Diocesi di Pitigliano Sovana Orbetello
Unità e indissolubilità
del matrimonio
Comunione ai divorziati risposati
Inos Biffi
01/07/2009
L'unità e indissolubilità del matrimonio e il non sposarsi "per il regno di
Dio" rappresentano le due inattese e sorprendenti novità del Vangelo.
Annunciarle al mondo ebraico e soprattutto a quello pagano - sulla cui
condotta abbiamo l'impressionante e realistica descrizione nel primo capitolo della lettera di Paolo ai Romani - significava proporre i principi e le
norme che portavano a un rivolgimento inaudito e a un rinnovamento radicale.
La Chiesa, fedele alla Parola di Cristo, lo ha fatto dall'inizio, a partire non
da un dialogo delle culture, che sarebbero state sorde e non avrebbero capito, ma da tre altre precise persuasioni: la prima, che quelle novità traducevano il disegno di Dio sull'uomo e attuavano una compiuta promozione
umana; la seconda, che la trasmissione di quel Vangelo rappresentava un
compito permanente e non volubile della predicazione cristiana; terzo, che
quelle novità erano accompagnate dalla grazia, che sa toccare e convertire
il cuore dell'uomo.
Ci soffermiamo qui sull'indissolubilità del matrimonio cristiano di fronte
alla prassi del divorzio.
L'affermazione di Cristo è perentoria e inequivocabile: il ripudio era stato
una condiscendenza alla "durezza del cuore", ma era contrario all'originario disegno di Dio sull'uomo e sulla donna: "All'inizio non fu così" (Matteo, 19, 8). Nel progetto del Creatore l'uomo e la donna nel matrimonio sono destinati a formare "una sola carne", per cui l'uomo non deve dividere
quello che Dio ha congiunto.
Di conseguenza - dichiara Gesù - "chiunque ripudia la propria moglie, se
non in caso di unione illegittima, e ne sposa un'altra, commette adulterio"
(Matteo, 19, 9). E vale sia per l'uomo sia per la donna: "se questa, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio" (Marco, 10, 12).
Nelle attuali discussioni, vivaci e non raramente confuse anche all'interno
della Chiesa, il primo punto, che importa richiamare senza incertezze, riguarda precisamente questa indissolubilità.
Deve, cioè, emergere che il divorzio, cioè il risposarsi, contrasta con la volontà di Gesù e che esso non corrisponde al progetto divino o alla ragione
per la quale sono stati creati l'uomo e la donna. In altre parole, un matrimonio dissolubile contraddice e infrange quel disegno "iniziale" al quale
Cristo ha inteso ricondurre perentoriamente chi scelga di essere suo discepolo. Certo, uno è libero di non diventare discepolo di Cristo ma, se lo diviene, non può concepire un proprio e differente modello di sponsalità.
Ciò che oggi appare più grave e preoccupante non sono, tuttavia, dei comportamenti di infedeltà, ma la pretesa di una professione cristiana che si
accompagni con l'annebbiamento o la contestazione relativa al tassativo
principio dell'indissolubilità del matrimonio, nella persuasione che un allentamento di tale indissolubilità sia segno da parte della Chiesa di maggiore umanità, rispetto a una concezione - quella stessa di Cristo - che sarebbe troppo severa e immisericordiosa.
Certo l'indissolubilità del matrimonio non è compiutamente comprensibile
fuori dal Vangelo; essa suscita istintivamente sorpresa e reazione.
Del resto, alla sua proposizione da parte di Cristo i discepoli non mancarono di reagire: "Se questa è la situazione dell'uomo rispetto alla donna, non
conviene sposarsi" (Matteo, 19, 10). Ma non per questo egli corregge il
suo progetto. In ogni caso, l'essere "una sola carne" è il suggello che contrassegna l'unione sponsale del cristiano, cioè del credente, il quale la considera secondo il giudizio di Cristo e quindi secondo la sensibilità della fede. Al declinare della fede non stupisce che succeda fatalmente anche il rigetto di questa prerogativa del matrimonio, strettamente connesso con il
contenuto del Credo cristiano.
