Analisi economica del concetto di concorrenza

ANALISI ECONOMICA DEL CONCETTO DI CONCORRENZA
Donatella Porrini
1.
La concorrenza perfetta o pura
La concorrenza perfetta è una forma di mercato che assume notevole importanza dal punto di vista teorico ma ha scarso interesse dal
punto di vista reale, in quanto non descrive un modello di funzionamento riscontrabile nel mondo attuale. Alcuni autori la definiscono
il “mercato esemplare”, quello nel quale trovano piena realizzazione, con la mediazione del prezzo, le aspirazioni dei consumatori e,
d'altro canto, i produttori si trovano nelle condizioni migliori per soddisfare i criteri di efficienza produttiva.
Diversi sono gli elementi peculiari che caratterizzano questo tipo di mercato. Innanzitutto esistono una pluralità di imprese di
dimensioni ridotte, con caratteristiche simili, che producono gli stessi beni. Questa condizione assume una notevole importanza
perché, di fronte ad un bene indifferenziato (cioè omogeneo), il consumatore è libero di acquistare da un’impresa o da un'altra, sempre
che il prezzo sia il medesimo.
Inoltre, ogni operatore, sia produttore che consumatore, detiene una quota di mercato tanto piccola da non consentirgli di influenzare il
prezzo del bene: il prezzo è determinato dal confronto della domanda e dell'offerta complessiva e per ogni operatore: esso è dato.
L'impresa è dunque price-taker cioè assume come dato il prezzo del prodotto che produce, quindi, accetta passivamente qualsiasi
prezzo che prevalga sul mercato.
Inoltre, in tale forma di mercato non esistono barriere all'entrata, qualunque imprenditore può, infatti, accedervi ed operarvi senza
particolari difficoltà. L’informazione è anch'essa perfetta ed acquisibile liberamente da chiunque, produttore o consumatore, infine,
non esistono accordi preferenziali tra produttori e consumatori.
Da queste caratteristiche si evidenzia che la curva di domanda per la singola impresa, in un mercato di concorrenza perfetta, apparirà
come una retta parallela all'asse delle quantità, cioè l'impresa può vendere tutto il suo prodotto al prezzo di mercato, nessuna unità le
varrà richiesta ad un prezzo anche di poco superiore, il che significa che il ricavo marginale derivante da un incremento del volume di
vendita di un'unità è costante e uguale al prezzo unitario del prodotto. Ciò è evidente nei grafici 1 e 2.
Il grafico 1 definisce il prezzo del mercato in base all'incontro delle curve di domanda e di offerta, mentre il grafico 2 rappresenta la
curva di domanda tipica di un mercato perfettamente concorrenziale la quale, visto che il prezzo non varia al variare delle vendite,
coincide sia con la curva del ricavo marginale che con la curva del ricavo medio.
GRAFICO 1
GRAFICO 2
P
P
P*
P*
Q*
Q
P*=AR=RMg
Q1
Q
Nel lungo periodo il massimo profitto corrisponde al profitto nullo, cd profitto normale. Per spiegare questa affermazione occorre
ricordare che la retribuzione normale dell'imprenditore nel mercato di concorrenza perfetta è già compresa nei costi di produzione;
questo fa sì che una eventuale eccedenza dei ricavi sui costi totali (cioè un profitto positivo) porti, nel lungo periodo, all'ingresso di
altre imprese nel mercato con un aumento dell'offerta globale e, in ultima analisi, ad un annullamento di questo profitto.
Come si vede nel grafico 3 nel lungo periodo si avrà, quindi, un abbassamento del prezzo di mercato e la quantità prodotta (Q*) si
individua nel punto di incontro tra i costi marginali, i costi medi e la retta costante dei ricavi (nel grafico il punto E) a cui corrisponde
un profitto nullo.
1
GRAFICO 3
P
CMg
AC
P*
E
P*=AR=RMg
Q*
2.
Q
Critiche alla concorrenza perfetta
E’ questo il modello ideale della concorrenza perfetta attraverso il quale si ottiene una riduzione dei costi di produzione e quindi dei
prezzi di vendita, questa forma di mercato si presenta pertanto come la più favorevole ai consumatori. E' altresì stimolato il progresso
tecnologico e l'efficienza produttiva delle imprese, in quanto quelle meno competitive escono dal mercato (si parla a tal proposito di
eliminazione "naturale").
Se questi sono, in sintesi, i benefici che derivano da tale regime, la realtà "purtroppo" è ben diversa. La concorrenza perfetta è un
modello puramente teorico e ideale. Ciò è causato: dall'esistenza di settori strategici della produzione (materie prime, macchinari) che,
a causa di situazioni che di fatto ostacolano la libertà di iniziativa economica di ciascun soggetto, tendono verso un regime di mercato
diverso dalla concorrenza; dall'impossibilità in certi settori di produrre a prezzi competitivi se non si raggiungono ingenti dimensioni
imprenditoriali. Questi ed altri motivi causano vistose limitazioni della libertà di accesso ad un mercato e, inoltre, inducono le imprese
ad ampliare le proprie dimensioni, a concentrarsi ed a collegarsi. E' quindi necessario ricercare un punto di equilibrio tra il modello
ideale e teorico della concorrenza perfetta e la realtà operativa. Questo equilibrio è oggi raggiunto mediante interventi normativi che
disciplinano e tutelano la concorrenza, attraverso la previsione di leggi antimonopolistiche.
3.
Il monopolio
La forma di mercato del monopolio è all'estremo opposto di quella della concorrenza perfetta, essa esiste quando una sola impresa si
trova a fronteggiare l'intera domanda di mercato.
In questa tipologia di mercato esistono rilevanti barriere all'entrata, l'informazione e la scelta produttiva sono dominio di un'unica
impresa che ha, come limite ai suoi comportamenti, le sole reazioni dei consumatori.
