Nanomateriali
L’ordine di grandezza di un nanomateriale è 10-9 m; solo i chimici rimangono ancora affezionati
alla unità di lunghezza a loro più congeniale, l’Amstrong, pari a 10-10 m (per avere un’idea
dimensionale si sappia che la lunghezza di legame C-C è 1,52 A).
Attualmente, pur non essendo del tutto scomparsa la vecchia tradizione legata all’uso
dell’Amstrong, si tende ad assumere, come riferimento internazionale, il nanometro; questo
comporta una uniformazione di unità di misura, resa possibile anche grazie agli organi preposti alla
scelta degli standard internazionali come la IUPAC, IUPAP e IUPAB (International union pure
applyed chemstry, physics e biology).
Il mondo “nano” presenta caratteristiche particolari che conferiscono alla materia proprietà
chimico-fisiche diverse rispetto a quello dello stesso materiale di partenza. Questo significa che un
materiale di grandi dimensioni, triturato fino a raggiungere la grandezza “nano”, acquista proprietà
diverse da quelle iniziali (effetto di confinamento degli elettroni; indica che gli elettroni vengono
pressati in un piccolo spazio) (Fig. 1).
Stesso risultato se ad una molecola di dimensione inferiore ai nano si aggiunge una sequenza
molecolare sufficiente ad arrivare ai circa 10-9 m (effetti a long range, vale a dire che gli elettroni
non sentono più solo l’influenza degli elettroni molto vicini, ma vengono perturbati nel loro
comportamento anche da altri posti a distanza nano; possono creare spin diversi all’interno della
stessa molecola).
proprietà
l
Fig 1: proprietà in
funzione della lunghezza
Le tecniche di produzione di questi materiali sono: la top-down (ad esempio, il macinamento di un
oggetto grande) e la bottom-up (cioè la costruzione dell’oggetto nano a partire dagli atomi).
Quest’ultima sembra essere la più promettente per arrivare a disporre cluster di atomi o molecole su
di un substrato in maniera ordinata, disordinata o, addirittura, per ottenere, si spera, una spontanea
deposizione ordinata.
Esempio storico della tecnologia nano è il funzionamento dell’HgCl2, come catalizzatore della
reazione di polimerizzaione del polipropilene isotattico. Questo composto risulta attivo solo se
macinato e ridotto a livello nano, in quanto sugli spigoli del reticolo cristallino, per effetto del
confinamento degli elettroni, si concentrano cariche elettriche. I materiali di interesse nelle
nanotecnologie sono:
 metalli
 ceramiche
 materiali polimerici classici (20-25 monomeri)
 materiali polimerici policoniugati (conduttori)
 materiale biologico
-possibilità di impiego nel rilascio controllato di farmaci
 fullereni
Forma allotropica del carbonio C60
-drug releasing
-sequestro di ioni
 nanotubi
Forma allotropica del carbonio con monoparete o pluriparete (tubi concentrici)
-memorie molecolari
1

-Intrappolamento e stoccaggio di idrogeno, quindi suo possibile impiego come
combustibile
carboni amorfi o parzialmente organizzati
Film di carbonio deposto per evaporazione in forma cristallina (diamante)
-Nanofilm che conferiscono resistenza
-Già usato sulle lamette dei rasoi
Proprietà chimico fisiche influenzate dal mondo nano:
 meccaniche
 elettriche
 magnetiche
 colore.
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Le forze in gioco
Prima di analizzare direttamente quali sono le forze in gioco in una nanostruttura, è meglio
descrivere esempi di oggetti che possono essere ottenuti in laboratorio e di quelli con cui si è già in
contatto nella vita di tutti i giorni.
Avendo a disposizione il materiale di base in una soluzione diluita, un procedimento per ottenere un
nano-cristallo consiste nell’aumentare la temperatura della soluzione in modo tale che le molecole
si muovano e formino per collisione i primi germi di aggregazione del cristallo 3D, nel bloccare il
processo allo stadio “nano” e nell’isolare i nanocristalli.
Un esempio di questo si può osservare nelle catene polimeriche in soluzione, nei cui punti di
contatto, creatisi per agitazione termica, si possono formare nano-micelle (Fig. 2).
micelle
Fig 2: formazione delle nanomicelle
Un altro esempio di formazione di nano strutture è l’HBC. Questo composto, formato
dall’autoaggregazione di più molecole di HBC impilate una sull’altra, si è dimostrato un ottimo
conduttore di corrente; infatti, se, attraverso due elettrodi, vi si applica un campo elettrico, si nota
che sulla soluzione contenente HBC si formano nano-fili conduttori orientati secondo la polarità del
campo.
Più vicino all’esperienza quotidiana è invece il caso dei cristalli liquidi (Fig. 3). Le loro molecole
sono costituite da 2 anelli benzenici (sui quali si forma un dipolo elettrico) e da una lunga coda
costituita da gruppi CH2. Questi composti sono lineari e in grado di disporsi parallelamente gli uni
agli altri, alternando la posizione della testa e della coda di molecole adiacenti. A basse temperature,
la catena dei CH2 è in grado di disporsi linearmente nello spazio, mantenendo le molecole vicine fra
loro e conferendo colore “scuro” al materiale; ad alte temperature, invece, le code si arrotolano su
se stesse, distanziano le molecole e rendono il materiale trasparente.
Questo switch (colore-trasparenza) avviene in brevissimo tempo e con l’applicazione di un
voltaggio bassissimo, che si mantiene nell’ordine dei milionesimi di Volt (altrimenti, ad esempio, la
pila degli orologi si esaurirebbe in pochi secondi).
Bassa T
Alta T
code
Fig 3: i cristalli liquidi
Oggetto di interesse e di studio dei nanomateriali sono soltanto i cristalli e i cristalli liquidi (per cui
le forze in gioco ricadono nella tipologia dei solidi).
Consideriamo esclusivamente l’interazione fra due atomi, dato che l’estensione al caso pluriatomico
è solo un problema di calcolo, risolvibile con un qualsiasi computer.
La forza F di interazione atomo-atomo dipende dalla distanza alla quale essi si trovano gli atomi e
verrà descritta dalla derivata di una funzione potenziale V supposta nota:
F(r)= - dV/dr
dove di V si conosce l’andamento qualitativo della parte attrattiva e repulsiva, l’re, il punto di
minimo e il delta di dissociazione.
La curva V (Fig. 4) può essere descritta solo da modelli che ne approssimano l’andamento
qualitativo, che a sua volta è stato dedotto dalla proprietà delle dilatazione dei corpi all’aumentare
dell’energia.
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Infatti, se si incrementa il valore di E sulla curva V rispetto al minimo, il sistema oscilla tra due
punti distinti, ma il punto medio di equilibrio di tale oscillazione si sposta verso destra. In termini
fisici significa che il contributo repulsivo diventa più forte di quello attrattivo.
V
r’eq
r
Delta E
Fig 4: andamento della
funzione potenziale
req
L’estensione di V al caso pluriatomico in formula è:
V=∑ V(rij)
Il modello più usato per l’approssimazione della curva V è quello di Lenner-Jones:
V(r) = 4ε[σ/r12 – σ/r6]
Dove ε e σ sono dati noti in funzione dei due atomi considerati. Trattandosi di un modello, ci sono
casi in cui la formulazione viene limitatamente rimaneggiata e corretta soprattutto nei due esponenti
di r allo scopo di adattarla meglio al singolo caso.
Nell’interazione atomo-atomo, oltre a Lenner-Jones, bisogna tener conto anche di un contributo
elettrostatico descritto da Stockmayer.
Nella formulazione generale, quindi, le interazioni atomo-atomo vengono descritte da LJ+elettr.
È necessario fare una considerazione anche sul raggio di azione delle diverse forze presenti e,
quando possibile, fornire per ognuna di esse una formulazione matematica.
Le forze a short-range sono quelle che agiscono tra atomi vicini, e alla distanza di 2 o 3 unità non
vengono più percepite.
 Forze di valenza: sono forze di legame chimico, valgono 300 kcal /mol.; non vengono
percepite dal secondo atomo vicino, a meno che non vi sia la presenza di due doppi legami
consecutivi con elettroni π.
Le forze a long-range vengono percepite anche a 30-40 unità di distanza.
 Interazioni elettrostatiche fra cariche supposte puntiformi:
Vab=(Ca Cb)/r, dove C sono le cariche.
 Interazioni carica-dipolo
Vab= - (Ca μb)/r2 cos θ, dove C è la carica e μ il dipolo.
 Interazione dipolo-dipolo
Vab= - (μa μb)/r3 GF, dove μ sono i dipoli.
 Interazione dipolo indotto-dipolo indotto
Sono le forze di dispersione di Van der Walls, valgono 0,5- 2 Kcal/mole.
Le forze di polarizzazione, costituite dai legami H; valgono 7-10 kcal/mole.
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L’importanza del legame idrogeno
Soprattutto nel mondo biologico, la forza dei legami idrogeno si trova alla base dell’assemblaggio
delle molecole e del loro funzionamento.
Come esempio storico basta pensare alla doppia elica del DNA, che si forma grazie alla presenza di
numerosi H-bond tra basi puriniche e pirimidiniche.
Un altro caso si ha con la struttura terziaria (α-eliche o β-sheet) e quaternaria delle proteine, la cui
forma e il cui corretto funzionamento sono imputabili ai legami H.
Altre strutture proteiche ottenute per aggregazione possono esser impiegate per intrappolare altri
composti all’interno di spazi vuoti regolati dagli H-bond.
Più recentemente si sono sviluppati dei polimeri (come il Nylon), le cui singole catene sono legate
fra loro da ponti H, che conferiscono resistenza, plasticità e caratteristiche tecniche e meccaniche
straordinarie. Si pensa oggi di poter sfruttare questi composti per ottenere indumenti che non
necessitano del processo di stiratura, perché, grazie all’interazione dell’acqua durante il loro
lavaggio, le fibre si dispongono parallelamente in maniera naturale.
In ogni caso, la formazione dei legami H richiede che le due molecole coinvolte siano
commensurabili, vale a dire compatibili geometricamente.
In generale, l’idrogeno coinvolto in un legame H funge da ponte tra un atomo elettronegativo, con il
quale è legato covalentemente, ed un altro, con il quale interagisce elettrostaticamente.
Nel complesso questo legame quindi non è solo elettrostatico perché, come dimostrato da recenti
studi, le cariche coinvolte non rimangono sempre costanti al variare delle condizioni esterne.
Le molecole di acqua sono un ottimo esempio per capire come l’effetto elettronegativo
dell’ossigeno (donatore) crei una carica δ+ sui due idrogeni (accettori) ad esso legati, che
interagiscono con la carica δ- di un O appartenente ad un'altra molecola. A causa della forma
tetraedrica della molecola d’acqua, l’interazione H può avvenire in due modi: in maniera debole,
ovvero quando un atomo H si pone in equilibrio tra i due lobi degli orbitali dell’ossigeno, o in
maniera forte, quando esso interagisce linearmente con un solo lobo.
Le molecole che solitamente formano i legami idrogeno sono: OH, NH, SH e CH.
Si consideri ora un modello di legame H tra due molecole semplici:
A-H--------B
dove A-H sono uniti covalentemente, mentre H-------B elettrostaticamente.
