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GRANDI OPERE
Salvatore Amara
UN
SALTO
NEL
BLUES
La colonna sonora
della mia Anima
… ain’t nothin’
but the Blues
CUEC
Salvatore Amara
Un salto nel Blues
La colonna sonora della mia Anima
… ain’t nothin’ but the Blues
ISBN: 978-88-8467-960-4
© CUEC Editrice 2015
prima edizione dicembre 2015
Realizzazione editoriale
CUEC Editrice
by Sardegna Novamedia Soc. Coop.
via Basilicata 57/59
09127 Cagliari
www.cuec.eu
[email protected]
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Questo libro è realizzato in coproduzione
CUEC Editrice/Salvatore Amara
Senza il permesso scritto dell’Editore è vietata la riproduzione
anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata,
compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico
Realizzazione grafica
Antonello De Cicco
Stampa e legatura
Arti Grafiche CDC Srl
Città di Castello (PG)
“Tutto il pensare che fate
prima di iniziare un lavoro
abbrevia il tempo che dovete spendere
per eseguirlo”
R.C. SMITH
Dedico questo libro a Barbara Derosas,
moglie, amica e amante,
il Sole che illumina il mio mondo
e riscalda il mio Cuore.
Che occhi avrà
Railgac Blues
Che occhi avrà, il futuro, ora?
Che occhi avrà, ora, la storia?
Avrà quegli occhi che aveva il vento,
quel vento caldo che dall’Africa saliva
nel canto degli schiavi, nel gospel, nel blues
che dalle navi volava alle stelle
coprendo l’urlo feroce della frusta,
che dalla bocca dei negrieri schioccava
mentre solcava il mare oscuro dell’esilio
all’abbagliare di sole che sorgeva tra vele
squarciate ancora da raffiche di morte
mentre suonava il mantra della diaspora.
Che occhi avrà, ora, il soffio del destino,
mentre riecheggia il ritmo dei tamburi
che da savane approdano a altri lidi?
Avrà quegli occhi ardenti di quell’uragano
che dal profondo sguardo di anime violate,
da volti riaccesi dal vorticare delle ore
che segneranno il tempo al finir di tirannie,
arriverà a quel giorno che placherà la sete,
la fame di giustizia, di campi a seminare
di suoni di rivolta di folle tumultuose,
che in batter d’occhi al tempo da venire
soffocherà i singhiozzi di quelle mille labbra
che adesso vanno ancora concordia a ricercare
con quelle vecchie barche cariche di dolore,
con quelle vecchie barche dolore ad annegare.
“Le mie viscere sono marce.
Viaggio in un treno verso il fiume.
Nessuno sa gli accordi della mia chitarra.
Anch’io li ho dimenticati nel viaggio.
Sparsi nelle rotaie della città di Railgac.
Percorsi Quel Che Restava Delle Strade.
Avevo Un Vecchio Furgone Con Il Motore Stanco.
Nel Suo Cassone Un Cane Sdentato,
Pochi Stracci La Mia Vita.”
Gianni Mascia
Alberto Lecca
Estratto da “L’immaginario del Blues”
“Io nacqui di proprietà di Benjamin Turner, ma di costui ricordo ben poco. Dopo la sua morte improvvisa, quando io
avevo otto o nove anni, passai per eredità a suo fratello, Samuel Turner, nella cui proprietà rimasi dieci o undici anni. …
In seguito, le fortune di Samuel Turner declinarono, e sorsero altri problemi; comunque, non fu più in grado di continuare a gestire la segheria che aveva ereditata da suo fratello,
e, per la prima volta, fui venduto al signor Thomas Moore
e questa vendita, ironia della sorte, ebbe luogo proprio nel
momento in cui raggiungevo la maggiore età, nel mio ventunesimo anno di vita. …Dopo la morte del signor Moore divenni proprietà di suo figlio Putnam, che aveva allora quindici anni. …anche se legalmente appartenevo a Putnam, appartenevo anche a Travis, che esercitava ogni diritto di proprietà su di me finché Putnam non avesse raggiunto la maggiore età. Pertanto, quando miss Sarah sposò Joseph Travis
e andò a vivere sotto il suo tetto, io divenni oggetto di una
duplice proprietà, cosa non particolarmente insolita, ma ulteriormente spiacevole per uno già abbastanza infelice d’essere proprietà di uno solo.”
William Styron
The confessions of Nat Turner, 1967,
traduz. italiana Le confessioni di Nat Turner,
Mondadori 1996
1.
Piacere,
sono il Blues!
O
rmai stavano finendo le vacanze estive del 1978, ancora qualche mese ed avrei compiuto dodici anni.
Ricordo bene che fu proprio allora, durante quel settembre, che per la prima volta provai quella strana quanto
sgradevole sensazione.
Un dolore sordo che mi rimbombava dentro il petto e pian
piano dava corpo ad una rabbia senza fine, apparentemente ingiustificata, che mi faceva quasi esplodere la testa, colorando di rosso il mio volto.
Dall’intensità sembrava proprio che quella sensazione di disagio non potesse appartenere soltanto a me.
Era una sofferenza che, come detto, in un primo momento giudicai incomprensibile, del resto ero un ragazzino felice, mi trovavo comodamente sdraiato sul divano ed ero pure in vacanza dalla scuola ... e che diamine … non aveva proprio alcun senso!!
Pertanto, non riuscivo a capire il perché di un tormento così
profondo e così antico, tale da sfociare in un pianto solitario
e strozzato, silenzioso e per tale motivo ancora più doloroso, perché inevitabilmente soffocarne il rumore comportava la contrazione di tutti i muscoli facciali, pettorali e addominali, tanto che il dolore, alla fine del suo percorso, rinculava dentro la mia testa, squassandola.
Questo perché in realtà mi vergognavo di me stesso, per
quella scena che ritenevo assolutamente infantile, certo
non degna di quell’uomo che all’epoca volevo diventare,
“l’uomo che non deve chiedere mai”.
Insomma, alla fine non trattenni più le lacrime e piansi a dirotto, e più piangevo più la rabbia si trasformava in felicità,
come se finalmente avessi avuto la forza di rompere gli argini dell’adolescenza, di lasciarmi andare per la prima volta
alle mie emozioni, finalmente sentivo di essere onesto con
me stesso e di prendere contatto con la mia vera personalità, di sfogare tutte le frustrazioni, più o meno grandi e più
o meno comuni a tutti gli adolescenti, che fino ad allora mi
avevano tormentato e che avevo in ogni modo cercato di
controllare, negandole.
Da quel giorno la mia vita cambiò: avevo avuto consapevolezza di me stesso!!
Ero entrato in contatto profondo e diretto con la mia anima ed avevo tracciato una linea di demarcazione, che ancora oggi è rimasta inalterata, tra cosa fosse per me il bene ed il male.
Capiamoci, come ho già detto non è che abbia avuto un’infanzia difficile né, tantomeno, un’adolescenza più complicata rispetto a quella di tanti altri, ma per la prima volta riuscii
ad avere un dialogo sincero con me stesso ed a sfogare tutta la rabbia che avevo represso dentro di me per tutto ciò
che consideravo ingiusto.
La rabbia folle di chi si sente impotente davanti ai soprusi e
davanti a qualunque forma di limitazione della libertà, propria ed altrui.
Ricordo come fosse ora che sentivo il fortissimo desiderio
di tornare indietro nel tempo, in veste di invincibile supereroe, per soccorrere il povero Kunta Kinte, braccato, catturato, legato, frustato e buttato dentro un barcone, ivi accatastato come un sacco, in compagnia di tanti altri come lui,
tutti strappati alle loro famiglie ed alla loro terra, privati della loro dignità di esseri umani e trasportati in un posto sconosciuto e lontano, dove avrebbero patito indicibili pene e
sofferenze.
Insomma, il peggiore degli incubi che si concretizza.
