Il Teatro Kabuki

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Il teatro Giapponese, tra il Nō ed il Kabuki
Introduzione
Origini del Teatro Giapponese
1. Genesi dello spettacolo teatrale giapponese: le Kagura
Il Bugaku ed il Gagaku
Primi passi verso il Nō
2. Nascita del Nō
Analogie e differenze tra il Nō e l’antico teatro greco
3. Il Teatro Kabuki
Il Kabuki d’arte
Rinascita del Kabuki
Palcoscenico e locale
Dalla restaurazione a oggi
Bibliografia
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Origini del Teatro Giapponese
Coerentemente ad un profondo interesse personale verso la cultura giapponese, si è deciso,
attraverso questo lavoro, di analizzare le forme teatrali più tradizionali e caratteristiche del
Giappone, tutte iscritte alla lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità
dell’UNESCO1 per il Continente Asiatico: il Nō, forma teatrale “colta”; il Kabuki, teatro “popolare”
ed, infine, il Jōruri, il teatro di marionette. Avendo profonde radici nella storia del Paese, è
importante sottolineare che lo sviluppo culturale del Giappone si suddivide in periodi (o epoche)
corrispondenti all’andamento delle vicende storico-politiche.
Si può, quindi, tracciare una breve cronologia dei vari periodi nipponici, partendo dall’epoca
protostorica, che va dalle origini al 709 d.C., alla quale segue l’epoca di Nara (710-794). Le fasi
successive sono denominate, nell’ordine: Heian (795-1186), Kamakura (1187-1392), Muromachi o
Ashikaga (1393-1573), Momoyama (1574-1603), epoca di Edo2 o dei Tokugawa (1603-1868,
durante la quale il Giappone visse un periodo di pace e grande prosperità), la Restaurazione del
potere imperiale o epoca Meiji (1868-1912), che segnò l’inizio dell’era moderna. In seguito, l’era
Taishō (1912-1926), l’era Shōwa (1926-1989) e l’attuale era Heisei, che prese avvio nel 1989, in
seguito alla morte dell’Imperatore Hiroito ed alla successione al trono dell’attuale Imperatore
Akihito.
La prima testimonianza di uno spettacolo teatrale, nell’accezione occidentale del termine, appare in
Giappone solo verso la fine del XIV secolo: il teatro Nō. Sebbene esistessero da tempo forme più
semplici di manifestazione sociale, è solo attraverso un lungo processo evolutivo e di fusione che
hanno origine quelle che, ancora oggi, vengono considerate le più tipiche forme teatrali proprie del
Giappone. Uno degli elementi caratteristici di queste prime embrionali rappresentazioni teatrali fu
la danza, essenzialmente di carattere religioso, considerata mezzo espressivo di sentimenti,
emozioni e moti dell’anima.
La tradizione ricollega l’origine delle prime pantomime di carattere religioso, dette kagura, al “mito
della Dea Amaterasu ō mikami (letteralmente, “l’augusta grande divinità che illumina il cielo”,
ovvero il Sole), che narra di quando la dea, risentita per le gravi e ripetute offese ricevute dal
fratello Haya Susanowo no mikato (“il principe violento e impetuoso”), si rinchiuse in una caverna
del cielo (Ama no iwaya), lasciando che il mondo fosse sommerso dalle tenebre. Preoccupati, i
numi dell’Olimpo shintoista3 tentarono invano, e con ogni mezzo, di farla uscire dal suo rifugio,
finché uno di essi, Ameno Uzume no Mikoto (“la terribile donna del cielo”), acceso un fuoco e
collocato dinanzi l’ingresso della caverna un tino di legno, denudatasi, intrecciò su di esso,
intonando un canto, una danza talmente comica da suscitare le risa delle divinità presenti.
Punta dalla curiosità di conoscere il motivo di tanta allegria, Amaterasu si affacciò sulla soglia
della caverna, spostandone di poco il pesante masso che la chiudeva. Prontamente, gli dèi ne
approfittarono per trascinarla fuori, e sul mondo tornò a splendere, per sempre, la luce”4.
Fin dagli albori della storia del Giappone, le kagura venivano eseguite sia alla corte imperiale, sia
davanti ai templi shintoisti (presso i quali, successivamente, vennero costruiti dei palchi appositi),
accompagnate dal suono di alcuni strumenti musicali (flauti o tamburi) e, spesso, da canti di
carattere religioso, a cui, in seguito, si affiancarono canti di generi diversi.
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Fonte: www.unesco.org
Città del Giappone, corrispondente all'odierna Tōkyō. Dapprima piccola città costiera, venne traformata in una cittadella nel
1457 dallo shōgun Ōta Dōkan, che ne fece la capitale del suo territorio, denominato Tokai. Durante il periodo Tokugawa (16031853), lo shōgunato trasformò Edo nella capitale di fatto del Paese, nonostante la corte Imperiale risiedesse a Kyoto, vera capitale
dell’epoca. All’inizio dell’era Meiji, anche l’Imperatore si trasferì a Edo, che fu rinominata Tokyo.
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Lo shintoismo è una religione nativa del Giappone, del quale in passato fu religione di Stato. Il nome è composto da due kanji
(ideogrammi): shin, che significa divinità o spirito, e tō, che deriva dal termine Tao e significa via. Si tratta, quindi, di una religione
che prevede l’adorazione di spiriti naturali o divinità, detti anche kami. Amaterasu, la dea del sole, è un esempio di kami.
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Fonte: Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, Le maschere, 1958, vol. 5 (Giappone).
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1. Genesi dello spettacolo teatrale giapponese: le Kagura
Il significato del termine kagura è ancora incerto. I due ideogrammi cinesi dai quali è composto,
significano “ricreazione degli dèi”. Tuttavia, alcuni filologi nipponici propendono verso una
derivazione dalla contrazione del vocabolo kamakura, “luogo di residenza di una divinità”. A
sostegno di tale ipotesi, è utile sottolineare come lo shintoismo, almeno nelle sue forme primitive,
fosse un culto della natura in quanto aspetto di forze divine, che spesso si manifestavano agli
uomini assumendo le sembianze di una forma della natura. Nei luoghi in cui si riteneva avvenissero
le apparizioni degli spiriti divini (kami), si erigeva un tempio, o una cappella (in origine, anche una
semplice capanna) davanti ai quali, mensilmente o annualmente, veniva commemorato
l’avvenimento, riproducendone le varie fasi attraverso pantomime accompagnate da musiche e
canti.
Originariamente, esistevano due tipi di kagura:
 Mi-kagura, altrimenti dette naishi dokoro kagura, che avevano il carattere di cerimonie
prettamente religiose e che, fino al secolo scorso, venivano eseguite nel sacrario shintoista del
palazzo imperiale (detto, appunto, naishi dokoro), in occasione di determinate festività religiose
e civili, su un apposito palco, ed utilizzando un complicato cerimoniale.
 Kagura popolari, chiamate anche sato kagura, eseguite, da tempi molto remoti, davanti ai
templi o alle cappelle shintoiste sparse per tutto il Paese, durante determinate festività religiose.
La parte più importante di una kagura consisteva in una pantomima realizzata da due schiere di
esecutori, che riproduceva le gesta di una divinità nel momento in cui si era manifestata, per la
prima volta, agli uomini. Le due schiere, formate da danzatori e danzatrici, si alternavano anche nel
canto delle cosiddette kagura uta (canti delle kagura).
In alcune kagura venivano utilizzate particolari maschere; inoltre, gli esecutori tenevano in mano
degli oggetti specifici, detti torimono (rami di alberi ritenuti sacri, o armi come l’arco, la spada o la
lancia), considerati mezzi di trasmissione per il manifestarsi dello spirito divino, cosicché la persona
che li reggeva veniva a perdere il suo carattere di creatura umana, assumendo quello della divinità
impersonata.
Nelle kagura, quindi, si ritrovano gli elementi che caratterizzano uno spettacolo teatrale: il
personaggio che perde il proprio carattere per assumere quello di un altro; l’uso di maschere e di
oggetti simbolici; il canto; la musica; la danza o pantomima; una speciale piattaforma o palco
adibito all’esecuzione.
Danze e spettacoli importati dal continente asiatico
Attraverso la penisola coreana, intorno al IV secolo, il Giappone entrò in contatto con la cultura
cinese, da cui apprese la scrittura (introdotta nell’arcipelago nel 375 circa) e gli insegnamenti della
religione buddhista (la cui presenza è attestata in Giappone fin dal 552).
I primi contatti diretti tra i due Paesi avvennero solo con l’invio della prima delle ambascerie
nipponiche stabili in territorio cinese, nel 607, che si conservarono durante il periodo aureo della
dinastia T’ang (618-906), e che fornirono al Giappone il modello culturale sul quale basare la
propria struttura politica, sociale e culturale.
Accenni a danze di vario tipo5 sono riportati anche sulle due più antiche cronache del Giappone,
entrambe compilate nel primo ventennio dell’VIII secolo: il Kojiki ed il Nihonji. Quest’ultimo, in
particolare, riferisce che nel 612 giunse nel Paese, dalla Corea, un uomo di nome Mimashi,
probabilmente un bonzo, che vi introdusse danze e musiche da lui stesso apprese, in precedenza,
nella Cina meridionale. Queste danze presero il nome di gigaku (musica e azione, ovvero musica e
danza) o di kure no mai (danze cinesi), che godettero del favore del principe Shōtoku (572-621),
ricordato anche quale grande patrocinatore del buddhismo in Giappone.
