La storia dell`evoluzione dell`uomo così come quella degli altri

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La storia dell'evoluzione dell'uomo così come quella
degli altri mammiferi, incomincia con il declino dei
grandi rettili che avevano dominato ogni angolo della
terra fino a quel momento. Il sistema circolatorio
sanguigno dei mammiferi, riusciva a tenere la
temperatura del corpo più stabile sia di giorno
che di notte a differenza dei rettili
Il problema dell'origine e della struttura
dell'universo è stato affrontato per millenni
da mitologie, religioni e sistemi filosofici
delle diverse civiltà umane, ma soltanto nel
XX secolo è divenuto oggetto di indagine
scientifica
L'idea che l'uomo non sia sempre stato quello che
vediamo oggi e che non sia sfuggito a quel processo di
evoluzione che apparenta le diverse forme viventi è
largamente diffusa da quando Buffon, Lamarck, Darwin e
altri ancora hanno suggerito la teoria della evoluzione
biologica
gli studi sulla evoluzione umana
La paleoantropologia mette anche in evidenza, oltre ai resti scheletrici, le tracce lasciate dall'uomo nella sua
attività e nella sua vita, cioè i segni della cultura che presentano uno sviluppo nel tempo. Il suo rapporto con la
natura e la organizzazione della sua vita cambiano, si modificano nel tempo, nel senso che l'uomo si dimostra
sempre più in grado di padroneggiare l'ambiente con il quale ha sempre dovuto competere, come ogni altra specie,
ma in questa competizione ha potuto ricorrere non soltanto a vantaggi biologicamente possibili, ma agli
accorgimenti della cultura.
1
Nell'evoluzione umana si riconoscono concordemente una fase preumana, preparatoria, e diverse
fasi successive alla comparsa dell'uomo attraverso le quali si giunge all'umanità attuale
La fase preparatoria è rappresentata dagli Australopiteci.
Essa non segue uno sviluppo lineare, ma è caratterizzata da diverse linee, fra le quali una
potrebbe avere portato alle prime forme umane o potrebbe essere connessa a un antenato
comune a quella umana.
La fase australopitecina è caratterizzata da Primati che avevano una capacità cranica
nell'ordine delle Antropomorfe attuali, ma possedevano una struttura idonea al bipedismo,
anche se ancora imperfetto, specialmente nelle forme più antiche. Questa struttura,
certamente vantaggiosa in un ambiente aperto come quello che si formò nell'Africa orientale
nel Miocene superiore e all'inizio del Pliocene, ha rappresentato il primo passo verso
l'ominizzazione. L'avvicinamento alla forma umana, oltre che dalla struttura bipede, è
documentato dalla dentatura (assenza di diastema, riduzione dei canini) certamente in
correlazione con una dieta diversa da quella forestale delle Antropomorfe.
.
2
È la fase di Homo habilis
la statura intorno a 140-150 cm. la
denominazione di Homo habilis è motivata
da un certo sviluppo della capacità cranica e
dal fatto che insieme con i reperti sono stati
trovati ciottoli lavorati, scheggiati lungo un
margine di una o di entrambe le facce Ci
troviamo di fronte alla più antica lavorazione
della pietra. Essa viene ritenuta intenzionale,
espressione di un livello intellettivo che,
secondo molti studiosi, corrisponde a quello
dell'uomo. Inoltre con Homo habilis è
attestata anche l'organizzazione del
territorio: vengono identificate aree che
corrispondono a capanne costruite e
frequentate dall'uomo a scopo di abitazione
o di lavorazione della selce e alla spartizione
del cibo.
Un altro elemento di sicuro interesse è un
certo sviluppo delle aree cerebrali del
linguaggio articolato (area del Broca, per i
muscoli della fonazione, e area del
Wernicke, per la comprensione del
linguaggio)
Le fasi che vengono identificate
per il genere Homo sono le
seguenti: Homo habilis, Homo
erectus, Homo sapiens
In sostanziale continuità con Homo habilis va
vista la fase di Homo erectus,
Il cranio di Homo erectus ha tratti anche più
massicci e robusti rispetto a Homo habilis
Inoltre è accompagnato da manifestazioni
culturali più progredite (industrie bifacciali, oltre
a quelle su ciottolo, industrie su scheggia e, in
fase più avanzata, manufatti di lavorazione
Levallois). La cultura di Homo erectus denota un
sicuro livello umano. Le industrie litiche, sia
quelle bifacciali che su scheggia, attestano una
lavorazione intenzionale secondo un preciso
progetto Con Homo erectus si ha anche la
domesticazione del fuoco
L'economia, come in tutto il Paleolitico, si basa
sulla caccia e sulla raccolta. La caccia ai grandi
mammiferi doveva richiedere un'adeguata
organizzazione (luoghi di monitoraggio, campi
base).
Il passaggio delle forme
di erectus a quelle di
Homo sapiens non fu
netto, ma graduale La
cultura della forma
sapiens si presenta assai
evoluta sia nelle industrie
su pietra e anche su osso
(specialmente nel
Paleolitico superiore,
queste ultime), sia nelle
raffigurazioni dell'arte
parietale e mobiliare, sia
nelle pratiche funerarie di
cui le più antiche
inumazioni
3
L’uomo , si distingue dalle altre specie soprattutto per le capacità cognitive e il modo di pensare. Ciò gli ha
permesso all'uomo di dominare il pianeta.