Al variare dell’energia in gioco, l’atomo H si può spostare da A a B, fino ad instaurare con
quest’ultimo un nuovo legame covalente, rompendo quello precedente (nuova situazione di
equilibrio energetico). Per il caso generale sopra descritto, si può dunque immaginare che
l’andamento qualitativo della funzione potenziale presenti due punti di minimo ed una barriera
energetica posta fra di essi. Variando opportunamente l’energia, si può superare tale barriera e
cadere in una diversa buca di potenziale (fisica classica). Per attraversarla, esiste però anche un altro
modo, descritto dalla fisica quantistica che chiarisce che lo scoglio energetico da valicare può essere
visto come la somma di due funzioni d’onda distinte e che esiste quindi la possibilità che alcune
molecole passino da un minimo ad un altro attraverso un “tunneling”(Fig. 5). Questo effetto
dipende dalla geometria della curva di potenziale e, in alcuni casi, senza di esso non può avvenire il
passaggio tra i minimi.
Naturalmente, la forma precisa della funzione potenziale dipende dal sistema analizzato. La barriera
può essere più o meno alta, le buche di potenziale più o meno larghe ed i punti di minimo più o
meno diversi fra loro.
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Funzioni d’onda
Barriera di
potenziale
tunneling
minimi
Fig 5: effetto tunneling
Il legame idrogeno è studiato attraverso lo spettrometro, che è in grado di analizzarlo a partire dai
modi vibrazionali delle molecole; il punto chiave di tale analisi è la misura delle frequenze di
oscillazione:
ν=1/(2π)*√(K/μ),
dove K è la costante elastica del legame e μ è la massa ridotta degli atomi.
Prendiamo ad esempio molecole di fenolo. Esse formano un cristallo, all’interno del quale sono
presenti due tipi di legame H: uno intramolecolare (tra O e H della stessa molecola) e uno
intermolecolare (tra O e H di due fenoli diversi). L’analisi spettrometrica di tale composto fornirà
un ben determinato picco di assorbimento. Se al cristallo si aggiunge un solvente, i soli legami
intermolecolari vengono rotti, ed è dunque possibile registrare un assorbimento diverso dal
precedente ed analizzare quindi per comparazione le forze di legame in gioco.
Su altre molecole i cambiamenti possono essere indotti non solo con solventi, ma anche con
variazioni di temperatura.
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Formazione di aggregati
Esistono due tecniche per la preparazione di aggregati.
Nella prima, si creano condizioni ambientali tali da generare degli urti fra le molecole o fra gli
atomi presenti nella soluzione di partenza. Dalla fisica si sa che tali scontri possono essere di due
tipi: elastici ed anaelastici. Solo nel secondo caso alcuni elementi commensurabili fra loro si
fondono parzialmente o totalmente e formano germi di aggregazione molecolare. Una volta fornita
energia (aumento la temperatura) alla soluzione contente gli elementi di base del materiale di
interesse, le molecole si agitano in modo caotico, generano urti casuali, creano germi di
aggregazione ed infine formano un piccolo cristallo. Per bloccare la crescita cristallina, in modo da
avere a disposizione oggetti della dimensione desiderata (ad esempio nanocristalli), si può
diminuire la temperatura o sfruttare il naturale aumento della viscosità della soluzione dovuto alla
presenza di un crescente numero di grossi aggregati.
Nella seconda, la formazione di aggregati si basa sul concetto della lenta deposizione degli elementi
di base. Grazie al controllo esterno della temperatura e della concentrazione di molecole, è possibile
fare in modo che queste si depositino lentamente una sull’altra formando un aggregato cristallino.
In alcuni esperimenti si è osservato che, abbassando la temperatura della soluzione di circa
0,1°C/day, si forma lentamente un cristallo perfetto a partire sia da molecole polimeriche corte sia
da quelle lunghe. Se, invece, il raffreddamento avviene in maniera troppo brusca, si genera un
aggregato amorfo, che, in alcuni casi, è possibile trasformare in cristallino grazie ad un processo di
ricottura (annealing).
Con quest’ultima tecnica, dopo mesi di accurato lavoro, si è costruito in laboratorio un cristallo di
CO2 lungo alcuni centimetri, ottenuto dalla deposizione di goccioline di gas raffreddate e
cristallizzate lentamente dall’elio e dall’azoto liquido.
Un altro aspetto da tenere presente nella formazione di un nanomateriale è l’effetto delle
caratteristiche di superficie del substrato sul quale di forma il nano-aggregato. Interazioni dipolodipolo, forze di Wan der Walls e interazioni elettrostatiche sono forze perturbative che possono
cambiare la forma delle molecole depositate ed, eventualmente, alterarne la funzione.
Un esempio di ciò si ha con lo studio condotto su lamelle di polietilene. I calcoli teorici prevedono
che riscaldando due lamelle di dimensioni diverse, costituite da fibre parallele di polietilene trans,
queste si modifichino; tale modifica è data dal fatto che alcune delle singole catene di una lamella
scivolano al di fuori esse, assumono la formazione gauche e si fondono successivamente con le
catene dell’altra lamella. La teoria è stata successivamente confermata da un esperimento pratico in
cui questo effetto si ottiene grazie ad un supporto di grafite posto al di sotto delle lamelle ed è
analizzato con STM.
Una volta formatisi i cristalli (nel nostro caso nanocristalli), si deve procedere all’analisi strutturale
del composto ottenuto.
Si riportano di seguito i metodi di analisi tradizionalmente usati in chimica per i gas, i liquidi e i
solidi cristallini.
Gas. Le molecole sono libere di ruotare, traslare e vibrare. Per questa categoria si utilizza la
diffrazione di elettroni, la spettroscopia a microonde, quella IR, quella Raman ed, infine, quella
elettronica.
Liquidi. I movimenti traslazionali, rotazionali e vibrazionali sono più impediti rispetto ai gas. Si
impiega dunque la diffrazione e tutte le spettroscopie tranne quella a microonde.
Solidi cristallini. Le molecole sono intrappolate in un reticolo fisso. Si usa quindi la diffrazione di
RX, quella di neutroni, l’AFM e l’STM.
Dal momento che per i nanomateriali (solidi cristallini) si utilizza maggiormente la difrazione di
RX, si riporta di seguito la procedura tradizionale seguita in laboratorio.
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La prima parte del lavoro del cristallografo viene svolta al microscopio ottico per la selezione del
cristallo, che deve essere difratto. La scelta avviene attraverso principi standard che permettono
una rifrazione di buona qualità. Quindi si richiede che:
 le dimensioni del cristallo siano inferiori al millimetro in modo tale da essere
completamente investito dal fascio RX;
 la forma del cristallo sia sferica in modo tale da avere isotropia nello scattering;
 il cristallo non sia geminato, cioè non si presenti come unione di due o più cristalli,
altrimenti lo scattering sarebbe di difficile lettura.
Questa selezione avviene in base all’esperienza del cristallografo che, una volta individuato
l’elemento migliore, passa poi alla fase di prelievo e all’inserimento del cristallo nel difrattometro
a 4 cerchi. Per fare questo si prende una sottilissima fibra di vetro, che viene passata lievemente in
un apposita colla (senza esagerare nel quantitativo, altrimenti anche la colla potrebbe interferire
con le misure). Sempre al microscopio grazie alla colla si fa aderire la fibra al cristallo,
assicurandosi che questo rimanga il più possibile sul vertice del filo di vetro.
Si inserisce quindi il filo di vetro con il cristallo nel difrattometro.
Quest’ultimo è del tipo “a 4 cerchi”. Tre dei 4 gradi di libertà rotazionali servono per girare il
cristallo nei suoi tre assi (angoli Ω,φ,χ). L’altro grado di libertà, 2θ, serve per far ruotare il
counter. Il tubo generatore di X-ray è di rame o berilio con selettore di nichel o a cristallo. Il
rilevatore puntuale è a scintillazione. La potenza di estrazione degli elettroni é nell’ordine dei kW
(40 kW); l’accelerazione degli elettroni è nell’ordine dei mA (40mA). La prima fase è quella di
corretto posizionamento centrale del cristallo all’interno dell’apparecchiatura, che avviene tramite
controllo al microscopio ottico, che è direttamente montato sul difrattometro. Comincia poi la fase
di prelievo dati.
La prima fase consiste nell’analisi dei dati preliminari sulla struttura del cristallo tramite un
immagine impressa su un polaroid dagli elettroni difratti. La riproduzione presenta macchie chiare
(riflessioni di Bragg) su sfondo nero; una volta ottenuta questa prima fotografia, è compito del
cristallografo analizzarla, misurare la distanza tra le riflessioni principali ed inserire questi dati
all’interno del calcolatore collegato al rifrattometro. Inizia poi una seconda fase in cui il
rifrattometro ricerca, sempre con maggior precisione, le riflessioni nell’intorno dei punti indicati
dal cristallografo (il fascio di elettroni scattered viene questa volta misurato dal rilevatore senza la
polaroid). A computer vengono visualizzati i dati di questa seconda raccolta. Dai grafici, che
presentano picchi in corrispondenza delle riflessioni, si può vedere se il cristallo selezionato nella
prima fase è effettivamente buono per la raccolta dati completa, dato che ad esempio è possibile
vedere se ci sono picchi che segnalano la presenza di un cristallo geminato. Quest’ultima
operazione è assolutamente fondamentale, perché il rilevamento dati completo dura parecchi
giorni ed un eventuale errore nella selezione del cristallo renderebbe inutile il lungo lavoro.
La fase più lunga è il prelievo completo dei dati di scattering, mentre quella più difficile è la
risoluzione del problema della fase. Una volta in possesso di tutti i dati, con l’inevitabile ausilio del
computer, si passa a calcolare gli indici H,K,L del cristallo. Si procede poi in una fase di calcolo
della struttura attraverso 2 parametri: l’intensità della riflessione (dato che si rileva) e la fase
(dato che si calcola). I due parametri servono per il calcolo della densità elettronica del cristallo.
Si procede per approssimazioni successive, partendo da una struttura teorica e vedendo se essa
genera ampiezze di riflessioni calcolate pari a quelle rilevate. Se ciò avviene, si procede al calcolo
delle fasi del modello. La densità approssimata si calcola in funzione del fattore di struttura, che
dipende dalle intensità misurate e dalle fasi calcolate. Dalla densità approssimata si può calcolare
un altro fattore di struttura e quindi fasi migliori, che servono per il calcolo di una nuova densità.
Si fanno quindi cicli continui di iterazione, fino a quando si converge ad un valore di densità che
non può migliorare più con altre iterazioni. Se questa densità elettronica è compatibile con le
rilevazioni, si ha la struttura molecolare del cristallo. La densità viene visualizzata graficamente al
computer e il cristallografo può migliorare la struttura, ad esempio, aggiungendo gli idrogeni che
generano riflessioni troppo piccole per essere individuati con precisione.
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Considerando un cristallo normale, come NaCl, si nota che la distanza dei piani reticolari è
nell’ordine di pochi Amstrong. In un nanomateriale però le unità elementari che si ripetono
tridimensionalmente ne distano centinaia, ragion per cui la tecnica di diffrazione deve essere
leggermente riadattata come successivamente descritto. Dalla formula di Bragg si ottiene che:
D= nλ/(2 senθ),
dove n è un numero intero, λ è la lunghezza d’onda e θ è l’angolo di incidenza del raggio X. Per cui
se la distanza D da misurare aumenta considerevolmente (da poche unità a centinaia di A), l’angolo
di impatto del raggio incidente deve essere molto piccolo, in modo da rendere grande il rapporto
frazionario della formula.