KUNTA KINTE – ROOTS (“RADICI”)
Kunta Kinte è il protagonista del romanzo Roots (“Radici”) di Alex
Haley, dal quale è stata tratta l’omonima miniserie televisiva realizzata negli U.S.A. nel 1977 e trasmessa per la prima volta in Italia su Rai 2 in otto puntate, ogni venerdì dalle ore 20:40, a partire dal giorno 8 settembre
1978. Secondo il racconto di
Haley, Kunta Kinte nacque in
Gambia nel 1750 nel villaggio
mandinka di Juffure. Divenuto
guerriero, dopo una rigida disciplina formativa culminata
con l’iniziazione e la circoncisione, a 17 anni venne aggredito, catturato e fatto prigioniero dai mercanti di schiavi.
Dopo esser stato marchiato
a fuoco, venne stipato in una
nave, incatenato con più di
cento altri africani e trasportato in America. Sbarcato ad
Annapolis, in Maryland, dopo tre mesi di viaggio, durante il quale morì un terzo dei prigionieri, fu venduto ad un proprietario terriero della contea di Spotsylvania, in Virginia, che gli cambiò il nome in Toby. Orgoglioso e audace, pagò a caro prezzo, con severe
punizioni e con la mutilazione di una parte del piede, i suoi ripetuti
tentativi di fuga, ma la volontà di ritornare libero non l’abbandonò
mai. I personaggi e le loro vicissitudini sono presentati come realmente esistiti, ed in effetti la ricostruzione dell’autore è supportata dalle sue ricerche e dall’esame dei documenti rinvenuti in varie
biblioteche ed archivi storici, anche se si ritiene che molte circostanze siano state romanzate per esigenze letterarie, prima, e cinematografiche, poi.
9
Quando iniziai a guardarlo in TV, pensavo che Radici fosse
la storia di un giovane ragazzo nero con il lieto fine, come
quelle che fino ad allora avevo visto, ma la sceneggiatura di
quel teleromanzo a puntate non somigliava affatto a quello
trasmesso qualche anno prima, che raccontava le gesta fantastiche della Tigre della Malesia.
A soccorso di Kunta, infatti, non arrivava mai nessuno, tantomeno Sandokan, Yanez o i Tigrotti della Malesia, nessuno lo aiutava a combattere quel maledetto crudelissimo invasore.
Il miserabile Kunta era stato abbandonato da tutti al suo
terribile destino … non ci potevo credere, ma era proprio
così, e non potevo farci niente!
Nonostante tutto quel dolore e nonostante l’inevitabile conseguente sensazione di enorme frustrazione e sofferenza che mi provocava, non riuscivo a staccare gli occhi da
quel teleschermo in bianco e nero e da quella storia terrificante.
Seguii per tutte le puntate e con molta apprensione le vicissitudini di quello schiavo negro e la lenta evoluzione della sua condizione e di quella dei suoi discendenti che, attraverso disumani ed insopportabili tormenti, riuscirono, alla
fine, a conquistare la libertà, che, seppur decisamente sommaria, rappresentava comunque un’incredibile conquista.
Alla fine, in qualche modo o misura, avevo avuto il mio tanto agognato lieto fine, ed anche se in realtà non lo vivevo
come tale, mi sentivo felice ed orgoglioso di me stesso per
avere avuto la forza d’animo di stare vicino a quel disgraziato, anche se soltanto attraverso un teleschermo.
Se l’avessi abbandonato, non guardando più le sue disavventure, così partecipando ai suoi tormenti, non me lo sarei mai potuto perdonare, mi sarei sentito il più vigliacco degli uomini!!
Tuttavia non riuscivo ancora a spiegarmi il perché la storia
di quel ragazzo nero mi avesse sconvolto così tanto profondamente.
Rimasi quasi ipnotizzato ed incantato durante tutto il periodo di programmazione dello sceneggiato, non riuscivo a
pensare ad altro se non a Kunta, mi immedesimavo in lui e
mi auguravo di poter avere da grande quella forza d’animo
10
e quella speranza che, nonostante l’indicibile tragedia che
l’aveva colpito, non lo abbandonava mai.
Mi addormentavo e mi svegliavo con in testa la musica triste della colonna sonora, che rappresentava il filo d’unione
tra Kunta e me, ed ancora oggi la ricordo, nonostante siano
passati quasi quarant’anni dall’ultima volta in cui l’ho sentita.
L’aspetto più deleterio, che contribuì a rendere il tutto ancora più traumatico, era stato l’apprendere che la storia di
Kunta fosse vera!
Ad una mia precisa domanda, infatti, i miei genitori mi dissero che quella tragedia si era veramente consumata ai danni di tantissimi africani e non riuscivo a farmi una ragione
del fatto che all’epoca nessuno, in tutto il mondo, avesse
mosso un dito per evitarla o, almeno, per tentare di arginarla in qualche modo.
Quando chiedevo spiegazioni ai miei familiari ed agli altri “grandi”, nessuno riusciva a spiegarmi il perché di tanta atrocità, e poiché non mi reputavo un ragazzo particolarmente sensibile, mi domandavo come mai persone ben
più attente di me ai problemi sociali non avessero agito per
arrestare immediatamente quell’ingiustificata crudeltà nei
confronti di altri esseri umani.
Doveva pur esserci una ragione ed io dovevo assolutamente scoprirlo.
Dato che nessuno aveva la risposta alla mia domanda, dovevo essere io stesso – come la vita mi ha sempre insegnato – a trovare una spiegazione plausibile, che potesse placare la mia rabbia.
Del resto avevo sempre avuto, già durante la visione delle varie puntate, la sensazione che tutto quel male dovesse
necessariamente avere un senso, e poiché sin da allora ero
profondamente credente, ero sicuro che il Signore avesse
un piano ben preciso, senza il quale non avrebbe mai permesso lo scatenarsi di tanta atrocità.
Quindi, quando terminò la miniserie, decisi che avrei sempre tenuto la mente e gli occhi ben aperti per individuare
ogni segnale che potesse farmi comprendere la finalità di
quel piano tanto oscuro, terribile e complesso.
Il tempo passava, ma di spiegazioni valide neppure l’ombra.
N
ell’attesa mi consolavo suonando la mia chitarra. Infatti, già da qualche anno prima avevo iniziato a giocarci.
Come tutti gli autodidatti dell’epoca, cercavo di fare tesoro
di ogni insegnamento possibile.
In un’era – perché così la si può ormai definire – in cui non
esistevano neppure i DVD ed i manuali di chitarra erano
merce rarissima … e costosissima, figuriamoci internet e le
sue meraviglie, neppure nelle fantasie più sfrenate sarebbe
stato possibile immaginare che da lì a qualche decennio con
un solo click si sarebbe potuto visualizzare un insegnante di
chitarra, pronto ad impartirti lezioni gratuite!
Potevi già considerarti fortunato quando ti capitava di imbatterti in qualche rubrica o rivista periodica dove venivano
indicati gli accordi base del mitico “giro di DO”.
Io, nel mio piccolo, ero un privilegiato, dato che due miei zii,
Mario e Luciano, suonavano la chitarra ed ogni tanto potevo ascoltarli mentre eseguivano qualche ballata italiana o
americana, e guardare dove e come muovevano le dita sulla tastiera.
Insomma, a quei tempi si imparava a suonare la chitarra
“sul campo”, prima imparando gli accordi base e le ritmiche elementari nell’unico modo possibile, ossia suonando
per ore e senza sosta, dopodiché, quando l’orecchio e le dita erano sufficientemente allenati e ti ritenevi pronto per
il “grande salto”, si passava all’ascolto su musicassetta dei
brani dei musicisti preferiti, cercando di riprodurli, sempre
se avevi la fortuna di trovare i nastri e se chi li possedeva era
così gentile da prestarteli, visto che spesso e volentieri mancavano i soldi per comprarli.
L’obiettivo era sempre il solito: imparare a suonare la canzone desiderata prima che l’uso continuo e disperato dei tasti play e rewind smagnetizzasse definitivamente il nastro o
provocasse addirittura la rottura della musicassetta e, in più
d’una occasione, pure del mangiacassette di turno.