Alcuni ricercatori dell'Università del Missouri hanno scoperto che lo sviluppo di un grande cervello sarebbe dovuto
alla capacità di risolvere i problemi sociali.
Gli antropologi Mark Flinn e Carol Ward e lo psicologo David Geary hanno integrato questa nuova teoria
sull'evoluzione dell'intelligenza umana con i recenti sviluppi nei campi della paleoantropologia, della psicologia
cognitiva e della neurobiologia. Analizzando alcuni fossili per determinare la dimensione del cervello, del corpo ed
eventuali indizi archeologici del comportamento, i ricercatori hanno trovato le prove a sostegno della teoria
proposta dal zoologo Richard Alexander, secondo il quale gli esseri umani hanno sviluppato un grande cervello per
negoziare e gestire complesse relazioni sociali. Gli scienziati hanno anche confrontato le nostre capacità mentali
con quelle delle scimmie. "La maggior parte delle teorie tradizionali, compresa quella di Charles Darwin - sostiene
Flinn - suggeriscono che a favorire l'evoluzione di un grande cervello sia stata una combinazione dell'uso di utensili
e della caccia, ma il fatto che anche altre specie, come gli scimpanzé, usino strumenti e caccino dimostra che i
nostri antenati non erano unici da questo punto di vista. La caratteristica più eccezionale dell'uomo, invece,
riguarda la comprensione del pensiero altrui grazie a capacità quali l'empatia o l'autocoscienza".
Le aree cerebrali del linguaggio.
Il linguaggio
Possiamo intendere il "linguaggio" come un sistema di
segni (tanto parole che ideogrammi) usati in modi regolari
di combinazione, secondo regole convenzionalmente
stabilite, allo scopo di comunicare. Esso, dunque,
permette almeno 2 importanti funzioni: quella
"comunicativa", grazie alla quale siamo anche in grado di
trasmettere idee e conoscenze, e quella "simbolica e di
astrazione".
Per un corretto comportamento verbale, solo un emisfero del
cervello, di solito il sinistro, sembra essere indispensabile (che poi
questo emisfero controlli, oltre che il linguaggio, anche la mano
dominante, ha portato qualcuno a considerarlo l’ "emisfero
dominante"). Più specificamente, 2 sono le aree corticali interessate:
a quella della terza circonvoluzione frontale (secondo il
Broca, 1861): lesioni in quest’area tendono a dar luogo a
deficit nella produzione del linguaggio ("afasia espressiva");
b quella temporale-parietale posteriore (secondo il Wernicke, 4
1874): lesioni in quest’area tendono a dar luogo a difficoltà
nella comprensione ("afasia ricettiva").
Il linguaggio è un sistema di simboli in accordo alle regole della grammatica per poter comunicare.
I vari linguaggi usano suoni, combinazioni degli stessi e altri simboli per rappresentare oggetti, concetti, emozioni, idee e
pensieri.
La capacità di linguaggio si è sviluppata nell'uomo a seguito di mutamenti strutturali della cavità orale. In particolare
l'arretramento dell'ugola ha reso l'essere umano capace di esprimere suoni un’attività caratterizzante della specie umana, ma mentre,
riguardo agli animali in genere, i comportamenti utilizzati per la comunicazione sono innati, la specie umana – pur avendo una disposizione genetica a parlare deve però acquisire durante lo sviluppo tale capacità Il linguaggio utilizza un dizionario di simboli memorizzati (le parole), un insieme di regole organizzate in
sottosistemi (la grammatica), e una sintassi con cui le parole sono unite in strutture più complesse, le frasi. Esso, dunque, ha un’organizzazione grammaticale e
sintattica ("struttura superficiale"), corrispondente a quanto diciamo e udiamo, che porta appunto in superficie il significato dei nostri pensieri ("struttura
profonda").
La psicolinguistica: produrre e comprendere.
La linguistica.
La "linguistica" è la disciplina che si occupa dello studio della lingua come sistema (ovvero, delle
sue regole), a prescindere da chi la usa e dal modo in cui viene usata.
E’ importante, a questo proposito, distinguere tra lingua e linguaggio: secondo la distinzione
canonica di De Saussure (1922), "langue" è – così - il codice, o insieme di convenzioni, in cui si
esprime una lingua, mentre la "parole" è l’atto dell’individuo che usa quel codice.
La linguistica generativa. Chomsky (1957), con la sua opera "Strutture sintattiche", fu fondatore di
questo indirizzo, chiamato "generativismo" nel senso che appunto si preoccupa di individuare le
regole linguistiche che permettano l’uso creativo, cioè la produzione sempre nuova di espressioni
della lingua da parte del parlante.
Secondo Chomsky, la linguistica è una disciplina empirica i cui dati sono i giudizi che i parlanti di
una lingua danno sulle frasi della stessa; scopo della linguistica deve quindi essere quello di spiegare
quali sono le regole, esplicite o implicite, che un parlante usa nel dare questi giudizi.
Funzionale a questa definizione è l’opportuna distinzione che il nostro autore introduce tra
"competenza" (che è il sistema di regole che, interiorizzato dal parlante, consente a quest’ultimo di
comprendere un numero infinito di frasi diverse) ed "esecuzione" (che comprende le manifestazioni
linguistiche reali del soggetto).
