Nanomateriali L’ordine di grandezza di un nanomateriale è 10-9 m; solo i chimici rimangono ancora affezionati alla unità di lunghezza a loro più congeniale, l’Amstrong, pari a 10-10 m (per avere un’idea dimensionale si sappia che la lunghezza di legame C-C è 1,52 A). Attualmente, pur non essendo del tutto scomparsa la vecchia tradizione legata all’uso dell’Amstrong, si tende ad assumere, come riferimento internazionale, il nanometro; questo comporta una uniformazione di unità di misura, resa possibile anche grazie agli organi preposti alla scelta degli standard internazionali come la IUPAC, IUPAP e IUPAB (International union pure applyed chemstry, physics e biology). Il mondo “nano” presenta caratteristiche particolari che conferiscono alla materia proprietà chimico-fisiche diverse rispetto a quello dello stesso materiale di partenza. Questo significa che un materiale di grandi dimensioni, triturato fino a raggiungere la grandezza “nano”, acquista proprietà diverse da quelle iniziali (effetto di confinamento degli elettroni; indica che gli elettroni vengono pressati in un piccolo spazio) (Fig. 1). Stesso risultato se ad una molecola di dimensione inferiore ai nano si aggiunge una sequenza molecolare sufficiente ad arrivare ai circa 10-9 m (effetti a long range, vale a dire che gli elettroni non sentono più solo l’influenza degli elettroni molto vicini, ma vengono perturbati nel loro comportamento anche da altri posti a distanza nano; possono creare spin diversi all’interno della stessa molecola). proprietà l Fig 1: proprietà in funzione della lunghezza Le tecniche di produzione di questi materiali sono: la top-down (ad esempio, il macinamento di un oggetto grande) e la bottom-up (cioè la costruzione dell’oggetto nano a partire dagli atomi). Quest’ultima sembra essere la più promettente per arrivare a disporre cluster di atomi o molecole su di un substrato in maniera ordinata, disordinata o, addirittura, per ottenere, si spera, una spontanea deposizione ordinata. Esempio storico della tecnologia nano è il funzionamento dell’HgCl2, come catalizzatore della reazione di polimerizzaione del polipropilene isotattico. Questo composto risulta attivo solo se macinato e ridotto a livello nano, in quanto sugli spigoli del reticolo cristallino, per effetto del confinamento degli elettroni, si concentrano cariche elettriche. I materiali di interesse nelle nanotecnologie sono: metalli ceramiche materiali polimerici classici (20-25 monomeri) materiali polimerici policoniugati (conduttori) materiale biologico -possibilità di impiego nel rilascio controllato di farmaci fullereni Forma allotropica del carbonio C60 -drug releasing -sequestro di ioni nanotubi Forma allotropica del carbonio con monoparete o pluriparete (tubi concentrici) -memorie molecolari 1 -Intrappolamento e stoccaggio di idrogeno, quindi suo possibile impiego come combustibile carboni amorfi o parzialmente organizzati Film di carbonio deposto per evaporazione in forma cristallina (diamante) -Nanofilm che conferiscono resistenza -Già usato sulle lamette dei rasoi Proprietà chimico fisiche influenzate dal mondo nano: meccaniche elettriche magnetiche colore. 2 Le forze in gioco Prima di analizzare direttamente quali sono le forze in gioco in una nanostruttura, è meglio descrivere esempi di oggetti che possono essere ottenuti in laboratorio e di quelli con cui si è già in contatto nella vita di tutti i giorni. Avendo a disposizione il materiale di base in una soluzione diluita, un procedimento per ottenere un nano-cristallo consiste nell’aumentare la temperatura della soluzione in modo tale che le molecole si muovano e formino per collisione i primi germi di aggregazione del cristallo 3D, nel bloccare il processo allo stadio “nano” e nell’isolare i nanocristalli. Un esempio di questo si può osservare nelle catene polimeriche in soluzione, nei cui punti di contatto, creatisi per agitazione termica, si possono formare nano-micelle (Fig. 2). micelle Fig 2: formazione delle nanomicelle Un altro esempio di formazione di nano strutture è l’HBC. Questo composto, formato dall’autoaggregazione di più molecole di HBC impilate una sull’altra, si è dimostrato un ottimo conduttore di corrente; infatti, se, attraverso due elettrodi, vi si applica un campo elettrico, si nota che sulla soluzione contenente HBC si formano nano-fili conduttori orientati secondo la polarità del campo. Più vicino all’esperienza quotidiana è invece il caso dei cristalli liquidi (Fig. 3). Le loro molecole sono costituite da 2 anelli benzenici (sui quali si forma un dipolo elettrico) e da una lunga coda costituita da gruppi CH2. Questi composti sono lineari e in grado di disporsi parallelamente gli uni agli altri, alternando la posizione della testa e della coda di molecole adiacenti. A basse temperature, la catena dei CH2 è in grado di disporsi linearmente nello spazio, mantenendo le molecole vicine fra loro e conferendo colore “scuro” al materiale; ad alte temperature, invece, le code si arrotolano su se stesse, distanziano le molecole e rendono il materiale trasparente. Questo switch (colore-trasparenza) avviene in brevissimo tempo e con l’applicazione di un voltaggio bassissimo, che si mantiene nell’ordine dei milionesimi di Volt (altrimenti, ad esempio, la pila degli orologi si esaurirebbe in pochi secondi). Bassa T Alta T code Fig 3: i cristalli liquidi Oggetto di interesse e di studio dei nanomateriali sono soltanto i cristalli e i cristalli liquidi (per cui le forze in gioco ricadono nella tipologia dei solidi). Consideriamo esclusivamente l’interazione fra due atomi, dato che l’estensione al caso pluriatomico è solo un problema di calcolo, risolvibile con un qualsiasi computer. La forza F di interazione atomo-atomo dipende dalla distanza alla quale essi si trovano gli atomi e verrà descritta dalla derivata di una funzione potenziale V supposta nota: F(r)= - dV/dr dove di V si conosce l’andamento qualitativo della parte attrattiva e repulsiva, l’re, il punto di minimo e il delta di dissociazione. La curva V (Fig. 4) può essere descritta solo da modelli che ne approssimano l’andamento qualitativo, che a sua volta è stato dedotto dalla proprietà delle dilatazione dei corpi all’aumentare dell’energia. 3 Infatti, se si incrementa il valore di E sulla curva V rispetto al minimo, il sistema oscilla tra due punti distinti, ma il punto medio di equilibrio di tale oscillazione si sposta verso destra. In termini fisici significa che il contributo repulsivo diventa più forte di quello attrattivo. V r’eq r Delta E Fig 4: andamento della funzione potenziale req L’estensione di V al caso pluriatomico in formula è: V=∑ V(rij) Il modello più usato per l’approssimazione della curva V è quello di Lenner-Jones: V(r) = 4ε[σ/r12 – σ/r6] Dove ε e σ sono dati noti in funzione dei due atomi considerati. Trattandosi di un modello, ci sono casi in cui la formulazione viene limitatamente rimaneggiata e corretta soprattutto nei due esponenti di r allo scopo di adattarla meglio al singolo caso. Nell’interazione atomo-atomo, oltre a Lenner-Jones, bisogna tener conto anche di un contributo elettrostatico descritto da Stockmayer. Nella formulazione generale, quindi, le interazioni atomo-atomo vengono descritte da LJ+elettr. È necessario fare una considerazione anche sul raggio di azione delle diverse forze presenti e, quando possibile, fornire per ognuna di esse una formulazione matematica. Le forze a short-range sono quelle che agiscono tra atomi vicini, e alla distanza di 2 o 3 unità non vengono più percepite. Forze di valenza: sono forze di legame chimico, valgono 300 kcal /mol.; non vengono percepite dal secondo atomo vicino, a meno che non vi sia la presenza di due doppi legami consecutivi con elettroni π. Le forze a long-range vengono percepite anche a 30-40 unità di distanza. Interazioni elettrostatiche fra cariche supposte puntiformi: Vab=(Ca Cb)/r, dove C sono le cariche. Interazioni carica-dipolo Vab= - (Ca μb)/r2 cos θ, dove C è la carica e μ il dipolo. Interazione dipolo-dipolo Vab= - (μa μb)/r3 GF, dove μ sono i dipoli. Interazione dipolo indotto-dipolo indotto Sono le forze di dispersione di Van der Walls, valgono 0,5- 2 Kcal/mole. Le forze di polarizzazione, costituite dai legami H; valgono 7-10 kcal/mole. 4 L’importanza del legame idrogeno Soprattutto nel mondo biologico, la forza dei legami idrogeno si trova alla base dell’assemblaggio delle molecole e del loro funzionamento. Come esempio storico basta pensare alla doppia elica del DNA, che si forma grazie alla presenza di numerosi H-bond tra basi puriniche e pirimidiniche. Un altro caso si ha con la struttura terziaria (α-eliche o β-sheet) e quaternaria delle proteine, la cui forma e il cui corretto funzionamento sono imputabili ai legami H. Altre strutture proteiche ottenute per aggregazione possono esser impiegate per intrappolare altri composti all’interno di spazi vuoti regolati dagli H-bond. Più recentemente si sono sviluppati dei polimeri (come il Nylon), le cui singole catene sono legate fra loro da ponti H, che conferiscono resistenza, plasticità e caratteristiche tecniche e meccaniche straordinarie. Si pensa oggi di poter sfruttare questi composti per ottenere indumenti che non necessitano del processo di stiratura, perché, grazie all’interazione dell’acqua durante il loro lavaggio, le fibre si dispongono parallelamente in maniera naturale. In ogni caso, la formazione dei legami H richiede che le due molecole coinvolte siano commensurabili, vale a dire compatibili geometricamente. In generale, l’idrogeno coinvolto in un legame H funge da ponte tra un atomo elettronegativo, con il quale è legato covalentemente, ed un altro, con il quale interagisce elettrostaticamente. Nel complesso questo legame quindi non è solo elettrostatico perché, come dimostrato da recenti studi, le cariche coinvolte non rimangono sempre costanti al variare delle condizioni esterne. Le molecole di acqua sono un ottimo esempio per capire come l’effetto elettronegativo dell’ossigeno (donatore) crei una carica δ+ sui due idrogeni (accettori) ad esso legati, che interagiscono con la carica δ- di un O appartenente ad un'altra molecola. A causa della forma tetraedrica della molecola d’acqua, l’interazione H può avvenire in due modi: in maniera debole, ovvero quando un atomo H si pone in equilibrio tra i due lobi degli orbitali dell’ossigeno, o in maniera forte, quando esso interagisce linearmente con un solo lobo. Le molecole che solitamente formano i legami idrogeno sono: OH, NH, SH e CH. Si consideri ora un modello di legame H tra due molecole semplici: A-H--------B dove A-H sono uniti covalentemente, mentre H-------B elettrostaticamente. Al variare dell’energia in gioco, l’atomo H si può spostare da A a B, fino ad instaurare con quest’ultimo un nuovo legame covalente, rompendo quello precedente (nuova situazione di equilibrio energetico). Per il caso generale sopra descritto, si può dunque immaginare che