenta
altresì come contraddittoria in quanto, “non entrando nel merito della vicenda del caso
concreto, presume in maniera assoluta l'infondatezza della domanda; tuttavia dagli atti è
emerso che sussistevano tutti gli estremi per agire ex articolo 1492 codice civile, ovvero, la
presenta di vizi di cui ali articolo 1490 codice civile (confronta perizia eseguita in sede di
accertamento tecnico preventivo), tempestività della denuncia, assenza dei presupposti di cui
all'articolo 1491 codice civile”. La Corte ha quindi errato nel “desumere l'infondatezza nel
merito di una domanda dalla rinuncia a un'altra domanda”.
3.1 - Oltre che inammissibile per carenza del momento di sintesi, il motivo è infondato, posto
che la Corte locale ha esaminato nell'ordine logico le domande proposte e si è limitata a
prendere atto della rinuncia alla domanda di risoluzione il contratto avanzata in sede di
conclusioni, rilevando che l'altra domanda avanzata in tale sede (di riduzione del prezzo) era
inammissibile fin dal primo grado in conseguenza di quanto detto con riguardo al secondo
motivo.
4 - Col quarto morivo di ricorso si deduce: “Omessa, insufficiente e comunque contraddittoria
motivazione su un fatto controverso e decisivo del giudizio: l'eccezione della convenuta circa
il difetto del patrocinatore a rinunciare ad un'azione. - Violazione e falsa applicazione
dell'art. 84, II comma c.p.c.”.
Osserva il ricorrente che l'altra parte aveva sollevato l'eccezione in ordine alla rinunciabilità
dell'azione di risoluzione da parte del difensore privo di poteri sul punto. Lamenta che la
Corte territoriale non si sia pronunciata sulla questione.
Viene formulato il seguente quesito: “valutare se, ove venga riscontrata la carenza di
conferimento di apposito potere a dispone del diritto in contesa relativamente alla rinuncia
ad un'azione effettuata in sede di precisazione delle concisioni, detta rinuncia deve
considerarsi inesistente e/o nulla ai sensi dell'art. 84, II c.p.c. e se quindi l'adone rinunciata
deve considerarsi permanente nel processo e quindi meritevole di pronuncia”.
4.1 - Il motivo è inammissibile. La parte si duole della mancata valutazione da parte del
giudice di una eccezione sollevata dalla controparte. Sul punto è carente di interesse.
5 - Col quinto motivo di ricorso si deduce: “Violazione e falsa applicazione dell'art. 1494 c.c.,
anche in relazione all'art. 1492 c.c.”.
Viene formulato il seguente quesito: “valutare se, in caso di proposizione cumulativa delle
anioni edilizie e dell'anione di risarcimento del danno, le anioni (quelle edilizie da un lato e
quella risarcitoria dall'altro) debbano considerarsi inscindibilmente connesse di modo che il
rigetto delle anioni edilizie comporta automaticamente il rigetto dell'anione risarcitoria senza
entrare nel merito di questa oppure se l'autonomia dell'anione risarcitoria consente che il
giudice pronunci nel merito dell'anione di cui all'articolo 1494”.
6 - Col sesto motivo di ricorso si deduce: “Omessa, insufficiente comunque contraddittoria
motivazione su un fatto controverso e decisivo del giudizio: punto 3) dell'atto d'appello - il
rigetto della domanda di risarcimento del danno”. Rileva il ricorrente che sul punto vi è
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anche una motivazione insufficiente e contraddittoria, avendo il giudice fatto riferimento
soltanto all'espressione lessicale "in ogni caso" per concludere che vi era una stretta
connessione fra la domanda di riduzione del prezzo e il risarcimento del danno richiesto.
Osserva inoltre il ricorrente che il giudicante d'appello ha anche errato nel rigettare la
domanda di risarcimento, ritenendola sfornita di dimostrazione. Al riguardo, richiama la
relazione peritale, relativa all'accertamento tecnico preventivo, depositata in atti, dalla
quale risultavano i vizi riscontrati in almeno 41 cartoni della complessiva fornitura, del tutto
inutilizzabili commercialmente per errato procedimento di congelamento, avvenuto nella fase
anteriore al confezionamento, vizi questi non riconoscibili.
7. Il quinto e sesto motivo, che possono essere trattati congiuntamente perché sono relativi
alla domanda di risarcimento del danno, sono inammissibili e comunque infondati. Al
riguardo, appare opportuno richiamare la motivazione della Corte locale sul punto, del
seguente tenore: “la domanda di risarcimento del danno all'immagine non potrebbe
comunque trovare accoglimento, essendo del tutto generica la sua allegazione; del pari il
danno derivante dal mancato guadagno conseguente alla impossibilità di rivendere la merce è
stato chiesto dall'attore senza indicare concreti elementi che consentano di quantificarlo ed
al mancato assolvimento di tale onere non può supplirsi con una valutazione equitativa; infine
il danno commisurato al prezzo delle mercé affetta da vizi non potrebbe trovare
riconoscimento, non potendo lo stesso essere fatto consistere nella utilità tipicamente
conseguibile con l'anione di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo”.
Si tratta di una motivazione esaustiva, che ha affrontato tutti gli aspetti collegati a tale
domanda, per ciascuno dei quali viene fornita una adeguata e convincente risposta. Non
sussiste, quindi, il vizio motivazionale dedotto al sesto motivo, mentre il vizio denunciato col
quinto, oltre che inammissibile per carenza di autosufficienza, non si fa carico delle diverse
rationes decidendi, che sostengono autonomamente la decisione.
8. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alle spese di giudizio liquidate in
2.800,00 Euro per onorari e 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
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LA DEDUZIONE DELL’INEFFICACIA DEL
CONTRATTO CONCLUSO DAL FALSUS
PROCURATOR COSTITUISCE ECCEZIONE IN SENSO
STRETTO O IN SENSO LATO?
16)
Ribaltando un orientamento uniforme e consolidato nel tempo, le Sezioni Unite della Corte
di Cassazione, con sentenza 3 giugno 2015 n. 11377, Rel Giusti, hanno statuito che in caso di
contratto concluso da falsus procurator, la deducibilità nel giudizio costituisce una mera
difesa, poiché la sussistenza del potere rappresentativo in capo a colui che ha speso il nome
altrui integra un elemento costitutivo della pretesa fatta valere dal terzo contraente, sicché
non è soggetta alle preclusioni di cui agli artt. 167 e 345 cod. proc. civ., può essere dedotta
dalla parte interessata e, ove il difetto risulti dagli atti, può essere rilevata d’ufficio dal
giudice.
Cassazione, Sezioni Unite, 3 giugno 2015, n. 11377
(Pres. Rovelli – rel. Giusti)
RITENUTO IN FATTO
1. I rappresentanti di Arnaldo F. (cioè i suoi due figli, Claudia e Christian F., muniti di procura
del padre) e Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a. hanno concluso, con due distinti contratti del 21
dicembre 2002, una compravendita immobiliare. Non tutto il prezzo dovuto dall'acquirente
società ad Arnaldo F. è stato versato: una quota è andata a compensare posizioni debitorie
direttamente riferibili al venditore; altra parte del prezzo (euro 1.075.019,74) è stata
trattenuta da Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a., in accordo con i rappresentanti del venditore, a
compensazione di crediti che la società vantava nei confronti di società di capitali terze
riferibili allo stesso Arnaldo F.
Quest'ultimo ha contestato, anche a mezzo del proprio legale, la legittimità della
compensazione, ha chiesto la restituzione degli importi indebitamente trattenuti da Hypo e
ha denunciato l'invalidità della intervenuta transazione, così qualificando il patto collaterale
alla vendita immobiliare.
Ritenendosi tuttora creditore per quella quota parte di prezzo non versata ed impiegata per
l'estinzione di debiti ad esso non riferibili, Arnaldo F. ha quindi ceduto la propria (ritenuta
intatta) posizione creditoria a Janka R. con contratto dell'11 maggio 2007.
2. Con citazione in data 25 settembre 2007, Janka R. - in qualità di cessionaria dei crediti di
Arnaldo F., in virtù del citato contratto dell'11 maggio 2007, notificato alla debitrice
contestualmente alla citazione - ha evocato in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bolzano, Hypo
Vorarlberg Leasing s.p.a. (d'ora in poi anche Hypo), chiedendone la condanna al pagamento
del corrispettivo residuo delle compravendite immobiliari del 21 dicembre 2002, non versato
in quanto indebitamente compensato per euro 1.075.019,74 con debiti di società terze e per
euro 38.964,31 per l'IVA dovuta relativamente ad un debito dello stesso Arnaldo F.
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La convenuta, costituitasi in data 12 febbraio 2008, ha dedotto l'insussistenza dei crediti
azionati, allegandone l'estinzione in virtù di un patto di compensazione stipulato con Claudia
e Christian F., in qualità di rappresentanti di Arnaldo F.
3. Con sentenza in data 20 dicembre 2010, il Tribunale di Bolzano, premessa l'inefficacia
dell'accordo compensativo collaterale alla compravendita immobiliare, in quanto stipulato dai
rappresentanti di Arnaldo F. eccedendo i limiti della procura, ha accolto la domanda
relativamente alla somma di euro 1.075.019,74.
Quanto al debito IVA di euro 38.964,31, il Tribunale ha rilevato che esso era proprio di
Arnaldo F. e non delle sue società: il meccanismo di estinzione per compensazione, in tal
caso, poteva, perciò, operare a prescindere dal patto collaterale alla vendita stipulato dai
suoi rappresentanti. Il debitore, inoltre, era tenuto all'adempimento in forza di una sentenza
di condanna: egli, dunque, non poteva sottrarsi al pagamento in favore della parte creditrice.
In ordine all'importo principale (1.075.019,74) della domanda di condanna, la sentenza è così
motivata:
- Hypo ha sempre ammesso di avere effettivamente utilizzato parte del corrispettivo di
vendita per risanare posizioni in sofferenza non solo di Arnaldo F., venditore e controparte
contrattuale nel negozio di vendita immobiliare, ma anche per estinguere debiti di F. Trans
s.r.l., Alpe Spedition s.r.l. e Nord Truck s.r.l., tutte società di autotrasporti di cui Arnaldo F.
era a capo;
- detta ammissione, contenuta nella comparsa di costituzione di Hypo, provenendo dal
soggetto obbligato al pagamento, è sufficiente per privare di valore la quietanza di avvenuto
pagamento, contenuta nei due contratti di compravendita;
- la quietanza si regge sul presupposto di una compensazione ritenuta correttamente operata
tra posizioni debitorie e creditorie facenti capo alle parti dell'accordo negoziale di
compravendita, ma "stanti le stesse dichiarazioni di parte Hypo detta compensazione deve
ritenersi corrispondere a realtà solo in parte", giacché "l'obbligazione estinta per
compensazione deve esistere in capo al soggetto 'compensante'";
- nel caso in esame, non è contestato che il denaro dovuto ad Arnaldo F. per la vendita di suoi
immobili sia stato dall'acquirente Hypo utilizzato non solo per l'estinzione di debiti del F., ma
anche per estinguere debiti delle società a r.l. F. Trans, Alpe Spedition e Nord Truck, soggetti
giuridici diversi con autonomia patrimoniale propria distinta da quella del F.;
- del pari non è contestato che il F. non era obbligato in proprio, quale persona fisica, ad
estinguere debiti societari, non risultando che lui avesse prestato fideiussione o garanzia
alcuna in favore delle società partecipate, né che si fosse accollato i debiti delle dette
società;
- l'operazione compiuta dai procuratori speciali di Arnaldo F. può essere inquadrata non solo
"nel negozio traslativo degli immobili già di proprietà di Arnaldo F. a Hypo, con incasso di una
parte del prezzo a mezzo della compensazione con posizioni debitorie di Arnaldo F. nei
confronti dell'acquirente", ma anche "in un secondo accordo negoziale di rinuncia, da parte
del venditore Arnaldo F., all'incasso della parte residua del prezzo, rinuncia questa attuata in
favore dei terzi F. Trans, Alpe Spedition e Nord Truck, a loro volta debitori di Hypo";
- "[s]ostiene la convenuta Hypo che i procuratori speciali di Arnaldo F. fossero muniti dei
necessari poteri per attuare l'accordo negoziale di cui sopra e del quale vuole avvalersi. In
atti, tuttavia, le procure notarili richiamate negli atti di vendita [...] non sono allegat[e],
sicché al Tribunale è preclusa la verifica dei poteri conferiti dal titolare del diritto ai
procuratori speciali. Pacifico è che questi fossero muniti del potere di compiere sia l'atto
traslativo che le attività di esecuzione dello stesso, incluso l'incasso del prezzo pattuito a
nome del rappresentato. Che però fossero da quest[o] autorizzati a compiere anche l'ulteriore
negozio abdicativo, con rinuncia all'incasso di parte del prezzo in favore di soggetti terzi, non
risulta dai contratti di vendita, né da altro atto scritto";
- "il difetto di rappresentanza o anche l'eccesso di rappresentanza determinano entrambi la
non operatività, nel patrimonio del rappresentato, dell'atto compiuto dal falsus procurator";
- nel caso in esame, in cui parte attrice nega che siano mai stati conferiti ai procuratori
speciali "poteri ulteriori rispetto a quelli necessari per concludere il negozio traslativo", "[l]a
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prova dell'esistenza del potere a validamente compiere l'atto abdicativo, in favore dei
soggetti terzi summenzionati, spetta a chi vuole avvalersi del negozio, quindi a Hypo. Tale
onere di prova non è stato ad oggi assolto dalla odierna convenuta; non risulta quindi che i
poteri rappresentativi conferiti da Arnaldo F. ai propri procuratori coprissero alcun
pagamento di debito altrui e quindi la possibilità, per Hypo, di procedere alla 'compensazione'
come in effetti attuata".
4. La sentenza di primo grado è stata impugnata in data 25 gennaio 2011 da Hypo Vorarlberg
Leasing s.p.a., che ha denunciato, tra l'altro, la violazione dell'art. 112 c.p.c., avendo il
Tribunale sollevato d'ufficio l'eccezione d'inefficacia dell'accordo compensativo in
conseguenza del superamento dei limiti del potere di rappresentanza, mentre l'attrice non
aveva mai dedotto che i rappresentanti di Arnaldo F. avevano concluso questo accordo
eccedendo i limiti del potere di rappresenta loro conferito dal rappresentato, ma si era
limitata a sostenerne l'inefficacia sul rilievo che Arnaldo F. non doveva rispondere
personalmente dei debiti delle sue società, e l'invalidità perché il patto aveva natura
transattiva e non era rivestito di forma scritta.
Nel giudizio di appello Janka R., costituitasi in data 13 aprile 2011, ha contestato la
fondatezza dell'impugnazione e ha proposto appello incidentale relativamente al rigetto della
domanda di pagamento di euro 38.964,31.
5. Con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 26 gennaio 2013, la Corte
d'appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, in accoglimento dell'appello principale ed
in riforma dell'impugnata pronuncia, ha rigettato la domanda nonché l'appello incidentale e
condannato l'attrice alla rifusione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.
5.1. La Corte territoriale ha respinto innanzitutto il primo motivo di impugnazione della Hypo
relativo alla legittimazione processuale della cessionaria, rilevando che, trattandosi "di far
valere il diritto di credito di cui ha acquistato la titolarità", la R. agisce "non quale sostituta
processuale di Arnaldo F. al di fuori delle ipotesi normativamente previste", ma "proprio per
far valere un diritto che le appartiene in via esclusiva".
Quanto alle altre censure dell'appellante principale, la Corte d'appello ha osservato che "la
correttezza dell'osservazione circa il difetto di potere in capo ai rappresentanti di Arnaldo F.
appare confermata anche alla luce della procura che Hypo ha prodotto nel presente grado
d'appello": "come si ricava dal dimesso documento del fascicolo di secondo grado
dell'appellante, Arnaldo F. ha abilitato i suoi rappresentanti al compimento di atti di gestione
del proprio patrimonio", "non invece a porre in essere atti a titolo gratuito che ne
provocassero il depauperamento".
Tanto premesso, la Corte territoriale ha sottolineato che l'eccezione d'inefficacia del
contratto stipulato dal falsus procurator è riservata all'iniziativa di parte e non avrebbe
potuto conseguentemente essere rilevata d'ufficio dal primo giudice.
Ha precisato in particolare la Sezione distaccata di Bolzano della Corte d'appello: "I
rappresentanti di Arnaldo F., evidentemente previo accollo in capo al rappresentato dei
debiti delle sue società, hanno accettato di portarli in detrazione al credito per il prezzo
della vendita immobiliare. Poiché, dunque, l'effetto estintivo è stato ottenuto mediante
un'attività negoziale posta in essere da falsi procuratores, essa è da ritenersi inefficace sino a
quando il dominusdecida definitivamente di ratificarla. Tale inefficacia è, tuttavia,
deducibile solo con eccezione di parte. La quale, però, nel caso di specie non è stata
sollevata dalla cessionaria del credito Janka R. Essa, infatti, si è limitata a dedurre che dei
debiti societari Arnaldo F. non doveva rispondere personalmente. Ha poi soggiunto che
l'accordo concluso dai suoi rappresentanti aveva natura transattiva ed era invalido perché
privo di forma scritta".
Infine, la Sezione distaccata di Bolzano ha rigettato l'appello incidentale della R.
relativamente al mancato saldo del prezzo di acquisto degli immobili per l'ulteriore importo
di euro 38.964,31, pari al credito per rimborso IVA che la compratrice assumeva di vantare
nei confronti del venditore in proprio e non nei confronti delle sue società.
6. Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello Janka R. ha proposto ricorso, con
atto notificato il 13 giugno 2013, deducendo la violazione dell'art. 112 c.p.c.: in via principale
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per la qualifica di eccezione in senso stretto anziché in senso lato e per il conseguente
omesso rilievo d'ufficio dell'inefficacia del patto di compensazione, con accollo di debiti
altrui, stipulato dai falsi rappresentanti; ed in via subordinata per l'omessa pronuncia,
neppure in punto di tardività, su detta eccezione, svolta dalla deducente nella comparsa di
costituzione in appello. In particolare, ad avviso della ricorrente, l'eccezione de qua, non
essendo riservata dalla legge alla parte e non corrispondendo all'esercizio di un diritto
potestativo, implicito solo nell'esercizio del potere di ratifica e, quindi, non nella negazione
ma nell'attribuzione di efficacia al contratto, dovrebbe includersi nel novero delle eccezioni
in senso lato, alla luce della giurisprudenza di legittimità più recente.
Tale conclusione - si sostiene - non contrasterebbe con il riconoscimento della legittimazione
a far valere la temporanea inefficacia del contratto concluso solo in capo allo pseudo
rappresentato (e non al terzo contraente), essendo detta legittimazione fondata, non già
sulla natura di eccezione in senso stretto, ma sul fatto che tutte le volte che il falsamente
rappresentato agisca dando vigore al contratto tale suo agire nel processo configura ratifica
(pur se tacita).
La società Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a. ha resistito con controricorso, insistendo sulla
configurazione dell'inefficacia del contratto per mancanza di poteri rappresentativi come
eccezione in senso stretto, in considerazione del suo collegamento con il potere di ratifica
attribuito al falsus procurator, di cui sarebbe precluso l'esercizio con il rilievo d'ufficio del
giudice, ed in ogni caso negando, da un lato, l'asserita violazione dei limiti della procura da
parte dei rappresentanti di Arnaldo F. e, dall'altro, la legittimazione della cessionaria del
credito a formulare l'eccezione in esame.
Fissata l'udienza dinanzi alla Seconda Sezione civile, la ricorrente ha replicato alle deduzioni
della controricorrente con la memoria ex art. 378 c.p.c. depositata il 3 giugno 2014.
7. La Seconda Sezione civile, con ordinanza interlocutoria 27 giugno 2014, n. 14688, ha
rimesso gli atti al primo presidente della Corte di Cassazione, ai sensi del secondo comma
dell'art. 374 c.p.c., sulla questione di massima di particolare importanza se l'inefficacia del
contratto stipulato dal falsus procurator sia rilevabile d'ufficio o solo su eccezione di parte.
L'ordinanza di rimessione ritiene il consolidato orientamento della giurisprudenza di
legittimità - secondo cui l'inefficacia (temporanea) del contratto concluso dalfalsus
procurator non è rilevabile d'ufficio, ma solo su eccezione del falso rappresentato, e
conseguentemente non è proponibile per la prima volta in appello - non adeguatamente
giustificato, alla luce dell'inesistenza del vincolo giuridico (inesistenza confermata dalla
possibilità di ratifica e di actio interrogatoria), e potenzialmente confliggente con altri
arresti giurisprudenziali (tra cui Sez. II, 23 marzo 1977, n. 1141, secondo cui il giudice del
merito può rilevare d'ufficio, in base alle prove esistenti nel processo, la mancata conclusione
del contratto per difetto d'incontro dei reciproci consensi, trattandosi della verifica
dell'inesistenza di un elemento del diritto dedotto in giudizio e non dell'accertamento di un
controdiritto, materia di eccezione in senso proprio).
8. Il Primo Presidente ha disposto l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
Acquisita la relazione dell'Ufficio del massimario, e depositate da entrambe le parti memorie
illustrative, il ricorso è stato discusso all'udienza pubblica del 12 maggio 2015.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di massima di particolare importanza rimessa all'esame delle Sezioni Unite è
se la deduzione della inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator costituisca
materia di eccezione in senso stretto, che come tale può essere sollevata solo dal
falsamente rappresentato ed esclusivamente nella fase iniziale del processo di primo
grado, o sia una eccezione in senso lato, dunque non solo rilevabile d'ufficio ma
proponibile dalle parti per tutto il corso del giudizio di primo grado e finanche per la
prima volta in appello.
2. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'inefficacia del contratto concluso dal
rappresentante senza poteri o eccedendo i limiti dei poteri conferitigli non può rilevarsi
d'ufficio ma solo su eccezione di parte, ed essendo volta a tutelare il falso rappresentato può
essere fatta valere solo da quest'ultimo (o dai suoi eredi), mentre non è invocabile dal terzo
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contraente, il quale, ai sensi dell'art. 1398 c.c., può unicamente chiedere al falsus
procurator il risarcimento dei danni sofferti per avere confidato senza propria colpa
nell'operatività del contratto.
Questo principio di diritto ha dato vita ad un orientamento uniforme e consolidato nel tempo
(Sez. II, 23 gennaio 1980, n. 570; Sez. II, 8 luglio 1983, n. 4601; Sez. I, 29 marzo 1991, n.
3435; Sez. III, 8 luglio 1993, n. 7501; Sez. I, 14 maggio 1997, n. 4258; Sez. II, 10 maggio 1999,
n. 11396; Sez. II, 29 ottobre 1999, n. 12144; Sez. I, 13 dicembre 1999, n. 13954; Sez. II, 15
gennaio 2000, n. 410; Sez. III, 9 febbraio 2000, n. 1443; Sez. III, 26 febbraio 2004, n. 3872;
Sez. I, 30 marzo 2005, n. 6711; Sez. II, 7 febbraio 2008, n. 2860; Sez. II, 17 giugno 2010, n.
14618; Sez. III, 20 giugno 2011, n. 13480; Sez. II, 26 luglio 2011, n. 16317; Sez. II, 24 ottobre
2013, n. 24133; Sez. lav., 23 maggio 2014, n. 11582).
La conseguenza di tale indirizzo giurisprudenziale è che dell'inefficacia del contratto concluso
dal falsus procurator il giudice non può tenere conto se, pur emergendo dagli atti di causa il
difetto del potere rappresentativo e la mancanza della intervenuta ratifica, lo pseudo
rappresentato non solleva questa eccezione, o la solleva in ritardo rispetto al momento in cui
avrebbe dovuto farlo.
Il fondamento dell'inquadramento dell'eccezione di inefficacia del contratto tra le eccezioni
in senso stretto viene fatto risiedere: (a) nella circostanza che, non vertendosi in ipotesi di
nullità, non soccorre la regola dettata dall'art. 1421 c.c.; (b) nel rilievo che si è di fronte ad
una inefficacia asimmetrica (il terzo contraente è vincolato, mentre il falsamente
rappresentato non lo è), e che l'improduttività di effetti è rivolta alla protezione della sfera
giuridica della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito.
3. La dottrina generalmente approva la soluzione della giurisprudenza.
Talora si sottolinea che l'inefficacia del contratto tutela il falso rappresentato: per questo
può farsi valere solo da lui; non può rilevarsi d'ufficio; tanto meno può invocarsi dal terzo
contraente, il quale è vincolato dal contratto.
Talaltra si rileva che, nella prospettiva normativa, il dominus si pone come arbitro delle sorti
della fattispecie, in positivo e in negativo, potendo sia ratificare il negozio o farne al
contrario dichiarare la definitiva inidoneità operativa: a differenza dell'eccezione di nullità,
che si colloca in una dimensione statica, l'eccezione dello pseudo rappresentato si inserisce in
una vicenda instabile e fluida, perché l'assenza del vincolo è recuperabile ad
libitumdell'interessato.
Ancora, si associa la natura in senso stretto dell'eccezione al fatto che la legittimazione ad
agire per far valere l'inefficacia del contratto spetta soltanto allo pseudo rappresentato.
3.1. Questo indirizzo interpretativo, che riconduce l'inefficacia del contratto nei confronti
della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito nel novero delle eccezioni
riservate alla disponibilità dell'interessato, è stato messo, di recente, in discussione da alcune
voci dottrinali, che ne hanno evidenziato la non coerenza con il criterio generale in tema di
distinzione fra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato nel frattempo elaborato,
con riguardo alle fattispecie estintive, modificative o impeditive, dalla giurisprudenza di
queste Sezioni Unite, a partire dalla sentenza 3 febbraio 1998, n. 1099, fino alla ordinanza 7
maggio 2013, n. 10531, passando per la sentenza 27 luglio 2005, n. 15661.
In base a tale criterio distintivo, di norma, tutti i fatti estintivi, modificativi od impeditivi,
siano essi fatti semplici oppure fatti-diritti che potrebbero essere oggetto di accertamento in
un autonomo giudizio, sono rilevabili d'ufficio, e dunque rappresentano eccezioni in senso
lato; l'ambito della rilevabilità a istanza di parte (eccezioni in senso stretto) è confinato ai
casi specificamente previsti dalla legge o a quelli in cui l'effetto estintivo, impeditivo o
modificativo si ricollega all'esercizio di un diritto potestativo oppure si coordina con una
fattispecie che potrebbe dar luogo all'esercizio di un'autonoma azione costitutiva.
Muovendosi in questa prospettiva - e premesso che per far valere il fatto impeditivo costituito
dalla non operatività, per la sfera giuridica dello pseudo rappresentato, del contratto
concluso dal rappresentante in carenza o in eccesso di potere rappresentativo, la legge non
prevede espressamente l'indispensabile iniziativa della parte - una parte della dottrina ha
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appunto contestato che l'eccezione di inefficacia corrisponda all'esercizio di un potere
costitutivo dello pseudo rappresentato.
Al riguardo si è rilevato che:
- (a) il codice civile non ha costruito la figura del contratto concluso dal rappresentante senza
procura o travalicando i limiti della procura come una fattispecie temporaneamente
vincolante anche per lo pseudo rappresentato, dotata quindi di un'efficacia precaria che
questi possa rimuovere soltanto attraverso un recesso o un rifiuto eliminativo ovvero
mediante l'esercizio, nel processo, con la proposizione dell'eccezione ad esso riservata, di un
potere conformativo di scioglimento;
- (b) si è invece di fronte ad una non vincolatività che consegue automaticamente al difetto di
legittimazione rappresentativa dello stipulante, secondo lo schema norma-fatto-effetto, e
che non abbisogna, per dispiegarsi, dell'intermediazione necessaria dell'esercizio di un potere
sostanziale rimesso alfalsus dominus;
- (c) affinché lo stato originario di inefficacia resti immutato, e sia riscontrabile dal giudice,
non è richiesta allo pseudo rappresentato alcuna iniziativa: egli non deve esercitare alcun
diritto potestativo per liberarsi da un contratto che è già, per lui, privo di ogni effetto;
- (d) il legislatore ha sì previsto, in capo al falsamente rappresentato, la titolarità, esclusiva e
riservata, di un diritto potestativo: ma questo diritto è quello di imputarsi il contratto
realizzando, attraverso la ratifica, la condizione esterna di efficacia dello stesso, non quello
di sciogliersi dal vincolo.
Si è inoltre evidenziato che se l'eccezione di inefficacia del contratto è sottratta al rilievo
officioso, pur quando la carenza o l'eccesso di potere di chi ha agito come rappresentante
emerga ex actis, e la parte interessata, in ragione di una preclusione processuale, non possa
più sollevarla in appello, il risultato che si otterrebbe è la ratifica tacita retta dal principio
dell'imputet sibi, indipendentemente dall'effettiva ravvisabilità di comportamenti o atti, da
parte dello pseudo rappresentato, che implichino necessariamente la volontà di ritenere per
sé efficace quel contratto o che, comunque, siano incompatibili con il suo rifiuto.
Ma si tratterebbe - si è fatto notare - di un risultato contrario al diritto sostanziale. Se si
attribuisse valore di una ratifica al silenzio mantenuto, rispetto alla domanda giudiziale,
dall'interessato che sia rimasto contumace o abbia adottato una strategia processuale che non
necessariamente sottende la volontà di fare proprio il contratto rappresentativo, ciò
significherebbe, per un verso, far discendere da un comportamento processuale un effetto
diametralmente opposto a quello che si sarebbe avuto con l'interpello ai sensi dell'art. 1399,
quarto comma, c.c., e, per l'altro verso, ricollegare un effetto appropriativo del negozio, con
la conseguente instaurazione di una situazione nuova, alla mancata risposta all'invito a
difendersi, quando sul piano sostanziale il silenzio deldominus rispetto all'invito proveniente
dal terzo contraente ha valore di negazione della ratifica dell'operato del falso
rappresentante.
4. La necessità di interrogarsi se, nella dinamica del processo, la inefficacia, nei confronti
del dominus, del contratto concluso dal falsus procurator, costituisca una eccezione in senso
lato o una eccezione in senso stretto, sorge ove si muova dalla premessa che la mancanza del
potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui rappresenti un fatto impeditivo
della pretesa azionata in giudizio dal terzo contraente.
Solo in tale prospettiva, infatti, si pone il problema se basti, al fine di far scattare la
possibilità, per il giudice, di porlo a base della decisione, il presupposto minimo che detto
fatto impeditivo risulti dagli atti legittimamente acquisiti in causa; o se occorra anche
l'espressa e tempestiva istanza dello pseudo rappresentato affinché gli effetti sostanziali del
fatto impeditivo, ove riscontrato esistente sul piano sostanziale, possano essere utilizzati dal
giudice come motivo di rigetto della domanda dell'attore.
5. Ad avviso del Collegio, in tema di rappresentanza volontaria, la sussistenza del potere
rappresentativo, con l'osservanza dei suoi limiti, costituisce una circostanza che ha la
funzione specifica di rendere possibile che il contratto concluso dal rappresentante in nome
del rappresentato produca direttamente effetto nei confronti del rappresentato: come tale,
essa è ricompresa nel nucleo della fattispecie posta a base della pretesa e integra un
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elemento costitutivo della domanda che il terzo contraente intenda esercitare nei confronti
del rappresentato.
Quando si tratta di stabilire, non già semplicemente se il contratto si sia perfezionato, ma se
esso produca direttamente effetto nei confronti del rappresentato, la situazione fenomenica
assunta nello schema astratto della disciplina legale pone la legittimazione rappresentativa,
accanto allo scambio dei consensi e alla spendita del nome altrui, come elemento strutturale
e come ragione dell'operatività, per la sfera giuridica del rappresentato, del vincolo e degli
effetti che da esso derivano.
È noto che il fatto impeditivo si identifica con la mancanza di un presupposto di efficacia, che
interrompe il normale ciclo del fenomeno giuridico: collocandosi in una posizione
diaframmatica tra il momento della rilevanza e quello della efficacia, il fatto impeditivo, in
quanto portatore di un interesse antitetico e prevalente rispetto a quello rappresentato dal
fatto inibito, neutralizza, con la propria azione, l'operatività di una fattispecie già completa,
impedendole, così, di liberare gli effetti cui avrebbe dato altrimenti luogo.
Ad avviso del Collegio, il terzo contraente che deduce in giudizio un contratto stipulato con il
rappresentante per ottenere il riconoscimento e la tutela, nei confronti del rappresentato, di
diritti che da quel contratto derivano, pone a fondamento della propria pretesa, non solo (a)
gli elementi che l'art. 1325 c.c. richiede per il perfezionamento del contratto, ma anche (b)
che detto contratto è stato concluso da un soggetto, il rappresentante, autorizzato dal
rappresentato a stipulare in suo nome, o (b1) che lo pseudo rappresentato, attraverso la
ratifica, ha attribuito ex post al falso rappresentante quella legittimazione a contrarre per
lui, che gli mancava al tempo del contratto.
Dunque, la presenza di quel potere rappresentativo (o la ratifica da parte dell'interessato) si
pone come fatto costitutivo rilevante, come nucleo centrale del fenomeno giuridico di
investitura specificamente considerato, in quanto coelemento di struttura previsto in
funzione della regola di dispiegamento degli effetti negoziali diretti nei confronti del
rappresentato.
5.1. È il contesto di diritto sostanziale di riferimento, per come ricostruito dalla dottrina e
declinato nelle regole applicative dagli orientamenti giurisprudenziali, che induce a questa
soluzione.
Ai sensi dell'art. 1388 c.c., infatti, il contratto concluso dal rappresentante in nome del
rappresentato produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato solo se concluso
nei limiti delle facoltà conferite al rappresentante. La legge condiziona dunque la
verificazione dell'effetto negoziale diretto nei confronti del rappresentato alla sussistenza
della legittimazione rappresentativa in capo al rappresentante. Il contratto, già perfezionato
nei suoi elementi essenziali, è pertinente al rappresentato soltanto se questi ha autorizzato
che lo si stipulasse in suo nome.
Invece il negozio concluso da chi agisce come rappresentante senza essere tale oppure da chi,
pur essendo titolare del potere rappresentativo, ne abbia ecceduto i limiti, non impegna la
sfera giuridica del preteso rappresentato, cioè della persona il cui nome è stato
illegittimamente speso.
Il contratto stipulato in difetto o in eccesso di rappresentanza non vincola il falsamente
rappresentato verso il terzo, perché chi ha agito non aveva il potere di farlo. Si tratta di un
contratto - non nullo e neppure annullabile - ma inefficace in assenza di ratifica (Sez. II, 15
dicembre 1984, n. 6584; Sez. I, 14 maggio 1997, n. 4258; Sez. II, 11 ottobre 1999, n. 11396;
Sez. II, 7 febbraio 2008, n. 2860): il negozio stipulato, in rappresentanza di altri, da chi non
aveva il relativo potere, è privo di ogni efficacia come tale, potendo acquistarla soltanto in
seguito all'eventuale ratifica da parte dell'interessato (Sez. II, 26 novembre 2001, n. 14944). Il
terzo contraente, pertanto, non ha titolo per esercitare nei confronti dello pseudo
rappresentato l'azione di inadempimento (Sez. I, 29 agosto 1995, n. 9061) né quella per
l'esecuzione del contratto (Sez. III, 23 marzo 1998, n. 3076). Talvolta si afferma anche che
l'inefficacia (temporanea) discende dal fatto che il contratto concluso dal falsus
procurator costituisce una fattispecie soggettivamente complessa o a formazione progressiva,
un negozioin itinere o in stato di pendenza, destinato a perfezionarsi con la ratifica
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deldominus (Sez. II, 8 luglio 1983, n. 4601; Sez. II, 17 giugno 2010, n. 14618). Ove la spendita
del nome non trovi giustificazione nel potere di rappresentanza (si legge in Sez. I, 9 dicembre
1976, n. 4581) "il negozio non si può ritenere concluso né dal sostituto né dal sostituito ed è
perciò improduttivo degli effetti suoi propri, configurando [...] una fattispecie negoziale in
itinere, al cui perfezionamento è necessario, ai sensi dell'art. 1399 c.c., l'ulteriore elemento
della ratifica, solo in conseguenza della quale il regolamento diventa retroattivamente
impegnativo anche per il dominus"; "il contratto - medio tempore, cioè tra il momento della
conclusione e quello della ratifica - è in stato di quiescenza" (Sez. I, 24 giugno 1969, n. 2267).