Il termine "psicolinguistica" indica il settore della
psicologia che studia la capacità di parlare e capire.
*La "produzione linguistica" prevede 5 fasi
fondamentali, delle quali le prime 4 riguardano la
pianificazione e solo l’ultima l’esecuzione:
la "comprensione", un procedimento complicato che
richiede, a sua volta, un’abilità di "acquisizione" (vd. "Il
ruolo del linguaggio nello sviluppo") e funzioni
percettive e di elaborazione dei simboli (fonemi,
morfemi, parole) e della loro sequenza, sia come
formazione di parole (comprensione del significato) sia
come formazione di frasi (comprensione della sintassi).
5
Il ruolo del linguaggio nello sviluppo.
Nello sviluppo mentale del bambino l’acquisizione del linguaggio ha un ruolo importante come organizzatore e trasformatore dell’informazione che egli sta
raccogliendo.
La comunicazione verbale si inserisce man mano in una dinamica di interazione intrapsichica (tra due persone, generalmente il piccolo e la madre) nella quale ha
avuto un ruolo fondamentale la comunicazione non verbale (sguardo, espressione del viso, movimenti della testa…).
Il bambino emette prima dei suoni (suoni che sono significativamente uguali in tutti i contesti linguistici: p, b, m, t a, e; ciò probabilmente è in relazione allo
sviluppo neurologico e muscolare del bambino in questo periodo); poi un balbettio, le prime sillabe ("ma-ma") intorno ai 6-10 mesi e le prime parole intorno ai
12-18 mesi. La grammatica comincia a manifestarsi dopo il 1° anno e si sviluppa fino all’età scolare (il "cosa facete?", facile da sentire da un bambino, sta a
testimoniare che il piccolo nel periodo dell’acquisizione non si limita a ripetere o imitare ciò che dicono gli adulti, bensì acquisisce regole grammaticali, di cui
non è ancora in grado di conoscere tutte le eccezioni).
In un primo stadio, il bambino usa frasi formate da due parole ("bimbo pappa": sono "olofrasi", cioè insiemi di parole mediante i quali si esprimono intere frasi),
poi a 2 anni ca comincia a usare pronomi articoli e forme rudimentali di verbi ("linguaggio telegrafico"). Gradualmente, il suo linguaggio diventa più ricco e si
raffina nelle forme grammaticali e sintattiche corrette. Il bambino possiede quindi un’attività di pensiero indipendente dall’attività linguistica; gradualmente (e
intorno ai 2 anni), le due attività si legano e interagiscono tra loro, senza perdere però le loro specifiche proprietà.
Piaget ha rivolto, inoltre, l’attenzione sui discorsi dei bambini dai 3 ai 7 anni, notando che il linguaggio ch’egli definisce "egocentrico" (ripetizioni ecolaliche o
giochi di suoni-parole, monologhi, monologhi collettivi, in cui il bambino coinvolge gli altri nell’azione, ma senza preoccuparsi di essre ascoltato o compreso)
cede progressivamente a quello "socializzato", anche se (secondo Vygotskij) non scompare del tutto.
La relazione tra pensiero e linguaggio diventa più problematica quando viene considerata nel contesto sociale in cui il bambino cresce. Ne è un esempio la
differenza di "vocabolari" tra i diversi parlanti: alcuni parlanti, infatti, hanno un vocabolario meno ricco e frasi sintatticamente meno complesse di altri.
Queste differenze nello stile di comunicazione sono state interpretate da alcuni psicologi, come l’inglese B. Bernstein, in relazione alla classe sociale di
appartenenza: i parlanti della classe bassa avrebbero un "codice ristretto" rispetto ai parlanti della classe media dotati di un "codice elaborato".
Altri psicologi, invece, ritengono che gli stili di comunicazione rilflettano modalità diverse di comunicare nei vari gruppi sociali (o all’interno di uno stesso
gruppo), piuttosto che carenze linguistiche di origine sociale: insomma, i contenuti del pensiero possono assumere forme linguistiche diverse in uno stesso
individuo in relazione al contesto sociale
6
Il ruolo del linguaggio nello sviluppo.
Nello sviluppo mentale del bambino l’acquisizione del linguaggio ha un ruolo importante come organizzatore e trasformatore
dell’informazione che egli sta raccogliendo.
La comunicazione verbale si inserisce man mano in una dinamica di interazione intrapsichica (tra due persone, generalmente il piccolo e
la madre) nella quale ha avuto un ruolo fondamentale la comunicazione non verbale (sguardo, espressione del viso, movimenti della
testa…).
Il bambino emette prima dei suoni (suoni che sono significativamente uguali in tutti i contesti linguistici: p, b, m, t a, e; ciò
probabilmente è in relazione allo sviluppo neurologico e muscolare del bambino in questo periodo); poi un balbettio, le prime sillabe
("ma-ma") intorno ai 6-10 mesi e le prime parole intorno ai 12-18 mesi. La grammatica comincia a manifestarsi dopo il 1° anno e si
sviluppa fino all’età scolare (il "cosa facete?", facile da sentire da un bambino, sta a testimoniare che il piccolo nel periodo
dell’acquisizione non si limita a ripetere o imitare ciò che dicono gli adulti, bensì acquisisce regole grammaticali, di cui non è ancora in
grado di conoscere tutte le eccezioni).