l’andamento qualitativo della funzione potenziale presenti due punti di minimo ed una barriera energetica posta fra di essi. Variando opportunamente l’energia, si può superare tale barriera e cadere in una diversa buca di potenziale (fisica classica). Per attraversarla, esiste però anche un altro modo, descritto dalla fisica quantistica che chiarisce che lo scoglio energetico da valicare può essere visto come la somma di due funzioni d’onda distinte e che esiste quindi la possibilità che alcune molecole passino da un minimo ad un altro attraverso un “tunneling”(Fig. 5). Questo effetto dipende dalla geometria della curva di potenziale e, in alcuni casi, senza di esso non può avvenire il passaggio tra i minimi. Naturalmente, la forma precisa della funzione potenziale dipende dal sistema analizzato. La barriera può essere più o meno alta, le buche di potenziale più o meno larghe ed i punti di minimo più o meno diversi fra loro. 5 Funzioni d’onda Barriera di potenziale tunneling minimi Fig 5: effetto tunneling Il legame idrogeno è studiato attraverso lo spettrometro, che è in grado di analizzarlo a partire dai modi vibrazionali delle molecole; il punto chiave di tale analisi è la misura delle frequenze di oscillazione: ν=1/(2π)*√(K/μ), dove K è la costante elastica del legame e μ è la massa ridotta degli atomi. Prendiamo ad esempio molecole di fenolo. Esse formano un cristallo, all’interno del quale sono presenti due tipi di legame H: uno intramolecolare (tra O e H della stessa molecola) e uno intermolecolare (tra O e H di due fenoli diversi). L’analisi spettrometrica di tale composto fornirà un ben determinato picco di assorbimento. Se al cristallo si aggiunge un solvente, i soli legami intermolecolari vengono rotti, ed è dunque possibile registrare un assorbimento diverso dal precedente ed analizzare quindi per comparazione le forze di legame in gioco. Su altre molecole i cambiamenti possono essere indotti non solo con solventi, ma anche con variazioni di temperatura. 6 Formazione di aggregati Esistono due tecniche per la preparazione di aggregati. Nella prima, si creano condizioni ambientali tali da generare degli urti fra le molecole o fra gli atomi presenti nella soluzione di partenza. Dalla fisica si sa che tali scontri possono essere di due tipi: elastici ed anaelastici. Solo nel secondo caso alcuni elementi commensurabili fra loro si fondono parzialmente o totalmente e formano germi di aggregazione molecolare. Una volta fornita energia (aumento la temperatura) alla soluzione contente gli elementi di base del materiale di interesse, le molecole si agitano in modo caotico, generano urti casuali, creano germi di aggregazione ed infine formano un piccolo cristallo. Per bloccare la crescita cristallina, in modo da avere a disposizione oggetti della dimensione desiderata (ad esempio nanocristalli), si può diminuire la temperatura o sfruttare il naturale aumento della viscosità della soluzione dovuto alla presenza di un crescente numero di grossi aggregati. Nella seconda, la formazione di aggregati si basa sul concetto della lenta deposizione degli elementi di base. Grazie al controllo esterno della temperatura e della concentrazione di molecole, è possibile fare in modo che queste si depositino lentamente una sull’altra formando un aggregato cristallino. In alcuni esperimenti si è osservato che, abbassando la temperatura della soluzione di circa 0,1°C/day, si forma lentamente un cristallo perfetto a partire sia da molecole polimeriche corte sia da quelle lunghe. Se, invece, il raffreddamento avviene in maniera troppo brusca, si genera un aggregato amorfo, che, in alcuni casi, è possibile trasformare in cristallino grazie ad un processo di ricottura (annealing). Con quest’ultima tecnica, dopo mesi di accurato lavoro, si è costruito in laboratorio un cristallo di CO2 lungo alcuni centimetri, ottenuto dalla deposizione di goccioline di gas raffreddate e cristallizzate lentamente dall’elio e dall’azoto liquido. Un altro aspetto da tenere presente nella formazione di un nanomateriale è l’effetto delle caratteristiche di superficie del substrato sul quale di forma il nano-aggregato. Interazioni dipolodipolo, forze di Wan der Walls e interazioni elettrostatiche sono forze perturbative che possono cambiare la forma delle molecole depositate ed, eventualmente, alterarne la funzione. Un esempio di ciò si ha con lo studio condotto su lamelle di polietilene. I calcoli teorici prevedono che riscaldando due lamelle di dimensioni diverse, costituite da fibre parallele di polietilene trans, queste si modifichino; tale modifica è data dal fatto che alcune delle singole catene di una lamella scivolano al di fuori esse, assumono la formazione gauche e si fondono successivamente con le catene dell’altra lamella. La teoria è stata successivamente confermata da un esperimento pratico in cui questo effetto si ottiene grazie ad un supporto di grafite posto al di sotto delle lamelle ed è analizzato con STM. Una volta formatisi i cristalli (nel nostro caso nanocristalli), si deve procedere all’analisi strutturale del composto ottenuto. Si riportano di seguito i metodi di analisi tradizionalmente usati in chimica per i gas, i liquidi e i solidi cristallini. Gas. Le molecole sono libere di ruotare, traslare e vibrare. Per questa categoria si utilizza la diffrazione di elettroni, la spettroscopia a microonde, quella IR, quella Raman ed, infine, quella elettronica. Liquidi. I movimenti traslazionali, rotazionali e vibrazionali sono più impediti rispetto ai gas. Si impiega dunque la diffrazione e tutte le spettroscopie tranne quella a microonde. Solidi cristallini. Le molecole sono intrappolate in un reticolo fisso. Si usa quindi la diffrazione di RX, quella di neutroni, l’AFM e l’STM. Dal momento che per i nanomateriali (solidi cristallini) si utilizza maggiormente la difrazione di RX, si riporta di seguito la procedura tradizionale seguita in laboratorio. 7 La prima parte del lavoro del cristallografo viene svolta al microscopio ottico per la selezione del cristallo, che deve essere difratto. La scelta avviene attraverso principi standard che permettono una rifrazione di buona qualità. Quindi si richiede che: le dimensioni del cristallo siano inferiori al millimetro in modo tale da essere completamente investito dal fascio RX; la forma del cristallo sia sferica in modo tale da avere isotropia nello scattering; il cristallo non sia geminato, cioè non si presenti come unione di due o più cristalli, altrimenti lo scattering sarebbe di difficile lettura. Questa selezione avviene in base all’esperienza del cristallografo che, una volta individuato l’elemento migliore, passa poi alla fase di prelievo e all’inserimento del cristallo nel difrattometro a 4 cerchi. Per fare questo si prende una sottilissima fibra di vetro, che viene passata lievemente in un apposita colla (senza esagerare nel quantitativo, altrimenti anche la colla potrebbe interferire con le misure). Sempre al microscopio grazie alla colla si fa aderire la fibra al cristallo, assicurandosi che questo rimanga il più possibile sul vertice del filo di vetro. Si inserisce quindi il filo di vetro con il cristallo nel difrattometro. Quest’ultimo è del tipo “a 4 cerchi”. Tre dei 4 gradi di libertà rotazionali servono per girare il cristallo nei suoi tre assi (angoli Ω,φ,χ). L’altro grado di libertà, 2θ, serve per far ruotare il counter. Il tubo generatore di X-ray è di rame o berilio con selettore di nichel o a cristallo. Il rilevatore puntuale è a scintillazione. La potenza di estrazione degli elettroni é nell’ordine dei kW (40 kW); l’accelerazione degli elettroni è nell’ordine dei mA (40mA). La prima fase è quella di corretto posizionamento centrale del cristallo all’interno dell’apparecchiatura, che avviene tramite controllo al microscopio ottico, che è direttamente montato sul difrattometro. Comincia poi la fase di prelievo dati. La prima fase consiste nell’analisi dei dati preliminari sulla struttura del cristallo tramite un immagine impressa su un polaroid dagli elettroni difratti. La riproduzione presenta macchie chiare (riflessioni di Bragg) su sfondo nero; una volta ottenuta questa prima fotografia, è compito del cristallografo analizzarla, misurare la distanza tra le riflessioni principali ed inserire questi dati all’interno del calcolatore collegato al rifrattometro. Inizia poi una seconda fase in cui il rifrattometro ricerca, sempre con maggior precisione, le riflessioni nell’intorno dei punti indicati dal cristallografo (il fascio di elettroni scattered viene questa volta misurato dal rilevatore senza la polaroid). A computer vengono visualizzati i dati di questa seconda raccolta. Dai grafici, che presentano picchi in corrispondenza delle riflessioni, si può vedere se il cristallo selezionato nella prima fase è effettivamente buono per la raccolta dati completa, dato che ad esempio è possibile vedere se ci sono picchi che segnalano la presenza di un cristallo geminato. Quest’ultima operazione è assolutamente fondamentale, perché il rilevamento dati completo dura parecchi giorni ed un eventuale errore nella selezione del cristallo renderebbe inutile il lungo lavoro. La fase più lunga è il prelievo completo dei dati di scattering, mentre quella più difficile è la risoluzione del problema della fase. Una volta in possesso di tutti i dati, con l’inevitabile ausilio del computer, si passa a calcolare gli indici H,K,L del cristallo. Si procede poi in una fase di calcolo della struttura attraverso 2 parametri: l’intensità della riflessione (dato che si rileva) e la fase (dato che si calcola). I due parametri servono per il calcolo della densità elettronica del cristallo. Si procede per approssimazioni successive, partendo da una struttura teorica e vedendo se essa genera ampiezze di riflessioni calcolate pari a quelle rilevate. Se ciò avviene, si procede al calcolo delle fasi del modello. La densità approssimata si calcola in funzione del fattore di struttura, che dipende dalle intensità misurate e dalle fasi calcolate. Dalla densità approssimata si può calcolare un altro fattore di struttura e quindi fasi migliori, che servono per il calcolo di una nuova densità. Si fanno quindi cicli continui di iterazione, fino a quando si converge ad un valore di densità che non può migliorare più con altre iterazioni. Se questa densità elettronica è compatibile con le rilevazioni, si ha la struttura molecolare del cristallo. La densità viene visualizzata graficamente al computer e il cristallografo può migliorare la struttura, ad esempio, aggiungendo gli idrogeni che generano riflessioni troppo piccole per essere individuati con precisione. 