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Guerriere, propiziatorie o funebri.
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Riguardo queste danze, le poche informazioni pervenuteci riferiscono si trattasse di varie
rappresentazioni di pantomime simboliche, di carattere grottesco, eseguite, all’aria perta, da soli
uomini, nei pressi dei templi buddhisti. La caratteristica che contraddistingue queste
rappresentazioni, e che conferisce loro un peso rilevante nella storia del teatro giapponese, è l’uso
delle maschere6 e di determinati strumenti musicali.7. Il gigaku, in principio, veniva eseguito quale
accessorio delle funzioni religiose buddhiste. In seguito, penetrò nella Corte Imperiale,
diffondendosi, in un secondo tempo, anche tra il popolo, per poi venire assorbito, fino a scomparire,
dalle successive forme di spettacolo.
Il Bugaku ed il Gagaku
Verso l’inizio del IX secolo, grazie alle ambasciate, il Giappone accolse musiche e danze
direttamente provenienti dalla Cina. Spettacoli dello stesso tipo, arrivarono anche dal Champa
(corrispondente all’attuale Vietnam centro-meridionale), dall’India, dalla Corea e dal Bokkai (stato
appartenente all’attuale Manciuria). Questo insieme di nuovi elementi subì un processo di
trasformazione che lo conformò ai gusti nipponici dell’epoca, scaturendo, così, tra la metà del IX e
la prima metà del X secolo, nel bugaku. Il termine, che letteralmente significa “musica e danza”,
generalmente indica due tipi di spettacolo: in senso generico, tutti gli spettacoli, di qualsiasi origine,
caratterizzati da danze accompagnate da musica; in senso più ristretto, invece, indica gli spettacoli
importati in Giappone dall’estero, o creati in Giappone su loro imitazione. Per questo motivo, a
seconda della provenienza delle musiche e delle danze che lo compongono, il bugaku viene diviso
in due grandi rami:

Sa-mai, o sabu (danze della sinistra), che riunisce le rappresentazioni provenienti dalla Cina,
dall’Indocina e dall’India, insieme alle loro imitazioni di origine giapponese;
 U-mai, o ubu (danze della destra), dei quali fanno parte, invece, le produzioni coreane,
manciuriane ed i loro rifacimenti nipponici.
I due filoni differiscono anche nel tipo di strumenti musicali che utilizzano: nell’u-mai, ad esempio,
viene utilizzato il komabue8, che invece non compare nell’orchestra del sa-mai. In genere, gli
strumenti utilizzati nel bugaku sono a fiato o a percussione, mentre quelli a corda compaiono più
raramente.
Una delle principali caratteristiche del bugaku è il palcoscenico, che poteva essere di due tipi:
 Kō-butai (alto): costituito da una piattaforma di circa 7,28 mq, della quale 6 mq circa erano
ricoperti da una leggera stoffa verde, sui cui si eseguivano le danze. La piattaforma era
circondata da una balaustra di legno rosso, provvista di due gradini, sia anteriori che posteriori,
sui quali prendevano posto i musicanti. Ai lati del palco, invece, erano allestiti i camerini per i
danzatori. Nel caso in cui il palco si fosse trovato all’esterno, i camerini venivano circondati da
cortine. Questo tipo di palcoscenico avrebbe inseguito avuto delle influenze sul palco del Nō.
 Shiki-butai (basso), costituito da un semplice tavolato disteso su un terreno pianeggiante.
In alcuni bugaku i danzatori, per regola solo uomini, facevano uso di maschere, del tutto differenti
da quelle del gigaku, in quanto ricoprivano solo il viso, ed avevano un’espressione non realistica,
tendente all’idealizzazione.
Un bugaku iniziava sempre con una danza di carattere religioso chiamata enbu, intesa a propiziarsi
gli dei ed a fugare gli spiriti maligni: un danzatore usciva dal lato sinistro eseguendo una sa-mai; un
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Circa duecentoventi esemplari, risalenti al VI-VIII secolo, sono tuttora conservati al Museo Imperiale di Nara. Si tratta di maschere
raffinate, dal punto di vista artistico, e di grandi dimensioni, tanto da coprire addirittura parte del capo di chi le indossasse. I volti
presentano tratti caricaturali e grotteschi, ed alcune di esse presentano varie analogie con le maschere del teatro greco. Sembra,
infatti, che il gigaku, sebbene fosse penetrato in Giappone dalla Cina, non fosse interamente di origine cinese. Secondo alcuni
studiosi giapponesi, pare fosse nato nella stessa Grecia, e che fosse giunto in Cina ed in Giappone attraverso l’India, il Tibet e l’Asia
centrale.
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Strumenti musicali tipici del gigaku erano: lo yokobue (flauto traverso), i dōbasshi o dōbachi (simili ai cimbali) ed il koshitsuzumi o
y ōko (tamburo di media misura che il suonatore portava al fianco -koshi-, percotendolo con le mani).
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Flauto di tipo coreano.
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altro, entrando dal lato destro, un’u-mai. In seguito, l’uno di fianco all’altro, eseguivano ancora una
danza, alla quale seguiva lo spettacolo vero e proprio, costituito da una serie di coppie di danze (da
tre a cinque), ciascuna formata da una sa-mai e da un’u-mai. Ogni coppia prendeva il nome di
tsugai mai (danze accoppiate). Lo spettacolo terminava con l’esecuzione di un brano musicale
chiamato chōgeishi. Finché il bugaku è rimasto in vita, il chōgeishi rimase sempre invariato: veniva
utilizzato sempre il brano composto da un musicista del X secolo di nome Minamoto no Hirasa
(919-980).
Il bugaku era riservato alla corte imperiale, specie durante la prima metà del IX secolo, quando
venne raffinato e curato da molti musicisti. Non ha avuto diffusione tra il popolo, ma rimase nella
cerchia di poche famiglie aristocratiche che se ne sono tramandate la tradizione. A partire
dall’ultimo scorcio del XIV secolo, perse sempre più terreno, tornando in voga durante l’epoca
Tokugawa, per poi scomparire in maniera definitiva.
Col termine gagaku (musica raffinata ed elegante), invece, sono venuti ad indicarsi i bugaku
eseguiti presso la corte imperiale fin dall’epoca Heian e nei quali, con l’andar del tempo, si sono
inseriti elementi estranei al bugaku originario, come ad esempio l’uso degli strumenti musicali a
corda9, il canto di particolari canzoni di origine popolare, e l’esecuzione di particolari danze10.
Ai fini della storia del teatro giapponese, il gagaku è importante perché in epoca Tokugawa era lo
spettacolo preferito dalla Corte Imperiale di Kyoto, mentre il Nō era quello preferito dagli shōgun di
Edo (odierna Tokyo) e dalla loro corte. Col declinare dell’autorità degli shōgun, e con la definitiva
restaurazione del regime imperiale, il gagaku, sempre come intrattenimento facente parte della corte
e come spettacolo aristocratico, ebbe un periodo di supremazia sul Nō. Periodo di breve durata,
tanto più che furono gli esecutori del gagaku i primi ad apprendere e ad eseguire musica occidentale
con strumenti occidentali. Attualmente, il gagaku viene eseguito alla corte imperiale di Tokyo e
presso alcuni importanti templi buddhisti e shintoisti del Paese.
Primi passi verso il Nō
Gigaku, bugaku e gagaku non erano nati tra il popolo, e tantomeno gli erano congeniali. Ricchi di
complicato simbolismo, erano ristretti agli ambienti aristocratici, che avevano come centro la Corte
Imperiale ed i templi buddhisti.
Sembra che nell’epoca di Nara fosse penetrata in Giappone, dalla Cina, una forma di spettacolo che
si potesse definire di arte varia, dal momento che era costituita da un misto di acrobazie, giochi di
prestigio, danze, musiche e canti. In Giappone, tale spettacolo prese il nome di sangaku, che
significava letteralmente “musica disordinata”, proprio come il suo corrispettivo cinese san-yueh.
Incontrò il favore della corte imperiale di Nara, che ne prese a curare l’esecuzione attraverso un
apposito ufficio detto sangaku-to. L’abolizione di quest’ultimo, nel 782, dimostra che al sangaku
non occorreva più la protezione della corte per diffondersi. Gli attori che avevano fatto parte
dell’ufficio scelsero di aggregarsi ai templi buddhisti, oppure, dopo aver fondato delle compagnie,
si sparsero per tutto il Giappone, tenendo le loro rappresentazioni davanti al popolo. Cominciò così
l’evoluzione del sangaku, che per prima cosa cambiò il proprio nome in sarugaku (noto anche col
nome sarugō) che letteralmente significa musica delle scimmie (la radice saru significa scimmia).