In un mercato di monopolio, data l'esistenza di un'unica impresa produttrice della merce offerta sul mercato, la curva di domanda del
mercato coincide con la curva di domanda dell'unico produttore, inoltre l'elasticità della domanda dell'impresa è la stessa dell'elasticità
della domanda del mercato; l’andamento della curva di domanda è decrescente da sinistra verso destra. Ancora, la curva dei ricavi
marginali non coincide con la curva dei ricavi medi ma gli è sottostante, come si vede dal grafico 4.
P
GRAFICO 4
RMg
AR
Q
2
Anche per il monopolio, come per la concorrenza perfetta, il livello della produzione che assicura il massimo profitto viene
individuato nel punto di incontro tra ricavo marginale e costo marginale, nel grafico 5 è il punto E.
In questo grafico, l'area OQ*ST rappresenta il ricavo totale che il monopolista riesce ad ottenere vendendo la quantità ottimale OQ* al
prezzo SQ*; il costo che il monopolista deve invece sostenere per produrre la stessa quantità è uguale al rettangolo OQ*VZ, pertanto
per differenza l'area TVSZ rappresenta il profitto netto del monopolista.
GRAFICO 5
P
CMg
AC
S
T
Z
V
E
AR
RMg
Q*
O
Q
La tendenza a massimizzare i profitti può indurre i1 monopolista a praticare una politica di discriminazione dei prezzi che lo porta a
vendere il proprio prodotto a prezzi diversi in differenti segmenti del mercato che diano allo stesso una diversa valutazione. Un
esempio di questa pratica discriminatoria è rappresentato nel grafico 6.
In questo grafico, la quantità OM è quella che consente all'unico produttore di massimizzare il profitto senza alcuna discriminazione
nei prezzi, mentre la quantità ON, venduta ad un gruppo di acquirenti al prezzo P 2, e la restante quantità NM venduta al prezzo P 1,
possono aumentare sia il ricavo che l'extraprofitto del monopolista. Il rettangolo P1RSP2 indica, appunto, l'incremento dei profitti del
monopolista nel caso di discriminazione dei prezzi.
GRAFICO 6
P
P2
CMg
S
AC
P1
T
P
E
AR
RMg
O
N
M
Q
Per alcuni autori, le condizioni necessarie affinché il monopolista possa discriminare sul prezzo sono: a) che gli acquirenti
appartengano a gruppi (o mercati) diversi, che abbiano ognuno di essi una propria elasticità di domanda notevolmente diversa dalle
altre dovuta alla presenza di livelli di reddito diversi o da gusti diversi; b) che sia impossibile che coloro per acquistano il bene a basso
prezzo possano rivenderlo a coloro i quali lo acquistano a prezzo più elevato.
La discriminazione può realizzarsi, ad esempio, allorché i consumatori siano diversi per luogo geografico di residenza, per reddito o
per preferenze di consumo. Essa accade perché i segmenti del mercato, in questa situazione, possono essere separati in modo tale che
3
nessuno sia in grado di acquistare il bene laddove il prezzo è più basso e rivenderlo dove è più alto; per il monopolista, quando è
possibile, la discriminazione conviene sempre perché può essere utilizzata per aumentare gli incassi associati a ogni livello di output.
4.
Il problema del monopolio: perdite da monopolio e antitrust
Dall’esame delle caratteristiche delle diverse tipologie di mercato esistenti, la concorrenza perfetta si presenta come la forma di
mercato più favorevole ai consumatori; al contrario si deplora, oltre all'extraprofitto, la limitazione dell'offerta di beni che derivano,
invece, dal monopolio.
Da queste convinzioni, fin dalla fine del secolo scorso, è sorto un movimento di opinione volto a valorizzare il concetto di
concorrenza e ad evitare che mercati in qualche modo concorrenziali (anche se non perfetti) si monopolizzassero. In diversi paesi,
infatti, sono nate in momenti storici diversi, le cd legislazioni antimonopolistiche che avevano lo scopo di scoraggiare il formarsi dei
monopoli nel mercato.
Questa forma di mercato, infatti, viene vista da sempre sotto una luce negativa a causa del costo sociale che determina sul mercato e
che si può rappresentare nel grafico 7.
Questo grafico, infatti, mette bene in evidenza il costo che la società paga a causa del monopolio formatosi sul mercato.
In regime di monopolio, la produzione è limitata al punto in cui il ricavo marginale incontra il costo marginale: questo avviene, nel
grafico, nel punto C; la quantità prodotta è quindi Qm e il prezzo applicato dal monopolista è Pm che è più elevato del prezzo
concorrenziale Pc a cui corrisponde la quantità Qc di gran lunga superiore alla quantità prodotta dal monopolista.
Il triangolo ABC evidenziato nel grafico misura il costo (il cd costo sociale) in termini di minore benessere derivante dalla riduzione
della produzione, esso è pari alla somma delle differenze tra valore e costo marginale per ogni unità di bene, che verrebbe prodotta in
regime di concorrenza ma che non viene prodotta in regime di monopolio.
GRAFICO 7
P
CMg
Pm
A
Pc
B
C
RMg
O
Qm
Qc
AR
Q
Le legislazioni antitrust hanno, appunto, il compito di promuovere e intensificare la concorrenza rendendo più difficile far sorgere o
esercitare un potere di monopolio il quale è colpevole di creare un costo sopportato dalla società a cui corrispondono, invece, gli
extraprofitti del monopolista (rappresentati graficamente dall'area PmPcAC).
5. Un confronto in termini di efficienza allocativa tra concorrenza perfetta e monopolio
Per dimostrare la superiorità, in termini di efficienza allocativa, di una situazione di concorrenza perfetta rispetto ad una di monopolio
si fa in genere ricorso al principio di “ottimo paretiano” che prevede che le risorse siano utilizzate in modo efficiente quando non è
possibile, utilizzandole in maniera diversa, aumentare il benessere di un membro della collettività senza diminuire nel contempo
quello di un altro.