5.1.1. D'altra parte, quando si pone sul terreno dell'applicazione della regola dell'onere della
prova, la giurisprudenza di questa Corte non esita a collocare il potere rappresentativo tra gli
elementi della fattispecie costitutiva.
Si afferma, infatti, che, poiché il contratto concluso dal rappresentante in nome e
nell'interesse del rappresentato produce, a norma dell'art. 1388 c.c., direttamente i suoi
effetti nei confronti di quest'ultimo solo in quanto il rappresentante abbia agito nei limiti
delle facoltà conferitegli, ove il rappresentato neghi di avere rilasciato l'invocata procura,
spetta al terzo che ha contrattato con il rappresentante l'onere di provare l'esistenza e i limiti
della procura (Sez. III, 10 ottobre 1963, n. 2694; Sez. III, 7 gennaio 1964, n. 13; Sez. I, 13
dicembre 1966, n. 2898; Sez. III, 26 ottobre 1968, n. 3598; Sez. III, 30 maggio 1969, n. 1935;
Sez. III, 8 febbraio 1974, n. 372; Sez. III, 25 novembre 1976, n. 4460; Sez. lav., 29 luglio 1978,
n. 3788).
6. La deduzione della inefficacia del contratto stipulato in suo nome da un rappresentante
senza poteri rappresenta, pertanto, non una eccezione, ma mera difesa, con la quale il
convenuto non estende l'oggetto del processo al di là del diritto fatto valere dall'attore, né
allarga l'insieme dei fatti rilevanti allegati al giudizio.
6.1. Trattandosi di mera difesa, varranno le seguenti regole processuali:
- (a) in linea di principio, per la formulazione di tale deduzione difensiva il codice di
procedura civile non prevede alcuna specifica limitazione temporale (cfr. Sez. III, 16 luglio
2002, n. 10280; Sez. lav., 9 ottobre 2007, n. 21073; Sez. III, 17 maggio 2011, n. 10811; Sez.
lav., 16 novembre 2012, n. 20157; Sez. III, 12 novembre 2013, n. 25415);
- (b) peraltro, la circostanza che l'interessato, costituito nel processo, ometta di prendere
posizione circa la sussistenza del potere rappresentativo allegato dall'avversario a sostegno
della propria domanda, o comunque ometta di contestare specificamente tale fatto,
costituisce un comportamento processuale significativo e rilevante sul piano della prova del
fatto medesimo, determinando, in applicazione del principio di non contestazione (per cui v.,
ora, l'art. 115, primo comma, c.p.c.), una relevatio ab onere probandi;
- (b1) poiché la non contestazione è un comportamento processualmente significativo se
riferito a un fatto da accertare nel processo e non alla determinazione della sua dimensione
giuridica (cfr. Sez. un., 23 gennaio 2002, n. 761), il difetto di specifica contestazione non
spiega alcuna rilevanza quando la mancanza del potere rappresentativo dipenda, ad esempio,
dalla nullità della procura, per difetto di forma prescritta per la sua validità;
- (b2) il mero difetto di contestazione specifica, ove rilevante, non impone in ogni caso al
giudice un vincolo assoluto (per così dire, di piena conformazione), obbligandolo a
considerare definitivamente come provata (e quindi come positivamente accertata in
giudizio) la legittimazione rappresentativa non contestata, in quanto il giudice può sempre
rilevare l'inesistenza del fatto allegato da una parte anche se non contestato dall'altra, ove
tale in esistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto (cfr. Sez. lav.,
6 dicembre 2004, n. 22829; Sez. lav., 8 agosto 2006, n. 17947; Sez. lav., 10 luglio 2009, n.
16201; Sez. lav., 4 aprile 2012, n. 5363);
- (c) allorché la mancanza del potere rappresentativo sia acquisita agli atti, di essa il giudice
può tenere conto anche in assenza di una specifica deduzione della parte interessata, giacché
la sussistenza dei fatti costitutivi della domanda deve essere esaminata e verificata dal
giudice anche d'ufficio (cfr. Sez. I, 5 agosto 1948, n. 1390; Sez. II, 15 febbraio 2002, n. 2214;
Sez. III, 28 giugno 2010, n. 15375);
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7. Se poi sia lo pseudo rappresentato ad agire in giudizio con una domanda che presuppone
l'efficacia del contratto concluso in suo nome dal rappresentante senza poteri (ad esempio, al
fine di ottenere la condanna del terzo ad adempiere o la risoluzione del contratto per
inadempimento della controparte), certamente né il terzo potrà difendersi opponendo la
carenza del potere di rappresentanza, né vi sarà spazio per un rilievo officioso di quella
carenza di legittimazione. Lo stesso superamento delle ragioni per una rilevabilità da parte
del giudice si avrà se lo stesso pseudo rappresentato, questa volta convenuto in giudizio, si
difenda nel merito tenendo un comportamento da cui risulti in maniera chiara e univoca la
volontà di fare proprio il contratto concluso in suo nome e conto dal falsus procurator (cfr.
Sez. II, 15 novembre 1994, n. 9638; Sez. I, 8 aprile 2004, n. 6937).
Nell'uno e nell'altro caso, questo dipende dal fatto che il comportamento tenuto nel processo
dal dominus opera anche sul terreno del diritto sostanziale, facendo venir meno, con la
ratifica (pur se tacita), l'originaria carenza dei poteri di rappresentanza e, con essa, la non
vincolatività, per la sfera giuridica della persona il cui nome è stato speso, del contratto
stipulato dal falsus procurator.
8. Conclusivamente, deve essere affermato il seguente principio di diritto: «Poiché la
sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è elemento
costitutivo della pretesa che il terzo contraente intenda far valere in giudizio sulla base di
detto negozio, non costituisce eccezione, e pertanto non ricade nelle preclusioni previste
dagli artt. 167 e 345 c.p.c., la deduzione della inefficacia per lo pseudo rappresentato del
contratto concluso dal falsus procurator; ne consegue che, ove il difetto di rappresentanza
risulti dagli atti, di esso il giudice deve tener conto anche in mancanza di specifica richiesta
della parte interessata, alla quale, a maggior ragione, non è preclusa la possibilità di far
valere la mancanza del potere rappresentativo come mera difesa».
9. Sulla base dell'enunciato principio di diritto va esaminato il primo motivo del ricorso, con
cui si denuncia la nullità della sentenza in relazione all'art. 112 c.p.c. per avere la Corte
d'appello ritenuto che il difetto di potere in capo ai rappresentanti in ordine alla pattuita
compensazione della posta debitoria di euro 1.075.019,74, pari al prezzo residuo della
compravendita immobiliare, non fosse rilevabile d'ufficio.
9.1. Il motivo è fondato.
La Corte territoriale ha riconosciuto che l'effetto estintivo è stato ottenuto "mediante
un'attività negoziale posta in essere da falsi procuratores", giacché dall'esame della procura
emerge che i rappresentanti di Arnaldo F. non avevano il potere di accedere ad un accordo,
collaterale ai contratti di vendita immobiliare, comportante la compensazione del prezzo
della vendita con crediti che la società acquirente vantava nei confronti (non di Amando F.
ma) di società di capitali terze riferibili ad Arnaldo F.
Da ciò consegue l'inefficacia, ai sensi dell'art. 1398 c.c., del patto di compensazione
collaterale ai contratti di compravendita immobiliare.
Ha tuttavia errato la Corte d'appello a ritenere che l'inefficacia del patto di compensazione
fosse deducibile solo con eccezione di parte (non sollevata nella specie tempestivamente, nel
rispetto delle ordinarie preclusioni processuali, dalla cessionaria R.).
Poiché la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha stipulato il contratto
spendendo il nome altrui è elemento costitutivo della pretesa che il terzo contraente intenda
far valere in giudizio sulla base di detto negozio, ben poteva il Tribunale, senza incorrere in
extrapetizione, rilevare dalla documentazione risultante dagli atti la mancanza in capo ai
procuratori speciali di poteri ulteriori rispetto a quelli necessari per concludere il negozio
traslativo ("non risulta[ndo] ... che i poteri rappresentativi conferiti da Arnaldo F. ai propri
procuratori coprissero alcun pagamento di debito altrui e quindi la possibilità, per Hypo
Vorarlberg, di procedere alla 'compensazione' come in effetti attuata").
9.2. La controricorrente Hypo ha dedotto ragioni di opposizione all'accoglimento del motivo di
ricorso, deducendo: (a) che la quietanza liberatoria apposta dai procuratori con la firma
all'atto di compravendita era idonea a dare conferma dell'avvenuto pagamento del prezzo; (b)
che dall'esame della procura in atti si ricava "che i procuratori di Arnaldo F. erano senz'altro
muniti dei necessari poteri per concludere un accordo negoziale di compensazione per una
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parte del prezzo di vendita"; (c) che il Tribunale, omettendo di attivare il contraddittorio
sulla eccezione sollevata d'ufficio, avrebbe "spiazza[to] ... la difesa della Hypo (ma forse
della stessa difesa di controparte, la quale fino ad allora aveva semplicemente sostenuto che
mancava la prova scritta della transazione conclusa, senza mettere mai in dubbio i poteri
conferiti ai procuratori"); (d) che "la cessionaria non è legittimata a sollevare questioni sui
limiti dei poteri dei terzi, essendo estranea al rapporto che si era instaurato tra il
rappresentato Arnaldo F. e i suoi procuratori generali Christian e Claudia F.".
Si tratta di profili che non possono trovare ingresso in questa sede.
Su alcuni di essi, infatti, vi sono altrettante statuizioni della Corte d'appello. Infatti la
sentenza impugnata: ha escluso il valore confessorio delle quietanze (giacché l'ammissione da
parte di Hypo "di non aver saldato per intero il prezzo di acquisto degli immobili equivale ad
aver controdichiarato che è solo apparente il relativo contenuto confessorio"); ha
convalidato, anche alla luce della procura prodotta da Hypo in sede di gravame, la
conclusione circa il difetto di potere in capo ai rappresentanti di Arnaldo F.; ha riconosciuto
che la cessionaria ha "efficacemente acquistato il diritto di credito e con esso la
legittimazione processuale ad agire per soddisfarlo". Rispetto a queste statuizioni la
resistente non ha proposto alcun motivo di ricorso: non solo formalmente (l'atto notificato e
depositato nel giudizio è denominato "controricorso" e conclude per il "rigetto" del ricorso
proposto dalla controparte), ma nemmeno contestando la sentenza impugnata mediante
l'articolazione di censure e l'individuazione delle norme che sarebbero state violate o
falsamente applicate dal giudice d'appello.
Quanto, poi, al profilo della mancata sottoposizione al contraddittorio delle parti, da parte
del Tribunale, della "eccezione", rilevata d'ufficio, della carenza dei poteri dei
rappresentanti, si tratta di questione ormai preclusa, ex art. 161, primo comma, c.p.c.,
perché Hypo non ha svolto apposito motivo di appello per far valere la relativa violazione
processuale ad opera del Tribunale; e si tratta, prima ancora, di deduzione che non ha ragion
d'essere, posto che non è decisione "a sorpresa" il rilievo, da parte del giudice, della mancata
prova di un elemento costitutivo del diritto azionato dalla parte.
9.2.1. Nella memoria illustrativa, la difesa della controricorrente Hypo deduce ulteriormente
che la cessionaria avrebbe "inequivocabilmente posto in essere un comportamento
incompatibile con il disconoscimento della sua qualità di destinatario degli effetti
contrattuali" ed avrebbe "finito per esercitare il potere di ratificare, di esercitare cioè il
proprio diritto potestativo di appropriarsi degli effetti del contratto rendendolo
definitivamente efficace".
Si tratta di rilievo non condivisibile.
Invero, di ratifica tacita può parlarsi solo ove l'atto o il comportamento, da cui risulti in
maniera chiara la volontà di fare proprio il negozio concluso dal falsus procurator, provenga
dall'interessato o dai suoi eredi (art. 1399, primo e ultimo comma, c.c.). Nella specie, invece,
il comportamento processuale a cui si vorrebbe dare rilevanza è quello del cessionario del
credito derivato al cedente da un precedente contratto, quindi di un acquirente a titolo
particolare daldominus, al quale non spetta la facoltà di ratifica.
10. Il ricorso contiene due ulteriori censure.
10.1. Con il secondo motivo (nullità della sentenza in relazione all'art. 112 c.p.c.) si censura
nuovamente l'errata qualificazione della c.d. eccezione di inefficacia del contratto concluso
dal falsus procurator, in relazione, questa volta, all'appello incidentale svolto dalla R. con
riferimento all'ulteriore importo della domanda di condanna pari a euro 38.964,31,
costituente l'IVA sull'importo di euro 231.785,88.
10.1.1. Il motivo è inammissibile.
Occorre rilevare che dalla sentenza impugnata si ricava che l'importo di euro 38.964,31
corrisponde ad "un credito per rimborso IVA che la compratrice assumeva di vantare nei
confronti del venditore in proprio e non nei confronti delle sue società". In sostanza prosegue la sentenza - Hypo "ha pagato un corrispettivo, comprensivo di IVA, ad un terzo per
una prestazione da lui resa. Ha, quindi, addebitato ad Arnaldo F. l'intero importo versato, IVA
inclusa".
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Tanto premesso, la sentenza è giunta alla conclusione che, per questa posta, "l'effetto
estintivo dell'obbligo di pagare il prezzo della vendita ha fonte in un duplice titolo".
Per un verso, esso, secondo la Corte d'appello, rinviene il proprio fondamento "nella
reciprocità di posizioni creditorie e debitorie tra Arnaldo F. e Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a.".
Sotto questo profilo, i giudici del gravame hanno dato continuità alla ratio decidendi che
sostiene la pronuncia del Tribunale: la quale - premesso che nella vicenda in esame Hypo è
intervenuta rimborsando alla società Rigotti i costi di canalette per l'importo, risultante da
una sentenza del Tribunale di Trento, di euro 231.785,88 (IVA inclusa), e che per l'importo in
questione la compensazione è stata operata "effettivamente tra debiti e crediti esistenti tra
le stesse parti, quindi legittimamente" - ha rilevato che, essendo l'importo nel suo complesso
determinato da titolo giudiziale tra la società Rigotti e Arnaldo F., esso era dovuto per intero,
sicché spettava a Rigotti inserire, nella contabilità IVA, la ricezione dell'importo e girarla non
a F., ma alla competente amministrazione finanziaria.
Per l'altro verso, il titolo è rappresentato - prosegue la Corte d'appello - dal "patto
compensativo collaterale alla vendita immobiliare. Sicché per impedirlo è imprescindibile la
declaratoria d'inefficacia del patto", patto dalla cessionaria "infondatamente impugnato solo
sotto il profilo del difetto della forma scritta che deve rivestire una transazione".
Ora, con il motivo di ricorso la R. censura questa seconda ratio decidendi, lamentando che la
Corte d'appello abbia affermato che l'accoglimento della domanda di condanna presuppone
l'inefficacia del patto compensativo per carenza di poteri di rappresentanza, che non sarebbe
rilevabile d'ufficio.
Ma la ricorrente non muove alcuna doglianza con riferimento all'altra, e concorrente, ratio
decidendi, relativa alla legittimità della compensazione in ragione della reciprocità di
posizioni creditorie e debitorie tra il F. e Hypo.
Trova pertanto applicazione il principio secondo cui ove la sentenza sia sorretta da una
pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente
sufficiente a giustificare la decisione adottata, l'omessa impugnazione di una di esse rende
inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo
divenuta definitiva l'autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun
caso l'annullamento della sentenza (Sez. lav., 11 febbraio 2011, n. 3386; Sez. un., 29 marzo
2013, n. 7931).
10.2. L'accoglimento del primo motivo e l'inammissibilità del secondo mezzo rendono
assorbito l'esame del terzo motivo, con cui, denunciandosi la violazione dell'art. 112 c.p.c. in
relazione all'art. 360, n. 4, c.p.c., si lamenta l'omessa pronuncia della Corte d'appello
sull'eccezione sollevata dalla R. a pag. 6 della sua comparsa di risposta con appello
incidentale, relativa alla carenza di potere dei rappresentanti di Arnaldo F.
11. La sentenza impugnata è cassata in relazione alla censura accolta.
11.1. La causa non può essere decisa nel merito, essendo necessari ulteriori accertamenti di
fatto.
Infatti, con l'atto di appello (ne dà conto la sentenza impugnata alle pagine 16 e 17) Hypo ha
censurato la sentenza di primo grado perché sul credito riconosciuto alla cessionaria sono
stati attribuiti gli interessi dalla data della vendita immobiliare anziché dalla data della
successiva cessione, come stabilito dall'art. 1263, ultimo comma, c.c.
L'esame di questo motivo di gravame è stato evidentemente ritenuto assorbito dalla Corte
territoriale, la quale, avendo escluso (a causa della ravvisata extrapetizione) il diritto di
credito al pagamento della somma capitale, non aveva ragione di occuparsi della decorrenza
degli interessi.
La questione della decorrenza degli interessi torna invece di attualità per effetto
dell'accoglimento del primo motivo dell'odierno ricorso per cassazione.
Ma si tratta di questione il cui scrutinio deve essere rimesso alla Corte territoriale,
occorrendo esaminare il negozio di cessione tra F. e R. al fine di stabilire se esso contenga il
patto contrario alla disciplina sui frutti scaduti recata dall'art. 1263 c.c.
11.2. Il giudice del rinvio - che si individua nella Corte d'appello di Trento, sezione distaccata
di Bolzano, in diversa composizione - provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
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P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il secondo e assorbito
l'esame del terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la
causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Trento, sezione
distaccata di Bolzano, in diversa composizione.
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17)
LE SEZIONI UNITE SUL RAPPORTO TRA
RISOLUZIONE E RISARCIMENTO E LA
QUANTIFICAZIONE DEL DANNO
di ANDREA MONTANARI, Dottore di ricerca
(estratto da Diritto Civile Contemporaneo, Rivista trimestrale di Diritto civile ad accesso
libero e senza fine di lucro ISSN 2384-8537, Anno I, numero II, luglio/settembre 2014, articolo
già pubblicato in CONTRATTI, OBBLIGAZIONE, RESPONSABILITA' CIVILE il 3 luglio 2014)
Cass. Sez. Un. 11 aprile 2014 n. 8510
La decisione in commento (Cass. Sez. Un. 11 aprile 2014 n. 8510) nasce da un ricorso della
società “Cave Ponte” che domandò alla Corte di Cassazione, tra gli altri quesiti, se il ius
variandi previsto dall’art. 1453, co .2, c.c. abilitasse l’attore non solo alla modifica della
domanda di adempimento in domanda di risoluzione, ma anche all’introduzione della
richiesta risarcitoria del danno da risoluzione.
A tale riguardo, il silenzio della norma aveva, invero, generato un contrasto giurisprudenziale,
giacché l’orientamento prevalente sostiene l’impossibilità di estendere la deroga al divieto di
mutatio libelli «alle domande di risarcimento consequenziali, rispettivamente, a quelle di
adempimento e di risoluzione» (cfr. di recente Cass. 23 gennaio 2012, n. 870; Cass. 16
settembre 2009, n. 13953 e in dottrina M. Tamponi, La risoluzione per inadempimento, in I
contratti in generale, in Trattato dei contratti, diretto da Rescigno e Gabrielli, t. 2, Torino,
2006, p. 1746), mentre altre pronunce preferiscono la soluzione affermativa (cfr. Cass., 31
ottobre 2008, n. 26325; vedi anche Cass., 27 novembre 1996, n. 10506; Cass., 27 maggio
2010, n. 13003).
Di conseguenza, la seconda sezione civile della Corte di Cassazione rimise la questione alle
Sezioni Unite, le quali, in linea con l’indirizzo da ultimo menzionato, hanno enunciato il
principio di diritto secondo cui «La parte che ai sensi dell’art. 1453, secondo comma, cod.
civ., chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa
promosso per ottenere l’adempimento, può domandare contestualmente all’esercizio dello
ius variandi, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni
derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento contrattuale» (Cass. Sez. Un. 11
aprile 2014 n. 8510).
La pronuncia dei giudici di legittimità va condivisa per quanto riguarda la ricostruzione dei
rapporti tra le tutele previste dall’art. 1453, ma non risulta del tutto soddisfacente sul piano
delle conseguenze e ciò in quanto la Corte di Cassazione non trae dalla costruzione delineata
le dovute conseguenze sul piano risarcitorio. La sentenza in esame offre l’occasione di
approfondire il ruolo rivestito dal risarcimento del danno all’interno delle diverse tutele
contemplate dall’art. 1453 c.c.
In altra sede si è tentata di dimostrare la portata innovativa legata all’introduzione della
disposizione in esame nel codice del ’42 (A. Montanari, Il danno da risoluzione, Napoli, 2013,
9-61). L’art. 1453 c.c. deriva dalla maggiore attenzione riservata dal nuovo codice alla tutela
del contratto. Diversamente dal codice del 1865, il contratto non viene più trattato come un
tutt’uno indistinguibile dall’obbligazione, esso assume rilevanza piuttosto quale piano di
giurificazione degli interessi delle parti per il raggiungimento di uno scopo. Nel codice del ’42
il contratto va inteso, quindi, come il programma delle parti per il soddisfacimento di un
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determinato assetto di interessi la cui realizzazione dipende dalle diverse tipologie di effetti
che il contratto stesso può generare: l’obbligazione, l’obbligo di protezione, il trasferimento
della proprietà o di altro diritto reale e, ancora, la garanzia. Tutto ciò trova conferma nella
definizione di contratto come «rapporto giuridico» (art. 1321 c.c.) e non già come «vincolo
giuridico» (art. 1098 c.c. 1865), che sotto il codice abrogato veniva inteso come accordo
generatore esclusivamente di obbligazioni, e nella nozione di oggetto del contratto, il quale
viene identificato in modo “neutro”, per così dire, con la prestazione (Al riguardo cfr. R. de
Ruggiero, Istituzioni di diritto civile7, III. Diritti di obbligazione. Diritto ereditario, MessinaMilano, 1935, 241-242; F. Messineo, voce Contratto (dir. priv.), in Enc. dir., IX, Milano, 1961,
817; G. Osti, voce Contratto, in Noviss. digesto italiano, IV, Torino, 1959, 468).
Quest’assunto influisce sulla lettura del quadro di tutele contemplato dall’art. 1453 c.c., il
quale non può non tener conto della diversa prospettiva da cui viene regolato il contratto. E
ciò trova conferma nel fatto che la disposizione in commento assegna le tutele
dell’adempimento e della risoluzione al contratto con prestazioni corrispettive, categoria
sconosciuta al codice abrogato e che allude al contratto quale strumento produttivo di
prestazioni e non esclusivamente di obbligazioni (cfr. M. De Simone, Il contratto con
prestazioni corrispettive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 26 ss.; G. Scalfi, Corrispettività e
alea nei contratti, Milano-Varese, 1960, 10 ss.; A. Pino, Il contratto con prestazioni
corrispettive. Bilateralità, onerosità e corrispettività nella teoria del contratto, Padova, 1963,
39 ss.).
In questo senso, l’adempimento e la risoluzione vanno intesi quali mezzi di tutela che
reagiscono alla mancata attuazione del programma contrattuale, sicché appare riduttiva la
lettura dei rimedi in parola dalla specola esclusiva dell’inadempimento dell’obbligazione (così
invece ex multis L. Barassi, La teoria generale delle obbligazioni, III. L’attuazione, Milano,
1948, 238; C.M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, Art. 1218-1229, in Comm.
cod. civ., diretto da A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1979, 162 ss.; A. Belfiore, voce
Risoluzione del contratto per inadempimento, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 1316 ss. Contra
M. Giorgianni, L’inadempimento. Corso di diritto civile3, Milano, 1975, 312 ss., 320 ss.; M.
Costanza, sub art. 1456, in L. Nanni – M. Costanza – U. Carnevali, Della risoluzione per
inadempimento, Art. 1455-1459, in Comm. cod. civ., diretto da A. Scialoja e G. Branca, a
cura di F. Galgano, I, 2, Bologna-Roma, 2007, 62 ss. spec. 64; A. di Majo, Le tutele
contrattuali, Torino, 2009, 207 ss.; F. Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale,
Napoli, 2011, 145, il quale segnala l’atecnicità dei termini «inadempimento» e «obbligazioni»
utilizzati all’art. 1453 c.c. nella rubrica, il primo, e nel corpo del testo, il secondo).
Le tutele ora menzionate riflettono, in realtà, i due interessi antitetici che animano la
vicenda contrattuale, la cui dialettica prosegue anche successivamente alla proposizione
della domanda per l’adempimento o per la risoluzione. In sede processuale assumono rilievo,
infatti, sia l’interesse sottostante all’azione proposta dalla parte c.d. fedele sia l’affidamento
che tale azione ingenera nella controparte inadempiente (art. 1453, co. 2 e 3, c.c.).
Il secondo comma dell’art. 1453 c.c. sancisce il significato della domanda di risoluzione quale
manifestazione della mancanza di interesse del contraente fedele all’esecuzione del
contratto. Ne consegue la liberazione per la parte inadempiente dalla possibilità di essergli
domandato successivamente l’adempimento: il legislatore attribuisce rilevanza
all’affidamento della parte inadempiente generato dalla domanda di risoluzione, impedendo
al contraente fedele di domandare successivamente l’adempimento. Diversamente, se la
parte fedele agisce per l’adempimento può in corso di causa, e secondo la giurisprudenza
prevalente anche in sede di gravame, modificare la domanda e chiedere la risoluzione. (Sulla
possibilità di domandare l’adempimento successivamente alla domanda di risoluzione la
dottrina non è pacifica: cfr. Ros. Alessi, Risoluzione per inadempimento e tecniche di
conservazione del contratto, in Riv. crit. dir. priv., 1984, 67; Luminoso, sub art. 1453, cit.,
39; G. Auletta, Risoluzione e rescissione dei contratti. A) Risoluzione per inadempimento, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 641 ss. e ivi, 1949, 170 ss.; M. Giorgianni, In tema di
risoluzione del contratto per inadempimento, in Contratto impr., 1991, 68 ss.; C. Consolo, Il
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processo nella risoluzione del contratto per inadempimento, in Riv. dir. civ., 1995, 299-344;
M. Dellacasa, Adempimento e risarcimento nei contratti di scambio, Torino, 2013, 334-335).
Tutto ciò mette in risalto il ruolo assegnato alla risoluzione di tutela «estrema» contro la
violazione contrattuale e la peculiare effettività conseguentemente attribuita alla forza
vincolante del contratto con prestazioni corrispettive. La domanda di adempimento può
essere proposta, infatti, in base alla mera inesecuzione della prestazione, mentre la
risoluzione risulta subordinata alla verifica che tale inesecuzione provochi una frustrazione di
non scarsa importanza per la parte fedele dell’assetto di interessi consacrato nella lex
contractus (art. 1455 c.c.). Ciò significa che si può verificare una violazione del sinallagma
che giustifica sì l’azione di adempimento, ma non l’azione di risoluzione (sull’argomento cfr.
tra gli altri A. di Majo Giaquinto, L’esecuzione del contratto, Milano, 1967, 427; G. Collura,
Importanza dell’inadempimento e teoria del contratto, Milano, 1992, 37 ss.).
Sul piano giuridico assume, dunque, rilevanza l’interesse del contraente all’esecuzione del
contratto finché la sua violazione non sia tale da compromettere in modo pressoché
irreversibile l’operazione economica pattuita. E questo scarto tra violazione “semplice”, per
così dire, e violazione qualificata giustifica la deroga posta dal secondo comma dell’art. 1453
c.c. alla regola processuale di cui all’art. 183 c.p.c. (nel senso di interpretare l’art. 1453, co.
2, c.c. non solo dalla prospettiva processualistica cfr. F. Rota, Dalla domanda di
adempimento alla domanda di risoluzione, in Riv. dir. proc., 1990, 876-917).
Quest’ultima disposizione dà corpo, com’è noto, al c.d. principio di preclusione il quale
consente l’individuazione sin dall’inizio del processo della questione controversa e evita
l’allungamento eccessivo della fase di trattazione (cfr. ex multis F.P. Luiso, Diritto
processuale civile, II. Il processo di cognizione7, Milano, 2013, 31). Di conseguenza,
l’impossibilità di agire per l’adempimento e successivamente di modificare la domanda,
chiedendo la risoluzione, costringerebbe la parte non inadempiente a instaurare un nuovo
procedimento per tale ultimo scopo.
Lo scarto tra violazione semplice e violazione qualificata cui sopra si è accennato e la
consapevolezza che le vicende processuali medesime possono contribuire ad aggravare il
vulnus lamentato hanno indotto il legislatore a prevedere la deroga di cui all’art. 1453, co. 2,
c.c., abilitando l’attore alla modifica della domanda di adempimento in domanda di
risoluzione nel corso del medesimo processo. Viceversa, non è possibile effettuare il
contrario, ossia una volta chiesta la risoluzione non si può agire per l’adempimento, e ciò in
quanto la domanda di risoluzione manifesta il non interesse al proseguimento del rapporto
contrattuale e genera l’affidamento della parte inadempiente in questo stato di fatto. Sotto
un diverso profilo, questa regolazione del rapporto domanda di adempimento-domanda di
risoluzione conferma la tendenza del diritto dei contratti a privilegiare l’adempimento e a
scongiurare il più possibile il ricorso alla risoluzione: la proposizione del primo non preclude
mutamenti di strategia; la richiesta della seconda pone il contraente fedele nella situazione
di poter accettare tutt’al più l’adempimento volontario della controparte in sede
stragiudiziale (Sul principio di priorità logico-giuridica dell’adempimento in natura cfr. M.
Giorgianni, Tutela del creditore e tutela «reale», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, 620 ss.; S.
Mazzamuto, L’attuazione degli obblighi di fare, Napoli, 1978, 113 ss.; L. Mengoni, La
responsabilitá contrattuale, in Jus, 1986, 128; A. di Majo, La tutela civile dei diritti4, Milano,
2003, 279 ss.; Piraino, Adempimento e responsabilità, cit., 1 ss. e passim; L. Nivarra, I rimedi
specifici, in Europa dir. priv., 2011, 157-201. Al riguardo cfr. però le recente rilettura offerta
da Dellacasa, Adempimento e risarcimento, cit., 295-308, 325-329 e passim).
Il quadro descritto rivela il ruolo complementare rivestito dal risarcimento del danno
nell’ambito delle tutele approntate dall’art. 1453 c.c. In forza di quest’ultimo la violazione
del contratto con prestazioni corrispettive innesca l’alternativa adempimento-risoluzione,
«salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno». Il risarcimento completa la risposta
all’esigenza di tutela generata dall’inattuazione del contratto: adempimento e risoluzione
reagiscono, infatti, alla violazione del sinallagma, ma non tendono alla compensazione del
danno che tale violazione ha arrecato alla parte non inadempiente.
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Ne consegue una diversa modulazione del risarcimento del danno ex art. 1453 c.c. rispetto al
risarcimento del danno ex art. 1218 c.c.: il primo reagisce al pregiudizio che residua dopo
l’attivazione dei rimedi dell’adempimento o della risoluzione; il secondo risponde al danno
inteso come surrogato della prestazione inadempiuta. Quest’ultima funzione non è additabile
al risarcimento ex art. 1453 c.c., giacché la prestazione o risulta eseguita in natura o vi si è
rinunciato tramite la risoluzione. Lo strumento risarcitorio completa, dunque, la tutela
contrattuale, mirando alla compensazione, nel primo caso, del danno provocato dal ritardo
nell’adempimento e, nel secondo caso, del danno provocato dal contratto, inteso in termini
retrospettivi come vicenda storica dannosa per la parte fedele. In entrambe le ipotesi si
tratta del danno c.d. consequenziale, il quale viene identificato dall’esperienza del common
law nel pregiudizio che si aggiunge alla perdita della prestazione in sé considerata e ciò in
contrapposizione al danno c.d. normale, che corrisponde, invece, al danno “immediato”
provocato dall’inadempimento, corrispondente ad es. al differente prezzo di mercato del
bene compravenduto (Nella dottrina di common law cfr. ex multis H.G. Beale – W.D. Bishop –
M.P. Furmston, Contract. Cases & Materials5, Oxford, 2008, 706 ss. In Italia cfr. G. Smorto, Il
danno da inadempimento, Padova, 2005, 87 ss.; di Majo, Le tutele contrattuali, cit., 167 ss.).
La peculiare funzione rivestita dal risarcimento ex art. 1453 c.c. implica l’impossibilità di
ricorrervi in via principale, salvo che lo stesso risulti invocato in funzione sostitutiva della
prestazione in natura. Il che si verifica in caso di inadempimento derivante da impossibilità
per causa imputabile al debitore oppure qualora sia sopraggiunta la mancanza di interesse
della parte a ottenere la prestazione in natura. In queste ipotesi il risarcimento funge da
sostituto, per l’appunto, dell’adempimento in natura, tant’è che non libera la parte fedele
dall’obbligo di eseguire la controprestazione. Di conseguenza, il ricorso al risarcimento
sostitutivo non ne esclude l’ulteriore attivazione in funzione complementare (sul punto cfr. A.
Belfiore, Inattuazione dello scambio per causa imputabile al debitore e tecniche di tutela del
creditore: la conversione della prestazione in natura in prestazione per equivalente, in Riv.
crit. dir. priv., 1987, 227 ss.; A. Luminoso, sub art. 1453, in A. Luminoso – U. Carnevali – M.
Costanza, Della risoluzione per inadempimento, Art. 1453-1454, in Comm. cod. civ., diretto
da A. Scialoja e G. Branca, a cura di F. Galgano, I, 1, Bologna-Roma, 1990, 127 ss.; Amadio,
Inattuazione e risoluzione: la fattispecie, in Tratt. del contratto, V. Rimedi, 2, a cura di V.
Roppo, Milano, 2006, 115; Piraino, Adempimento e responsabilità, cit., 196 ss.; A. di Majo,
L’adempimento “in natura” quale rimedio (in margine ad un libro recente), in Europa dir.
priv., 2012, 1161 ss.).
Tali considerazioni conducono alla conclusione secondo cui la domanda di risarcimento ex art.
1453 rappresenta una richiesta complementare rispetto a quella di adempimento e di
risoluzione. La questione è, quindi, se tale quesito possa essere inteso come una domanda da
accorparsi a quella di risoluzione e se, conseguentemente, ad essa risulti estendibile la
deroga predisposta dal secondo comma dell’articolo ora menzionato.
Il silenzio della disposizione al riguardo è stato colmato, come si è anticipato, dalla
giurisprudenza prevalente che ha preferito escludere l’applicazione della deroga al divieto di
mutatio libelli al risarcimento del danno.
Di contro, le Sezioni Unite in commento hanno sposato la soluzione affermativa e ciò
muovendo dal carattere complementare del risarcimento rispetto alle azioni di adempimento
e di risoluzione. L’assunto appare in parte convincente e risulta in linea con la ricostruzione
del quadro delle tutele effettuata nei paragrafi precedenti.
L’art. 183 c.p.c. abilita, infatti, l’attore a proporre solo le domande e le eccezioni che siano
conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dalla controparte.
L’esigenza di economia processuale ha militato in favore del rafforzamento della necessità di
definire la materia del contendere nell’udienza di trattazione, il che è avvenuto con la
riforma del 2005. A tale riguardo, la deroga posta dall’art. 1453, co. 2, c.c. trova
giustificazione nel ruolo – rammentato in precedenza – assegnato dal diritto sostanziale alle
tutele dell’adempimento e della risoluzione, il che rende la deroga medesima in linea con il
canone dell’economia processuale. La diposizione in parola evita, infatti, l’instaurazione di
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un nuovo giudizio volto alla risoluzione, la cui richiesta segue, per lo più, fisiologicamente
l’infruttuosità dell’azione di adempimento.