8 Considerando un cristallo normale, come NaCl, si nota che la distanza dei piani reticolari è nell’ordine di pochi Amstrong. In un nanomateriale però le unità elementari che si ripetono tridimensionalmente ne distano centinaia, ragion per cui la tecnica di diffrazione deve essere leggermente riadattata come successivamente descritto. Dalla formula di Bragg si ottiene che: D= nλ/(2 senθ), dove n è un numero intero, λ è la lunghezza d’onda e θ è l’angolo di incidenza del raggio X. Per cui se la distanza D da misurare aumenta considerevolmente (da poche unità a centinaia di A), l’angolo di impatto del raggio incidente deve essere molto piccolo, in modo da rendere grande il rapporto frazionario della formula. Per questo si usano tecniche di indagine per diffrazione chiamate SAXS (small angle X-Ray scattering) che, al contrario delle tradizionali WAXS (wide angle X-ray scattering), impiegano angoli di incidenza molto più piccoli. L’indagine difrattometrica si basa sulla misura dell’intesità di raggi X difratti dal materiale. Questo dato viene plottato in funzione dell’angolo di incidenza e determina così i cosiddetti “picchi di assorbimento”. Se il piano reticolare che genera la rifrazione presenta unità perfettamente ordinate, il picco sarà alto e stretto (preciso), mentre se nel cristallo è presente un certo disordine, risulterà basso e largo (distorto). Il disordine del reticolo cristallino e, di conseguenza, la distorsione della misura di rifrazione, è di due tipi: termico e intrinseco. Lavorando a bassissime temperature, nell’ordine di pochi kelvin, si è in grado di sopperire al primo errore, mentre non esiste alcuna tecnica in grado di eliminare il secondo. Le considerazione fatte sugli Rx valgono anche per la difrattometria a neutroni. L’utile elemento di novità di questa tecnica rispetto alla precedente consiste nel fatto che è possibile visualizzare direttamente gli atomi di idrogeno. L’aspetto negativo, invece, sta nella difficoltà di avere a disposizione la costosissima strumentazione, che necessita di un reattore nucleare per la generazione di una grande quantità di neutroni. Nel caso di uno studio condotto in Italia che richiede l’uso di questa tecnologia, è indispensabile appoggiarsi a strutture estere. 9 Deposizione di sottili film di carbonio Introduzione Il carbonio è un materiale molto versatile, adatto alla deposizione sottoforma di un film sottile su alcune superfici di diversa natura chimica con l’intento di migliorarne le caratteristiche fisiche. Con il termine “film” si intende uno strato di materiale di spessore ridotto (che può variare dal monolayer a centinaia di nanometri), che viene fatto aderire artificialmente ad un substrato di un composto di differente natura chimica. L’idea di produrre dei rivestimenti esterni per alcuni materiali già in uso in diversi settori industriali scaturisce dall’impossibilità pratica di realizzare artificialmente oggetti cristallini completamente “bulk”, ovvero materiali la cui struttura non presenti anomalie in superficie; ciò accade perché tutti i materiali (compresi i cristalli che per loro natura sono ordinati) presentano una forte anisotropia nella loro faccia esterna, a causa del contatto degli atomi superficiali sia con l’omologo strato sottostante, sia con l’ambiente. Nella recente storia della ricerca universitaria e industriale è accaduto che le straordinarie caratteristiche del diamante (la durezza elevatissima, la purezza, la trasparenza nel visibile, l’assorbimento nell’ultravioletto e il gap di 5eV che ne consente l’impiego come semiconduttore a banda larga -anche se, ultimamente, è sostituito da SiC di costo inferiore-) abbiano spinto fortemente gli esperti del settore a tentare la produzione di materiali “bulk”. Soprattutto per quanto concerne il carbonio in forma cristallina, l’esito di tali sforzi è stato però deludente, dal momento che si sono generati cristalli di piccolissime dimensioni, il cui costo di produzione superava però di gran lunga quello della gemma normalmente estratta. Per lungo tempo il concetto di superficie ha costituito un problema per i fisici e per gli ingegneri. Un esempio di tali ostacoli pratici è rappresentato dall’ossido che si forma naturalmente sul silicio “bulk”, che ne altera le caratteristiche chimico-fisiche. Poteva accadere (e spesso accade ancora oggi) che materiali potenzialmente adatti ad un certo fine progettuale venissero scartati a causa dell’inadeguatezza delle loro caratteristiche esterne. Con la nascita della fisica delle superfici, si tenta oggi di ovviare a questo problema apportando modifiche superficiali che conferiscono al materiale massivo un enorme “valore aggiunto”, con una spesa di molto inferiore rispetto alla progettazione di un materiale ex-novo. Per rendere un esempio di questo risparmio si pensi ad un normale tavolo la cui superficie deve essere resa “anti-graffio” per motivi progettuali. Si può pensare o di ideare un materiale di nuova generazione che sostituisca il vecchio legno compensato (che di per sé non rispecchia le specifiche di progetto) oppure di sfruttare la semplice deposizione di un coating molto duro (simile al diamante), pur mantenendo il tradizionale materiale “bulk”. A seconda del fine progettuale, i rivestimenti superficiali possono essere massimizzati o minimizzati in rapporto alla loro funzione. Nel primo caso, ad esempio, si possono avere costrutti con una funzione catalitica, per i quali si deve aumentare al massimo l’area di contatto (materiale spugnoso); nel secondo e più frequente caso si tenta invece di assottigliare il più possibile lo strato di materiale deposto, puntando ad una forte e completa adesione al substrato. Lo spessore può variare da 0,1 nm, quando si richiede un monolayer, a 1-10 nm in elettronica e fino anche a 100 nm, quando interessa una iterazione coating-bulk molto resistente. Al giorno d’oggi questi rivestimenti sono già usati in vari ambiti: per la colorazione delle lenti a contatto, dove il rivestimento deve garantire proprietà ottiche adatte senza la necessità di essere particolarmente resistente in termini meccanici (pochi nm); nei rivestimenti per lo smaltimento termico nelle turbine degli aerei e negli scudi termici delle navicelle spaziali, per proteggere il rientro in atmosfera. In questo ultimo caso, la produzione di un coating deve soddisfare il compromesso tra leggerezza (basso spessore) e smaltimento termico (alto spessore), impiegando notevoli risorse ingegneristiche ed economiche. 10 Il materiale Il carbonio ha due forme allotropiche: il diamante e la grafite. La prima forma è costituita da un reticolo di atomi di carbonio con ibridazione sp 3 disposti tetraedricamente in 3D; è un materiale molto duro, resistente e trasparente. La seconda è formata dalla stratificazione di fogli omogenei di strutture esacicliche di carbonio con ibridazione sp2. La forma esagonale delle unità elementari consente di riempire completamente tutta la superficie a disposizione e di formare un materiale fortemente anisotropo che presenta una marcata resistenza lungo i legami intraplanari (al contrario di quelli interplanari). A causa della debolezza di quest’ultimi e della conseguente facilità nella delaminazione, la grafite è spesso impiegata come lubrificante solido nelle applicazioni a bassa temperatura per le quali non è possibile usare dei liquidi. Oltre al carbonio puro, è oggi possibile ottenere altri materiali con due forme allotropiche come, ad esempio, il nitruro di bario (BN) cubico (in natura è presente solo in forma esagonale ed è simile al gesso). Proprio in base alla conoscenza delle caratteristiche delle strutture carboniose, si tenta oggi di ricoprire le superfici con uno strato di materiale il più possibile simile al diamante. Anche se non si è raggiunto ancora un livello di perfezione tecnica che consenta di ottenere una vera struttura cristallina, si è in grado di depositare uno strato di carbonio chiamato DLC, cioè un “diamond like carbon”. Ciò che differenzia questa struttura dal vero e proprio diamante è la composizione amorfa dello strato, nel quale convivono porzioni di C ibridato sp2 ed sp3 (in questo ultimo caso la singola porzione di C e disposta tetraedricamente, ma non in maniera cristallina). Una struttura solida, per sua definizione, deve avere un impaccamento volumetrico pari a 0,6 (cioè gli atomi devono occupare almeno il 60% del volume); questo livello è raggiunto e superato nel DLC, le cui caratteristiche meccaniche variano, però, in funzione di altri parametri, quali il rapporto sp2/sp3 e la purezza del contenuto in carbonio. Quanto più è alta la percentuale di ibridazione sp3 rispetto alle sp2 e quanto più sono minori sono le impurezze di legame presenti (C-N, C-H), tanto più duro e resistente è il coating che si ottiene; se gli sp3 sono almeno il 70% delle ibridazioni presenti e la struttura è in carbonio puro, il DLC prende il nome di ta-C (tetredrical amorfous carbon). Tecniche di sintesi Le tecniche di sintesi dei DLC sono 2: la PVD (Phisycal Vapour Deposition) e la CVD (Chemical Vapour Deposition). Nella prima il carbonio è evaporato nel vuoto (anche se non si ha la totale sicurezza della nascita di eventuali reazioni chimiche con altri elementi), mentre nella seconda l’evaporazione avviene in ambiente gassoso composto da atomi che possono interagire con il carbonio. In entrambi i casi bisogna tenere presente che, se la pressione di deposito del carbonio sul substrato è bassa, il film che si ottiene è sottile, poco adeso e poroso. Per ovviare a questo problema servono delle tecniche, chiamate plasma assisted (PA), che sfruttano le caratteristiche di un gas ionico per facilitare e migliorare il processo di rivestimento. Il plasma è il quarto stato della materia ed è costituito da un gas di particelle cariche elettricamente che nel complesso risulta neutro. Le sue caratteristiche principali sono due: le interazioni fra particelle sono di tipo comboniano a lungo raggio e le interazioni sono a “multicorpo”; se si applica una tensione di polarizzazione al substrato (ad esempio –100V), le cariche positive penetrano nella superficie con un’energia nota, che va ad innalzare la temperatura del materiale bersaglio e che consente la “densificazione” (un processo che aumenta l’adesione tra il film ed il “bulk”). 