Per questo si usano tecniche di indagine per diffrazione chiamate SAXS (small angle X-Ray
scattering) che, al contrario delle tradizionali WAXS (wide angle X-ray scattering), impiegano
angoli di incidenza molto più piccoli.
L’indagine difrattometrica si basa sulla misura dell’intesità di raggi X difratti dal materiale. Questo
dato viene plottato in funzione dell’angolo di incidenza e determina così i cosiddetti “picchi di
assorbimento”. Se il piano reticolare che genera la rifrazione presenta unità perfettamente ordinate,
il picco sarà alto e stretto (preciso), mentre se nel cristallo è presente un certo disordine, risulterà
basso e largo (distorto). Il disordine del reticolo cristallino e, di conseguenza, la distorsione della
misura di rifrazione, è di due tipi: termico e intrinseco. Lavorando a bassissime temperature,
nell’ordine di pochi kelvin, si è in grado di sopperire al primo errore, mentre non esiste alcuna
tecnica in grado di eliminare il secondo.
Le considerazione fatte sugli Rx valgono anche per la difrattometria a neutroni. L’utile elemento di
novità di questa tecnica rispetto alla precedente consiste nel fatto che è possibile visualizzare
direttamente gli atomi di idrogeno. L’aspetto negativo, invece, sta nella difficoltà di avere a
disposizione la costosissima strumentazione, che necessita di un reattore nucleare per la
generazione di una grande quantità di neutroni. Nel caso di uno studio condotto in Italia che
richiede l’uso di questa tecnologia, è indispensabile appoggiarsi a strutture estere.
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Deposizione di sottili film di carbonio
Introduzione
Il carbonio è un materiale molto versatile, adatto alla deposizione sottoforma di un film sottile su
alcune superfici di diversa natura chimica con l’intento di migliorarne le caratteristiche fisiche. Con
il termine “film” si intende uno strato di materiale di spessore ridotto (che può variare dal
monolayer a centinaia di nanometri), che viene fatto aderire artificialmente ad un substrato di un
composto di differente natura chimica. L’idea di produrre dei rivestimenti esterni per alcuni
materiali già in uso in diversi settori industriali scaturisce dall’impossibilità pratica di realizzare
artificialmente oggetti cristallini completamente “bulk”, ovvero materiali la cui struttura non
presenti anomalie in superficie; ciò accade perché tutti i materiali (compresi i cristalli che per loro
natura sono ordinati) presentano una forte anisotropia nella loro faccia esterna, a causa del contatto
degli atomi superficiali sia con l’omologo strato sottostante, sia con l’ambiente.
Nella recente storia della ricerca universitaria e industriale è accaduto che le straordinarie
caratteristiche del diamante (la durezza elevatissima, la purezza, la trasparenza nel visibile,
l’assorbimento nell’ultravioletto e il gap di 5eV che ne consente l’impiego come semiconduttore a
banda larga -anche se, ultimamente, è sostituito da SiC di costo inferiore-) abbiano spinto
fortemente gli esperti del settore a tentare la produzione di materiali “bulk”. Soprattutto per quanto
concerne il carbonio in forma cristallina, l’esito di tali sforzi è stato però deludente, dal momento
che si sono generati cristalli di piccolissime dimensioni, il cui costo di produzione superava però di
gran lunga quello della gemma normalmente estratta.
Per lungo tempo il concetto di superficie ha costituito un problema per i fisici e per gli ingegneri.
Un esempio di tali ostacoli pratici è rappresentato dall’ossido che si forma naturalmente sul silicio
“bulk”, che ne altera le caratteristiche chimico-fisiche. Poteva accadere (e spesso accade ancora
oggi) che materiali potenzialmente adatti ad un certo fine progettuale venissero scartati a causa
dell’inadeguatezza delle loro caratteristiche esterne. Con la nascita della fisica delle superfici, si
tenta oggi di ovviare a questo problema apportando modifiche superficiali che conferiscono al
materiale massivo un enorme “valore aggiunto”, con una spesa di molto inferiore rispetto alla
progettazione di un materiale ex-novo.
Per rendere un esempio di questo risparmio si pensi ad un normale tavolo la cui superficie deve
essere resa “anti-graffio” per motivi progettuali. Si può pensare o di ideare un materiale di nuova
generazione che sostituisca il vecchio legno compensato (che di per sé non rispecchia le specifiche
di progetto) oppure di sfruttare la semplice deposizione di un coating molto duro (simile al
diamante), pur mantenendo il tradizionale materiale “bulk”.
A seconda del fine progettuale, i rivestimenti superficiali possono essere massimizzati o
minimizzati in rapporto alla loro funzione. Nel primo caso, ad esempio, si possono avere costrutti
con una funzione catalitica, per i quali si deve aumentare al massimo l’area di contatto (materiale
spugnoso); nel secondo e più frequente caso si tenta invece di assottigliare il più possibile lo strato
di materiale deposto, puntando ad una forte e completa adesione al substrato. Lo spessore può
variare da 0,1 nm, quando si richiede un monolayer, a 1-10 nm in elettronica e fino anche a 100 nm,
quando interessa una iterazione coating-bulk molto resistente.
Al giorno d’oggi questi rivestimenti sono già usati in vari ambiti: per la colorazione delle lenti a
contatto, dove il rivestimento deve garantire proprietà ottiche adatte senza la necessità di essere
particolarmente resistente in termini meccanici (pochi nm); nei rivestimenti per lo smaltimento
termico nelle turbine degli aerei e negli scudi termici delle navicelle spaziali, per proteggere il
rientro in atmosfera. In questo ultimo caso, la produzione di un coating deve soddisfare il
compromesso tra leggerezza (basso spessore) e smaltimento termico (alto spessore), impiegando
notevoli risorse ingegneristiche ed economiche.
10
Il materiale
Il carbonio ha due forme allotropiche: il diamante e la grafite.
La prima forma è costituita da un reticolo di atomi di carbonio con ibridazione sp 3 disposti
tetraedricamente in 3D; è un materiale molto duro, resistente e trasparente.
La seconda è formata dalla stratificazione di fogli omogenei di strutture esacicliche di carbonio con
ibridazione sp2. La forma esagonale delle unità elementari consente di riempire completamente tutta
la superficie a disposizione e di formare un materiale fortemente anisotropo che presenta una
marcata resistenza lungo i legami intraplanari (al contrario di quelli interplanari). A causa della
debolezza di quest’ultimi e della conseguente facilità nella delaminazione, la grafite è spesso
impiegata come lubrificante solido nelle applicazioni a bassa temperatura per le quali non è
possibile usare dei liquidi.
Oltre al carbonio puro, è oggi possibile ottenere altri materiali con due forme allotropiche come, ad
esempio, il nitruro di bario (BN) cubico (in natura è presente solo in forma esagonale ed è simile al
gesso).
Proprio in base alla conoscenza delle caratteristiche delle strutture carboniose, si tenta oggi di
ricoprire le superfici con uno strato di materiale il più possibile simile al diamante. Anche se non si
è raggiunto ancora un livello di perfezione tecnica che consenta di ottenere una vera struttura
cristallina, si è in grado di depositare uno strato di carbonio chiamato DLC, cioè un “diamond like
carbon”. Ciò che differenzia questa struttura dal vero e proprio diamante è la composizione amorfa
dello strato, nel quale convivono porzioni di C ibridato sp2 ed sp3 (in questo ultimo caso la singola
porzione di C e disposta tetraedricamente, ma non in maniera cristallina).
Una struttura solida, per sua definizione, deve avere un impaccamento volumetrico pari a 0,6 (cioè
gli atomi devono occupare almeno il 60% del volume); questo livello è raggiunto e superato nel
DLC, le cui caratteristiche meccaniche variano, però, in funzione di altri parametri, quali il rapporto
sp2/sp3 e la purezza del contenuto in carbonio. Quanto più è alta la percentuale di ibridazione sp3
rispetto alle sp2 e quanto più sono minori sono le impurezze di legame presenti (C-N, C-H), tanto
più duro e resistente è il coating che si ottiene; se gli sp3 sono almeno il 70% delle ibridazioni
presenti e la struttura è in carbonio puro, il DLC prende il nome di ta-C (tetredrical amorfous
carbon).
Tecniche di sintesi
Le tecniche di sintesi dei DLC sono 2: la PVD (Phisycal Vapour Deposition) e la CVD (Chemical
Vapour Deposition).
Nella prima il carbonio è evaporato nel vuoto (anche se non si ha la totale sicurezza della nascita di
eventuali reazioni chimiche con altri elementi), mentre nella seconda l’evaporazione avviene in
ambiente gassoso composto da atomi che possono interagire con il carbonio.
In entrambi i casi bisogna tenere presente che, se la pressione di deposito del carbonio sul substrato
è bassa, il film che si ottiene è sottile, poco adeso e poroso. Per ovviare a questo problema servono
delle tecniche, chiamate plasma assisted (PA), che sfruttano le caratteristiche di un gas ionico per
facilitare e migliorare il processo di rivestimento. Il plasma è il quarto stato della materia ed è
costituito da un gas di particelle cariche elettricamente che nel complesso risulta neutro. Le sue
caratteristiche principali sono due:
 le interazioni fra particelle sono di tipo comboniano a lungo raggio e le interazioni sono a
“multicorpo”;
 se si applica una tensione di polarizzazione al substrato (ad esempio –100V), le cariche
positive penetrano nella superficie con un’energia nota, che va ad innalzare la temperatura
del materiale bersaglio e che consente la “densificazione” (un processo che aumenta
l’adesione tra il film ed il “bulk”).
11
Pulsed Laser deposition (PLD)
Questa è una delle tecniche di deposizione di DLC più usata. Essa sfrutta le proprietà (coerenza e
brillanza) di un fascio laser pulsatile (vincolo tecnologico) ad eccimeri a base di KrF (fluoruro di
Kripton), che possiede stati eccitati metastabili. In genere, se ne conosce l’energia, la lunghezza
d’onda e la durata di ogni singolo impulso. Nel nostro caso particolare (vedi la descrizione
dell’esperimento), l’energia è di 450mJ ad impulso, le λ in gioco appartengono al campo degli UV
(in particolare si usano i 248 nm), la τ è di circa 20 ns, il profilo spaziale del laser è rettangolare con
dimensioni di 15x10 mm (determinando un impulso a bassa brillanza) e la densità di potenza è 1010
W/cm2.
Funzionamento (Fig. 6)
Il laser, emesso da un’apposita sorgente, passa attraverso un sistema di lenti che lo proiettano
attraverso un’apertura all’interno di una camera di acciaio di spessore 7 mm, nella quale è realizzato
il vuoto. L’impulso luminoso colpisce, con angolazione di 45°, un bersaglio di carbonio libero di
ruotare e di traslare lungo i propri assi, e lo fonde parzialmente. In questo modo la struttura viene
velocemente ablata ed emette una “piuma” di plasma con profilo ellittico che procede con velocità
di 105-106 cm/s verso il substrato da ricoprire, precedentemente posto a distanza di 5-15 cm dal
target all’interno della medesima camera d’acciaio. La temperatura che si genera durante
l’ablazione è di circa 5000°K sul bersaglio e 1500°K sul substrato. Grazie alla velocità degli ioni C+
e C++ e al calore presente, il materiale massivo viene rivestito gaussianamente da un nanostrato di
DLC. Un dato da osservare è il ruolo dell’H presente nell’ambiente e sul substrato durante la
deposizione: la presenza di questo elemento abbassa la temperatura di transizione tra lo stato
ibridato sp3 e quello grafitico ibridato sp2.