In un primo stadio, il bambino usa frasi formate da due parole ("bimbo pappa": sono "olofrasi", cioè insiemi di parole mediante i quali si
esprimono intere frasi), poi a 2 anni ca comincia a usare pronomi articoli e forme rudimentali di verbi ("linguaggio telegrafico").
Gradualmente, il suo linguaggio diventa più ricco e si raffina nelle forme grammaticali e sintattiche corrette. Il bambino possiede quindi
un’attività di pensiero indipendente dall’attività linguistica; gradualmente (e intorno ai 2 anni), le due attività si legano e interagiscono
tra loro, senza perdere però le loro specifiche proprietà.
Piaget ha rivolto, inoltre, l’attenzione sui discorsi dei bambini dai 3 ai 7 anni, notando che il linguaggio ch’egli definisce "egocentrico"
(ripetizioni ecolaliche o giochi di suoni-parole, monologhi, monologhi collettivi, in cui il bambino coinvolge gli altri nell’azione, ma senza
preoccuparsi di essre ascoltato o compreso) cede progressivamente a quello "socializzato", anche se (secondo Vygotskij) non scompare
del tutto.
La relazione tra pensiero e linguaggio diventa più problematica quando viene considerata nel contesto sociale in cui il bambino cresce.
Ne è un esempio la differenza di "vocabolari" tra i diversi parlanti: alcuni parlanti, infatti, hanno un vocabolario meno ricco e frasi
sintatticamente meno complesse di altri.
Queste differenze nello stile di comunicazione sono state interpretate da alcuni psicologi, come l’inglese B. Bernstein, in relazione alla
classe sociale di appartenenza: i parlanti della classe bassa avrebbero un "codice ristretto" rispetto ai parlanti della classe media dotati
di un "codice elaborato".
Altri psicologi, invece, ritengono che gli stili di comunicazione rilflettano modalità diverse di comunicare nei vari gruppi sociali (o
all’interno di uno stesso gruppo), piuttosto che carenze linguistiche di origine sociale: insomma, i contenuti del pensiero possono
assumere forme linguistiche diverse in uno stesso individuo in relazione al contesto sociale
7
[.
Rapporti fra pensiero e linguaggio.
Il linguaggio ha una stretta relazione con il pensiero, tanto che molti
psicologi si sono interessati alla possibilità e alle modalità dei loro
rapporti, discutendo quale delle due funzioni fosse preminente.
Il dibattito suscitò diverse ipotesi:
a Il pensiero è
linguaggio (ipotesi
comportamentistica),
ovvero è un
comportamento
verbale interiorizzato
o appena accennato.
Il linguaggio è
considerato come
attività motoria
appresa col
condizionamento
operante, oppure –
più specificamente –
costituisce un
apprendimento
semantico (Skinner,
1957). Il
comportamentismo
segue il nominalismo
empirico di Locke: i
concetti sono etichette
verbali attaccate a
insiemi di oggetti. Per
essi, infine, le prime
parole sarebbero
b Il linguaggio
determina il pensiero e
il comportamento
(ipotesi "forte" del
"determinismo
linguistico" di Whorf,
1956), e costituisce una
specie di stampo per i
processi logici e
percettivi: la lingua, con
le sue strutture,
determina la maniera di
pensare e di percepire il
mondo ("relativismo
linguistico").
Esiste anche una
versione "debole" del
"determinismo
linguistico": il
linguaggio orienta il
pensiero ad esercitare il
suo potere astrattivo.
c Il linguaggio dipende dal pensiero
(cognitivismo di Piaget), cioè non è
altro che un sottosistema all’interno
di una più generale capacità
cognitiva, la "capacità simbolica".
Entrambi, poi, dipendono
dall’intelligenza stessa, che è
anteriore al linguaggio ed
indipendente da esso.
8
d Linguaggio e pensiero sono in origine indipendenti, cioè hanno
sequenze evolutive autonome, ma poi si integrano in un processo di
reciproco influenzamento e potenziamento (ipotesi della psicologia
sovietica: Vygotskij, 1962): il linguaggio è sociale, acquista una
funzione regolatrice del pensiero, che diventa così una costruzione
sociale; interiorizzandosi, diventa individuale (e lo stesso sociale
diventa individuale). "Il pensiero - secondo Vygotskij – non è
semplicemente espresso in parole; esso viene ad esistere attraverso
di esse".
e:
1 Il linguaggio è un processo cognitivo, cioè è
pensiero (ipotesi di Bruner 1966, degli
psicolinguisti, dei semanticisti): ciò non vuol
dire che dipende dal pensiero, né che il
pensiero sia linguaggio, bensì che il linguaggio
è pensiero oggettivato verbalmente; il
linguaggio e il pensiero possono essere
differenziati solo funzionalmente: la
comunicazione, insomma, non è una funzione
essenziale del pensiero.
2 Linguaggio e pensiero sono costruiti
socialmente, cioè nella comunicazione (ipotesi
di Schaffer, 1977, realizzata attraverso gli studi
delle interazioni madre-bambino: è la madre
che insegna al bambino un uso "intenzionale"
del linguaggio).
9
Cultura
Un presupposto esplicito dell'Antropologia e delle scienze sociali contemporanee è stato, fino ad un paio di decenni fa,
la connessione cultura - apprendimento - linguaggio; ed è proprio attraverso la messa in questione di questa
connessione che si realizza, o meglio che si manifesta una tendenza a spostare ancora più, diciamo, "in basso", ma
qui forse il termine "in basso" non è particolarmente felice, ma non ne trovo un altro migliore, il limite della cultura.