11 Pulsed Laser deposition (PLD) Questa è una delle tecniche di deposizione di DLC più usata. Essa sfrutta le proprietà (coerenza e brillanza) di un fascio laser pulsatile (vincolo tecnologico) ad eccimeri a base di KrF (fluoruro di Kripton), che possiede stati eccitati metastabili. In genere, se ne conosce l’energia, la lunghezza d’onda e la durata di ogni singolo impulso. Nel nostro caso particolare (vedi la descrizione dell’esperimento), l’energia è di 450mJ ad impulso, le λ in gioco appartengono al campo degli UV (in particolare si usano i 248 nm), la τ è di circa 20 ns, il profilo spaziale del laser è rettangolare con dimensioni di 15x10 mm (determinando un impulso a bassa brillanza) e la densità di potenza è 1010 W/cm2. Funzionamento (Fig. 6) Il laser, emesso da un’apposita sorgente, passa attraverso un sistema di lenti che lo proiettano attraverso un’apertura all’interno di una camera di acciaio di spessore 7 mm, nella quale è realizzato il vuoto. L’impulso luminoso colpisce, con angolazione di 45°, un bersaglio di carbonio libero di ruotare e di traslare lungo i propri assi, e lo fonde parzialmente. In questo modo la struttura viene velocemente ablata ed emette una “piuma” di plasma con profilo ellittico che procede con velocità di 105-106 cm/s verso il substrato da ricoprire, precedentemente posto a distanza di 5-15 cm dal target all’interno della medesima camera d’acciaio. La temperatura che si genera durante l’ablazione è di circa 5000°K sul bersaglio e 1500°K sul substrato. Grazie alla velocità degli ioni C+ e C++ e al calore presente, il materiale massivo viene rivestito gaussianamente da un nanostrato di DLC. Un dato da osservare è il ruolo dell’H presente nell’ambiente e sul substrato durante la deposizione: la presenza di questo elemento abbassa la temperatura di transizione tra lo stato ibridato sp3 e quello grafitico ibridato sp2. Fascio laser Specchio riflettente Sorgente laser Lente 0,5 mm2 Finestra ottica SiO2 amorfo Camera d’acciaio 7 mm Substrato Distribuzione gaussiana del plasma sul substrato 45° Target di carbonio Piuma di plasma Fig 6: rappresentazione schematica della camera per la deposizione di DLC 12 Esperimento Con questa tecnica sono stati condotti alcuni esperimenti per verificarne l’efficacia. Di seguito si riporta una loro breve descrizione. Condizioni sperimentali Substrato: Si puro, al quale è stato asportato chimicamente lo strato di ossido mediante HF. Bersaglio: High oriented pirolic grafite; in questo materiale i piani sono in una buona relazione cristallografica che consente un elevato grado di ripetibilità dell’esperienza intra ed inter laboratorio. Parametri: λ=248nm, τ=20ns, ν=10 Hz, α=45°, fluenza= 0,5-31 J/cm2 (0,25-15,5 MWmm2) con la lente, Ts=300°K. La pressione per le tre prove effettuate è di 10-2 Pa in vuoto, 1 Pa in N2, 0,6-2000 Pa in He. La velocità di crescita del film è 0,6-0,7 nm/s. Si è deciso di utilizzare una frequenza laser nel campo degli UV perché, grazie alla bassa lunghezza d’onda, la penetrazione del fascio nel bersaglio è ridotta a 10 nm e consente di evaporare solo ioni C puri senza generare grosse inclusioni. Analisi effetuate SEM-TEM: 15 KV primari; 30° di angolazione del fascio; osservazione della cross section. FTIR: banda 400-4000 cm-1, il confronto è stato effettuato con lo spettro del solo silicio. Raman: 532nm, Nd; per la prova in vuoto e in He si ha Φ=1μm e P=3mW per evitare la transizione in grafite, per l’esperienza in N si ha invece Φ=100μm e P=20mW. UV-micro-Raman: 244nm, perché nel campo del visibile gli sp3 non sono misurabili in quanto risultano 50 volte meno intensi degli sp2. Risultati IR Questa analisi è stata condotta su diversi campioni con film DLC depositato a fluenza diversa e con spessori differenti. Lo spettro ottenuto con gli infrarossi permette di capire se nel film vi è la presenza di H; al di sopra dei 3000 cm-1 infatti le bande piatte ottenute sperimentalmente indicano che non è presente l’idrogeno, perché il legame C- H creerebbe un picco tra i 2900 e i 3000 cm-1. In funzione della fluenza e dello spessore del film si notano spettri differenti; per una fluenza di 1,7 J/cm2 c’è infatti un assorbimento a 1550 cm-1 dovuto agli sp2, uno a 1250 cm-1 e un altro a 710 cm-1 (quest’ultimo dovuto al modo di respiro della grafite). Altri film ottenuti a potenze più elevate risultano trasparenti. Raman I film di DLC analizzati al Raman sono stati depositati con fluenze variabili tra 0,5 e 18,5 MWmm 2. Lo scopo di questa analisi è confrontare il deposito avvenuto in vuoto con quello in N. Si conoscono come dati i picchi di assorbimento della grafite (1550 cm-1) e del diamante (1346 cm-1) e, in base a questi, si può vedere il grado di miscelazione tra sp2 e sp3 (picchi allargati). Il risultato del confronto tra le due diverse tecniche di deposizione mostra che per basse potenze (fino a 5 MWmm2) non c’è differenza di assorbimento, mentre, al di sopra di esse, i film depositati in vuoto diventano trasparenti; si nota dallo spettro la nascita del picco di assorbimento del silicio, che non è presente per i DLC ottenuti in N. 13 Micro Raman Nell’UV si notano 3 picchi fondamentali: un picco G dovuto agli sp2, un basso picco D solo per fluenze ridotte e una larga banda T a 1100 cm-1 dovuta a sp3. TEM Si preparano quattro oggetti ricoperti con LCD per la visione al TEM in cui i parametri sono la potenza (0,25 MWmm2 e 10 MWmm2) e le condizioni ambientali (vuoto e N2). Si hanno così a disposizione alcuni campioni con rivestimento opaco e altri con quello trasparente. Il substrato è reso molto sottile per consentire il passaggio di elettroni. Si riporta una tabella con i risultati: analisi 0,25 MWmm2 10 MW mm2 Vacuum %sp3 40 81 DLC >>>> ta-C N2 %sp3 40 45 Il ruolo dell’azoto All’interno della piuma di plasma ci sono ioni C+ e C++ a 100 eV: a queste tensioni si stabilizza l’ibridazione sp3. Quando però, per motivi di svariata natura, la densità di energia degli ioni diminuisce, sul substrato si forma un DLC con al più il 40% di carboni tetraedrici. L’azoto presente nella camera di ionizzazione del gas costituisce un ostacolo al moto delle particelle e disperde la loro energia con differenti modalità: Effetto fisico = le particelle di N2 generano urti con gli ioni di carbonio. Effetto chimico-balistico = si creano legami C-N (scattering), i quali frenano ulteriormente gli ioni C+ (scattering). Effetto chimico = aumenta la concentrazione di sp2. He Per i depositi effettuati a 50 Pa in elio i risultati mostrano una buona adesione del DLC al substrato con alcune inclusioni di forma sferoidale (12,5 MWmm2). All’aumentare della fluenza, tali noduli globulari diventano di dimensione sempre più ridotta ed incrementano la loro sfericità fino a diventare, ad alte potenze, piccolissimi ed immersi in una matrice poco impaccata. In questo ultimo caso, l’adesione peggiora molto e il film diventa dendritico. Alla spettroscopia Raman si vede una banda G e una D che variano in funzione della pressione di deposito. A basse pressioni l’intera struttura è più ordinata rispetto alle alte pressioni, che, di contro, presentano una migliore organizzazione a livello del singolo cluster di materiale. A 30 Pa si hanno 5000 C/cluster, mentre a 2KPa si arriva a 500000 C/cluster. Al di sotto degli 0,6 Pa si generano invece DLC del tutto simili a quelli ottenuti in vuoto o in azoto. 14 L’importanza dei polimeri coniugati e la tecnica LB I polimeri coniugati La deposizione di film sottili polimerici è richiesta oggi in diversi campi applicativi, specialmente nell’elettronica, in cui si cercano materiali leggeri, miniaturizzabili e, naturalmente, buoni conduttori. Le strutture polimeriche che sembrano meglio rispondere a queste specifiche sono i polimeri coniugati (successione di sistemi con legami π) che associano alle loro caratteristiche elettriche buone qualità meccaniche (flessibilità) e ottiche (fluorescenza). Porre tali materiali su una superficie presenta alcune difficoltà aggiuntive rispetto a quelle dei più tradizionali metalli; tali problemi sono da attribuirsi alla disomogeneità intrinseca della natura polimerica ed al parziale grado di cristallizzazione delle molecole. Il polimero è infatti composto da catene di peso molecolare differente che, poste in soluzione, seguono una diversa cinetica di processo, formando così strati disomogenei. La sua struttura interna presenta inoltre parti cristalline e parti amorfe con proprietà fisiche molto diverse fra loro. I polimeri sono una successione di unità elementari (monomeri), le cui caratteristiche chimiche determinano le proprietà del materiale; come esempio “standard” si consideri il polietilene, che è costituito dalla successione di monomeri CH2-CH2 e che presenta alcune buone caratteristiche meccaniche, ma non elettriche. Altri materiali, come l’acetilene, hanno invece una buona capacità di conduzione, da attribuirsi agli orbitali π posti all’interno della catena CH=CH, che garantiscono agli elettroni la possibilità di movimento. Dal punto di vista della conducibilità, il butadiene si è dimostrato migliore dell’acetilene grazie al suo discreto grado di coniugazione, che presenta due doppi legami per ogni monomero. Se si assumesse come riferimento energetico una certa unità elementare β, si misurerebbe un valore pari a 2 β per l’acetilene (un doppio legame per monomero) e pari a 4,47 β per il butadiene (due doppi legami per monomero) con un guadagno netto di 0,47 β rispetto al valore logico atteso 4 β. Questo “valore aggiunto” è dovuto all’energia di risonanza pari a 3,5 Kcal/mole che contribuisce in maniera sostanziale ad un guadagno di conducibilità elettrica. Supponendo inoltre che gli elettroni degli orbitali π si possano trovare in due differenti stati energetici, in funzione del loro grado di eccitazione, esiste un certo valore di gap tra il livello a bassa energia (legame) e quello ad alta energia (antilegame). Questo “salto” è tanto più ristretto quanto più elevato è il grado di coniugazione (ovvero il numero e lo stato di ordine dei doppi legami posti in successione nel monomero); questo divario energetico conferisce proprietà ottiche differenti e, in particolare, con il diminuire del suo valore, l’assorbimento luminoso avviene nel campo del visibile. Le proprietà elettriche ed ottiche di un polimero dipendono anche dalla disposizione spaziale della catena e dal conseguente grado di coniugazione: se i gruppi contenti i legami π risultano distorti a causa dell’ingombro sterico, il polimero ha una ridotta coniugazione; se invece questi risultano planari, i valori della coniugazioni sono elevati. Durante l’iter di ricerca iniziata nei primi anni novanta, si è sperimentato un gran numero di varianti di polimeri coniugati, tra i quali i polialchiltiofeni (alcuni esperimenti sono riportati più avanti) e i polimeri con anelli carboniosi. Questi ultimi hanno presentato un grosso problema legato alla loro bassa entropia di solfatazione e quindi alla loro insolubilità. Prendendo in esame la formula dell’energia libera di Gibbs (ΔG = ΔH –TΔS), si nota che, affinché il valore di ΔG sia negativo a parità di ΔH (polimero solubile), ΔS deve necessariamente tendere ad un valore elevato. In termini pratici significa che è indispensabile ancorare delle catene di carbonio ibridato sp 3 (che consente delle rotazioni lungo gli assi di legame) alle rigide strutture cicliche, in modo da ottenere la solubilità necessaria per la deposizione del polimero su un substrato. Procedendo al drogaggio di questi materiali (cariche +), si genera un flusso di corrente in corrispondenza di un certo valore di potenziale. A causa dell’effetto redox, le proprietà elettriche acquisite vanno però a discapito di quelle meccaniche e chimico-fisiche. 