Fascio laser
Specchio riflettente
Sorgente
laser
Lente 0,5 mm2
Finestra ottica SiO2 amorfo
Camera d’acciaio 7
mm
Substrato
Distribuzione
gaussiana del plasma
sul substrato
45°
Target di
carbonio
Piuma di
plasma
Fig 6: rappresentazione
schematica della camera
per la deposizione di
DLC
12
Esperimento
Con questa tecnica sono stati condotti alcuni esperimenti per verificarne l’efficacia. Di seguito si
riporta una loro breve descrizione.
Condizioni sperimentali
Substrato: Si puro, al quale è stato asportato chimicamente lo strato di ossido mediante HF.
Bersaglio: High oriented pirolic grafite; in questo materiale i piani sono in una buona relazione
cristallografica che consente un elevato grado di ripetibilità dell’esperienza intra ed inter
laboratorio.
Parametri: λ=248nm, τ=20ns, ν=10 Hz, α=45°, fluenza= 0,5-31 J/cm2 (0,25-15,5 MWmm2) con la
lente, Ts=300°K.
La pressione per le tre prove effettuate è di 10-2 Pa in vuoto, 1 Pa in N2, 0,6-2000 Pa in He.
La velocità di crescita del film è 0,6-0,7 nm/s.
Si è deciso di utilizzare una frequenza laser nel campo degli UV perché, grazie alla bassa lunghezza
d’onda, la penetrazione del fascio nel bersaglio è ridotta a 10 nm e consente di evaporare solo ioni
C puri senza generare grosse inclusioni.
Analisi effetuate
SEM-TEM: 15 KV primari; 30° di angolazione del fascio; osservazione della cross section.
FTIR: banda 400-4000 cm-1, il confronto è stato effettuato con lo spettro del solo silicio.
Raman: 532nm, Nd; per la prova in vuoto e in He si ha Φ=1μm e P=3mW per evitare la transizione
in grafite, per l’esperienza in N si ha invece Φ=100μm e P=20mW.
UV-micro-Raman: 244nm, perché nel campo del visibile gli sp3 non sono misurabili in quanto
risultano 50 volte meno intensi degli sp2.
Risultati
IR
Questa analisi è stata condotta su diversi campioni con film DLC depositato a fluenza diversa e con
spessori differenti. Lo spettro ottenuto con gli infrarossi permette di capire se nel film vi è la
presenza di H; al di sopra dei 3000 cm-1 infatti le bande piatte ottenute sperimentalmente indicano
che non è presente l’idrogeno, perché il legame C- H creerebbe un picco tra i 2900 e i 3000 cm-1. In
funzione della fluenza e dello spessore del film si notano spettri differenti; per una fluenza di 1,7
J/cm2 c’è infatti un assorbimento a 1550 cm-1 dovuto agli sp2, uno a 1250 cm-1 e un altro a 710 cm-1
(quest’ultimo dovuto al modo di respiro della grafite). Altri film ottenuti a potenze più elevate
risultano trasparenti.
Raman
I film di DLC analizzati al Raman sono stati depositati con fluenze variabili tra 0,5 e 18,5 MWmm 2.
Lo scopo di questa analisi è confrontare il deposito avvenuto in vuoto con quello in N. Si
conoscono come dati i picchi di assorbimento della grafite (1550 cm-1) e del diamante (1346 cm-1)
e, in base a questi, si può vedere il grado di miscelazione tra sp2 e sp3 (picchi allargati). Il risultato
del confronto tra le due diverse tecniche di deposizione mostra che per basse potenze (fino a 5
MWmm2) non c’è differenza di assorbimento, mentre, al di sopra di esse, i film depositati in vuoto
diventano trasparenti; si nota dallo spettro la nascita del picco di assorbimento del silicio, che non è
presente per i DLC ottenuti in N.
13
Micro Raman
Nell’UV si notano 3 picchi fondamentali: un picco G dovuto agli sp2, un basso picco D solo per
fluenze ridotte e una larga banda T a 1100 cm-1 dovuta a sp3.
TEM
Si preparano quattro oggetti ricoperti con LCD per la visione al TEM in cui i parametri sono la
potenza (0,25 MWmm2 e 10 MWmm2) e le condizioni ambientali (vuoto e N2). Si hanno così a
disposizione alcuni campioni con rivestimento opaco e altri con quello trasparente. Il substrato è
reso molto sottile per consentire il passaggio di elettroni. Si riporta una tabella con i risultati:
analisi
0,25 MWmm2
10 MW mm2
Vacuum %sp3
40
81 DLC >>>> ta-C
N2 %sp3
40
45
Il ruolo dell’azoto
All’interno della piuma di plasma ci sono ioni C+ e C++ a 100 eV: a queste tensioni si stabilizza
l’ibridazione sp3. Quando però, per motivi di svariata natura, la densità di energia degli ioni
diminuisce, sul substrato si forma un DLC con al più il 40% di carboni tetraedrici. L’azoto presente
nella camera di ionizzazione del gas costituisce un ostacolo al moto delle particelle e disperde la
loro energia con differenti modalità:
 Effetto fisico = le particelle di N2 generano urti con gli ioni di carbonio.
 Effetto chimico-balistico = si creano legami C-N (scattering), i quali frenano ulteriormente
gli ioni C+ (scattering).
 Effetto chimico = aumenta la concentrazione di sp2.
He
Per i depositi effettuati a 50 Pa in elio i risultati mostrano una buona adesione del DLC al substrato
con alcune inclusioni di forma sferoidale (12,5 MWmm2). All’aumentare della fluenza, tali noduli
globulari diventano di dimensione sempre più ridotta ed incrementano la loro sfericità fino a
diventare, ad alte potenze, piccolissimi ed immersi in una matrice poco impaccata. In questo ultimo
caso, l’adesione peggiora molto e il film diventa dendritico.
Alla spettroscopia Raman si vede una banda G e una D che variano in funzione della pressione di
deposito. A basse pressioni l’intera struttura è più ordinata rispetto alle alte pressioni, che, di contro,
presentano una migliore organizzazione a livello del singolo cluster di materiale. A 30 Pa si hanno
5000 C/cluster, mentre a 2KPa si arriva a 500000 C/cluster. Al di sotto degli 0,6 Pa si generano
invece DLC del tutto simili a quelli ottenuti in vuoto o in azoto.
14
L’importanza dei polimeri coniugati e la tecnica LB
I polimeri coniugati
La deposizione di film sottili polimerici è richiesta oggi in diversi campi applicativi, specialmente
nell’elettronica, in cui si cercano materiali leggeri, miniaturizzabili e, naturalmente, buoni
conduttori. Le strutture polimeriche che sembrano meglio rispondere a queste specifiche sono i
polimeri coniugati (successione di sistemi con legami π) che associano alle loro caratteristiche
elettriche buone qualità meccaniche (flessibilità) e ottiche (fluorescenza). Porre tali materiali su una
superficie presenta alcune difficoltà aggiuntive rispetto a quelle dei più tradizionali metalli; tali
problemi sono da attribuirsi alla disomogeneità intrinseca della natura polimerica ed al parziale
grado di cristallizzazione delle molecole. Il polimero è infatti composto da catene di peso
molecolare differente che, poste in soluzione, seguono una diversa cinetica di processo, formando
così strati disomogenei. La sua struttura interna presenta inoltre parti cristalline e parti amorfe con
proprietà fisiche molto diverse fra loro.
I polimeri sono una successione di unità elementari (monomeri), le cui caratteristiche chimiche
determinano le proprietà del materiale; come esempio “standard” si consideri il polietilene, che è
costituito dalla successione di monomeri CH2-CH2 e che presenta alcune buone caratteristiche
meccaniche, ma non elettriche. Altri materiali, come l’acetilene, hanno invece una buona capacità
di conduzione, da attribuirsi agli orbitali π posti all’interno della catena CH=CH, che garantiscono
agli elettroni la possibilità di movimento. Dal punto di vista della conducibilità, il butadiene si è
dimostrato migliore dell’acetilene grazie al suo discreto grado di coniugazione, che presenta due
doppi legami per ogni monomero.
Se si assumesse come riferimento energetico una certa unità elementare β, si misurerebbe un valore
pari a 2 β per l’acetilene (un doppio legame per monomero) e pari a 4,47 β per il butadiene (due
doppi legami per monomero) con un guadagno netto di 0,47 β rispetto al valore logico atteso 4 β.
Questo “valore aggiunto” è dovuto all’energia di risonanza pari a 3,5 Kcal/mole che contribuisce in
maniera sostanziale ad un guadagno di conducibilità elettrica. Supponendo inoltre che gli elettroni
degli orbitali π si possano trovare in due differenti stati energetici, in funzione del loro grado di
eccitazione, esiste un certo valore di gap tra il livello a bassa energia (legame) e quello ad alta
energia (antilegame). Questo “salto” è tanto più ristretto quanto più elevato è il grado di
coniugazione (ovvero il numero e lo stato di ordine dei doppi legami posti in successione nel
monomero); questo divario energetico conferisce proprietà ottiche differenti e, in particolare, con il
diminuire del suo valore, l’assorbimento luminoso avviene nel campo del visibile.
Le proprietà elettriche ed ottiche di un polimero dipendono anche dalla disposizione spaziale della
catena e dal conseguente grado di coniugazione: se i gruppi contenti i legami π risultano distorti a
causa dell’ingombro sterico, il polimero ha una ridotta coniugazione; se invece questi risultano
planari, i valori della coniugazioni sono elevati.
Durante l’iter di ricerca iniziata nei primi anni novanta, si è sperimentato un gran numero di varianti
di polimeri coniugati, tra i quali i polialchiltiofeni (alcuni esperimenti sono riportati più avanti) e i
polimeri con anelli carboniosi. Questi ultimi hanno presentato un grosso problema legato alla loro
bassa entropia di solfatazione e quindi alla loro insolubilità. Prendendo in esame la formula
dell’energia libera di Gibbs (ΔG = ΔH –TΔS), si nota che, affinché il valore di ΔG sia negativo a
parità di ΔH (polimero solubile), ΔS deve necessariamente tendere ad un valore elevato. In termini
pratici significa che è indispensabile ancorare delle catene di carbonio ibridato sp 3 (che consente
delle rotazioni lungo gli assi di legame) alle rigide strutture cicliche, in modo da ottenere la
solubilità necessaria per la deposizione del polimero su un substrato.
Procedendo al drogaggio di questi materiali (cariche +), si genera un flusso di corrente in
corrispondenza di un certo valore di potenziale. A causa dell’effetto redox, le proprietà elettriche
acquisite vanno però a discapito di quelle meccaniche e chimico-fisiche.
15
Tecniche di deposizione
Per deporre un film polimerico su di un substrato si può procedere in modi differenti, in relazione
alle caratteristiche di superficie richieste dalle specifiche di progetto. Generalmente i parametri
richiesti sono uniformità e caratteristiche chimiche atte a garantire una buona adesione con il
materiale bulk. Esistono infatti catene in grado di interagire al meglio con il vetro (1); altre che
garantiscono migliori proprietà elettriche (i grossi gruppi ciclici si dispongono molto vicini tra loro
generando un “corridoio” per gli e- dei legami π) (2); infine i tiofeni, che si legano facilmente alle
superfici in oro (3). Bisogna inoltre determinare il grado di cristallizzazione che si vuole ottenere e
l’orientamento delle catene rispetto al substrato.