Nell'ipotesi di concorrenza perfetta, i consumatori ricavano dal bene un eccesso di utilità rispetto al prezzo pagato per acquisirlo (cd
surplus o rendita del consumatore). I produttori, a loro volta, ottengono per il loro prodotto un prezzo superiore al costo marginale che
sostengono per produrlo (cd surplus del produttore); nel grafico 8, questi surplus sono rispettivamente rappresentati dall'area P1P*A e
l'area P*AP0.
L'efficienza allocativa per la collettività è individuata, nel grafico, nel livello di produzione Q* che consente di rendere massima la
somma dei due surplus considerati (del consumatore e del produttore: cioè l’area P 0P1A).
4
GRAFICO 8
P
P1
P*
CMg
A
P0
O
AR
Q*
Q
In un mercato monopolista, invece, si ha una riduzione dell’efficienza allocativa determinata dalla diminuzione della produzione
operata dall'unico produttore, la quale crea un divario tra il prezzo del bene e il suo costo marginale, come si è visto nel grafico 7,
dove la monopolizzazione di un'industria concorrenziale provoca una riduzione del la produzione si sposti dal punto Qm (produzione
di monopolio) al punto Qc (produzione di concorrenza).
6.
La concorrenza monopolistica
La concorrenza monopolistica è un'organizzazione di mercato caratterizzata, in ogni settore dell'economia, da un largo numero di
imprese produttrici di beni che sono, tra loro, stretti (ma non perfetti) sostituti. Per sua natura, quindi, questa forma di mercato tende a
configurarsi come una zona di confine tra il monopolio e la concorrenza perfetta, amalgamando elementi e proprietà che sono tipici
dei due regimi suddetti..
Essa fu coniata negli anni 30 da due importanti economisti classici, l’inglese Joan Robinson e l’americano E. Chamberlin.
Il mercato di concorrenza monopolistica descritto da Chamberlin è simile in certi aspetti alla concorrenza perfetta, in quanto è
caratterizzato dalla presenza di molteplici imprese con libertà di entrata e di uscita dal mercato. E' diverso però sotto altri punti di
vista, in particolare nel mercato di concorrenza monopolistica ogni impresa ha potere sul prezzo perché vende un prodotto
caratterizzato da differenze significative rispetto ai prodotti della concorrenza; il che significa che ogni impresa ha un certo grado di
potere di monopolio sul proprio prodotto.
Questo è senz'altro l’aspetto “monopolistico” della teoria esaminata. Dall'altra parte, il potere di monopolio viene notevolmente
ristretto dalla presenza di prodotti simili venduti alla concorrenza e questo è, invece, l’aspetto concorrenziale.
Ma ciò che differenzia maggiormente la concorrenza monopolistica dal monopolio e dalla concorrenza perfetta consiste
nell'assunzione di prodotti omogenei o differenziati. Infatti, mentre in concorrenza perfetta le imprese vendono un prodotto omogeneo
di cui gli acquirenti non fanno distinzione in quanto considerano questi prodotti come dei perfetti sostituti l'uno dell'altro, in regime di
concorrenza monopolistica, le imprese vendono un prodotto differenziato che, da un punto di vista pratico, rappresenta un gruppo di
beni abbastanza simili da essere chiamati prodotto ma abbastanza diversi da essere distinti, dagli acquirenti, dai prodotti venduti dalle
altre imprese del settore. In questo caso, poiché i consumatori considerano i prodotti come sostituti stretti ma non perfetti, il produttore
di ogni bene ha qualche potere sul prezzo, cioè non esiste un prezzo unico di mercato che l'impresa debba accettare come un dato e
l'elasticità della domanda assume valori finiti.
Quindi, un'impresa che opera in un mercato di concorrenza monopolistica, a differenza di quella di concorrenza perfetta, non è inserita
in un mercato unico e indifferenziato ma ne possiede uno proprio anche se soggetto all'influenza, delle altre imprese, derivante da
analoghi mercati.
Esempi di mercati in concorrenza monopolistica possono essere individuati nel comportamento di alcune piccole imprese che operano
nel settore del commercio al dettaglio e della prestazione di servizi alle persone: la consegna a domicilio del prodotto, ad esempio, può
far preferire un panettiere ad un altro, il parrucchiere più all'avanguardia fa presa su un certo tipo di clientela e così via.
7.
L'oligopolio
L’ultima forma di mercato da analizzare in questa sede è l'oligopolio. Anch'esso rappresenta una forma ibrida di mercato, posta a metà
strada tra la concorrenza perfetta e il monopolio.
5
L'oligopolio è caratterizzato dall'esistenza, in un certo settore, di un limitato numero di produttori, di rilevanti dimensioni, in grado di
soddisfare considerevoli quote della domanda del mercato. Questo mercato è la forma tipica di settori produttivi importanti quali
l’industria siderurgica, i mezzi dì trasporto e l'industria chimica.
A volte, i produttori agiscono in esso collusivamente comportandosi come se fossero di fatto un’impresa monopolistica che offre un
bene omogeneo ad una strategia unitaria di prezzo. Il patto di non aggressione che le imprese produttrici stipulano crea degli equilibri
di mercato fortemente simili a quelli di monopolio, portandole a scegliere il livello produttivo ottimale nell'incontro tra i ricavi e i
costi marginali.
Nel grafico 9 si può vedere come capita spesso, in regime di oligopolio, che di fronte ad un oligopolista che abbassa il prezzo del bene
per aumentare la sua quota di mercato, le altre imprese lo imitino frustrando il suo tentativo; in questo caso si hanno infatti due curve
di domanda diverse, una elastica (nel grafico è la retta ArD) se il prezzo risulti maggiore a quello di monopolio e una rigida (la retta
Ard) nel caso opposto.
Nel caso in cui l'impresa oligopolista, per ottenere profitto o quote di mercato maggiori, utilizza le caratteristiche fisiche dei suoi beni
distinguendole da quelle dei suoi concorrenti, si parla di oligopolio differenziato. E' una situazione tipica, nel nostro paese, del settore
chimico; la pubblicità, in questo caso, gioca un ruolo molto importante e rappresenta, a volte, una barriera all'entrata del mercato.