Intanto abbiamo visto che nell'antropologia contemporanea la cultura viene interpretata come una eredità differente,
eterogenea rispetto all'eredità biologica: l'eredità biologica viene trasmessa geneticamente e la cultura si apprende.
Ora, noi sappiamo che in realtà l'apprendimento non è un'alternativa netta alla trasmissione per via genetica; intanto
lo stesso apprendimento ha delle condizioni genetiche molto precise, ma tra l'uno e l'altro tipo di trasmissione vi sono
dei momenti di passaggio, delle fasi intermedie: tutto l'"imprinting" che si realizza in fase neonatale non è
trasmissione per via genetica, ma non è neppure apprendimento; in secondo luogo soprattutto, quello che è entrato
in crisi, che oggi non è più accettabile, è la tesi dell'esclusività umana del linguaggio. Noi sappiamo, pensiamo agli
studi di Lorenz, di von Fritz, di Heibel Heibelsfeld, al grande sviluppo che negli ultimi decenni ha avuto l'etologia, non
che gli animali parlano, ma che certamente parecchie specie animali sono capaci di un linguaggio. Questo linguaggio
naturalmente non è necessariamente un linguaggio fonico, è un linguaggio fonico in certe specie di mammiferi, le api
comunicano fra di loro attraverso la danza, una danza che poi segue delle regole molto precise. Ebbene, se l'ambito
della cultura è coestensivo con l'ambito del linguaggio, allora noi dobbiamo ammettere che anche nel mondo animale
esistono delle forme di cultura. Cosicché abbiamo una fase ulteriore della vicenda: il concetto di cultura era servito
nell'Ottocento a recuperare la distanza tra i popoli pervenuti allo stato di civiltà, vale a dire tra i popoli letterati, e i
popoli primitivi, oggi probabilmente il concetto di cultura può servire a recuperare la distanza tra il mondo umano ed
il mondo animale o di certe specie animali. Del resto noi sappiamo ormai che l'evoluzione culturale e l'evoluzione
biologica non sono momenti distinti e successivi di uno stesso processo. L'evoluzione culturale influisce su quella
biologica oltre ad esserne condizionata, si tratta appunto di due processi che in qualche modo interferiscono; questa
interferenza, probabilmente, ancorché per vie diverse, con modalità diverse, si ha anche presso altre specie, specie
animali. Ecco quindi che, quella che in origine era la "cultura dell'animo", diventa invece un fenomeno esso stesso
inscrivibile in un processo evolutivo, che certamente nell'uomo ha assunto modalità specifiche, ma che non possiamo
più considerare esclusivamente umano. , la specializzazione delle mani, in cui gli arti superiori si organizzarono come
gli organi del lavoro. Entrambi queste modifiche, furono responsabili di un'ulteriore serie di cambiamenti
nell'organismo umano, (ad es. lo sviluppo delle corde vocali), che costituirono la base per un ulteriore salto
organizzativo dell'umanità, l'ultimo in termini evolutivi, in cui si realizzarono le prime forme di organizzazione sociale
e lo sviluppo del linguaggio.
10
Articolo originale
La nozione di cultura appartiene alla storia occidentale. Si possono distinguere due concezioni fondamentalmente
diverse:


Una concezione umanistica o classica presenta la cultura come la formazione individuale, un’attività che
consente di “coltivare” l’animo umano (deriva infatti dal verbo latino colere).
Una concezione antropologica o moderna presenta la cultura come il variegato insieme dei costumi, delle
credenze, degli atteggiamenti, dei valori, degli ideali e delle abitudini delle diverse popolazioni o società del
mondo. Concerne sia l’ individuo sia le collettività di cui egli fa parte.
Alcuni usi tipici del termine nella vita quotidiana possono essere utili ad indicare l' estensione semantica del concetto:







”Ci sono enormi differenze culturali tra Oriente e Occidente”.
” Umberto Eco è una persona di grande cultura”.
”La musica pop è usata dai gruppi giovanili per affermare la loro identità culturale”.
”La cultura di massa ha un effetto di omologazione”.
”Le telenovela sono espressione della cultura sudamericana”.
”La cucina italiana è parte della tradizione culturale del nostro Paese”.
”Il dialogo tra le culture è necessario, ma difficile”.
Esistono quindi diversi significati del concetto di cultura:


Secondo una concezione classica la cultura consiste nel processo di sviluppo e mobilitazione delle facoltà
umane che è facilitato dall’assimilazione del lavoro di autori e artisti importanti e legato al carattere di
progresso dell’ età moderna.
Secondo una concezione antropologica la cultura - o meglio la civiltà - presa nel suo più ampio significato
etnografico è “quell'insieme complesso che include il sapere, le credenze, l’ arte, la morale, il diritto, il costume,
11
e ogni altra competenza e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società” secondo la nota
definizione dell’antropologo inglese Edward Tylor (da Cultura primitiva, 1871).
In antropologia
La cultura in senso antropologico consiste in:



Sistemi di norme e di credenze esplicite, elaborati in modi più o meno formalizzati.
Costumi e abitudini acquisite da esseri umani per il semplice fatto di vivere in determinate comunità, comprese
quindi le azioni ordinarie della vita quotidiana.