S
3
2
1
S
Si
Cl
S
Cl
Cl
S
Au
l
Un primo modo “grossolano” consiste nel pressare il polimero a caldo; si ottiene come risultato un
film di spessore non inferiore ai 100-200 μm, ben lungi dai valori richiesti per le applicazioni
nanotecnologiche.
Un secondo metodo si identifica con la deposizione mediante l’evaporazione del solvente nel quale
il polimero è stato precedentemente disciolto.
Molto più utilizzato è il terzo procedimento, cioè il Langmuir-Blodget, che è oggetto di una
descrizione maggiormente dettagliata rispetto ai primi due (come premessa vedi lez. 6). La
strumentazione necessaria per seguire questa tecnica è:
 una vasca dotata di un meccanismo in grado di comprimere le soluzioni galleggianti verso
una delle due pareti;
 due misuratori di pressione superficiale per la rilevazione della tensione dell’acqua pura e di
quella contente la soluzione da depositare;
 un meccanismo capace di immergere il campione da ricoprire;
 un computer per il controllo di tutti i parametri in gioco;
 molecole con una testa polare (in acqua) e una coda apolare (in aria).
Durante la compressione, il computer rileva le variazioni di pressione superficiale, calcolata come
π=γ0-γ (dove γ0 e γ sono rispettivamente la tensione superficiale dell’acqua pura e di quella con la
soluzione polimerica). Con i dati raccolti si costruisce un grafico che riporta in ordinata i valori di π
(mN/m) ed in ascissa l’area sul numero di molecole (A/#mol). La curva che si ottiene presenta
solitamente tre macro-zone: la prima giace nella parte destra del grafico ed evidenzia uno scarso
incremento di pressione all’aumentare della compressione dovuto all’avvicinamento delle molecole
fra loro senza ingombro sterico (gas); la seconda si trova nella parte centrale e sottolinea un discreto
aumento di π da attribuirsi ad un primo livello di interazione intermolecolare (liquido); la terza è
prossima all’asse delle ordinate e riporta un brusco innalzamento di pressione la cui causa è la
formazione di un monostrato superficiale di molecole (condensato). Dal grafico (Fig. 7) si può
estrapolare il dato riguardante l’area occupata da una singola molecola mediante il calcolo della
retta tangente all’isoterma in un punto del tratto più a sinistra. Conoscere questo valore serve a
capire la disposizione spaziale di una singola molecola all’interno della soluzione.
16
π
Area a disposizione
Molecole galleggianti
Area/n Molecole
Valore area per molecola
Fig 7: grafico che rappresenta il
variare della tensione
superficiale in funzione della
diminuzione dell’area a
disposizione delle molecole
galleggianti
Una volta ottenuto un film di condensato sulla superficie dell’acqua nella vasca LB, si procede
immergendo il campione da rivestire, che può essere idrofobo (vetro trattato) o idrofilo (vetro
normale). Nel primo caso, non appena il campione viene immerso in acqua, la parte idrofoba delle
molecole galleggianti si deposita sul vetro; all’uscita dall’acqua invece la parte idrofila (2° strato)
viene attratta dalla testa polare del primo strato. Nel secondo caso, se nel momento dell’immersione
non si verifica adesione, all’uscita è la parte idrofila ad essere raccolta dal vetro; si necessita quindi
di un ulteriore ciclo per formare l’eventuale secondo strato. Per visualizzare meglio la struttura del
coating superficiale mediante RX si possono utilizzare dei sali di cadmio in combinazione con gli
acidi grassi.
Alcuni tentativi di deposizione con LB hanno impiegato come molecola base un polialchiltiofene
(conducibilità: 1-100 S/Cm; estesa coniugazione; assorbimento: 450 nm). Si è usato in particolare
un poli deciltiofene in combinazione con un acido grasso, atto a garantire una maggiore stabilità al
composto di per sé apolare; il risultato è stato insoddisfacente a causa della formazione di domini
superficiali disomogenei. Un’altra prova è stata condotta con il poliesiltiofene legato a catene polari
contenenti ossigeno e ancorate alla struttura pentaciclica di base; si è ottenuta una superficie
sufficientemente omogenea con i gruppi più grossi stesi parallelamente a pelo d’acqua nella vasca
LB e vincolati ad esso mediante le protrusioni di carbonio e ossigeno (la posizione è stata dedotta
dal dato sull’area per molecola pari a 15,3 A/mol).
Per determinare l’orientamento delle molecole deposte su di un substrato, si usa irradiare il
campione con una luce polarizzata registrandone l’assorbimento. Se il moto di inserimento del
campione nella vasca è sufficiente a direzionare il coating, si verifica un elevato assorbimento
quando la luce vibra in un piano parallelo alla direzione delle catene polimeriche; risulta invece
molto debole nel caso di incidenza parallela. Si può calcolare il livello di ordine ottenuto nel
rivestimento attraverso il rapporto dicroico, ovvero il confronto tra le assorbanze; maggiore è questo
numero, migliore è la distribuzione.
La quarta tecnica si basa sulla deposizione mediante la semplice evaporazione di solvente, seguita
da una fase di strofinamento meccanico per orientare le catene. In questo modo si possono ottenere
dei LED che sfruttano le caratteristiche di elettroluminescenza del politrealchiltiofene, che viene
depositato tra due elettrodi rispettivamente di ITO (trasparente) e di alluminio (ottenuto per
evaporazione) su una struttura di plastica o vetro. Si possono anche utilizzare politrealchiltiofene e
PPV in combinazione, che emettono a lunghezze d’onda diverse rispettivamente nel rosso e nel
giallo. Applicando determinati valori di potenziale ai capi degli elettrodi si può ottenere
un’emissione luminosa. Si pensa in futuro di ottenere degli schermi per PC a base di LED
polimerici che conferirebbero la straordinaria caratteristica di pieghevolezza. Ad oggi si è già
provato a costruire un reticolo di LED polimerici che potrebbe fungere da display (Fig 8), ma la vita
media dei dispositivi ottenuti è di 6000 ore a fronte di una richiesta industriale di almeno 20000.
17
alluminio
politrealchiltiofene
ITO
morsetti
vetro
Fig 8: funzionamento di
un LED polimerico
+
Luce emessa
18
Nanotubi
La matematica dei nanotubi
I nanotubi sono strutture cilindriche cave di diametro nanometrico (il record è 0,45nm) e di altezza
micrometrica; l’aspect ratio risulta così molto ampio.
Oltre alla tradizionale grafite e al comune diamante, i nanotubi e i fullereni (forme sferiche di
carbonio che non sono oggetto di trattazione) possono essere considerati delle vere e proprie forme
allotropiche del carbonio; questi oggetti possiedono numerose caratteristiche chimiche, elettriche,
fisiche e meccaniche che li rendono particolarmente interessanti in vista di numerose possibili
applicazioni in diversi campi dell’ingegneria.
La storia dei nanotubi nasce nel 1991 quando Iijima creò il primo MWCN (multi wall carbon
nanotube) grazie all’utilizzo di particolari catalizzatori che consentivano di generare cilindri
concentrici. Oggi la ricerca si è spostata invece sui tubi a singola parete con un elevato grado di
purezza, ottenibili grazie al lavaggio con acido nitrico (le dosi devono essere tali da distruggere solo
le parti amorfe contaminanti).
Per poter illustrare al meglio la natura dei nanotubi è utile richiamare le nozioni di chimica che
stanno alla base dei tradizionali legami del carbonio. La sua ibridazione è 1s2 2s2 2p2; dove il livello
p può essere scomposto in px, py e pz. Nel caso del diamante l’orbitale 2s e i tre orbitali 2p (2p
scomposto nelle tre direzioni) concorrono a formare quattro legami equivalenti con altrettanti atomi
di carbonio, disposti secondo una geometria tetragonale (129°28’). Nella grafite il bond tra due
atomi di carbonio è planare e viene garantito da una compartecipazione degli orbitali 2s, 2px e 2py a
formare il legame σ, che si stabilizza grazie al legame π generato dall’interazioni tra gli orbitali 2pz;
la struttura si completa mediante le forze di Van der Walls con la sovrapposizione ordinata dei fogli
di carbonio disposti a nido d’ape (ogni atomo di C è posto al centro dell’esagono sottostante, oppure
sovrapposto ad uno dei suoi vertici).
I nanotubi nascono dalla modificazione di fogli di grafite, che, sottoposti a rigide condizioni
ambientali, si ripiegano su se stessi seguendo precise regole matematiche. Per determinare il tipo di
nanotubo da ottenere, bisogna dapprima stabilire quale sia la cella elementare di riferimento (Fig 9).
In riferimento all’immagine, si consideri una struttura a sette esagoni e si assuma come unità base il
singolo poligono (nero); in questo caso ogni cella elementare ha 2 atomi (numero di atomi
totali/numeri di atomi condivisi; 6:3=2). Pur mantenendo la coerenza strutturale (2 atomi per unità),
si può assumere come forma fondamentale il rombo evidenziato con il rosso. Semplicemente per
traslazione dal quadrilatero rosso si ottiene la struttura disegnata in blu, che rappresenta l’elemento
di riferimento della trattazione successiva.
a1
a2
Fig 9: disegno schematico per
l’ottenimento della cella elementare
di riferimento
Nella figura 10, sono disegnati due vettori (a1 e a2), precedentemente ottenuti dalla definizione della
cella elementare blu (vettori verdi). In relazione al tipo di nanotubo che si intende ottenere (la
classificazione è riportata più avanti) si calcola il vettore Ch come combinazione linerare dei vettori
a1 e a2; a titolo di esempio poniamo Ch=4a1+2a2. Il vettore T si determina invece procedendo in
19
direzione perpendicolare a Ch, partendo dal punto O e giungendo al primo atomo di carbonio
equivalente a quello posto nell’origine (punto B). Il rettangolo di lati T e Ch costituisce l’unità di
riferimento, che, ripiegata su se stessa e traslata assialmente n volte, forma il nanotubo.
In generale si ha Ch = na1 + ma2; in funzione dei parametri n ed m, i nanotubi si possono classificare
come:
 armchair (n=m): presentano una struttura a “poltrona” lungo la circonferenza e a “zig-zag”
sull’asse;
 zig-zag (m=0): mostrano il “zig-zag” sulla circonferenza e la forma a “poltrona” lungo
l’asse;
 chirali (n≠m): la struttura a zig-zag si arrotola a spirale lungo l’asse.
Fig 10: schema
delle operazioni
geometriche
perl’ottenimento
della struttura
elementare di un
nanotubo
La conformazione “a tubo” della grafite costituisce una
forzatura della sua naturale struttura, in quanto viene
compromessa la planarità dei suoi legami; l’energia persa
durante questa distorsione viene riacquistata mediante
l’unione dei radicali liberi giacenti sugli estremi della
cella elementare.
Queste strutture possiedono rilevanti e promettenti
proprietà elettriche che derivano dalla formazione di una
banda di valenza da parte degli elettroni Pz (π, 2 e-) e
dalla presenza di una banda di conduzione (π*,vuota). Da
questo punto di vista la grafite risulta quindi una
combinazione di bande continue e livelli discreti; in
funzione dell’impostazione data alla cella elementare del
nanotubo può esistere o meno un gap energetico tra π e π*, e, di conseguenza, questi materiali
possono essere conduttori (chirali, senza gap) o semiconduttori (zig-zag, con gap).
In generale se n-m= 3j (j Є N), il nanotubo ha un comportamento metallico.
