Programma - Dipartimento di Storia dell`Arte e Spettacolo

Dottorato di Ricerca in Storia e Analisi delle Culture Musicali e
Curriculum “Storia e Analisi delle Culture Musicali” del
Dottorato di Ricerca in Musica e Spettacolo
Nono Seminario Annuale dei Dottorandi
10 e 11 febbraio 2015
Aula di Storia della Musica “Nino Pirrotta”
IV Piano, Edificio di Lettere e Filosofia
Come ogni anno l’attività dei dottorandi in Storia e Analisi delle Culture Musicali
trova uno spazio di confronto all’interno della programmazione accademica. Gli
iscritti al terzo anno e i dottorandi in consegna propongono una relazione su alcuni
risultati o nodi teorico-metodologici della propria ricerca. Il convegno, aperto a tutti,
è introdotto da una lezione magistrale di Fabrizio Della Seta, insigne studioso
verdiano, sul Trovatore.
Programma
Martedì 10 febbraio
11:30
Lezione magistrale
Fabrizio Della Seta (Università di Pavia)
Per una nuova interpretazione del “Trovatore”
Pausa pranzo
14:30
Ernesto Pulignano
La segmentazione del testo operistico: “Falstaff”
15:00
Alessandro Maràs
Dal surrealismo al Surrealismo: musiche per “Les Mamelles de Tirésias”
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15:30
Marco Stacca
Cavatina mare e monti: tecniche e linguaggi della sortita di Dandini
16:00
Marco Andreetti
Flora supercamp
Pausa caffè
17:00
Diana De Francesco
Liszt e il sacro: il caso di “Responsorien und Antiphonen”
17:30
Monika Prusak
“Nonsense Madrigals” di György Ligeti: fonti d’ispirazione, appunti e schizzi
18:00
Renata Scognamiglio
Atmosferologia e Film Music Studies: attualità (e necessità) di un dialogo
Mercoledì 11 febbraio
9:30
Vincenzo Della Ratta
Celebrazione della morte / Riaffermazione della vita: Glorificazione della ‘Totalità
cosmica’. Analisi dei tamburi di bronzo di Dong Son in relazione al rituale funebre
secondario dei Jarai (Vietnam Centrale)
10:00
Giuseppe Giordano
Sull’uso del Gregoriano nelle pratiche liturgiche e devozionali in Sicilia
10:30
Raffaele Pinelli
Gli aerofoni meccanici a mantice nel corpus brevettuale italiano
Pausa caffè
11:30
Discussione generale
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ABSTRACTS
MARCO ANDREETTI
Flora supercamp
La scena della festa che precede l’entrata di Alfredo a casa di Flora nell’atto secondo
della Traviata è stata spesso considerata dalla critica un luogo problematico. In un
saggio del 1983 Fabrizio Della Seta ha spiegato come «Verdi non abbia saputo o
voluto, con in scena solo comprimari, trovare un’ispirazione per mettere in musica la
futilità […]. Possiamo constatare come le carenze si debbano imputare non tanto al
materiale tematico scadente quanto alla piattezza del suo trattamento». Secondo
Della Seta, infatti, la funzione di questo momento sarebbe non solo quella di lasciare
ad Alfredo il tempo per cambiarsi d’abito, ma soprattutto di non dare l’impressione
allo spettatore che «la casa di campagna di Violetta si trovi all’angolo del palazzo di
città di Flora». Forse non è un caso che molti registi abbiano faticato a trovare una
chiave per risolvere la scena in maniera convincente. Dobbiamo pensare allora che il
problema risieda in una strategia drammaturgica sfocata e in materiale musicale
scadente che in qualche modo necessitano di essere riscattati sul palcoscenico?
Franco Zeffirelli nel suo film sulla Traviata (1983), dopo aver sfrondato senza
pentimenti cabalette, quadrature e quelli che il regista ha definito «tempi morti» della
partitura verdiana, amplifica le pagine in oggetto, facendone ripetere più volte a
James Levine alcune cellule motiviche. La festa da Flora diventa così il clou
ipertrofico del suo successo commerciale che, nonostante una certa sfortuna critica,
rimane una delle opere in video più amate dal grande pubblico.