Questo cambiamento fu, forse, dovuto al carattere burlesco dello spettacolo ed ai grotteschi
atteggiamenti dei suoi esecutori. Inoltre, avvicinandosi così ad una vera forma teatrale, vi si
inserirono scene comiche, farse che avevano per argomento alcune debolezze umane di cui si
metteva in risalto il lato ridicolo. C’era del realismo in queste farse, che a poco a poco cadde nel
volgare e nell’osceno. Nel corso del XII secolo, però, sorse, presso i templi buddhisti, un’altra
scuola di sarugaku che prese il nome di zushi (o jushi) sarugaku, così chiamata dagli zushi, gli
esorcizzatori sempre annessi ai templi, ai quali era affidata, per ragioni non ben chiare, l’esecuzione
dello spettacolo. Quest’ultimo era un sarugaku purgato, composto da pantomime, danze, giochi
acrobatici e di destrezza, tinto di religiosità. È nello zushi sarugaku che appare per la prima volta il
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Yamagoto o wagon (l’arpa giapponese), il biwa (strumento a quattro o cinque corde, simile al nostro liuto medievale).
Kagura, azuma-asobi, kume-mai eccetera.
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ji-utai, il coro, che diverrà uno degli elementi fondamentali del Nō. Anche il sarugaku si raffinò,
tendendo a trasformarsi in espressione d’arte, dando così vita, verso la fine dell’epoca Kamakura, al
sarugaku no nō, o sarugaku d’arte.
2. Nascita del Nō
Verso la fine del XIV secolo erano attive in Giappone numerose compagnie teatrali, indipendenti o
sotto la protezione dei più importanti templi buddhisti. Una delle libere compagnie di sarugaku no
nō era diretta da un attore passato alla storia del teatro giapponese col nome di Kwanami (o
Kanami) Kiyotsugu (1333-1384). Di lui è noto che, quando era sulla quarantina, introdusse nel
sarugaku no nō alcune riforme, creando un nuovo stile di canto che riscosse un notevole successo:
la rappresentazione da lui data davanti allo shōgun Ashikaga Yoshimitsu (1367-1395) suscitò in
quest’ultimo un entusiasmo tale da accordare la propria protezione a Kanami ed a suo figlio, allora
dodicenne, Fujiwakamaru (che inseguito prenderà il nome di Seami, o Zeami Motokiyo, scelto dal
suo protettore).
Seami non fu solamente il creatore del Nō. Per il fatto di aver perfezionato le riforme paterne al
sarugaku no nō, trasformandolo in un nuovo genere più altamente artistico per forma e contenuto,
egli fu anche il primo codificatore delle norme estetiche che, secondo i suoi concetti, dovevano
informare l’arte teatrale. I numerosi trattati da lui composti su questo argomento sono stati ritrovati
in un periodo relativamente recente, ed hanno permesso di acquisire nuove e più esatte cognizioni
sul Nō e sul suo contenuto.
Il favore goduto da Seami presso gli Ashikaga contribuì largamente alla diffusione della sua arte e
dei concetti estetici che vi presiedevano. Alla sua affermazione concorsero anche l’ambiente e le
idee di quel periodo storico del Giappone, durante il quale la classe militare, fino ad allora rozza ed
incolta, aveva preso nelle sue mani le redini del potere e si era andata sempre più raffinando grazie
al contatto con l’aristocrazia. Da quell’epoca, fino alla restaurazione Meiji (1868), il Nō resterà
l’unico spettacolo teatrale degno di essere ammirato e gustato dalla classe nobile e da quella
militare. Soprattutto gli shōgun Tokugawa (1608-1868) gli accordarono la massima protezione e ne
fecero lo spettacolo preferito alla loro corte di Edo, mentre alla corte imperiale di Kyoto viveva la
medesima situazione il gagaku. Dopo la restaurazione, il Nō diventò uno spettacolo accessibile a
tutte le classi sociali, ma non si può dire che questo spettacolo diventò “popolare”, a causa della
lingua arcaica nella quale erano scritti i testi, delle numerosei allusioni storico-letterarie che
contenevano e, soprattutto, del loro profondo contenuto filosofico e del complicato simbolismo.
Elementi costitutivi
Il Nō è una intrinseca fusione, in base a particolari canoni estetici, di canto (uta), recitazione
(kotoba), danza (mai) e musica strumentale (hayashi11, l’orchestra). Essendo, questi, gli stessi
elementi che si ritrovano nel nostro teatro d’opera, il Nō è stato spesso definito dramma lirico.
Gli attori
Nel Nō esistevano quattro tipi principali di attori, rigorosamente uomini, che interpretavano dei
ruoli fissi.
L’azione veniva praticamente sostenuta da due soli personaggi: un protagonista (shite, letteralmente
“agente”, che indossa sempre la maschera, elemento che lo distingue dagli altri attori sulla scena) ed
Si compone di soli quattro strumenti: il fue o nōkan (flauto), il ko-tsuzumi (piccolo tamburello a forma di clessidra), l’ō-tsuzumi
(tamburo più grande, che può emettere fino a tre suoni diversi) ed il taiko (grande tamburo o timpano, poggiato su un sostegno. Il
meno importante tra tutti è il flauto, che interviene più raramente rispetto agli altri: prima del dramma, per preparare l’auditorio, ed
insieme ai tre tamburi, per sottolineare i momenti più drammatici dell’azione. Importantissima, invece, la funzione dei tamburi, che
potrebbero essere chiamati le terminazioni nervose del Nō: sottolineando determinati passi possono creare, col variare del ritmo e del
tono dei colpi, un’atmosfera altamente drammatica.
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un deuteragonista12 (waki, “fianco”). Specifica funzione del secondo era quella di fornire al
protagonista, con domande o altro, l’occasione di cantare o di eseguire una danza. Tanto lo shite
quanto il waki potevano avere degli tsure (accompagnatori). Di solito lo shite aveva un solo
accompagnatore, chiamato shite-tsure, mentre il waki poteva averne anche quattro, detti waki-tsure.
In linea generale, gli tsure non avevano un carattere ben preciso, sebbene in alcuni casi potessero
averlo e rivestire una parte importante nell’azione. In alcuni Nō si trovavano anche personaggi detti
tomo (letteralmente, “compagni”), con funzioni puramente accessorie (ad esempio un servo o un
barcaiolo), nonché il personaggio di un fanciullo, detto kogata, talvolta con una parte importante
nell’azione.
Altro personaggio di rilievo era il kyōgen, il “comico”, chiamato anche ai (intervallo) dalla sua
specifica funzione di intrattenere il pubblico durante l’intervallo, che immancabilmente separava il
Nō in due parti.
Ultimo “personaggio” era il kōken o kōkennin, l’assistente di scena, che aveva il compito di portare
in scena gli oggetti occorrenti e toglierne quelli non più necessari, fare in modo che tutto procedesse
senza incidenti ed essere sempre pronto a sostituire lo shite, qualora non potesse recitare.
Nel Nō i movimenti degli attori erano estremamente stilizzati e ridotti all’essenziale: piccoli cenni
del capo o movimenti del corpo avevano significati ben precisi. Una tipica rappresentazione del Nō
vedeva in scena tutte le categorie di attori, e solitamente durava dai trenta ai centoventi minuti. Il
repertorio contava circa duecentocinquanta rappresentazioni suddivisibili in cinque categorie,
organizzate in base al tema principale:





Rappresentazioni sulle divinità;
Rappresentazioni sui guerrieri;
Rappresentazioni sulle donne;
Rappresentazioni varie;
Rappresentazioni sui demoni;
Il palcoscenico
Il palco del Nō, chiamato butai, consisteva in una piattaforma di legno quadrata, sollevata di quasi
un metro sul livello degli spettatori, e che misurava circa 5,50 m per lato. Era aperta su tre lati,
coperta da un tetto e circondata da una fascia di ghiaia detta shirasu, residuo dei tempi in cui le
rappresentazioni si facevano all’aperto. Davanti alla piattaforma si trovava una piccola scala con tre
gradini, simile a quella del bugaku, detta shirasu-bashigo, che non veniva utilizzata durante lo
spettacolo. Di fronte ad essa, il posto d’onore riservato alle Mestà Imperiali che volessero assistere
alle rappresentazioni ufficiali.
Gli spettatori assistevano allo spettacolo seduti intorno ai tre lati aperti della piattaforma. Sul lato
destro di questa si estendeva una specie di veranda protetta, verso l’esterno, da una balaustra: era il
posto riservato al coro, chiamato jiutai-za (jiutai sono i componenti del coro13). In fondo alla scena,
come un suo prolungamento, si trovava l’ato-za, il retroscena, riservato all’orchestra, e chiuso da
una parete detta ura-ita, che si prolungava verso sinistra, passando dietro un ponte (hashi-gakari)
che terminava con la stanza dello specchio (kagami no ma), sorta di camerino nel quale gli attori
davano l’ultimo ritocco al trucco ed ai costumi.
La scena era molto semplice, ridotta anch’essa all’essenziale. La rappresentazione Nō aveva luogo
su un palco fatto di Hinoki (cipresso giapponese), completamente vuoto, eccezion fatta per il
kagami-ita, il dipinto di un pino, realizzato su un pannello di legno, posto sul fondo del palco. Ci
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Nella tragedia antica, soprattutto nella Grecia del IV secolo, indicava l'attore che compariva a fianco del protagonista, il secondo
attore; nell'analisi del testo letterario è il co-protagonista. Il termine ha origine dalle parole deuteros (secondo) e agonistes (attore), da
ago (condurre).