Artefatti delle attività umane, dalle opere d’arte vere e proprie agli oggetti di uso quotidiano e tutto quanto fa
riferimento alla cultura materiale, al sapere necessario per vivere.
Le caratteristiche che definiscono la cultura nella concezione descrittiva dell’antropologia sono principalmente tre:



La cultura è appresa e non è riducibile alla dimensione biologica dell'uomo. Ad ex. il colore della pelle non è un
tratto culturale bensì una caratteristica genetica.
La cultura rappresenta la totalità dell' ambiente sociale e fisico che è opera dell'uomo.
La cultura è condivisa all'interno di un gruppo o di una società. Essa è distribuita in maniera omogenea
all'interno di tali gruppi o società.
Perché un' azione o un tratto possano essere definiti "culturali" occorre quindi che siano condivisi da un gruppo. Ciò
però non significa che un fenomeno "culturale" debba essere obbligatoriamente condiviso dalla totalità della
popolazione: è necessario lasciare spazio per la normale variabilità individuale.
Anche per quanto riguarda le variazioni di comportamento tra individuo ed individuo all'interno di una società, però, è
possibile individuarne dei limiti circoscritti proprio dalle norme sociali che regolano quel determinato gruppo.
Frequentemente gli individui appartenenti ad una determinata cultura non percepiscono la loro condotta regolata da
tali norme che impongono quale comportamento sia consentito e quale no.
12
In antropologia l'insieme di queste norme sociali (comunemente chiamate "ideali") vengono definite modelli culturali
ideali.
In sociologia
Influenzata dagli studi dell’ antropologia culturale, la sociologia si dedica con particolare attenzione allo studio della
cultura.
Il contributo di Émile Durkheim
Émile Durkheim, ponendosi il problema del perché la società stia insieme, ritiene che ogni società si stabilisce e
permane solo se si costituisce come comunità simbolica. Nel suo studio, e in quello dei suoi allievi, hanno una grande
importanza le rappresentazioni collettive, cioè insiemi di norme e credenze condivise da un gruppo sociale, sentite
dagli individui come obbligatorie. Esse sono considerate da Durkheim vere e proprie istituzioni sociali che
costituiscono il cemento della società, consentono la comunicazione tra i suoi membri e mutano con il cambiamento
sociale.
Il contributo della scuola di Chicago
Gli autori legati alla Scuola di Chicago sono interessati alla vita culturale nelle città americane e studiano i nuovi
processi di integrazione, di comunicazione e mobilità sociale delle realtà urbane.Il sociologo William Thomas studia gli
immigrati nelle società statunitensi e ritiene che le differenze di integrazione siano legate alla cultura e che la cultura
abbia un carattere interattivo e processuale.
Il contributo di Talcott Parsons
Dopo anni di scarso interesse da parte dei sociologi, Talcott Parsons riprende il tema della cultura e la considera
come uno dei sottosistemi del suo sistema generale dell'azione (lo schema AGIL).Parsons afferma che la cultura è
costituita da sistemi strutturali o ordinati di simboli (che sono gli oggetti dell'orientamento all' azione), da componenti
interiorizzate della personalità degli individui e da modelli istituzionalizzati dei sistemi sociali (Sistema sociale, 1951).
Parsons distingue quattro dimensioni idealtipiche principali della cultura:
13




Coerenza/incoerenza. Le proposizioni culturali costituiscono un insieme in cui sono individuabili dei principi
ordinatori e non un agglomerato di elementi tra loro sconnessi. Il grado interno di coerenza è tuttavia variabile.
Il conflitto (fra gruppi, nel gruppo e/o nell'individuo) per esempio può non essere fattore di disgregazione, ma
di ordine. Maggiore è la complessità culturale, più difficile è mantenere conformità e coerenza.
Pubblico/privato. La cultura è pubblica nel senso che le proposizioni da cui è costituita sono codificate entro
simboli e linguaggi collettivi all'interno di gruppi sociali e accessibili da tutti.
Oggettività/soggettività. La cultura è un fatto oggettivo, nel senso che va al di là degli individui per occupare
uno spazio e una rilevanza sociale autonoma. Esiste infatti un lato soggettivo della cultura, costituito dalle
interpretazioni che di questa danno gli individui
Esplicito/implicito. La cultura può essere manifesta, esplicitata, più o meno elaborata teoricamente, o può
essere tacita, non tematizzata. In questo caso gli individui la condividono senza saperla necessariamente
giustificare (il senso comune).
Oltre a queste dimensioni analitiche, si distinguono quattro componenti della cultura: valori, norme, concetti e
simboli.