GRAFICO 9
P
ARD
ARd
RMgd
O
8.
RMgD
Q
I “contestable markets”
La teoria dei mercati "contendibili" si è diffusa negli USA nel corso degli anni ‘70, rivoluzionando la teoria economica del monopolio.
Un mercato perfettamente "contendibile" è quello che consente un ingresso libero e veloce; ciò non vuole significare che l'ingresso sia
gratuito o facile (vi possono infatti sussistere delle barriere anche se relativamente limitate), ma si fa riferimento al fatto che chiunque
acceda al mercato non debba essere svantaggiato rispetto a chi già vi opera. Parimenti vi è piena "libertà di uscita" in quanto ciascun
operatore economico può uscire dal mercato senza alcun ostacolo e inoltre ha modo di recuperare i costi precedentemente sostenuti in
occasione del suo ingresso.
Diversamente dalla teoria della concorrenza perfetta, la teoria dei “contestable markets” si applica non solo al mercati in cui vi sia una
pluralità di agenti economici, ma si estende anche ai regimi di duopolio e di monopolio. In queste ipotesi un mercato “contendibile” in
cui operi un unico soggetto o al massimo due, può, sotto determinate condizioni, comportarsi come un mercato perfettamente
concorrenziale, assicurando un equilibrio ottimale. Ciò è dovuto dal fatto che gli altri operatori possono comunque accedere al
mercato in qualsiasi momento e in piena libertà (dando vita di fatto ad una sorta di "monopolio volontario" in cui cioè vi sia un solo
soggetto che voglia occupare quel mercato/prodotto) non essendovi alcuna barriera che ne ostacoli l'accesso.
Anche secondo tale teoria (così come la "workable competition") è pertanto opportuno un (limitato) intervento statale che favorisca la
creazione delle condizioni di "contendibilità", cioè libertà dì entrata e di uscita delle imprese tra i diversi comparti produttivi.
Andrebbe invece escluso qualsiasi intervento che miri ad individuare il numero e le dimensioni delle imprese presenti sul mercato
ritenuto ottimale, al fine di costituire una sorta di "barriera all'entrata" nel momento in cui tali condizioni vengano raggiunte.
La teoria del mercati contendibili è stata oggetto di aspre critiche che hanno dimostrato come la presenza di sunk cost (anche in misura
esigua) sia tale da indurre l'impresa già presente sul mercato ad assumere comportamenti di tipo monopolistico, impedendo così il
raggiungimento dell'equilibrio di ottimo paretiano.
Nonostante le obiezioni teoriche non bisogna sottovalutare il ruolo determinante svolto dalla teoria dei "contestable markets". Essa ha,
infatti, ispirato l'autorità amministrativa statunitense circa i criteri di valutazione da adottare per poter intervenire sul mercato. Questa
influenza si è diffusa negli ultimi anni anche nel continente europeo e persino nel Italia dove già nel 1990, con la Relazione Cassola di
accompagnamento all'istituzione della legge n. 287, si è sostenuto che obiettivo della legge "è di impedire quei comportamenti che
mirano a creare barriere all'entrata". In tal modo è stato pienamente accolto il pensiero della teoria in esame.
6
9.
La teoria del monopolio naturale
La teoria dei monopoli naturali evidenzia come la presenza di monopoli non sempre sia dannosa per l'economia, infatti asserisce che in
alcune ipotesi si ottengono i migliori risultati se una determinata attività è esercitata da una sola impresa, anziché in un regime di
concorrenza.
Questa teoria, che ha il suo maggior esponente in T. Ely, distingue i monopoli di tipo istituzionale da quei monopoli le cui
caratteristiche sono “insite nella natura dell'attività economica esercitata”.
Questi ultimi possono derivare da fusioni, da integrazioni verticali o orizzontali e da cartelli che favoriscono pratiche collusive oppure
dall'esistenza di economie di scala nella produzione, tale per cui la presenza di un numero elevato di imprese non sarebbe
economicamente conveniente.
Quando siamo in presenza di economie di scala (a tal proposito si parla di "monopoli naturali") non si ritengono plausibili interventi di
diritto antitrust che dovrebbero invece essere adottati per impedire pratiche, quali fusioni e cartelli, che possano favorire la creazione
di poteri monopolistici. Ciò è dovuto dal fatto che la produzione domandata dal mercato è erogata a costi minori da una sola impresa
anziché da una pluralità di imprese, così che i consumatori possano fruire di quel bene o di quel servizio ad un prezzo inferiore
rispetto a quello che si determinerebbe in un regime concorrenziale.
E' questo il caso che si verifica nell'economia moderna in tutti quei settori adibiti alla produzione di "beni pubblici" e che per questo
motivo sono considerati strategici.
In tali casi è quindi necessaria una regolamentazione che dopo aver individuato il numero ottimale di imprese che devono operare sul
mercato, ponga delle restrizioni all'ingresso di nuove imprese.
Casi tipici di monopolio naturale vi sono in quel settori in cui la tecnologia presenta elevati rendimenti di scala crescenti che
richiedono un solo grande impianto o una sola rete unificata di impianti affinché possano essere pienamente sfruttati. E' quanto si
verifica nel settori dei trasporti, dell'elettricità e delle comunicazioni. In genere tali monopoli sono regolati dall'autorità pubblica (si
parla a tal proposito di monopoli di pubblica utilità) la quale con i suoi interventi evita che i consumatori possano essere danneggiati.
Tali interventi sono rivolti ad esempio a fissare un canone fisso di accesso al servizio.