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Composto da otto o dieci elementi, distribuiti su due file, seduti alla giapponese. Talvolta, si sostituisce ad uno degli attori,
solitamente allo shite, quando questi esegue una pantomima danzata della quale il coro spiega o commenta le fasi. In altri casi, può
riferire di avvenimenti passati o che potrebbero avvenire in futuro o, ancora, esprime i sentimenti che le situazioni in atto
susciterebbero in chi fosse presente.
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sono molte spiegazioni possibili per la scelta di questo albero, ma una tra le più comuni è che
simboleggia il mezzo con cui le divinità scendevano sulla terra, secondo il rituale shintoista. In
contrasto con il palco completamente disadorno, i costumi sono estremamente ricchi: molti attori, in
particolare gli shite, erano vestiti con abiti di broccato di seta.
Il butai, lo spazio scenico, veniva considerato come un cosmo intermedio, in cui si incontrano il
mondo divino e quello umano, come dimostra la stessa struttura architettonica, dalle valenze
cosmologiche: il tetto lo definiva in quanto spazio sacro, mentre i pilastri che lo sostenevano erano
considerati tramite tra i mondi umano e sovrannaturale. L'honbutai, cioè la parte centrale dello
spazio scenico, era collegato alla kagami no ma dall'hashigakari, che si immetteva in essa da
occidente, dove, nell'immaginario comune, si trovava il paradiso della Terra Pura buddhista. Infine,
il ponte presente sul palcoscenico poteva essere considerato il tramite tra il nostro mondo,
rappresentato dal palco, e l'altro mondo, rappresentato dalla camera dello specchio.
Le maschere
Il Nō è stato spesso paragonato alla tragedia greca, in quanto una delle sue principali caratteristiche
era l’uso di maschere, che coprivano solo il viso dell’attore e gli permettevano di rappresentare
anche parti femminili14. Altre maschere rappresentavano giovani, vecchi, spiriti, demoni, divinità o
qualsiasi altro essere sovrannaturale. I tipi di maschere tuttora esistenti sono circa ottanta, ma con
solo trenta di esse si sarebbe potuto mettere in scena qualunque Nō. Tutte le maschere erano
altamente espressive del carattere e dei sentimenti del personaggio che rappresentavano, ma non in
senso realistico.
Caratteristica delle maschere è che fossero costruite in modo tale che l’attore potesse variarne
l’espressione con un leggero spostamento Nelle mani di un attore capace, la maschera è in grado di
mostrare differenti espressioni e sentimenti, a seconda della posizione della testa dell'attore e
dell'illuminazione15.. Una maschera inanimata può quindi avere la capacità di sembrare felice, triste
o numerose altre espressioni. Dal momento che i buchi posti all'altezza degli occhi erano di
ridottissime dimensioni, per aumentarne ulteriormente l'espressività, gli attori avevano a
disposizione una visuale limitatissima e si servivano, quindi, di punti fissi per orientarsi e di
percorsi predeterminati.
La maschera inoltre, ha una funzione mediatrice: può incarnare entità supreme e fungere da punto di
incontro tra il tempo mitico e il tempo storico. Essa ha anche la funzione di richiamare gli spiriti dei
morti nel mondo terreno: indossando la maschera del defunto, l'attore ne incarna lo spirito. Motivo
per il quale qualsiasi spettacolo era preceduto da una sorta di venerazione nei confronti della
maschera: in questo modo, l'attore avrebbe potuto impersonare al meglio il personaggio.
Contenuto, pensiero, estetica del Nō
Vicende storiche o leggende giapponesi costituivano lo spunto su cui basare lo sviluppo di
un’azione che non si sviluppava nell’ambito della realtà, ma in quello del sentimento o
dell’immaginazione. Benché protetto dagli shōgun fin dai suoi albori, il Nō non li glorificava mai,
ma rivolgeva il suo rispetto e la sua venerazione verso l’Imperatore, così come esprimeva alti e
nobili sentimenti d’amore verso la patria, terra divina perché creata dagli dei.
Argomento di molti Nō, sotto l’influsso del pensiero feudale, era l’esaltazione per la fedeltà al
proprio signore, spinta fino al sacrificio di se stessi o di un proprio figlio, o per i rapporti leali tra
fratelli ed amici. L’atteggiamento del Nō nei confronti dell’amore fra i due sessi era, al contrario,
molto negativo: la donna era vista come una peccatrice, cui non era concessa la possibilità di
raggiungere la perfetta illuminazione. Non avrebbe mai potuto, cioè, divenire un Buddha. Di
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In questo caso, il capo è coperto da una parrucca, detta kazura.
Secondo un’antica tradizione cinese, il palcoscenico è orientato verso nord. Quindi, quando un attore sta per osservare il sorgere
della luna, volge la schiena alla veranda del coro mentre, quando contempla il tramonto, si trova rivolto verso di essa.
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conseguenza, chiunque avesse rapporti con lei era destinato agli inferi. La donna andava, quindi,
evitata, soprattutto dall’uomo d’armi, pena la perdita del suo valore in battaglia. Nonostante ciò, i
Nō, esaltavano la donna in quanto madre: l’amore materno raggiungeva, qui, la propria apoteosi.
Tutti i Nō erano permeati di buddhismo e, soprattutto, del sincretismo buddhista-shintoista,
tipicamente giapponese, chiamato ryōbu-shinto (shintoismo dai due aspetti), una sorta di
compromesso tra le due religioni, secondo il quale le numerosissime divinità shintoiste fossero
manifestazioni del Buddha. L’impronta buddhista era così evidente nel Nō, che veniva anche
chiamato arte buddhista. Il buddhismo che vi predominava era soprattutto quello della setta zen,
ossia contemplativo, fatto di semplicità, alieno ad ogni inutile sfoggio, mirante ad una elevazione di
se stessi al di sopra di tutto ciò che era meschino, comune e volgare.
I canoni del Nō furono fissati dal suo stesso creatore. Il primo e più importante di essi fu lo yūgen,
termine buddhista che indica il lato più profondo e difficilmente comprensibile della dottrina. Nel
senso estetico conferitogli da Seami Motokiyo, può dirsi che esprimesse l’arte avvincente di
comunicare profondità sostanziali del pensiero, quasi nascondendole dietro la superficie di una
forma facile e graziosa, così che il significato profondo si rivelasse attraverso simboli abilmente
scelti, come al di fuori delle parole e quasi per una risonanza di esse. Lo yūgen avrebbe dovuto
dominare sull’intera opera, in funzione di altre due qualità che, insieme ad esso, dovevano essere
quasi una seconda natura del vero artista: il mono-mane16 e lo hana17. Tutto il Nō era pervaso dallo
spirito dell’epoca in cui nacque, e di cui rappresentava gli ideali estetici, il cosiddetto sabi18.
Analogie e differenze tra il Nō e l’antico teatro greco
Può giungere istintivo chiedersi quali rapporti esistano tra il quattrocentesco Nō e l’antico teatro
greco, che lo precedette di quasi un millennio. Considerato nel suo insieme, il teatro del Nō, ad un
primo superficiale esame, potrebbe apparire come un derivato del teatro classico greco; tuttavia,
un’indagine più approfondita permette di rilevare numerose e fondamentali differenze tra essi.
Consideriamo anzitutto le diverse strutture architettoniche dei due teatri: rettangolare quello greco,
circondato da un’ampissima cavea19 che poteva contenere dai tre ai diecimila spettatori;
rigorosamente quadrato e tridimensionale quello giapponese, adatto per la sua capacità ad un
pubblico che non superasse, ordinariamente, le cinquecento persone.
Una certa analogia, al contrario, esiste tra lo scarso numero di attori di entrambi i teatri. Tuttavia,
quelli del Nō potevano raggiungere (tra gli shite-tsure e i waki-tsure) anche il numero di dieci o
venti. La funzione dello shite e del waki era notevolmente diversa da quella del protagonista,
deuteragonista e tritagonista20 del teatro greco, per la scarsa importanza del ruolo del waki, che
rappresenta, in un certo senso, il pubblico e non porta la maschera, mentre tutti gli attori greci,
indistintamente, ne erano provvisti. La presenza dell’attore unico, caratteristica del Nō, proveniva
dalla propria costituzione originaria di rappresentazione mimica per opera di un singolo attore, che,
a sua volta, si può ricollegare, per certi versi, al cinquecentesco bululù spagnolo, rappresentazione
teatrale eseguita da un singolo attore che sosteneva il ruolo di più personaggi.
Imitazione delle cose: è la capacità dell’attore di “vivere” il personaggio che rappresenta, non solo vestendosi come lui, ma
dandogli un’anima.
17 “Fiore”, è il grande potere, il fascino di cui un attore deve essere dotato per trascinare gli spettatori, fino a renderli partecipi
dell’azione, facendoli “vivere” insieme a lui.
18
In giapponese significa ruggine, ed il significato particolare che esprime in questo senso è che una vecchia sciabola arrugginita può
anche essere più bella di una lucente, solo se si abbiano gli occhi capaci di apprezzarne l’intimo splendore. Sabi è dunque quel
fascino arcano, e spesso più nobile, che il tempo conferisce alle cose. Questo fascino particolare dell’invisibile, che rappresenta
l’ideale dell’epoca, per cui non la bellezza manifesta è la più nobile, ma quella riservata solo a chi sa intenderla, a chi sa scoprirla con
quel brivido di mistica esaltazione, capace di sollevare lo spirito nelle alte sfere di un ineffabile godimento.