Sulla scorta dell’operazione di Zeffirelli, nel mio intervento desidero proporre
una lettura del finale secondo della Traviata alla luce della sfuggente categoria del
«Camp»: una questione che ha assurto rilievo nella critica culturale da quando
cinquant’anni fa Susan Sontag pubblicò il suo saggio Note sul 'Camp', primo
tentativo di circoscrivere l’argomento per exempla. A oggi non sono state ancora
indagate con sistematicità le possibili intersezioni tra l’opera in musica e il Camp, ma
diversi studiosi hanno provato a fornirne una definizione sulla base delle suggestioni
di Sontag. Mark Booth nel suo volume Camp toi! (1983) sostiene che «essere camp
significa presentarsi come coinvolti dal marginale, con un coinvolgimento superiore
a quanto il marginale effettivamente meriti». Sarebbe quindi Zeffirelli a essere camp
nel suo trattamento di questa scena marginale? Oppure lo è la stessa Traviata - come
d’altronde accennato da Sontag - richiedendo uno sguardo che ne accolga questa
dimensione? La mia relazione suggerirà possibili risposte.
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DIANA DE FRANCESCO
Liszt e il sacro: il caso di “Responsorien und Antiphonen”
Responsorien und Antiphonen (S.30) è un'opera incompleta di Liszt, edita postuma e
mai eseguita. La bibliografia critica a riguardo è molto scarna, se si escludono i rari
contributi di Paul Merrick, che, pur delineando gli aspetti principali dell'opera, non
hanno tuttavia evidenziato la sua rilevanza in relazione alle altre opere “della
riforma”. Composta intorno al 1860 allo scopo di “sintetizzare” la musica sacra
cattolica riformata, mostra una forte vocazione liturgica nel pur acerbo stato di
realizzazione – una raccolta di responsori e antifone dell'anno liturgico armonizzati a
quattro voci ed eseguibili solo in stretta relazione al Breviarum romanum. Le sue
caratteristiche – impiego esclusivo del gregoriano, esclusione di strumenti
accompagnatori con la sola eccezione dell'organo ad libitum e ancoramento alla
tradizione – la pongono in prima linea fra le opere riformate, impalcatura a sostegno
di produzioni più mature, come Die Legende der heiligen Elisabeth (S.2) e la Missa
choralis, organo concinente (S.10), che ne ricalcano intenti, strumenti e il significato
profondo, la manifestazione musicale dell'io religioso lisztiano. L'intervento propone
uno sguardo nuovo su Responsorien und Antiphonen, filtrato anche dall'indagine
della biblioteca personale del compositore conservata a Budapest, per indagare
possibili significati suggeriti da una inedita lettura.
VINCENZO DELLA RATTA
Celebrazione della morte / Riaffermazione della vita: Glorificazione della ‘Totalità
cosmica’. Analisi dei tamburi di bronzo di Dong Son in relazione al rituale funebre
secondario dei Jarai (Vietnam Centrale)
I tamburi di bronzo – tra i reperti più significativi attribuibili alla cultura di Dong
Son (Tonchino, VI sec. a.C. - I sec. d.C.) – hanno generato un dibattito controverso
riguardo all’interpretazione delle misteriose scene su di essi raffigurate. Molti
studiosi hanno rintracciato delle connessioni tra queste scene ed una ‘atmosfera
austronesiana’, trovando numerose corrispondenze con l’ambito rituale delle
popolazioni autoctone del Borneo e degli altipiani indocinesi. Tuttavia, nonostante le
popolazioni degli altipiani dell’Indocina siano state associate ai Dongsoniani,
nessuno studio dettagliato è stato finora condotto. Dunque, il presente intervento –
prendendo in esame un rituale celebrato dai Jarai (un gruppo etnico parlante lingua
austronesiana stanziato negli Altipiani Centrali del Vietnam) e comparandolo con le
scene ritratte sul tamburo di bronzo “Ngoc Lu” (scelto come modello dei tamburi di
bronzo del tipo “Heger I”) – sintetizza il mio percorso di studi dottorali volto a
corroborare questa ipotesi.