10. La concezione classica della concorrenza
Si svolgerà ora una disamina relativa all'evoluzione storica del concetto di concorrenza allo scopo di meglio giungere, nel seguito, a
definire le basi su cui poggia la legge antitrust. Verrà innanzitutto analizzata la concezione classica della concorrenza per poi
proseguire con le critiche apportate a tale corrente di pensiero con un cenno al concetto di concorrenza secondo Marx; si parlerà poi
della concezione neoclassica della concorrenza e infine delle teorie proprie del nostro secolo quali la Scuola di Chicago e le critiche
ad essa apportate che hanno delineato gli obiettivi propri del diritto antitrust.
Nell'economia classica, sviluppatasi intorno al XVIII sec., concorrenza voleva dire confronto tra operatori, inteso come "rivalità
interdipendente", in cui ogni soggetto economico, nello svolgimento della propria attività, deve concorrere con tutti gli altri agenti che
svolgono la medesima attività. Per i classici, però, concorrenza significa anche libera competizione nel senso che ognuno deve essere
in grado di agire in base ai propri interessi ed alle proprie esigenze.
Questa concezione di concorrenza è generalmente individuata nel pensiero di Adam Smith che nel brano sulla "mano invisibile"
scrive: "Egli (ciascun individuo) solitamente non intende promuovere l'interesse pubblico, né è consapevole di quanto lo stia
promuovendo... Egli mira solo al proprio guadagno, ed in questo come in molti altri casi è guidato da una mano invisibile, verso un
fine affatto distinto dalle sue intenzioni. Sostanzialmente A. Smith esprime la convinzione che "senza alcun intervento della legge gli
uomini spinti dai propri interessi privati e dalle proprie passioni sono indotti a dividere e a distribuire il capitale secondo la
proporzione più conforme all'interesse della società, raggiungendo risultati ottimali dal punto di vista sociale".
La teoria classica è dunque decisamente contraria ad ogni forma di intervento normativo nella sfera economica, l'esistenza della
concorrenza sarebbe infatti sancita proprio dalla mancanza di barriere e da un contesto politico di perfetta libertà in cui possa operare
il mercato.
Secondo alcuni autori però, sarebbe errata la convinzione che la letteratura economica classica fosse completamente fedele al
principio del "laissez faire". Questa accezione è argomentata dal fatto che A. Smith riteneva necessaria, al fine di garantire un regime
concorrenziale, una struttura giuridica in grado di prevenire le collusioni e gli abusi delle imprese dominanti.
In realtà, la maggior parte degli autori classici era contraria a qualsiasi intervento pubblico nell'economia, la teoria di mercato più
diffusa era quella di "spalancare la porta delle opportunità e confidare nei risultati”. E' indubbio però che alcuni classici ritenevano
opportuna una regolamentazione antitrust mediante un intervento statale limitato al solo fine di garantire ai concorrenti l'ingresso o
l'uscita dal mercato senza alcun ostacolo, continuando in ogni caso ad incoraggiare la rivalità tra operatori.
Tali autori hanno così anticipato alcuni concetti che, come si vedrà, sono stati poi ripresi in epoche più recenti.
11. Critiche alla concezione classica di concorrenza
Dopo aver esaminato il pensiero classico di A. Smith si deve osservare che alcune (giustificate) critiche gli sono state mosse.
La prima di queste è riferibile al fatto che Smith sosteneva che ciascun soggetto economico doveva essere in grado di entrare ed uscire
dal mercato senza alcun costo. In realtà, non prese in considerazione l'esistenza di ostacoli di natura istituzionale ed economica.
Tra gli ostacoli di natura istituzionale si possono citare le concessioni governative per produrre in esclusiva un determinato bene
(monopolio istituzionale) e gli interventi amministrativi e legali che regolano l'entrata e l'uscita del lavoro e del capitale nei mercati.
Tra quelli di natura economica vi sono: l'esistenza di economie di scala nella produzione di un determinato bene, la presenza di un
7
fattore scarso (il capitale) che genera posizioni di rendita e le informazioni acquisite dalle imprese già presenti sul mercato non
disponibili invece per i concorrenti esterni.
La seconda critica giunse dalla visione marxista di concorrenza che costituisce una delle principali teorie in antitesi con la concezione
classica.
Karl Marx rifiuta "l'illusione della concorrenza come forma assoluta della libera individualità nella sfera della produzione e dello
scambio" e ritiene che "nella libera concorrenza non sono gli individui, ma è il capitale che è posto in condizioni di libertà".
Secondo tale tesi pertanto la libera concorrenza è intesa come la forma adeguata per il processo produttivo del capitale. La libertà che
ne deriva non è interazione di individui liberi, ma è la libertà dalle coercizioni, dai limiti e dagli ostacoli che del processo produttivo
del capitale coartano il movimento, lo sviluppo e la realizzazione dell'individuo.
12. La concezione neoclassica della concorrenza
Nel periodo "neoclassico", collocato intorno la prima metà del XIX sec., la principale svolta concettuale in tema di concorrenza è
contenuta nell'opera di A. Cournot il quale sosteneva che la concorrenza opera in modo pieno e completo quando ciascun operatore, su
ogni mercato, tratta il prezzo come un parametro che egli non è in grado di modificare mediante variazioni delle quantità offerte o
domandate. In altre parole la concorrenza perfetta viene definita come la situazione in cui gli agenti economici, nell'effettuare le
proprie scelte considerano i prezzi come dati (price-taking secondo la terminologia anglosassone).
Un concorrente perfetto, dunque, è un "price-taker" e deve perciò attenersi ai prezzi dati dal mercato. Ad esso si contrappone il
monopolista che è invece un "price-maker" che determina da sé il prezzo di vendita, determinando così danni ai consumatori in
seguito ad un aumento dei prezzi.
Fin dall'origine del proprio pensiero, Cournot aveva constatato che il comportamento price-taking rappresentava una sorta dì variabile
dipendente dal numero di soggetti economici operanti sul mercato. Avvertì pertanto la necessità di predisporre delle istituzioni
pubbliche, qualora le condizioni del suo paradigma non venissero soddisfatte.