19
A pianta circolare o ellittica, era la parte del teatro nella quale erano disposte le gradinate, suddivise in settori, con i sedili di legno;
in genere la cavea era addossata ad una collina, per sfruttarne il pendio naturale.
20
Terzo attore, in ordine di importanza, nella rappresentazione teatrale. La sua introduzione si deve a Sofocle (496-406 a.C),
drammaturgo greco antico, che era convinto del fatto che la rigida contrapposizione di due personaggi antitetici fosse ormai superata,
mentre l’introduzione del terzo avrebbe comportato una maggiore articolazione dei rapporti interpersonali ed una nuova scioltezza
dinamica del ritmo teatrale
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Le differenze si fanno più evidenti se si analizzano il coro del Nō e quello del teatro greco. Nel caso
greco, il coro aveva la funzione di un vero e proprio attore, interpretando, di volta in volta, gli
anziani ed i saggi della città, i figli o le figlie dell’eroe o dell’eroina. I coreuti greci portavano le
maschere e danzavano durante la rappresentazione. Inoltre, la quantità delle battute e dell’azione
affidate al coro non rimase mai la stessa durante il periodo aureo del teatro classico, ma andò
decrescendo, passando dalla metà ai tre quinti nelle tragedie eschilee21, ad un quarto circa in quelle
di Sofocle, per finire con l’occupare solo un nono della rappresentazione nei drammi di Euripide.
Il coro del Nō, invece, rimasto fisso ed immutabile, nella sua pur modesta importanza e nelle sue
funzioni, non portava maschera e rimaneva immobile durante tutta l’azione.
3.Il Teatro Kabuki
La parola Kabuki è formata da tre ideogrammi: ka (canto), bu (danza), ki (abilità), equivalente
fonetico della parola kabuki, derivata dal verbo kabuku (essere fuori dall'ordinario), che stava ad
indicare l'aspetto e il vestiario in voga al tempo di Toyotomi Hideyoshi (1536-1598) e caratteristico
dei cosiddetti kabukimono22.
La tradizione fa risalire le origini del Kabuki ad una donna: Okuni, figlia di un fabbro, danzatrice
(miko) nel tempio shintoista di Izumo, uno dei più importanti del Giappone, partì per raccogliere
fondi per il tempio, insieme ad un gruppo di compagne, che presto abbandonò; nel 1603, a Kyoto,
nelle vicinanze di un fiume presso il quale si radunavano venditori ambulanti, saltimbanchi,
prestigiatori e simili, si esibì con canti e danze di carattere religioso. Si unì poi ad un rōnin 23 il
quale, pratico di Nō e di kyōgen24, le insegnò a migliorare la sua arte e ad estirpare l’elemento
religioso, ispirandosi alle canzoni allora in voga. Ai due si aggregarono ben presto altre danzatrici.
Ne risultarono spettacoli che, ispirati al sarugaku ed al kyōgen, ebbero grande successo tra il popolo
e presero il nome di Kabuki-odori (danza del Kabuki), successivamente abbreviato in Kabuki.
Caratteristica di questo spettacolo, che consisteva in pantomime danzate al suono della stessa
orchestra del Nō e accompagnate dal canto di canzoni popolari e profane, era che le donne
vestivano costumi maschili e rappresentavano parti da uomo, e viceversa. Il Kabuki si diffuse
rapidamente in tutto il Giappone, ma di Okuni e del suo amante si persero le tracce, così che la
critica moderna tende a relegare questa coppia all’ambito della leggenda.
La novità portò alla nascita di compagnie composte e dirette da donne, per lo più prostitute, i cui
spettatori presero il nome di keisei-kabuki (Kabuki di prostitute) o di onna-kabuki (Kabuki di
donne). In molte di queste formazioni, agivano però anche uomini. Gli spettatori cominciarono
presto a degenerare ed a cadere in eccessi, esercitando, altresì, un’influenza negativa sui costumi:
così, nel 1612 il governo shōgunale vietò alle donne di esibirsi sul palcoscenico. Tale proibizione
restò in vigore fino alla restaurazione Meiji del1868. Già dal 1627, però, sembra che esistessero due
compagnie di Kabuki, fondate da un certo Damuke, composte di soli uomini, nelle quali le parti
femminili erano sostenute da giovani o fanciulli, chiamati wakashu (ragazzo). Quando il governo
ordinò che le donne fossero sostituite da questi ultimi, sorse il wakashu-kabuki (Kabuki dei
Eschilo (Eleusi, 525-Gela, 456 a.C.), della famiglia ateniese dei Pisistratidi, unanimemente considerato l’iniziatore della tragedia
greca.
22
I kabukimono o hatamoto yakko erano in Giappone, tra la fine del periodo Muromachi e la prima parte del periodo Edo, dei
samurai senza padrone (rōnin) che si dichiaravano servitori dello shōgun, sebbene agissero di fatto da fuorilegge. Erano soliti
frequentare il "quartiere del piacere" (la zona della città in cui si trovavano le dimore delle geishe) di Edo, ed erano soliti vestire in
maniera appariscente ed eccentrica, parlare in maniera volgare e agire in modo provocatorio e arrogante, soprattutto nei confronti
della gente comune; la legge permetteva infatti ai samurai di uccidere chiunque offendesse il proprio onore. Si pensa che la yakuza
moderna abbia avuto origine da gruppi di kabukimono, sebbene alcuni fanno risalire la stessa ai machi yakko, una sorta di polizia
privata.
23 Samurai che non ha più un Signore da servire e vive di espedienti
24 Genere di spettacolo corrispondente alla farsa. Ha le stesse origini del Nō, ma viene considerato il diretto discendente del
Sarugaku. A differenza del Nō, il kyōgen rimane sul piano realistico, mettendo in scena la vita del suo tempo (epoca Muromachi),
cogliendone i lati più caratteristici e mettendone in luce i difetti. Ha, pertanto, un alto valore storico e filologico. Si compie in un atto
e, come il Nō, ha due personaggi: lo shite (il protagonista, che conserva lo stesso nome che ha nel Nō,), chiamato anche omo (che
significa “importante”), ed un deuteragonista detto ado o ato, corrispondente al waki del Nō, che può essere interpretato da più
personaggi, che prendono il nome di primo ado, secondo ado e così via.
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10
ragazzi). Lo spettacolo in sé rimase costituito da due elementi: danze pantomimiche eseguite da
giovani, con canzoni ed orchestra, e scene comiche eseguite da attori adulti, chiamate mono-mane
kyōgen (kyōgen imitativi), che non avevano però nulla in comune con i kyōgen che si
accompagnavo al Nō.
La sostituzione delle donne con i fanciulli non portò troppi vantaggi dal punto di vista dei costumi,
tanto che, nel 1652, il wakashu-kabuki venne proibito insieme alle sue musiche ed alle sue danze.
Tuttavia, due anni più tardi ne fu permessa nuovamente la rappresentazione, sotto speciali
condizioni, fra cui quella che i fanciulli, che portavano i capelli acconciati in modo da avere un
aspetto più aggraziato e femminile, si rasassero il capo come gli adulti (yarō), dando così vita allo
yarō-kabuki (Kabuki di uomini), ed è in questo periodo che, per la prima volta, comparve
l’onnagata, cioè l’attore specializzato in parti femminili (onna, in giapponese, significa donna).
Perduto, così, tutto ciò che aveva di erotico, il Kabuki, non più suscettibile di far presa sulle masse,
dovette, per continuare a vivere, affidarsi ad una maggiore nobiltà di contenuto e ad una maggiore
abilità artistica dei propri attori. La temporanea proibizione della musica e della danza, lo spinse a
dare ulteriore sviluppo all’azione ed al dialogo, e ad avviarsi così verso la forma del dramma vero e
proprio. I primi Kabuki erano in un solo atto, con trama semplice, spesso infantile, e venivano
rappresentati sullo stesso palcoscenico del Nō. Presto, però, apparvero Kabuki in due o tre atti,
talvolta anche in più atti. Sorse allora la necessità di un sipario, per i cambiamenti di scena e che
dividesse un atto dall’altro: il Kabuki, quindi, si svincolò dal palcoscenico del Nō per crearne uno
proprio.
I primi autori di Kabuki furono gli stessi attori, che collaboravano tra loro alla stesura di una traccia,
più che di un testo vero e proprio. Il primo a figurare come autore, senza essere anche attore, è
Tominaga Heibei, nel 1680. Dopo di lui, le due professioni rimasero sempre distinte. Nel frattempo,
Kineya Kisaburō (1619-1699), forse derivandolo dal teatro delle marionette25 allora fiorente a
Kyoto ed Osaka, introduceva nel Kabuki il samisen26, accolta con molto favore a Edo, non lo fu
altrettanto a Kyoto ed Osaka. Ma infine questo strumento si impose, diventando elemento
essenziale dell’orchestra del Kabuki, che si arricchì contemporaneamente delle naga-uta (canzoni
lunghe), ispirate ai canti del Nō, ma di genere più popolare. A partire dal 1688 troviamo nel Kabuki
i caratteri che avrebbe conservato fino ad oggi. I primi due lavori a presentare tali caratteri e che
segnarono, quindi, la nascita del vero e proprio Kabuki, furono Imagawa Shinobi Grama (La
vettura segreta di Imagawa), in due atti, di Miyako Dennai, rappresentata per la prima volta a Edo
nel 1663, e Hinin no ada-uchi (La vendetta di un paria), in due atti, di Fukuiya Gozaemon (anche
attore), rappresentata ad Osaka nel 1664. Siamo pertanto alle soglie dell’era Genroku (1688-1703),
durante la quale il Kabuki riceverà nuovo e più rigoglioso impulso, e prenderà il suo aspetto
definitivo. L’evoluzione del Kabuki durante l’era Genroku (1688-1703) e la reciproca influenza col
teatro delle marionette (jōruri) erano strettamente collegate alle condizioni storiche e sociali del
Giappone del tempo.