Per farla breve, sin dall’età di nove anni la chitarra è stata
la mia fedele amica e compagna di avventure, e dopo aver
EDOARDO BENNATO
Edoardo Bennato (Napoli, Italia 23 luglio 1949). Cantautore, chitarrista, armonicista e one-man-band, capace di suonare contemporaneamente chitarra, armonica, tamburelli, kazoo e altre percussioni. Sin da piccolo si appassionò alla musica ed in particolare
al rock’n’roll, che agli
esordi influenzò il suo
stile e le sue scelte
musicali. La sua musica, specie quella dei
primi albums, testimonia la sua evidente ispirazione ai grandi cantautori americani, tra tutti Bob Dylan,
ed al blues, che culminerà nel 1992 con la
pubblicazione dell’album È asciuto pazzo
‘o padrone, dove rielaborò, sotto lo pseudonimo di Joe Sarnataro e l’ausilio della blues band partenopea Blue Stuff, brani classici del blues stiby M. LOTTA
2.
La mia amica
chitarra
vissuto quella strana crisi esistenziale notai subito che il mio
modo di approcciarmi allo strumento mutò: il rapporto con
la mia chitarra era divenuto più convinto, più profondo e, se
possibile, ancora più intimo.
Adesso non pensate male!
Non ho detto che ci andavo a letto, come spesso è capitato ad altri musicisti, un nome a caso, che mi viene subito in
mente, è giusto Jimi Hendrix.
Ebbene si, qualche volta è successo di addormentarmi con
la mia chitarra in mano … ma a quale chitarrista non è capitato almeno una volta?
Intendevo semplicemente dire che ora riuscivo ad assaporare ogni singola nota, godendomi il suono che usciva dalla
mia fedele amica, come fosse proprio la sua voce, e la cosa
più interessante (anche se per certi versi più preoccupante)
è che mi piaceva parlare con lei … ovviamente non ne facevo menzione con nessuno, anche perché l’idea di indossare
una camicia al contrario non mi allettava tanto, quindi custodivo per me quel rapporto segreto, ed ogni giorno mi alzavo entusiasmato dall’idea che da lì a breve avrei ripreso il
discorso con la mia chitarra.
Suonavo con più trasporto, con più emozione, cercando di
comprendere anche i testi ed il messaggio che gli autori delle mie canzoni preferite cercavano di trasmettere attraverso i loro brani.
È proprio durante questa pratica ossessiva che imparai una
lezione che ritengo fondamentale per qualunque musicista,
ossia che in realtà occorre allenare innanzitutto la propria
anima ed il proprio cuore, ancor prima dell’orecchio e delle dita.
Fu così che mi avvicinai alla musica di alcuni cantautori napoletani, in particolare Edoardo Bennato e Pino Daniele.
11
by M. LOTTA
le Chicago, con testi cantati in dialetto
napoletano, ironizzando sui difetti, ma
pure su alcuni pregi della sua città. La
sua ricerca musicale, tuttavia, non si è
mai fossilizzata, tanto da presentare, a
fasi e fortune alterne, accenni di musica
folk, rock, ska e reggae, il tutto sapientemente arricchito
da intermezzi di musica lirica, da camera e persino di musica elettronica, sempre ben miscelati al
sapore della tradizione popolare ed al gusto tipicamente mediterraneo e, in particolare, partenopeo. Sin dal suo primo album Non farti cadere le braccia (1973) tutti i suoi lavori, specie quelli pubblicati nella seconda
metà degli anni 70, come I buoni e i cattivi (1974), Io che non sono
l’Imperatore (1975), La torre di Babele (1976) e Uffà! Uffà! (1980),
sono stati caratterizzati da testi socialmente impegnati, giocosamente dissacranti e mai banali, anche utilizzando come riferimento e base di partenza le favole di Pinocchio, Burattino senza fili
(1977), e di Peter Pan, Sono solo canzonette (1980). Da un lato ha
apertamente criticato le classi dirigenti e la loro screanzata amministrazione del potere e della cosa pubblica, senza fare alcuna
eccezione, neppure per il Papa (Affacciati Affacciati), schierandosi contro la guerra, contro l’ipocrisia delle persone “serie e rispettate”, contro l’arrivismo e l’arroganza dei “grandi e dei potenti”,
contro la presunzione delle persone “colte ed istruite” ed il divismo dei privilegiati, e dall’altro lato non ha mai smesso di celebrare la fantasia e la purezza dei “piccoli”, la sincerità e la semplicità
dei deboli, senza secondi fini o interessi personali, il tutto con un
tono ironico ed autoironico, sempre goliardico e mai gratuitamente offensivo, né volgare.
PINO DANIELE
Giuseppe Daniele, noto Pino (Napoli, Italia 19 marzo 1955 – Roma,
Italia 4 gennaio 2015). Cantautore, chitarrista e autore di colonne
sonore. La sua musica e i testi delle sue canzoni evidenziano non
solo il profondo legame con la tradizione mediterranea e napoletana, presente in particolare nel primo album intitolato proprio
Terra mia (1977), ma anche la sua passione per il blues, culminata
con la sua partecipazione nel 2010 al Crossroads Festival organizzato a Chicago da Eric Clapton. La sua originale produzione artistica, inizialmente ispirata dalla fattiva collaborazione di James Senese in occasione dei successivi tre albums, Pino Daniele (1979), Nero a metà (1980) e Vai mò (1981), l’ha reso uno dei musicisti italiani più conosciuti al mondo, consentendogli pure di collaborare
con i più grandi musicisti del panorama internazionale. Dopo aver
aperto nel 1980 il concerto di Bob Marley a Milano, è indimenticabile il suo concerto del 1981 in piazza del Plebiscito a Napoli, davanti a circa 200.000 persone, accompagnato da una formazione
12
tutta partenopea (Tullio De Piscopo, Joe Amoruso, Rino Zurzolo,
Tony Esposito e James Senese), che segnò non solo un punto, forse inarrivabile, di spessore tecnico raggiunto da una band italiana,
ma testimoniò pure la sua continua innovazione artistica, ben radicata nella tradizione campana, ma con forti richiami a rock, jazz, funk e, ovviamente, blues. La sera del 4 gennaio 2015, Pino Daniele, da tempo afflitto da gravi problemi cardiaci, ha avuto un infarto presso la sua casa di Orbetello, in Toscana. Giunto in condizioni critiche all’ospedale Sant’Eugenio di Roma, è morto dopo vani tentativi di rianimazione. A testimonianza del grande affetto nei
suoi confronti, a Napoli una folla di circa 100.000 persone si è riunita in Piazza del Plebiscito per commemorarne la memoria, cantando le sue canzoni.
Je So’ Pazzo
Je so’ pazzo, je so’ pazzo
e vogl’essere chi vogl’io
ascite fore d’a casa mia.
Je so’ pazzo je so’ pazzo
c’ho il popolo che mi aspetta
e scusate vado di fretta,
non mi date sempre ragione
io lo so che sono un errore,
nella vita voglio vivere almeno un giorno da leone
e lo Stato questa volta non mi deve condannare
pecché so’ pazzo,
je so’ pazzo
ed oggi voglio parlare.
Je so’ pazzo, je so’ pazzo
si se ‘ntosta ‘a nervatura
metto tutti ‘nfaccia ‘o muro.
Je so’ pazzo, je so’ pazzo
ma chi dice che Masaniello
poi negro non sia più bello?
E non sono menomato,
sono pure diplomato
e la faccia nera l’ho dipinta per essere notato.
Masaniello è crisciuto,
Masaniello è turnato.
Je so’ pazzo, je so’ pazzo
nun nce scassate ‘o cazzo!
(Pino Daniele)
Lo spirito di aperta protesta e di fiera ribellione, nei confronti di un sistema politico e sociale sterile, viziato ed ipocrita, che animava le loro canzoni, i cui testi, seppure ironici,
erano decisamente rivolti contro il potere fine a sé stesso e
contro coloro che lo detenevano, rappresentava per me un
irresistibile polo di attrazione.
Mi riconoscevo profondamente e mi specchiavo in quel sincero anticonformismo e, per la prima volta, non mi sentivo solo!
Da lì a qualche tempo iniziai ad ascoltare e riprodurre anche
alcuni brani di artisti americani, in particolare Bob Dylan, gli
Eagles e Cat Stevens, cantando in una lingua che tutto era
tranne inglese ed immaginando il significato di quelle parole sconosciute basandomi sul mood musicale, dato che all’epoca non si trovavano facilmente le traduzioni dei brani e la
mia conoscenza dell’inglese era alquanto “spartana”.