13. La scuola di Chicago
Verrà esposta in questo paragrafo una delle teorie più recenti intorno alla quale si è incentrato gran parte del dibattito sul moderno
diritto antitrust.
La scuola di Chicago cominciò a diffondersi negli anni '70 e raggiunse massima autorevolezza negli anni '80. Attraverso tale corrente
di pensiero si allarga lo spazio del "laissez-faire": si ritiene, infatti, che, attraverso la libera contrattazione tra gli operatori, si
sviluppano dei contesti istituzionali efficienti che vanno quindi consentiti e favoriti e non sono, invece, da considerare forme di
monopolio da combattere.
Gli esponenti di questa scuola criticano pesantemente la tendenza da un lato a proteggere le piccole imprese individuali e dall'altro a
ostacolare le imprese di più ampie dimensioni. Si asserisce, infatti, che se un'impresa diviene grande, evidentemente è efficiente.
Si ritiene, pertanto, estremamente fuorviante che le imprese più efficienti possano giungere a controllare il mercato riducendo così, il
livello concorrenziale. Ciò è facilmente intuibile dal fatto che se in seguito a fusioni si eliminano le altre imprese presenti sul mercato,
la concorrenza potrà in ogni momento essere ripristinata dall'ingresso di nuove imprese rivali provenienti, ad esempio, dall'estero.
Da queste premesse la scuola di Chicago giunge a sottolineare come una politica antitrust mirante a colpire i soggetti economici più
"forti" (ponendo, ad esempio, ostacoli che impediscano un aumento delle concentrazioni), determinerebbe effetti disastrosi per
l'economia. Se, infatti, un'impresa raggiunge una certa dimensione significa che è efficiente, con notevoli vantaggi per l'intera
collettività. A questo punto della nostra trattazione possiamo delineare l'ideologia economica che fa capo a questa scuola: la struttura
di mercato ottimale è quella in grado di provocare la più efficiente allocazione delle risorse.
I critici di questa teoria hanno osservato che in tal modo non verrebbe preso in considerazione il profilo distributivo. In realtà questo
aspetto non è del tutto indifferente alla scuola di Chicago; secondo essa, infatti, i maggiori profitti realizzati dalle grandi imprese a
scapito dei consumatori ritornano in circolazione attraverso un aumento degli stipendi o del dividendi, a favore di altri consumatori. In
tal modo è più conveniente per la collettività che vi sia un unico imprenditore ricco ma attivo, disposto, cioè, ad utilizzare a fini
produttivi la ricchezza acquisita, anziché molti consumatori ricchi, ma poco attivi nell’utilizzare la propria ricchezza prevalentemente
in impieghi di consumo.
Gli economisti, appartenenti a questa corrente di pensiero, hanno, da un lato ragione di ritenere che, per la maggior parte, i mercati
tendono a correggere autonomamente le proprie disfunzioni, dall'altro, però, non prendono in considerazione il dato pratico che la
correzione richiede spesso un lungo tempo. Occorre, inoltre, osservare che persino i monopoli di breve durata possono comportare un
elevato costo sociale al punto tale da richiedere interventi di diritto antitrust, al fine di eliminare gli effetti negativi che eventualmente
si siano realizzati.
14. Le critiche alla scuola di Chicago
Tradizionalmente al diritto antitrust si è attribuito il duplice intento di impedire gli effetti puramente redistributivi e di assicurare la
massima efficienza allocativa delle risorse. Il primo dei due effetti si verifica quando un'impresa che ha un certo potere sul mercato è
in grado di praticare prezzi superiori a quelli che sarebbero praticati in un regime concorrenziale. L'aumento dei prezzi determinerebbe
un trasferimento di ricchezza dai consumatori all'impresa, con una conseguente riduzione del benessere che i consumatori avrebbero
tratto da una situazione concorrenziale (benessere denominato rendita o surplus del consumatore) mentre aumenterebbe, in misura
corrispondente, il benessere dell'impresa.
8
Il secondo degli effetti sopra menzionati si verifica quando alcuni consumatori sono costretti, a causa dell'aumento del prezzo al di
sopra del livello concorrenziale, a rinunciare all'acquisto di quel bene e a ricorrere ad altri beni per soddisfare i propri bisogni. Questa
situazione determinerebbe un'alterazione dell'allocazione delle risorse sociali.
L'impostazione teorica della scuola di Chicago, a differenza di quella tradizionale, prende in considerazione solo il secondo degli
effetti descritti, affermando che obiettivo unico del diritto antitrust consiste nell'assicurare la massima efficienza complessiva del
sistema, tralasciando, quindi, le questioni distributive. Da questa impostazione ne deriva che la perdita di efficienza del sistema non è
causata dall'aumento del prezzo del bene, bensì da una produzione del bene in quantità inferiore a quella che sarebbe stata prodotta in
condizioni di concorrenza.
Da tutto ciò gli autori di questa tesi giungono ad affermare che sono da considerare lecite tutte quelle azioni con cui l'operatore
economico che detiene un ampio potere di mercato, cerca di aumentare i propri profitti.
Altra importante critica alla scuola dì Chicago deriva dal fatto che perseguire l'obiettivo dell'efficienza allocativa può creare collusione
tra tale obiettivo e quello di efficienza produttiva.
Secondo il criterio di Vilfredo Pareto (principio denominato di “ottimo paretiano") si raggiunge una situazione ottimale quando non è
possibile migliorare il benessere di alcuno dei membri della società senza nel contempo peggiorare quello degli altri. Quando si
verifica tale situazione vuol dire che si è raggiunto il massimo di efficienza allocativa e distributiva, situazione coincidente con
l'equilibrio che si ha in un mercato perfettamente concorrenziale. Significativa a questo proposito è l’espressione: ogni equilibrio
concorrenziale è un optimum di Pareto e ogni optimum di Pareto è un optimum concorrenziale.