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La cerimonia che ho analizzato, chiamata Pơ thi, è un rituale funebre
secondario celebrato per permettere alle anime dei defunti di raggiungere la loro
destinazione finale, il ‘Villaggio degli Spiriti’. Tuttavia, oltre a questo, un’analisi
attenta rivela come questo rituale si risolva in una riaffermazione della vita la quale,
così come concepita nella Weltanschauung dei Jarai, è inserita in un contesto più
ampio, costituito, oltre a quello degli esseri umani, dal regno dei morti e da quello
delle divinità celesti. È per questa ragione che il rituale funebre secondario dei Jarai
si risolve in una glorificazione di ciò che ho denominato ‘Totalità cosmica’. Come
avrò modo di mostrare, le scene raffigurate sul tamburo di bronzo “Ngoc Lu”
richiamano molto da vicino la celebrazione del Pơ thi dei Jarai. Dunque, è mia
opinione che le scene ritratte sui tamburi di bronzo si possano interpretare come
esemplificative di questo rituale e della visione del mondo ad esso connessa.
GIUSEPPE GIORDANO
Sull’uso del Gregoriano nelle pratiche liturgiche e devozionali in Sicilia
Sebbene la pratica musicale liturgica, soprattutto a partire dall’ultimo Concilio, abbia
subito concreti cambiamenti nel repertorio e nello stile, in alcuni casi i “modi” del
canto liturgico tradizionale si sono conservati all’interno di alcune particolari
occasioni rituali. In queste circostanze la sensibilità di cantori e fedeli nei confronti
del canto scaturisce anche dall’esigenza di rinforzare il senso di appartenenza
comunitaria. L’impiego del repertorio vocale riconducibile in maniera più o meno
esplicita al “modello gregoriano” è stato documentato sia per un recente passato,
grazie alla memoria di cantori più anziani, sia per il presente, tramite l’osservazione
diretta delle pratiche tuttora in vigore in diversi centri della Sicilia. Una più accurata
analisi dei materiali raccolti ha talvolta svelato una diretta provenienza, sia sul piano
prettamente melodico sia su quello strutturale, di alcuni repertori liturgici “popolari”
dal gregoriano. In altri casi, nonostante alcuni repertori più specifici appaiano
melodicamente distanti dalle melodie gregoriane, è tuttavia osservabile un chiaro
tentativo di imitarne il modello.
In questa relazione, grazie anche all’ausilio di alcuni esempi audio-visuali che
verranno proposti, cercherò anzitutto di descrivere i contesti culturali e le occasioni
rituali in cui questi repertori si sono trasmessi e conservati, delineando un percorso
espositivo proprio a partire dalle ricerche sulle pratiche musicali oggi non più
osservabili. Inoltre, attraverso una valutazione più attenta dei materiali sin qui
acquisiti, tenterò di offrire un primo resoconto sulla questione della persistenza di
questi modelli musicali, anche alla luce di un più recente e ampio fenomeno di
ripresa del canto gregoriano da parte di gruppi corali parrocchiali o di confraternite e
associazioni religiose.
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ALESSANDRO MARAS
Dal surrealismo al Surrealismo: musiche per “Les Mamelles de Tirésias”
Nel 1917, reduce dalla guerra, Apollinaire si dedica per la prima volta al teatro e alla
musica scrivendo e allestendo Les Mamelles de Tirésias, “dramma surrealista” dagli
intenti morali e civili. Con quest'opera l'autore tenta di portare a compimento il suo
progetto di rinnovamento dell'arte: questa non deve più imitare la realtà ma ricrearla,
a partire dai suoi stessi elementi. Superando la limitatezza della poesia, Apollinaire si
rivolge a tutte le componenti dell'arte scenica, impiegando la musica nel
raggiungimento di questo fine. In Mamelles i suoni non sono tuttavia relegati alla
sola partitura composta (quella di Germaine Albert-Birot), ma comprendono anche i
rumori del Peuple de Zanzibar e arrivano fino alle citazioni più o meno esplicite
della cultura musicale contemporanea. Il risultato è quello di un'opera che insieme
«mette alla prova i limiti estetici attuali» [D. Albright] ed espone la realtà in modo
assolutamente anti-imitativo.