BOB DYLAN
Robert Allen Zimmerman (nome in ebraico Zushe ben Avraham),
in arte Bob Dylan (Duluth, Minnesota 24 maggio 1941). Ha spesso
adottato diversi pseudonimi: Elston Gunnn, Blind Boy Grunt, Boo
“Lucky” Wilbury, Elmer Johnson, Sergei Petrov, Jack Frost, Jack Fate, Willow Scarlet, Robert Milkwood Thomas, Tedham Porterhouse. Cantautore, chitarrista, armonicista, pianista, compositore, poeta, scrittore, attore, pittore, scultore e conduttore radiofonico.
Uno degli artisti più importanti del secolo scorso, non solo in campo musicale ed artistico, ma per l’intera cultura popolare del nostro pianeta. Benché le sue esibizioni, su disco e dal vivo, rappresentino l’aspetto più coinvolgente ed emotivo della sua carriera artistica, sono i testi delle sue canzoni ad essere considerati il suo più
grande contributo, grazie al forte impegno politico e sociale che ha
sempre caratterizzato i suoi lavori, pregni, altresì, di suggestivi riferimenti letterari, poetici e filosofici. Negli anni 60 le sue canzoni
decisamente anticonvenzionali influenzarono le coscienze di milioni di giovani, diventando veri e propri inni dei movimenti pacifisti e
per i diritti civili (fra tutte Blowin’ in the Wind e Master of War), facendolo emergere come figura chiave dell’intero movimento di
protesta americano. Bob Dylan è il cantautore per eccellenza, ma
la sua evoluzione artistica non si è mai arrestata, sebbene talvolta
ciò gli sia anche costato l’affetto del suo pubblico, interessandosi a
quasi tutti i generi musicali, come country, blues, rock’n’roll, gospel, jazz, western, rockabilly, swing e musica tradizionale popolare. Le notazioni relative alla sua vita, anzi alle sue vite, ed alla sua
arte richiederebbero un libro, o meglio, un’enciclopedia interamente dedicata a lui! Cercherò, quindi, di riassumerle nella maniera più breve, ma esaustiva possibile. I suoi nonni materni erano
ebrei lituani, emigrati in America nel 1902, mentre quelli paterni,
di origine turca, erano ucraini di Odessa, emigrati negli U.S.A. dopo i pogrom antisemiti del 1905, quando in seguito al fallimento
della prima rivoluzione russa diverse centinaia di villaggi e città furono saccheggiate e devastate e la popolazione ebraica ivi residente massacrata (sebbene si ritenga che tali spedizioni punitive fossero sommosse popolari spontanee contro gli usi e costumi, anche
religiosi, ebraici, alcuni storici ritengono che furono appoggiate e
sostenute dalle autorità governative, che ne sfruttarono comunque la portata, indirizzando verso l’intolleranza religiosa e l’odio
etnico la protesta dei contadini e dei lavoratori ad infimo reddito,
esasperati dalle dure condizioni della loro vita). Cresciuto nella città mineraria di Hibbing, in Minnesota, dove i genitori appartenevano alla piccola comunità ebraica, Bob Dylan visse a Duluth fino a 7
anni, e quando suo padre si ammalò di poliomielite ritornò alla vicina Hibbing. Passava gran parte della sua giornata ascoltando alla radio musica blues, country e, in seguito, rock’n’roll e alle scuole
superiori formò alcune band con cui suonò covers di canzoni popolari e rock’n’roll ed imparò a suonare il pianoforte. Intorno al 1958,
dopo aver ascoltato un disco di Odetta, il suo interesse per
il rock’n’roll, in particolare per Little Richard, lasciò il posto a quello per la musica folk tradizionale suonata con strumenti acustici, e
così vendette chitarra elettrica ed amplificatore per acquistare
una chitarra acustica. In seguito precisò che il ritmo trascinante e
l’energia travolgente del rock’n’roll non gli bastavano più, in quanto non riflettevano la vita reale, mentre la musica folk era “una cosa molto più seria”, i testi erano “colmi di disperazione, di tristezza,
di trionfo, di fede nel sovrannaturale, tutti sentimenti molto più
profondi. C’è più vita reale in una sola frase di queste canzoni di
quanta ce ne fosse in tutti i temi del rock’n’roll. Io avevo bisogno di
quella musica”. E così entrò a far parte del circuito folk di Dinkytown e fece amicizia con altri appassionati del genere, da cui
prese in prestito molti dei loro albums, dimenticandosi però di restituirli! Proprio a partire da quel momento iniziò a farsi chiamare
Bob Dylan, lo stesso cognome del suo poeta preferito dell’epoca,
Dylan Thomas, e scegliendo come nome Bob poiché la musica popolare di allora era piena di Bobbies. Bob Dylan abbandonò presto
il college, ma rimase a Minneapolis, dove suonò nel circuito folk, e
viaggiò molto. Il 1960 fu per Dylan un anno decisivo, anche perché,
come dichiarato da lui stesso, e confermato da alcuni suoi amici,
concluse un patto con il diavolo in cambio del successo nel mondo
della musica, come prima di lui avevano già fatto Tommy Johnson e Robert Johnson, quest’ultimo un suo idolo. In un’intervista
realizzata nel 2000 per il documentario No Direction Home: Bob
Dylan, di Martin Scorsese, Bob Dylan disse di essersi recato una
notte presso un crocicchio e di aver incontrato il diavolo. Sempre
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camicie da lavoro lasciarono il posto ad un guardaroba ricercato, e
nel suo nuovo stile musicale, dato che chitarra acustica e armonica furono sostituite da chitarra e band elettriche. Il 25 luglio 1965
Bob Dylan si presentò al Newport Folk Festival con chitarra elettrica a tracolla ed una band elettrica di supporto, formata in prevalenza da musicisti provenienti dalla Paul Butterfield Blues Band, tra
i quali Mike Bloomfield alla chitarra, Sam Lay alla batteria e Al Kooper all’organo, e fece il suo storico primo concerto elettrico dai
by M. LOTTA
in occasione di un’intervista contenuta nel documentario di Scorsese, Tony Glover, cantautore amico di Dylan, raccontò il suo stupore quando ad una festa vide Bob Dylan cantare e suonare la chitarra in maniera incredibile, mentre soltanto due mesi prima il risultato era appena mediocre, e suonare l’armonica con disinvoltura, nonostante fosse la prima volta che suonava quello strumento
in pubblico. Nel 2004, in occasione di un’altra intervista concessa a
Ed Bradley, conduttore del programma CBS 60 Minutes, Bob Dylan
ritornò sull’argomento, affermando di voler ritardare la fine di
quel patto. Agli inizi del 1961 si trasferì a New York per suonare e
per far visita al suo idolo Woody Guthrie, ricoverato al New Jersey
Hospital. L’influenza di Woody Guthrie, in occasione delle sue prime composizioni, fu tale che Bob Dylan a proposito dell’opera di
Guthrie disse che “potevi sentire le sue canzoni e allo stesso tempo
imparare a vivere”. Durante una delle visite a Guthrie, Bob Dylan
conobbe un vecchio amico del musicista folk, Ramblin’ Jack Elliott.