Il risarcimento del danno completa la tutela contrattuale presupponendo l’espletamento delle
tutele dell’adempimento o della risoluzione, il che prende corpo sul piano processuale nel
nesso di accessorietà presente tra la domanda di risarcimento e quella per l’adempimento o
per la risoluzione: la pretesa risarcitoria trova il suo titolo nella pretesa che forma oggetto
della domanda per l’adempimento o per la risoluzione (giunge alla medesima conclusione
anche C. De Menech, Mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione del
contratto e pretesa risarcitoria avanzata in occasione della mutatio libelli, in Contratti, 2014,
131-135. Per la definizione di accessorietà fatta propria dalla dottrina processualcivilistica
cfr. ex multis S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, I. Disposizioni generali,
Milano, 1959, 138, 329-339; L. Montesano – G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile, I.
Principi generali. Rito ordinario di cognizione, Padova, 2001, 387-389.).
Il corollario ulteriore di quest’assunto va individuato nell’interpretazione estensiva dell’art.
1453, co. 2, c.c., nel senso che la possibilità di mutamento della domanda di adempimento in
domanda di risoluzione include l’introduzione ex novo o la modifica della domanda accessoria
per il risarcimento del danno. Questa soluzione appare suffragata, inoltre, dall’ulteriore
argomento, suggerito da una dottrina autorevole, secondo cui il riferimento all’adempimento
e alla risoluzione richiama implicitamente le tutele ad essi correlate: il risarcimento del
danno sia nel caso dell’adempimento sia nel caso della risoluzione, e le restituzioni nel caso
della risoluzione (così G. Gabrielli, Proponibilità delle domande risarcitoria e restitutoria in
corso di giudizio purché congiuntamente con quella di risoluzione del contratto inadempiuto,
in Riv. dir. civ., 2012, I, 603-604).
Viceversa, la soluzione restrittiva sostenuta dalla giurisprudenza prevalente muove dall’idea
secondo cui la richiesta di risarcimento introduce un nuovo tema d’indagine rispetto a quella
di risoluzione, sicché comprometterebbe l’economia processuale estendere anche al primo la
deroga processuale prevista per la seconda (Cfr. da ultimo Cass. 23 gennaio 2012, n. 870).
Questa tesi appare accolta anche da quelle proncunce che sposano sì la lettura estensiva, ma
a condizione che i fatti dedotti a fondamento della domanda di risoluzione coincidano con
quelli posti a sostegno della domanda di adempimento (Cass. Sez. Un. 18 febbraio 1989, n.
962; Cass. 9 marzo 2006, n. 5100; Cass. 19 luglio 2008, n. 20067). In altri termini, la causa
petendi deve essere la medesima.
L’assunto tuttavia non convince.
Occorre precisare, infatti, che in realtà il mutamento di causa petendi e, quindi,
l’introduzione di un nuovo tema d’indagine avviene già con la richiesta per la risoluzione (Così
anche Gabrielli, Proponibilità delle domande risarcitoria e restitutoria, cit., 604-605; nonché
Cass. Sez. Un. 11 aprile 2014, n. 8510, § 9.1 la quale sul punto precisa che, se da un lato la
successiva domanda di risoluzione non può fondarsi su un diverso inadempimento, dall’altro
lato l’attore può dedurre i dati ulteriori a sostegno della non scarsa importanza
“sopravvenuta” dell’inadempimento). E ciò quanto meno in base al fatto che tale mezzo di
tutela presuppone una violazione contrattuale qualificata. Di conseguenza, una volta posta la
deroga al divieto di mutatio libelli e dischiuse le porte ad un nuovo tema d’indagine appare
francamente irragionevole vietare l’estensione della deroga alla domanda accessoria di
risarcimento. Se tale estensione appesantisce, infatti, il procedimento, la proposizione di un
nuovo giudizio appesantirebbe di certo e in modo maggiore la machinery processuale
generalmente intesa. Il nuovo giudizio replicherebbe in parte il primo, richiedendo la
valutazione delle ragioni poste a fondamento della risoluzione, degli effetti di questa, come
ad es. le restituzioni, e, successivamente, la determinazione del quantum risarcitorio.
In definitiva, la non estensione del ius variandi anche al risarcimento del danno e, quindi, la
necessità d’instaurare un nuovo giudizio in tal senso appare fuori segno rispetto ai principi di
economia processuale, i quali condurrebbero peraltro, a seconda dei casi e dello stato del
processo principale, alla riunione dei due procedimenti per ragioni di connessione (art. 31 ss.
c.p.c.). L’assunto trova conforto, inoltre, nella tesi processualistica volta a scongiurare
l’eccessivo formalismo nell’interpretazione della regola sul divieto di mutatio libelli,
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attribuendo rilevanza al principio di economia «ultraprocessuale». Ciò tramite lo
sfruttamento efficiente delle potenzialità del giudizio promosso in precedenza per evitare
l’instaurazione di inutili giudizi successivi (cfr. sul punto C. Gamba, Domande senza risposta.
Studi sulla modificazione della domanda nel processo civile, Padova, 2008, 139-145).
L’argomentazione esposta confuta, come si è anticipato, anche l’orientamento che afferma la
possibilità di mutamento ex art. 1453, co. 2, c.c. soltanto quando la causa petendi della
richiesta di adempimento risulti la medesima della domanda di risoluzione. Quest’ultima
implica, si ripete, un diverso accertamento e il motivo della deroga si basa non già sul fatto
che la causa petendi è la medesima, ma perché la rilevanza attribuita alla dialettica tra gli
interessi antitetici del contratto sul piano sostanziale continua su quello della tutela
processuale (così anche Cass. Sez. Un. 11 aprile 2014, n. 8510, §§ 9.2 e 9.3). Di conseguenza,
va disattesa l’ulteriore lettura che ammette l’estensione della mutatio libelli al risarcimento
soltanto qualora la domanda di risarcimento sia già stata proposta insieme a quella di
adempimento (G. Sicchiero, La risoluzione per inadempimento, Art. 1453-1459, in Il Codice
Civile. Comm., fondato da P. Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2007, 458 ss.; A.
Gili, Rapporti tra il diritto di mutare la domanda di adempimento in domanda di risoluzione,
ex art. 1453, 2° comma, c.c. e nuovo regime delle preclusioni nel processo civile di primo
grado, in Giur. it., 1999, 28, 1867.).
La pressoché condivisibile ricostruzione delle tutele ex art. 1453 c.c. effettuata dalle Sezioni
Unite in commento non appare, però, del tutto coerente. I giudici di legittimità affermano,
infatti, che tra il risarcimento del danno e la risoluzione v’è sì complementarietà, nel senso
che insieme contrastano il vulnus contrattuale verificatosi, ma che tra i due, diversamente
dalle restituzioni, non esiste un nesso di consequenzialità logico-giuridica, giacché il
risarcimento non presuppone la risoluzione (così Cass. Sez. Un. 11 aprile 2014, n. 8510, §
9.2). Di conseguenza, mentre le restituzioni sono influenzate dall’efficacia retroattiva della
risoluzione, lo stesso non può affermarsi con riguardo al risarcimento, il che permette la
soddisfazione dell’interesse della parte fedele a considerare il contratto, nonostante l’effetto
retroattivo, fonte di un determinato assetto quantitativo (Cass. Sez. Un. 11 aprile 2014, n.
8510, § 9.2). L’epilogo di tale ragionamento è l’adesione alla tesi prevalente in dottrina e in
giurisprudenza secondo cui il quantum del danno da risoluzione va identificato nel c.d.
interesse positivo, ossia nella differenza tra «la situazione scaturita dal fallimento della
vicenda contrattuale ed il vantaggio che il contratto autorizzava a trarre» (Cass. Sez. Un. 11
aprile 2014, n. 8510, § 9.3).
Si è tentato di spiegare altrove le ragioni che giustificano il rifiuto di tale tesi, sicché in
questa sede ci si limita a segnalare alcune incoerenze della pronuncia in commento. In
particolare, i giudici di legittimità affermano che
la risoluzione esplica effetti retroattivi, sicché innesca le restituzioni delle prestazioni
eventualmente eseguite, ma consente di tenerne conto sul fronte del danno;
il risarcimento è complementare alla risoluzione, ma non la presuppone, sicché il danno da
risoluzione non è consequenziale alla risoluzione e, quindi, non deve tener conto degli effetti
della seconda.
In altri termini, le Sezioni Unite appaiono, da un lato, sostenere la complementarietà del
risarcimento per giustificare la sua inclusione implicita nella domanda di risoluzione e,
dall’altro lato, trattare il risarcimento come un mezzo di tutela astratto dal piano di tutele in
cui s’inserisce per giustificarne l’identificazione con l’interesse positivo.
Di contro, va rammentato che il risarcimento del danno da risoluzione, in quanto ad essa
complementare, mira alla compensazione del pregiudizio che residua dopo la risoluzione. Di
conseguenza, occorre valutare la portata dell’effetto retroattivo innescato dalla risoluzione
medesima, il quale trasforma il contratto in danno per la parte fedele. La retroattività della
risoluzione implica, infatti, che nel sistema italiano, diversamente dal common law dove –
com’è noto – la risoluzione non ha effetti retroattivi, occorre guardare al contratto risolto in
termini retrospettivi come evento dannoso per la parte fedele. L’effetto ablativo del nesso di
corrispettività provocato dalla risoluzione non permette, però, di prendere in considerazione
la prestazione che era dedotta in contratto, giacché la parte fedele vi ha rinunciato, e tale
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rinuncia ha effetto retroattivo, tant’è che, se la stessa fosse stata in parte adempiuta,
andrebbe restituita.
Il danno che residua coincide, dunque, con la lesione dell’interesse negativo. Sul punto
occorre chiarire, però, che in questa sede l’interesse negativo non va inteso nell’accezione
tradizionale di situazione soggettiva precontrattuale dal momento che i danni che il rimedio
risarcitorio è chiamato a rimuovere in sede di risoluzione ledono interessi diversi da quelli che
caratterizzano la fase precontrattuale. E la diversità risiede nella circostanza che tali
interessi sorgono e assumono rilevanza nel corso del rapporto contrattuale e nell’ottica della
sua esecuzione, sicché la violazione del contratto e l’effetto ablativo che ne discende con la
risoluzione tramuta la vanificazione di tali interessi in danni, il cui contenuto non può dunque
coincidere con quello dei pregiudizi precontrattuali.
Cassazione, Sezioni Unite, 11 aprile 2014, n. 8510
(Pres. Rovelli, Est. Giusti)
La parte che, ai sensi dell’art. 1453, secondo comma, cod. civ., chieda la risoluzione del
contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere
l’adempimento, può domandare, contestualmente all’esercizio dello ius variandi, oltre alla
restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla
cessazione degli effetti del regolamento negoziale.
RITENUTO IN FATTO
1. - Il 2 gennaio 1992 veniva stipulato, tra la s.r.l. Cave Ponte della Regina (d'ora in poi Cave
Ponte) e C.P., un contratto denominato "Promessa di appalto di escavazione", in forza del
quale la prima, titolare di un'autorizzazione alla coltivazione di cava di inerti rilasciata nel
1983 e rinnovata nel 1986, si impegnava - sul presupposto dell'adozione, in data 8 aprile 1991,
di un nuovo piano regolatore generale del Comune di San Vito al Tagliamento, che prevedeva
l'attuazione di attività estrattiva di materiali di cava di inerti interessante un'area nel cui
ambito erano ricompresi alcuni terreni già di proprietà di Cave Ponte - ad acquistare i restanti
terreni rientranti nell'area anzidetta, con conseguente cessione dei diritti di escavazione al
C.. Costui, a propria volta, accettava - per sè o per persona da nominare (identificata
successivamente nella s.r.l. Calcestruzzi e Conglomerati Bituminosi Padova, di seguito CGB,
successivamente trasformatasi nella s.p.a. Beton Candeo) - la cessione del diritto di
escavazione su tutti i terreni, nonchè il trasferimento della proprietà dell'intera cubatura
dell'inerte da estrarre, dietro pagamento del prezzo della cessione, determinato - ai sensi
degli artt. 3 e 5 dell'accordo contrattuale - sulla base dell'intero quantitativo da estrarre dalla
cava.
La società CGB, assumendo di aver acquisito la proprietà dell'intero giacimento di cava di
inerti, con atto di citazione notificato il 26 febbraio 2000 convenne in giudizio Cave Ponte,
chiedendone la condanna al rilascio di tutti i terreni (anche di quelli trasferiti ex art. 1478
c.c.), come individuati nel contratto.
Per contro, la convenuta, nel costituirsi in giudizio, contestò la domanda di parte avversa,
rilevando che il contratto suddetto - da intendersi come preliminare di vendita mobiliare e di
appalto - aveva avuto concreta attuazione, a causa della mancata approvazione del piano
regolatore generale, solo nei limiti di quanto già assentito in favore di essa Cave Ponte, in
forza dell'autorizzazione del 1986.
Propose, inoltre, domanda riconvenzionale volta a conseguire la dichiarazione di cessazione
del rapporto contrattuale di appalto, per effetto del compimento dell'opera di escavazione,
nonchè l'accertamento della responsabilità di CGB per vizi e difformità dell'esecuzione dello
scavo rispetto a quanto autorizzato (responsabilità dalla quale chiese di essere tenuta
indenne), instando, altresì, per la riduzione del compenso dovuto all'appaltatore e la
condanna dello stesso al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, oltre alla
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risoluzione del contratto per inadempimento, in relazione ai predetti vizi e difformità e al
mancato rispetto del quantitativo minimo pattuito di materiale inerte da scavare, pari a
100.000 metri cubi; in ogni caso, domandò di essere immessa nel possesso e nella libera
disponibilità dell'area di cantiere e la condanna della controparte al risarcimento dei danni da
ritardata riconsegna della stessa.
A fronte di tale linea difensiva della convenuta, parte attrice, all'udienza di trattazione della
causa, formulò, ai sensi dell'art. 183 c.p.c., una reconventio reconventionis, avente ad
oggetto l'accertamento della permanente efficacia e validità del contratto, nonchè la
condanna di Cave Ponte al suo adempimento.
Con sentenza n. 4 del 26 febbraio 2004, passata in giudicato (stante l'estinzione del relativo
giudizio di appello per rinuncia al gravame), il Tribunale di Pordenone, sezione distaccata di
San Vito al Tagliamento, rigettò la domanda principale, dichiarò inammissibili le altre
domande proposte dall'attrice, dichiarò cessato il rapporto contrattuale in relazione alla aree
detenute da CGB, delle quali ordinò il rilascio in favore di Cave Ponte, la cui domanda
risarcitoria venne respinta.
2. - Con successivo atto di citazione notificato il 23 novembre 2005, la s.p.a. Beton Candeo
(già s.r.l. CGB) conveniva Cave Ponte innanzi al medesimo Tribunale, chiedendone la
condanna all'esecuzione del contratto del 2 gennaio 1992, come integrato dalle pattuizioni
del 9 settembre 1993 (in forza delle quali era stata stabilita una modificazione del prezzo del
materiale inerte estratto dall'appaltatrice) e del 17 novembre 1994 (con cui le parti, invece,
si erano date atto dell'intervenuta emanazione del provvedimento amministrativo regionale
che impediva la realizzazione degli specchi d'acqua mediante l'attività di scavo oggetto
dell'appalto, nonchè dell'impugnativa dello stesso, confermando - per l'ipotesi
dell'accoglimento dell'impugnativa - le condizioni contrattuali così come originariamente
stabilite il 2 gennaio 1992 e successivamente modificate il 9 settembre 1993).
La convenuta Cave Ponte, nel contestare il fondamento delle domande attoree, chiedeva il
rigetto delle stesse.
3. - Con sentenza n. 15 del 30 marzo 2010, l'adito Tribunale, nel rilevare che Beton Candeo in sede di precisazione delle conclusioni - aveva chiesto, a modifica dell'originaria domanda di
adempimentò, la declaratoria di risoluzione del contratto per inadempimento della convenuta
e la condanna della stessa al risarcimento dei danni per equivalente, rigettava la domanda,
accogliendo l'eccezione di giudicato esterno sollevata dalla convenuta. Non vi può essere rilevava il Tribunale - "alcuno spazio giurisdizionale ulteriore", giacchè "con la sentenza n. 4
del 2004 di questo Tribunale è stato sancito che il contratto de quo è cessato".
4. - In accoglimento del gravame proposto da Beton Candeo, questa decisione è stata
riformata, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 24 gennaio 2012,
dalla Corte d'appello di Trieste, la quale ha dichiarato la risoluzione del contratto,
condannando Cave Ponte al risarcimento del danno, quantificato in Euro 16.577.120, oltre
interessi e rivalutazione dalla domanda al saldo.
4.1. - La Corte d'appello ha in primo luogo escluso che tra le parti si sia formato un giudicato
preclusivo per effetto della sentenza del Tribunale di Pordenone, sezione distaccata di San
Vito al Tagliamento, n. 4 del 2004. Il giudicato - si osserva - inerisce alle sole aree detenute
da Cave Ponte e la cessazione del rapporto di appalto tra le parti è limitata a tali aree sulle
quali l'attività estrattiva era esaurita, non toccando le altre aree facenti parte di un
comprensorio più ampio che avrebbe dovuto formare oggetto dell'estrazione di inerti da parte
di Beton Candeo. Non essendo intervenuta alcuna decisione di merito con riferimento alle
altre aree del comprensorio suddetto, ma una mera dichiarazione di inammissibilità della
domanda per genericità della stessa e quindi per vizio della sua introduzione, la Corte
territoriale ha giudicato ammissibile, con riferimento a queste, l'esame nel merito della
pretesa dedotta in giudizio relativa all'accertamento della perdurante efficacia dell'appalto.
La Corte di Trieste ha quindi rilevato, alla luce dell'istruttoria espletata in primo grado e in
particolare della consulenza tecnica d'ufficio, che l'escavazione sulle altre aree era ancora
eseguibile sulla base del nuovo piano regolatore comunale di San Vito al Tagliamento
approvato il 3 dicembre 2001 ed entrato in vigore il 3 novembre 2002 (in quanto
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l'impugnazione proposta avverso il provvedimento amministrativo che aveva determinato la
temporanea impossibilità di esecuzione dell'appalto fu accolta dal TAR e il Comune deliberò
di adottare un nuovo PRGC, approvato dalla Regione nel 2002, in sostituzione di quello del
1991, in attuazione del quale era stato concluso l'appalto del 1992), e che l'estrazione di
inerti restava sostanzialmente conforme a quella contrattualmente prevista.
Disattendendo il contrario assunto della parte appellata, il giudice d'appello ha ritenuto
ammissibile anche la domanda risarcitoria introdotta unitamente a quella di risoluzione,
sebbene quest'ultima fosse stata proposta in corso di causa (avendo Beton Candeo agito, ab
origine, per l'adempimento), interpretando, così, in modo "coordinato" l'art. 1453 c.c., commi
1 e 2, nel senso, cioè, che se l'una disposizione rimette al contraente non inadempiente la
scelta tra l'adempimento e la risoluzione, facendo però salvo "in ogni caso" il risarcimento del
danno, l'altra, nel consentire il mutamento in corso di causa della domanda di adempimento
in domanda di risoluzione, permette di affiancare quest'ultima anche con la domanda
risarcitoria.
La Corte territoriale ha quindi ritenuto che costituisce grave inadempimento, tale da
giustificate la risoluzione del contratto de quo, la circostanza che Cave Ponti non abbia
consentito, appena divenuta nuovamente eseguibile sulla base del nuovo PRGC, la
prosecuzione del contratto stipulato nel 1992.
5. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello Cave Ponti ha proposto ricorso, con
atto notificato il 18 luglio 2012, articolato in cinque motivi e illustrato con successiva
memoria, cui Beton Candeo ha resistito con controricorso.
All'esito dell'udienza pubblica svoltasi il 4 luglio 2013, la Seconda Sezione civile, con
ordinanza interlocutoria 9 agosto 2013, n. 19148, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per
l'eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite ai fini della risoluzione del contrasto
sulla questione, veicolata dal secondo motivo di ricorso, se, convertita in corso di causa la
domanda di adempimento in quella di risoluzione del contratto per inadempimento ai sensi
dell'art. 1453 c.c., comma 2, sia consentita anche la proposizione, contestuale, della
domanda di risarcimento dei danni.
Il Primo Presidente ha disposto l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
Acquisita la relazione dell'Ufficio del massimario, e depositata, da parte della ricorrente, una
nuova memoria illustrativa, il ricorso è stato discusso all'udienza pubblica del 25 marzo 2015.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. - Il ricorso viene all'esame delle Sezione Unite per comporre il contrasto sulla questione se,
convertita in corso di causa la domanda di adempimento del contratto in quella di risoluzione
del contratto inadempiuto ai sensi dell'art. 1453 c.c., comma 2, sia consentita,
contestualmente alla variatio, la proposizione della domanda di risarcimento dei danni.
La questione è posta con il secondo motivo di ricorso.
2. - In ordine logico è tuttavia preliminare l'esame:
- (a) del primo motivo (violazione e falsa applicazione dell'art. 2909 c.c., in relazione all'art.
360 c.p.c., n. 3, nonchè vizio di motivazione in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5), con cui la
ricorrente Cave Ponte denuncia che la sentenza impugnata avrebbe disatteso il giudicato
esterno rappresentato dalla sentenza, intervenuta tra le stesse parti, n. 4 del 2004 del
Tribunale di Pordenone, sezione distaccata di San Vito al Tagliamento, la quale, avendo
dichiarato la cessazione del contratto di appalto di escavazione, precluderebbe la possibilità
di discutere nel merito la stessa controversia;
- e (b) del terzo motivo, con cui la ricorrente censura violazione e falsa applicazione degli
artt. 1343, 1418 e 1421 c.c., con riferimento in particolare al principio di rilevabilità d'ufficio
della nullità dei contratti inter partes in data 2 gennaio 1992 (promessa di appalto di
escavazione), 9 settembre 1993 (convenzione) e 17 novembre 1994 (integrazione della
promessa di appalto di escavazione del 2 gennaio 1992), in relazione alla Legge Urbanistica 17
agosto 1942, n. 1150, artt. 7 e ss., 13 e ss. e 28, e successive modificazioni ed integrazioni,
nonchè violazione degli artt. 1218 e 1453 c.c., osservando che la Corte d'appello di Trieste
avrebbe dovuto rilevare che nel caso di specie mancava il titolo giuridico per poter
legittimamente eseguire il contratto poi erroneamente dichiarato risolto.
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3. - La censura articolata con il primo motivo è infondata.
3.1. - Dal diretto riesame degli atti del processo emerge che - di fronte al giudice della prima
causa, iniziata con atto di citazione del 26 febbraio 2000, svoltasi tra le stesse parti e definita
con la sentenza, passata in giudicato, del Tribunale di Pordenone, sezione distaccata di San
Vito al Tagliamento, 26 febbraio 2004, n. 4 - erano state proposte, per quanto qui ancora
rileva, le seguenti domande:
- da parte dell'attrice CGB s.r.l. (poi Beton Candeo s.p.a.), in via principale, la domanda di
accertamento - per effetto del contratto in data 2 gennaio 1992 - di essere divenuta
proprietaria "dei terreni meglio individuati nell'atto di citazione", con condanna di Cave Ponte
al rilascio dei terreni "nella libera disponibilità di CGB";
- da parte della convenuta Cave Ponte (la quale, contestando l'assunto di controparte,
affermava che il contratto del 2 gennaio 1992 si configurava come preliminare di vendita
mobiliare/contratto di appalto, che, "a causa di tormentata ed annosa vicenda connessa alla
mancata approvazione del PRG comunale del 1991, aveva potuto avere concreta attuazione come si evinceva dalla convenzione del 9 settembre 1993 - solo nei limiti di quanto già
assentito - in favore di Cave Ponte - dalla rediviva autorizzazione alla escavazione del 1986"),
la domanda riconvenzionale, in via principale, "che fosse dichiarato che il rapporto
contrattuale di appalto era cessato con il compimento dell'opera di escavazione" (si legge
nelle conclusioni:
"dichiararsi cessato il rapporto contrattuale di appalto inter partes con il compimento
dell'opera di escavazione e il conseguente contratto di vendita del materiale asportato");
- da parte, ancora, dell'attrice CGB, la domanda, in via di reconventio reconventionis:
"accertato che il contratto 2 gennaio 1992 è tuttora valido e produttivo di effetti, accertato
altresì che il PRG adottato dal Comune di San Vito al Tagliamento in data 28 novembre 2002
non comporta nessun mutamento al progetto di scavo di cui al PRG del 1991, ed accertato
quindi che la condizione sospensiva del perfezionarsi positivamente dell'iter amministrativo di
autorizzazione del progetto di cui al PRG comunale del 1991, come successivamente
modificato nel rispetto del nuovo PRG approvato il 28 novembre 2000, si è avverata, voglia
condannare Cave Ponte...
all'adempimento del contratto ovvero, in via di ulteriore subordine, e qualora la condizione di
cui sopra non si sia ancora avverata, voglia dichiarare che il contratto 2 gennaio 1992 è
tuttora valido ed efficace, sospensivamente condizionato al positivo concludersi dell'iter
autorizzativo del progetto di riqualificazione ambientale di cui al PRG comunale del 1991,
come modificato nel rispetto del nuovo PRG adottato in data 28 novembre 2000, e dichiarare
pertanto Cave Ponte... tenuta all'adempimento del contratto detto al verificarsi della
condizione medesima".
Tal essendo la materia del contendere, il Tribunale:
- ha rigettato la domanda principale proposta dall'attrice (sul rilievo che "il programma che
emerge dalla Promessa di appalto di escavazionè del 2 gennaio 1992 non presenta alcun
elemento di sostegno all'ambizioso assunto che CGB ha formulato con la sua domanda
principale, deducendo l'esistenza di un effetto traslativo di proprietà immobiliare, sia
immediato - per le aree, già all'epoca, di proprietà di Cave Ponte - sia differito - per le aree
che Cave Ponte si impegnava ad acquisire, alcune delle quali nel corso del tempo furono, poi,
per l'appunto, effettivamente acquisite");
- ha dichiarato "fondate le domande riconvenzionali della convenuta Cave Ponte (ad
esclusione però della domanda di condanna generica al risarcimento dei danni, asseritamente
subiti, per il ritardo nella riconsegna dell'area di cantiere)", così statuendo in dispositivo (al
punto 3): "dichiara cessato il rapporto d'appalto fra l'attrice Calcestruzzi... (ora Beton Candeo
s.p.a.) e la convenuta Cave Ponte della Regina s.r.l., in rapporto alle aree detenute
dall'attrice, e ne ordina a quest'ultima il rilascio in favore di Cave Ponte";
- ha dichiarato inammissibili le altre domande proposte dall'attrice (punto 2 del dispositivo):
una inammissibilità - è spiegato in motivazione - da genericità della "domanda svolta da CGB
in via subordinata", perchè "CGB si è palesemente sottratta all'onere di affermare quali
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precise conseguenze debbano - secondo lei - trarsi dalla fonte Promessa di appalto di
escavazione del 2 gennaio 1992;
invero, CGB ha chiesto (sul riflesso che l'elemento condizionante - iter amministrativo di
autorizzazione del progetto di cui al PRG comunale del 1991..." - possa ancora avverarsi o si
sia sostanzialmente avverato), la condanna di Cave Ponte all'adempimento del contratto 2
gennaio 1992, o l'accertamento che Cave Ponte è tenuta all'adempimento del contratto detto
al verificarsi della condizione medesima. Quali siano, secondo CGB, i diritti derivanti dal
contratto in questione, CGB non ha dedotto, e il Tribunale non può certo, su questo aspetto
fondamentale, surrogarsi ad essa CGB".
Ora, sia dal dispositivo (punto n. 3) sia dalla motivazione della sentenza (pag. n. 15) emerge
per tabulas che la pronuncia di merito di cessazione del rapporto di appalto non è generale,
ma oggettivamente limitata all'area di cantiere detenuta da CGB. Si legge nella pronuncia del
Tribunale: "... risulta essere stato posto in essere da CGB ogni ragionevole e possibile
intervento di scavo e di apprensione di materiale inerte, talchè deve dichiararsi cessato
(estinto, esaurito) il rapporto contrattuale di appalto inter partes - rispetto all'area detenuta
da CGB - ordinando nel contempo a CGB di rilasciare a Cave Ponte la libera disponibilità
dell'area di cantiere medesima". E che la dichiarazione di cessazione del rapporto sia limitata,
ed in rapporto esclusivo alle aree detenute a quella data dall'attrice CGB, è confermato dalla
sottolineatura che è "si badi, con riguardo specifico all'area detenuta da CGB" che la stessa
sentenza ha ritenuto superflua "un'indagine intesa ad evidenziare se (...) esista davvero una
maggiore possibilità di sfruttamento (rispetto a quanto assentito dalla vecchia autorizzazione
di cava) in relazione alle previsioni del PRG comunale del 1991".
3.2. - Correttamente la sentenza d'appello qui impugnata ha perciò rilevato che il giudicato di
cui alla citata sentenza n. 4 del 2004 inerisce alle sole aree detenute da Cave Ponte e che la
cessazione del rapporto di appalto tra le parti è limitata a tali aree, sulle quali l'attività
estrattiva era esaurita, non toccando le altre aree facenti parte di un comprensorio più ampio
che avrebbe dovuto formare oggetto dell'estrazione di inerti da parte di Beton Candeo,
comprensorio di cui alle premesse del contratto di appalto, destinato alla realizzazione di uno
specchio acqueo in conformità del piano regolatore generale comunale del 1991 costituito da
7 ettari già nella disponibilità di Cave Ponte e ulteriori aree limitrofe che quest'ultima si era
impegnata ad acquisire.
Invero, non essendo intervenuta alcuna decisione di merito con riguardo alle obbligazioni
nascenti dal contratto di appalto avente ad oggetto altre aree del comprensorio, ma una
mera dichiarazione di inammissibilità della domanda per genericità e quindi per un vizio della
sua introduzione, la sentenza del Tribunale n. 4 del 2004 non può considerarsi come giudicato
preclusivo della cognizione sulle domande articolate da Beton Candeo con l'atto di citazione
notificato il 23 novembre 2005, e poi modificate in corso di causa a seguito dell'esercizio dello
ius variandi di cui all'art. 1453 c.c., comma 2, con l'affiancamento alla domanda di risoluzione
della domanda risarcitoria, avendo queste ad oggetto, appunto, aree ulteriori rispetto a
quelle, considerate nella sentenza n. 4 del 2004, "detenute dall'attrice", e sulle quali, in forza
del contratto del 2 gennaio 1992, avrebbero dovuto estendersi gli specchi d'acqua previsti.
Per un verso, infatti, la pronuncia di inammissibilità della domanda per vizio della sua
introduzione (per la mancata identificazione, nella citazione introduttiva, del bene della vita
richiesto), senza alcun esame della pretesa dedotta in giudizio, non equivale ad una sentenza
di rigetto nel merito, e pertanto non impedisce la riproposizione della stessa domanda con un
successivo, rituale atto introduttivo di un nuovo giudizio (Sez. 2^ 22 luglio 2004, n. 13785).
D'altra parte - premesso che il giudicato, formatosi con la sentenza intervenuta tra le parti,
copre il dedotto ed il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e cioè non soltanto le
ragioni giuridiche e di fatto fatte valere in giudizio, ma anche tutte le possibili questioni,
proponibili sia in via di azione, sia in via di eccezione, le quali, sebbene non dedotte
specificamente, costituiscono precedenti logici necessari della pronuncia (Sez. 1^ 28 ottobre
2011, n. 22520; Sez. Lav. 16 agosto 2012, n. 14535) - rispetto alla statuizione sul modo di
(dover) essere della situazione sostanziale nascente dal provvedimento che ha concluso,
oramai irretrattabilmente, quella vicenda giurisdizionale, nel senso della cessazione soltanto
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parziale del rapporto contrattuale, limitatamente cioè all'attività estrattiva eseguita ed
esaurita nell'area interessata dall'autorizzazione di cava, l'accertamento della insussistenza di
altre obbligazioni nascenti dal medesimo contratto, ma diverse da quelle aventi ad oggetto le
aree detenute da CGB, non si pone neppure come necessaria premessa ovvero come
presupposto logico indefettibile. Anzi, la dichiarazione di cessazione soltanto parziale
dell'efficacia del contratto è indice inequivocabile della permanenza in vita del vincolo
negoziale con riferimento all'altra parte non toccata dalla pronuncia giurisdizionale passata in
cosa giudicata.
Di qui l'esclusione dell'ostacolo alla proponibilità, da parte di CGB, delle domande azionate in
questo secondo giudizio (e già oggetto di una reconventio reconventions dichiarata
inammissibile per genericità con sentenza divenuta definitiva): ben potendo aversi risoluzione
giudiziale per inadempimento del contratto di appalto, e complementare tutela risarcitoria
da inattuazione dello scambio contrattuale, rispetto ad aree oggetto del negozio, destinate
alla realizzazione di uno specchio acqueo in conformità della disciplina di piano regolatore,
diverse ed ulteriori rispetto a quelle per le quali il precedente giudicato di merito tra le
stesse parti abbia ritenuto cessato, ma appunto soltanto parzialmente, il rapporto derivante
da quella stessa fonte negoziale per il compimento del pattuito intervento escavativo.
4. - Passando allo scrutinio del terzo motivo, con esso Cave Ponte si duole che la Corte
d'appello di Trieste non abbia rilevato che nel caso di specie mancava il titolo giuridico per
poter legittimamente eseguire il contratto poi (erroneamente) dichiarato risolto.
Confondendo tra titoli autorizzatori e strumenti urbanistici, la sentenza impugnata - sostiene
la ricorrente - non avrebbe considerato che gli strumenti urbanistici non costituiscono, di per
sè, titoli autorizzatori di alcuna attività, essendo per loro natura atti programmatori, avendo
effetti conformativi della proprietà o impositivi di vincoli espropriativi. E nel caso di specie
entrambi gli strumenti urbanistici comunali, sia quello del 1991 che quello del 2000,
subordinerebbero ogni intervento pubblico e privato alla predisposizione di uno strumento di
pianificazione attuativo, denominato piano di recupero ambientale, ed alla sottoscrizione di
una convenzione tra il Comune e Cave Ponte, avente ad oggetto gli obblighi gravanti su
quest'ultima per la realizzazione del recupero.
Senza detti strumenti attuativi nessuno dei due piani regolatori era idoneo - si osserva - a
produrre effetti concreti, e quindi i contratti stipulati tra le parti erano nulli. La ricorrente dopo avere rilevato che la rilevabilità d'ufficio anche in sede di legittimità della causa di
nullità del contratto è condizionata al solo fatto che siano acquisiti al processo tutti gli
elementi che la evidenziano - sottolinea conclusivamente che la domanda di risoluzione del
contratto per inadempimento, con conseguente condanna al risarcimento del danno,
"presuppone la validità dello stesso ed il giudice, cui spetta di verificare le condizioni
dell'azione, deve rilevare d'ufficio la nullità del negozio, ove essa risulti dagli atti processuali,
anche indipendentemente dal fatto che la convenuta s.r.l. Cave Ponte della Regina abbia
sollevato la relativa eccezione di invalidità".
4.1. - Il motivo è inammissibile.
4.2. - Occorre premettere che - come queste Sezioni Unite hanno statuito (sentenza 4
settembre 2012, n. 14828) - alla luce del ruolo che l'ordinamento affida alla nullità
contrattuale, quale sanzione del disvalore dell'assetto negoziale e atteso che la risoluzione
contrattuale è coerente solo con l'esistenza di un contratto valido, il giudice di merito,
investito della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere di rilevare dai fatti
allegati e provati, o comunque emergenti ex actis, una volta provocato il contraddittorio sulla
questione, ogni forma di nullità del contratto stesso, purchè non soggetta a regime speciale.