20
Esistono mappe che riportano il disegno della grafite (come quello precedente) e segnalano per ogni
carbonio se il materiale potenzialmente ottenibile dalla “piegatura” in corrispondenza di quel
preciso atomo genera una unità elementare adatta a costituire un materiale metallico o uno
semiconduttore.
Come ricordato nell’introduzione, i nanotubi crescono spesso in maniera concentrica ed è possibile
gestire a priori questo fenomeno mediante il calcolo dei parametri m ed n (di seguito si riporta un
esempio di calcolo).
Dati:
legame C-C=1,44 Å
distanza interplanare tra fogli di grafite, rcc=3,4 Å
Considerando due cilindri concentrici si deve imporre:
De-Di=6.8 Å
Si consideri un armchair (n,n) come riferimento strutturale per ciascuno dei due cilindri, che
assumeranno apici “e” ed “i” per indicare “esterno” ed “interno”.
Lo scopo del calcolo è trovare quanto vale:
ne-ni=?
in modo tale da poter definire le dimensioni relative delle celle elementari.
Il diametro D, interno ed esterno, si calcola come segue:
D= ‫׀‬Ch‫׀‬/π=‫׀‬na1+na2‫ ׀‬/π
dove ‫׀‬Ch‫( =׀‬Ch*Ch)½ =n2‫׀‬a1‫׀׀‬a1‫׀‬+n2‫׀‬a2‫׀׀‬a2‫׀‬+2n‫׀‬a1‫׀׀‬a2‫׀‬
a1 e a2 formano tra essi un angolo di 60°, per cui si ricava dalla trigonometria:
|Ch|2= ½ 2 n2|a|2 + 2n2|a|2 =n2|a|2+2n2|a|2
avendo considerato “‫׀‬a‫ ”׀‬come modulo sia di ‫׀‬a1‫ ׀‬sia di ‫׀‬a2‫׀‬.
Il valore del modulo “‫׀‬a‫ ”׀‬è legato alla lunghezza rcc da considerazioni goniometriche (vedi figura
grafite):
‫׀‬a‫√=׀‬3 rcc
Si ottiene quindi:
‫׀‬Ch‫√=׀‬3 n‫׀‬a‫=׀‬3 rcc n
Per il valore dei diametri si ha:
De=3 rcc ne/π
Di=3 rcc ni/π
→ 3rcc/π(ne-ni)=6,8 Å
→ (ne-ni)=4,95
CVD e applicazioni
La crescita dei nanotubi avviene in un reattore in cui è presente un idrocarburo e un substrato
metallico con molecole catalizzatrici precedentemente impiantate su di esso (Fig. 11). Viene
iniettato del gas (spesso acetilene) che decompone l’idrocarburo in atomi di carbonio, che si vanno
a depositare sul substrato metallico in corrispondenza dei catalizzatori. Se il legame catalizzatorebulk è forte, il nanotubo cresce con una estremità libera, in caso contrario lo stesso agente catalitico
funge da tappo.
21
Tappo di catalizzatore
(Legame debole)
Estremità libera
Nanotubo
Substrato
Catalizzatore alla base
(Legame forte)
Processo di
pulizia chimica
Emisfera
artificiale
Aggiunta del
fullerene
Emisfera sorta
naturalmente
Fig 11: modalità di
ottenimento di
nanotubi; vari tipi
di “chiusure”
ingrandimento
Si è più precisamente osservato che la parte estrema del nanotubo,
quella diametralmente opposta al substrato sul quale cresce, può
spontaneamente risultare aperta o libera (più probabile) anche senza
che vi sia la chiusura da parte dell’agente accelerante. A seconda
delle diverse applicazioni tecnologiche, questa parte è comunque
modificabile a posteriori o attraverso la rimozione del “tappo” per via
chimica oppure mediante la sua aggiunta grazie alla fusione con un
emisfera di un fullerene.
Agendo sulla disposizione del catalizzatore si possono ottenere le più
svariate composizioni di nanotubi: a recinto quadrato, a stella o,
addirittura, disposti “a filo” tra due μpiloni di silicio.
I possibili impieghi di questi nano-oggetti riguardano il campo dell’elettronica, poiché sono degli
“electron-emissioner” e possono costituire un LCD che lavora a bassissimo voltaggio. Si sono
dimostrati utili come resistenti ed elastiche punte per l’AFM, oppure come sensori per gas grazie
alla loro capacità di cambiare la conducibilità al variare della concentrazione di molecole volatali
assorbite. In meccanica trovano impiego come fibre di rinforzo e come possibili serbatoi per
idrogeno (questo campo è già stato abbandonato). In bioingegneria possono costituire dei biosensori
grazie alle loro estremità funzionalizzabili e nano-muscoli, dal momento che attraverso il drogaggio
elettronico si genera un riassestamento strutturale, ossia si crea un movimento.
La risposta alla spettroscopia raman di un nanotubo consiste di tre picchi: due ad alta frequenza
tipici della grafite (D e G) e uno a bassa frequenza relativo al modo di respiro, che è funzione del
diametro.
22
SERS (surface enhanced raman scattering)
La spettroscopia Raman tradizionale
La spettroscopia Raman è una tecnica di indagine superficiale che si basa sul principio di
eccitazione dei livelli energetici della materia. Sul campione da analizzare si invia un raggio laser di
frequenza ν e si registrano le ri-emissioni di fotoni da parte della superficie colpita; i picchi rilevati
sono l’anti-stokes (hν’>hν), lo stokes (hν’<hν) e il Rayleigh (hν’=hν). Per poter comprendere
l’effetto di ri-emissione fotonica bisogna supporre che due atomi legati fra loro siano assimilabili a
due palline unite da una molla; quando queste vengono stimolate da forze esterne al sistema
cominciano a vibrare ad una frequenza pari a (legge di Hooke):
dove μ rappresenta la massa ridotta delle due particelle e vale
Da questa formula si può notare che nel caso in cui si verifichi un aumento di K (dato da un
rafforzamento dei legami) o una diminuzione di μ diminuisce (dato da atomi che presentano una
massa piccola), l’assorbimento Raman avviene ad una frequenza superiore.
In regime di meccanica classica tale oscillazione segue una tradizionale funzione di potenziale che
presenta un punto di minimo (equilibrio) ed infiniti punti continui in cui il sistema può trovarsi in
qualsiasi tempo t durante la vibrazione (V= ½ k r2). Secondo la meccanica quantistica la medesima
funzione di potenziale è invece divisibile in livelli discreti secondo la formula e=hν(n + ½) e il
sistema può giacere solo all’interno di questi.
Le emissioni Raman interessano l’ambito della fisica quantistica; le linee di stokes, anti-stokes e
Rayleigh dipendono solo dai salti energetici quantizzati degli elettroni stimolati. Supponendo di
analizzare il comportamento di un elettrone allo stato fondamentale g=0, si può verificare una
situazione nella quale esso si trovi inizialmente sul livello vibrazionale v=0, salti sul livello virtuale
m e ricada, in ultimo, sul livello v=1 (stokes); nello stesso modo può accadere che da v=1,
l’elettrone balzi allo stato virtuale m’ e decada poi su v=0 (anti-stokes); infine, sempre da v=0,
l’elettrone può salire allo stato m e ricadere su v=0 (Rayleigh).
Il segnale più marcato e netto è quello di Rayleigh, tuttavia sono i picchi di stokes e antistokes che
forniscono il maggior numero di informazioni utili ai fini dell’indagine. La loro intensità dipende
dalla probabilità di Boltzman di trovare un elettrone su un livello v=1 (più eccitato) e su v=0 (meno
eccitato); da ciò si ottiene che il rapporto fra le due popolazioni elettroniche è pari a:
N ( v 1)
 exp (  E / KT )
N ( v 0 )
dove K è la costante di Boltzmann e T è la temperatura di esercizio. Il segnale di anti-stokes risulta
così meno intenso rispetto a quello di stokes.
Il numero di picchi della spettroscopia Raman è pari al numero di modi vibrazionali della molecola
considerata (3n-6 in generale o 3n-5 per molecole lineari, dove n è il numero di atomi legati fra di
loro).
Esistono alcune varianti della spettroscopia Raman come, ad esempio, la Raman risonante, in cui il
fascio laser eccita gli elettroni fino a portarli ad un livello g=1 con emissioni più marcate, e la
fluerescienza, in cui i gap energetici non coinvolgono i livelli virtuali m, ma solamente il salto tra
g=0 e g=1 e i gap tra i vari sottolivelli vibrazionali v.
23
La tecnica SERS
La rivoluzione nella spettroscopia arriva con il metodo SERS, una tecnica attraverso la quale si
amplifica il segnale Raman delle molecole adsorbite in prossimità di nanoparticelle o di superfici
metalliche opportunamente rese rugose. L’intensificazione è di due nature differenti:
elettromagnetica e chimica.
Nel primo caso si ha un accoppiamento tra il campo elettromagnetico dell’onda incidente e le
oscillazioni collettive degli elettroni alla superficie del metallo (chiamate plasmoni di superficie).
Ipotizzando di avere a disposizione solo delle nanoparticelle metalliche, accade che l’eccitazione
degli elettroni avvenga solo sulla loro superficie; il picco di risonanza di questa eccitazione è
proporzionale alla forma, alla dimensione, al tipo di metallo utilizzato e al mezzo che circonda le
nanoparticelle. Per poter studiare questo complesso fenomeno di amplificazione sono stati
sviluppati dei modelli matematici riferiti dapprima all’interazione di due o più atomi fino a
interessare in seguito anche strutture complesse. Supponendo di avere una particella metallica
eccitata da un fascio laser, si ottiene un dipolo elettrico fluttuante sulla sua superficie. In un punto P
posto a distanza d dalla nanoparticella di raggio r si avvertirà un campo elettrico che dipende sia dal
fascio stimolante, sia dal dipolo fluttuante:
Em=E0+Esp
Sapendo che la particella ha una costante dielettrica complessa ε=ε’+iε’’, mentre l’intorno ha
costante ε0 e il rapporto r/λ vale 0,05, si ottiene:
  0
1
ESP  r 3 
 E0 
  2 0
r  d 3
Considerando che E0 è trascurabile rispetto a Esp, il fattore di intensificazione
elettromagnetico risulta pari a:
del campo
3
Em Esp    0  r 
A  




E0 E0   2 0  r  d 
Per definizione si ha che il fattore di amplificazione dell’intensità è:
     0  r 
G    A  


    2 0  r  d 
Dal momento in cui si ha un’intensificazione del campo elettromagnetico, i segnali stokes e antistokes subiscono la medesima sorte nel caso in cui le loro frequenze siano in risonanza con quelle
del plasmone.
Il fattore di intensificazione globale considera quindi sia la frequenza della linea eccitatrice sia
quella della linea stokes:
2
6
2
Gem  s   A L 
  L    0
 ( s )   0  r 
GAems s  



  L   2 0   s   2 0  r  d 
2
2
12
2
Il tradizionale segnale Raman P= N nlaser σ (dove N è il numero delle molecole colpite, n è il
numero di fotoni per unità di tempo e di area, mentre σ è la sezione) risulta ovviamente modificato
dalla presenza delle particelle metalliche e diventa così:
abs
PSERS  N '  nLaser   Raman
 A( 0 )  A( s )
2
2
Nel caso di interferenza chimica si verifica un charge transfer tra la molecola e il metallo, ottenendo
la formazione di un gap energetico tra il livello di Fermi del metallo e quello del charge transfer che
risulta superiore al tradizionale “salto” tra HOMO e LUMO della singola molecola. Sarà quindi
24
possibile stabilire le condizioni di risonanza tra la radiazione incidente e il nuovo gap elettronico,
che genera un notevole aumento di intensità rispetto ai valori Raman tradizionali; tale aumento è di
10-100 volte inferiore a quello prodotto per via elettromagnetica.