15 Tecniche di deposizione Per deporre un film polimerico su di un substrato si può procedere in modi differenti, in relazione alle caratteristiche di superficie richieste dalle specifiche di progetto. Generalmente i parametri richiesti sono uniformità e caratteristiche chimiche atte a garantire una buona adesione con il materiale bulk. Esistono infatti catene in grado di interagire al meglio con il vetro (1); altre che garantiscono migliori proprietà elettriche (i grossi gruppi ciclici si dispongono molto vicini tra loro generando un “corridoio” per gli e- dei legami π) (2); infine i tiofeni, che si legano facilmente alle superfici in oro (3). Bisogna inoltre determinare il grado di cristallizzazione che si vuole ottenere e l’orientamento delle catene rispetto al substrato. S 3 2 1 S Si Cl S Cl Cl S Au l Un primo modo “grossolano” consiste nel pressare il polimero a caldo; si ottiene come risultato un film di spessore non inferiore ai 100-200 μm, ben lungi dai valori richiesti per le applicazioni nanotecnologiche. Un secondo metodo si identifica con la deposizione mediante l’evaporazione del solvente nel quale il polimero è stato precedentemente disciolto. Molto più utilizzato è il terzo procedimento, cioè il Langmuir-Blodget, che è oggetto di una descrizione maggiormente dettagliata rispetto ai primi due (come premessa vedi lez. 6). La strumentazione necessaria per seguire questa tecnica è: una vasca dotata di un meccanismo in grado di comprimere le soluzioni galleggianti verso una delle due pareti; due misuratori di pressione superficiale per la rilevazione della tensione dell’acqua pura e di quella contente la soluzione da depositare; un meccanismo capace di immergere il campione da ricoprire; un computer per il controllo di tutti i parametri in gioco; molecole con una testa polare (in acqua) e una coda apolare (in aria). Durante la compressione, il computer rileva le variazioni di pressione superficiale, calcolata come π=γ0-γ (dove γ0 e γ sono rispettivamente la tensione superficiale dell’acqua pura e di quella con la soluzione polimerica). Con i dati raccolti si costruisce un grafico che riporta in ordinata i valori di π (mN/m) ed in ascissa l’area sul numero di molecole (A/#mol). La curva che si ottiene presenta solitamente tre macro-zone: la prima giace nella parte destra del grafico ed evidenzia uno scarso incremento di pressione all’aumentare della compressione dovuto all’avvicinamento delle molecole fra loro senza ingombro sterico (gas); la seconda si trova nella parte centrale e sottolinea un discreto aumento di π da attribuirsi ad un primo livello di interazione intermolecolare (liquido); la terza è prossima all’asse delle ordinate e riporta un brusco innalzamento di pressione la cui causa è la formazione di un monostrato superficiale di molecole (condensato). Dal grafico (Fig. 7) si può estrapolare il dato riguardante l’area occupata da una singola molecola mediante il calcolo della retta tangente all’isoterma in un punto del tratto più a sinistra. Conoscere questo valore serve a capire la disposizione spaziale di una singola molecola all’interno della soluzione. 16 π Area a disposizione Molecole galleggianti Area/n Molecole Valore area per molecola Fig 7: grafico che rappresenta il variare della tensione superficiale in funzione della diminuzione dell’area a disposizione delle molecole galleggianti Una volta ottenuto un film di condensato sulla superficie dell’acqua nella vasca LB, si procede immergendo il campione da rivestire, che può essere idrofobo (vetro trattato) o idrofilo (vetro normale). Nel primo caso, non appena il campione viene immerso in acqua, la parte idrofoba delle molecole galleggianti si deposita sul vetro; all’uscita dall’acqua invece la parte idrofila (2° strato) viene attratta dalla testa polare del primo strato. Nel secondo caso, se nel momento dell’immersione non si verifica adesione, all’uscita è la parte idrofila ad essere raccolta dal vetro; si necessita quindi di un ulteriore ciclo per formare l’eventuale secondo strato. Per visualizzare meglio la struttura del coating superficiale mediante RX si possono utilizzare dei sali di cadmio in combinazione con gli acidi grassi. Alcuni tentativi di deposizione con LB hanno impiegato come molecola base un polialchiltiofene (conducibilità: 1-100 S/Cm; estesa coniugazione; assorbimento: 450 nm). Si è usato in particolare un poli deciltiofene in combinazione con un acido grasso, atto a garantire una maggiore stabilità al composto di per sé apolare; il risultato è stato insoddisfacente a causa della formazione di domini superficiali disomogenei. Un’altra prova è stata condotta con il poliesiltiofene legato a catene polari contenenti ossigeno e ancorate alla struttura pentaciclica di base; si è ottenuta una superficie sufficientemente omogenea con i gruppi più grossi stesi parallelamente a pelo d’acqua nella vasca LB e vincolati ad esso mediante le protrusioni di carbonio e ossigeno (la posizione è stata dedotta dal dato sull’area per molecola pari a 15,3 A/mol). Per determinare l’orientamento delle molecole deposte su di un substrato, si usa irradiare il campione con una luce polarizzata registrandone l’assorbimento. Se il moto di inserimento del campione nella vasca è sufficiente a direzionare il coating, si verifica un elevato assorbimento quando la luce vibra in un piano parallelo alla direzione delle catene polimeriche; risulta invece molto debole nel caso di incidenza parallela. Si può calcolare il livello di ordine ottenuto nel rivestimento attraverso il rapporto dicroico, ovvero il confronto tra le assorbanze; maggiore è questo numero, migliore è la distribuzione. La quarta tecnica si basa sulla deposizione mediante la semplice evaporazione di solvente, seguita da una fase di strofinamento meccanico per orientare le catene. In questo modo si possono ottenere dei LED che sfruttano le caratteristiche di elettroluminescenza del politrealchiltiofene, che viene depositato tra due elettrodi rispettivamente di ITO (trasparente) e di alluminio (ottenuto per evaporazione) su una struttura di plastica o vetro. Si possono anche utilizzare politrealchiltiofene e PPV in combinazione, che emettono a lunghezze d’onda diverse rispettivamente nel rosso e nel giallo. Applicando determinati valori di potenziale ai capi degli elettrodi si può ottenere un’emissione luminosa. Si pensa in futuro di ottenere degli schermi per PC a base di LED polimerici che conferirebbero la straordinaria caratteristica di pieghevolezza. Ad oggi si è già provato a costruire un reticolo di LED polimerici che potrebbe fungere da display (Fig 8), ma la vita media dei dispositivi ottenuti è di 6000 ore a fronte di una richiesta industriale di almeno 20000. 17 alluminio politrealchiltiofene ITO morsetti vetro Fig 8: funzionamento di un LED polimerico + Luce emessa 18 Nanotubi La matematica dei nanotubi I nanotubi sono strutture cilindriche cave di diametro nanometrico (il record è 0,45nm) e di altezza micrometrica; l’aspect ratio risulta così molto ampio. Oltre alla tradizionale grafite e al comune diamante, i nanotubi e i fullereni (forme sferiche di carbonio che non sono oggetto di trattazione) possono essere considerati delle vere e proprie forme allotropiche del carbonio; questi oggetti possiedono numerose caratteristiche chimiche, elettriche, fisiche e meccaniche che li rendono particolarmente interessanti in vista di numerose possibili applicazioni in diversi campi dell’ingegneria. La storia dei nanotubi nasce nel 1991 quando Iijima creò il primo MWCN (multi wall carbon nanotube) grazie all’utilizzo di particolari catalizzatori che consentivano di generare cilindri concentrici. Oggi la ricerca si è spostata invece sui tubi a singola parete con un elevato grado di purezza, ottenibili grazie al lavaggio con acido nitrico (le dosi devono essere tali da distruggere solo le parti amorfe contaminanti). Per poter illustrare al meglio la natura dei nanotubi è utile richiamare le nozioni di chimica che stanno alla base dei tradizionali legami del carbonio. La sua ibridazione è 1s2 2s2 2p2; dove il livello p può essere scomposto in px, py e pz. Nel caso del diamante l’orbitale 2s e i tre orbitali 2p (2p scomposto nelle tre direzioni) concorrono a formare quattro legami equivalenti con altrettanti atomi di carbonio, disposti secondo una geometria tetragonale (129°28’). Nella grafite il bond tra due atomi di carbonio è planare e viene garantito da una compartecipazione degli orbitali 2s, 2px e 2py a formare il legame σ, che si stabilizza grazie al legame π generato dall’interazioni tra gli orbitali 2pz; la struttura si completa mediante le forze di Van der Walls con la sovrapposizione ordinata dei fogli di carbonio disposti a nido d’ape (ogni atomo di C è posto al centro dell’esagono sottostante, oppure sovrapposto ad uno dei suoi vertici). I nanotubi nascono dalla modificazione di fogli di grafite, che, sottoposti a rigide condizioni ambientali, si ripiegano su se stessi seguendo precise regole matematiche. Per determinare il tipo di nanotubo da ottenere, bisogna dapprima stabilire quale sia la cella elementare di riferimento (Fig 9). In riferimento all’immagine, si consideri una struttura a sette esagoni e si assuma come unità base il singolo poligono (nero); in questo caso ogni cella elementare ha 2 atomi (numero di atomi totali/numeri di atomi condivisi; 6:3=2). Pur mantenendo la coerenza strutturale (2 atomi per unità), si può assumere come forma fondamentale il rombo evidenziato con il rosso. Semplicemente per traslazione dal quadrilatero rosso si ottiene la struttura disegnata in blu, che rappresenta l’elemento di riferimento della trattazione successiva. a1 a2 Fig 9: disegno schematico per l’ottenimento della cella elementare di riferimento Nella figura 10, sono disegnati due vettori (a1 e a2), precedentemente ottenuti dalla definizione della cella elementare blu (vettori verdi). In relazione al tipo di nanotubo che si intende ottenere (la classificazione è riportata più avanti) si calcola il vettore Ch come combinazione linerare dei vettori a1 e a2; a titolo di esempio poniamo Ch=4a1+2a2. Il vettore T si determina invece procedendo in 19 direzione perpendicolare a Ch, partendo dal punto O e giungendo al primo atomo di carbonio equivalente a quello posto nell’origine (punto B). Il rettangolo di lati T e Ch costituisce l’unità di riferimento, che, ripiegata su se stessa e traslata assialmente n volte, forma il nanotubo. In generale si ha Ch = na1 + ma2; in funzione dei parametri n ed m, i nanotubi si possono classificare come: armchair (n=m): presentano una struttura a “poltrona” lungo la circonferenza e a “zig-zag” sull’asse; zig-zag (m=0): mostrano il “zig-zag” sulla circonferenza e la forma a “poltrona” lungo l’asse; chirali (n≠m): la struttura a zig-zag si arrotola a spirale lungo l’asse. Fig 10: schema delle operazioni geometriche perl’ottenimento della struttura elementare di un nanotubo La conformazione “a tubo” della grafite costituisce una forzatura della sua naturale struttura, in quanto viene compromessa la planarità dei suoi legami; l’energia persa durante questa distorsione viene riacquistata mediante l’unione dei radicali liberi giacenti sugli estremi della cella elementare. Queste strutture possiedono rilevanti e promettenti proprietà elettriche che derivano dalla formazione di una banda di valenza da parte degli elettroni Pz (π, 2 e-) e dalla presenza di una banda di conduzione (π*,vuota). Da questo punto di vista la grafite risulta quindi una combinazione di bande continue e livelli discreti; in funzione dell’impostazione data alla cella elementare del nanotubo può esistere o meno un gap energetico tra π e π*, e, di conseguenza, questi materiali possono essere conduttori (chirali, senza gap) o semiconduttori (zig-zag, con gap). In generale se n-m= 3j (j Є N), il nanotubo ha un comportamento metallico. 