Nella specie nessuna nullità è stata rilevata dal giudice del merito; e la ricorrente innesta la
propria censura proprio su questo mancato rilievo, chiedendo, per la prima volta nel giudizio
di cassazione, che venga dichiarata la nullità del contratto di appalto inter partes, e ciò per
la mancanza del piano di recupero o della stipula della convenzione tra il Comune e la stessa
committente.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte (Sez. 2^ 5 agosto 1977, n. 3544; Sez. 3^
8 settembre 1977, n. 3925; Sez. 1^ 30 gennaio 1979, n. 651; Sez. 1^ 17 giugno 1985, n. 3633;
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Sez. 2^ 22 giugno 2000, n. 8478; Sez. 1^ 15 luglio 2009, n. 16541; Sez. lav. 22 dicembre 2009,
n. 26987), il principio della deducibilità e rilevabilità, anche d'ufficio, in ogni stato e grado
del processo, della nullità del negozio giuridico opera, in sede di legittimità, solo quando la
nullità medesima derivi da elementi già acquisiti in causa e risultanti dalla sentenza
impugnata, mentre resta preclusa la possibilità di dedurre per la prima volta con il ricorso per
cassazione una ragione di nullità che implichi nuove indagini di fatto, non consentite in detta
sede.
Di qui l'impossibilità di dare ingresso alla censura veicolata con il motivo: posto che la
mancanza del piano di recupero ambientale o della convenzione, addotta a ragione della
nullità della promessa di appalto, non risulta accertata dal testo della sentenza impugnata,
ma presuppone nuove indagini di fatto non compiute nei precedenti gradi di merito.
5. - A questo punto può passarsi all'esame del secondo motivo, che concerne la questione
oggetto del contrasto.
Con la proposta censura Cave Ponte lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 1453
c.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia,
sul presupposto che erroneamente il giudice d'appello avrebbe rigettato l'eccezione da essa
formulata, volta a far dichiarare l'inammissibilità del mutamento della domanda, da condanna
all'esecuzione del contratto a risoluzione per inadempimento e risarcimento del danno: e ciò
in quanto la domanda di condanna al risarcimento del danno costituisce domanda eventuale e
distinta rispetto a quella di risoluzione, avendo per oggetto un bene diverso da quello che,
nell'ipotesi di inadempimento dell'altro contraente, può essere alternativamente richiesto, in
base alla richiamata disposizione codicistica, sub specie di domanda di adempimento e di
risoluzione.
5.1. - Il motivo interroga queste Sezioni Unite sul se il contraente fedele possa introdurre nel
corso del giudizio la domanda di risarcimento del danno, ex novo e contestualmente al
mutamento, consentito dall'art. 1453 c.c., comma 2, della originaria domanda di
adempimento del contratto in quella di risoluzione del contratto inadempiuto.
5.2. - Come ricordato dalla Seconda Sezione nell'ordinanza interlocutoria, sul punto si
confrontano due orientamenti, uno che nega, l'altro che ammette la possibilità di affiancare
la domanda di risarcimento del danno a quella, nascente dalla conversione della originaria
domanda di adempimento, di risoluzione del contratto per inadempimento.
5.2.1. - Il primo, restrittivo, è scolpito nel principio di diritto enunciato da Sez. 2^ 23 gennaio
2012, n. 870, in base al quale l'art. 1453 c.c., comma 2, deroga alle norme processuali che
vietano la muta- tio libelli nel corso del processo, nel senso di permettere la sostituzione
della domanda di adempimento del contratto con quella di risoluzione per inadempimento,
ma tale deroga non si estende alla domanda ulteriore di risarcimento del danno
consequenziale a quella di risoluzione, trattandosi di domanda del tutto diversa per petitum e
causa petendi rispetto a quella originaria. Il principio è stato enunciato in un caso nel quale
l'attore - un promissario acquirente di un appartamento in condominio, detentore del bene
oggetto di causa per averne ricevuto la consegna anticipata - aveva agito per ottenere
l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere il contratto definitivo ex art. 2932 c.c., per
poi proporre, nel corso del giudizio, la domanda di risoluzione del contratto preliminare per
inadempimento, in luogo di quella originaria di adempimento, e, contestualmente, quella di
risarcimento del danno, pari agli oneri straordinari corrisposti al condominio nel periodo in
cui aveva abitato l'appartamento. La Corte ha cassato senza rinvio il capo della sentenza con
cui il giudice del merito a-veva accordato anche la chiesta tutela risarcitoria, trattandosi di
"causa" che non poteva essere proposta in quel giudizio.
Alla base di questo indirizzo vi è la presa d'atto che la facoltà concessa dall'art. 1453 c.c.,
comma 2, al contraente non inadempiente di mutare l'originaria domanda di adempimento in
quella di risoluzione, apporta una vistosa eccezione - come tale di stretta applicazione - alla
regola del divieto assoluto di modifica della domanda, che cala all'esito dell'udienza di
trattazione della causa o della sua propaggine rappresentata dalla memoria ex art. 183
c.p.c..
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E poichè l'introduzione, nel corso del giudizio, ancorchè contemporaneamente all'esercizio
dello ius variandi di cui all'art. 1453 c.c., comma 2, della domanda risarcitoria affiancata alla
(consentita) domanda di risoluzione, comporta l'introduzione di un ulteriore tema d'indagine e
di un nuovo petitum, sono destinate a trovare applicazione le preclusioni di cui agli artt. 183
e 345 c.p.c.. La deroga al divieto di mutatio libelli non opera, quindi, per la domanda di
risarcimento dei danni, fatta salva in ogni caso dal primo comma dell'art. 1453 cod. civ.,
integrando questa un'azione del tutto diversa, per causa petendi e per petitum, dalle altre
due, sia da quella con cui è stato attivato il rimedio manutentivo, sia da quella con cui è
stato chiesto lo scioglimento del contratto per inadempimento.
Espressione del medesimo orientamento che vede nello ius variandi di cui all'art. 1453 c.c.,
comma 2, una previsione eccezionale, è la regola che ammette la proponibilità della
domanda di risoluzione solo se anteriormente è stato chiesto l'adempimento: il mutamento,
invece, non può avvenire quando in un primo tempo l'attore si è limitato a chiedere il
risarcimento del danno (Sez. 3^ 30 marzo 1984, n. 2119, seguita da Sez. 3^ 9 aprile 1998, n.
3680, da Sez. 3^ 26 aprile 1999, n. 4164, e da Sez. 3^ 27 luglio 2006, n. 17144).
Simmetricamente, se in un primo tempo è stato domandato l'adempimento, non è possibile
chiedere in corso di causa il risarcimento: tornano ad applicarsi le norme processuali che
precludono la proposizione di domande nuove (Sez. lav. 27 marzo 2004, n. 6161, e Sez. lav.
16 giugno 2009, n. 13953). In questo stesso "ambiente" si colloca Sez. 3^ 14 marzo 2013, n.
6545: la quale, richiamandosi alla citata sentenza n. 870 del 2012, ha negato l'ingresso,
durante il corso del giudizio, ad una domanda di condanna generica al risarcimento dei danni
per l'accertato inadempimento definitivo dell'obbligo di trasferire un immobile, quando,
originariamente, la tutela risarcitoria era stata avanzata per il ritardo nell'adempimento (in
misura corrispondente al valore locativo dell'immobile).
5.2.2. - Al secondo indirizzo, che invece ammette la possibilità di affiancare la domanda
risarcitoria contestualmente al passaggio al rimedio ablativo, è riconducibile Sez. 2^ 31
maggio 2008, n. 26325.
Vi si afferma che "la facoltà prevista dall'art. 1453 c.c., comma 2, di mutamento della
domanda di adempimento in quella di risoluzione contrattuale in deroga al divieto di mutatio
libelli si estende anche alla conseguente domanda di risarcimento danni (nonchè per le stesse
ragioni a quella di restituzione del prezzo (...)), essendo quest'ultima domanda sempre
proponibile quale domanda accessoria sia di quella di adempimento sia di quella di
risoluzione, come espressamente previsto dall'art. 1453 c.c., comma 1".
Sulla stessa linea estensiva si muove, in fattispecie particolare, Sez. 3^ 19 novembre 1963, n.
2995, la quale, in un caso nel quale il contraente deluso aveva già esplicitamente introdotto
la pretesa risarcitoria accanto a quella di manutenzione del contratto, ha riconosciuto la
possibilità di domandare, in occasione della mutatio libelli ex art. 1453 c.c., comma 2, i
danni da risoluzione in luogo di quelli da ritardo nell'adempimento o da inesatto
adempimento: ciò sul rilievo che "quando la legge ammette, in deroga alle generali norme
processuali, la sostituzione della domanda di risoluzione a quella di adempimento, non può,
correlativamente, non ammettere l'introduzione della richiesta dei danni da risoluzione,
anche se effettivamente diversi, per essenza e quantità, da quelli che siano stati richiesti
insieme con l'originaria domanda di adempimento (arg.
ex art. 1453 c.c., commi 1 e 2)". Il principio è stato incidentalmente richiamato e confermato
da queste Sezioni Unite con la sentenza 18 febbraio 1989, n. 962, precisandosi che esso è
destinato a valere "nel caso... in cui la domanda di risoluzione sia, come deve essere, fondata
sullo stesso fatto costitutivo della domanda d'adempimento (ovvero, senza che ad esso siano
sostituiti altri elementi materiali, tali da integrare una nuova causa petendi) e la connessa
domanda di risarcimento dei danni, malgrado ciò, sia diretta a conseguire un ristoro
patrimoniale essenzialmente diverso, per qualità e quantità, da quello perseguito con la
prima domanda di danni, restando peraltro inalterata la causa petendi della domanda
principale".
La giurisprudenza ammette altresì che, in occasione della mutatio, possa essere avanzata ex
novo, accanto alla domanda di risoluzione, quella di restituzione del praestatum Sez. 2^ 27
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novembre 1996, n. 10506, e Sez. 2^ 27 maggio 2010, n. 13003, declamano che la facoltà di
poter mutare nel corso del giudizio di primo grado, nonchè in appello e persino in sede di
rinvio la domanda di adempimento in quella di risoluzione in deroga al divieto di mutatio
libelli sancito dagli artt. 183, 184 e 345 c.p.c., semprechè si resti nell'ambito dei fatti posti a
base della inadempienza originariamente dedotta, senza introdurre un nuovo tema d'indagine,
comporta che, in tema di contratto preliminare di compravendita, qualora sia sostituita la
domanda di adempimento con quella di risoluzione, il contraente deluso possa chiedere la
restituzione della somma versata a tiolo di prezzo, quale domanda consequenziale a quella di
risoluzione, implicando l'accoglimento di questa, per l'effetto retroattivo espressamente
previsto dall'art. 1458 cod. civ., l'obbligo di restituzione della prestazione ricevuta, onde di
tale domanda - si afferma - il giudice può decidere anche se su di essa non vi sia stata
accettazione del contraddittorio.
6. - Il contrasto va composto aderendo all'indirizzo espresso dall'orientamento estensivo,
dovendo riconoscersi che lo ius variandi possa esercitarsi in modo completo affiancando alla
domanda di risoluzione, non solo quella di restituzione, ma anche quella di risarcimento dei
danni.
7. - L'art. 1453 c.c., nell'attribuire al contraente deluso la facoltà di chiedere "a sua scelta"
l'adempimento o la risoluzione del contratto, offre alla parte che, con la domanda di
adempimento, abbia inizialmente puntato all'attuazione del contratto sul presupposto del suo
mantenimento, anche la possibilità - a fronte di un inadempimento che, nel prolungarsi del
giudizio, perdura o si aggrava - di rivedere la propria scelta, e, perduti la speranza o
l'interesse rispetto alla prestazione, di reagire all'inattuazione dello scambio contrattuale
passando alla domanda di risoluzione per inadempimento, onde veder cancellato e rimosso
l'assetto di interessi disposto con il negozio.
Il codice civile, nell'accordare la facoltà di scegliere tra la condanna del debitore
all'adempimento e la risoluzione del contratto, in considerazione dell'interesse al
conseguimento tardivo della prestazione, se ed in quanto ancora realizzabile, al contempo
non vincola il contraente non inadempiente ad una scelta irrevocabile, quale risulterebbe
dall'avere "optato per l'adempimento senza la possibilità di chiedere successivamente la
risoluzione all'esito infruttuoso della domanda di adempimento" (Sez. Un. 18 febbraio 1989, n.
962, cit.).
Lo ius variandi si giustifica con il fatto che le due azioni, quella di adempimento e quella di
risoluzione, pur avendo un diverso oggetto, mirano a risultati coordinati e convergenti dal
punto di vista dello scopo. Nei contratti a prestazioni corrispettive, l'azione di adempimento e
quella di risoluzione costituiscono due diversi rimedi giuridici a tutela del diritto che dal
rapporto sostanziale deriva al contraente in regola: pur presentando diversità di petitum,
entrambe mirano a soddisfare lo stesso interesse del creditore insoddisfatto, consistente
nell'evitare il pregiudizio derivante dall'inadempimento della controparte (Sez. 2^ 29
novembre 2011, n. 15171). E lo testimonia il fatto che la proposizione della domanda di
adempimento ha effetto interruttivo della prescrizione anche con riferimento al diritto di
chiedere la risoluzione del contratto, il quale potrà essere esercitato fino a quando il termine
prescrizionale non sarà nuovamente decorso per intero (Sez. Un. 10 aprile 1995, n. 4126).
Lo ius variandi della vittima dell'inadempimento non può cogliere di sorpresa il debitore.
Questi, infatti, è rimasto inadempiente nonostante sia stato sollecitato ad eseguire (o ad
eseguire esattamente) la prestazione richiesta, laddove la sua esecuzione successiva alla
domanda di adempimento avrebbe rimosso il presupposto della risoluzione. D'altra parte, la
domanda di adempimento non può significare rinuncia all'efficacia risolutiva
dell'inadempimento nel perdurare dello stato di violazione del contratto. Come è stato
efficacemente osservato in dottrina, l'inerzia del debitore, per ogni momento che passa,
viene ad aggravare lo iato tra il momento della scadenza ed il momento dell'esecuzione,
sicchè la scelta iniziale per il rimedio manutentivo in presenza di un inadempimento precorso
non distrugge la facoltà di ricorrere alla tutela ablativa per un inadempimento che si rinnova,
che cresce o che si aggrava nella pendenza del processo.
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Prevedendo la reversibilità della scelta inizialmente espressa per la manutenzione del
contratto ed offrendo al creditore che ha chiesto l'adempimento la possibilità di cambiare
idea e di chiedere la risoluzione, il codice detta, anzitutto, una norma di diritto sostanziale
che disciplina l'esercizio di un'opzione tra i diversi mezzi di reazione all'altrui inadempimento:
un diritto che non può essere ostacolato dall'anteriore scelta per il rimedio manutentivo.
Lo dimostra il fatto che la giurisprudenza ammette che il contraente deluso, anche se si sia
formato un giudicato di condanna all'esecuzione in forma specifica, conserva pur sempre la
possibilità di domandare la risoluzione del contratto dopo il processo, qualora l'adempimento
non si verifichi (Sez. 2^ 18 maggio 1994, n. 4830; Sez. 2^ 4 ottobre 2004, n. 19826; Sez. 2^ 12
luglio 2011, n. 15290).
Lo ius variandi, pur non dovendo necessariamente esercitarsi nel processo rivolto ad ottenere
l'adempimento, ha tuttavia una valenza sicuramente processuale, come dimostra la stessa
formulazione letterale dell'art. 1453 c.c., comma 2, che, guardando alla dimensione
giudiziale dell'istituto, discorre di risoluzione che "può essere domandata" e di "giudizio...
promosso per ottenere l'adempimento". L'esercizio del potere del contraente non
inadempiente di provocare lo scioglimento del contratto non può essere pregiudicato dalla
pendenza del giudizio promosso per ottenere l'adempimento.
Quando in luogo dell'adempimento chiede la risoluzione, l'attore non si limita a precisare o a
modificare la domanda già proposta. Egli ne muta l'oggetto. L'azione di risoluzione è nuova
rispetto a quella di adempimento: la trasformazione della domanda di adempimento a quella
di risoluzione rappresenta un'autentica mutatio libelli.
Sotto questo profilo, il passaggio, consentito dall'art. 1453 c.c., comma 2, dalla domanda di
adempimento a quella di risoluzione costituisce una deroga alle norme processuali che
precludono il mutamento della domanda nel corso del giudizio e la proposizione di domande
nuove in appello. La disposizione dell'art. 1453 c.c., comma 2, infatti, abilita la parte che ha
invocato la condanna dell'altra ad adempiere, a sostituire a tale pretesa quella di risoluzione,
in deroga agli artt. 183 e 345 c.p.c., nelle fasi più avanzate dell'iter processuale, oltre
l'udienza di trattazione: non solo per tutto il giudizio di primo grado, ma anche nel giudizio di
appello (Sez. 2^ 5 maggio 1998, n. 4521; e questo indirizzo è stato ribadito - da Sez. 2^ 6
aprile 2009, n. 8234, e da Sez. 2^ 12 febbraio 2014, n. 3207, entrambe riferite a vicende
processuali iniziate dopo il 30 aprile 1995 - in seguito alle riforma del regime delle preclusioni
processuali realizzata dalla L. 26 novembre 1990, n. 353).
Tutto ciò - come queste Sezioni Unite hanno già precisato (con la citata sentenza 18 febbraio
1989, n. 962) - vale a condizione che i fatti dedotti a fondamento della domanda di
risoluzione coincidano con quelli posti a base della domanda di adempimento originariamente
proposta. Se l'attore allega alla domanda di risoluzione un inadempimento diverso, ossia una
nuova causa petendi, con l'introduzione di un nuovo tema d'indagine, tornano ad applicarsi le
preclusioni di cui agli artt. 183 e 345 c.p.c., giacchè la deroga alle disposizioni del codice di
rito è limitata all'introduzione di un nuovo e sostitutivo petitum immediato. L'immutazione
dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, introducendo nel processo un nuovo
tema d'indagine e di decisione, altererebbe "l'oggetto sostanziale dell'azione ed i termini della
controversia", e si risolverebbe, in definitiva, nel far valere in giudizio "una pretesa... diversa,
per la sua intrinseca natura, da quella fatta valere in precedenza". "Inderogabili esigenze del
contraddittorio e della difesa - hanno precisato le Sezioni Unite - sono d'ostacolo a che possa
porsi a base della nuova domanda di risoluzione un fatto costitutivo, materialmente diverso
da quello su cui sia stata fondata la domanda originaria d'adempimento, non essendo, cioè,
permesso di dedurre, quale causa petendi della domanda di risoluzione, inadempimenti nuovi
e diversi da quelli in base ai quali sia stata prima richiesta la prestazione pattuita".
8. - Ritengono le Sezioni Unite che l'interpretazione estensiva, oltre a non essere
incompatibile con il dato letterale dell'art. 1453 c.c., comma 2, ne coglie le ragioni e l'intima
ratio e al tempo stesso assicura la finalità di concentrazione e pienezza della tutela che la
disposizione del codice ha inteso perseguire: tale lettura, infatti, offrendo al contraente non
inadempiente la possibilità di spingere la pretesa alle naturali conseguenze sul piano
restitutorio e risarcitorio, consente di realizzare, nell'ambito dello stesso processo, il
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completamento sul piano giuridico ed economico degli effetti che si ricollegano allo
scioglimento del contratto.
8.1. - Dal punto di vista letterale, l'art. 1453 c.c., comma 2, disciplina l'ipotesi tipica, del
passaggio dall'azione di esecuzione del contratto a quella di risoluzione dello stesso per il
persistere dell'inadempimento della controparte. Si tratta di una disciplina dettata senza
pretesa di completezza, la quale, lasciando all'interprete il compito di completare il dettaglio
della trama normativa per le fattispecie non e-spressamente regolate, non esclude che, in
occasione dell'esercizio dello ius variandi, vi si affianchino quelle pretese che hanno una
funzione complementare rispetto al rimedio base.
Del resto, il primo comma dello stesso articolo, nel fare "salvo, in ogni caso, il risarcimento
del danno", configura come possibile il cumulo tra la domanda rivolta ad ottenere lo
scioglimento del contratto e l'azione risarcitoria per la riparazione del pregiudizio economico
del creditore insoddisfatto, delineando un modello di tutela unitario risultante dall'operare
combinato dei due rimedi, con l'azione di danno che può accompagnarsi tanto all'azione di
adempimento quanto alla domanda di risoluzione.
Mentre l'azione di adempimento e quella di risoluzione danno luogo ad un concorso
alternativo di rimedi, in parte tra loro surrogabili, con il solo limite della seconda parte del
secondo comma (posto che "non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata
la risoluzione"), la domanda di risarcimento può, a scelta dell'interessato, essere proposta
insieme con quella di adempimento o di risoluzione.
La lettera della norma del codice non impedisce, pertanto, di considerare che
l'accoppiamento dei due rimedi (risoluzione del contratto e risarcimento del danno) possa
aversi, non solo quando il contraente in regola abbia puntato, sin dall'inizio, alla
cancellazione degli effetti del contratto, ma anche quando questi, dopo una citazione con
domanda di condanna ad adempiere, abbia abbandonato il rimedio attuativo del contratto e
sia passato ad una domanda rivolta ad eliminarne gli effetti.
8.2. - A questa soluzione conduce un'interpretazione sistematica, orientata dalla ratio dello
ius variandi.
L'interesse del contraente deluso che domanda la risoluzione non è soltanto quello di ottenere
lo scioglimento del vincolo contrattuale per un difetto funzionale sopravvenuto, di eliminare
cioè il regolamento contrattuale in quanto fonte di prestazioni corrispettive e di essere in tal
guisa liberato dalla prestazione su di lui gravante. Di fronte alla violazione dell'obbligazione
contrattuale, pattuita in corrispettivo di una prestazione ancora da eseguire, al contraente
non inadempiente basta opporre l'eccezione al fine di non dovere prestare a chi si sia reso
inadempiente, secondo quanto disposto dall'art. 1460 c.c., (inadimplenti non est
adimplendum).
All'iniziativa risolutoria il contraente in regola è stimolato a rivolgersi anche per un interesse
che va al di là della mera cancellazione del sinallagma: per conseguire la restituzione della
propria prestazione, ove già eseguita, e per ottenere la riparazione del pregiudizio che abbia
eventualmente sofferto a causa dello scioglimento del rapporto.
Precludere a chi in prima battuta abbia chiesto in giudizio la condanna della controparte
all'adempimento e si sia poi rivolto alla tutela risolutoria, di azionare, nell'ambito dello stesso
giudizio in cui ha esercitato la facoltà di mutamento, la tutela complementare restitutoria e
risarcitoria, vanificherebbe la finalità di concentrazione che il codice civile ha inteso
perseguire accordando al contraente in regola lo ius variandi nel corso di uno stesso ed unico
giudizio. La vittima dell'inadempimento, infatti, per procurarsi il risultato ripristinato rio
della risoluzione, con la restituzione della prestazione eseguita e dei suoi accessori, e per
rimuovere le differenze tra la situazione in cui si sarebbe trovato in caso di integrale
attuazione del contratto e la situazione conseguente allo scioglimento del vincolo, sarebbe
costretta ad intraprendere un nuovo e separato processo, con la frammentazione delle
istanze giurisdizionali e l'allungamento dei tempi complessivi necessari ad ottenere l'integrale
soddisfazione delle proprie ragioni. E ciò nonostante, da un lato, le restituzioni rappresentino
il logico corollario dello scioglimento ex tunc del contratto (la risoluzione provocando il venir
meno della giustificazione causale delle prestazioni eseguite), e dall'altra il risarcimento del
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danno scaturente dalla rimozione del contratto rinvenga la propria origine proprio
nell'inadempimento della controparte agli obblighi contrattuali assunti e miri a far ottenere al
risolvente un assetto economico equivalente a quello che gli avrebbe assicurato lo scambio
fallito.
La ratio dello ius variandi - offrire giusta protezione all'interesse dell'attore vittima
dell'inadempimento, specie di fronte al comportamento del debitore convenuto in giudizio,
che permane inattivo nonostante sia stato sollecitato a eseguire la prestazione - richiede che,
in occasione del (e contestualmente al) mutamento della domanda di adempimento in quella
di risoluzione del contratto, sia ammessa l'introduzione della domanda restitutoria e della
richiesta di danni da risoluzione, data la funzione complementare che l'una e l'altra svolgono
rispetto al rimedio diretto ad ottenere la rimozione degli effetti del sinallagma.
9. - A questa soluzione non sono di ostacolo nè la circostanza che la norma dell'art. 1453,
secondo comma, cod. civ., in quanto recante una disciplina di deroga rispetto a quella sancita
dal codice di rito in tema di preclusioni processuali, dovrebbe formare oggetto di stretta
interpretazione, stante il principio generale di divieto di nova, che non consente
l'ampliamento successivo del thema decidendi;
nè il rilievo che la pretesa risarcitoria è non solo nuova per petitum e causa petendi rispetto
alla domanda iniziale di adempimento o a quella, risultante dalla mutatio, di risoluzione, ma
anche - a differenza della domanda restitutoria - non consequenziale a quella di risoluzione
del contratto.
9.1. - Innanzitutto occorre rilevare che già nel passaggio, espressamente regolato dal codice
civile, dall'adempimento alla risoluzione, l'indagine si allarga, dovendo questa essere diretta
all'acquisizione di dati ulteriori che potrebbero mancare in quel processo, non essendo di per
sè necessari ai fini nel giudizio promosso per ottenere l'adempimento.
Per chiedere la condanna all'esecuzione, è sufficiente che il contratto risulti inadempiuto,
senza bisogno di una particolare qualificazione dell'inadempimento. Invece, la risoluzione del
contratto ha presupposti più rigidi, occorrendo un certo livello di gravità: presupposto
basilare per conseguire la risoluzione giudiziale del contratto è che "l'inadempimento di una
delle parti sia di non scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse dell'altra" (art. 1455
c.c.).
D'altra parte, se l'attore non può allegare a fondamento della successiva domanda di
risoluzione un distinto fatto costitutivo, cioè un inadempimento diverso da quello posto a
base della pretesa originaria e già verificatosi. all'atto della introduzione di quest'ultima (Sez.
Un. 18 febbraio 1989, n. 962, cit.), è ben possibile la deduzione, da parte sua, dei fatti
sopravvenuti che, rendendo irreversibile l'inattuazione del sinallagma negoziale, orientano e
inducono la parte, di fronte agli sviluppi successivi alla proposizione della domanda iniziale,
ad avvalersi dello ius variandi.
9.2. - E' poi senz'altro esatto che soltanto la domanda di restituzione, e non anche la
domanda di risarcimento del danno, è propriamente accessoria alla domanda di risoluzione.
Soltanto la prima, infatti, pur essendo autonoma nell'oggetto (petitum), costituisce un effetto
legale dello scioglimento del sinallagma contrattuale, avendo il proprio titolo immediato
nell'effetto giuridico (recuperatorio ex tunc delle prestazioni eseguite) che forma oggetto
della domanda principale di risoluzione.
Questo rapporto di consequenzialità logico-giuridica manca con riguardo all'azione
risarcitoria, la quale non solo non presuppone il necessario esperimento dell'azione di
risoluzione del contratto, ma neppure, a maggior ragione, il suo accoglimento (Sez. 3^ 10
giugno 1998, n. 5774; Sez. 3^ 23 luglio 2002, n. 10741; Sez. 1^ 27 ottobre 2006, n. 23273).
E tuttavia, la qualificazione concettuale non è dirimente nel caso in esame.
In primo luogo perchè anche la tutela restitutoria (per la quale occorre una autonoma
domanda, nonostante l'obbligo di restituzione della prestazione ricevuta costituisca un effetto
naturale della risoluzione del contratto: Sez. 2^ 2 febbraio 2009, n. 2562; Sez. 3^ 29 gennaio
2013, n. 2075) può, talvolta, esigere l'acquisizione di dati che non sono disponibili nel giudizio
che sia stato promosso per ottenere la condanna all'esecuzione: basti pensare alla eventualità
della conversione della restituzione in natura in restituzione (in tutto o in parte) per
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equivalente, che si ha quando il venir meno della causa solvendi riguardi una cosa perita o
deteriorata, giacchè in tal caso occorrerà accertarne il valore o la diminuzione di valore (cfr.
art. 2037 c.c.).
In secondo luogo perchè la tutela risarcitoria, quantunque non legata da un rapporto di
consequenzialità logico-giuridica alla domanda di risoluzione, concorre nondimeno ad
integrare e a completare le difese del contraente in regola, costituendo un coelemento, un
tassello di un sistema complessivo di tutela, affidato - proprio nell'impianto della stessa
disposizione che contempla lo ius variarteli - all'azione combinata di più domande: sistema
nel quale, con l'affiancamento alla risoluzione della pretesa risarcitoria, si offre alla parte
non inadempiente la soddisfazione del suo interesse a guardare al negozio, i cui effetti
vengono eliminati grazie alla risoluzione, come fonte anche di un determinato assetto
quantitativo del suo patrimonio.
L'art. 1453 c.c., comma 2, infatti, proprio nel suo carattere processuale, ha la funzione di
recare non solo la disciplina generale dell'azione di risoluzione, ma anche dei suoi rapporti
con le altre azioni poste comunque a tutela del contraente non inadempiente, mirando ad
attuare, nello specifico contesto del rapporto contrattuale con prestazioni corrispettive
litigioso, il principio di economia del e nel processo, consentendo alla vittima
dell'inadempimento di evitare il promovimento di un'ulteriore controversia attraverso lo
sfruttamento più razionale ed intensivo delle risorse del giudizio già promosso, che è e
diventa la sede idonea anche per dispiegarvi la richiesta di tutela complementare.
9.3. - In questa prospettiva, neppure appare logico circoscrivere la possibilità per il
contraente fedele di introdurre la pretesa risarcitoria in occasione della mutatio libelli al solo
caso in cui questi avesse già proposto sin dall'origine la domanda di danni, affiancandola a
quella di adempimento. Una tale soluzione non tiene conto del fatto che anche in tale
evenienza, pur essendo la domanda risarcitoria presente sin dall'inizio nel processo, il tema
d'indagine è destinato comunque a variare con il passaggio al rimedio ablativo: posto che
quando la richiesta di risarcimento si accoppia alla domanda di adempimento, il danno da
risarcire è equivalente alla differenza tra un'esatta o tempestiva esecuzione del contratto e
un'esecuzione inesatta o tardiva ma fermo restando il contratto, mentre il danno scaturente
dalla rimozione degli effetti del contratto è pari alla differenza tra la situazione scaturita dal
fallimento della vicenda contrattuale ed il vantaggio che il contratto autorizzava a ritrarre
(cfr. Sez. 2^ 24 maggio 1978, n. 2599; Sez. 3^ 7 maggio 1982, n. 2850; Sez. Un. 25 luglio
1994, n. 6938; Sez. 2^ 7 febbraio 1998, n. 1298; Sez. 2^ 30 agosto 2012, n. 14714).
10. - La proposizione nel corso del giudizio di merito, anche quando siano calate le ordinarie
preclusioni di cui all'art. 183 c.p.c., della domanda risarcitoria affiancata al rimedio
risolutorio, comporta certamente un ampliamento dell'oggetto del giudizio (che
dall'inadempimento grave si allarga al pregiudizio sofferto e all'entità dei danni) e,
conseguentemente, del thema probandum: di qui la necessità che al contraente in regola sia
accordata la possibilità dimostrare i fatti costitutivi della pretesa risarcito- ria, e, parimenti e
corrispondentemente, che all'altra parte sìa consentito di difendersi, replicando alla domanda
nuova, proponendo le eccezioni che sono conseguenza della stessa e provando eventuali fatti
impeditivi, estintivi o modificativi del diritto al risarcimento fatto valere.
Si è tuttavia al di fuori dell'operatività del regime delle preclusioni. Queste tendono ad
impedire il comportamento dilatorio delle parti, imponendo loro di allegare all'inizio del
processo tutto ciò di cui sono già in possesso per far valere le loro ragioni. Ma poichè qui è il
codice civile che consente, per ragioni di effettività e concentrazione della tutela, di far
valere, contestualmente al mutamento della domanda di adempimento in quella di
risoluzione del contratto inadempiuto, la pretesa risarcitoria, il regime di preclusioni non è di
ostacolo nè alla possibilità dell'introduzione del nuovo tema di indagine, nè al pieno
dispiegarsi, su di esso, del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio in condizioni di
parità.
Non si pone neppure un problema di rimessione in termini, venendo piuttosto in gioco il
doveroso esercizio dei poteri di direzione del processo da parte del giudice per rendere
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possibile l'esercizio del diritto in sede giuri-sdizionale nel rispetto dei principi del giusto
processo.
E' la domanda nuova che pone l'esigenza di allegazioni, controallegazioni, eccezioni,
deduzioni e controdeduzioni istruttorie: sicchè queste attività processuali debbono essere
consentite, non già per provvedimento discrezionale del giudice, ma per garanzia del diritto
di azione e di difesa e del giusto processo.
11. - L'ordinamento, del resto, conosce altre ipotesi nelle quali il divieto di nova è derogato al
fine di evitare la moltiplicazione dei giudizi in relazione alla medesima fattispecie.
11.1. - Nel settore tradizionale delle azioni a difesa della proprietà, la rivendicazione può
essere proseguita anche contro chi, dopo la domanda, dolo desiit possidere, e, in caso di
impossibilità di attuare la tutela restitutoria in natura, è possibile "trasformare" la domanda
in una "diversa" causa, eventualmente mirante anche al risarcimento del danno, su specifica
richiesta del proprietario (art. 948, primo comma, cod. civ.).
11.2. - Nel campo del diritto delle società per azioni, l'art. 2378 c.c., comma 2, nel testo
conseguente alla riforma operata dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, preclude l'annullamento
della delibera societaria impugnata se nel corso del processo venga meno nel socio o nei soci
opponenti la quota azionaria minima per potere essere legittimati all'impugnazione, ma fa
espressamente salvo in tal caso il diritto a pretendere il risarcimento del danno, per ciò
stesso evidentemente consentendo che siffatta domanda possa essere introdotta durante il
giudizio.
11.3. - Sebbene nel giudizio d'appello non possano proporsi domande nuove, l'art. 345 c.p.c.,
non si limita a porre tale divieto, ma accorda la possibilità di domandare, tra l'altro, il
risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza impugnata. Possono così trovare ingresso
nuovi temi d'indagine: dandosi alla vittima di lesioni personali la possibilità di domandare nel
giudizio di appello, senza violare il divieto di ius novorum, sia il risarcimento dei danni
derivanti dalle lesioni, ma manifestatisi dopo la sentenza di primo grado, sia il risarcimento
dei danni la cui esistenza, pur precedente alla sentenza impugnata, non poteva essere
rilevata con l'uso dell'ordinaria diligenza (Sez. 3^ 31 marzo 2008, n. 8292);
consentendosi - "atteso che la ratio della norma è quella di evitare il frazionamento dei
giudizi" - di chiedere "nel corso del giudizio di appello, e sino alla precisazione delle
conclusioni" "i danni riconducibili alla causa già dedotta in primo grado", ma "manifestatisi
successivamente all'inizio della controversia" (Sez. 3^ 15 marzo 2006, n. 5678); affermandosi
in generale che "nel giudizio di risarcimento del danno è consentito all'attore chiedere per la
prima volta in appello il risarcimento degli ulteriori danni, provocati dal medesimo illecito,
manifestatisi solo in corso di causa" (Sez. 3^ 18 aprile 2013, n. 9453). Al fondo di questo
orientamento vi è, ancora una volta, la consapevolezza che "sarebbe irrazionale costringere
l'attore a promuove successivi giudizi per far valere il progressivo ampliarsi del danno, in
presenza di un comportamento dannoso in atto al momento della domanda o di un evento
dannoso che non ha ancora esaurito i suoi effetti" (Sez. 3^ 10 novembre 2003, n. 16819).
12. - A composizione del contrasto di giurisprudenza, va pertanto enunciato il seguente
principio di diritto: "La parte che, ai sensi dell'art. 1453 c.c., comma 2, chieda la risoluzione
del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere
l'adempimento, può domandare, contestualmente all'esercizio dello ius variarteli, oltre alla
restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla
cessazione degli effetti del regolamento negoziale".
13. - Il ricorso contiene altri due motivi.
Con il quarto mezzo, infatti, la ricorrente censura violazione e falsa applicazione degli artt.