La prima pastorale della Chiesa verso i divorziati - ossia i cristiani validamente sposati che hanno contratto un altro vincolo coniugale - e la prima
comprensione verso quanti di loro hanno sinceramente a cuore la loro fede
cristiana non può consistere in una giustificazione del divorzio, ma, all'opposto, deve richiamare e far comprendere, con una attenzione illuminata,
innanzi tutto il valore dell'indissolubilità.
Questo non vuol dire indifferenza di fronte a situazioni non di rado estremamente complesse, soprattutto quando al divorzio sia seguita la formazione di altri nuclei familiari, con la presenza di figli, che hanno il diritto
di avere e di sentire vicini il padre e la madre.
Una sapiente attenzione a tali situazioni saprà sostenere, consigliare e anche confortare, con prudente e delicato discernimento, e con soluzioni variabili a seconda dei casi, lasciando a Dio il giudizio sulle singole responsabilità: una grossolana durezza o uno sbrigativo trattamento non sono mai
evangelici, come non lo è l'insensibilità a tante sofferenze che spesso si ritrovano in matrimoni venuti meno.
Ma in tutto questo dovrà sempre risaltare senza esitazione il matrimonio
indissolubile come il solo conforme al Vangelo, e di conseguenza la scelta
e lo stato del divorzio come scelta e stato, dal profilo cristiano ed ecclesiale, anomali, in se stessi affatto difformi dal disegno sponsale voluto da Dio
e rivelato da Gesù Cristo. In sintesi, la via irrinunciabile per il risanamento
in senso cristiano del matrimonio è di ribadirne l'indissolubilità e di richiamare il Vangelo.
Si tratta, infatti, di comprendere che essa non è pura proibizione e costrizione.
L'apostolo Paolo insegna che l'"essere una sola carne" dell'"inizio" prefigurava e anticipava il mistero della sponsalità stessa di Cristo nei confronti
della Chiesa (Efesini, 5, 31-32). Il matrimonio, nella sua divina progettazione, fu da subito una profezia e un anticipo di questo legame di amore
per la Chiesa, che Gesù ha consumato sulla Croce e che è destinato a segnare lo stato sponsale dei suoi discepoli. Anzi, lo stesso matrimonio non
cristiano - o naturale, come si dice, che ha la sua validità e il suo valore - è
in condizione di incompiutezza, di sofferenza e di obiettiva aspirazione, fin
che non si converta e non si risolva nel matrimonio che Cristo ha definito
come appartenente alla sua fondazione divina "iniziale". Solo che per questo sono necessarie la fede per accoglierlo e la grazia, che è mediata dal
sacramento, per viverlo.
Com'è noto, è oggi motivo di animate discussioni la comunione ai divorziati risposati.
Ma, per comprendere i termini della questione, importa anzitutto mettere
in luce il valore sia della comunione eucaristica sia dell'appartenenza alla
Chiesa, ed è proprio quanto ci sembra sia largamente disatteso e assente
sia nella considerazione dei fedeli sia anche talora in quella di pastori, che
invece per primi dovrebbero farne oggetto di riflessione.
La comunione eucaristica non consiste in un semplice conforto religioso,
in una specie di gratificazione spirituale, o in una iniziativa lasciata al singolo cristiano, che certamente non cessa, anche se divorziato, di far parte
della Chiesa, o in un diritto da lui rivendicabile.
Da un lato, la comunione eucaristica rappresenta la più intima unione con
il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, la sua assunzione sacramentale (cioè
reale), il pieno consenso alla sua volontà, il compimento e la perfezione
del rapporto con lui.
Dall'altro lato, la condizione del divorziato - da distinguere nettamente dalla colpa dell'infedeltà, che può essere perdonata - come ogni peccato - dice
uno stato di evidente contrasto rispetto al piano divino di matrimonio da
lui rivelato e voluto per i suoi discepoli e in cui l'indissolubilità è intrinsecamente inclusa. È esattamente questa antinomia tra la condizione del divorziato e il contenuto dell'Eucaristia che dev'essere anzitutto rilevata.