I due divennero amici e suonarono pure insieme nei clubs del Greenwich Village, periodo in cui Bob Dylan si appassionò pure al gioco del poker. Fu una positiva recensione di Robert Shelton per il
New York Times, dopo un’esibizione al Gerde’s Folk City nel settembre del 1961, ad attirare l’interesse del pubblico su Bob Dylan,
e proprio nello stesso mese John Hammond, talent scout della Columbia Records, notò il talento di Dylan in occasione della sua partecipazione come armonicista in un album della cantante folk Carolyn Hester, di cui Hammond era produttore, e lo scritturò per registrare il suo primo album, Bob Dylan (1962), nel quale vennero
inclusi brani della tradizione folk, blues e gospel. Nonostante la Columbia Records non fosse soddisfatta delle vendite, Hammond difese Bob Dylan, anche grazie al sostegno di Johnny Cash. Nel
1962 Bob Dylan andò alla Corte Suprema di New York e cambiò il
suo nome in Robert Dylan ed assunse Albert Grossman come manager. Nel successivo album The Freewheelin’ Bob Dylan (1963)
comparvero le prime canzoni di protesta, ispirate da Guthrie e influenzate dalla sua passione per il racconto e l’analisi dei fatti d’attualità, oltre a romantiche canzoni d’amore, introspettive, ma anche giocose ed ironiche. La combinazione voce, chitarra acustica e
armonica ne fecero la figura dominante del movimento folk con
base nel Greenwich Village. La sua voce, non proprio canonica, era
incisiva e graffiante, perfetta per interpretare le sue canzoni. La
sua reputazione crebbe anche presso i musicisti già famosi, come
i Beatles e Joan Baez, e quest’ultima lo invitò a duettare sul palco
ed a registrare con lei alcune delle sue prime canzoni, contribuendo al successo nazionale ed internazionale di Dylan. Nel 1963 Bob
Dylan e Joan Baez, nel frattempo diventati amanti, divennero personaggi di rilievo all’interno del movimento per i diritti civili e cantarono insieme a comizi e raduni, anche in occasione della marcia
su Washington, in cui Martin Luther King pronunciò il suo famoso
discorso “I have a dream”. Le partecipazioni di Bob Dylan a spettacoli televisivi furono sempre discusse e controverse, come quando
nel 1963 se ne andò dall’Ed Sullivan Show perché gli autori del programma gli impedirono di suonare Talkin’ John Birch Paranoid
Blues, in quanto poteva essere potenzialmente diffamatoria per
l’associazione anticomunista John Birch Society. Negli albums pubblicati nel 1964, The Times They Are a-Changin’ e Another Side of
Bob Dylan, i testi delle sue canzoni divennero sempre più politicamente e socialmente impegnati e scomodi. Intorno al 1965 la sua
insofferenza nei confronti delle convenzioni sociali, dell’ipocrisia
dei moralisti e dei media, con cui i rapporti erano sempre più tesi,
si evidenziò anche nel suo nuovo look, dato che i vecchi jeans e le
giorni della scuola. Il pubblico, che nei due anni precedenti l’aveva
osannato come alfiere del folk, non solo disapprovò la sua scelta
artistica, ma reagì malissimo, fischiandolo, tanto che Dylan lasciò il
palco dopo sole tre canzoni, per poi farvi ritorno e suonare due
canzoni in acustico, che stavolta furono ben accolte. Dylan, ad
ogni modo, si risentì molto dell’accoglienza riservatagli dagli appartenenti al movimento folk, rivendicando la sua libertà di espressione artistica, e gli strumenti elettrici divennero parte fondamentale della sua musica, ingaggiando Robbie Robertson e la band The
Hawks. La sua musica, come testimoniato dalla trilogia Bringing It
All Back Home (1965), Highway 61 Revisited (1965) e Blonde on
Blonde (1966), era ormai divenuta una miscela originale ed elettrica di folk, blues, country, R’N’R, R’N’B, gospel, beat, poesia, surrealismo e cronaca sociale, ma non abbandonò mai chitarra acustica
ed armonica. Al culmine dei suoi innumerevoli impegni, il 29 luglio
1966 Bob Dylan ebbe un incidente mentre guidava la sua moto, a
pochi chilometri di distanza da Bearsville, vicino a Woodstock, nello Stato di New York. I contorni dell’incidente sono ancora oggi avvolti nel mistero, e sebbene Bob Dylan dichiarò di aver semplicemente perso il controllo della sua moto, furono ipotizzate diverse
cause: guasto meccanico, guida in stato di ebbrezza, per aver as-
sunto alcool o droga, colpo di sonno e persino tentato suicidio, e di
conseguenza nacquero altrettante leggende, anche perché nessuno poté verificare l’entità delle ferite occorse. A tal proposito
Dylan dichiarò di essersi rotto alcune vertebre del collo, ma non
era stata chiamata nessuna ambulanza sulla scena dell’incidente e
Bob Dylan non era stato ricoverato in alcun ospedale. Secondo altri, invece, Dylan era addirittura morto ed era stato rimpiazzato da
un sosia. L’unica certezza è che l’incidente fornì a Bob Dylan l’occasione di sfuggire alle pressioni e di trascorrere un periodo di isolamento e di pace, che proseguì anche nel 1967, quando decise di
registrare con gli Hawks a casa sua e nello scantinato della vicina
casa degli Hawks, chiamata Big Pink, in un’atmosfera calda e rilassante. Alla fine del 1967 gli Hawks cambiarono il nome in The
Band. Nei successivi albums, John Wesley Harding (1967) e Nashville Skyline (1969), Bob Dylan presentò canzoni decisamente diverse dalle precedenti, i cui testi, introspettivi e contemplativi,
ispirati alle Sacre Scritture, e la cui musica, con pochi essenziali
strumenti, si scontravano decisamente con lo stile psichedelico allora in voga. Il 3 ottobre 1967 morì Woody Guthrie e il 20 gennaio 1968 Bob Dylan, dopo quasi due anni di assenza dalle scene,
suonò dal vivo alla Carnegie Hall di New York in memoria del suo
idolo ed amico. Dopo aver declinato l’invito a suonare al festival di
Woodstock, perché si trovava troppo vicino a casa sua, nel 1969
partecipò al festival dell’isola di Wight e, dopo aver pubblicato nel
1970 Self Portrait e New Morning, nel 1971 prese parte al concerto per il Bangladesh, organizzato dall’amico George Harrison. Durante lo stesso anno registrò alcune canzoni, mai pubblicate,
col poeta Allen Ginsberg, alla Record Plant di New York, in cui Ginsberg figurava come cantante principale, mentre Dylan lo accompagnava con chitarra, armonica e voce. Nel 1972 Dylan scrisse l’omonima colonna sonora e recitò una parte nel film Pat Garrett &
Billy the Kid e dopo la pubblicazione dell’album Dylan (1973), agli
inizi del 1974 partì con The Band per il Bob Dylan and The Band
Tour of North America, organizzato da Bill Graham, dopodiché si ritirò dalle scene. Continuò però a registrare e pubblicare dischi, come Planet Waves (1974), Blood on the Tracks (1975) e The Basement Tapes (1975). Nel 1975, dopo aver incontrato in carcere il pugile Rubin “Hurricane” Carter, imprigionato per omicidio a Paterson, in New Jersey, Bob Dylan, sostenendo la sua innocenza, scrisse Hurricane, la prima canzone di protesta ad avere successo commerciale, inserita nell’album Desire (1976). Per il suo successivo
tour, Rolling Thunder Revue, Dylan coinvolse numerosi artisti provenienti dal circuito folk del Greenwich Village, tra cui il poeta Allen Ginsberg, Ramblin’ Jack Elliott, Joan Baez, con la quale si ritrovò a suonare dopo più di dieci anni, e Joni Mitchell. Nel 1976 Dylan
partecipò al concerto d’addio di The Band accanto ad altre stelle
della musica, come Joni Mitchell, Muddy Waters, Eric Clapton, Van
Morrison e Neil Young, ripreso nel mitico film The Last Waltz
(1978). Sempre nel 1978 Bob Dylan prese parte all’album No Reason To Cry di Eric Clapton, con il quale duettò nella canzone Sign
Language, scritta dallo stesso Dylan. Nello stesso anno uscirono
anche il suo film Renaldo and Clara, mai amato dalla critica, ed il
suo nuovo album Street Legal (1978). Alla fine del 1978 Dylan ebbe una “visione e sensazione”, durante la quale si mosse la stanza,
“c’era una presenza nella stanza e non poteva essere nessun altro
che Gesù Cristo”, e così si convertì divenendo un “cristiano rinato”,
seguì lezioni di biblistica in California e pubblicò gli albums di musica gospel cristiana, Slow Train Coming (1979), con la collaborazione di Mark Knopfler, e Saved (1980). La sua “rinascita cristiana”
non fu ben accolta da molti fans ed amici musicisti, ma il grande
pubblico e la critica reagirono positivamente ai suoi nuovi lavori.