L'obiettivo dell'efficienza allocativa, affinché si realizzi una situazione di ottimo paretiano, richiede che le imprese non abbiano grandi
dimensioni e che non entrino in collusione tra loro. L'efficienza produttiva è invece strettamente collegata alle caratteristiche (in
particolare alle dimensioni) e ai comportamenti di ciascuna impresa.
15. Gli sviluppi più recenti
Le tesi esposte nei paragrafi precedenti hanno messo in luce come la concorrenza sia la forma di mercato che meglio garantisce al
sistema economico di raggiungere un equilibrio ritenuto ottimale. Per garantire un regime concorrenziale è da sempre avvertita
l'esigenza di un intervento legislativo. Persino durante il periodo classico, periodo in cui primeggiava l'idea di concorrenza come
libera competizione, si sollevarono alcune voci che ritenevano necessaria una struttura giuridica da istituire al fine di prevenire le
collusioni e gli abusi delle imprese dominanti. Tale necessità si ampliò sempre più nei periodi successivi con l'evoluzione del pensiero
economico, per poi giungere nel 1890 all'emanazione della prima normativa nazionale volta a vietare le intese restrittive della
concorrenza e i tentativi di creare i monopoli (lo Sherman Act statunitense).
I dibattiti economici, però, su come tutelare la concorrenza non cessarono mai, anzi possiamo tranquillamente affermare che sono in
corso ancora oggi. Non si discute più sulla necessità di una disciplina antimonopolistica, in tutti i paesi capitalistici è ormai
indiscutibilmente avvertita tale esigenza, ma si discute sempre più su quali siano gli interventi da adottare e soprattutto se sia
opportuno condannare qualsiasi tentativo delle imprese volto ad assimilare le proprie dimensioni o solo quelle azioni che di fatto
ostacolino la realizzazione della concorrenza.
Appare opportuno stabilire cosa si intende per una disciplina antitrust. Compito dell’antitrust è quello di garantire la concorrenza,
disciplinando i comportamenti delle imprese al fine di evitare che creino o sfruttino situazioni di mercato che consentano loro di
praticare prezzi più elevati rispetto a quelli che si realizzerebbero in un mercato concorrenziale. Se, infatti, le imprese potessero agire
liberamente tenderebbero ad aumentare i prezzi, ottenendo così maggiori profitti a danno, però, dei consumatori.
Conseguentemente la struttura di mercato ottimale, secondo la definizione di antitrust qui esposta, è quella che persegue l'obiettivo di
dirimere il conflitto di interesse che si crea tra produttori e consumatori, consentendo ai consumatori di incidere sul comportamento
delle imprese attraverso scelte consapevoli, effettuate nell'ambito di una vasta gamma di alterative. Questa concezione evidenzia la
necessità di una disciplina a tutela della concorrenza al fine di evitare distorsioni del mercato che inevitabilmente si verificherebbero.
16. I benefici in termini di sviluppo economico
Si è visto che la concorrenza apporta benefici ai consumatori ed ai produttori, in termini di surplus e permette al sistema economico
un’allocazione efficiente delle risorse. Si procederà ora a chiarire in che modo tale forma di mercato determina un generale sviluppo
economico.
In un regime concorrenziale la curva di domanda si presenta infinitamente elastica, in quanto il prezzo è determinato dal mercato
senza possibilità per le imprese di modificarlo. Questo vuol dire che le imprese non hanno molte possibilità nella loro politica dei
prezzi, dato che i consumatori sono molto sensibili ai piccoli mutamenti dei prezzi: un loro aumento allontanerebbe gli acquirenti che
si rivolgerebbero alle imprese concorrenti, mentre una loro riduzione sarebbe seguita dagli altri operatori.
Per queste ragioni, le imprese tentano sovente di ridurre l'elasticità (rispetto al prezzo) della domanda del loro prodotto.
Un valido strumento a questo fine consiste nel differenziare i prodotti offerti rispetto a quelli dei concorrenti, in modo che i
consumatori difficilmente siano disposti ad abbandonare il prodotto scelto. Ciò vuol dire che più i prodotti si presentano differenziati
agli occhi dei consumatori, meno questi sembrano loro sostituibili, con una conseguente riduzione dell'elasticità della domanda. Un
aumento dei prezzi, infatti, non comporterebbe per l'impresa una grave perdita di consumatori proprio a causa delle caratteristiche
peculiari del prodotto offerto, caratteristiche che non si riscontrano nei prodotti dei concorrenti.
Da quanto precede risulta, pertanto, che ciascuna impresa, quando è in competizione con altre imprese aventi obiettivi più o meno
corrispondenti, cerca di attuare un processo di differenziazione, in altre parole mira a ricercare delle differenze significative in grado
di rendere distinguibile per i consumatori l'offerta dell'impresa rispetto a quelle dei concorrenti. Affinché tutto ciò sia realizzabile
ciascuna impresa effettua investimenti nella ricerca, al fine di:
·
perfezionare i prodotti già esistenti migliorandone le qualità o i servizi;
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·
introdurre nuovi prodotti e nuovi servizi;
·
offrire prodotti tecnologicamente più avanzata.
Il perseguimento e soprattutto il raggiungimento da parte delle imprese di questi obiettivi determina un generale sviluppo economico a
tutto vantaggio della collettività. In particolare il tasso di sviluppo dell'economia dipende dall'entità delle nuove tecnologie
fondamentali messe a punto. A tal proposito, oggi nel mondo tutte le grandi imprese sono impegnate nello sviluppo di tecnologie volte
a rivoluzionare i prodotti ed i processi produttivi (in Italia, però, l'impegno nello sviluppo tecnologico, pur essendo in crescita, resta
ancora lontano da quello degli altri paesi industrializzati).
A causa dell'elevato costo degli investimenti in ricerca e sviluppo, molte imprese sono impegnate per lo più a sviluppare miglioramenti
(di ridotta importanza) dei prodotti piuttosto che cimentarsi in innovazioni fondamentali, ma rischiose. E' così che molte imprese
investono le proprie risorse nella ricerca al solo fine di introdurre miglioramenti marginali nelle caratteristiche funzionali ed esteriori
dei prodotti. Si può quindi affermare che la gran parte della ricerca è difensiva piuttosto che offensiva.