Ma anche il valore e il significato dell'appartenenza ecclesiale sono abitualmente trascurati nella questione della comunione ai divorziati.
La partecipazione alla mensa eucaristica comporta e manifesta il proprio
essere pienamente nel Corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa. Eucaristia
e Chiesa si implicano reciprocamente.
Vanno, al riguardo, ribadite con chiarezza due cose.
La prima: che il divorziato non si trova escluso dalla Chiesa, non solo perché la Chiesa in varie forme lo prende a cuore e prega per lui, ma anche
perché lui stesso è chiamato a pregare, anzi a prender parte all'orazione
della Chiesa nell'assemblea liturgica.
La seconda: che, a motivo del divorzio, per altro oggetto di una sua libera
scelta, il divorziato si trova in una situazione ecclesialmente ed eucaristicamente dissonante. Né deve stupire che si affermi, per un verso, che non
deve tralasciare l'assemblea eucaristica senza che, per l'altro verso, riceva
il Corpo e il Sangue del Signore.
La tradizione della Chiesa conosce queste forme ridotte di partecipazione:
i catecumeni, per esempio, non partecipavano a tutta la celebrazione; la categoria dei penitenti a sua volta si asteneva, in attesa che, compiuto l'itinerario penitenziale, ricevendo l'Eucaristia rientrassero in piena comunione
con la Chiesa.
Vi è poi la comunione spirituale, ossia di desiderio, assai fraintesa e quasi
resa insignificante, ma a cui san Tommaso riconosceva una grandissima
efficacia per il raggiungimento dello stesso frutto ultimo - o della "realtà"
(res) - dell'Eucaristia.
La non ammissione alla comunione sacramentale tiene viva nella coscienza della Chiesa che il divorzio è in contrasto radicale con l'immagine che
Cristo ha del matrimonio; che l'ammorbidirne la radicalità è la via sbagliata per restaurare questa immagine e rinnovare in senso evangelico la famiglia.
E, d'altronde, a nessuno, nella misura della sua buona volontà, è lasciata
mancare la grazia della misericordia e della salvezza.
Non si tratta di essere convenzionali o anticonvenzionali, ma semplicemente di sapere che cos'è per un cristiano l'Eucaristia, la quale non è un
bene o una proprietà di cui il sacerdote possa disporre.
L'atteggiamento della Chiesa era già enunciato chiaramente dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, in una Lettera ai vescovi della Chiesa
cattolica: i divorziati che si sono risposati civilmente "si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio e perciò non
possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione".
Al clero di Aosta, il 25 luglio 2005, Benedetto XVI diceva: "Partecipare
all'Eucaristia senza comunione eucaristica non è uguale a niente, è sempre
essere coinvolti nel mistero della Croce e della risurrezione di Cristo. È
sempre partecipazione al grande Sacramento nella dimensione spirituale e
pneumatica; nella dimensione anche ecclesiale se non strettamente sacramentale". E aggiungeva: "Occorre, dunque, fare capire che anche se purtroppo manca una dimensione fondamentale tuttavia essi non sono esclusi
dal grande mistero dell'Eucaristia, dall'amore di Cristo qui presente. Questo mi sembra importante, come è importante che il parroco e la comunità
parrocchiale facciano sentire a queste persone che, da una parte, dobbiamo
rispettare l'inscindibilità del Sacramento e, dall'altra parte, che amiamo
queste persone che soffrono anche per noi. E dobbiamo anche soffrire con
loro, perché danno una testimonianza importante, perché sappiamo che nel
momento in cui si cede per amore si fa torto al Sacramento stesso e l'indissolubilità appare sempre meno vera".
Qualcuno potrebbe notare che queste nostre sono riflessioni troppo impegnative per i fedeli. In verità sono riflessioni semplicemente contenute nel
messaggio cristiano, che devono far parte dell'abituale predicazione e catechesi della Chiesa, occupata anzitutto nella pastorale del matrimonio indissolubile.
L'Osservatore Romano - 29 maggio 2009