Negli albums successivi, Shot of Love (1981) e Infidels (1983),
quest’ultimo con la rinnovata collaborazione anche in qualità di
produttore di Mark Knopfler, ricomparvero alcuni testi laici, mescolati a canzoni chiaramente cristiane. Nel 1985, dopo aver collaborato al singolo We Are the World, i cui proventi andarono in beneficenza per la carestia in Etiopia, prese parte al Live Aid tenutosi
al JFK Stadium, accompagnato da Keith Richards e Ron Wood, seguito in mondovisione da oltre un miliardo di persone. Nel
1986 partì in tournée con Tom Petty and The Heartbreakers e nel
1987 partì in tour con i Grateful Dead. Nel 1988 iniziò il Never Ending Tour, suonando per decenni senza interruzione in tutto il
mondo con una piccola band in continuo cambiamento. Ciò nonostante non smise mai di collaborare e di suonare insieme ai più
grandi musicisti del pianeta, come Carlos Santana, con il quale nel
1992 partecipò ad un breve tour. Nel 1994 Bob Dylan partecipò
all’evento commemorativo di Woodstock 94, ma nel 1997 dovette interrompere il tour europeo e subire un urgente ricovero in
ospedale a causa di una grave infezione al cuore (pericardite causata da istoplasma). Per fortuna uscì presto dall’ospedale dopo
aver temuto il peggio, tanto da affermare “ho veramente pensato
che presto avrei visto Elvis”. Nell’estate del 1997 ritornò in tour in
Europa e a Bologna si esibì davanti a Papa Giovanni Paolo II, il quale tenne un’omelia basata sul testo di Blowin’ in the Wind. Nel
1999 partì in tournée con Paul Simon e nel 2004 pubblicò il primo
volume della trilogia della sua autobiografia Chronicles. Non si
contano le onorificenze ed i riconoscimenti a lui tributati, né i premi vinti da questo gigante, tra cui, nel 2008, il Premio Pulitzer alla
carriera. Così come non si conta il numero di artisti internazionali
coi quali ha collaborato durante la sua incredibilmente prolifica
carriera, la maggior parte dei quali sono stati da lui stesso ispirati,
né i libri, i documentari, i films ed i siti internet a lui dedicati. La sua
versatilità di artista non ha mai cessato di innovarsi, tanto da esordire nel 2013 come scultore, esibendo una mostra di opere ottenute saldando utensili in ferro, come pinze, chiavi inglesi, ferri di cavallo, vecchi ingranaggi e vari materiali di recupero. Insomma, in
una sola parola, IMMENSO!
Blowin’ in the Wind
How many roads must a man walk down
before you call him a man?
How many seas must a white dove sail
before she sleeps in the sand?
How many times must the cannon balls fly
before they’re forever banned?
The answer, my friend, is blowin’ in the wind,
the answer is blowin’ in the wind.
(Bob Dylan)
Soffia nel Vento
Quante strade deve percorrere un uomo
prima che lo si possa definire tale?
Quanti mari deve sorvolare una colomba bianca
prima che possa dormire sulla sabbia?
Quante palle di cannone devono ancora volare
prima che siano bandite per sempre?
La risposta, amico mio, soffia nel vento,
la risposta soffia nel vento.
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EAGLES
The Eagles sono un
gruppo musicale rock
californiano formatosi
a Los Angeles nel 1971.
Grazie al loro originale stile musicale, melodico ed avvolgente, influenzato da vari generi, specialmente country e rock, diventarono
il punto di riferimento
della musica della West
Coast, vendendo milioni di dischi, tra cui il celeberrimo album Hotel California (1976), e
sono ancora oggi considerati uno dei gruppi rock più influenti di
sempre.
CAT STEVENS
Yusuf Islam, già Steven Demetre Georgiou, in arte Cat Stevens
(Londra, Inghilterra 21 luglio 1948). Cantautore, chitarrista e pittore. Dopo aver iniziato la propria carriera come cantante
pop commerciale, in seguito
ad una grave malattia (tubercolosi) riesaminò la sua intera vita, anche artistica, e virò
decisamente rotta, cambiando non solo casa discografica, ma anche il proprio stile di
vita. Con barba e capelli lunghi diventò un’icona del movimento hippy e, dopo aver
trascorso un periodo lontano dalle scene, coi suoi albums successivi pubblicati tra
il 1970 e il 1971, Mona Bone
Jakon, Tea for the Tillerman e
Teaser and the Firecat, caratterizzati da uno stile musicale originale, morbido ed elegante, con
chitarra acustica, pianoforte e sonorità calde ed avvolgenti, spopolò in tutto il mondo. Nel 1976 il fratello, di ritorno da un viaggio a Gerusalemme, gli regalò il Corano e l’anno successivo, dopo
aver rischiato di morire annegato, Cat Stevens si convertì all’Islam,
adottando il suo attuale nome Yusuf Islam. Da lì a breve diventò
membro della comunità musulmana di Londra e scomparve dalle
scene, facendovi ritorno solo nei primi anni del 2000.
In particolare, fui letteralmente stordito dall’immensità della produzione di Bob Dylan, che ritengo essere stato il mio
primo grande inconsapevole Maestro, e seguirla mi condusse attraverso un lungo viaggio nella musica, all’interno
del quale la ballata acustica rappresentava soltanto il primo gradino.
Ascoltavo Dylan in continuazione, anche mentre studiavo,
ma del resto non era una novità, dato che la musica ha sempre svolto un ruolo predominante nella mia vita.
I miei primi ricordi musicali risalgono all’età di 4 anni, quando un altro mio zio, Gino, mi fece ascoltare alcuni brani di
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Little Richard, ossia Tutti Frutti, Long Tall Sally e, ovviamente, Lucille, che cantavo a squarciagola, sotto lo sguardo divertito ed amorevole di mia nonna Antonietta, saltando sul
tavolo con la mia chitarra giocattolo.