Da quanto precede si deduce che la competizione contemporanea tra imprese avviene per lo più diversificando l'offerta rispetto a
quella dei concorrenti. Ne consegue che ciascuna impresa deve prendere in considerazione il sistema di consumo dell'acquirente, ossia
"il modo in cui l'acquirente di un prodotto realizza la finalità complessiva in vista della quale egli impiega il prodotto”.
E’, infatti, solo tenendo conto delle esigenze degli acquirenti che le imprese possono acquisire un vantaggio competitivo ed
individuare così molteplici opportunità per diversificare la propria offerta. In tal modo, inoltre, si creano contemporaneamente
notevoli benefici per gli stessi consumatori, i quali possono disporre di ampie possibilità di scelta per poter vedere soddisfatti i propri
bisogni.
Alcuni autori al riguardo, giungono a sostenere che la concorrenza fra le imprese non si svolge fra ciò che producono nei propri
stabilimenti, ma fra ciò che aggiungono ai loro prodotti sotto forma di confezionamento, servizio, pubblicità, assistenza alla clientela,
finanziamenti, termini di consegna, gestione delle scorte ed altri elementi apprezzati dalla clientela.
E' in ogni caso indubbio che i tentativi effettuati dalle imprese per ridurre l'elasticità della domanda ed affermarsi sui mercati
competitivi sono positivi per l'intero sistema economico. Ciò è vero sia per le innovazioni che per le diversificazioni o per semplici
miglioramenti.
17. Le limitazioni alla concorrenza
Dopo aver analizzato i benefici economici derivanti dall'instaurarsi della concorrenza, si procederà ora ad esaminare le limitazioni da
apportare alla concorrenza per poter perseguire gli interessi generali e l'utilità sociale.
E' opinione comunemente diffusa che la concorrenza sfrenata può, talvolta, arrecare notevoli danni sia al mercato che alla collettività.
L'art. 41 della Costituzione italiana, a tal proposito, sancisce che la libertà economica privata e la libertà di concorrenza sono disposte
nell'interesse generale e non possono svolgersi "in contrasto con l'utilità sociale". E' quindi ammesso un intervento legislativo
limitativo della concorrenza al solo fine, però, di tutelare l'utilità sociale. Questi interventi possono essere di due tipi consistenti o nel
porre delle limitazioni pubblicistiche o nell'istituire dei monopoli legali.
Nell’ambito degli interventi normativi introduttivi di limiti di diritto pubblico possiamo citare i casi che più si riscontrano nei diversi
paesi:
1) subordinare l'esercizio di particolari attività (quali imprese bancarie, assicurative, emittenti radiotelevisive private, esercizio del
commercio all'ingrosso e al minuto) al conseguimento di concessioni o autorizzazioni amministrative;
2) controllare e indirizzare quelle attività che operano in settori di particolare rilievo economico-sociale, quali l'attività bancaria,
creditizia e assicurativa;
3) svolgere un sistema di controllo pubblico dei prezzi di vendita dei beni di largo consumo, controllo che può giungere anche
all'imposizione di prezzi d'imperio. Quest'ultima attività in Italia è stata svolta, sino al 1993, dal CIP (Comitato Interrninisteriale
Prezzi) per beni quali la benzina, il gasolio, i medicinali e alcuni generi alimentari (pane, sale, olio).
Per quanto concerne l'istituzione dei monopoli legali, essa può avvenire, in virtù dell'art. 43 della Cost., solo con legge ordinaria per
motivi di utilità generale ed esclusivamente in alcuni settori tassativamente predeterminati. Si tratta, prevalentemente, di quei settori
che svolgono un servizio pubblico essenziale, producono fonti di energia e settori in cui si realizzano elevate economie di scala (i c.d.
monopoli naturali).
Oggi con l'introduzione delle leggi antimonopolistiche i monopoli pubblici e, in particolare quelli istituiti al fine di procurare allo
Stato entrate (i c.d. monopoli fiscali), tendono a ridursi, sia a livello comunitario che nazionale, anche se ne sussistono ancora di
diversi tipi.
Tipici esempi di monopoli legali sono quelli del tabacchi, del lotto e delle lotterie nazionali. Sono, invece, venuti meno alcuni
monopoli tipici degli anni passati, in Italia ciò è avvenuto per i settori del trasporto aereo, radiotelevisivo e dei servizi telefonici
limitatamente alla telefonia cellulare (dove accanto alla Telecom vi opera anche la Omnitel).
Quanto sta accadendo nel nostro Paese è il segnale di un grande cambiamento che conduce ad un'economia meno monopolistica e più
concorrenziale.
La normativa antitrust non si applica ai monopoli legali diversamente i monopoli di fatto sono assoggettati alla disciplina posta a tutela
della concorrenza. In ogni caso colui che opera in regime di monopolio legale non può impedire agli altri imprenditori di produrre i
beni o i servizi oggetto di privativa per uso proprio o delle società controllate o controllanti, salvo che non vi siano motivi di ordine
pubblico, sicurezza e difesa nazionale. A questo proposito, al fine di evitare che si realizzino situazioni di abuso di posizione
dominante e per tutelare gli utenti da possibili comportamenti arbitrari, è posto un duplice obbligo a carico del monopolista: l'obbligo
di contrarre con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell'impresa e l'obbligo di rispettare la parità di trattamento tra i
diversi richiedenti. Quest'ultimo obbligo viene adempiuto rendendo note al pubblico le condizioni contrattuali che il monopolista
adotta. E' importante osservare che in alcuni settori queste condizioni sono fissate legislativamente o sono sottoposte ad approvazione
amministrativa, al fine di tutelare maggiormente i consumatori. Esempi tipici italiani si hanno nel settore creditizio e assicurativo.
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