Tali concetti differiscono enormemente dal Surrealismo al quale si riferirà
Poulenc quando, nel 1947, intonerà Mamelles. L'evoluzione del concetto di
“surrealismo” – da una teoria essenzialmente anti-imitativa ad una pratica artistica
meta-analitica sviluppata secondo l'approccio psicanalitico di Breton – porterà
Poulenc a non affrontare il mondo del secondo dopoguerra ma ad esplorare fra i suoi
sogni e i suoi ricordi. Con l'intento di musicare la Parigi nascosta ad uno sguardo
razionale, Poulenc ricostruisce una propria realtà tramite un «montaggio di rottami di
ciò che è stato» [T. W. Adorno], estrinsecando il messaggio apollinairiano in modo
completamente diverso.
RAFFAELE PINELLI
Gli aerofoni meccanici a mantice nel corpus brevettuale italiano
La storia degli aerofoni meccanici a mantice ha inizio per tradizione con l’invenzione
di Cyrill Demian dello strumento musicale denominato “accordion”, la cui origine è
legata indissolubilmente al suo brevetto, depositato a Vienna nel 1829. Da questo
momento, ha inizio una vera e propria “corsa al deposito” che vede protagonisti gli
inventori/liutai in tutte quelle nazioni del mondo in cui rapidamente si diffonde la
produzione delle “scatole del vento”. Le tracce della tendenza alla richiesta di
brevetto sono riscontrabili in Italia, grazie al fondo Brevetti, Modelli e Marchi
dell’Archivio Centrale dello Stato e a quello dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi.
Tale patrimonio culturale che interessa parimenti gli ambiti musicologico,
manifatturiero e industriale italiano, è composto da circa 800 privative. Nel mare
magnum di privative depositate dal 1855 sino ai nostri giorni, i brevetti di nostro
interesse fanno emergere un dato di assoluta rilevanza: essi costituiscono il
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principale corpus brevettuale italiano per numero di depositi della macro categoria
“strumenti musicali”.
Partendo da tale considerazione, l’intervento intende mettere in luce
l’importanza strategica di tali fondi archivistici finora esaminati solo parzialmente
dalla ricerca musicologica, sia in Italia che all’estero, dimostrando come attraverso la
disamina dei brevetti, qui intesi come fonti storiche primarie, è possibile contribuire
alla ricostruzione storica degli sviluppi organologici degli strumenti musicali. A tal
proposito, saranno presi in esame alcuni casi specifici di brevetti, dimostrando come
i progetti e le informazioni contenute nei fascicoli brevettuali possono far emergere
sia dati del tutto inediti che offrirne di utili per supportare le ricerche finora
realizzate. Lo studio, dall’approccio transdisciplinare, intende inoltre far chiarezza
sugli andamenti quantitativi e tipologico-qualitativi, nonché sulle variazioni nel
tempo delle privative concesse, mettendo in luce le criticità legate al comparto della
ricerca e dello sviluppo nelle aziende manifatturiere produttrici dei “mantici sonori”.
Scopo del presente lavoro è quello di contribuire agli studi organologici e musicologi
offrendo l’occasione per l’elaborazione di un modello di ricerca che potrebbe essere
applicato anche ad altri strumenti musicali.