2935 e 2946 c.c., sul rilievo che la sentenza impugnata avrebbe dovuto accogliere l'eccezione
di prescrizione, giacchè il diritto al risarcimento del danno poteva essere esercitato sin dal
1994.
Il quinto motivo, a sua volta, denuncia contraddittorietà delle diverse statuizioni
dell'impugnata sentenza, illogicità della motivazione relativa all'ammontare del danno e
violazione degli artt. 1218 e 1223 c.c.. Sarebbe in primo luogo contraddittoria la statuizione
di risolvere i contratti di cui è causa, risalenti agli anni 1992, 1993 e 1995, e poi fare
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riferimento ai valori dell'anno 2008 per determinare il quantum del risarcimento. Avrebbe poi
errato la sentenza impugnata a ritenere l'ammontare del danno equivalente ai valori di
mercato del materiale scavato, dovendosi calcolare anche i costi effettivi che Beton Candeo o
la sua dante causa avrebbero sopportato nel 1994 con riferimento sia agli oneri per
l'escavazione che a quelli relativi alle spese generali. Il profitto, infine, non poteva essere
tout court pari ai prezzi di mercato, giacchè Beton Candeo avrebbe dovuto dimostrare il
prezzo di vendita a quella data praticato nei confronti degli altri clienti.
Ai sensi dell'art. 142 disp. att. c.p.c., la causa va rimessa alla Seconda Sezione per la
decisione, con separata sentenza, di questi ulteriori motivi.
P.Q.M.
La Corte così provvede:
- rigetta il primo motivo di ricorso;
- dichiara inammissibile il terzo motivo di ricorso;
- rigetta il secondo motivo di ricorso ed enuncia il seguente principio di diritto: "La parte che,
ai sensi dell'art. 1453 c.c., comma 2, chieda la risoluzione del contratto per inadempimento
nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l'adempimento, può domandare,
contestualmente all'esercizio dello ius variandi, oltre alla restituzione della prestazione
eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del
regolamento negoziale";
- rimette la causa alla Seconda Sezione civile per la decisione, con separata sentenza, degli
ulteriori motivi.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 25 marzo 2014.
Depositato in Cancelleria il 11 aprile 2014
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18) COMPRAVENDITA SIMULATA PER
INTERPOSIZIONE FITTIZIA DELL’ACQUIRENTE:
L’ALIENANTE È SEMPRE LITISCONSORTE
NECESSARIO?
Nella simulazione relativa della compravendita per interposizione fittizia dell'acquirente,
l'alienante non è litisconsorte necessario, se nei suoi riguardi il negozio è stato
integralmente eseguito e manca ogni suo interesse a essere parte nel giudizio.
Cassazione, Sezioni Unite, 14 maggio 2013, n. 11523
(Pres. Vittoria – est. Petitti)
M.A.M. , con citazione notificata nel febbraio 1997, proponeva un'azione di simulazione
relativa, e di dichiarazione di validità del contratto dissimulato, nei confronti della società
Etablissement Coba-yard, relativa alla compravendita di un complesso immobiliare,
denominato (omissis) intercorsa tra gli eredi di P..G. , in qualità di venditori, e la società
convenuta, la quale avrebbe assunto la qualità di acquirente per interposizione di persona,
essendo l'effettivo titolare del diritto di proprietà l'attore medesimo. Alla compravendita, in
sede di rogito avevano partecipato R..S. , in qualità di procuratore speciale della società, e
G.P..Z. , in qualità di procuratore degli eredi di P..G. .
L'attore deduceva altresì che R..S. aveva agito in nome della società che gli aveva conferito la
procura e per conto di esso attore, nei confronti del quale era vincolato da un mandato
fiduciario per il quale era stata prevista una remunerazione pari a 200.000 dollari USA. Aveva
inoltre rilasciato, in nome e per conto della società interposta, una dichiarazione, reiterata
nel corso degli anni, di titolarità del diritto di proprietà in capo all'attore, ma non aveva mai
consegnato a quest'ultimo il founder certificate che avrebbe comprovato l'avvenuta
simulazione.
Assumendo, quindi, che aveva constatato che il mandatario aveva mutato destinazione al
complesso immobiliare e l'aveva trasformato in un albergo di lusso, concesso in locazione alla
s.r.l. La Posta Vecchia, spogliandolo così del possesso e del godimento dell'immobile, M..M.A.
proponeva domanda di risarcimento dei danni nei confronti del mandatario, S.R. , per
violazione del pactum fiduciae ed inadempimento degli obblighi derivanti dal mandato
fiduciario, nonché domanda di nullità o risoluzione del contratto di locazione nei confronti
della s.r.l. la Posta Vecchia.
Il Tribunale di Roma, con sentenza depositata il 21 marzo 2001, dichiarava l'estinzione del
giudizio per mancata integrazione del contraddittorio nel termine perentorio fissato dal
giudice, nei confronti degli eredi di P..G. , in ordine alle domande di accertamento della
simulazione relativa soggettiva, per interposizione fittizia del predetto atto di
compravendita, nonché della nullità e risoluzione del contratto di locazione con la s.r.l. la
Posta Vecchia; rigettava, invece, per difetto di prova, la domanda risarcitoria nei confronti di
R..S. , rimasto contumace in primo grado.
Impugnata la pronuncia dalla parte attrice, la Corte d'appello di Roma, con sentenza
depositata in data 8 settembre 2005, rigettava tutte le domande dell'attore, confermando il
difetto d'integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi di P..G. , quanto alla
domanda di simulazione, e decretando il passaggio in giudicato del rigetto della domanda
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risarcitoria azionata nei confronti di R..S. per inesistenza della notificazione dell'atto di
appello.
La Corte d'appello, in ordine alla domanda di simulazione relativa affermava che: a) la
notifica al procuratore degli eredi di G.P. , effettuata in primo grado, in adempimento
all'ordine d'integrazione del contraddittorio, era radicalmente invalida perché non era stata
provata né l'attualità della qualità di rappresentante del predetto procuratore né la natura
generale della procura ad esso rilasciata; b) la deduzione difensiva dell'appellante, relativa
alla non necessità della notifica della domanda di simulazione relativa agli eredi di P..G. , per
difetto d'interesse, essendo finalizzata l'azione esclusivamente alla sostituzione della parte
acquirente, doveva ritenersi superata "dalla constatata inesistenza della notifica dell'appello
allo S. , che era indubitabilmente parte necessaria rispetto alle domande di accertamento
della simulazione relativa".
In ordine alla domanda risarcitoria e di nullità e risoluzione del contratto di locazione con la
s.r.l. La Posta Vecchia, la Corte territoriale affermava che la notificazione dell'atto d'appello
nei confronti di R..S. , era inesistente in quanto effettuata presso l'Albergo (OMISSIS) , (sede
legale dell'omonima società) ove era stata ricevuta da un "delegato" la notifica dell'atto di
citazione relativo al primo grado di giudizio, ma nel quale, secondo la dichiarazione del
Direttore dell'albergo, lo S. era presente solo saltuariamente in qualità di ospite; da qui la
conseguenza che doveva ritenersi mancante qualunque relazione stabile della parte con tale
luogo. Per questa ragione la Corte riteneva non suscettibile di rinnovazione la notifica, con
conseguente passaggio in giudicato della statuizione di rigetto affermata in primo grado.
Per la cassazione di questa sentenza, M.A.M. proponeva ricorso per cassazione sulla base di
tre motivi; hanno resistito, con distinti controricorsi, Etablissement Cobayard e La Posta
Vecchia s.r.l., nonché S.R. , il quale proponeva altresì ricorso incidentale condizionato,
affidato ad un motivo.
Il ricorrente principale resisteva, con controricorso, al ricorso incidentale.
La trattazione dei ricorsi veniva fissata, dapprima, per l'udienza del 9 febbraio 2011, in vista
della quale depositavano memoria il ricorrente principale ed Etablissement Cobayard, e,
quindi, per l'udienza dell'11 maggio 2011, all'esito della quale i ricorsi sono stati rimessi al
Primo Presidente per la eventuale assegnazione a queste Sezioni Unite.
Motivi della decisione
1. Deve preliminarmente essere disposta la riunione del ricorso principale e di quello
incidentale, aventi ad oggetto la medesima pronuncia (art. 335 cod. proc. civ.).
2. Con il primo motivo del ricorso principale, M.A.M. denuncia violazione e/o falsa
applicazione degli artt. 102, 31 e 331 cod. proc. civ., nonché omessa ed errata motivazione in
ordine alla affermata inesistenza della notificazione dell'appello a R..S. e al conseguente
passaggio in giudicato della domanda di risarcimento del danno proposta nei suoi confronti.
Il ricorrente sottolinea la palese erroneità della pronuncia di secondo grado in ordine
all'inesistenza della notifica dell'atto d'appello nei confronti di R..S. ed il conseguente rigetto
della richiesta di rinnovazione dell'incombente. Quanto all'inesistenza fa presente che il luogo
della notifica non poteva essere qualificato come privo di qualsiasi collegamento o
riferimento con la parte, in quanto, oltre al buon fine della notifica ivi effettuata dell'atto di
citazione in primo grado, risultava per tabulas che quest'ultimo fosse stato presidente della
s.r.l. La Posta Vecchia e socio della stessa società dal 1994. Quanto al rigetto della richiesta
di rinnovazione, il ricorrente sottolinea l'integrale erroneità della motivazione, stante la
configurabilità della posizione dello S. in termini di litisconsorte necessario, quanto meno
processuale. La domanda relativa all'inadempimento del pactum fiduciae costituisce, infatti,
il presupposto logico e giuridico di quella di simulazione. Sarebbe dunque erronea, secondo il
ricorrente, la configurazione di due distinti rapporti, il mandato fiduciario e l'interposizione
fittizia, perché il rapporto avrebbe dovuto, in realtà, essere considerato unico ed instaurato
esclusivamente tra A. e S. , quest'ultimo in proprio e in qualità di procuratore della società
Cobajard, rapporto che si era concretizzato in una interposizione reale.
Dall'inadempimento del mandato fiduciario erano poi derivate necessariamente le domande di
simulazione e di nullità e risoluzione del contratto di locazione, in quanto l'accertamento del
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primo avrebbe determinato conseguenze dirette sulla sfera giuridico-patrimoniale delle altre
parti convenute costituite.
3. Con il secondo motivo, parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt.
100, 160, 307, 291 e 331 cod. proc. civ., nonché omessa ed errata motivazione quanto alla
estinzione parziale del giudizio per mancanza di valida integrazione del contraddittorio nei
confronti degli eredi di P..G. .
In primo luogo il ricorrente evidenzia l'assoluta estraneità degli eredi di P..G. rispetto alla
violazione del pactum fiduciae contratto con R..S. , in proprio e in qualità di procuratore
speciale della società Etablissment, al fine di far conseguire ad esso ricorrente la proprietà
del complesso immobiliare 'La Posta Vecchia'. Su questo aspetto la motivazione della sentenza
della Corte d'Appello sarebbe del tutto lacunosa e generica perché non avrebbe spiegato, in
concreto, le ragioni della necessità del litisconsorzio con gli eredi G. . In secondo luogo, il
ricorrente sottolinea la contraddittorietà evidente della motivazione che, per un verso,
avrebbe ritenuto distinti i rapporti e le fattispecie relative al mandato fiduciario e
all'interposizione di persona e, dall'altro, avrebbe invece ritenuto che la partecipazione al
giudizio di S.R. fosse necessaria e che, conseguentemente, la inesistenza della notificazione
della citazione dell'atto di appello avrebbe assorbito la questione dell'interesse ad agire e
della necessità del litisconsorzio con gli eredi di P..G. . In terzo luogo il ricorrente principale
evidenza come sia del tutto mancato, fin dal primo grado di giudizio, l'accertamento in ordine
alla sussistenza di un concreto interesse ad agire degli eredi G. .
Con riferimento alla affermata inesistenza della notifica effettuata a G.P..Z. , in qualità di
procuratore speciale dei predetti eredi G. , il ricorrente sostiene che tale notificazione
poteva essere inficiata esclusivamente d'invalidità ma non d'inesistenza, in quanto lo Z. aveva
accettato la notifica ed era, in precedenza, intervenuto in qualità di procuratore speciale dei
venditori nel rogito. Ne sarebbe dovuto conseguire, ai sensi degli art. 160 e 291 cod. proc.
civ., l'ordine di rinnovazione della notifica medesima.
4. Con il terzo motivo, il ricorrente principale svolge argomentazioni “sul pactum fiduciae
intervenuto tra il ricorrente ed il Sig. S. , in proprio ed in qualità di procuratore della
Cobayard e sulla conseguente inammissibilità ovvero infondatezza ovvero inconferenza
dell'eccezioni svolte dalle controparti nei precedenti gradi di giudizio”.
Il ricorrente ripropone quindi le deduzioni relative al merito della causa.
4.1. Il pactum fiduciae stipulato tra il ricorrente e S.R. aveva ad oggetto l'obbligo della
società Etablissement Cobajard di stipulare in nome proprio e per conto del ricorrente
medesimo il contratto di compravendita simulato. Per questa ragione era stato corrisposto un
compenso a R..S. e il prezzo della compravendita da parte del ricorrente, come da
documentazione bancaria in atti. L'effettiva natura del rapporto, documentalmente
comprovata non aveva potuto formare oggetto dei giudizi pregressi. L'esistenza di un pactum
fiduciae era inoltre dimostrata dal fatto che nella procura rilasciata a S. dalla società
convenuta non si rinveniva alcun riferimento alla provvista necessaria per acquistare
l'immobile, né la società aveva mai allegato e dedotto alcunché al riguardo.
4.2. Inammissibilità ed infondatezza dell'eccezione di usucapione decennale prospettata dalla
convenuta società Etablissement Cobajard. Al riguardo il ricorrente osserva l'inapplicabilità
della disciplina in quanto fondata sull'acquisto a non domino mentre nel caso di specie la
parte alienante era l'effettiva titolare del diritto di proprietà sul complesso immobiliare.
Inoltre la società convenuta, con tale eccezione, aveva riconosciuto la validità del
trasferimento e la finalità della procura rilasciata a R..S. come destinata al predetto
trasferimento. Non era, conseguentemente verosimile che la società rappresentata non fosse
al corrente del mandato fiduciario tra R..S. e il ricorrente, atteso che nulla era stato da essa
dedotto, pur essendosi professata acquirente dell'immobile, in ordine alla provvista
necessaria all'acquisto, di agevole documentazione. Peraltro, dell'interposizione fittizia vi era
riscontro documentale nella comunicazione del 4 aprile 1990 proveniente da S.R. e diretta al
ricorrente, con la quale si confermava espressamente la proprietà in capo al ricorrente
dell'immobile in questione.
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4.3. Quanto alla eccezione di prescrizione del diritto azionato, il ricorrente rileva che la
domanda proposta riguardava l'accertamento del suo diritto di proprietà sull'immobile in
oggetto, e come tale era imprescrittibile.
4.4. Quanto alla eccezione relativa alla mancanza di una controdichiarazione trilaterale in
forma scritta che attestasse l'interposizione fittizia, il ricorrente sostiene che l'attestazione
era ricavabile dalla dichiarazione che il procuratore della società Cobajard, R..S. , aveva
rilasciato al ricorrente in ordine al suo diritto di proprietà sull'immobile. La validità ed
efficacia di tale dichiarazione non era inficiata dalla mancata partecipazione del venditore in
quanto ciò che rilevava era la sua provenienza dalla parte contro il cui interesse essa poteva
essere opposta.
4.5. Quanto alla non configurabilità dell'interposizione reale, fondata sull'assenza di un
pactum fiduciae scritto tra la società convenuta e R..S. nonché tra quest'ultimo e il
ricorrente, quest'ultimo rileva che la dichiarazione del 1981, più volte richiamata, attestava
l'esistenza di tale patto; con la precisazione che, peraltro, non ne era necessaria la forma
scritta come invece per il negozio traslativo.
4.6. Quanto, infine, alla nullità del contratto di locazione e alla eccepita prescrizione del
relativo diritto, il ricorrente sostiene che le difese della società La Posta Vecchia, volte a
sottolineare l'interesse del ricorrente alla destinazione alberghiera dell'immobile e la
necessità d'ingenti spese, confermavano la titolarità del diritto di proprietà in capo ad esso.
5. Con il proprio ricorso incidentale condizionato, affidato ad un motivo, R..S. , per il caso di
accoglimento del primo motivo del ricorso principale, denuncia violazione degli artt. 138 e
ss., 159, 160, 180, 291, 354, primo comma, cod. proc. civ., deducendo la nullità della
citazione di primo grado, con conseguente nullità del procedimento e della sentenza.
6. Il primo motivo del ricorso principale è fondato.
La Corte d'appello ha rilevato la inesistenza della notificazione dell'atto di appello nei
confronti dello S. sulla base del rilievo che questi “non è stato raggiunto da regolare notifica,
in quanto il direttore dell'Albergo (OMISSIS) (luogo in cui in primo grado un delegato aveva
ritirato la citazione) ha affermato la sua saltuaria presenza in loco, in qualità di ospite: non
essendo provato alcun nesso (intendendo con questo una qualunque relazione stabile e
predeterminata) tra lo S. stesso ed il luogo ove è stata tentata la notifica, questa deve
ritenersi inesistente e quindi non suscettibile di rinnovazione”.
Tale motivazione non resiste alle critiche rivolte dal ricorrente principale.
6.1. In primo luogo, invero, deve dubitarsi della esattezza dell'affermazione secondo cui la
notificazione dell'atto di appello tentata nei confronti della parte rimasta contumace in primo
grado nel medesimo luogo in cui era stata eseguita ritualmente la notificazione della
citazione introduttiva del giudizio, possa essere considerata inesistente, stante l'assenza di un
qualsivoglia collegamento tra il destinatario della notificazione e il luogo di esecuzione della
stessa, e quindi insuscettibile di rinnovazione ai sensi dell'art. 291 cod. proc. civ..
6.1.1. Il rilievo impone l'immediato esame del ricorso incidentale condizionato proposto da
S.R. , con il quale si pone in discussione proprio la validità della notificazione di primo grado
eseguita presso l'Albergo (OMISSIS) .
Il motivo è inammissibile.
In proposito, è sufficiente rilevare che la sentenza di primo grado, all'esame della quale il
Collegio può procedere essendo denunciato un error in procedendo, ha accertato la ritualità
della notificazione della citazione, effettuata al domicilio del convenuto in (OMISSIS) con
ricezione dell'atto da parte di persona qualificatasi come 'delegato'. La mancata
contestazione, sotto qualsiasi profilo, della sussistenza del rapporto di delega indicato nella
sentenza di primo grado ai fini dell'accertamento della ritualità della notificazione, rende la
relativa affermazione insuscettibile di diverso apprezzamento, non essendo sufficiente la
contestazione della consegna in luogo diverso da quelli di cui all'art. 139 cod. proc. civ.. Del
resto, ove si consideri che il ricorrente incidentale è tuttora legale rappresentante della La
Posta Vecchia s.r.l., come si desume dalla procura a margine del controricorso proposto da
detta società (e tale riferimento è di per sé sufficiente al fine di rigettare le eccezioni di
inammissibilità della documentazione inserita in proposito in ricorso, formulate sia dal
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ricorrente incidentale che dalla controricorrente Etablissement Cobajard), e che la notifica è
avvenuta presso i locali di (OMISSIS) , e cioè presso la struttura alberghiera, appare evidente,
da un lato, la riferibilità del luogo della esecuzione della notificazione al convenuto, e,
dall'altro, la necessità che questi aveva, onde eccepire la nullità della notificazione - anche in
questa sede, ove si volesse ipotizzare la mancata consegna, da parte del delegato, del plico
contenente l'atto di citazione e quindi la mancata conoscenza del giudizio sia di primo grado
che di appello - di contestare specificamente la sussistenza del rapporto sulla base del quale
il Tribunale ha ritenuto valida la notificazione dell'atto di citazione.
Ma di una siffatta deduzione specifica non vi è traccia nel ricorso incidentale, essendosi il
ricorrente incidentale limitato a desumere la nullità della notificazione della citazione di
primo grado dalla non riferibilità del luogo di esecuzione, senza nulla dedurre in ordine alla
sussistenza del rapporto indicato e alla estraneità del soggetto cui l'atto era stato consegnato.
6.2. Ma la sentenza impugnata presta il fianco anche alla seconda critica svolta dal ricorrente
principale.
La Corte d'appello ha infatti escluso la possibilità di concedere un nuovo termine per la
notificazione della citazione in appello nei confronti di S.R. , sul rilievo che la stessa fosse
inesistente e non nulla. Nell'esaminare il secondo motivo di gravame, la Corte d'appello ha
tuttavia rilevato che la questione della sussistenza o no di una situazione di litisconsorzio
necessario rispetto alla domanda di accertamento della simulazione relativa con
interposizione fittizia di persona restava superata dalla “constatata inesistenza della notifica
dell'appello allo S. che era indubitabilmente parte necessaria rispetto alle domande di
accertamento della simulazione di cui sopra”.
Così accertata la situazione processuale, la Corte d'appello non avrebbe giammai potuto
rigettare l'istanza proposta dalla difesa dell'appellante di concessione di un termine per la
rinnovazione della notificazione dell'atto di appello allo S. . E ciò alla luce del principio,
affermato da questa Corte, che il Collegio condivide, secondo cui “quando più soggetti
vengano chiamati congiuntamente in giudizio, da altri soggetti o iussu iudicis, e vi partecipino
poi attivamente costituendosi, oppure lo subiscano rimanendo contumaci, si determina, in
ogni caso, una situazione di litisconsorzio processuale che, pur ove non sia configurabile
anche un litisconsorzio di carattere sostanziale, da luogo, tuttavia, alla formazione d'un
rapporto che, ai fini dei giudizi di gravame, soggiace alla disciplina propria delle cause
inscindibili e pertanto impone, nei successivi grado o fase del giudizio, la presenza dei
soggetti tutti già presenti in quelli pregressi ove non esplicitamente estromessi; onde, nel
caso in cui la parte che propone l'impugnazione non provveda a notificarla a tutte le altre
parti, all'omissione deve porre rimedio, ex art. 331, primo comma, cod. proc. civ., il giudice
dell'impugnazione, cui, salva la decisione finale, non è consentito di eludere in limine tale
disposizione con un diverso apprezzamento della situazione processuale, essendo, per contro,
tenuto in ogni caso a disporre l'integrazione del contraddittorio per il solo fatto che la parte
chiamata a partecipare al precedente grado o fase del giudizio non sia stata citata in quello
d'impugnazione (Cass. n. 11154 del 2003; Cass. n. 12829 del 2002; Cass. n. 2756 del 2001;
Cass. n. 14753 del 1999)” (Cass. n. 12470 del 2004).
6.2.1. In sostanza, una volta accertato che l'appellato nei cui confronti la notificazione
dell'atto di appello era stata effettuata in modo invalido, era litisconsorte necessario rispetto
ad una delle domande proposte congiuntamente dall'appellante sin dall'atto di citazione, la
Corte d'appello non avrebbe potuto dichiarare inammissibile l'impugnazione per inesistenza
della notificazione, con riferimento ad una di quelle domande (nella specie, la domanda
risarcitoria), e poi ritenere superata la questione devoluta con riferimento all'altra domanda
sul rilievo della inesistenza della notificazione dell'atto di appello. La accertata sussistenza di
un litisconsorzio necessario, invero, avrebbe dovuto indurre la Corte d'appello a disporre la
rinnovazione della notificazione; e ciò anche nell'ipotesi in cui si volesse ritenere la
notificazione dell'atto di appello inesistente nei confronti di uno dei litisconsorti.
Invero, onde radicare l'obbligo del giudice di appello di disporre l'integrazione del
contraddittorio nei confronti dell'appellato non raggiunto dalla notificazione dell'atto di
appello, era sufficiente che la notificazione del medesimo atto di appello fosse andata a buon
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fine nei riguardi di altro litisconsorte necessario. Il che, nella specie, era avvenuto, essendo
stato il giudizio di appello ritualmente incardinato nei confronti della Etablissement Cobajard
e della s.r.l. La Posta Vecchia (Cass. n. 15466 del 2011; Cass. n. 6821 del 1983).
6.2.2. Si deve solo aggiungere che l'affermazione della sentenza impugnata, secondo cui R..S.
era 'indubitabilmente parte necessaria' rispetto alle domande di accertamento della
simulazione non ha formato oggetto di ricorso incidentale da parte del destinatario di tale
affermazione, né da parte delle altre contro ricorrenti. In particolare, lo S. si è limitato ad
affermare la insussistenza di un rapporto di inscindibilità tra la domanda di simulazione (e,
conseguentemente, di risoluzione o di dichiarazione di nullità del contratto di locazione
intercorso con la s.r.l. La Posta Vecchia), e la domanda risarcitoria proposta nei confronti
dello S. , senza investire di specifica censura il diverso profilo della affermata natura di parte
necessaria del medesimo S. riguardo alla domanda di simulazione. Analogamente, Cobajard
Etablissement non ha proposto ricorso incidentale sul punto, pur avendo svolto difese
chiaramente volte ad escludere siffatta connotazione; ma, appunto, la rilevanza processuale
dell'affermazione contenuta nella sentenza impugnata e le implicazioni sul piano della
integrazione del contraddittorio dalla stessa derivanti, avrebbero richiesto la proposizione di
una specifica censura.
6.3. Il primo motivo del ricorso principale deve quindi essere accolto, mentre va rigettato il
ricorso incidentale condizionato proposto da S.R. .
7. Si deve ora procedere all'esame del secondo motivo, che investe la questione il cui esame,
essendosi ravvisato un contrasto nella giurisprudenza delle sezioni semplici della Corte, è
stato demandato queste Sezioni Unite. La questione si sostanzia nell'accertare se, in
riferimento ad una domanda di simulazione relativa per interposizione fittizia di persona, sia
o no necessario integrare il contraddittorio nei confronti del venditore.
Il Tribunale di Roma ha affermato la sussistenza di una situazione di litisconsorzio necessario
tra interposto, interponente e venditore, e, non essendo stato integrato il contraddittorio nei
confronti degli eredi della parte venditrice, ha dichiarato estinto il giudizio in ordine alle
domande di accertamento della simulazione relativa soggettiva, per interposizione fittizia,
dell'atto di compravendita inerente l'immobile sito in (OMISSIS) , denominato (OMISSIS) ,
stipulato il 24 aprile 1980 tra gli eredi di G.P. e la Etablissement Cobajard, rappresentata dal
procuratore speciale S.R. , e di declaratoria di nullità del contratto di locazione novennale
relativo al suddetto immobile, intercorso in data 27 luglio 1988, tra la Etablissement Cobajard
e la s.r.l. La Posta Vecchia, ovvero, in subordine, di risoluzione del contratto stesso.
Tale statuizione aveva formato oggetto del secondo motivo di gravame proposto da M.M..M.A.
, che però non è stato esaminato dalla Corte d'appello in quanto ritenuto precluso dalla
inesistenza della notificazione dell'atto di appello nei confronti di R..S. .
7.1. L'ordinanza interlocutoria n. 17334 del 2011, della Seconda Sezione, nell'evidenziare la
decisività della soluzione della questione relativa alla necessità dell'integrazione del
contraddittorio nei confronti del venditore nell'ipotesi d'interposizione fittizia dell'acquirente
nel contratto di compravendita immobiliare, ha rappresentato un evidente contrasto di orientamenti tra un indirizzo che ritiene ineludibile la partecipazione del venditore in virtù
dell'effetto dichiarativo della pronuncia di simulazione che si espande sull'intero negozio e un
altro che non ne ravvisa la necessità quando il contratto sia stato integralmente eseguito nei
confronti del venditore ed egli (o le altre parti) non abbia alcun interesse alla partecipazione
al giudizio.
Per il primo orientamento (cui si possono ascrivere le seguenti pronunce: Cass. n. 1589 del
1957; Cass. n. 2801 del 1963; Cass. n. 2170 del 1979; Cass. n. 4940 del 1980; Cass. n. 1388 del
1983; Cass. n. 4011 del 1983; Cass. n 1727 del 1985; Cass. n. 5626 del 1986; Cass. n. 4104 del
1987; Cass. n. 2819 del 1989; Cass. n. 3425 del 1998; Cass. n. 4911 del 1998; Cass. n. 5317 del
1998; Cass. n. 13261 del 1999; Cass. n. 15633 del 2002; Cass. n. 6762 del 2003; Cass. n. 22054
del 2004), infatti, l'integrazione del contraddittorio è indispensabile quando la verifica della
simulazione costituisce oggetto diretto di una domanda e non solo di un'eccezione o
comunque di un accertamento incidentale, trattandosi di un'esigenza derivante dalla
necessità dell'accertamento dell'accordo simulatorio, di natura trilatera, necessariamente da
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compiersi nei confronti di tutti i partecipi allo stesso in quanto verso tutti la sentenza è
destinata a produrre i suoi effetti dichiarativi.
Per il secondo (cui sono riferibili Cass. n. 614 del 1959; Cass. n. 402 del 1960; Cass. n. 3189
del 1962; Cass. n. 3100 del 1963; Cass. n. 1047 del 1967; Cass. n. 3415 del 1968; Cass. n. 3540
del 1972; Cass. n. 3067 del 1974; Cass. n. 3989 del 1974; Cass. n. 4122 del 1975; Cass. n.
15955 del 2009; Cass. n. 26365 del 2010), non è invece indispensabile la presenza in giudizio
del venditore in qualità di litisconsorte necessario nella controversia promossa dal terzo nei
confronti dell'acquirente dissimulato, quando il contratto sia stato integralmente eseguito nei
confronti del venditore medesimo e conseguentemente possa essere escluso ogni suo
interesse a conservare quale contraente la persona interposta, anziché la persona reale.
Secondo l'ordinanza interlocutoria l'indirizzo che nega la necessità dell'integrazione del
contraddittorio non costituisce un temperamento del precedente ma si pone in netto
contrasto con esso. Nel primo si postula l'immanenza dell'interesse del venditore anche a
prescindere dai risvolti pratici relativi all'adempimento delle obbligazioni derivanti dal
negozio traslativo, per il solo fatto che la pronuncia richiesta al giudice sia funzionale ad
un'esigenza di certezza delle relazioni giuridiche, destinata a fare stato nei confronti
dell'alienante. Nel secondo si ritiene necessaria la valutazione in concreto di tale interesse.
8. Il Collegio ritiene che la questione - all'esame della quale ben può procedersi in questa
sede per evidenti ragioni di economia processuale, dovendosi pertanto disattendere le
eccezioni di inammissibilità formulate da Etablissemente Cobajard - debba essere risolta nel
senso della insussistenza del litisconsorzio necessario.
In primo luogo, tale soluzione risulta predicata, nella giurisprudenza di questa Corte, con
riferimento esclusivo alla compravendita per interposizione fittizia di persona nel contratto di
compravendita che abbia avuto integrale esecuzione e, conseguentemente, è perfettamente
aderente alla fattispecie processuale che ha dato luogo alla rimessione per contrasto di
orientamenti a queste Sezioni Unite.
A questa peculiarità deve aggiungersi il rilievo che tale orientamento muove dalla premessa
della relatività della scelta interpretativa, in quanto espressamente non riferibile in assoluto
ad ogni tipologia di azione di simulazione relativa soggettiva, nella consapevolezza dell'ampia
varietà delle operazioni simulatorie, anche nell'ambito della simulazione soggettiva. Si
afferma, infatti, che “la necessità di integrazione normalmente vale anche per
l'interposizione fittizia di persone, la quale è una delle ipotesi di simulazione relativa. Invero,
l'accertamento e la rimozione dell'accordo simulatorio comportano che la dichiarazione di
volontà manifestata nel contratto dal contraente (quella del venditore nell'ipotesi di
interposizione fittizia del compratore) spiega i suoi effetti nei confronti di un soggetto diverso
dall'interposto”. Detta regola - si precisa – “non è tuttavia applicabile senza eccezioni,
essendo apparsa eccessiva e ingiustificata - e non conciliabile con l'art. 100 cod. proc. civ., a
norma del quale per proporre una domanda o per contraddire alla stessa occorre avervi
interesse - la estensione necessaria del contraddittorio al venditore nei cui confronti la
vendita abbia avuto completa esecuzione e che non abbia da far valere in giudizio alcuna sua
ragione in contrasto o in concomitanza con le altre parti in causa” (Così Cass. n. 15955 del
2009).
Tale pronuncia si pone in continuità con decisioni risalenti, nelle quali si afferma che “ove sia
escluso ogni interesse del venditore a contestare l'impugnazione del negozio traslativo, cioè a
difenderne la sincerità circa la persona dell'altro contraente (...) non è necessaria
l'integrazione del contraddittorio nei confronti dell'alienante non versandosi in ipotesi di
litisconsorzio necessario”. (Cass. n. 3189 del 1962).
L'elemento decisivo ai fini della affermazione o esclusione della necessità del litisconsorzio
con il venditore consiste, quindi, nell'interesse del medesimo alle sorti dell'accordo
simulatorio destinato all'interposizione fittizia della parte acquirente. In particolare, nella
sentenza n. 3100 del 1963, si afferma che, “a differenza che nella simulazione assoluta la
quale, importando la nullità del negozio, rende necessario che il giudizio si svolga nei
confronti di tutti i partecipi dello stesso, per cui si configura la tipica ipotesi del litisconsorzio
necessario, la simulazione relativa non determina la nullità del negozio ma soltanto la
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sostituzione della persona interposta con quella reale. Ne consegue che l'alienante è
normalmente estraneo alla contestazione relativa all'appartenenza della cosa oggetto del
negozio. La sua partecipazione al giudizio può essere giustificata solo sulla base di un
particolare interesse a conservare quale contraente l'originario stipulante”. E la rilevanza
della insussistenza di un interesse del venditore è ribadita nelle successive pronunce nelle
quali si legge che “ove sia escluso ogni interesse del venditore a contestare l'impugnativa del
negozio, non è indispensabile, ai fini della declaratoria della simulazione, la sua presenza in
giudizio, essendo al riguardo interessati solo il compratore apparente e chi vanta il diritto in
base al contratto simulato” (Cass. n. 1047 del 1967).
Nella già citata sentenza n. 15955 del 2009, che ha determinato una chiara discontinuità
nell'indirizzo ormai stabile della necessità del litisconsorzio, si chiarisce poi esaurientemente
che, oltre all'assenza di un interesse diretto del venditore all'esito dell'azione di simulazione,
la vendita deve aver avuto integrale esecuzione con il completo versamento del corrispettivo
e il perfezionamento dell'effetto traslativo. In questa situazione soltanto il simulato e il
dissimulato acquirente sono interessati effettivamente all'esito del giudizio. Solo nei loro
confronti la statuizione giudiziale non è inutiliter data. Si afferma, infatti: 'allorché si tratti
solo di accertare (fra interposto, interponente e creditore di quest'ultimo) chi abbia
acquistato il bene, la necessità del litisconsorzio non si estende al venditore, quando questi
non abbia interesse a contraddire'. L'interposizione fittizia ha sempre carattere strumentale
con riferimento al venditore, anche quando l'attore vuole far dichiarare l'inefficacia del
negozio simulato, in quanto nei confronti dell'alienante, consapevolmente o per implicito, si
richiederebbe esclusivamente l'accertamento incidenter tantum 'in vista del vero
accertamento da compiere ai fini del giudicato, vertente sul diritto acquistato
dall'interponente'. Perché l'accertamento dell'interposizione fittizia nei confronti del
venditore determini l'esigenza del litisconsorzio necessario occorre che venga dedotto ed
allegato il suo interesse, ovvero la sua consapevolezza e volontà di aderire all'accordo
simulatorio.
In questa prospettiva, il rilievo dell'interesse concreto ad agire o a contraddire del venditore
costituisce una questione rilevabile d'ufficio come tutte le questioni relative alla
legittimazione ad agire, costituendo una, anzi la prima condizione dell'azione. Ma la
individuazione di questo interesse deriva dalle deduzioni ed allegazioni delle parti sulla
natura, il contenuto e l'efficacia dell'accordo simulatorio. Se nessun indizio viene fornito al
riguardo ma anzi sia allegata l'integrale esecuzione del negozio traslativo dalla parte
dell'alienante, la necessità del litisconsorzio deve escludersi.