20 Esistono mappe che riportano il disegno della grafite (come quello precedente) e segnalano per ogni carbonio se il materiale potenzialmente ottenibile dalla “piegatura” in corrispondenza di quel preciso atomo genera una unità elementare adatta a costituire un materiale metallico o uno semiconduttore. Come ricordato nell’introduzione, i nanotubi crescono spesso in maniera concentrica ed è possibile gestire a priori questo fenomeno mediante il calcolo dei parametri m ed n (di seguito si riporta un esempio di calcolo). Dati: legame C-C=1,44 Å distanza interplanare tra fogli di grafite, rcc=3,4 Å Considerando due cilindri concentrici si deve imporre: De-Di=6.8 Å Si consideri un armchair (n,n) come riferimento strutturale per ciascuno dei due cilindri, che assumeranno apici “e” ed “i” per indicare “esterno” ed “interno”. Lo scopo del calcolo è trovare quanto vale: ne-ni=? in modo tale da poter definire le dimensioni relative delle celle elementari. Il diametro D, interno ed esterno, si calcola come segue: D= ׀Ch׀/π=׀na1+na2 ׀/π dove ׀Ch( =׀Ch*Ch)½ =n2׀a1׀׀a1׀+n2׀a2׀׀a2׀+2n׀a1׀׀a2׀ a1 e a2 formano tra essi un angolo di 60°, per cui si ricava dalla trigonometria: |Ch|2= ½ 2 n2|a|2 + 2n2|a|2 =n2|a|2+2n2|a|2 avendo considerato “׀a ”׀come modulo sia di ׀a1 ׀sia di ׀a2׀. Il valore del modulo “׀a ”׀è legato alla lunghezza rcc da considerazioni goniometriche (vedi figura grafite): ׀a√=׀3 rcc Si ottiene quindi: ׀Ch√=׀3 n׀a=׀3 rcc n Per il valore dei diametri si ha: De=3 rcc ne/π Di=3 rcc ni/π → 3rcc/π(ne-ni)=6,8 Å → (ne-ni)=4,95 CVD e applicazioni La crescita dei nanotubi avviene in un reattore in cui è presente un idrocarburo e un substrato metallico con molecole catalizzatrici precedentemente impiantate su di esso (Fig. 11). Viene iniettato del gas (spesso acetilene) che decompone l’idrocarburo in atomi di carbonio, che si vanno a depositare sul substrato metallico in corrispondenza dei catalizzatori. Se il legame catalizzatorebulk è forte, il nanotubo cresce con una estremità libera, in caso contrario lo stesso agente catalitico funge da tappo. 21 Tappo di catalizzatore (Legame debole) Estremità libera Nanotubo Substrato Catalizzatore alla base (Legame forte) Processo di pulizia chimica Emisfera artificiale Aggiunta del fullerene Emisfera sorta naturalmente Fig 11: modalità di ottenimento di nanotubi; vari tipi di “chiusure” ingrandimento Si è più precisamente osservato che la parte estrema del nanotubo, quella diametralmente opposta al substrato sul quale cresce, può spontaneamente risultare aperta o libera (più probabile) anche senza che vi sia la chiusura da parte dell’agente accelerante. A seconda delle diverse applicazioni tecnologiche, questa parte è comunque modificabile a posteriori o attraverso la rimozione del “tappo” per via chimica oppure mediante la sua aggiunta grazie alla fusione con un emisfera di un fullerene. Agendo sulla disposizione del catalizzatore si possono ottenere le più svariate composizioni di nanotubi: a recinto quadrato, a stella o, addirittura, disposti “a filo” tra due μpiloni di silicio. I possibili impieghi di questi nano-oggetti riguardano il campo dell’elettronica, poiché sono degli “electron-emissioner” e possono costituire un LCD che lavora a bassissimo voltaggio. Si sono dimostrati utili come resistenti ed elastiche punte per l’AFM, oppure come sensori per gas grazie alla loro capacità di cambiare la conducibilità al variare della concentrazione di molecole volatali assorbite. In meccanica trovano impiego come fibre di rinforzo e come possibili serbatoi per idrogeno (questo campo è già stato abbandonato). In bioingegneria possono costituire dei biosensori grazie alle loro estremità funzionalizzabili e nano-muscoli, dal momento che attraverso il drogaggio elettronico si genera un riassestamento strutturale, ossia si crea un movimento. La risposta alla spettroscopia raman di un nanotubo consiste di tre picchi: due ad alta frequenza tipici della grafite (D e G) e uno a bassa frequenza relativo al modo di respiro, che è funzione del diametro. 22 SERS (surface enhanced raman scattering) La spettroscopia Raman tradizionale La spettroscopia Raman è una tecnica di indagine superficiale che si basa sul principio di eccitazione dei livelli energetici della materia. Sul campione da analizzare si invia un raggio laser di frequenza ν e si registrano le ri-emissioni di fotoni da parte della superficie colpita; i picchi rilevati sono l’anti-stokes (hν’>hν), lo stokes (hν’<hν) e il Rayleigh (hν’=hν). Per poter comprendere l’effetto di ri-emissione fotonica bisogna supporre che due atomi legati fra loro siano assimilabili a due palline unite da una molla; quando queste vengono stimolate da forze esterne al sistema cominciano a vibrare ad una frequenza pari a (legge di Hooke): dove μ rappresenta la massa ridotta delle due particelle e vale Da questa formula si può notare che nel caso in cui si verifichi un aumento di K (dato da un rafforzamento dei legami) o una diminuzione di μ diminuisce (dato da atomi che presentano una massa piccola), l’assorbimento Raman avviene ad una frequenza superiore. In regime di meccanica classica tale oscillazione segue una tradizionale funzione di potenziale che presenta un punto di minimo (equilibrio) ed infiniti punti continui in cui il sistema può trovarsi in qualsiasi tempo t durante la vibrazione (V= ½ k r2). Secondo la meccanica quantistica la medesima funzione di potenziale è invece divisibile in livelli discreti secondo la formula e=hν(n + ½) e il sistema può giacere solo all’interno di questi. Le emissioni Raman interessano l’ambito della fisica quantistica; le linee di stokes, anti-stokes e Rayleigh dipendono solo dai salti energetici quantizzati degli elettroni stimolati. Supponendo di analizzare il comportamento di un elettrone allo stato fondamentale g=0, si può verificare una situazione nella quale esso si trovi inizialmente sul livello vibrazionale v=0, salti sul livello virtuale m e ricada, in ultimo, sul livello v=1 (stokes); nello stesso modo può accadere che da v=1, l’elettrone balzi allo stato virtuale m’ e decada poi su v=0 (anti-stokes); infine, sempre da v=0, l’elettrone può salire allo stato m e ricadere su v=0 (Rayleigh). Il segnale più marcato e netto è quello di Rayleigh, tuttavia sono i picchi di stokes e antistokes che forniscono il maggior numero di informazioni utili ai fini dell’indagine. La loro intensità dipende dalla probabilità di Boltzman di trovare un elettrone su un livello v=1 (più eccitato) e su v=0 (meno eccitato); da ciò si ottiene che il rapporto fra le due popolazioni elettroniche è pari a: N ( v 1) exp ( E / KT ) N ( v 0 ) dove K è la costante di Boltzmann e T è la temperatura di esercizio. Il segnale di anti-stokes risulta così meno intenso rispetto a quello di stokes. Il numero di picchi della spettroscopia Raman è pari al numero di modi vibrazionali della molecola considerata (3n-6 in generale o 3n-5 per molecole lineari, dove n è il numero di atomi legati fra di loro). Esistono alcune varianti della spettroscopia Raman come, ad esempio, la Raman risonante, in cui il fascio laser eccita gli elettroni fino a portarli ad un livello g=1 con emissioni più marcate, e la fluerescienza, in cui i gap energetici non coinvolgono i livelli virtuali m, ma solamente il salto tra g=0 e g=1 e i gap tra i vari sottolivelli vibrazionali v. 23 La tecnica SERS La rivoluzione nella spettroscopia arriva con il metodo SERS, una tecnica attraverso la quale si amplifica il segnale Raman delle molecole adsorbite in prossimità di nanoparticelle o di superfici metalliche opportunamente rese rugose. L’intensificazione è di due nature differenti: elettromagnetica e chimica. Nel primo caso si ha un accoppiamento tra il campo elettromagnetico dell’onda incidente e le oscillazioni collettive degli elettroni alla superficie del metallo (chiamate plasmoni di superficie). Ipotizzando di avere a disposizione solo delle nanoparticelle metalliche, accade che l’eccitazione degli elettroni avvenga solo sulla loro superficie; il picco di risonanza di questa eccitazione è proporzionale alla forma, alla dimensione, al tipo di metallo utilizzato e al mezzo che circonda le nanoparticelle. Per poter studiare questo complesso fenomeno di amplificazione sono stati sviluppati dei modelli matematici riferiti dapprima all’interazione di due o più atomi fino a interessare in seguito anche strutture complesse. Supponendo di avere una particella metallica eccitata da un fascio laser, si ottiene un dipolo elettrico fluttuante sulla sua superficie. In un punto P posto a distanza d dalla nanoparticella di raggio r si avvertirà un campo elettrico che dipende sia dal fascio stimolante, sia dal dipolo fluttuante: Em=E0+Esp Sapendo che la particella ha una costante dielettrica complessa ε=ε’+iε’’, mentre l’intorno ha costante ε0 e il rapporto r/λ vale 0,05, si ottiene: 0 1 ESP r 3 E0 2 0 r d 3 Considerando che E0 è trascurabile rispetto a Esp, il fattore di intensificazione elettromagnetico risulta pari a: del campo 3 Em Esp 0 r A E0 E0 2 0 r d Per definizione si ha che il fattore di amplificazione dell’intensità è: 0 r G A 2 0 r d Dal momento in cui si ha un’intensificazione del campo elettromagnetico, i segnali stokes e antistokes subiscono la medesima sorte nel caso in cui le loro frequenze siano in risonanza con quelle del plasmone. Il fattore di intensificazione globale considera quindi sia la frequenza della linea eccitatrice sia quella della linea stokes: 2 6 2 Gem s A L L 0 ( s ) 0 r GAems s L 2 0 s 2 0 r d 2 2 12 2 Il tradizionale segnale Raman P= N nlaser σ (dove N è il numero delle molecole colpite, n è il numero di fotoni per unità di tempo e di area, mentre σ è la sezione) risulta ovviamente modificato dalla presenza delle particelle metalliche e diventa così: abs PSERS N ' nLaser Raman A( 0 ) A( s ) 2 2 Nel caso di interferenza chimica si verifica un charge transfer tra la molecola e il metallo, ottenendo la formazione di un gap energetico tra il livello di Fermi del metallo e quello del charge transfer che risulta superiore al tradizionale “salto” tra HOMO e LUMO della singola