L’effetto di intensificazione del segnale Raman di entrambi i contributi (elettro-magnetico IC e
chimico IE) è pari a:
 eff .  R  A L   A s 
 R  ads
 IC  I E
 free
 Rfree
2
I TOT
2
Ic 
R
 ads
 Rfree
I E  A L   A s 
2
2
dove σads tiene già conto dell’effetto chimico (dato che rappresenta la sezione con le molecole
adsorbite), mentre σeff corrisponde alla sezione effettiva.
Preparazione e analisi delle superfici metalliche
Per dar vita all’effetto SERS è necessario disporre di nanoparticelle metalliche che, una volta poste
a contatto con le molecole da analizzare, generino l’amplificazione Raman. Solitamente si
impiegano le seguenti tecniche:
 colloidi di argento o di oro
 “silver mirror reaction”
 etching
 argentatura mediante esanoato di argento.
Come metodi di analisi si usa l’AFM, il TEM e la spettroscopia ad assorbimento UV-VIS-NIR.
Per creare le nanoparticelle metalliche si può procedere con il metodo top-down oppure con quello
bottom-up. Nel primo caso si parte dal metallo di base e lo si riduce ad un “quantum well” (struttura
con una sola dimensione nanometrica), poi si procede fino a creare un “quantum wire” (elemento
con due dimensioni nanometriche) e si conclude generando un “quantum dot” (particelle con tre
dimensioni nanometriche).
Nel secondo caso si inizia invece dagli atomi e si costruisce la nanoparticella metallica tramite
aggregazione; per la facilità tecnica di produzione dei nano-metalli, si preferisce normalmente
seguire questa seconda via.
Si utilizzano in particolare i metodi chimici di sintesi in soluzione (acqua o solventi organici) che
prevedono la riduzione di atomi metallici positivi, presenti sottoforma di ioni o di complessi.
Per tale processo possono essere utilizzati diversi solventi in funzione della natura del sale o del
complesso metallico utilizzato, dell'agente riducente e delle eventuali molecole protettive da
impiegare. Quest’ultime vengono aggiunte alla soluzione per evitare che le nanoparticelle tendano
ad aggregarsi ed a precipitare rispettivamente con l'aumentare della concentrazione e con la
diminuzione della polarità del solvente. A questo scopo si utilizzano diversi tipi di molecole che,
legandosi alla superficie del metallo, lo stabilizzano e lo rendono eventualmente compatibile con
solventi apolari.
In generale, il processo di accrescimento segue cinetiche differenti in funzione dei reagenti. Il
numero di particelle prodotte dalla reazione in un istante t generico (Nt) segue la formula:

N t  N  1  e  kt

dove Nt è il numero di particelle prodotte al tempo t, N∞ è il numero di particelle totali che si ottiene
alla fine della reazione e k è una costante cinetica del primo ordine calcolata come segue:
E
ln k  ln A  a , dove A è una costante.
RT
Si possono così avere due tipi di reazione:
 Nucleazione istantanea, quando k è grande e Nt=N∞
25

Nucleazione progressiva, dove k è piccolo e Nt = k t N∞
Un primo esempio di questo processo è l’accrescimento di nanoparticelle d’argento attraverso l’uso
di trisodio citrato o di boroidrato in acqua. Il catione argento si riduce ad Ag0, mentre il citrato (o il
boroidrato) si ossida, formando un primo complesso atomico di metallo, il quale cresce
successivamente fino a raggiungere dimensioni nanometriche. Esaminando il composto si nota che
la dimensione media delle particelle è di 35 nm nel caso del citrato mentre è di 7 nm nel caso del
boroidrato, con assorbimento luminoso rispettivamente a 420 nm e 390 nm. La nucleazione è
progressiva (k=173kJ/mol).
Si esegue lo stesso procedimento con un tetrafluoruro aurato (AuCl4-), usato come fonte per il
metallo, e con il citrato, come agente riducente. In questo modo si ottengono nanoparticelle d’oro di
diametro medio di 20 nm e con assorbimento luminoso nel campo del rosso a 520 nm. La
nuclezione è istantanea (k=31,4 kJ/mol).
Una variante al processo è costituita dall’uso di toluene come solvente organico aggiunto all’acqua.
Molto importante è la fase di trasferimento degli ioni AuCl4- dalla fase acquosa alla fase organica
(toluene), resa possibile dalla presenza del trasferitore di fase tetraoctyl ammonium bromide e della
agitazione meccanica che massimizza la superficie di contatto tra fase acquosa e fase organica. Una
volta che gli ioni tetracloroaurici sono trasferiti in fase organica, si aggiunge del sodio boroidrato,
che è l’agente riducente. La reazione avviene all’interfaccia tra la fase organica, dove sono presenti
gli ioni AuCl4-, e la fase acquosa, dove è presente il sodio boroidrato. Per questo motivo i due
liquidi devono essere accuratamente miscelati durante la riduzione. Altre reazioni per l’ottenimento
di questi composti sono:
 l’etching di fogli di argento mediante HNO3
 l’argentatura tramite esanoato (o decanoato) d’argento
 la “silver mirror reaction”.
Le varianti e i miglioramenti apportabili a questa tecnica sono molteplici; si possono, ad esempio,
aggiungere alle nanoparticelle metalliche alcuni agenti stabilizzanti costituiti da alchil-tiofeni,
oppure si possono costruire composti con due metalli omogeneamente miscelati o con fasi separate.
Le nanoparticelle ottenute costituiscono la chiave di funzionamento dell’amplificazione SERS. È da
tener presente che l’effetto di eccitazione del plasmone di superficie avviene solo a precise
lunghezze d’onda; in generale si ha che:
K xplasmone  K xfotone  K
dove l’ultimo termine K vale 2π/a e dipende dalla spaziatura della rugosità di superficie. Non
essendo questo termine costante, accade che l’eccitazione del plasmone possa avvenire in un range
di lunghezze d’onda. Naturalmente, in sede di analisi al Raman, la frequenza eccitatrice, ovvero la
lunghezza d’onda emessa dal laser, è dato imposto dalla strumentazione stessa; per questo motivo,
al fine di ottenere l’effetto “plasmone”, si deve avere a disposizione un materiale metallico in grado
di stimolarsi nel range di frequenza laser a disposizione. Per fare ciò, si variano le condizioni di pH,
di temperatura, di tempo di reazione e di presenza di NaCl nella soluzione di partenza, in modo da
ottenere nanoparticelle con il picco d’assorbimento desiderato (Fig. 12).
26
0 ,85
0 ,80
0 ,75
0 ,70
0 ,65
0 ,60
Absorbance
0 ,55
0 ,50
0 ,45
0 ,40
0 ,35
0 ,30
0 ,25
0 ,20
Fig 12: variazione delle
caratteristiche di
assorbimento avariare
delle condizioni di pH e T
0 ,15
0 ,10
0 ,05
4 00
6 00
8 00
W ave leng th (nm )
Per verificare l’effetto SERS si procede in due differenti modi: utilizzando una molecola come
riferimento interno alla soluzione o avvalendosi della valutazione del rapporto stokes vs. antistokes.
Nel primo caso si pongono in soluzione le molecole da analizzare, le nanoparticelle metalliche e un
composto SERS inattivo (metanolo), che viene usato come riferimento. Si confrontano i picchi del
composto inattivo con quelli della nanoparcella amplificati con effetto SERS e si calcola il fattore di
intensificazione. Dal momento che, ad alte concentrazioni, non tutte le molecole da analizzare sono
legate in un sito attivo dei nano-metalli, si ottiene una stima per difetto dell’amplificazione.
Nel secondo caso si calcola l’area di impatto SERS sapendo che:
dove il rapporto del segnale Pas (anti-stokess) su Ps (stokes) dipende da una componente SERS (τ1 è
il tempo di vita medio del livello vibrazionale 1) e da una termica. Nel caso in cui i parametri siano
controllati con molta accuratezza, la misurazione fornisce la sezione d’urto SERS che vale:
h

PasSERS
KT

e
SERS
P
 SERS  s
 1  nL
Nel caso in cui i parametri siano invece imprecisi si potrebbero verificare aberrazioni di origine
termica o matematico-statistica (approssimazioni).
Questa tecnica fornisce un utile strumento per ottenere amplificazioni di spettro Raman pari a 109 e
fino a 1014 volte rispetto al valore tradizionale, grazie anche all’effetto di abbattimento del segnale
di fluorescenza.
Oggigiorno si utilizzano sistemi a fibra ottica che garantiscono la possibilità di posizionare il
sensore anche in luoghi di difficile accesso (anche a centinaia di metri dallo spettrometro e dal
sistema di acquisizione dati); si possono cosi ottenere, in tempo reale, analisi ad elevata sensibilità
di una o più sostanze contemporaneamente.
Lo strumento è costituito da una fibra ottica sulla cui estremità è posto il rivestimento di
nanoparticelle d’argento che, una volta messe a contatto con il target da rilevare, amplificano il
segnale. Il capo di tale fibra viene trattato in diversi modi attraverso etching chimico, ottenendo
generalmente una forma acuminata con diverso angolo di inclinazione; al segnale che si ottiene
viene sottratta automaticamente la curva relativa all’input appartenente alla fibra.
A basse concentrazioni ( <10-10 M ) si può considerare che nel volume di scattering (decine di pl)
sia presente al massimo una molecola SERS attiva. In questo modo si adottano diverse
metodologie per ottenere un SERS a singola molecola che garantisca un fattore di amplificazione
pari a 1014 e, mediante delle nanopunte, si valutano gli spettri Raman amplificati di singole
molecole poste al di sotto di esse.
27
Il confinamento degli elettroni: il poliacetilene
Come è già stato più volte citato, uno dei metodi più efficaci per ottenere un nanomateriale è il
“confinamento degli elettroni”, che modifica le proprietà chimico-fisiche dell’oggetto di partenza.
Prendendo ad esempio l’acetilene e la grafite, si possono studiare la presenza e la dimensione di
zone a maggiore concentrazione di carica in strutture rispettivamente mono e bidimensionali; il caso
3D di materiali a base di carbonio non è invece contemplato perchè nel diamante non vi sono i
legami π necessari per il confinamento.
Nel caso dell’acetilene, si ha una catena polimerica costituita da carboni che si susseguono
alternando un legame doppio (π) ad uno singolo (σ). Già negli anni ’60 Natta prevedette la
possibilità di rendere conduttore questo polimero, sebbene, al suo stato naturale, presentasse le
caratteristiche di un isolante; bisognò però attendere il 1975 per vedere realizzato l’obiettivo. Il
grande passo fu compiuto in Giappone dove si drogò il poliacetilene con dello iodio e si ottennero
valori di conduzione pari a quelli del rame. In effetti, il grado di coniugazione degli atomi di
carbonio in questo materiale si discosta leggermente dal valore tipico di 2 per il doppio legame e di
1 per quello singolo, attestandosi rispettivamente su 1,8 e 1,2 (a conferma di una delocalizzazione
non completa). Qui di seguito si riporta un grafico (Fig 13) che evidenzia l’effetto del drogaggio
sulla proprietà di conduzione del poliacetilene di base (pristino).