9. Orbene, il Collegio ritiene che le argomentazioni sin qui esposte siano pienamente
condivisibili e che quelle sottostanti al diverso orientamento, secondo cui il litisconsorzio
sarebbe sempre configurabile in caso di azione di simulazione per interposizione fittizia di
persona, anche nell'ipotesi in cui il contratto di vendita abbia avuto esecuzione integrale,
assumano carattere recessivo.
9.1. In primo luogo, non appare irrilevante la circostanza che anche l'orientamento che
sostiene la necessità della partecipazione del venditore al giudizio, esclude tuttavia la
necessità del litisconsorzio quando la simulazione venga prospettata in via di eccezione e non
di azione. In questo caso si afferma (Cass. n. 5626 del 1986; Cass. n. 869 del 1995; Cass. n.
6762 del 2003) che l'accertamento nei confronti del terzo (alienante) abbia natura
esclusivamente strumentale e conseguentemente efficacia incidentale. Ma se una simile
soluzione è del tutto coerente con l'orientamento che esclude il litisconsorzio, in linea di
principio, anche in caso di azione di simulazione relativa, altrettanto non può dirsi per il
diverso orientamento, atteso che il principio del litisconsorzio, in quanto dipendente dalla
natura del giudizio, dovrebbe essere insensibile al modo di proposizione della domanda: una
contrapposizione di regole di procedura, fondata sul modo in cui ha ingresso in giudizio il
tema della simulazione, se per via di azione o di eccezione, appare assai discutibile. Invero,
per escludere una situazione di litisconsorzio nel caso in cui la questione venga introdotta in
via di eccezione, si sottolinea che l'accertamento oggetto della eccezione deve essere
effettuato incidenter tantum. Ma, una volta introdotto questo rimedio logico e ricollegate le
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regole sull'eccezione al fatto che la stessa debba essere esaminata incidenter, sarebbe
sufficiente collegare la necessità del litisconsorzio al contenuto delle domande poste dalle
parti e non alla via d'ingresso delle stesse nel giudizio, per escluderne la sussistenza nei
riguardi del terzo contraente, quando si tratti solo di accertare, tra interposto e
interponente, chi abbia acquistato il bene.
9.2. L'orientamento non condiviso muove dalla considerazione che “l'azione di simulazione
relativa tende ad un duplice accertamento: in quanto l'impugnativa è diretta a rimuovere
l'apparenza del negozio simulato e a farne dichiarare la giuridica inesistenza ha ad oggetto un
accertamento negativo, mentre in quanto è volta a far conoscere l'esistenza dei requisiti di
sostanza e di forma idonei a costituire un rapporto diverso ha un contenuto di accertamento
positivo: entrambi codesti accertamenti si ricollegano al fine unico di ristabilire la certezza
dei rapporti giuridici che costituisce la ragione giustificatrice dell'azione'.
In tal modo, esso sembra prescindere del tutto dall'interesse concreto dell'alienante
all'accordo simulatorio, nel senso che ciò che conta è riportare alla luce, con una sorta di
effetto erga omnes (ancorché sempre e soltanto nei limiti della capacità espansiva del
giudicato) la volontà effettiva delle parti e la 'verità' del negozio, trascurandosi del tutto la
fase esecutiva del contratto. Ciò si desume, ancorché indirettamente, dalle numerose
pronunce che affermano la necessità del litisconsorzio necessario anche nell'ipotesi in cui la
domanda sia infondata (Cass. n. 2170 del 1979; Cass. n. 4940 del 1980). La funzione
dell'azione di simulazione di ristabilire la certezza dei rapporti giuridici (Cass. n. 4940 del
1980) fa quindi sì che la posizione del terzo contraente (l'alienante nella vendita con
interposizione fittizia dell'acquirente) “non si esaurisce nel riconoscimento della funzione
semplicemente figurativa dell'acquirente fittizio, ma è rivolta anche all'assunzione di diritti
ed obbligazioni nei confronti dell'interponente”.
Ma quali siano questi diritti ed obblighi endocontrattuali dopo il trasferimento del bene e il
versamento del prezzo non è agevole comprendere. Invero, l'osservazione secondo cui gli
effetti della vendita non si e-sauriscono con il trasferimento del diritto, la consegna della
cosa e il pagamento del prezzo ma si estendono alla garanzia per evizione, non appare
decisiva, atteso che la garanzia per evizione è conservata in capo al venditore
indipendentemente dalla interposizione dell'acquirente, essendo uno strumento di garanzia
del compratore nei confronti dei terzi che vantino diritti sulla cosa, non suscettibile di
mutare od essere limitato a causa della soggettività mutata dell'acquirente. La lesione
all'integrità del diritto di proprietà proviene da un terzo e colpisce l'avente causa dell'atto
traslativo, semplicemente per questa sua posizione rispetto all'oggetto del trasferimento e
non in correlazione a qualità soggettive.
In sostanza, nella simulazione relativa per interposizione fittizia della persona
dell'acquirente, ove siano state adempiute le obbligazioni tipicamente connesse alla causa del
negozio (trasferimento del bene e pagamento del corrispettivo) la sentenza che accerti
l'interposizione e dichiari che l'interponente è l'effettivo acquirente produce integralmente i
suoi effetti 'utili' anche in assenza dell'alienante. Dal punto di vista di chi vende la
modificazione soggettiva della parte compratrice - salvo eccezioni che devono, però, formare
oggetto di specifica allegazione e dimostrazione - è irrilevante e l'accertamento giudiziale in
assenza dell'alienante, che non può trarre alcuna utilità (giuridicamente ed economicamente
rilevante) dalla dichiarazione di simulazione relativa, rimane integralmente efficace nei
confronti dell'interposto e dell'interponente, in quanto uniche parti vincolate dall'intesa
simulatoria.
Perché, dunque, l'accertamento dell'interposizione fittizia nei confronti del venditore
determini l'esigenza del litisconsorzio necessario occorre che venga dedotto ed allegato il suo
interesse, ovvero la sua consapevolezza e volontà di aderire all'accordo simulatorio. Ma la
individuazione di questo interesse deriva dalle deduzioni ed allegazioni delle parti sulla
natura, il contenuto e l'efficacia dell'accordo simulatorio. Se nessun indizio viene fornito al
riguardo ma anzi sia allegata l'integrale esecuzione del negozio traslativo dalla parte
dell'alienante, la necessità del litisconsorzio deve escludersi, potendosi al più discutere
dell'adempimento del relativo onere probatorio (Cass. n. 3425 del 1998, ritiene infatti che per
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non far sorgere nel giudice l'obbligo di disporre l'integrazione del contraddittorio nei confronti
del venditore è necessario che venga dedotta e dimostrata “l'inesistenza di ogni interesse dei
suddetti alienanti a contestare l'esaminata impugnativa per simulazione dei contratti di cui
trattasi”).
9.3. L'affermazione della sussistenza del litisconsorzio necessario a prescindere
dall'accertamento dell'interesse in concreto delle parti - e segnatamente dell'alienante - alla
partecipazione al giudizio, si fonda anche sul rilievo che la disposizione relativa al
litisconsorzio è inderogabile, d'interesse pubblico e la sua valutazione viene logicamente
prima del merito.
Siffatta argomentazione appare in contrasto con l'orientamento, elaborati da questa Corte
dopo la costituzionalizzazione del principio del giusto processo (art. 111 Cost.), in tema di
conseguenze delle lesioni dei diritti processuali. La progressiva affermazione della necessità
che la violazione delle regole del giusto processo sia effettiva e determini un vulnus nel
diritto di difesa, che deve essere dedotto ed allegato, ha infatti indotto la Corte ad un
approccio non dogmatico riguardo alla applicazione dell'art. 102 cod. proc. civ.. Si è così
giunti a non ritenere necessaria la rimessione del processo davanti al giudice del secondo
grado per disporre l'integrazione del contraddittorio quando la partecipazione del
litisconsorte pretermesso avrebbe determinato esclusivamente una diseconomia temporale,
non sussistendo in capo alla parte esclusa alcun interesse attuale a partecipare al giudizio
(Cass. 18410 del 2009; Cass. n. 4342 del 2010; Cass. n. 18375 del 2010). Indirizzo, questo, che
converge con l'analogo orientamento fondato sulla non utilità e conseguente non necessità del
litisconsorzio necessario davanti alla Corte di Cassazione, quando vi sia una ragione di
inammissibilità o di manifesta infondatezza che s'impone. (Cass. n. 2723 del 2010; Cass., S.U.,
n. 6826 del 2010).
La spinta delle interpretazioni costituzionalmente orientate verso l'attuazione effettiva dei
principi del giusto processo contenuti nell'art. 111 Cost. è quindi stata realizzata secondo due
direttrici, peraltro convergenti: l'obbligo, per la parte, di dedurre ed allegare l'impedimento e
la limitazione dell'esercizio del diritto di difesa; il reciproco dovere del giudice di verificare
preliminarmente ed officiosamente la sussistenza o la conservazione dell'interesse a
contraddire prima di ordinare l'esecuzione di un'attività produttiva di un allungamento dei
tempi del processo che l'assenza d'interesse renderebbe ingiustificabile.
In sostanza, l'interesse si coniuga con l'utilità dell'accertamento nei confronti della parte non
ancora inclusa nel processo e la natura pubblicistica del litisconsorzio necessario risulta
depurata, alla luce dell'esigenza costituzionale di rendere effettiva la tutela giudiziale dei
diritti, da principi aprioristicamente ritenuti inderogabili senza essere calati nella realtà
processuale ove sono deputati a trovare applicazione. Pertanto, posto che l'accertamento
giudiziale e il giudicato hanno la funzione di produrre effetti nella sfera giuridicopatrimoniale delle parti, modificando (o confermando definitivamente) il precedente assetto,
ove lo stesso non abbia questa finalità, perché lascia invariati gli interessi di una parte (in
senso formale), non vi è la necessità inderogabile di far partecipare questa parte al processo
perché così operando si finirebbe per attribuire al giudicato un'efficacia erga omnes, di
natura meramente dichiarativa, diversa da quella derivante dall'intangibilità così come
definita nell'art. 2909 cod. civ..
Ed è appunto questa la situazione che si verifica con riferimento all'alienante quando il
contratto sia stato eseguito e si discuta di simulazione relativa per interposizione fittizia nella
persona dell'acquirente.
9.5. In conclusione, deve affermarsi il seguente principio di diritto: “nella simulazione
relativa della compravendita per interposizione fittizia dell'acquirente, l'alienante non è
litisconsorte necessario, se nei suoi riguardi il negozio è stato integralmente eseguito e manca
ogni suo interesse a essere parte nel giudizio”.
10. La sentenza impugnata, in accoglimento del primo e del secondo motivo deve quindi
essere cassata, con rinvio alla Corte d'appello di Roma, la quale, in diversa composizione,
procederà a nuovo esame del gravame sulla base dei principi enunciati.
Come detto, il ricorso incidentale condizionato è rigettato.
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Al giudice di rinvio è demandata altresì la regolamentazione delle spese del giudizio di
legittimità.
P.Q.M.
La Corte, decidendo a Sezioni Unite, riunisce i ricorsi, accoglie il primo e il secondo motivo
del ricorso principale, assorbiti gli altri; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza
impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di
Roma, in diversa composizione.
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19) APPALTO. ELIMINAZIONE DEI VIZI E RIDUZIONE
DEL PREZZO: LE DOMANDE PROPOSTE IN VIA
ALTERNATIVA SI ESCLUDONO A VICENDA
Cassazione, sez. II, 2 marzo 2015, n. 4161
Qualora l'inadempimento dell'appaltatore si concretizzi in vizi o difformità dell’opera, i
rimedi accordati al committente sono quelli previsti dalla norma speciale dell'art. 1668 c.c.
(prevalente sulle regole generali dell'art. 1453 c.c.), ai sensi del quale, se il committente
opti per la eliminazione di detti vizi a cura e spese dell'appaltatore anziché per la riduzione
del prezzo, l'azione risarcitoria resta utilizzabile solo in via integrativa per il pregiudizio che
non sia eliminabile attraverso tale nuovo intervento dell’appaltatore.
Cassazione, sez. II, 2 marzo 2015, n. 4161
(Pres. Bursese – Rel. Abete)
Svolgimento del processo
Con ricorso a questa Corte l’"Ambiente" s.r.l. esponeva:
che aveva ricevuto in appalto dalla "Confraternita di S. Maria di Loreto", giusta contratto
siglato in data 29.5.1996, la sistemazione della pavimentazione del settore (omissis) ;
che, eseguiti i lavori, la committente aveva denunciato la presenza di infiltrazioni d'acqua
lungo il camminamento superiore del comparto oggetto delle opere di sistemazione;
che essa ricorrente immediatamente aveva reso edotto l'ente appaltante che l'inconveniente
manifestatosi non era da ascrivere a difettosa esecuzione delle opere, ma alla errata
progettazione e realizzazione del camminamento, sicché inutile sarebbe stato un secondo
intervento;
che, nondimeno, la confraternita le aveva imposto l'esecuzione ex novo delle opere previste
in contratto, talché aveva atteso nuovamente all'effettuazione dei lavori in ossequio alle
indicazioni del direttore dei lavori, agendo in veste di nudus minister;
che anche a seguito del secondo intervento, pur eseguito in conformità alle regole dell'arte, si
erano manifestati gli inconvenienti dapprima lamentati, che, in aderenza alla clausola
compromissoria di cui agli artt. 25 e 26 del capitolato d'appalto, la confraternita aveva dato
corso al giudizio arbitrale, prefigurando l'inesatto adempimento di essa appaltatrice;
che, costituitosi, il collegio arbitrale, all'esito dell'attività istruttoria, aveva - tra l'altro dichiarato responsabili per il mancato conseguimento del risultato pattuito con il contratto
d'appalto ambedue le parti contraenti; aveva condannato essa ricorrente a pagare alla
confraternita la somma di L. 4.994.860, oltre i.v.a., pari al 50% della spese indicate dal
c.t.u., per la riparazione dei danni da infiltrazione nonché la somma di L. 1.260.000 di cui
alle fatture n. 38/a e n. 12 del 15.8.1998 dalla confraternita corrisposte per la riparazione
necessitata dalle infiltrazioni di umidità; aveva rigettato la pretesa risarcitoria azionata dalla
confraternita; aveva condannato la confraternita a corrisponderle il residuo corrispettivo
d'appalto; aveva compensato fino a concorrenza del minore degli importi le rispettive ragioni
di credito; aveva condannato le parti a pagare le spese arbitrali nella misura di 14 ciascuna.
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Esponeva, inoltre, che con atto notificato in data 18.11.1999 la "Confraternita di S. Maria di
Loreto" l'aveva citata a comparire innanzi alla corte d'appello de L'Aquila, così impugnando il
lodo arbitrale in data 22.7.1999;
che aveva chiesto in via principale - in sede rescindente - dichiararsi la nullità ex art. 829, nn.
1,4,6 e 7, c.p.c. del lodo per i motivi meglio enunciati nell'atto di citazione; che aveva
chiesto in via subordinata - in sede rescissoria — rigettarsi ogni avversa domanda e dichiararsi
"Ambiente" s.r.l. inadempiente agli obblighi assunti con il contratto d'appalto e, dunque,
unica responsabile dei danni lamentati, conseguentemente condannandola ad eliminarli a
propria cura e spese ovvero, in alternativa, previa riduzione del prezzo nella misura di
giustizia, a restituire le somme percepite e necessarie per l'esecuzione delle opere, altresì
condannandola al risarcimento degli ulteriori danni scaturiti dall'inadempimento ed al
pagamento delle spese tutte del giudizio arbitrale; il tutto con il favore delle spese di lite;
che, costituitasi, essa ricorrente aveva invocato il rigetto dell'avversa domanda;.
Esponeva, ancora, che con sentenza non definitiva n. 768/2004 la corte d'appello de L'Aquila
aveva dichiarato la nullità del lodo e con separata ordinanza aveva disposto nuova c.t.u.;
che, all'esito, con sentenza definitiva n. 291/2008 la corte aquilana l'aveva dichiarata
inadempiente agli obblighi assunti con il contratto d'appalto e, per l'effetto, l'aveva
condannata ad eliminare a propria cura e spese le infiltrazioni d'acqua ed i conseguenti
inconvenienti verificatisi nel pavimento del camminamento superiore del reparto "Cristo
Risorto" del cimitero di Sulmona conformemente alle indicazioni di cui alla relazione del
c.t.u. ovvero, in alternativa, a restituire alla confraternita la somma di Euro 50.000,00, con
rivalutazione ed interessi;
che con la medesima statuizione la corte distrettuale aveva condannato la confraternita a
pagarle l'importo di Euro 4.857,52, oltre interessi, aveva compensato fino a concorrenza di
1/3 le spese di lite, l'aveva condannata a rimborsare a controparte i rimanenti 2/3, aveva
posto a suo carico le spese di c.t.u..
Esponeva, ulteriormente, che la corte distrettuale aveva tra l'altro affermato che "sulla base
delle - corrette e condivisibili - conclusioni formulate dal consulente tecnico di ufficio nella
relazione depositata in data 5-7-2005 (...) deve ritenersi accertato che il ripetersi,
successivamente all'effettuazione dei lavori appaltati, del fenomeno delle infiltrazioni
d'acqua (...) deve essere ascritto, più che ad una non corretta esecuzione dei lavori da parte
dell'impresa appaltatrice, a un errore progettuale" (così sentenza d'appello n. 291/2008, pag.
6); che "ciò, in quanto non è stato previsto (...) l'intervento, assolutamente necessario (...)
della realizzazione di giunti di dilatazione, da eseguirsi sulla struttura della costruzione
precedentemente all'applicazione (...) delle speciali soluzioni impermeabilizzanti" (così
sentenza d'appello n. 291/2008, pag. 6); che, tuttavia, "la circostanza che l'appaltatore
esegua l'opera su progetto del committente o fornito dal committente non lo degrada al rango
di nudus minister, sicché egli è tenuto non solo ad eseguire a regola d'arte il progetto, ma
anche a controllare con la diligenza richiesta dal caso concreto e nei limiti delle cognizioni
tecniche da lui esigibili, la congruità e la completezza del progetto stesso e della direzione
dei lavori, segnalando al committente, anche nel caso di ingerenza di costui, gli eventuali
errori riscontrati, quando l'errore progettuale consiste nella mancata previsione di
accorgimenti e componenti necessari per rendere l'opera tecnicamente valida ed idonea a
soddisfare le esigenze dell'appaltante" (così sentenza d'appello n. 291/2008, pag. 8); che, su
tale scorta, "la società Ambiente (...), esperta e specializzata nei lavori di edilizia, ed inoltre
messa in grado di verificare lo stato di fatto dei luoghi, ben avrebbe potuto e dovuto
avvedersi della sostanziale inutilità degli interventi concordati con la committente (...) ed
avvertirla dell'indispensabilità della preventiva realizzazione di opere strutturali" (così
sentenza d'appello n. 291/2008, pag. 11); che ciò "non risulta che l'appaltatrice abbia fatto né
al momento della stipula del contratto né successivamente" (così sentenza d'appello n.
291/2008, pag. 12); che "non può essere considerata circostanza decisiva o influente al
riguardo la segnalazione della necessità dell'intervento sui giunti contenuta nella missiva 4-21997, inviata dalla società appaltatrice alla Confraternita allorché - non soltanto - le opere
appaltate erano state terminate e consegnate, ma - per di più - erano state eseguite
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riparazioni sul lavoro già compiuto (per la persistenza dei fenomeni di infiltrazione)" (così
sentenza d'appello n. 291/2008, pag. 12).
Avverso la sentenza definitiva n. 291/2008 ha proposto ricorso "Ambiente" s.r.l.; ne ha chiesto
sulla scorta di quattro motivi la cassazione con ogni conseguente statuizione in ordine alle
spese di lite.
La "Confraternita di S. Maria di Loreto" ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi
inammissibile ovvero rigettarsi l'avverso ricorso con il favore delle spese del grado di
legittimità.
La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1667 e
1668 c.c..
Adduce che a giudizio della corte di merito essa ricorrente si è resa inadempiente "per non
essersi immediatamente avveduta che la mancanza dei giunti tecnici non avrebbe consentito
l'impermeabilizzazione del camminamento" (così ricorso, pag. 6); che "l'asserito
inadempimento non afferisce quindi all'esecuzione dell'opus, ma andrebbe ravvisato in un
difetto di diligenza occorso nella fase antecedente l'inizio dei lavori" (così ricorso, pag. 6);
che d'altro canto "il C.T.U. (...) ha indicato nella perizia le opere e le somme occorrenti per
la sistemazione definitiva del camminamento specificando che, qualora non vengano eliminati
i difetti strutturali, i lavori appaltati alla ricorrente, pur se eseguiti a regola d'arte, non
consentono comunque di raggiungere il risultato voluto" (così ricorso, pag. 7); che, pur ad
ammettere "che abbia omesso di esaminare lo stato dei luoghi con la dovuta diligenza, in
nessun caso (...) poteva essere condannata a rimuovere a sua cura e spese i difetti di
costruzione del camminamento (...) e ciò perché (...) non è certamente tenuta a prestare la
garanzia per i vizi e le difformità di un'opera costruita da altri" (così ricorso, pag. 7); che, al
contempo, essa ricorrente "non poteva essere condannata a corrispondere in favore
dell'appellante, in via alternativa, l'importo di Euro 50.000,00 a titolo di riduzione del prezzo
d'appalto, occorrente per l'applicazione dei giunti di dilatazione e per l'esecuzione degli altri
interventi strutturali" (così ricorso, pag. 7); che "la Corte non si è (...) avveduta che il costo
dell'appalto ammontava solo a 42.000.000 di vecchie lire" (così ricorso, pag. 7), che "l'oggetto
dell'appalto fosse circoscritto all'applicazione della guaina di impermeabilizzazione" (così
ricorso, pag. 7).
Con il secondo motivo la ricorrente deduce il vizio di extrapetizione, violazione e falsa
applicazione dell'art. 112 c.p.c..
Adduce che "la domanda avanzata dall'appaltante aveva ad oggetto la condanna
all'eliminazione, a cura e spese dell'appaltatrice, dei difetti inerenti l'impermeabilizzazione,
ovvero, in alternativa, la proporzionale riduzione del prezzo, e non l'eliminazione dei vizi
(occulti) presenti ab initio nel camminamento" (così ricorso, pag. 8); che, viceversa, "la Corte
d'Appello (...) ha aderito acriticamente alle conclusioni del C.T.U. (...), attribuendo un bene
della vita diverso da quello domandato" (così ricorso, pag. 9); che "violazione dell'art. 112
c.p.c. sussiste (...) anche sotto altro profilo" (così ricorso principale, pag. 9); che,
diversamente da quanto statuito dalla corte di merito, che "ha condannato l'appaltatrice a
rimuovere i vizi a sue spese e, alternativamente, alla restituzione delle somme, (...) la
committente (...) non ha chiesto la condanna alternativamente all'una e all'altra prestazione,
ma (...) in via alternativa all'una o all'altra" (così ricorso principale, pag. 10).
Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 1176 c.c..
Adduce che oggetto del contratto era esclusivamente l'impermeabilizzazione del
camminamento; che "pertanto, l'accurato esame della struttura fu limitato alla sua superficie
esterna, non essendo onere dell'appaltatrice (...) procedere allo smontaggio del
camminamento" (così ricorso, pag. 10); che, verificatesi delle infiltrazioni successivamente
alla perfetta esecuzione dell'opera, il proprio direttore tecnico aveva comunicato al priore ed
al direttore dei lavori che "nessun intervento avrebbe potuto garantire il risultato voluto, a
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causa delle carenze della struttura portante e della mancanza dei giunti di dilatazione" (così
ricorso, pag. 11); che "ciò nonostante la committente impose (...) di eseguire nuovamente le
opere (...) quindi (...), ignorando consapevolmente i rilievi e le riserve mosse dall'impresa
(...), si è assunta l'esclusiva responsabilità dell'esatta esecuzione dell'opera" (così ricorso
principale, pag. 11); che, dunque, essa appaltatrice aveva operato in veste di nudus minister
della committente e conseguentemente andava esente da ogni responsabilità; che, inoltre, il
direttore dei lavori era perfettamente a conoscenza della mancanza dei giunti di dilatazione,
siccome egli stesso ha riferito in qualità di testimone, e ciò nonostante, in violazione degli
obblighi su di lui incombenti, "non ha informato l’appaltatrice delle carenze strutturali del
camminamento; non ha verificato (...) se l'intervento che egli avrebbe dovuto dirigere
avrebbe garantito il raggiungimento del risultato voluto dal committente; (...) nonostante
fosse stato reso edotto, dopo il primo intervento di impermeabilizzazione, dell'inutilità del
lavoro a causa dei difetti strutturali, ha preteso una nuova ed identica esecuzione
dell'appalto" (così ricorso, pag. 12).
Con il quarto motivo la ricorrente deduce vizio di omessa e contraddittoria motivazione circa
un fatto decisivo per il giudizio.
Adduce che la corte territoriale ha precisato espressamente che "l'appalto era limitato
all'impermeabilizzazione del camminamento, con esclusione di interventi strutturali" (così
ricorso, pag. 13); che, inoltre, ha osservato che "a causa della mancanza, non imputabile
all'odierna ricorrente dei giunti di dilatazione tra solaio e pavimento, i prodotti utilizzati non
potevano sortire l'effetto auspicato" (così il ricorso, pag. 12); che, "ciò nonostante (...) nel
dispositivo l'appaltatrice viene immotivatamente condannata ad inserire i giunti tecnici nel
camminamento a proprie spese ovvero, in alternativa, a corrispondere alla committente la
somma occorrente per eseguire i lavori conformemente alle indicazioni del C.T.U." (così
ricorso, pagg. 13-14).
Immeritevole di seguito è il terzo motivo di ricorso, afferente all’an dell'affermata - dal
giudice a quo - responsabilità, la cui disamina, quindi, sul piano logico - giuridico, è
assolutamente prioritaria.
Al riguardo va opportunamente reiterato l'insegnamento di questa Corte a tenor del quale
l'appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica
relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue
cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste
siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità, soltanto se dimostri di avere
manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister,
per le insistenze del committente ed a rischio di quest'ultimo; pertanto, in mancanza di tale
prova, l'appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua
obbligazione di risultato, all'intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell'opera, senza poter
invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l'efficacia esimente di
eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori (cfr. Cass. 21.5.2012, n.
8016).
Su tale scorta il motivo di impugnazione de quo agitur si risolve evidentemente in una censura
del giudizio di fatto operato dalla corte di merito (l'"Ambiente", tra l'altro, deduce: "la
ricorrente (...) ha dovuto sottostare alla continua ingerenza del Direttore dei Lavori": così
ricorso, pag. 11), sicché si specifica e si qualifica essenzialmente - se non esclusivamente - in
relazione alla previsione del n. 5) del 1 co. dell’art. 360 c.p.c. (al riguardo cfr. Cass. sez. un.
25.11.2008, n. 28054).
In tal guisa si osserva che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata
conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda
processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della
correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, delle argomentazioni svolte dal
giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del
proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la
concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute
maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così,
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liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi
tassativamente previsti dalla legge.
Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza,
contraddittorietà della medesima può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel
ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o
insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di
ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente
adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico - giuridico posto a
base della decisione (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17477; Cass. 7.6.2005, n. 11789).
Nei termini enunciati si reputa che la corte distrettuale ha senz'auto ancorato il suo dictum a
motivazione ampia, articolata, congrua e coerente.
È sufficiente all'uopo il riscontro dei passaggi motivazionali di cui alle pagine 11 e 12 della
impugnata sentenza ("orbene, considerate le fin qui evidenziate circostanze di fatto (...)"),
passaggi motivazionali espressamente formulati nel quadro e sulla premessa degli
insegnamenti di questa Corte di legittimità in tema di "nudus minister".
Fondato e meritevole di accoglimento, nei termini che seguono, è il primo motivo di ricorso.
È innegabile che i rimedi prefigurati all'art. 1668, 1 co., c.c. hanno natura, valenza di
strumenti di riparazione (cfr. Cass. 4.8.1988, n. 4839, secondo cui l'azione di riduzione del
prezzo dell'appalto, prevista dall'art. 1668, 1 co., c.c., pur avendo natura diversa da quella di
risarcimento dei danni prevista dalla medesima norma, è anch'essa un rimedio che tende a
riparare le conseguenze di un inadempimento contrattuale; pertanto, la somma liquidata a
tale titolo non è soggetta al principio nominalistico ed è perciò rivalutabile in relazione al
diminuito potere di acquisto della moneta).
Del resto questa Corte spiega che, qualora l'inadempimento dell'appaltatore si concretizzi in
vizi o difformità dell'opera, i rimedi accordati al committente sono quelli previsti dalla norma
speciale dell'art. 1668 c.c. (prevalente sulle regole generali dell'art. 1453 c.c.), ai sensi del
quale, se il committente medesimo opti per la eliminazione di detti vizi a cura e spese
dell'appaltatore, anziché per la riduzione del prezzo, l'azione risarcitoria resta utilizzabile
solo in via integrativa, per il pregiudizio che non sia eliminabile attraverso tale nuovo
intervento dell'appaltatore (cfr. in tal senso Cass. 27.2.1988, n. 2073).
In questi termini pur ì rimedi speciali di cui all'art. 1668 c.c. devono soggiacere alle regole
cardini in tema di risarcimento del danno espresse dagli insegnamenti di questa Corte di
legittimità.
Ovvero dall'insegnamento a tenore del quale il risarcimento del danno per inadempienza
contrattuale deve ristabilire l'equilibrio economico turbato, mettendo il creditore nella stessa
situazione economica nella quale si sarebbe trovato se il fatto illecito (inadempienza) non si
fosse verificato, e, quindi, la somma liquidata a titolo di risarcimento deve essere
equivalente all'effettivo valore dell'utilità perduta (cfr. Cass. 15.4.1980, n. 2458).
Ovvero dall'insegnamento a tenore del quale in tema di risarcimento del danno, la
compensazione del pregiudizio arrecato e la restaurazione della situazione patrimoniale del
soggetto leso non possono risolversi in un vantaggio, dovendo la determinazione delle
conseguenze patrimoniali negative limitarsi alla perdita subita ed al mancato guadagno (cfr.
Cass. 6.12.1995, n. 12578, ove, sulla scorta dell'affermato principio, si puntualizza che, nel
caso in cui il committente, in seguito all'inadempimento del contratto d'appalto, abbia fatto
eseguire da altri la prestazione non esattamente adempiuta dall'appaltatore, con il
compimento di un'opera di maggior pregio, in virtù dell'impiego di materiali più costosi di
quelli previsti nell'originario contratto d'appalto, il risarcimento del danno per
l'inadempimento non s'estende a compensare il costo dei materiali più onerosi di quelli
pattuiti).
Ovvero dall'insegnamento a tenore del quale in tema di appalto il risarcimento del danno in
caso di vizi dell'opera appaltata, rimedio alternativo ed autonomo rispetto alle tutele
(riduzione del prezzo e risoluzione) approntate a favore del committente dall'art. 1668 c.c., e
normalmente consistente nel ristoro delle spese sopportate dall’appaltante per provvedere, a
cura di terzi, ai lavori ripristinatoli, deve essere raccordato con la particolare natura dell'opus
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commissionato; ne consegue che, se l'oggetto dell'appalto sia costituito dalla realizzazione di
una res, gli interventi emendativi si rapportano all'opera come sarebbe dovuta risultare, ove
realizzata a regola d'arte; mentre, se oggetto dell'appalto sia l'esecuzione di un'attività sul
bene del committente, alla luce dei medesimi criteri di proporzionalità tra oggetto
dell'appalto e danno, il risarcimento non può concretarsi in un radicale intervento di ripristino
della cosa (come avvenuto nella specie, per la messa a punto dei motori di un natante),
facendo altrimenti conseguire al danneggiato una res qualitativamente migliore rispetto a
quella anteriore, nella quale pure l'originario oggetto dell'appalto viene ricompreso (cfr. Cass.
6.11.2012, n. 19103; cfr. Cass. 4.8.1988, n. 4839, secondo cui, tra l'altro, neppure è possibile
pretendere sotto il profilo del risarcimento (quando non sussistano danni ulteriori, cagionati
dall'opera difettosa) una riduzione del prezzo maggiore dell'entità del corrispettivo pattuito
salvo il diritto alla eventuale rivalutazione monetaria).
Alla luce degli enunciati precedenti l'affermazione della corte distrettuale, secondo cui la
"società Ambiente r.l. (...) va condannata ex artt. 1667 - 1668 c.c. - come richiesto - in via
principale, all'eliminazione, a sue spese, delle infiltrazioni d'acqua e dei conseguenti
inconvenienti verificatisi nel pavimento del camminamento superiore del reparto (OMISSIS)
(secondo le indicazioni offerte dal consulente tecnico di ufficio nella relazione in atti, che ha
stimato in Euro 50.000,00 il costo dei detti interventi), opere da eseguirsi (...); in via
alternativa, alla restituzione in favore della Confraternita della somma di Euro 50.000,00,
quale riduzione del corrispettivo già versato" (così sentenza d'appello n. 291/2008, pag. 12),
integra patente violazione di legge (il vizio "violazione di legge" investe immediatamente la
regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o
inesistenza di una norma, ovvero nell'attribuzione ad essa di un contenuto che non ha
riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio "falsa applicazione di legge" consiste o
nell'assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché
la fattispecie astratta da essa prevista - pur rettamente individuata e interpretata - non è
idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma in relazione alla fattispecie concreta conseguenze
giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione; cfr. Cass. 26.9.2005, n.
18782).
Il buon esito, nei termini esposti, del primo motivo assorbe e rende sterile la disamina del
secondo e del quarto motivo.
In ossequio alla previsione dell'art. 384, 1 co., c.p.c. si attende all'enunciazione del principio
di diritto nei termini seguenti:
"allorché si esperiscono i rimedi riparatori di cui all'art. 1668, 1 co., c.c. il committente deve
conseguire la medesima utilità economica che avrebbe ottenuto se l'inadempimento della
appaltatore non si fosse verificato, utilità puntualmente correlata, nei rigorosi limiti del
valore dell'opera o del servizio oggetto del contratto, al quantum necessario per
l'eliminazione dei vizi e delle difformità che l'opera o il servizio prefigurati in contratto
abbiano palesato ovvero al quantum monetario per cui gli stessi vizi e difformità incidano
sull'ammontare del corrispettivo in danaro pattuito; giammai invero i rimedi ex art. 1668, 1
co., c.c. possono risolversi nell'acquisizione di un'utilità economica eccedente i termini
anzidetti".
La sentenza definitiva n. 291/2008 della corte d'appello de L'Aquila va conseguentemente
cassata limitatamente ed in relazione alla censura accolta.
Si dispone il rinvio ad altra sezione della corte d'appello de L'Aquila ovvero alla corte
d'appello de L'Aquila in diversa composizione, che si uniformeranno al testé enunciato
principio di diritto e provvederanno altresì alla regolamentazione delle spese del giudizio di
legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il ricorso, ovvero accoglie il primo motivo, in tal guisa
assorbiti il secondo ed il quarto, e rigetta il terzo motivo; cassa la sentenza impugnata in
relazione al motivo accolto; rinvia ad altra sezione della corte d'appello de L'Aquila ovvero
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alla corte d'appello de L'Aquila in diversa composizione anche per la regolamentazione delle
spese del giudizio di legittimità.
176
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20)
MANDATO ED AZIONI ESPERIBILI DAL
MANDANTE
TRACCIA
Tizio stipula nel 1989 un contratto di mandato senza rappresentanza con Caio, affinché
costui acquisti un immobile, da ristrutturare e rivendere sul mercato.
Il mandatario si impegna, in sostanza, ad acquistare l’immobile, con capitali forniti dal
mandante, per poi dividere i guadagni dell’operazione, che viene però gestita da Tizio
stesso, che rimane il dominus dell’operazione.
Caio stipula con la società Alfa un contratto preliminare di acquisto di un immobile,
impegnandosi a pagare la somma pattuita in rate mensili.