LITTLE RICHARD
Richard Wayne Penniman, in arte Little Richard (Macon, Georgia
5 dicembre 1932). Cantante, autore, pianista e sassofonista. Autocelebratosi “il vero Re del rock’n’roll”, influenzò fortemente la musica e la cultura popolare del secolo scorso. Little Richard nacque
in una famiglia profondamente religiosa dove la musica svolgeva
un ruolo fondamentale, tanto che si esibivano come gruppo canoro nelle chiese locali con il nome The Penniman Singers. Visse in un
quartiere nero dove subì la violenza della segregazione razziale ed
imparò a suonare il sassofono e il pianoforte. Negli anni 50 iniziò
la sua carriera discografica e con i suoi brani più celebrati, tra tutti
Lucille, Long Tall Sally e Slippin’ and Slidin’, propose uno stile musicale rivoluzionario, che contribuirà alla diffusione della sua fama
di pioniere del rock’n’roll, caratterizzato da un ritmo veloce e inarrestabile, dalla presenza incalzante e trascinante delle percussioni,
da una miscela di blues, rhythm’n’blues, funk e boogie-woogie e da
uno stile di canto con evidenti influenze gospel, arricchito da grida acute e laceranti e da gemiti provocanti, tanto che la sua voce
potente e squillante gli procurò il soprannome di War Hawk. Mentre in America vigevano severe leggi razziali, che prescrivevano che
nei luoghi pubblici, inclusi i locali in cui si tenevano concerti, dovevano esserci zone separate riservate ai bianchi ed ai neri, accadeva
frequentemente che durante le sue esibizioni il pubblico, che all’inizio del concerto si trovava diviso in zone separate, nel corso della
serata piano piano si mescolasse e le persone di colore si mischiassero ai bianchi. Ciò scandalizzò le associazioni razziste del sud degli
Stati Uniti, che protestarono vivacemente mettendo in guardia la
popolazione dal rock’n’roll, che, secondo il loro dire, era uno strumento immorale, pieno di riferimenti sessuali, facente parte di un
complotto comunista per danneggiare i valori morali della gioventù americana. Ciò nonostante, il successo di Little Richard fu tale che persino negli Stati del sud, dove si sentiva maggiormente il
peso della segregazione razziale, i pregiudizi verso gli artisti di colore che si esibivano nei locali per bianchi diminuirono progressivamente. Oltre alla sua musica ed al colore della sua pelle, anche il suo look spregiudicato e trasgressivo, con abiti sgargianti,
colorati ed esagerati, la
sua celebre pettinatura ricca di brillantina e il
trucco, assolutamente
inedito per i musicisti
dell’epoca, scandalizzò i benpensanti dell’epoca, ma rivoluzionò gli
anni 50, contribuendo a
far decollare la popolarità del rock’n’roll. Nel
1957, all’apice del successo, dopo aver rinnovato per sempre il
rhythm’n’blues, il soul e
il funk, improvvisamente Little Richard lasciò
le scene, entrò in una
Università cristiana nell’Alabama e diventò predicatore. Nei primi
anni 60 incise alcuni brani gospel e nel 1962 tornò sulla scena con
un tour in Inghilterra, con il supporto dei suoi primi ammiratori, i
Rolling Stones e i Beatles. Nel 1964, come nuovo chitarrista della
sua band, reclutò il giovane Jimi Hendrix, che ne riprese il look. A
metà anni 60 registrò musica soul per la Okeh Records, con la collaborazione di Larry Williams come produttore e di Johnny Guitar
Watson alla chitarra. Purtroppo, con il ritrovato successo Little Richard riprese anche lo stile di vita precedente alla sua conversione, a base di sesso, alcool e droghe. Alla fine degli anni 60, in pieno
movimento Black Power, rifiutò di esibirsi per un pubblico di soli
afroamericani, non volendo vietare a nessuno la possibilità di assistere a un suo spettacolo. Nel 1977, dopo la morte di due suoi cari
amici, del fratello e di un caro nipote, e dopo che lui stesso rischiò
di essere ucciso dal suo vecchio amico Larry William, che mentre
era in crisi d’astinenza gli puntò contro una pistola minacciando di
ucciderlo se non gli avesse dato del denaro per la droga, capì che
era giunto il momento di cambiare definitivamente stile di vita e
tornò all’evangelismo cristiano, lasciando anche le scene e dichiarando che non era possibile conciliare la carriera della rockstar con
la volontà di servire il Signore. Iniziò a predicare l’uguaglianza tra
le razze e la redenzione dell’anima dai peccati grazie all’amore del
Signore, prendendo sé stesso come esempio, che nonostante un
passato da alcolizzato, drogato e omosessuale era alla fine riuscito a ritrovare il Signore. Infine, riprese pure ad esibirsi dal vivo, dichiarando che era comunque possibile servire Dio anche attraverso la musica. Secondo James Brown, il suo idolo Little Richard negli
anni 50 fu il primo a mischiare funk e rock’n’roll e per Otis Redding
contribuì in maniera decisiva allo sviluppo della musica soul. Ray
Charles e Bo Diddley lo ritenevano uno degli artisti più influenti per
le future generazioni di musicisti. Anche per Paul McCartney e Mick Jagger era un idolo e un esempio da seguire. Pure Bob Dylan e
Jimi Hendrix spesero parole di ammirazione nei confronti della sua
musica e della sua abilità vocale, che ispirò cantanti come John Fogerty, David Bowie, Bon Scott, Freddie Mercury e Rod Stewart. Ancora oggi la sua musica ci rende felici. Alleluia!
Lucille
Lucille, you won’t do your sister’s will?
Oh, Lucille, you won’t do your sister’s will?
You ran off and married,
but I love you still.
Lucille, please, come back where you belong
Lucille, please, come back where you belong
I been good to you, baby,
please, don’t leave me alone.
I woke up this morning
Lucille was not in sight.
I asked my friends about her,
but all their lips were tight.
Lucille, please, come back where you belong
I been good to you, baby,
please, don’t leave me alone.
(Richard Penniman/Albert Collins)
Lucille
Lucille, non farai ciò che vuole tua sorella?
Oh, Lucille, non farai ciò che vuole tua sorella?
Sei scappata e ti sei sposata,
ma io ti amo ancora.
Lucille, per favore, ritorna al tuo posto
Lucille, per favore, ritorna al tuo posto
mi sono comportato bene con te, bambina,
per favore, non lasciarmi solo.
Mi sono svegliato stamattina
di Lucille non c’era traccia.
Ho chiesto di lei ai miei amici,
ma le loro labbra erano cucite.
Lucille, per favore, ritorna al posto cui appartieni
mi sono comportato bene con te, bambina,
per favore, non lasciarmi solo.
Se fossi un educatore somministrerei abbondanti dosi di
rock’n’roll a tutti i bambini per alimentare il loro entusiasmo nei confronti della vita e favorirne, così, una crescita
sana e genuina.
Nonostante ami la musica, ho sempre avuto gusti molto selettivi e non ho mai capito coloro che alla domanda “che
musica ti piace” rispondono “un po’ tutta”.
Diciamo pure che la maggior parte della musica che ascoltavo alla radio non incontrava il mio favore, anzi, a dirla tutta,
mi irritava proprio, tanto che i miei impianti HI-FI non hanno
mai registrato la presenza di un sintonizzatore.
Questo solo per spiegare per quale motivo riesca a ricordare con esattezza i musicisti nei quali, di volta in volta, mi sono imbattuto e che hanno arricchito le mie giornate.
Il passo successivo mi ha condotto al primo grande chitarrista che ho ascoltato ed apprezzato: Mark Knopfler, ancora
oggi ogni volta che lo ascolto resto incantato dalla sua classe e dalla sua smisurata eleganza.
MARK KNOPFLER – DIRE STRAITS
Mark Freuder Knopfler (Glasgow, Scozia 12 agosto 1949). Chitarrista, cantante autore, compositore di colonne sonore e produttore artistico. Il padre si era rifugiato in Scozia, all’inizio della seconda guerra mondiale, dopo essere stato espulso dall’Ungheria, suo
paese natale, a causa della sua attività di oppositore al regime filonazista. Nel 1957 Mark Knopfler si trasferì con la famiglia da Glasgow a Blyth, dove cominciò ad interessarsi alla musica, studiando il violino grazie allo zio materno, valente pianista boogie-woogie. A 14 anni Mark chiese in regalo al padre una chitarra elettrica Fender Stratocaster rossa, come quella del suo idolo Hank Marvin, degli Shadows, ma si dovette accontentare di una chitarra più
economica, di cui fu comunque entusiasta. Imparò rapidamente
a suonarla da autodidatta, cercando di riprodurre i brani dei suoi
chitarristi preferiti, tra cui Django Reinhardt, B.B. King, Scotty Moore, Chet Atkins, Jimi Hendrix, James Burton e Bob Dylan. Nel 1967,
terminata la scuola, frequentò un corso di giornalismo e trovò lavoro a Leeds come cronista di un
quotidiano locale, ma dopo 2 anni
decise di riprendere gli studi. Così
abbandonò l’impiego e si iscrisse al corso di lingua e letteratura
inglese della Università di Leeds,
lavorando in un’azienda agricola
per pagarsi la retta. In quegli anni
sposò Kathy White e formò un duo
blues chiamato The Duolian String
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Pickers col chitarrista Steve Phillips. Nel 1973, dopo essersi laureato e separato dalla moglie, Knopfler si trasferì a Londra col fratello
minore David, dove, oltre a suonare nei locali con varie bands, prevalentemente musica blues, rock e rockabilly, impartì lezioni di inglese e di chitarra, ed iniziò a scrivere canzoni. Nel 1977 il fratello
David gli presentò John Illsley, un amico che studiava sociologia e
lavorava in un negozio di dischi, per sostituire il bassista della band
con cui suonavano, che si era ammalato. Dopo quell’incontro, John
e i fratelli Knopfler decisero di formare una nuova band, presero
un appartamento a Deptford e ingaggiarono il batterista Pick Withers, che aveva già suonato con Knopfler. La band era al completo
e venne chiamata Dire Straits (“Terribili Ristrettezze”), richiamando ironicamente le condizioni economiche precarie in cui si trovavano i quattro musicisti. Knopfler, che oltre ad essere chitarrista e
cantante era pure autore ed arrangiatore di tutti i brani, proponeva uno stile musicale originale, una sorta di rock ispirato al blues,
al country e al rock’n’roll dei primi anni 50, in completa contro-tendenza rispetto al genere musicale in auge all’epoca, ossia new wave, soft rock, disco music e punk, e in effetti le loro prime esibizioni
non catturarono l’interesse del pubblico. Nel 1977 il quartetto entrò in studio di registrazione e il risultato venne inviato al musicologo e disc jockey londinese Charlie Gillett, che conduceva una trasmissione radiofonica sulle frequenze locali della BBC, il quale rimase così colpito da quell’innovativo stile musicale che inserì uno
dei loro brani, Sultans of Swing, nella scaletta del suo programma.