Il termine "civiltà" deriva ovviamente dal latino "civilitas", che poi è un termine che si introduce nel latino abbastanza
tardi, nel primo secolo dopo Cristo, come traduzione del termine greco "politeia" e indica in sostanza l'appartenenza
alla "civitas", l'appartenenza alla struttura politica della città e anche ai modi di vita che sono propri della città, i modi
di vita urbani in contrapposizione ai modi di vita della popolazione rurale. Invece il termine "cultura" ha alla sua base
una metafora di tipo agricolo, viene in origine usato in connessione con un aggettivo di specificazione come "cultura
animi": l'anima, la personalità dell'uomo, richiede di essere coltivata analogamente alla terra da parte
dell'agricoltura; quindi la cultura indica un processo di coltivazione dell'uomo attraverso tutta una serie di
procedimenti e di processi di apprendimento. Le storie di questi due termini poi ad un certo momento si incontrano e
anche si scontrano nel pensiero tedesco tra fine Settecento e inizi Ottocento. La civiltà è un insieme di modi di vita
che hanno la loro radice nella natura sensibile dell'uomo e quindi la civiltà è propria delle masse, del popolo non
educato, mentre la cultura è legata alle facoltà superiori dell'uomo, alla sua natura razionale e morale, e quindi alla
cultura può accedere in fondo soltanto una élite, una élite sociale o meglio una élite di tipo intellettuale. Ecco, a
partire da allora noi abbiamo una contrapposizione tra il termine "civiltà" ed il termine "cultura", che in qualche modo
riproduce una grande spaccatura culturale all'interno dell'Europa. Nel mondo francese e nel mondo anglosassone il
14
termine che viene usato in senso positivo per indicare le caratteristiche dell'umanità giunta al grado più alto del suo
perfezionamento, è "civiltà"; nel mondo tedesco invece è il termine "cultura".
2
Qual'è questa idea, che oggi noi chiamiamo l'idea di "civiltà"? É l'idea di uno stato di vita di un popolo o dell'umanità
nel suo complesso, a cui l'umanità o un determinato popolo è pervenuta attraverso un lungo cammino, attraversando
due fasi precedenti e distaccandosi appunto da queste due fasi precedenti. Queste due fasi precedenti sono lo stato
selvaggio e la barbarie. Alla base di questo schema tricotomico, di questo schema a tre momenti, vi è la
trasformazione di una contrapposizione che già noi troviamo per esempio nel mondo greco, la contrapposizione fra i
greci e i barbari, tra i greci organizzati politicamente e in forma appunto di "poleis", e i barbari che sono invece
sudditi di grandi imperi, dei grandi imperi asiatici del vicino Oriente. Ebbene questo schema a due termini si
arricchisce di un nuovo momento, anteriore ai barbari, nel momento in cui avviene la scoperta dell'America: al di là di
molti processi di idealizzazione, che pure sono stati tentati, del selvaggio americano, tuttavia la cultura europea
recepisce lo stato di vita delle popolazioni indigene dell'America centrale, e soprattutto dell'America meridionale,
come una condizione di vita che si colloca in un momento anteriore alla stessa barbarie; ed ecco che allora viene
formulato uno schema, che comincia a circolare largamente già dal Cinquecento, di tre grandi, momenti di tre grandi
fasi che l'umanità attraversa nel suo cammino. Naturalmente una concezione di questo tipo comporta che la storia
dell'umanità abbia un andamento progressivo e che ogni popolo debba appunto, per poter pervenire allo stato civile,
attraversare prima, in un tempo maggiore o minore, le due fasi precedenti dello stato selvaggio e della barbarie.
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E vorrei fare qui riferimento a due autori, collegati ma anche poi abbastanza differenti l'uno dall'altro, che non a caso,
per le loro radici nazionali, fanno ricorso l'uno al termine cultura, l'altro al termine civiltà: il primo è Oswald Spengler,
che pubblica alla fine della Prima Guerra Mondiale "Il tramonto dell'Occidente", l'altro è Toynbee, che negli anni
Trenta pubblica, comincia anzi a pubblicare, perché l'opera poi avrà una ripresa, una lunga ripresa post-bellica ancora
negli anni Cinquanta, un'opera imperniata sull'idea di civiltà dal titolo "Uno studio della storia". Cominciamo da
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Spengler che, non a caso, essendo tedesco e quindi avendo alle proprie spalle tutta una vicenda, a cui accennavo
prima, di privilegiamento della nozione di cultura, concepisce la Storia come il luogo di realizzazione di una
molteplicità di culture indipendenti l'una dall'altra. Ogni cultura è un organismo, è portatrice di un patrimonio
culturale differente dalle altre culture; ogni cultura crea un proprio mondo simbolico, che è differente e in qualche
misura incomunicabile agli uomini di altre culture, che sono nati e si sono sviluppati all'interno di un differente mondo
simbolico. Ebbene però accanto al termine "cultura", Spengler utilizza anche il termine "civiltà", il termine
"Zivilisation" per indicare però la fase terminale, la fase di decadenza della cultura. In quanto organismo, ogni cultura
percorre un proprio ciclo vitale dalla nascita alla morte, e nessuna cultura, neppure la cultura europea occidentale,
che è prossima secondo Spengler al tramonto, può sottrarsi a questo destino, che è appunto inerente al carattere di
qualsiasi essere vivente, "come nasce ogni essere vivente è condannato a morire". Ebbene la "Zivilisation", la civiltà,
indica appunto il momento, la fase terminale in cui la cultura ha perduto la sua capacità produttiva, ha esaurito il
proprio patrimonio di possibilità, il suo mondo simbolico è ormai costituito ed essa si avvia lentamente, anche se poi
il tramonto occupa vari secoli, verso la propria scomparsa.