Nel contratto è inserita una clausola risolutiva espressa che prevede la risoluzione del
contratto nell’eventualità di un inadempimento anche di una sola rata.
Caio paga le rate per un certo periodo, per un totale di circa 162 milioni di lire, ma rimane
inadempiente per due rate, cosicché la società Alfa cita in giudizio Caio per la risoluzione
del contratto ed il risarcimento dei danni.
Caio svolge domanda in via riconvenzionale per chiedere la restituzione delle somme pagate.
Tizio interviene nel giudizio, chiedendo alla società Alfa, in qualità di mandante, la
restituzione delle somme pagate e svolgendo, in subordine, azione di arricchimento senza
causa nei confronti della società Alfa.
In particolare, asserisce Tizio che la società Alfa si sarebbe arricchita delle somme anticipate
per la ristrutturazione dell’immobile e di quelle per il pagamento degli oneri di
urbanizzazione.
Il candidato, assunta la difesa di Tizio, rediga parere motivato riguardante la possibile
esperibilità di un’ azione contrattuale diretta nei confronti del terzo e dell’eventuale azione
di arricchimento senza causa (cosiddetto arricchimento indiretto).
Cassazione, Sezioni Unite, 8 ottobre 2008, n. 24772
(Pres. Carbone - Rel. Travaglino)
OMISSIS
In diritto
1) Gli aspetti funzionali del mandato
Con il secondo motivo di ricorso, come già anticipato in narrativa, la difesa di G. P. denuncia
testualmente: violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 1705 comma 2 c.c.; 360
nn. 3 e 5 c.p.c.) in relazione alla domanda con la quale si era chiesto che la L. Products
venisse condannata a restituire le somme relative agli acconti rateali pagati con gli assegni
emessi dal P. direttamente a favore del P. e non del S.
Il motivo (espressamente subordinato al rigetto del primo mezzo di doglianza, peraltro
destinato a cadere sotto la scure della inammissibilità, come in seguito meglio si specificherà)
non può essere accolto.
Alla decisione del caso di specie, e alla conseguente composizione del segnalato contrasto, va
premesso, in consonanza con quanto rilevato dal collegio remittente della seconda sezione di
questa corte, come, nel tempo, si siano formati, in subiecta materia, due contrapposti
orientamenti giurisprudenziali: alla stregua del primo di essi, la disposizione di cui al secondo
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comma, prima parte, dell'art. 1705 cod. civ. andrebbe interpretata - per ragioni di tutela
dell'interesse del mandante - in guisa di eccezione al principio generale, di cui al primo
comma del medesimo articolo, secondo cui il mandatario che agisce in nome proprio acquista
i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno
avuto conoscenza del mandato. La disposizione del secondo comma pertanto, attesone il
carattere eccezionale e in forza del chiaro tenore dell'espressione diritti di credito derivanti
dall'esercizio del mandato, sarebbe rigorosamente limitata alla facoltà di esercizio, da parte
del mandante, dei soli diritti (sostanziali) di credito derivanti al mandatario dalla esecuzione
dell'incarico gestorio, con esclusione della possibilità di esperire, contro il terzo, le relative
azioni contrattuali (in tal senso vengono citate le pronunce di cui a Cass. n. 1312 del
21/1/2005; n. 11118 del 5/11/1998, cui più di recente si sono conformate Cass. n. 18512 del
25/8/2006 e Cass. n. 13375 dell'8/6/2007 - la quale ha negato al mandante, in particolare, la
possibilità di esperire contro il terzo l'azione di risarcimento dei danni);
secondo altro, contrapposto indirizzo (manifestatosi con le sentenze di cui a Cass. n. 11014
del 10/6/2004 e n. 7820 del 10/8/1998, secondo quanto ancora rilevato dall'ordinanza di
rimessione), il mandante, per ragioni di tutela del proprio interesse, potrebbe viceversa agire
direttamente in giudizio per il soddisfacimento del credito, anche se derivante da un
contratto stipulato dal mandatario senza rappresentanza (dalla motivazione della prima delle
pronunce citate si evince che la Corte ha in quel caso confermato la sussistenza della
legittimazione ad agire di una parte, definita mandante, che aveva esercitato il diritto del
locatore al risarcimento del danno ex art. 1588 cod. civ.). In particolare, le sentenze
predicative della legittimità del potere del mandante di esercitare tutte le azioni scaturenti
dal contratto di mandato (specie quelle relativa al contratto di leasing, come di recente
affermato da Cass. n. 17145 del 27/7/2006) ne ricostruiscono il diritto a far propri, in via
diretta, di fronte ai terzi, i diritti di credito sorti in testa al mandatario non in termini di
eccezione alla regola, ma come conseguenza del suo integrale subingresso nella posizione
contrattuale del mandatario, mercé una vera e propria modificazione soggettiva del rapporto.
È convincimento di queste sezioni unite che il primo, più restrittivo orientamento meriti
conferma, con le precisazioni che di qui a breve seguiranno.
1.1 Analisi della giurisprudenza di legittimità: l'orientamento maggioritario
In ragione dell'epoca (assai risalente) a partire dalla quale si dipana il contrasto, non sembra
un fuor d'opera procedere ad una puntuale disamina delle originarie posizioni assunte dalla
giurisprudenza, onde definire con certezza le linee di divaricazione tra i due orientamenti, le
sottostanti motivazioni, gli attuali riflessi operativi.
Gioverà allora riprendere in sintesi i passi delle pronunce che hanno maggiormente
approfondito il tema (tralasciando i numerosi altri precedenti che, in epoca remota e non, si
siano limitati a richiamare posizioni già acquisite, senza apportare alcun utile contributo
ermeneutico all'approfondimento del problema).
Cass. 11118/98 così riassume, con indubbia efficacia, la questione di diritto ancor oggi
dibattuta: «la disposizione del secondo comma - prima parte - dell'art. 1705 c.c. introduce,
per ragioni di tutela dell'interesse del mandante, una eccezione al fondamentale principio di
cui sopra enunciato nel primo comma dell'articolo per il quale il mandatario che agisce in
nome proprio acquista i diritti ed assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi
anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato, consentendo al mandante di esercitare
i diritti di credito derivanti ai mandatario dall'esecuzione del mandato».
Deve trattarsi di diritti che scaturiscono direttamente dal rapporto obbligatorio posto in
essere dal mandatario nell'esplicazione dell'attività per conto del mandante; questi può agire
contro il terzo in sostituzione del mandatario esclusivamente per esercitare tali diritti e cioè
per conseguire il soddisfacimento dei crediti sorti a favore del mandatario in dipendenza delle
obbligazioni assunte dal terzo con la conclusione del contratto.
La natura eccezionale della norma, le finalità di tutela del mandante, l'inequivocità della
espressione «diritti di credito derivanti dall'esercizio del mandato» inducono ad escludere, al
di fuori dell'azione diretta al soddisfacimento di detti crediti, che il mandante possa esperire
contro il terzo le azioni da contratto e, in particolare, com'è avvenuto nella specie, quelle di
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risoluzione per inadempimento e di risarcimento dei danni; opinando diversamente la regola
generale sancita dallo stesso articolo 1705 c.c. resterebbe svuotata di contenuto.
Cass. 2105/76, in motivazione, coglie lucidamente l'essenza della tesi maggioritaria,
osservando che l'art. 1705 c. 2 «concerne il subingresso nel credito e non genericamente nei
rapporti giuridici e non elimina la distinzione tra la posizione del mandante e del mandatario:
si vuole evitare, nell'ambito delle vicende successive alla conclusione del negozio tra
mandatario e terzo, che il dominus, per conseguire gli effetti utili della gestione svolta per
suo conto, debba necessariamente agire tramite l'intermediazione del mandatario».
Cass. 879/65 escluderà, a sua volta, che l'azione ex art 1705 c. 2 abbia natura surrogatoria,
aderendo all'indirizzo adottato dalla risalente Cass. 2082/50, secondo cui l'azione del
mandante, di natura diretta, andava esaminata in combinato con l'art. 1713 c.c. (predicativo
dell'obbligo del mandatario «di rimettere al mandante ciò che ha ricevuto a causa del
mandato»), con la conseguenza che, del patrimonio del mandante, entra far parte un diritto
di credito avente contenuto identico a quello vantato dal mandatario verso il terzo.
Infine, l'approfondita motivazione della sentenza di cui a Cass. 2877/76 muove dalla
configurazione del mandato quale fattispecie di interposizione gestoria in cui gli effetti del
negozio sono limitati alla persona interposta, pur dovendo essere riversati a fine gestione
sulla persona interessata. Consegue che il terzo «non entra in rapporto con il mandante, che
non ha alcuna azione da contratto contro di lui, ma solo una tutela limitata ai crediti
scaturenti dalla gestione del mandatario». Pertanto, all'infuori di tale sostituzione per la
tutela di singoli diritti di credito, il mandante non può pretendere che il terzo lo riconosca
soggetto interessato al buon fine contrattuale, giacché, in sede di conclusione e di esecuzione
del contratto, l'interesse del mandante non viene in considerazione, né il terzo contraente
deve tenerne conto in relazione ai suoi doveri di correttezza e di buona fede, dato che
l'alienità dell'affare, anche se conosciuta e riconoscibile, non ha alcuna rilevanza per il terzo,
il quale ha diritto di non avere di fronte a sé altro soggetto che il mandatario, quale parte del
contratto in capo a cui si producono gli effetti giuridici di questo. In senso affatto speculare,
si preciserà poi che neppure il mandatario può esigere che la controparte tenga conto
dell'interesse del mandante, sicché, in caso di inadempimento da parte del terzo contraente,
costui non è tenuto ad addossarsi le conseguenze della lesione dell'interesse del mandante
prodotta dall'inadempimento, altrimenti si darebbe rilievo all'interesse del mandante,
snaturando l'essenza del mandato senza rappresentanza, la cui natura esclude questo
rapporto diretto. Non è dunque ammissibile che il mandatario possa chiedere al terzo
inadempiente il risarcimento dei danni costituiti dalla lesione dell'interesse del mandante, a
meno che tale lesione non si traduca in una lesione dell'interesse proprio del mandatario, in
coerenza con la facoltà di esercizio dell'azione diretta per i diritti di credito sorti a favore del
mandatario in dipendenza delle obbligazioni assunte dal terzo con la conclusione del
contratto cui l'art. 1705 fa espresso riferimento ponendo l'eccezione rispetto alla regola
generale. Il mandante, si conclude, non può dunque sperimentare contro il terzo le azioni da
contratto, ed in particolare quelle di risoluzione e di risarcimento dei danni, perché
altrimenti la regola di cui al c. 2 della norma citata resterebbe svuotata di contenuto
(richiamandosi espressamente a questi principi, Cass. 1312/05, relativa a fattispecie di
risarcimento danni da trasporto marittimo in cui era stata negata al mandante-mittente la
facoltà di agire per il risarcimento dei danni nei confronti del vettore terzo, riaffermerà la
bontà dell'interpretazione dominante, e la conseguente immunità da vizi di costituzionalità
sotto il profilo dell'irragionevolezza, in guanto la previsione dell'art. 1705 cod. civ. è diretta
ad ampliare la tutela del mandante, attribuendogli anche una legittimazione diretta nei
confronti del terzo contraente, ferma restando la possibilità di agire nei confronti del
mandatario - nella specie, il mandatario spedizioniere -, tenuto ad eseguire il mandato con la
diligenza del buon padre di famiglia).
1.2 L'orientamento minoritario
Premesso che nella poc'anzi ricordata sentenza del 11118/98 è inesattamente citata, come
aderente alla tesi restrittiva e maggioritaria, la pronuncia di cui a Cass. 2714/64 (che, letta
integralmente, va viceversa collocata in seno all'opposto indirizzo, poiché ricollega
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all'iniziativa del mandante di sostituirsi al mandatario una modificazione soggettiva del
rapporto che escluderebbe ogni relazione tra terzo e mandatario e consentirebbe al terzo
contraente di agire contro il mandante per l'adempimento di ogni obbligazione nascente dal
negozio e per ogni altra azione derivante dalla conclusione dello stesso), va ribadito come
entrambe le pronunce già indicate come predicative dell'indirizzo minoritario (Cass. 17145/06
e Cass. 11014/04) non risultino in realtà sorrette da adeguate motivazioni funzionali a
legittimare l'interpretazione meno restrittiva dell'art. 1705 c.c., al pari della pronuncia di cui
a Cass. 7820/98, che riafferma, sic et simpliciter, la legittimazione del mandante ad
interferire ex art. 1705 nel rapporto tra mandatario senza rappresentanza e terzo.
Ampiamente approfondito appare, viceversa, l'impianto motivazionale della pronuncia di cui a
Cass. n. 92 del 13/1/1990. Sulla premessa per la quale il problema centrale da risolvere non è
quello, di carattere generale, se la facoltà legislativamente attribuita al mandante di
esercitare, in sostituzione del mandatario, i diritti di credito derivanti dalla esecuzione del
mandato comporti anche la legittimazione attiva del mandante ad agire contro il terzo
contraente, e passiva a resistere alla domanda del terzo contraente in ordine ad azioni di
annullamento, di risoluzione o rescissione del contratto, la sentenza ritiene decisiva la ben
più limitata questione di stabilire se, una volta che il mandante abbia effettivamente
esercitato nei confronti del terzo contraente i diritti di credito sorti in esito all'attività del
mandatario, a quest'ultimo sostituendosi nell'esecuzione dell'affare, venga a configurarsi una
modificazione soggettiva in forza della quale il terzo possa, a sua volta, rivolgersi
direttamente contro il mandante in esercizio di ogni azione derivante dalla conclusione del
contratto, o quanto meno per l'adempimento delle obbligazioni nascenti dal negozio gestorio
in corrispondenza ai diritti che verso di lui il mandante ha fatto valere. La pronuncia adotterà
questo secondo orientamento giurisprudenziale non senza aver ricostruito alcuni snodi
essenziali dell'istituto, specificando, in particolare, che il diritto di credito viene fatto valere
dal mandante come titolare di esso e non già utendi iuribus del mandatario, così che la
sostituzione, una volta fruttuosamente sperimentata, conduce a conseguenze ben più incisive
di quelle normalmente riconducibili ad ogni altra ipotesi (art. 1595, I comma; art. 1676, art.
1917 II c., art. 2867 cod. civ.) in cui è concessa azione ad un soggetto per conseguire da un
terzo, cui non è legato da alcun rapporto obbligatorio, ciò che avrebbe potuto ottenere dal
proprio debitore a sua volta creditore del terzo. Ecco che le finalità perseguite
dall'abilitazione eccezionale concessa al mandante dall'art. 1705 devono allora essere
individuate anche in correlazione con i risultati finali perseguiti attraverso il meccanismo
gestorio, funzionali a consentire al mandante venditore di conseguire il prezzo e al terzo di
acquistare il bene tramite il passaggio del bene e del corrispettivo attraverso il mandatario (e
in questo quadro, secondo quanto già opinato da Cass. 90/92, la richiesta e la esazione
diretta, da parte del mandante venditore, del prezzo della compravendita, per come
consentiti dalla norma in esame, erano destinate a svolgere una funzione acceleratoria e
semplificatoria della conduzione a buon fine dell'affare, nel senso di rendere superfluo il
doppio trasferimento, con convergente vantaggio per il terzo e per il mandante, salvo
pregiudizio dei diritti del mandatario).
La modificazione soggettiva del rapporto assume allora (come già rilevato anche da Cass. n.
1306 del 1969) valenza giuridica prima ancora che economica, nel senso che, per effetto della
sostituzione del mandante al mandatario, quest'ultimo resta escluso dal rapporto negoziale e,
come non ha più veste per richiedere al terzo l'adempimento della prestazione promessa, e
cioè il versamento del prezzo, così non ha più titolo per resistere alla richiesta avanzata dal
terzo che, assolto il suo debito, reclami la controprestazione e cioè il trasferimento della
titolarità del bene, oppure la restituzione del prezzo, se quel trasferimento non sia più
possibile.
La tesi adottata dalle pronunce in esame è, dunque, in punto di diritto, quella che potrebbe
oggi definirsi «della efficacia espansiva del disvelamento del mandante», espansione tale da
comportare un esaurimento dei compiti gestori del mandatario, con conseguente negazione
della dichiarata eccezionalità del meccanismo sostitutivo previsto dal secondo comma del
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1705 (eccezionalità ravvisata, come già evidenziato, nella limitazione dell'ingerenza del
mandante, fermo il ruolo del mandatario per ogni altro aspetto).
Dal suo canto, Cass. n. 3626/80, nell'identificare e tratteggiare una peculiare fattispecie di
mandato senza rappresentanza, descrive il potere del mandante di agire in giudizio per i
diritti di credito come un temperamento dei poteri/doveri incombenti sul mandatario, con
conseguente modificazione soggettiva del rapporto, annoverando, tra i diritti di credito
azionabili in forza dell'art. 1705 c. 2, anche quello al diniego della proroga legale per propria
necessità, dacché l'espressione diritti di credito esprime i diritti nascenti da un rapporto
obbligatorio in contrapposizione ai diritti reali, contrapposizione ben chiara al legislatore che,
per l'ipotesi parallela di azione di rivendica da parte del mandante, ha previsto una diversa
norma, l'art. 1706 c. 1. Così, se il binomio prefigurato dal legislatore è quello diritti di
credito/diritti reali, la prima delle due nozioni concerne qualsivoglia categoria di diritti
derivanti da un rapporto obbligatorio posto in essere dal mandatario (in tali sensi, e in un
lontano passato, già Cass. 2 agosto 1955 n. 2504).
1.3 Le posizioni della dottrina
Nell'intendimento di dare continuità ad un recente indirizzo accolto da queste sezioni unite,
che, in numerose pronunce, hanno esaminato, dato conto e sovente fatte proprie non poche
riflessioni della migliore dottrina giuscivilistica italiana, in un fecondo e sempre più intenso
rapporto di sinergia di pensiero destinato a tradursi in diritto vivente, sembra opportuno
procedere ad una (sia pur sintetica e inevitabilmente incompleta) analisi delle posizioni
espresse, nel tempo, dagli autori che si sono occupati funditus della complessa tematica
relativa agli aspetti funzionali ed effettuali del contratto di mandato.
a) La dottrina italiana si è appassionata al tema sin dall'entrata in vigore del codice, e, in un
primo approccio al peculiare meccanismo funzionale di cui all'art. 1705 secondo comma (che
gli autori classici non a torto definirono «assai oscuro»), ritenne inaccettabile l'opinione espressa dal guardasigilli nella Relazione al codice - secondo cui l'art. 1705 c. 2 e l'art. 1707
prima parte attribuivano al mandante un'azione in via diretta contro il terzo contraente,
ravvisandovi piuttosto (salva l'assenza del requisito della trascuratezza da parte del
mandatario) gli estremi dell'azione surrogatoria, fondata sulla titolarità sostanziale del
credito in capo al mandatario, mentre il mandante, sostituendovisi, eserciterebbe pur sempre
un diritto altrui.
La tesi dell'azione surrogatoria incontrò, peraltro, illustri oppositori, proprio per la mancanza
di un requisito essenziale della fattispecie (la trascuratezza da parte del mandatario), e lasciò
spazio a quella della generica legittimazione ad agire riconosciuta al mandante in luogo del
mandatario (che non priverebbe quest'ultimo della titolarità dei diritti di credito e non
trasformerebbe il mandante in un diretto debitore del terzo contraente, salva la possibilità di
costui, ove convenuto in giudizio, di agire in via riconvenzionale nei confronti del mandante
stesso).
La difficoltà dell'inquadramento teorico del potere di sostituzione del mandante emergerà, in
tutta la sua portata, tra la fine degli anni '50 e gli anni '60, ad opera di un'autore che tante
pagine ha dedicato allo studio della rappresentanza. Sulla premessa per cui l'espressione
sostituendosi al mandatario sarebbe ingannevole, inducendo l'idea di uno dei protagonisti
della vicenda negoziale che entra inopinatamente in possesso di quanto è dell'altro, si fa
strada il fondamentale rilievo di una sostituzione destinata ad attivarsi soltanto nell'esercizio
del diritto, in nome e nell'interesse proprio: l'iniziativa del mandante non darebbe luogo, così,
ad atti costituenti cause o titoli dell'acquisto, perché l'effetto traslativo viene presupposto
come già effettuato, in forza di una efficacia (non diretta ma) automatica dell'acquisto da
parte del mandante dei beni o dei crediti acquisiti dal mandatario (che «acquista e perde» al
tempo stesso), producendo un'espansione del rapporto di gestione analoga a quella che, nella
rappresentanza diretta, si verifica per effetto della contemplatio domini, cioè con l'agire in
nome altrui. La differenza tra mandato con rappresentanza e mandato senza rappresentanza
consisterebbe, allora, nel fatto che solo in questo secondo caso il mandatario resta obbligato,
e contemporaneamente acquisterebbero sia il mandatario che il mandante.
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Gli studi della dottrina contrari alla ricostruzione della facultas agendi del mandante ex art.
1705 c. 2 in termini di azione diretta proseguiranno, pervenendo, dopo accurate analisi, ad
ammettere che la funzione del mandato senza rappresentanza si sostanzierebbe nel
riconoscere al mandante il potere di appropriarsi della titolarità dei crediti sulla base di una
cessio legis, cessione, cioè, di fonte legale, ma rimessa all'iniziativa dell'interessato: un
diritto potestativo alla surrogazione, dunque, mercé il quale il mandante subentra nella
titolarità del credito del mandatario. La principale obiezione mossa a tale tesi - quella per cui
il disposto della prima parte del secondo comma dell'art. 1705, predicando il generale
principio che i terzi non hanno alcun rapporto con il mandante, sicché i due rapporti non
possono confluire in uno, non ammette in alcun modo e sotto nessuna forma una successione
di soggetti - indusse, peraltro, a riconoscere che, della sostituzione, non si potessero
predicare letture in chiave traslativa, dovendo essa ricondursi piuttosto ad un peculiare
mezzo di tutela del mandante.
Negli anni '80, gli autori più avvertiti non si nasconderanno che, della fattispecie, molteplici
apparivano, sul piano concettuale, le possibilità ricostruttive. L'attenzione si sposta, così,
dall'aspetto genetico/morfologico a quello (storico e) funzionale dell'istituto, onde indagare
funditus sulle ragioni ispiratrici della norma, identificate in quelle «di garantire tutela
all'interesse del mandante alla segretezza verso i terzi e per altro verso quella di assicurare al
mandante una sostituzione da parte del mandatario anche nella fase di esecuzione del
negozio gestorio»: si spiegherebbe, così, la ratio della disposizione legislativa che lascia
all'iniziativa del mandante la scelta se rivelarsi o meno ai terzi mediante la sostituzione ex
art. 1705 cpv., proteggendolo, inoltre, dal rischio di eventuali abusi o infedeltà del
mandatario (risultato conseguibile, peraltro, privando il mandatario della legittimazione a
ricevere il pagamento non appena il mandante opera la sostituzione).
Alla luce del carattere eventuale dell'acquisto del credito verso il terzo da parte del
mandante e del valore programmatico del mandato, questa attenta dottrina esclude ogni
ipotesi di effetto traslativo immediato del credito in favore del mandante, discorrendo
espressamente di condicio iuris meramente potestativa inerente al mandato (tanto che il
mandatario, in difetto di relevatio del mandante, rimarrebbe tenuto ad esercitare il credito
nei confronti del terzo e a rimettere al mandante la prestazione ricevuta). La sostituzione
sarebbe quindi, da un lato, avveramento della condizione sospensiva, dall'altro, formalità
equivalente alla notificazione della cessione al debitore ceduto, secondo il paradigma,
esportabile in parte qua alla fattispecie, dell'art. 1264 comma 1 c.c.
b) Altrettanto nutrita appare, dal suo canto, la corrente dottrinale, cui ha inteso in larga
misura aderire la stessa giurisprudenza di questa corte, che qualifica l'azione del mandante
come azione diretta.
Già nei primi anni '50 si sostenne che il legislatore, con la previsione di cui al comma 2
dell'art. 1705, aveva preferito al meccanismo della surrogazione legale quello dell'azione
diretta, onde consentire al mandante di appropriarsi dei crediti in speculare simmetria con
l'azione di revindica di cui al successivo art. 1706. Non si è mancato di rilevare, in seguito,
come il maggior pregio di tale teoria consista indiscutibilmente nel contemperare il principio
sancito nell'art. 1705 comma 1 con quello della inidoneità del mandato come titolo traslativo
del dominium, pur nel riconoscimento di una circoscritta efficacia esterna del rapporto
gestorio, nei limiti in cui esso, peraltro, non pregiudichi gli interessi legittimi dei terzi (che
solo accidentalmente, ma comunque ininfluentemente, possono essere a conoscenza di detto
rapporto).
La dottrina che, in seguito, approfondirà il tema dell'azione diretta si mostra incline a
equipararla alle simmetriche azioni regolate dagli artt. 1595, 1676 e 2867 c.c. Anche per tali
autori è lecito discorrere di trasferimento automatico, dal terzo al mandante, della titolarità
dei diritti acquistati dal mandatario in nome proprio, così che l'attività del mandante ex art.
1705 risulterebbe esercizio di questo diritto già acquistato, secondo alcuni addirittura mercé
il ricorso ad una lettura in chiave consensualistica dell'istituto (il riferimento è all'art. 1376
cod. civ., nel senso che, come le parti possono consensualmente trasferire un diritto, così
possono, d'accordo, determinarne a priori lo spostamento da una sfera giuridica ad un'altra,
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attribuendosi, in definitiva, all'atto di sostituzione la funzione di vera e propria notifica della
titolarità del credito).
Sempre nell'orbita degli studi sull'azione diretta, più di recente si osserverà ancora che,
limitando il campo di indagine alla sola esigenza di individuare la titolarità formale del diritto
acquistato, non si coglie il peculiare aspetto dinamico dell'intera fattispecie, mentre,
ricostruendone i tratti essenziali con riferimento all'interesse sottostante, che è quello del
mandante, si perviene invece ad evidenziare che è l'interesse alieno a qualificare la gestione
dell'interposto, trascendendo il rapporto interno per assumere contestuale rilevanza esterna:
stabilire allora se l'acquisto del mandante è diretto, senza alcun contemporaneo acquisto del
mandatario, ovvero automatico, previa acquisizione della titolarità del diritto da parte del
mandatario, sarebbe una sfumatura che non coglie il cambiamento che si attua nella
posizione del mandatario allorché agisce in nome proprio. Quest'ultimo si colloca, difatti, in
una posizione «di vantaggio ex lege», che si esplica, in caso di acquisto di beni mobili,
attraverso la facoltà di esercizio delle azioni possessorie e di quelle a difesa della proprietà,
salvo il coordinamento con l'esercizio ex art. 1706 da parte del mandante), ed un potere di
esercitare i diritti di credito identico a quello che secondo l'art. 1705 c. 2 il mandante vanta a
sua volta.
c) L'interesse per la questione non si attenua negli anni '90, mercé il contributo di autori che,
ciascuno seguendo una propria autonoma linea di pensiero, riterranno (quantomeno) non del
tutto convincente la teoria dell'azione diretta.
Si afferma, così, da un canto, che l'intima ratio della facoltà di cui al 1705 c. 2 - la cui
funzione consiste nell'attribuire al mandante un rimedio idoneo all'emanazione di una
sentenza che trasferisca a suo favore il credito appartenente al debitore principale - conduce
alla conclusione che, pur mancando una «immediatezza di contatto» tra mandante e terzo,
l'eccezionale forma di sostituzione in parola non potrebbe da sola giustificare una
eteromodificazione di un contratto rispetto a cui il mandante continua ad essere terzo (così
ripudiandosi la tesi della modifica ex lege del contratto come conseguenza della mera
esteriorizzazione del rapporto interno mandante-mandatario, con la conseguente ipotesi di
annettere alla esteriorizzazione del mandante il solo risultato di attribuire al debitore un
nuovo avente titolo al pagamento, in concorso con il precedente destinatario); dall'altro, che
la titolarità dei crediti resta ferma in testa al mandatario mentre, con la sostituzione
nell'esercizio del suo diritto, il mandatario perde la sua originaria legittimazione, senza che il
mandante possa avere azione diretta, perché non diventa parte contraente del rapporto
gestorio; dall'altro ancora previa individuazione di tre posizioni relative all'oggetto della
sostituzione (quella che contempla la sostituzione in tutte le posizioni attive e passive facenti
capo ai mandatario - come opinato da Cass. n. 92 del 1990 -; quella che implica sostituzione
nei soli diritti di credito - così Cass n. 11118 del 1998 -; quella che comprende nella facoltà di
sostituzione i poteri contrattuali di annullamento, risoluzione, rescissione), che il criterio di
selezione gravita intorno alla natura del diritto, con conseguente estensione della
sostituzione a tutti i diritti di natura patrimoniale, purché non personali (azionabili mercé il
ricorso all'azione surrogatoria di cui all'art. 2900), anche se - si soggiunge - la conclusione
dovrebbe essere diversa per l'azione di risarcimento dei danni, «perché la sostituzione del
mandante non influirebbe in alcun modo sulla dinamica del rapporto contrattuale in vita tra il
mandatario e il terzo» (con la fondamentale precisazione secondo cui il mandante potrebbe
richiedere a titolo risarcitorio non il danno da lui medesimo risentito, ma quello sofferto dal
mandatario, perché «il mandante non è controparte del terzo e quest'ultimo non può essere
costretto a rifondere le perdite di estranei»).
d) La disamina delle posizioni assunte dalla giuscivilistica italiana non può, infine, prescindere
dalle lucide riflessioni di un autore prematuramente scomparso, autorevole esponente della
scuola messinese degli anni '60, che più di tutti ha approfondito il tema del mandato
nell'ottica (di ben più ampio e affascinante respiro) della cooperazione nell'attività negoziale
nelle varie forme di attività svolte nell'interesse altrui.
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Premessa una (ancor oggi attuale e condivisibile) denuncia dell'incapacità, da parte della
dottrina e della giurisprudenza, di liberarsi di alcune «abitudini mentali della dogmatica
europea», tra le quali l'idea, palpabile in tema di mandato, che il diritto soggettivo
costituisca un'entità reale, quasi corporea, che esiste in concreto nel mondo della
fenomenologia giuridica, l'autore accentra inizialmente la sua attenzione sul fenomeno della
dissociazione fra il soggetto dell'atto e il soggetto dell'interesse, qualificandolo come
carattere connaturato a tutte le attività interpositorie (ivi compresa quella c.d. fittizia, che
viene coerentemente - e forse non incondivisibilmente - estrapolata dall'alveo della
simulazione). Si critica poi l'adozione del criterio formale della spendita del nome come
chiave selettiva dell'effetto del trasferimento diretto dal terzo al titolare dell'interesse,
qualificando, viceversa, proprio il criterio sostanziale della titolarità dell'interesse come
idoneo a fondare il meccanismo effettuale (e precisando che l'adozione di un criterio formale
comporterebbe non pochi interrogativi in ordine all'elemento causale dell'atto compiuto
dall'interposto). Viene poi rappresentata la necessità di analizzare, oltre all'aspetto
strutturale, il meccanismo funzionale della fattispecie interpositoria, senza aver riguardo al
sottostante rapporto di cooperazione, che diviene allora lo scopo pratico (e giuridico) del
procedimento di interposizione, attribuendo all'interposto la qualità di titolare di un diritto
nell'interesse altrui, e si evidenzia ancora come la titolarità in capo all'interposto sia diversa
da qualsiasi altra forma di titolarità del diritto, atteso che, nella specie, si assiste ad un
pressoché totale svuotamento del contenuto del diritto soggettivo, sotto il profilo economico
(l'interesse) e giuridico (la facoltà di goderne e di disporne). Si delinea con sempre maggiore
chiarezza la precarietà della figura dell'interposto (che, a tutto concedere, assume il
carattere della temporaneità senza alcuna possibilità nemmeno ipotetica di consolidazione
della situazione di diritto, salvo agire contra mandatum), e con essa la necessità di
trasformare la (non predicabile) titolarità del mandatario in mera legittimazione
(diversamente da quella riconosciuta al fiduciario, che acquista la titolarità piena e non
soltanto formale sul bene). Il problema del fatto costitutivo dell'effetto traslativo viene poi
risolto facendo ricorso al concetto di fattispecie complessa, caratterizzata da una sua causa
concreta, costituita dalla sinergia mandato negozio stipulato con il terzo dal mandatario,
dove il mandato, oltre agli effetti obbligatori suoi propri inter partes, spiega, in combinazione
con il successive negozio, altresì un effetto reale sotto il profilo della immediata produzione
dell'effetto traslativo in capo al mandante.
Il trasferimento degli effetti sarà, allora, non diretto ma automatico, senza necessità di un
atto traslativo ad hoc da compiersi da parte del mandatario: l'acquisto del diritto,
contemporaneo in capo al mandante e al mandatario, si riflette automaticamente e senza
soluzione di continuità temporale in capo al primo (scandito sincronicamente secondo la
successione temporale acquisto/perdita in capo al mandatario) : la differenza con la
rappresentanza diretta - che risulta fortemente attenuata, giusta la premessa della unitarietà
della fattispecie della cooperazione - si riduce così a ciò che, in essa, il cooperatore
rappresentante non acquista affatto, mentre nella rappresentanza indiretta egli acquista e
perde nello stesso istante. L'ostacolo - apparentemente insuperabile - dell'acquisto dei beni
immobili, in cui la necessità del doppio trasferimento appare testuale (art. 1706 secondo
comma c.c.), è destinato a sua volta a risolversi considerando che la differenza di disciplina
ripete la sua genesi non da un differente assetto di interesse sostanziale, ma esclusivamente
dall'esistenza di profili formali che regolano la circolazione immobiliare: l'atto di
ritrasferimento non è, dunque, un negozio realmente traslativo per essersi già verificato quel
medesimo effetto in via automatica), ma un atto funzionale (soltanto) alle esigenze della
trascrizione, così che anche una dichiarazione unilaterale ricognitiva dell'appartenenza del
bene al mandante resa al pubblico ufficiale potrebbe essere legittimante trascritta, pur se
totalmente priva dei connotati del negozio traslativo.
1.4 La soluzione del contrasto
È convincimento di questo collegio che una seria e meditata adesione all'orientamento più
restrittivo, così come la speculare scelta di una soluzione ermeneutica ben più elastica, non
avrebbero comunque potuto prescindere dalla ricognizione, sin qui compiuta, delle diverse,
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dissonanti ricostruzioni dell'intero istituto della rappresentanza del mandatario: l'esclusione,
o meno, del mandante dalla facoltà di esperire le azioni contrattuali derivanti dal negozio
stipulato per suo conto dipende, difatti, dall'adozione di una più generale «teoria della
rappresentanza indiretta» quantomeno sotto il suo profilo funzionale, quello, cioè, della
esatta ricostruzione del dipanarsi dell'effetto traslativo tra i tre soggetti protagonisti della
complessa fattispecie interpositoria, il mandante, il mandatario, il terzo contraente.
Prima ancora di esprimere la conclusiva opzione tra il privilegiare l'esegesi tradizionale e la
dominante dogmatica giuridica (restando così fedeli a una nozione restrittiva dei poteri di
sostituzione del mandante) piuttosto che favorire la snellezza dei circuiti di relazione tra
soggetti del mercato (individuando conseguentemente il fondamento normativo di tale scelta
in extensum), è obbligo (come sempre) dell'interprete procedere ad una attenta e puntuale
disamina del dato normativo positivo, onde da esso cautamente procedere verso una
soddisfacente e credibile soluzione in diritto. Le norme che vengono in considerazione sono,
da un canto:
a) l'art. 1705, comma 1: Il mandatario che agisce in nome proprio acquista i diritti e assume
gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno avuto conoscenza
del mandato;
b) l'art. 1705, comma 2, prima parte: I terzi non hanno alcun rapporto con il mandante;
c) l'art. 1706, comma 2: Se le cose acquistate dal mandatario sono beni immobili o beni
mobili iscritti in pubblici registri, il mandatario è obbligato a ritrasferirle al mandante. In
caso di inadempimento, si osservano le norme sull'esecuzione dell'obbligo a contrarre;
d) l'art. 1707, seconda parte: i creditori del mandatario non possono far valere le proprie
ragioni... sui beni immobili o sui mobili iscritti in pubblici registri se la trascrizione dell'atto di
ritrasferimento, o della domanda giudiziale diretta conseguirla, sia anteriore al
pignoramento.