molecola. Sarà quindi 24 possibile stabilire le condizioni di risonanza tra la radiazione incidente e il nuovo gap elettronico, che genera un notevole aumento di intensità rispetto ai valori Raman tradizionali; tale aumento è di 10-100 volte inferiore a quello prodotto per via elettromagnetica. L’effetto di intensificazione del segnale Raman di entrambi i contributi (elettro-magnetico IC e chimico IE) è pari a: eff . R A L A s R ads IC I E free Rfree 2 I TOT 2 Ic R ads Rfree I E A L A s 2 2 dove σads tiene già conto dell’effetto chimico (dato che rappresenta la sezione con le molecole adsorbite), mentre σeff corrisponde alla sezione effettiva. Preparazione e analisi delle superfici metalliche Per dar vita all’effetto SERS è necessario disporre di nanoparticelle metalliche che, una volta poste a contatto con le molecole da analizzare, generino l’amplificazione Raman. Solitamente si impiegano le seguenti tecniche: colloidi di argento o di oro “silver mirror reaction” etching argentatura mediante esanoato di argento. Come metodi di analisi si usa l’AFM, il TEM e la spettroscopia ad assorbimento UV-VIS-NIR. Per creare le nanoparticelle metalliche si può procedere con il metodo top-down oppure con quello bottom-up. Nel primo caso si parte dal metallo di base e lo si riduce ad un “quantum well” (struttura con una sola dimensione nanometrica), poi si procede fino a creare un “quantum wire” (elemento con due dimensioni nanometriche) e si conclude generando un “quantum dot” (particelle con tre dimensioni nanometriche). Nel secondo caso si inizia invece dagli atomi e si costruisce la nanoparticella metallica tramite aggregazione; per la facilità tecnica di produzione dei nano-metalli, si preferisce normalmente seguire questa seconda via. Si utilizzano in particolare i metodi chimici di sintesi in soluzione (acqua o solventi organici) che prevedono la riduzione di atomi metallici positivi, presenti sottoforma di ioni o di complessi. Per tale processo possono essere utilizzati diversi solventi in funzione della natura del sale o del complesso metallico utilizzato, dell'agente riducente e delle eventuali molecole protettive da impiegare. Quest’ultime vengono aggiunte alla soluzione per evitare che le nanoparticelle tendano ad aggregarsi ed a precipitare rispettivamente con l'aumentare della concentrazione e con la diminuzione della polarità del solvente. A questo scopo si utilizzano diversi tipi di molecole che, legandosi alla superficie del metallo, lo stabilizzano e lo rendono eventualmente compatibile con solventi apolari. In generale, il processo di accrescimento segue cinetiche differenti in funzione dei reagenti. Il numero di particelle prodotte dalla reazione in un istante t generico (Nt) segue la formula: N t N 1 e kt dove Nt è il numero di particelle prodotte al tempo t, N∞ è il numero di particelle totali che si ottiene alla fine della reazione e k è una costante cinetica del primo ordine calcolata come segue: E ln k ln A a , dove A è una costante. RT Si possono così avere due tipi di reazione: Nucleazione istantanea, quando k è grande e Nt=N∞ 25 Nucleazione progressiva, dove k è piccolo e Nt = k t N∞ Un primo esempio di questo processo è l’accrescimento di nanoparticelle d’argento attraverso l’uso di trisodio citrato o di boroidrato in acqua. Il catione argento si riduce ad Ag0, mentre il citrato (o il boroidrato) si ossida, formando un primo complesso atomico di metallo, il quale cresce successivamente fino a raggiungere dimensioni nanometriche. Esaminando il composto si nota che la dimensione media delle particelle è di 35 nm nel caso del citrato mentre è di 7 nm nel caso del boroidrato, con assorbimento luminoso rispettivamente a 420 nm e 390 nm. La nucleazione è progressiva (k=173kJ/mol). Si esegue lo stesso procedimento con un tetrafluoruro aurato (AuCl4-), usato come fonte per il metallo, e con il citrato, come agente riducente. In questo modo si ottengono nanoparticelle d’oro di diametro medio di 20 nm e con assorbimento luminoso nel campo del rosso a 520 nm. La nuclezione è istantanea (k=31,4 kJ/mol). Una variante al processo è costituita dall’uso di toluene come solvente organico aggiunto all’acqua. Molto importante è la fase di trasferimento degli ioni AuCl4- dalla fase acquosa alla fase organica (toluene), resa possibile dalla presenza del trasferitore di fase tetraoctyl ammonium bromide e della agitazione meccanica che massimizza la superficie di contatto tra fase acquosa e fase organica. Una volta che gli ioni tetracloroaurici sono trasferiti in fase organica, si aggiunge del sodio boroidrato, che è l’agente riducente. La reazione avviene all’interfaccia tra la fase organica, dove sono presenti gli ioni AuCl4-, e la fase acquosa, dove è presente il sodio boroidrato. Per questo motivo i due liquidi devono essere accuratamente miscelati durante la riduzione. Altre reazioni per l’ottenimento di questi composti sono: l’etching di fogli di argento mediante HNO3 l’argentatura tramite esanoato (o decanoato) d’argento la “silver mirror reaction”. Le varianti e i miglioramenti apportabili a questa tecnica sono molteplici; si possono, ad esempio, aggiungere alle nanoparticelle metalliche alcuni agenti stabilizzanti costituiti da alchil-tiofeni, oppure si possono costruire composti con due metalli omogeneamente miscelati o con fasi separate. Le nanoparticelle ottenute costituiscono la chiave di funzionamento dell’amplificazione SERS. È da tener presente che l’effetto di eccitazione del plasmone di superficie avviene solo a precise lunghezze d’onda; in generale si ha che: K xplasmone K xfotone K dove l’ultimo termine K vale 2π/a e dipende dalla spaziatura della rugosità di superficie. Non essendo questo termine costante, accade che l’eccitazione del plasmone possa avvenire in un range di lunghezze d’onda. Naturalmente, in sede di analisi al Raman, la frequenza eccitatrice, ovvero la lunghezza d’onda emessa dal laser, è dato imposto dalla strumentazione stessa; per questo motivo, al fine di ottenere l’effetto “plasmone”, si deve avere a disposizione un materiale metallico in grado di stimolarsi nel range di frequenza laser a disposizione. Per fare ciò, si variano le condizioni di pH, di temperatura, di tempo di reazione e di presenza di NaCl nella soluzione di partenza, in modo da ottenere nanoparticelle con il picco d’assorbimento desiderato (Fig. 12). 26 0 ,85 0 ,80 0 ,75 0 ,70 0 ,65 0 ,60 Absorbance 0 ,55 0 ,50 0 ,45 0 ,40 0 ,35 0 ,30 0 ,25 0 ,20 Fig 12: variazione delle caratteristiche di assorbimento avariare delle condizioni di pH e T 0 ,15 0 ,10 0 ,05 4 00 6 00 8 00 W ave leng th (nm ) Per verificare l’effetto SERS si procede in due differenti modi: utilizzando una molecola come riferimento interno alla soluzione o avvalendosi della valutazione del rapporto stokes vs. antistokes. Nel primo caso si pongono in soluzione le molecole da analizzare, le nanoparticelle metalliche e un composto SERS inattivo (metanolo), che viene usato come riferimento. Si confrontano i picchi del composto inattivo con quelli della nanoparcella amplificati con effetto SERS e si calcola il fattore di intensificazione. Dal momento che, ad alte concentrazioni, non tutte le molecole da analizzare sono legate in un sito attivo dei nano-metalli, si ottiene una stima per difetto dell’amplificazione. Nel secondo caso si calcola l’area di impatto SERS sapendo che: dove il rapporto del segnale Pas (anti-stokess) su Ps (stokes) dipende da una componente SERS (τ1 è il tempo di vita medio del livello vibrazionale 1) e da una termica. Nel caso in cui i parametri siano controllati con molta accuratezza, la misurazione fornisce la sezione d’urto SERS che vale: h PasSERS KT e SERS P SERS s 1 nL Nel caso in cui i parametri siano invece imprecisi si potrebbero verificare aberrazioni di origine termica o matematico-statistica (approssimazioni). Questa tecnica fornisce un utile strumento per ottenere amplificazioni di spettro Raman pari a 109 e fino a 1014 volte rispetto al valore tradizionale, grazie anche all’effetto di abbattimento del segnale di fluorescenza. Oggigiorno si utilizzano sistemi a fibra ottica che garantiscono la possibilità di posizionare il sensore anche in luoghi di difficile accesso (anche a centinaia di metri dallo spettrometro e dal sistema di acquisizione dati); si possono cosi ottenere, in tempo reale, analisi ad elevata sensibilità di una o più sostanze contemporaneamente. Lo strumento è costituito da una fibra ottica sulla cui estremità è posto il rivestimento di nanoparticelle d’argento che, una volta messe a contatto con il target da rilevare, amplificano il segnale. Il capo di tale fibra viene trattato in diversi modi attraverso etching chimico, ottenendo generalmente una forma acuminata con diverso angolo di inclinazione; al segnale che si ottiene viene sottratta automaticamente la curva relativa all’input appartenente alla fibra. A basse concentrazioni ( <10-10 M ) si può considerare che nel volume di scattering (decine di pl) sia presente al massimo una molecola SERS attiva. In questo modo si adottano diverse metodologie per ottenere un SERS a singola molecola che garantisca un fattore di amplificazione pari a 1014 e, mediante delle nanopunte, si valutano gli spettri Raman amplificati di singole molecole poste al di sotto di esse. 27 Il confinamento degli elettroni: il poliacetilene Come è già stato più volte citato, uno dei metodi più efficaci per ottenere un nanomateriale è il “confinamento degli elettroni”, che modifica le proprietà chimico-fisiche dell’oggetto di partenza. Prendendo ad esempio l’acetilene e la grafite, si possono studiare la presenza e la dimensione di zone a maggiore concentrazione di carica in strutture rispettivamente mono e bidimensionali; il caso 3D di materiali a base di carbonio non è invece contemplato perchè nel diamante non vi sono i legami π necessari per il confinamento. Nel caso dell’acetilene, si ha una catena polimerica costituita da carboni che si susseguono alternando un legame doppio (π) ad uno singolo (σ). Già negli anni ’60 Natta prevedette la possibilità di rendere conduttore questo polimero, sebbene, al suo stato naturale, presentasse le caratteristiche di un isolante; bisognò però attendere il 1975 per vedere realizzato l’obiettivo. Il grande passo fu compiuto in Giappone dove si drogò il poliacetilene con dello iodio e si ottennero valori di conduzione pari a quelli del rame. In effetti, il grado di coniugazione degli atomi di carbonio in questo materiale si discosta leggermente dal valore tipico di 2 per il doppio legame e di 1 per quello singolo, attestandosi rispettivamente su 1,8 e 1,2 (a conferma di una delocalizzazione non completa). Qui di seguito si riporta un grafico (Fig 13) che evidenzia l’effetto del drogaggio sulla proprietà di conduzione del poliacetilene di base (pristino). Log σ [S/cm] 5 4 3 2 1 0 -1 -2 -3 -4 -5 -6 -7 -8 -9 -11 -11 -12 conduttore semiconduttore isolante 1 2 3 4 5 6 7 6 8 9 10 11 12 % drogaggio Fig 13: proprietà di conduzione in funzione del drogaggio Una delle caratteristiche più importanti della conduzione elettrica all’interno di un polimero, come l’acetilene, è la forte anisotropia, vale a dire la non omogeneità di propagazione delle cariche nelle diverse direzioni del materiale; in particolare si ha massima conducibilità lungo le fibre (quindi lungo la catena polimerica), mentre si ottiene un isolamento lungo la sezione radiale del medesimo filamento. In termini pratici ciò implica la possibilità di toccare il filo conduttore senza il rischio di essere fulminati. La chiave della conduzione di un polimero risiede nella tecnica del drogaggio, ovvero l’aggiunta (P D+) o la depauperazione (P+A-) di un elettrone lungo la catena. Considerando il caso della formazione di una hole (che si crea in 10-15 sec dall’inserimento dell’accettore), questa è avvertita dagli atomi vicini e si sposta lungo la catena; si crea così un flusso di corrente. 