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Un paio di decenni dopo, Toynbee elabora anch'egli una concezione della Storia fondata sul presupposto della
molteplicità di ambiti di studio differenti; ma questi ambiti li definisce non come "cultura" bensì come "civiltà"; alle
spalle di Toynbee vi è appunto una tradizione di privilegiamento della nozione di civiltà rispetto appunto alla nozione
di cultura. La storia è costituita appunto dallo sviluppo di una molteplicità di civiltà, in fondo indipendenti o perlomeno
con caratteristiche differenti l'una dall'altra; e al pari di Spengler anche Toynbee pensa a un ciclo di vita delle civiltà:
le civiltà nascono, crescono, ad un certo momento la loro crescita si arresta, subisce un crollo, dopo di che le civiltà
entrano nella fase della loro disgregazione. Nascita, crescita, crollo e disgregazione sono appunto i quattro momenti
della vita di una civiltà. Soltanto che Toynbee è ben lungi dall'accogliere la visione deterministico-fatalistica di
Spengler; per Toynbee la nascita e ogni momento della vita delle civiltà sono regolate da un meccanismo che egli
chiama "di sfida e di risposta": una civiltà nasce quando un gruppo umano è in grado di rispondere ad una sfida che
gli viene posta dall'ambiente naturale o dall'ambiente sociale, a condizione che questa sfida sia abbastanza forte da
provocare una reazione e non troppo forte da rendere impossibile una reazione positiva; e tutta la storia delle civiltà
è un susseguirsi appunto di sfide e di risposte. Il crollo di una civiltà avviene quando appunto il gruppo umano
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portatore, la società portatrice di quella civiltà non riesce più a rispondere vittoriosamente alle sfide che incontra, e
allora ha inizio appunto il processo di disgregazione.
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Tylor propone un differente concetto di cultura: cultura abbraccia tutte le manifestazioni di vita di un popolo, quindi
accanto alla religione, all'arte ecc., la cultura abbraccia qualsiasi abitudine acquisita di un gruppo sociale. Che cosa
vuol dire questo? Vuol dire che qualsiasi costume che caratterizza un gruppo sociale è parte integrante della sua
cultura. É chiaro che, mentre prima il termine "cultura" veniva ad essere utilizzato o utilizzabile soltanto in
riferimento a determinati popoli giunti ad una fase progredita del loro sviluppo, a partire dal 1871 si può benissimo
parlare, e Tylor ne parla, di "cultura primitiva": anche i popoli primitivi hanno una loro cultura che deve essere
indagata nei suoi caratteri specifici; non occorre che un popolo sia dotato di scrittura, che sia quindi letterato, perché
abbia una sua cultura. Se una cultura si dà anche presso i popoli non letterati, cioè se condizione necessaria della
cultura non è il possesso di una scrittura e quindi la capacità di conservazione in forma scritta del patrimonio di idee
di un determinato popolo, la possibilità appunto di dar luogo ad una tradizione storica scritta, allora quand'è che
comincia la cultura? Qual'è la condizione sine qua non affinché si dia cultura? Ed ecco allora il forte collegamento che
viene istituito tra la nozione di cultura e la nozione di linguaggio: la cultura nasce con il linguaggio e a base del
linguaggio come veicolo di trasmissione del patrimonio culturale anche dei popoli primitivi, vi è una caratteristica
specifica che distingue, secondo Boas, secondo la scuola boasiana, la specie umana dalle altre specie.
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Un presupposto esplicito dell'Antropologia e delle scienze sociali contemporanee è stato, fino ad un paio di decenni fa,
la connessione cultura - apprendimento - linguaggio; ed è proprio attraverso la messa in questione di questa
connessione che si realizza, o meglio che si manifesta una tendenza a spostare ancora più, diciamo, "in basso", ma
qui forse il termine "in basso" non è particolarmente felice, ma non ne trovo un altro migliore, il limite della cultura.
Intanto abbiamo visto che nell'antropologia contemporanea la cultura viene interpretata come una eredità differente,
eterogenea rispetto all'eredità biologica: l'eredità biologica viene trasmessa geneticamente e la cultura si apprende.
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Ebbene, se l'ambito della cultura è coestensivo con l'ambito del linguaggio, allora noi dobbiamo ammettere che anche
nel mondo animale esistono delle forme di cultura. Cosicché abbiamo una fase ulteriore della vicenda: il concetto di
cultura era servito nell'Ottocento a recuperare la distanza tra i popoli pervenuti allo stato di civiltà, vale a dire tra i
popoli letterati, e i popoli primitivi, oggi probabilmente il concetto di cultura può servire a recuperare la distanza tra il
mondo umano ed il mondo animale o di certe specie animali. Del resto noi sappiamo ormai che l'evoluzione culturale
e l'evoluzione biologica non sono momenti distinti e successivi di uno stesso processo; noi sappiamo che non è che
l'uomo inizi la sua evoluzione culturale nel momento in cui ha terminato la sua evoluzione biologica, l'evoluzione
culturale influisce su quella biologica oltre ad esserne condizionata, si tratta appunto di due processi che in qualche
modo interferiscono; questa interferenza, probabilmente, ancorché per vie diverse, con modalità diverse, si ha anche
presso altre specie, specie animali. Ecco quindi che, quella che in origine era la "cultura dell'animo", diventa invece
un fenomeno esso stesso inscrivibile in un processo evolutivo, che certamente nell'uomo ha assunto modalità
specifiche, ma che non possiamo più considerare esclusivamente umano.
Tratto dall'intervista: "Cultura e civiltà" - Napoli, Vivarium, 14 ottobre 1993
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