MONIKA PRUSAK
“Nonsense Madrigals” di György Ligeti: fonti d’ispirazione, appunti e schizzi
Dopo la stesura dei Nonsense Madrigals (1988-1993) György Ligeti indicava la
complessità ritmica come la caratteristica principale della sua tecnica compositiva,
inserendola al confine tra due tradizioni polifoniche apparentemente lontane l’una
dall’altra: la notazione mensurale del XIV secolo e la poliritmia dell’Africa subsahariana. Egli stesso spiegava la dimensione del nonsense, ponendolo tra
l’approccio puramente tecnico e virtuoso e l’espressività del messaggio letterario
inteso come ambientazione poetica piuttosto che rappresentazione del significato dei
testi. Esaminando gli appunti e gli schizzi del compositore ungherese presso
l’archivio della Fondazione Paul Sacher di Basilea, si identificano altre fonti
d’ispirazione, che spesso creano associazioni inaspettate come il blues So What
annotato insieme a Gesualdo, Dufay inserito accanto ai Beatles, o Chick Corea tra
Gabrieli e Jannequin. Lo studio prende in esame i documenti autografi di Ligeti, la
partitura dei Nonsense Madrigals e le pubblicazioni inerenti dell’autore e di altri
studiosi (Steinitz, Lobanova, Marx, Taylor, Hofstadter, Arom, Kubik), con
l’obiettivo di creare una mappa concettuale delle idee impiegate nella composizione
con relativi chiarimenti, punti d’incontro ed esempi.
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ERNESTO PULIGNANO
La segmentazione del testo operistico: “Falstaff”
Come segmentare un’opera fin de siècle? e in base a quali modelli formali? in altre
parole, è metodologicamente corretto scomporre quei testi operistici che, di fatto,
superano la logica del «numero» e delle forme canoniche a vantaggio della continuità
drammatica? Nel saggio Come si segmenta il repertorio operistico Giorgio
Pagannone sostiene che la segmentazione «sia un’operazione imprescindibile», e che
«laddove è possibile applicarlo […] il modello della ‘solita forma’ sia lo schema più
efficace, almeno per l'opera italiana»: e ciò per l’evidente persistenza che caratterizza
i processi della creazione artistica. Egli sceglie di testare il modello su Otello di
Boito e Verdi; questo contributo intende proseguire il lavoro con Falstaff.
Ad un primo livello di segmentazione, l’ultimo lavoro verdiano si compone di
tre atti, ciascuno dei quali suddiviso in due parti di diversa ambientazione. Caso
unico nelle edizioni a stampa di opere verdiane, nello spartito Ricordi non vi è alcuna
traccia di suddivisione in pezzi, nemmeno nell’indice; nel libretto di Boito, i metri
adoperati individuano dramatis personae (doppi settenari per Falstaff, senari per le
comari, ottonari per gli uomini e quinari per la coppia Nannetta-Fenton) piuttosto che
sezioni destinate ad un diverso trattamento musicale. Nelle sei parti che compongono
il dramma si possono comunque scorgere alcune tracce del canone ottocentesco: I, 1
è di fatto una «cavatina di sortita» di Falstaff dalle dimensioni spropositate, con
adagio e “stretta” posti in corrispondenza di «posizioni emozionali» fisse e
contrastanti; I, 2 ha l’ossatura d’un «numero» d’assieme; II, 2 è il Finale centrale,
con sezione introduttiva e largo concertato: nel quale l'azione viene decisamente
rallentata, ma mai del tutto raggelata. Fattori di coesione e transizione saldano tra
loro numeri e «sezioni di numero». Tra le strategie adoperate per garantire continuità
drammatica, vi è l’uso di procedimenti compositivi tipici delle sezioni cinetiche
(parlante, tessuto modulante e/o durchkomponiert) anche in quelle statiche, come nei
monologhi di Falstaff e Ford. Non manca il ricorso ad artifici consolidati, come il
racconto di Quickly in II, 2 o la «canzone cantata» di Nannetta nell’atto conclusivo;
o il ricorso a strutture assimilabili alla lyric form in alcune espansioni cantabili.
RENATA SCOGNAMIGLIO
Atmosferologia e Film Music Studies: attualità (e necessità) di un dialogo
L’approfondimento teorico del concetto di atmosfera – avviato in Germania da
Hubertus Tellenbach e dalla Nuova Fenomenologia di Hermann Schmitz alla fine
degli anni ’60 – ha conosciuto nell’ultimo ventennio una notevole risonanza, anche
al di fuori del dibattito strettamente filosofico. Fra gli svariati campi del sapere
influenzati dalla prospettiva atmosferologica figurano anche la filosofia della musica
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[Vizzardelli, 2007, 2009, 2010], la musicoterapia [Sonntag, 2013] e gli studi sul
soundscape [Böhme 2000, Brown 2004], mentre nell’ambito dei film music studies si
registra ancora un impatto modesto [Vilotic 2011]. Il mio progetto di ricerca tenta di
avviare una prima indagine sui possibili contributi che lo studio delle atmosfere può
offrire alla comprensione delle funzioni della musica nella costruzione dell’ontologia
filmica [Bühler, Neumeyer, 2014] e nei processi di fruizione [Cohen, 2000, 2010].