Dal 1615 l’effettivo potere politico, militare ed amministrativo si era accentrato nelle mani degli
shōgun della famiglia Tokugawa. Il Giappone era praticamente isolato dal resto del mondo e
godeva di una pace interna e di un benessere economico mai conosciuti fino ad allora. La società
era rigidamente divisa in quattro classi: i nobili (nobiltà militare e nobiltà civile), gli agricoltori, gli
artigiani e i commercianti. Ai margini, venivano gli eta, i paria27. Il regime totalitario e poliziesco
dei Tokugawa aveva cura di tenere nettamente separate le classi sociali, sulle quali esercitava
un’indiscussa supremazia la nobiltà militare (buke) con i suoi daimyō (letteralmente, “grandi nomi”,
cioè grandi signori feudali) ed i suoi samurai (vassalli), ai quali era rigorosamente interdetta
qualsiasi attività artigiana o mercantile: dovevano essere solamente dei guerrieri (hushi), anche se,
Il jōruri (teatro delle marionette), insieme al Nō, al Kabuki era al Kyōgen, è una delle quattro forme tradizionali del teatro
Giapponese.
26
Strumento musicale giapponese a tre corde, della famiglia dei liuti, utilizzato per accompagnare le rappresentazioni del Kabuki e
del Bunraku (dal nome di Uemura Bunrakuken, che diede un nuovo slancio al jōruri nell’ultimo ventennio del XVIII, dopo essere
stato soppiantato dal Kabuki).
27 Il termine è definito implicitamente per esclusione dal sistema delle caste indiane, in quanto raggruppa tutti coloro che non fanno
parte delle quattro caste stabilite. Si tratta, quindi, di coloro che stanno ai margini della società.
25
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data la situazione, guerre da combattere non ce n’erano più. Si verificò, così, la nascita di una nuova
classe sociale, i chōnin (letteralmente, cittadini), che può assimilarsi alla nostra borghesia, formata
dai commercianti e dagli artigiani dei maggiori centri urbani. Laboriosi ed intelligenti, non solo nel
campo delle loro specifiche attività, ma anche in quelle spirituali e culturali, non potevano
ammettere che la cultura fosse riservata solo alle classi nobili e, allo stesso tempo, apprezzavano la
vita e i suoi piaceri, le raffinatezze ed il lusso procurati dal denaro. Lo stesso denaro che, per forza
di cose, stava passando nelle loro mani da quelle dei nobili e dei samurai, praticamente disoccupati,
che contavano su una rendita fissa che non poteva, in ogni caso, essere sufficiente per un tenore di
vita adeguato al loro rango sociale. Lo stesso regime shōgunale, gretto, soffocante e opprimente, li
spingeva ad uno sfogo che, a quei tempi ed in quell’ambiente, non poteva certo manifestarsi nelle
forme della moderna lotta di classe, cosicché la nascente borghesia accentrò la propria vita nei
quartieri del piacere e del teatro.
La vita del Giappone dell’epoca era concentrata in tre grandi agglomerati urbani: Kyoto, Edo (oggi,
Tokyo) ed Osaka, ed è in questi tre centri che il teatro giapponese, a parte il Nō che si era
cristallizzato da tempo ed era rimasto limitato alle classi nobili, si è evoluto e perfezionato nelle sue
forme popolari: il Kabuki ed il Ningyō-Jōruri, che hanno assunto caratteristiche diverse a seconda
delle condizioni ambientali delle tre città nominate. Kyoto, residenza della corte imperiale, centro
essenzialmente aristocratico, depositario delle più antiche e venerate tradizioni indigene, educato a
gusti eleganti e raffinati, poteva apprezzare solo opere che avessero un’impronta sentimentale e
romantica. Edo, sede dell’effettivo potere politico e militare, residenza di guerrieri che non avevano
più guerre da combattere, poteva gradire solo quelle opere che esaltavano le virtù della casta
militare: violenza, eroismo, cavalleria, fedeltà al proprio signore fino al sacrificio di se stessi. Osaka
era un centro di produzione e di commercio: alla sua popolazione interessavano soprattutto i lati
pratici della vita; il teatro, per essa, doveva essere, ed era, una distrazione, ma doveva, allo stesso
tempo, riflettere la realtà della vita.
Il Kabuki d’arte
Il Kabuki cominciò ad assumere una propria forma artistica quasi contemporaneamente in due città:
a Kyoto per opera di Sakata Tōjūrō (1647-1709) e ad Edo per opera di Ichikawa Danjūrō I (16601704). Il primo, figlio di un attore, seppe sfruttare abilmente l’emozione suscitata in città dalla
morte di una celebre oiran (cortigiana) del tempo, Yūgiri, e nel 1678 mise in scena il Kabuki Yūgiri
nagori no shōgatsu (la dipartita di Yūgiri in gennaio), che ebbe un successo enorme, ponendolo di
colpo tra i grandi attori. Si trasferì a Kyoto e ne dominò la vita teatrale fino alla morte. Di gusti
raffinati, perfezionò la propria arte con un attento e assiduo studio della realtà. Suoi meriti principali
furono lo sviluppo dato al monologo e l’abbandono del manierismo (fino ad allora prevalente fra gli
attori) a beneficio di una reale penetrazione nell’anima e nei sentimenti dei personaggi. Abile sia
nelle parti comiche che in quelle tragiche, era anche discretamente colto e poté quindi
efficacemente collaborare con gli autori che scrivevano per lui.
Ichikawa Danjūrō I, predecessore di una lunga stirpe di attori che portano il suo stesso nome, dette
invece al teatro di Edo un’impronta del tutto opposta. Mentre la recitazione di Tōjūrō si basava sul
realismo, quella di Danjūrō I, figlio di un samurai ed influenzato dal marionettista Izumi-Dayū,
poggiava tutta sull’esecuzione . Egli fu il creatore di una tecnica particolare, detta ara-goto (azione
violenta) che sbalordiva ed impressionava il pubblico e che, dopo di lui, rimase una delle
caratteristiche del teatro di Edo. Non fu solamente attore, ma anche autore, e dette nuova forma al
linguaggio teatrale, introducendovi il particolare dialetto di Edo e lo speciale gergo dei samurai.
Morì a 44 anni, assassinato da un collega col quale era venuto a diverbio.
Terza figura preminente nella storia del Kabuki del tempo è Yoshizawa Ayame (1623-1729), che
recitava nella regione comprendente Kyoto ed Osaka. Si può dire che fu il creatore dell’arte
dell’onnagata, l’attore che sostiene parti femminili. Le sue teorie in proposito ci sono note
attraverso l’opera Ayame-gusa (Gli insegnamenti di Ayame), compilata da un drammaturgo suo
contemporaneo. Secondo Ayame, un onnagata doveva acquisire una sua particolare forma mentis,
12
cioè quella di una donna, e sviluppare in se stesso sentimenti femminili, comportandosi come tale
anche nella vita quotidiana. Mizuki Tatsonuke (1673-1745) fu, ai suoi inizi, un valente onnagata;
ma in seguito fu il creatore di un nuovo carattere, l’iro-aku, il giovane perverso che nasconde la
propria vera natura sotto l’aspetto della nobiltà e della distinzione. Un altro onnagata, Ogino Sawano-jō (1656-1704) fu così famoso che a Kyoto ed Edo le donne facevano a gara nell’imitare il suo
modo di vestire. Nelle parti maschili furoreggiarono invece: a Edo, Nakamura Shichisaburō (16621708), attore che, all’opposto di Danjūrō I, si avvicinava allo stile romantico di Tōjūro; a Kyoto,
Yamashita Kyōen (1652-1717), proveniente dal Nō, insuperabile nelle parti di samurai e ronin. In
queste stesse parti, piene di truculenta e violenza, fu famoso in ambedue le città Takeshima
Sanyuemon (1635-1690), ed in quelle di “malvagio” Kataoka Nizaemon (morto nel 1725). In questa
prima fase il Kabuki era solo una tecnica, ed il suo successo era più dovuto al virtuosismo degli
attori che alle capacità degli autori. Dopo un periodo di declino, tra la seconda metà del Seicento e
la prima metà del Settecento, a causa di un periodo aureo del teatro di marionette, il Kabuki si
riprese.
Rinascita del Kabuki
Gli attori del Kabuki, fino ad allora padroni assoluti della scena, impararono molte cose dalle
marionette del jōruri. Specie dopo la morte di Chikamatsu (maggiore esponente del jōruri), il
Kabuki cominciò a saccheggiarne il repertorio. Ne imitò i costumi e perfino le movenze delle
marionette. A mano a mano che il jōruri perdeva terreno, il Kabuki acquistava favore tra le masse.