Log σ [S/cm]
5
4
3
2
1
0
-1
-2
-3
-4
-5
-6
-7
-8
-9
-11
-11
-12
conduttore
semiconduttore
isolante
1
2
3
4
5
6
7
6
8
9
10
11
12
% drogaggio
Fig 13: proprietà di
conduzione in funzione del
drogaggio
Una delle caratteristiche più importanti della conduzione elettrica all’interno di un polimero, come
l’acetilene, è la forte anisotropia, vale a dire la non omogeneità di propagazione delle cariche nelle
diverse direzioni del materiale; in particolare si ha massima conducibilità lungo le fibre (quindi
lungo la catena polimerica), mentre si ottiene un isolamento lungo la sezione radiale del medesimo
filamento. In termini pratici ciò implica la possibilità di toccare il filo conduttore senza il rischio di
essere fulminati.
La chiave della conduzione di un polimero risiede nella tecnica del drogaggio, ovvero l’aggiunta (P D+) o la depauperazione (P+A-) di un elettrone lungo la catena. Considerando il caso della
formazione di una hole (che si crea in 10-15 sec dall’inserimento dell’accettore), questa è avvertita
dagli atomi vicini e si sposta lungo la catena; si crea così un flusso di corrente.
28
La struttura del poliacetilene è molto diversa da quella di un metallo; la si può pensare teoricamente
in due forme equivalenti, con opposta disposizione dei doppi legami. Considerando una funzione U
pari alla differenza della distanza C-C tra il doppio (1,30 A) ed il singolo legame (1,54 A), tanto più
U tende a 0, tanto meglio la struttura del polimero approssima quella di un metallo (teoria di Peiers)
(Fig. 14). Tracciando il grafico di U per il poliacetilene, si nota che per U=0 il valore di energia non
è minimo: ciò implica che la struttura polimerica che più si avvicina al metallo non è stabile; serve
quindi la presenza di una hole per generare uno switch strutturale che permetta il passaggio di
elettroni. In realtà il punto U=0 risulta instabile semplicemente perché gli elettroni vibrano e si
spostano dal potenziale stato di equilibrio.
E
Forme
equivalenti del
poliacetilene
Punto con U=0;
l’energia non è
minima
A
B
Minimi corrispondenti
A
B
u
Fig 14: rappresentazione
delle caratteristiche
energetiche appartenenti
alle due differenti forme del
poliacetilene; teoria di
Peiers
Lungo la catena polimerica si possono avere radicali liberi (solitoni, la cui durata è calcolata
nell’ordine dei ps) dei quali si può avvertirne il campo magnetico. Alcuni anni fa si pensava che il
segno della presenza di un radicale fosse una banda IR, ma le prove fornite smentirono questa teoria
e relegarono il concetto di solitone alla pura modellistica. Il drogaggio avviene affiancando al
radicale libero un accettare o un donatore; nel primo caso si forma una hole ed il catione prende il
nome di polarone, mentre nel secondo caso si aggiunge un elettrone formando un polarone-. Allo
stesso modo si può procedere strappando o aggiungendo due elettroni, creando dicationi (o
bipolaroni) o dianioni (bipolaroni-). Si è osservato che, creando due radicali liberi adiacenti, questi
decadono in una struttura stabile e conduttrice in un tempo t=10-15 sec.
Un grosso problema da risolvere a livello teorico, fu capire come una carica + (spin =0) o una carica
– affiancata ad un donatore (spin=1/2-1/2=0) potesse comunque condurre energia comportandosi
come un metallo (spin=1/2). Questa particolare condizione fisica è nota come “spinless charge
particle”. In realtà, la caratteristica dei polimeri conduttori risiede nel loro gap energetico (fenomeni
di assorbimento e remissione), ovvero il salto esistente tra l’HOMO e il LUMO. Allungando la
catene polimerica, aumenta il numero di elettroni π e quindi il numero di livelli energetici; come
conseguenza si ottiene una riduzione del gap e quindi una variazione di lunghezza d’onda assorbita
e riemessa (si possono variare i colori dei pixel). In linea teorica si potrebbe pensare di allungare la
catena fino a far scomparire il gap trasformando (a livello elettrico) il polimero in un vero e proprio
metallo; tuttavia i tentativi condotti in tal senso hanno dimostrato che esiste un limite di gap
invalicabile pari a 1,4 eV. Le differenze tra un metallo ed un polimero conduttore non si limitano
però solo al valore di gap: il primo aumenta la sua conducibilità e le sue proprietà magnetiche
quando è scaldato, mentre il secondo ha reazioni opposte.
29
Il drogaggio può avvenire con tecniche differenti: per via chimica, per via elettrochimica e per
mezzo di fotoni; le ultime due metodologie sono quelle che vengono maggiormente impiegate nel
campo tecnologico. E’infatti possibile attivare elettricamente un polimero coniugato grazie ad un
bombardamento fotonico (Trise=150 fs); viceversa, grazie all’applicazioni di un campo elettrico ai
due stremi di un polimero conduttore, si è in grado di provocare un fenomeno di emissione
luminosa dovuto al decadimento di un elettrone eccitato. L’emissione può essere immediata
(l’elettrone decade subito dall’HUMO al HOMO), oppure lenta (dopo il pompaggio, l’elettrone
decade velocemente sul tripletto e, molto lentamente, ritorna sul sigoletto di partenza); può infine
accadere che ci siano due salti energetici consecutivi mediati dal passaggio sul tripletto. Un esempio
di un’applicazione tecnologica per questi materiali è rappresentato dalla possibilità di costruire
“vetrate” per gli edifici che, in funzione della stagione, si regolano in modo tale da costituire un cutoff per le lunghezze d’onda del calore e per quelle del sole; si ottiene così il massimo risparmio
energetico sia in inverno sia in estate.
Altre possibili impieghi di questi materiali sono:
 Gli attuatori: si incollano tra loro due lamine polimeriche, di cui solo una conduttrice;
drogando e sdrogando il materiale mediante applicazione della corrente, si ottiene la flessione
delle lamine polimeriche; si può quindi sfruttare tale movimento per la costruzione di nastri
trasportatori (IBM).
 Le pile: purtroppo questo obiettivo sembra irraggiungibile a causa dell’instabilità dei materiali e
dell’elevato costo per creare e mantenere le condizioni di vuoto intorno al polimero.
 Gli OLED: si possono ottenere organic light emission diodes in grado di emettere luce solo a
contatto con diverse sostanze; vengono attualmente impiegati come nasi artificiali per testare i
vini, oppure il contenuto di ammoniaca negli imballaggi di polistirolo. Si prevede un loro
impiego come tester per temperatura o particolari analiti di carattere biologico.
 I video: si sfruttano le loro caratteristiche elettrocromiche e la possibilità di variare il gap
elettronico per costruire dei pixel. Si può pensare di costruire dei fogli di plastica che ricevano
informazioni da internet e consentano la lettura del giornale, con la possibilità di far scorrere le
pagine.
 L’elettronica: rappresentano dei concorrenti sempre più utili dei chip in silicio. Sono
attualmente impiegati in chip dotati di microtrasmettitore a basso numero di transistor, che
vengono applicati (è un quadratino di plastica di qualche cm) sui prodotti del supermercato al
posto del codice a barre; negli USA alcuni grossi supermarket si avvalgono semplicemente di
un ricevitore che, in maniera molto rapida, esegue il conto dei prodotti in uscita ed inoltra
l’addebito direttamente sulla carta di credito dell’acquirente. Si può pensare anche a chip per
evitare la produzione di soldi falsi, carte di identità, memorie elettroniche sempre più piccole.
E’ da notare che il costo di questi chip risulta però inferiore a quelli tradizionali fino a supporti
contenenti 104 transistor.
 Telefonia: la deviazioni delle informazioni provenienti da un capo di un filo ed indirizzate
verso un altro estremo è avvenuta, nel passato, grazie a mezzi elettromeccanici.
Successivamente si è passati a modificare l’indice di rifrazione di un cristallo di NaCl, KBr o
CaF2
mediante
l’applicazione
di
un
campo
elettrico
(dipolo
rotante
P=P0+αE+βEE+γEEE…=n1+n2E; n1 rappresenta la parte lineare ed n2 quella non lineare)
considerando solo la parte lineare dell’espansione in serie di P. E’ oggi possibile deviare un
raggio luminoso proveniente da un fibra ottica grazie all’utilizzo di un fascio laser puntato su
polimeri conduttori che variano il loro indice di rifrazione se eccitati otticamente; grazie alla
modulazione della componete β e γ dell’espressione di P si può “governare la luce con la luce”
grazie all’ottica non lineare (fotonica) (Fig. 15).
30
Generatore di
campo E
E
Dipolo rotante
Dipolo rotante
Fibre ottiche uscenti
Fibra ottica entrante Generatore
laser
Raggio laser
Evoluzione tecnologica
E
cristallo
Polimero
conduttore
Fig 15: rappresentazione schematica della
sorpassata tecnologia di controllo elettro-ottico
(in alto) e della tecnica futura del controllo
fotonico (in basso)
Le catene a base di carbonio possono trovarsi in forme e legame diversi: poli-ini (rari), poli-eni
(solo ad atmosfere stellari) e catene con legami doppi e singoli alternati.
L’ultima categoria comprende il maggior numero di polimeri utilizzati nel campo dei conduttori
organici; il già noto poliacetilene ne rappresenta un esempio. La coniugazione la si ritrova anche in
alcuni polimeri naturali come il β-carotene che consente di trasformare un segnale fotonico in uno
spike neuronico grazie alla sua capacità di modifica conformazionale; nell’uomo, è così permessa la
visione.
A livello pratico il poliacetilene è però poco utile in quanto
Zone drogate
degrada in meno di dieci minuti, non è omogeneamente
drogato e presenta salti elettronici trasversali; la sua
funzione rimane quindi scientifico-didattica utile solo a
capire il meccanismo di conduzione nei polimeri. Peraltro,
nel poliacetilene, la conducibilità intercatena e interfibra,
oltre a quella intracatena, ha fatto abbandonare l’idea di
creare fili senza guaina protettiva (Fig. 16).
eSono stati perciò prodotti altri composti come i politiofeni, i
polipirroli, i poliparafenileni e i poliparafenilenevinileni che
Fig 16: conduzione
vengono già impiegati da Philips come LED organici per
intercatena nel
Salto elettronico
Renault (Philips è stata la prima azienda in grado di
poliacetilene
fra zone drogate
sintetizzare un polimero conduttore che emette luce con una
adiacenti
stimolazione elettrica pari a 1,5 V con più di 2000 ore di
tempo di vita media). Alcuni fra questi composti sembravano risultare molto promettenti nel campo
dell’elettronica, perché il loro basso valore di gap (fino a 1eV) avrebbe evitato la necessità del
drogaggio; purtroppo però la conformazione tridimensionale della singola catena non permetteva la
sovrapposizione degli orbitali π, indispensabile per la conduzione elettrica. Altri invece (politiofeni
e polipirroli) non sono solubili e,di conseguenza, risultano poco lavorabili; per ovviare a tale
problema si aggiungono catene alchiliche che, per ragioni antropiche, aggirano tale ostacolo. Altri
polimeri, come il polietilendiossitiofene, sono impiegati come anti-statici per rivestire le pellicole
fotosensibili, oppure altri costituiscono il rivestimento anti Radar per gli F117 Stealth in forza
all’esercito statunitense.
Antonino Spoto
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