La prima parte dell’intervento si concentra sulla definizione di Atmosphären
come «sentimenti spazialmente effusi», corporalmente esperiti – e, di conseguenza,
«quasi-oggettivi» (Schmitz) – formulando alcune ipotesi circa i principali “snodi”
teorici che hanno segnato gli sviluppi dell’atmosferologia e hanno posto le premesse
delle applicazioni odierne: dall’introduzione del concetto in ambito psichiatrico
[Tellenbach 1968], al riconoscimento di un peculiare statuto ontologico delle
atmosfere come semi-cose [Schmitz 1964-1980, 2009], fino alla “svolta estetica” di
Gernot Böhme [2001], che individua proprio nell’atmosfera la chiave di volta per un
ripensamento “neo-baumgarteniano” dell’estetica come teoria generale della
conoscenza sensibile, riannettendo così alla disciplina domìni ormai marginalizzati,
quali l’estetica della natura e delle cosiddette «arti applicate».
Le conclusioni presenteranno i film music studies quale settore strategico di
una nuova estetica fenomenologica, rileggendo alla luce dell’atmosferologia il
carattere immersivo del suono al cinema, l’intreccio di processi emotivi e cognitivi
attivati dalla musica nell’esperienza audiovisiva e le plausibili conseguenze di tutto
ciò sulla forma musicale.
MARCO STACCA
Cavatina mare e monti: tecniche e linguaggi della sortita di Dandini
L’edizione critica della Cenerentola curata da Alberto Zedda per la Fondazione
Rossini da un lato aveva donato linfa nuova alla musica rossiniana e dall’altro aveva
conferito un nuovo peso drammatico al ruolo di Alidoro, anche grazie al reinnesto
dell’aria scritta da Rossini per la scena 7, «Là del ciel nell’arcano profondo».
All’alba della prima italiana della “rinnovata” partitura, nel 1971 al Teatro Comunale
di Firenze, Jean Pierre Ponnelle pone un altro fondamentale tassello al restyling
dell’opera rossiniana, rileggendo il personaggio di Dandini, lo scudiero travestito da
principe per ordine di Alidoro, attraverso il filtro della modernità: non più semplice
maschera buffa, ma personaggio sottilmente comico e autentica rivisitazione del
carattere goldoniano.
Un esempio tangibile della novità insita in questo tassello del processo
creativo ponnelliano si evince dalla cavatina di sortita del personaggio, «Come
un’ape nei giorni d’aprile», dove una regia sagacemente ironica trae prima linfa
vitale dalla musica rossiniana. L’analisi della realizzazione performativa di questo
brano, attraverso il ricorso ad un’ampia documentazione iconografica (che spazia dai
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figurini per i costumi alle foto di scena) e video (tra i quali merita menzione un
inedito del 1973 proveniente dagli archivi del Teatro alla Scala) rivela un universo
nascosto in cui tecniche e procedimenti della regia teatrale si intrecciano con sottili
rimandi al linguaggio cinematografico, che proverò oltremodo a rimarcare attraverso
la visione di alcuni frammenti della versione in filmopera del 1981. Il “nuovo”
Dandini portato sulle scene italiane da Jean Pierre Ponnelle si armonizza alla cornice
scenografica dell’allestimento, volge lo sguardo alle intonazioni musicali della favola
antecedenti a quella rossiniana, non nega a suo modo la magia, sfugge al cliché del
buffo e soprattutto re-interpreta l’idea di maschera: non più cifra del personaggio, ma
segno particolare dell’interprete.