Verso metà XVIII secolo ebbe così inizio, specie a Edo, dove intanto si era spostato da Kyoto il
centro culturale e letterario del Giappone, l’epoca d’oro del Kabuki, sebbene di breve durata, poiché
il suo rapido declino cominciò fin dai primi anni del XIX secolo. In questo periodo, brillano i
successori di Ichikawa Danjūrō I: Ichikawa DanjūrōII (1688-1758), che conferì al dialogo
un’importanza maggiore rispetto a quella accordatagli in passato, e creò un nuovo tipo, il guerriero
galante e innamorato. Ichikawa Danjūrō IV (1711-1778) tentò di portare sulle scene, con maggiore
realismo, la vita del suo tempo, ma restò sempre troppo legato alla tradizione. Sawamura Sojūrō
(1689-1759), nativo di Kyoto e trasferitosi a Edo nel 1718, dove fondò una sua scuola, diede al
Kabuki un indirizzo decisamente realistico. Ne seguì le orme, fondando a sua volta una propria
scuola, Onoe Kikugorō (1717-1783), che curò soprattutto il racconto. Fin dalla metà del XVIII
secolo, i drammi rappresentati dagli attori di Kabuki erano tratti dal jōruri, che gli stessi autori
rimaneggiavano. Con l’inaridirsi del jōruri, si cominciarono a scrivere copioni destinati
esclusivamente al Kabuki, chiamati Kyakuhon. Il primo a comporne, elaborando in altra forma le
vecchie trame del jōruri, fu Namiki Shōzō (1703-!773), che merita un posto speciale nella storia del
teatro giapponese per le innovazioni apportate alla tecnica scenica, tra le quali la più importante è il
mawari-butai, il palcoscenico girevole per rapide mutazioni a vista, sperimentato per la prima volta
nel 1755 e presto diffusosi. Tuttavia, a partire dall’inizio del XIX secolo, il Kabuki andò sempre più
declinando; il governo shōgunale gli era ostile, trovando nel teatro una fonte di disordini morali.
Molti teatri vennero distrutti da incendi dolosi.
Per discendenza o per adozione, un attore di Kabuki apparteneva ad una famiglia di attori, nella
quale si formava attraverso un lungo e difficile tirocinio. Inoltre, ciascun attore fu portato a
specializzarsi nell’incarnazione di un determinato tipo. Vennero così a stabilirsi otto tipi fissi:
 Protagonista;
 Antagonista;
 Onnagata;
 Comico;
 Vecchio;
 Vecchia;
 Giovane;
 Fanciullo.
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Vi sono stati attori che hanno interpretato un solo tipo, altri che, dopo un certo periodo, sono passati
da un tipo all’altro ed, infine, attori che, specie verso la fine del XVIII secolo, hanno impersonato
con uguale abilità più di un tipo. A spronare questi attori sulla via del perfezionamento molto
contribuì la critica, con i cosiddetti yakusha hyōban-ki (note critiche sugli attori), il primo dei quali
fu pubblicato nel 1656 col titolo di yakusha no uwasa (chiacchiere sugli attori), e che continuarono
ad uscire annualmente. Oltre a dare notizie biografiche sugli attori e la loro carriera, ne valutavano
la capacità, qualificandoli in base ad una graduatoria che, in un primo tempo, comprendeva cinque
indici di gradimento corrispondenti approssimativamente a: insuperabile, eccellente, ottimo, buono,
mediocre. In seguito si ebbero altre graduatorie, nelle quali il massimo livello fu quello di murui,
che può tradursi con il nostro “ineguagliabile”.
All’inizio del regime feudale, gli attori erano considerati dalle autorità quasi come una casta servile,
e vennero sottoposti ad ogni sorta di vessazioni (ordine di abitare in determinati quartieri, di limitare
quanto possibile i contatti con il resto della popolazione, di vestire attenendosi a particolari
disposizioni, e nei censimenti venivano catalogati con l’appellativo hiki, che significa capo di
bestiame). Probabilmente, furono queste restrizioni ad indurli ad unirsi sul piano artistico in un
nucleo compatto, con una conseguente collaborazione che portò all’introduzione di particolari
tecniche28 (mie, effetti drammatici), derivate dagli insegnamenti di Danjūrō I, che riguardavano le
espressioni del volto e dello sguardo, le movenze della persona o i gesti di mani e dita. Molte
tecniche del Kabuki, chiamate generalmente ito-ni-nori, avendo tratto origine dal teatro di
marionette, erano strettamente connesse al ritmo del samisen. Così, ad esempio, nel kudoki, una
tecnica tipica degli onnagata, le parole, i gesti, il pianto o il riso dell’attore sono seguiti, commentati
e quasi regolati dalla musica del samisen. Situazione che si presenta spesso nel Kabuki è il seppuku,
più noto come harakiri, il caratteristico suicidio dei samurai, riprodotto sulla scena fin nei minimi
dettagli.
Elementi importanti del Kabuki sono anche: le kazura (parrucche), i costumi (che a differenza del
Nō rappresentano una straordinaria varietà in quanto appartengono a tutte le epoche ed a tutte le
classi sociali), il trucco29 (che può andare dal semplice ritocco a stilizzazioni più complesse), il
ventaglio (che nel Kabuki ha la stessa importanza che nel Nō), i mobili e gli arredi, gli animali (tra i
quali primeggiano il cavallo –rappresentato da una inscalettatura sorretta da due attori-, il cinghiale
ed il leone).
Tratto caratteristico del Kabuki è la stesura dei copioni, che nascevano esclusivamente all’interno
del teatro, nel quale esisteva una stanza riservata agli autori, detta sakusha beya. Qui, il
drammaturgo, detto tate-sakusha, compilava il suo lavoro con la scorta di due aspiranti
drammaturghi, e di un certo numero di assistenti adibiti ai lavori di ricerca, copiatura di parti
eccetera. La stesura dell’atto principale dell’opera era, di regola, effettuata dal tate-sakusha, mentre
quella degli altri atti era affidata agli aiutanti, che dovevano seguire le sue indicazioni. Il lavoro di
stesura era costantemente seguito dagli attori, che davano consigli o suggerivano mutamenti. A
lavoro ultimato, se ne faceva una prima lettura completa alla presenza degli attori che potevano
ancora dare dei suggerimenti. Si aveva poi la lettura definitiva, dopo la quale venivano distribuite le
parti degli attori ed impartite tutte le istruzioni necessarie al personale del teatro.
Alcuni esempi delle nuove tecniche introdotte possono essere il roppō, cioè la forza che difende il debole e la giustizia (di questa
tecnica fa parte il tachi mawari, il duello con la satana, spada dei samurai), oppure il dammi, pantomima tra le più pittoresche, alla
quale prendevano parte anche cinquanta attori, accompagnati dalla musica del samisen.
29
Il trucco dell’attore è lungo e complicato. Al contrario che nel Nō, gli attori del Kabuki portano raramente la maschera, recitando a
viso nudo, e ciò implica assai maggiori accorgimenti che per gli attori del Nō. Il volto dell’attore è fortemente tinto di bianco (la pelle
giallastra dei nipponici avrebbe uno scarso rilievo sulla scena senza un accurato maquillage) e la truccatura giunge fino a metà petto,
soprattutto nel caso in cui l’attore interpreti una parte femminile. Esistono regole minuziose per accentuare le sopracciglia, le labbra,
il naso o la bocca. Il “delinquente” userà una tinta oscura per le labbra, e per i ruoli più truci dei segni blu o rossi accentueranno le
linee del volto, e talora anche della braccia e delle gambe, mentre un rosa pallido sarà adatto al ruolo di vago adolescente. Un
accentuato segno di fondo tinta intorno agli occhi caratterizzerà di volta in volta il “traditore”, il “pensieroso”, il “libidinoso”.
Sopracciglia ampiamente marcate denunceranno un volto esprimente crudeltà o dolore. Il naso (assai piccolo nei tratti somatici
nipponici) viene sempre ingrandito col trucco, e così la bocca, e non di rado anche la superficie del volto. Le guance vengono spesso
gonfiate con della lana o con delle piccole palle di caucciù poste all’interno, ai lati della bocca.
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Palcoscenico e locale
Nei primissimi tempi della sua esistenza, il Kabuki veniva rappresentato all’aperto, su un
palcoscenico più o meno uguale a quello del Nō. Gli spettatori sedevano per terra (da cui deriva il
nome shibai, dato al teatro, che letteralmente significa sedere per terra), su dei cuscini, all’interno di
una palizzata di bambù. Ben presto, all’interno della palizzata comparve un alto baldacchino
quadrangolare, chiamato yagura, la cui balaustra era fasciata da un drappo che riproduceva lo
stemma di famiglia del proprietario.
Al mattino, dalla yagura si annunciava l’inizio dello spettacolo, che durava fino a notte avanzata.
Nei giorni di pioggia non c’erano rappresentazioni, ma col tempo venne coperta con una tettoia
anche la parte riservata al pubblico. Ben presto, la classe militare cominciò a prendere interesse per
questo tipo di spettacolo, ma essendole vietato mostrarsi in pubblico, vennero costruite ai lati della
platea due gallerie, dette sajiki, riparate da stuoie, dietro le quali i samurai potevano seguire lo
spettacolo senza essere visti. Si ha notizia di queste gallerie fin dal 1651.