28 La struttura del poliacetilene è molto diversa da quella di un metallo; la si può pensare teoricamente in due forme equivalenti, con opposta disposizione dei doppi legami. Considerando una funzione U pari alla differenza della distanza C-C tra il doppio (1,30 A) ed il singolo legame (1,54 A), tanto più U tende a 0, tanto meglio la struttura del polimero approssima quella di un metallo (teoria di Peiers) (Fig. 14). Tracciando il grafico di U per il poliacetilene, si nota che per U=0 il valore di energia non è minimo: ciò implica che la struttura polimerica che più si avvicina al metallo non è stabile; serve quindi la presenza di una hole per generare uno switch strutturale che permetta il passaggio di elettroni. In realtà il punto U=0 risulta instabile semplicemente perché gli elettroni vibrano e si spostano dal potenziale stato di equilibrio. E Forme equivalenti del poliacetilene Punto con U=0; l’energia non è minima A B Minimi corrispondenti A B u Fig 14: rappresentazione delle caratteristiche energetiche appartenenti alle due differenti forme del poliacetilene; teoria di Peiers Lungo la catena polimerica si possono avere radicali liberi (solitoni, la cui durata è calcolata nell’ordine dei ps) dei quali si può avvertirne il campo magnetico. Alcuni anni fa si pensava che il segno della presenza di un radicale fosse una banda IR, ma le prove fornite smentirono questa teoria e relegarono il concetto di solitone alla pura modellistica. Il drogaggio avviene affiancando al radicale libero un accettare o un donatore; nel primo caso si forma una hole ed il catione prende il nome di polarone, mentre nel secondo caso si aggiunge un elettrone formando un polarone-. Allo stesso modo si può procedere strappando o aggiungendo due elettroni, creando dicationi (o bipolaroni) o dianioni (bipolaroni-). Si è osservato che, creando due radicali liberi adiacenti, questi decadono in una struttura stabile e conduttrice in un tempo t=10-15 sec. Un grosso problema da risolvere a livello teorico, fu capire come una carica + (spin =0) o una carica – affiancata ad un donatore (spin=1/2-1/2=0) potesse comunque condurre energia comportandosi come un metallo (spin=1/2). Questa particolare condizione fisica è nota come “spinless charge particle”. In realtà, la caratteristica dei polimeri conduttori risiede nel loro gap energetico (fenomeni di assorbimento e remissione), ovvero il salto esistente tra l’HOMO e il LUMO. Allungando la catene polimerica, aumenta il numero di elettroni π e quindi il numero di livelli energetici; come conseguenza si ottiene una riduzione del gap e quindi una variazione di lunghezza d’onda assorbita e riemessa (si possono variare i colori dei pixel). In linea teorica si potrebbe pensare di allungare la catena fino a far scomparire il gap trasformando (a livello elettrico) il polimero in un vero e proprio metallo; tuttavia i tentativi condotti in tal senso hanno dimostrato che esiste un limite di gap invalicabile pari a 1,4 eV. Le differenze tra un metallo ed un polimero conduttore non si limitano però solo al valore di gap: il primo aumenta la sua conducibilità e le sue proprietà magnetiche quando è scaldato, mentre il secondo ha reazioni opposte. 29 Il drogaggio può avvenire con tecniche differenti: per via chimica, per via elettrochimica e per mezzo di fotoni; le ultime due metodologie sono quelle che vengono maggiormente impiegate nel campo tecnologico. E’infatti possibile attivare elettricamente un polimero coniugato grazie ad un bombardamento fotonico (Trise=150 fs); viceversa, grazie all’applicazioni di un campo elettrico ai due stremi di un polimero conduttore, si è in grado di provocare un fenomeno di emissione luminosa dovuto al decadimento di un elettrone eccitato. L’emissione può essere immediata (l’elettrone decade subito dall’HUMO al HOMO), oppure lenta (dopo il pompaggio, l’elettrone decade velocemente sul tripletto e, molto lentamente, ritorna sul sigoletto di partenza); può infine accadere che ci siano due salti energetici consecutivi mediati dal passaggio sul tripletto. Un esempio di un’applicazione tecnologica per questi materiali è rappresentato dalla possibilità di costruire “vetrate” per gli edifici che, in funzione della stagione, si regolano in modo tale da costituire un cutoff per le lunghezze d’onda del calore e per quelle del sole; si ottiene così il massimo risparmio energetico sia in inverno sia in estate. Altre possibili impieghi di questi materiali sono: Gli attuatori: si incollano tra loro due lamine polimeriche, di cui solo una conduttrice; drogando e sdrogando il materiale mediante applicazione della corrente, si ottiene la flessione delle lamine polimeriche; si può quindi sfruttare tale movimento per la costruzione di nastri trasportatori (IBM). Le pile: purtroppo questo obiettivo sembra irraggiungibile a causa dell’instabilità dei materiali e dell’elevato costo per creare e mantenere le condizioni di vuoto intorno al polimero. Gli OLED: si possono ottenere organic light emission diodes in grado di emettere luce solo a contatto con diverse sostanze; vengono attualmente impiegati come nasi artificiali per testare i vini, oppure il contenuto di ammoniaca negli imballaggi di polistirolo. Si prevede un loro impiego come tester per temperatura o particolari analiti di carattere biologico. I video: si sfruttano le loro caratteristiche elettrocromiche e la possibilità di variare il gap elettronico per costruire dei pixel. Si può pensare di costruire dei fogli di plastica che ricevano informazioni da internet e consentano la lettura del giornale, con la possibilità di far scorrere le pagine. L’elettronica: rappresentano dei concorrenti sempre più utili dei chip in silicio. Sono attualmente impiegati in chip dotati di microtrasmettitore a basso numero di transistor, che vengono applicati (è un quadratino di plastica di qualche cm) sui prodotti del supermercato al posto del codice a barre; negli USA alcuni grossi supermarket si avvalgono semplicemente di un ricevitore che, in maniera molto rapida, esegue il conto dei prodotti in uscita ed inoltra l’addebito direttamente sulla carta di credito dell’acquirente. Si può pensare anche a chip per evitare la produzione di soldi falsi, carte di identità, memorie elettroniche sempre più piccole. E’ da notare che il costo di questi chip risulta però inferiore a quelli tradizionali fino a supporti contenenti 104 transistor. Telefonia: la deviazioni delle informazioni provenienti da un capo di un filo ed indirizzate verso un altro estremo è avvenuta, nel passato, grazie a mezzi elettromeccanici. Successivamente si è passati a modificare l’indice di rifrazione di un cristallo di NaCl, KBr o CaF2 mediante l’applicazione di un campo elettrico (dipolo rotante P=P0+αE+βEE+γEEE…=n1+n2E; n1 rappresenta la parte lineare ed n2 quella non lineare) considerando solo la parte lineare dell’espansione in serie di P. E’ oggi possibile deviare un raggio luminoso proveniente da un fibra ottica grazie all’utilizzo di un fascio laser puntato su polimeri conduttori che variano il loro indice di rifrazione se eccitati otticamente; grazie alla modulazione della componete β e γ dell’espressione di P si può “governare la luce con la luce” grazie all’ottica non lineare (fotonica) (Fig. 15). 30 Generatore di campo E E Dipolo rotante Dipolo rotante Fibre ottiche uscenti Fibra ottica entrante Generatore laser Raggio laser Evoluzione tecnologica E cristallo Polimero conduttore Fig 15: rappresentazione schematica della sorpassata tecnologia di controllo elettro-ottico (in alto) e della tecnica futura del controllo fotonico (in basso) Le catene a base di carbonio possono trovarsi in forme e legame diversi: poli-ini (rari), poli-eni (solo ad atmosfere stellari) e catene con legami doppi e singoli alternati. L’ultima categoria comprende il maggior numero di polimeri utilizzati nel campo dei conduttori organici; il già noto poliacetilene ne rappresenta un esempio. La coniugazione la si ritrova anche in alcuni polimeri naturali come il β-carotene che consente di trasformare un segnale fotonico in uno spike neuronico grazie alla sua capacità di modifica conformazionale; nell’uomo, è così permessa la visione. A livello pratico il poliacetilene è però poco utile in quanto Zone drogate degrada in meno di dieci minuti, non è omogeneamente drogato e presenta salti elettronici trasversali; la sua funzione rimane quindi scientifico-didattica utile solo a capire il meccanismo di conduzione nei polimeri. Peraltro, nel poliacetilene, la conducibilità intercatena e interfibra, oltre a quella intracatena, ha fatto abbandonare l’idea di creare fili senza guaina protettiva (Fig. 16). eSono stati perciò prodotti altri composti come i politiofeni, i polipirroli, i poliparafenileni e i poliparafenilenevinileni che Fig 16: conduzione vengono già impiegati da Philips come LED organici per intercatena nel Salto elettronico Renault (Philips è stata la prima azienda in grado di poliacetilene fra zone drogate sintetizzare un polimero conduttore che emette luce con una adiacenti stimolazione elettrica pari a 1,5 V con più di 2000 ore di tempo di vita media). Alcuni fra questi composti sembravano risultare molto promettenti nel campo dell’elettronica, perché il loro basso valore di gap (fino a 1eV) avrebbe evitato la necessità del drogaggio; purtroppo però la conformazione tridimensionale della singola catena non permetteva la sovrapposizione degli orbitali π, indispensabile per la conduzione elettrica. Altri invece (politiofeni e polipirroli) non sono solubili e,di conseguenza, risultano poco lavorabili; per ovviare a tale problema si aggiungono catene alchiliche che, per ragioni antropiche, aggirano tale ostacolo. Altri polimeri, come il polietilendiossitiofene, sono impiegati come anti-statici per rivestire le pellicole fotosensibili, oppure altri costituiscono il rivestimento anti Radar per gli F117 Stealth in forza all’esercito statunitense. Antonino Spoto 31