Dall'altro:
a-b.1) l'art. 1705 comma 2: Tuttavia il mandante, sostituendosi al mandatario, può esercitare
i diritti di credito derivanti dall'esecuzione del mandato (salvo pregiudizio dei diritti del
mandatario);
c.1) l'art. 1706 comma 1: Il mandante può rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto
dal mandatario che ha agito in nome proprio, salvi i diritti acquistati dai terzi per effetto del
possesso di buona fede;
d.1) l'art. 1707 prima parte: I creditori del mandatario non possono far valer le loro ragioni sui
beni che, in esecuzione del mandato, il mandatario ha acquistato in nome proprio purché,
trattandosi di beni mobili o di crediti, il mandato risulti da scrittura avente data certa
anteriore al pignoramento.
Non sembra seriamente contestabile che una lettura logica della normativa in tema di
mandato, così come emerge dalla scomposizione funzionale delle disposizioni testé operata,
conduce ad un primo, inquietante risultato, quello, cioè, di una insanabile contraddizione tra
la disciplina normativa degli acquisti mobiliari e quella dei trasferimenti dei diritti
immobiliari, che ripete la sua origine dalla più generale difficoltà, tipica del meccanismo
interpositorio, di coniugare l'esigenza (avvertita come primaria dal legislatore che, non a
caso, esclude, ex art. 1705 comma 2 prima parte, il rapporto tra i terzi e il mandante, ma
non postula altrettanto esplicitamente la speculare esclusione mandante/terzi) di tutelare la
scelta di riservatezza del mandante interponente con le regole negoziale sulla tutela
dell'affidamento. Ne deriva un apparentemente ossimoro legislativo, un ibrido proteiforme
che miscela momenti puri di tutela (artt. 1705 comma 2, 1706 comma 1, 1707 prima parte),
accentuati al punto da configurare il mandatario evidentemente come non titolare dei beni
acquistati (si pensi, in particolare, oltre che alla rivendica concessa al mandante, alla
disciplina degli acquisti di beni mobili da parte dei terzi di cui all'art. 1706 primo comma
ultima parte: il farne salva la legittimità per effetto del possesso di buona fede riproduce
esattamente la disciplina dell'acquisto a non domino di cui all'art. 1153) a momenti di tutela
soltanto mediata, in cui, peraltro, prevalgono inevitabilmente le norme sulla pubblicità degli
acquisti immobiliari (il cui carattere, molto meno dichiarativo di quanto non sia dato
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apprendere dalla manualistica tradizionale, non può essere in questa sede utilmente
approfondito).
Dovendosi evidentemente escludere una interpretazione (che suonerebbe inaccettabilmente
grossolana) dell'intero coacervo normativo sin qui evidenziato che fondi una radicale
differenza morfologica e funzionale (destinata a ripercuotersi sul piano dell'effetto traslativo)
sulla natura del bene (mobile-immobile), per predicare, rispettivamente, in capo al
mandante, l'esistenza di una situazione ab origine proprietaria, ovvero di mera aspettativa
(quantunque tutelata ex lege) di ritrasferimento su di un piano meramente obbligatorio, forti
appaiono le suggestioni della teoria del trasferimento automatico tout court, operante sia in
caso di alienazione di mobili che di immobili, che ha l'indubitabile pregio di ricondurre ad
unità l'intera fattispecie, annettendo effetti soltanto formalistico/pubblicitari all'atto (non
negoziale, o non necessariamente negoziale) di ritrasferimento nelle alienazioni immobiliari
(fortemente suggestiva, in proposito, appare l'idea di un atto unilaterale ricognitivo
dell'esistenza del mandato da parte del mandatario, di per sé idoneo alla trascrizione, da
redigere con snellezza ed economia di mezzi dinanzi al pubblico ufficiale); teoria che, a
giudizio del collegio, potrebbe oggi eventualmente arricchirsi e in parte modificarsi
ritenendo, fintanto perduri la situazione iniziale di segretezza, che la disciplina applicabile
alla fattispecie sia quella dell'art. 1705 primo comma e secondo comma, prima parte,
mentre, caduta (per volontà del titolare dell'interesse) ogni esigenza di tutela (perché quegli
ritiene, in qualsiasi momento funzionale del rapporto di mandato, di manifestare la propria,
reale posizione di titolare dell'interesse), la stessa ratio dell'istituto della interposizione reale
viene meno (così, piuttosto che di acquisto diretto o automatico del mandante, potrebbe
allora non infondatamente discorrersi di un acquisto condizionale da condizione potestativa
semplice unilaterale ex lege: a seguito della manifestazione di volontà del mandante - il cui
contenuto si esprimerebbe, all'incirca, nella proposizione «non intendo più avvalermi della
facoltà di tener celata la mia posizione di titolare dell'interesse negoziale, e intendo
ricondurre ad unità le posiozoni di titolare formale e portatore dell'interesse sostanziale» -, il
meccanismo legislativo si spoglia di ogni ambiguità, consentendo la retroattiva assegnazione
degli effetti del negozio al mandante all'esito dell'avverarsi della condizione).
Tale ricostruzione dell'intera fattispecie della rappresentanza indiretta, benché intrisa di
intense suggestioni e apparentemente appagante sul piano dogmatico, non sembra, peraltro,
poter allo stato essere adottata.
Difatti, nel procedere alla verifica funzionale della sua bontà applicativa, appare innegabile
che il mandante, automaticamente (o condizionalmente) destinatario dell'effetto traslativo
del negozio intercorso tra mandatario e terzo, sarebbe necessariamente legittimato ad agire
in giudizio a tutela del diritto così acquisito, sarebbe, cioè, legittimato ad esperire tutte le
azioni ex contractu nella sua posizione di titolare dell'interesse sostanziale, ivi compresa
l'azione risarcitoria da inadempimento del terzo. Ma l'an e il quantum di tale azione, in
concreto, non potrà in alcun modo rapportarsi ai danni che lui stesso (piuttosto che il
mandatario, controparte formale e soggetto autore dell'atto) potrebbe in astratto lamentare,
giusta disposto dell'art. 1225 c.c. - norma che, nel limitare al danno prevedibile l'obbligo
risarcitorio della parte inadempiente, esclude tout court che danni (ipoteticamente
maggiori), reclamati da chi controparte negoziale non possano essergli legittimamente
richiesti (salvo non voler ipotizzare una surreale «condizione non espressa» da ritenersi
immanente ad ogni convenzione negoziale, in ossequio alla quale ciascuna delle parti
potrebbe o addirittura dovrebbe prospettarsi la possibilità che dietro ogni negozio traslativo
possa celarsi un rapporto di mandato).
Il vero, insuperabile ostacolo che si frappone all'accoglimento della tesi poco sopra descritta
è, dunque, quello che vede totalmente pretermessa l'analisi della posizione contrattuale del
terzo. Se, nell'ottica del rapporto mandante/mandatario, la rilevanza sostanziale
dell'interesse può far premio sulla titolarità (soltanto) formale (oltre che istantanea) del
mandatario, non può per converso trascurarsi che il terzo, nel contrattare con quest'ultimo (e
soltanto con quest'ultimo), ripone un legittimo affidamento nel fatto che tutte le vicende
successive al contratto, sul piano della fisiologia come della patologia degli effetti, andranno
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a dipanarsi tra esse parti, senza alcun intervento ipotetici di terzi-mandanti (in assenza di un
suo espresso consenso). Proprio l'aspetto del difetto assoluto di consenso del terzo disvela
l'ulteriore momento di debolezza della teoria dell'effetto (diretto, automatico, condizionale
che si voglia) costituitosi in capo al mandante: ammettere la legittimità di tale traslatio non
soltanto sotto il profilo attivo del credito (sicuramente cedibile senza consenso), ma
dell'intera posizione contrattuale formalmente costituitasi in capo al mandatario si risolve,
nella sostanza, se valutata non più nell'ottica del rapporto interno, ma in quella del terzo
contraente, nell'ipotizzare una fattispecie di cessione senza consenso del contraente ceduto,
in evidente spregio al disposto dell'art. 1406 c.c. (non a caso, le sentenze predicative
dell'orientamento meno restrittivo si limitano a discorrere, pudicamente, di modificazione
soggettiva del rapporto, senza ulteriori approfondimenti).
Le norme in tema di mandato di cui dianzi si è espressamente ricordato il contenuto vanno,
pertanto, interpretate nel senso che esse disegnano un complesso (anche se non del tutto
coerente) sistema diacronico imperniato su di un evidente rapporto di regola/eccezione:
regola generale sarà, pertanto, quella, di cui all'art. 1705 c.c., secondo la quale il mandatario
acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, i quali non
hanno alcun rapporto con il mandante. Eccezionali risulteranno, per converso, quelle
disposizioni che, in deroga a tale, generale meccanismo effettuale, ne prevedano, sul piano
processuale, una sorte diversa, imperniata sulla immediata reclamabilità del diritto (di
credito o reale) da parte del mandante. Queste regole operazionali, tanto sostanziali quanto
processuali, nel porsi come eccezioni rispetto alla disciplina generale del mandato, sono
pertanto di stretta interpretazione, e non consentono alcuna integrazione di tipo analogico,
né possono, nella specie, essere interpretate estensivamente, nella già rilevata ottica della
tutela della posizione del terzo contraente. L'espressione «diritti di credito» di cui all'art.
1705 comma 2 c.c. va, pertanto, rigorosamente circoscritta all'esercizio (fisiologico) dei
diritti sostanziali acquistati dal mandatario, con conseguente esclusione delle azioni poste a
loro tutela (annullamento, risoluzione, rescissione, risarcimento).
2) I limiti soggettivi dell'azione di arricchimento
Con il quinto motivo di ricorso, la difesa del Pagani lamenta, testualmente la violazione
dell'art. 112. c.p.c. nonché dell'art. 2042 c.c. in relazione alla richiesta con la quale si era
domandato che quantomeno la Lario Products venisse dichiarata tenuta a restituire al Pagani
le somme anticipate per la ristrutturazione dell'immobile e per il pagamento degli oneri di
urbanizzazione, nonché in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.
Il motivo (al di là e a prescindere da non lievi profili di inammissibilità sub specie della sua
autosufficienza, attesa la mancata indicazione di tempi, contenuti
e mezzi di prova attinenti alla specifica domanda proposta) appare comunque infondato nel
merito.
Va premesso che il lamentato vizio di omessa pronuncia risulta del tutto insussistente, avendo
la corte di appello specificamente e analiticamente esaminato l'analogo motivo di doglianza
svolto in quel grado di giudizio (ff. 15-16 della sentenza), rigettandolo alla stregua della
dominante giurisprudenza di questa corte con motivazione sicuramente incensurabile sotto il
profilo della sufficienza.
Come ulteriormente rilevato nell'ordinanza di rimessione della seconda sezione, anche in
relazione a tale motivo pare ravvisabile un contrasto di giurisprudenza in ordine ai limiti
soggettivi dell'azione di arricchimento esperita dall'odierno ricorrente nei confronti del terzo
contraente Lario Products.
Precisa, difatti, l'ordinanza, che questa stessa corte, con la sentenza n. 6201/2004, ha
ritenuto che l'azione di arricchimento possa legittimamente essere esperita
indipendentemente dalla circostanza che i fini al cui perseguimento la prestazione era diretta
fossero stati realizzati da un soggetto diverso da quello cui la prestazione medesima era
destinata, giacché il vantaggio goduto dall'arricchito non deve necessariamente risolversi in
un diretto e immediato incremento patrimoniale ma può consistere in qualsiasi forma di
utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata.
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Di converso, le sentenze 11835/2003 e 11051/2002 avrebbero specularmente condizionato
(dando continuità ad un orientamento largamente maggioritario) l'esperibilità dell'azione di
arricchimento senza causa al presupposto che l'incremento e la correlativa diminuzione del
patrimonio dipendano da un unico fatto costitutivo -, conseguentemente negandola tutte le
volte in cui il soggetto arricchito sia diverso da quello con il quale colui che compie la
prestazione ha un rapporto diretto (nella parte motiva delle pronunce citate si preciserà
ancora che, in tale ipotesi, l'eventuale arricchimento costituisce soltanto un effetto indiretto
o riflesso della prestazione eseguita, sicché viene meno il nesso di causalità tra
l'impoverimento di un soggetto e l'arricchimento dell'altro, con conseguente venir meno del
fondamento dell'invocato indennizzo).
Questo collegio ritiene che il segnalato contrasto vada composto dando sostanziale continuità
all'orientamento maggioritario, pur se nei limiti e con le precisazioni che seguiranno.
2.1. Analisi della giurisprudenza di legittimità: gli orientamenti segnalati come contrastanti
a) la sentenza n. 6201 del 29/03/2004
La pronuncia risulta massimata nei termini che seguono: l'azione di arricchimento ex art. 2041
cod. civ. ben può essere esperita indipendentemente dalla circostanza che i fini, al cui
perseguimento la prestazione era diretta, siano stati realizzati da soggetto diverso da quello
cui la medesima era destinata, giacché il vantaggio goduto dall'arricchito non deve
necessariamente risolversi in un diretto ed immediato incremento patrimoniale ma può
consistere in qualsiasi forma di utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata.
Nella parte motiva della sentenza viene, peraltro, specificato che il principio è limitato
all'arricchimento «indiretto», da valutarsi sotto il profilo del risparmio di spesa, conseguito da
un ente pubblico (nella specie, un Comune), quando la prestazione (nella specie,
progettazione di alcuni alloggi da parte di un privato) venga poi utilizzata in concreto da altro
ente pubblico (nella specie, quello deputato ex lege alla materiale costruzione degli
immobili).
Si legge, difatti, in sentenza: Quanto, infine all'ulteriore profilo adombrato nel motivo di
ricorso, quello, cioè, per cui il destinatario dell'arricchimento andrebbe identificato in un
soggetto diverso dalla parte pubblica in giudizio, è sufficiente ricordare il principio di
fungibilità dell'ente beneficiario, più volte affermato da questa Corte (ex multis, Cass. Ss.uu.
n. 1025 del 1996), per ritenere predicabile la legittimità della proposizione di un'azione di
indebito arricchimento.
Nella citata sentenza a sezioni unite n. 1025 del 1996 si legge, difatti: come questa Corte ha
chiarito anche in precedenti sue decisioni, il riconoscimento, da parte di enti pubblici,
dell'utilità di una prestazione professionale, con conseguente loro arricchimento, si realizza
con la mera utilizzazione della stessa, indipendentemente dal fatto che i fini alla cui
realizzazione la prestazione poteva essere diretta non fossero stati realizzati dall'ente cui il
progetto era stato destinato (Cass. 12 luglio 1974 n. 2090; Cass. 8 gennaio 1979 n. 64; Cass.
27 gennaio 1982 n. 530; Cass. 19 luglio 1982 n. 4198; Cass. 9 novembre 1993 n. 11061). E ciò
significa (conformemente a quanto ritenuto dalla quasi totalità della dottrina - nonché dalla
Redazione al codice civile - Libro delle Obbligazioni, n. 262 - secondo la quale non è stato e
non poteva essere chiarito ex lege il concetto di arricchimento), che il vantaggio goduto
dall'arricchito non deve avere necessariamente un contenuto di diretto incremento
patrimoniale, ma soltanto che esso può rinvenirsi in una qualsiasi forma di utilizzazione della
prestazione consapevolmente attuata dalla P.A., e, quindi, anche in una mera sua mancata
diminuzione patrimoniale (intesa come risparmio di spesa).
b) la sentenza n. 11835 del 5/08/2003
Di segno (apparentemente) opposto il dictum della sentenza 11835/2003, la quale, in
conformità con un orientamento largamente maggioritario, riafferma un principio di diritto
secondo il quale:
L'azione generale di arricchimento non può essere proposta quando il soggetto che si è
arricchito sia diverso da quello con il quale chi compie la prestazione ha un rapporto diretto,
in quanto l'eventuale arricchimento costituisce, in tal caso, un effetto soltanto indiretto o
riflesso della prestazione eseguita, essendo altresì carente anche il requisito della
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sussidiarietà (art. 2042 cod. civ.), la cui sussistenza è esclusa qualora il danneggiato possa
esperire un'azione tipica nei confronti dell'arricchito o di altri soggetti che siano obbligati nei
suoi confronti ex lege o in virtù di contratto. (Nella specie, la S.C. confermerà la sentenza di
merito che aveva escluso l'esperibilità dell'azione di arricchimento nei confronti del
proprietario di un suolo da parte di un soggetto che vi aveva realizzato delle opere su incarico
conferitogli da un terzo).
Si legge nella parte motiva della sentenza:
Secondo l'insegnamento ripetutamente affermato da questa Corte in tema di azione generale
di arricchimento ex art. 2041 c.c., affinché si verifichi l'ipotesi dell'ingiustificato
arricchimento senza causa è necessario il concorso simultaneo di due elementi:
l'arricchimento di un soggetto e la diminuzione patrimoniale a carico di un altro soggetto,
provocate da un unico fatto costitutivo; la mancanza di una causa giustificatrice
nell'arricchimento dell'uno e nella perdita patrimoniale subita dall'altro. Ne consegue che
l'azione non può essere esercitata quando il soggetto arricchito è diverso da quello con il
quale chi compie la prestazione ha un rapporto diretto, dal momento che, in questo caso,
l'eventuale arricchimento costituisce solo un effetto indiretto o riflesso della prestazione
eseguita (in termini, Cass. 26 luglio 2002, n. 11051).
Peraltro, l'azione di indebito arricchimento, per il suo carattere di sussidiarietà ai sensi
dell'art. 2042 cod. civ., non è esercitabile quando il danneggiato possa esperire un'altra
azione tipica nei confronti dell'arricchito o di altri soggetti che siano obbligati per legge o per
con tratto nei confronti dell'impoverito, sempre che ricorra l'unicità del fatto costitutivo
dell'arricchimento e dell'impoverimento (così, tra le altre, Cass. 9 maggio 2002, n. 6647; Cass.
27 giugno 1998, n. 6355).
c) la sentenza n. 11656 del 3/08/2002
Prima di affrontare funditus la questione sollevata dall'ordinanza di rimessione, questo
collegio ritiene opportuno rilevare ancora come la sentenza 11656/2002 abbia, a sua volta,
espresso, in argomento, un orientamento che può ben definirsi in termini di tertium genus
rispetto alle soluzioni astrattamente predicabili con riferimento ai limiti soggettivi dell'azione
di arricchimento, discostandosi - sia pur in parte qua dall'orientamento giurisprudenziale
maggioritario in tema di arricchimento c.d. indiretto o mediato, specie con riferimento ai
problemi centrali del nesso causale che deve intercorrere fra la locupletazione e la
correlativa diminuzione patrimoniale e del c.d. «principio di sussidiarietà».
La sentenza è così massimata:
In tema di «arricchimento indiretto», l'azione ex art. 2041 c.c. è esperibile contro il terzo che
abbia conseguito l'indebita locupletazione in danno dell'istante quando l'arricchimento stesso
sia stato conseguito dal terzo in via meramente di fatto e perciò gratuita nei rapporti con il
soggetto obbligato per legge o per contratto nei confronti del depauperato, e resosi
insolvente nei riguardi di quest'ultimo. La predetta azione è invece inammissibile ove la
prestazione sia stata conseguita dal terzo in virtù di un atto a titolo oneroso. (La vicenda
definita con la pronuncia in esame può essere così sintetizzata: una società aveva eseguito
opere e forniture presso i cantieri della Rai in alcune città italiane su ordine di un'altra
società; a seguito del mancato pagamento del prezzo concordato per l'esecuzione delle opere
da parte di quest'ultima, la società appaltatrice convenne in giudizio la Rai s.p.a., effettiva
beneficiaria della prestazione, chiedendone la condanna al pagamento di quanto dovutole
dalla committente - a sua volta legata contrattualmente con la effettiva beneficiaria delle
opere eseguite. In entrambi i giudizi di merito la domanda attorea venne rigettata,
sull'assunto che «laddove il soggetto che si arricchisce è un terzo, diverso da quello nei cui
confronti la parte che adempie la prestazione ha un rapporto contrattuale diretto - di modo
che l'arricchimento del primo costituisca un mero effetto riflesso della prestazione
dell'adempiente verso il contraente diretto - non sussistono i presupposti di fatto per
l'esercizio dell'azione di cui all'art. 2041 c.c. verso il beneficiario dell'adempimento, potendo
il soggetto impoverito esperire le azioni a tutela dei suoi diritti solamente nei confronti del
soggetto destinatario della prestazione contrattuale». Questa Corte, investita del ricorso
proposto dalla società soccombente, ha sì confermato la decisione dei giudici di merito,
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rilevando come nel caso di specie mancasse la prova dell'inadempimento della Rai s.p.a. terza nel rapporto committente/appaltatrice e parte contraente nel rapporto diretto con la
società committente -, ma ha anche affermato che l'azione proposta risultava inammissibile
sol perché il terzo beneficiario aveva ottenuto la prestazione in virtù di atto a titolo oneroso).
È convincimento di queste sezioni unite che il contrasto di giurisprudenza segnalato
dall'ordinanza di rimessione con riferimento alla peculiare fattispecie dell'arricchimento della
P.A. (che potrebbe piuttosto considerarsi come destinato a porsi in un rapporto di
eccezione/regola rispetto al principio generale più volte ribadito dall'orientamento
maggioritario, fondato sull'unicità del fatto costitutivo e sull'identità arricchito/beneficiario,
attesa la peculiarità della fattispecie dell'arricchimento della P.A. con riferimento alla sua
fungibilità soggettiva) vada esaminato e risolto anche con riferimento a quest'ultima
sentenza, pur se essa esula dai limiti strettamente connessi con il motivo del presente
ricorso, in quanto anch'essa si iscrive nell'orbita del contrasto in ordine alla legittima
esercitabilità, o meno, di una azione di arricchimento mediato.
2.2. Analisi storica della giurisprudenza e della dottrina in tema di arricchimento indiretto
Come recentemente osservato da un'attenta dottrina, pur rappresentando l'azione di
arricchimento una novità del nuovo codice civile, sotto la vigenza dell'abrogato codice si
ammetteva pacificamente il ricorso a questo rimedio anche nei casi di arricchimento
indiretto, caratterizzati, appunto, dall'esecuzione di una prestazione che, eseguita per conto
di un soggetto, arricchiva poi un terzo, mentre l'esecutore non riceveva il compenso promesso
da chi l'aveva richiesta.
In conformità con tale, ormai consolidata tradizione da «diritto vivente», la giurisprudenza
formatasi in seguito all'entrata in vigore del codice del 1942 (in particolare quella risalente
agli anni '40 e '50) avrebbe dato continuità a tale orientamento, riaffermando la legittimità
delle istanze dei depauperati fondate su arricchimenti indiretti (in particolare nelle ipotesi di
insolvenza dell'intermediario, chiamando così il destinatario finale della prestazione a
rispondere dell'arricchimento ricevuto a prescindere dai suoi rapporti con l'intermediario
stesso: emblematico in tal senso è il decisum di Cass. 26 marzo 1953, n. 782, con riferimento
a fattispecie in cui una impresa appalitatrice era stata incarica di effettuare dei lavori di
riparazione su di una nave e la società committente aveva emesso, per il pagamento del
prezzo, una cambiale andata successivamente in protesto, così che gli esecutori delle opere,
ritenendo che la committente fosse insolvente, avevano preferito rivolgersi direttamente ai
proprietari della nave. Il giudice di legittimità, pur confermando la decisione della corte di
merito sfavorevole agli esecutori delle riparazioni, e pur escludendo nella specie la
esperibilità dell'azione di arricchimento ribadendone la natura sussidiaria - poteva, difatti,
essere nella specie esercitata l'azione contrattuale nei confronti della ditta committente che
aveva richiesto la riparazione della nave e la fornitura dei materiali per l'attrezzatura di essa
- ritenne che i danneggiati si sarebbero potuti esimere dall'esercizio di tale azione,
rivolgendosi direttamente contro i proprietari, qualora avessero provato lo stato di insolvenza
dei debitori per contratto). (Nei medesimi sensi, Cass. 17 marzo 1947 n. 391; 21 febbraio
1955, n. 507; 20 ottobre 1962, n. 3057).
All'inizio degli anni Sessanta si assiste ad un radicale revirement della giurisprudenza di
questa Corte, che, aderendo alla diversa impostazione propugnata da una autorevole dottrina
sul finire degli anni '50, affermerà un principio del tutto speculare, all'esito di un
fondamentale arresto delle sezioni unite (Cass. 2 febbraio 1963, n. 183) nel quale, per la
prima volta, si afferma che l'azione di arricchimento postula l'arricchimento di un soggetto e
la diminuzione patrimoniale in pregiudizio di un altro soggetto, collegati tali eventi da nesso
di causalità, e si specifica che, quanto al primo requisito, è necessaria la sussistenza di un
fatto costitutivo unico, dal quale possano farsi dipendere tanto l'arricchimento, quanto la
correlativa diminuzione patrimoniale: laddove, invece, lo spostamento patrimoniale, sia pure
ingiustificato, fra due soggetti sia determinato da una successione di fatti distinti (nella
specie, espropriazione fondiaria in danno di un soggetto, espropriazione militare in danno
dell'altro), che hanno inciso su due diverse situazioni patrimoniali soggettive, in modo del
tutto indipendente l'uno dall'altro, il depauperamento di un soggetto non è l'effetto del
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correlativo arricchimento dell'altro e viceversa, e viene meno il fondamento dell'indennizzo (a
tale Grand Arrét faranno poi seguito, negli anni successivi, le conformi decisioni di cui a Cass.
12 ottobre 1970, n. 1957; 4 maggio 1978, n. 2087; 15 giugno 1979, n. 3368; 8 marzo 1980, n.
1552; 9 giugno 1981, n. 3716; 29 luglio 1983, n. 5236; 10 febbraio 1993, n. 1686) .A tale
impostazione darà, come già rilevato in precedenza, ulteriore continuità la dominante
giurisprudenza degli anni 2000, anche se una profonda rivisitazione critica verrà da parte di
quella dottrina attenta a rilevare come l'idea della necessità, ai fini dell'esperibilità
dell'azione di ingiustificato arricchimento, di un unico fatto costitutivo nella relazione fra
arricchimento e depauperamento avrebbe escluso dall'operatività dell'azione casi nei quali,
viceversa, la possibilità di configurare un arricchimento senza causa deve ritenersi
indiscutibile (come nel caso della delegazione, quando il delegato adempie il debito assuntosi
nei confronti del delegatario e quest'ultimo consegue un arricchimento proveniente dal
patrimonio del delegato, terzo rispetto al rapporto delegante-delegatario, in base ad un
contratto stipulato con questo - l'assunzione del debito da parte del delegato - mentre è fuor
di dubbio che, ove il rapporto di valuta sia nullo, il delegante possa agire contro il
delegatario). Per altro verso, l'impostazione fondata sulla necessità di un nesso di causalità
diretto parve piuttosto frutto della tendenza a trasferire nella materia degli arricchimenti
ingiustificati le nozioni elaborate in relazione allo studio dei fatti illeciti, nei quali soltanto
l'esigenza di uno specifico nesso eziologico tra il fatto e il danno assume un chiaro significato
normativo, poiché scaturente da univoche indicazioni del sistema. In alternativa, verrà allora
proposta la teoria della relazione di necessità meramente storica fra arricchimento e
depauperamento (nel senso cioè che il rapporto di causalità potrebbe ritenersi sussistente ove
dimostrabile che l'uno non si sarebbe verificato senza l'altro, così che il fondamento
dell'indennizzo di cui all'art. 2041 c.c. non veniva meno pur quando l'ingiustificato
spostamento patrimoniale avesse tratto origine da una successione di fatti incidenti su diverse
situazioni patrimoniali soggettive del tutto indipendenti fra loro, come, ad esempio, nel caso
di un mutuo contratto al fine di effettuare una donazione, riconoscendo al mutuante,
nell'eventualità dell'inadempimento del mutuatario, un'azione nei limiti dell'arricchimento nei
confronti del beneficiario della prestazione).
La ricognizione delle posizioni dottrinarie in subiecta materia non può, infine, prescindere,
nella compiuta ricostruzione delle problematiche dell'arricchimento indiretto, dall'analisi del
pensiero di chi ha indirizzato la propria indagine alla ricerca di disposizioni codicistiche che
potessero in qualche modo fornire un fondamento normativo alla soluzione della questione: si
è così acutamente evidenziato la correlazione fra l'ingiustificato arricchimento indiretto e
l'art. 2038 c.c., norma relativa alla responsabilità del terzo acquirente in ipotesi di
alienazione di cosa ricevuta indebitamente. Sul presupposto della legittimità di una
applicazione in via analogica dei principi descritti dalla norma citata, si è allora ritenuto
opportuno rimodellare la soluzione predicabile per i diversi casi di arricchimento indiretto
(quella in cui la prestazione ricevuta dal terzo sia avvenuta in virtù di un atto a titolo gratuito
e quello in cui sia avvenuta a titolo oneroso) proprio sul disposto di tale norma - che disciplina
esclusivamente il caso in cui il terzo abbia ricevuto la cosa a titolo gratuito, stabilendo che
quest'ultimo è tenuto verso l'impoverito/solvens nei limiti dell'arricchimento, senza prevedere
né disciplinare, peraltro, la speculare ipotesi in cui la cosa sia stata ricevuta dal terzo a titolo
oneroso. Dall'art. 2038 c.c., secondo la ricostruzione dottrinaria in parola, emergerebbe la
generale regula iuris secondo la quale il depauperato può esercitare l'azione di arricchimento
nei confronti del terzo esclusivamente nel caso in cui quest'ultimo abbia conseguito la
prestazione (e di conseguenza si sia arricchito) a titolo gratuito, mentre, qualora abbia
conseguito la prestazione a titolo oneroso, l'azione non sarebbe esperibile.
Di recente, si è (condivisibilmente) osservato, in proposito, come l'aspetto più appagante di
questa dottrina sia rappresentato dal fatto che l'ancoraggio all'art. 2038 c.c., per un verso,
fornisce il necessario fondamento normativo al riconoscimento di una (sia pur circoscritta)
fattispecie arricchimento mediante intermediario, per l'altro, induce ad una interpretazione
più elastica dell'art. 2042 c.c.
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È convincimento di queste sezioni unite, pertanto, che il doppio requisito dell'unicità del
fatto costitutivo e della sussidiarietà dell'azione vada senz'altro riaffermato sul piano della
regola generale, con la duplice eccezione costituita dall'arricchimento mediato conseguito da
una P.A. rispetto ad un ente (anch'esso di natura pubblicistica) direttamente
beneficiario/utilizzatore della prestazione dell'impoverito e dall'arricchimento conseguito dal
terzo a titolo meramente gratuito, in tal modo rivalutandosi, come ancora osservata da
un'attenta dottrina, la funzione propriamente equitativa dell'actio de in rem verso, la cui
ratio è sopratutto quella di porre rimedio a situazioni giuridiche che altrimenti verrebbero
ingiustamente private di tutela tutte le volte che tale tutela non pregiudichi in alcun modo le
posizioni, l'affidamento, la buona fede dei terzi. Tale conclusione trova altresì conforto
storico nel ricordo del leading case giurisprudenziale (il ed. affaire Boudier, che condusse,
alla fine dell'800, prima la dottrina e la legislazione francese, poi quella italiana, a
differenziare e introdurre nel codice civile l'istituto dell'arricchimento senza causa secondo
una matrice culturale, prima e ancora che giuridica, diversa da quella dell'ordinamento
tedesco - in cui si affermava invece una lettura dell'auf dessen Kosten del paragrafo 812 del
BGB nel senso della necessaria riconducibilità di arricchimento e danno allo stesso fatto
generatore) come un tipico caso di arricchimento del terzo determinato da una prestazione
effettuata in favore della controparte contrattuale (nel 1892, difatti, la Corte di cassazione
francese si trovò a decidere una controversia introdotta da un commerciante di concimi che
aveva venduto all'affittuario di un terreno una partita dei suoi prodotti, essendo risultato
insolvente l'affittuario insolvente e venendo a scadenza il rapporto di affitto, così che il
commerciante non potè ottenere il pagamento della fornitura, rivolgendosi vittoriosamente al
proprietario del terreno, che venne condannato sulla base del riconoscimento di un principio apparentemente eversiva in un ambiente giuridico quale quello francese fondato sulla
primazia della fonte legislativa - ritenuto purtuttavia fondamentale, sebbene non codificato,
per cui chiunque si arricchisca in danno di un altro soggetto è tenuto a rispondere di tale
profitto).
Restano, infine, da esaminare i restanti motivi (I, III e IV) del ricorso Pagani.
II primo motivo - che riproduce la doglianza già rappresentata in sede di appello volta ad una
diversa ricostruzione della vicenda negoziale in termini di mandato con rappresentanza,
lamentando, per l'effetto, una presunta violazione degli artt. 1388 e 2297 c.c. - è (come già
anticipato) del tutto inammissibile. Esso, difatti, sì come articolato, pur lamentando
formalmente una plurima violazione di legge e un decisivo difetto di motivazione, si risolve,
in realtà, nella (non più ammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze ormai
definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a
questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.
nella parte in cui il giudice del merito ha ritenuto del tutto legittimamente e del tutto
condivisibilmente ricorrere, nella specie, un'ipotesi ci mandato senza rappresentanza, si
induce piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come
accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all'impugnata sentenza censure del
tutto inammissibili, da un canto, per la mancata trascrizione, in parte qua, degli atti di causa
la cui interpretazione egli assume errata (con conseguente violazione del noto principio di
autosufficienza del ricorso per cassazione), dall'altro, perché la valutazione delle risultanze
probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse ritenute più idonee a sorreggere la
motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice di merito il
quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte
di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di
altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento,
senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale
ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. È principio di diritto ormai consolidato
quello per cui l'art. 360 n. 5 del codice di rito non conferisce in alcun modo e sotto nessun
aspetto alla Corte di cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad
essa, di converso, il solo controllo - sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica
- delle valutazioni compiute dal giudice d'appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta
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l'individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove, controllandone la
logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla
dimostrazione dei fatti in discussione (eccezion fatta, beninteso, per i casi di prove c.d.
legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella
specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di
secondo grado, inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e
funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di
risultanze di fatto (ormai cristallizzate guoad effectum) sì come emerse nel corso dei
precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia
trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito giudizio di merito, nel
quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto
l'attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza procedimentale, quanto
ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine
di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che nuove
istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente a
porsi dinanzi al giudice di legittimità. In particolare, sotto il peculiare profilo
dell'interpretazione adottata dai giudici di merito con riferimento al contenuto del complesso
tessuto negoziale per il quale è processo, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata
di questa Corte regolatrice va in questa sede nuovamente ribadito che, in tema di
interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato
interpretativo in sé, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di
merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni legali di ermeneutica e la coerenza e logicità
della motivazione addotta (tra le tante, funditus, Cass. n. 2074/2002). L'indagine
ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice del fatto, e può essere censurata
in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative
regole di interpretazione - con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni
critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si
traduca, come nella specie, nella mera prospettazione di una diversa valutazione degli stessi
elementi di fatto da quegli esaminati.
Per i medesimi motivi dianzi esposti vanno rigettati il terzo e il quarto motivo di ricorso - con
il primo dei quali si lamenta la violazione degli artt. 1453 e 1455 in relazione all'eccezione
con la quale si era rilevato che non sussistevano motivi che potessero giustificare la
risoluzione del preliminare di compravendita; con il secondo, invece, la violazione degli artt.
2043, 2729 c.c. - avendo, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il giudice di
merito fornito ampia, approfondita, condivisibile motivazione sulle ragioni poste a
fondamento della pronunciata risoluzione e dell'esclusione di un accordo fraudolento
(rispettivamente, ai ff. 10-11 e 11-12 della sentenza impugnata).
La disciplina delle spese segue come da dispositivo
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso.
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