Attorno ai locali del teatro vero e proprio, sorsero e prosperarono un’infinità di chaya
(letteralmente, case da thé) nelle quali gli spettatori potevano andare a rifocillarsi durante gli
intervalli o dalle quali potevano farsi portare cibi o rinfreschi all’interno della sala.
Il locale subì molte trasformazioni nel corso del XVIII secolo, soprattutto nei riguardi del
palcoscenico che era fino, ad allora, quadrato e coperto da un tetto, a sua volta sorretto da quattro
pilastri. In seguito, per primi, scomparvero i due pilastri posteriori e nel 1757 anche quelli anteriori.
Il tetto rimase come elemento decorativo, fissato solo alla parete terminale. L’orchestra, prima
situata sul fondo, come quella del Nō, fu spostata sulla sinistra. Il palcoscenico venne sempre più
allargato e nel 1764 comparvero i due sipari: lo hiki maku, che scorreva lateralmente fra un atto e
l’altro, ed il kiri otoshi, esterno, che si alzava dal basso verso l’alto all’inizio della rappresentazione,
e veniva calato alla fine. Una delle più straordinarie innovazioni, sulla cui origine non si sa nulla di
preciso, ma che nei teatri di Edo apparve già nel 1668, fu l’hanamichi (letteralmente, strada fiorita),
una passerella larga circa 1,5m che, partendo dall’angolo sinistro del palcoscenico e, estendendosi
lungo lo spazio dedicato agli spettatori, raggiungeva la parete opposta ed immetteva in una piccola
stanza. L’hanamichi pose l’attore a più stretto contatto con il pubblico, permise effetti speciali, dette
al teatro giapponese un’impronta particolare. Apparvero poi, sul palco e sull’hanamichi, speciali
trabocchetti, che permettevano all’attore di apparire o scomparire, ed infine, nel 1758, venne
introdotto il mawari butai, il palcoscenico girevole30. Le decorazioni della sala, ispirate alle quattro
stagioni, non erano mai sfarzose, ma sempre di estremo buon gusto, mentre l’orchestra era
composta normalmente da due samisen, due taiko, due tsuzumi, un flauto e due gong. Il coro,
infine, era diviso in due gruppi: uwa-jōshi (tenori) e shita-jōshi (bassi), che non cantavano mai
insieme.
Dalla restaurazione a oggi
Col ripristino dell’autorità nelle mani dell’imperatore, e col trasferimento della capitale a Tokyo, il
Giappone fu pervaso da fremiti di rinnovamento e si volse all’acquisizione ed all’assimilazione
della cultura occidentale. L’esigenza di rinnovamento investì anche il teatro, praticamente
rappresentato, in quel periodo, solo dal Kabuki, che aveva gradualmente soppiantato il jōruri,
mentre il Nō rimaneva legato al carattere tradizionale e non poteva affrancarsi dalla forma
convenzionale che aveva assunto.
Negli anni immediatamente successivi alla restaurazione, un nobile imprenditore, Morita Kanya XII
(1846-1897), proprietario di uno dei tre grandi teatri della vecchia Edo, chiamato Morita-za, cerò di
dare impulso al Kabuki ed aprì, nel 1889, un nuovo locale, di tipo occidentale, in uno dei quartieri
più eleganti della città, dandogli il nome di Shintomi-za. Tuttavia, il locale non ebbe fortuna in
quanto i tempi non erano maturi per accogliere innovazioni radicali. La fondazione del Kabuki-za,
Talvolta, l’hanamichi viene trasformato in ruscello, ad imitazione di un canale allungato nel quale scorre autentica acqua che si
riversa in una piattaforma circolare, dove un attore che rappresenta un pesce si tuffa e nuota.
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ancora oggi il principale teatro di Kabuki, portò Morita al fallimento, ma a lui si devono i primi
sforzi per l’elevazione sociale degli attori, fino ad allora chiamati kawara no mono (gente del gretto
dei fiumi) o kawara no kojiki (mendicanti del gretto)31, e tenuti a vile dalle classi elevate.
Un altro tentativo di rinnovamento del Kabuki è legato all’attività di un gruppo di intellettuali, con a
capo Yoda Gakkai (1833-1904) e Fukuchi Ochi (1841-1906), i quali tentarono una riforma del
jidai-mono, il dramma storico. Con la collaborazione di un grande attore, Ichikawa Danjūrō IX
(1838-1903), e del famoso Kawatake Mokuami, sorsero il katsureki-geki (letteralmente, teatro della
storia vivente) e lo zangiri-mono (letteralmente, dramma dei capelli corti). Nel primo, si tentava di
eliminare il formalismo del dramma storico, facendolo aderire alla realtà storica; nel secondo, si
cercava di adattare a nuovi tempi l’antico sewa-mono (dramma d’attualità). Per questi nuovi tipi di
Kabuki compose alcuni drammi lo stesso Ichikawa Danjūrō IX, che nel 1887 ebbe l’onore di tenere
una rappresentazione presso la corte imperiale, al cospetto dell’Imperatore Mitsuhito. Tale
rappresentazione valse un riconoscimento ufficiale al teatro ed alla nuova condizione sociale degli
attori.
Nel 1886 venne fondata l’Engeki-kai Ryokai (associazione per il rinnovamento del teatro), col
programma di rinnovare il Kabuki sviluppandone la parte dialogata ed isolandone l’elemento
musicale. L’associazione che rivendicava anche l’elevazione professionale e sociale degli scrittori
di teatro, ebbe brevissima durata (due anni).
Nel frattempo l’occidentalizzazione del Giappone faceva grandi passi avanti: sempre più si
avvertiva la necessità di riforme in ogni campo e la politica penetrava dappertutto. Il teatro non
poteva rimanerne immune e nacque così lo shimpa o shimpageki, teatro della nuova scuola, i cui
inizi sono legati all’attività di Sudō Sadanori (1867-1907), membro del partito liberale di Osaka,
che nell’impossibilità di tenere pubblici discorsi in favore delle libertà politiche, date le restrizioni
vigenti, volle propagandare le proprie idee per mezzo del teatro. Egli adattò per le scene un suo
romanzo, Gōtan no shosei (Gli intrepidi studenti), e lo fece rappresentare insieme ad un altro
dramma nel 1888 al Takashima-za di Osaka, col titolo Tainin no shosei teisō no kajin (studenti
perseveranti e caste bellezze).
Nel 1899 Kawakami e sua moglie Sada Yacco, insieme a 18 attori, partirono per una tournée
all’estero, in America e in Europa, dove ottennero discreti successi, e studiarono opere e tecniche di
drammaturgia occidentale. Tornati in Giappone, si dedicarono alla rappresentazione di adattamenti
di drammi occidentali, soprattutto shakespeariani, come l’Hon’an Osero (Othello), Yami to Hikari
(Luce e Tenebre, dal King Lear), Shiizaru kidan (dal Julius Caesar) e Hamuretto (Hamlet). Dopo la
morte di Kawakami, la sua opera fu continuata da Sada Yacco, che divenne pioniera del nuovo
teatro giapponese e contribuì alla diffusione delle opere occidentali nel Paese. Lo shimpa, che ha al
suo attivo lo studio e la rappresentazione dei lavori di Shakespeare, dai quali vennero attinti stimoli
e suggestioni di grande portata, conobbe la sua epoca d’oro dalla guerra russo-giapponese fino al
1910 circa.
Lo scoppio della guerra nel Pacifico disperse le varie forze operanti della vita culturale del
Giappone. Dopo la disfatta, la ripresa dell’attività teatrale fu lenta e difficile. Abolita la censura e
ritirate le nuove misure repressive contro gli attori e i produttori, colpiti dai provvedimenti del
precedente governo, nel dicembre del 1945 una troupe mista di attori riuscì ad organizzare la
rappresentazione del Giardino dei ciliegi di Čecov al teatro Yuraku di Tokyo. Ha così inizio la
ricostituzione dei gruppi e delle attività. Rinascono lo shinkyo (nuovo teatro di collaborazione), il
Bugaku-za (teatro letterario) ed il Geijutsu-za (teatro d’arte). Nel maggio del 1949 aprì a Tokyo,
sotto gli auspici della Civil Information And Education Section (CIE) e del Supreme Commander
For The Allied Power (SCAP), il Piccadilly Experimental Theatre, che inaugurò le rappresentazioni
con Le mariage de Figaro di Beaumarchais, replicato circa cinquanta volte.
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Questo appellativo era dovuto al fatto che nella città di Kyoto fossero costretti a recitare sul letto asciutto del fiume della città, alle
soglie dei villaggi, nei quali era loro vietato l’ingresso. Le persecuzioni del governo shōgunale nei confronti del Kabuki avevano una
ragione politica, oltre che morale: nel Kabuki spirava vento di fronda contro ogni forma di imperialismo ideologico. Addirittura,
quando intorno al 1714 un celebre attore sedusse la dama di corte al seguito dello shōgun di Kyoto, scoppiò uno scandalo di
proporzioni tali da causare la chiusura dei teatri e l’esilio di molti attori.
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Bibliografia
Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, Le maschere, 1958, voll. 3, 5.
Kawatake Toshio, Kabuki : baroque fusion of the arts, translated by Frank & Jean Connell Hoff,
Tokyo, International house of Japan, 2003.
N. Savarese, Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente, Roma, Laterza, 2006.
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