Il virtuosismo chitarristico di Knopfler ed il ritmo trascinante del
brano fecero il resto: gli ascoltatori radiofonici reagirono entusiasti e i Dire Straits ebbero il loro primo contratto discografico. L’album d’esordio omonimo uscì nel 1978, ma nonostante la critica
positiva della stampa specializzata, non vendette molto nel Regno
Unito, ma ottenne un grande successo nel resto d’Europa, negli
U.S.A. e in Australia. Il successivo album Communiqué permise alla
band di confermare il successo raggiunto, tanto che Bob Dylan invitò Knopfler a partecipare alla registrazione del suo nuovo album
Slow Train Coming. Nel 1980 Knopfler si trasferì a New York, ma
durante la registrazione del nuovo lavoro, Making Movies, il fratello David, in disaccordo artistico con il resto del gruppo, abbandonò
la band per intraprendere la carriera solista, e fu sostituito da Hal
Lindes e dal tastierista Alan Clark. La continua ricerca di innovazione sonora caratterizzò anche il lavoro successivo, Love over Gold
(1982), con passaggi strumentali insolitamente lunghi ed evidenti influenze jazz e rock progressive. Negli anni successivi Knopfler
compose alcune colonne sonore, come Local Hero (1983), Music
from “Cal”(1984) e Comfort and Joy (1984), e collaborò fattivamente, come autore e chitarrista, alla produzione dell’album Private Dancer (1984) di Tina Turner. Nel frattempo Terry Williams diventò il nuovo batterista della band e sempre nel 1984 uscì il doppio album Alchemy, un capolavoro che immortalava la band dal vivo, pubblicato senza alcuna sovraincisione né ritocchi in studio,
salvaguardando così la genuinità e l’altissima qualità dei musicisti. Mark Knopfler si dedicò, quindi, a comporre colonne sonore di
films e lungometraggi e collaborò, come produttore artistico, con
numerosi musicisti, ed anche Bob Dylan chiese il suo ausilio come
produttore e chitarrista per l’album Infidels. Dopo essersi sposato
con Lourdes Salomone, Knopfler rientrò in studio di registrazione
con i Dire Straits e Brothers in Arms (1985) sancì la definitiva consacrazione della band, divenendo uno dei dischi più venduti di tutti i tempi. Dopo 2 anni di tour, Knopfler decise di abbandonare la
band e alla fine degli anni 80, insieme agli amici di gioventù Ste-
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ve Phillips e Brendan Croker, formò il gruppo The Notting Hillbillies, cui si unì anche Guy Fletcher, alimentato da una forte passione per la musica folk americana ed il country e, in particolare, proprio per la musica hillbilly, come certificato dall’album Missing...
Presumed Having a Good Time (1990). Knopfler riprese a comporre colonne sonore, Last Exit to Brooklyn (1989), e a collaborare alle produzioni di grandi musicisti, come Willy DeVille, Ben E. King,
Randy Newman, Joan Armatrading, Buddy Guy, Tina Turner e Bob
Dylan. Con sua grande gioia fu pure chiamato a collaborare con lui
dal chitarrista country Chet Atkins, suo punto di riferimento giovanile, con il quale nel 1990 incise Neck and Neck, e fece parte della
band che accompagnò Eric Clapton in una tournée mondiale. Sebbene l’attività dei Dire Straits non sia mai del tutto cessata, come
testimoniato anche dall’album On Every Street (1991), Knopfler
continuò a coltivare la sua carriera solista, dedicandosi prevalentemente alle sue passioni e alla sua famiglia piuttosto che alla carriera di rockstar con i Dire Straits, divenuta a suo dire “una struttura gigantesca” ed altrettanto opprimente. Dopo essersi separato dalla seconda moglie, oggi vive a Londra, collabora con innumerevoli musicisti ad altrettanti progetti musicali e ha pubblicato vari
albums da solista, tra i quali Golden Heart (1996), Sailing to Philadelphia (2000), The Ragpicker’s Dream (2002), Shangri-La (2004) e
Get Lucky (2009), sempre permeati dal suo originale ed inconfondibile stile chitarristico, caratterizzato da una particolare tecnica
fingerpicking (ossia l’uso delle sole dita, senza il plettro, con il mignolo e l’anulare poggiati alla chitarra), e dalla sua grande dimestichezza e passione per un’infinità di generi musicali, dalle ballate
anglosassoni e celtiche al folk, dal blues al jazz, dal bluegrass al ragtime, dal rockabilly al rock’n’roll, dal boogie-woogie al rock, hard
& progressive, dal country all’hillbilly, facendone un punto di riferimento per schiere di chitarristi.
Sebbene ascoltassi musica quotidianamente, non ero ancora entrato nel tunnel, nel senso che talvolta potevo anche a
farne a meno … finché arrivò Lui!
Il mio primo vero e proprio amore musicale arrivò all’improvviso ed irruppe nella mia vita in maniera furiosa e devastante, come tutti i veri amori.
Non solo la sua musica era, è e sarà per sempre unica e meravigliosa, capace di provocare un uragano di emozioni, ma
la lettura dei suoi testi, che finalmente potevo apprezzare
grazie ai primi libri di traduzioni disponibili sul mercato, mi
fece capire immediatamente che ero al cospetto di una persona illuminata e benedetta, un Profeta, il Profeta del reggae, Bob Marley.
BOB MARLEY
Robert Nesta Marley, noto Bob Marley (Nine Mile, St. Ann’s Bay,
Giamaica 6 febbraio 1945 – Miami, Florida 11 maggio 1981). Cantante, autore e chitarrista. Non è pensabile descrivere in poche righe la reale portata di questo incredibile personaggio, le cui poesie in musica hanno reso il reggae noto in tutto il mondo, messaggero di pace e di fratellanza universale che solo un Premio Nobel
avrebbe potuto degnamente onorare, quindi mi limiterò a tracciare un breve percorso della vita artistica del Profeta del reggae.
Bob Marley nacque il 6 febbraio 1945, anche se la data è incerta,
nel villaggio di Rhoden Hall, ai piedi della collina di Nine Miles,
nella regione di St. Ann’s Bay, nella Giamaica settentrionale. La relazione tra suo padre, giamaicano bianco di famiglia inglese, capi-
tano di marina e sovrintendente di piantagioni, e sua madre, giamaicana nera, provocò uno scandalo e la famiglia Marley diseredò il padre di Bob. Mentre all’inizio il padre, nonostante fosse
sempre in viaggio, si preoccupò del sostentamento della madre,
nel 1944, proprio mentre attendeva Bob, lasciò la Giamaica e l’abbandonò, ritornando solo in occasione della nascita del figlio. Per
tale motivo Bob per tutta la vita nutrì un senso di rifiuto verso il
padre. A causa delle sue origini razziali miste, Marley da giovane
fu vittima di atti di bullismo e di pregiudizi razziali e fu costretto ad
imparare presto a difendersi, e grazie alla sua forza fisica si guadagnò la reputazione e il soprannome di Tuff Gong. Nel 1957 Bob si
trasferì con sua madre a Trenchtown, un sobborgo di Kingston,
con la speranza di una vita migliore, ma in quel ghetto trovarono
solo degrado e disperazione, che alimentavano il dissenso contro
il sistema e l’ordine prestabilito da parte dei giovani afrocaraibici
che vivevano ai margini della società, i c.d. rude boys, che in segno
di rivolta si rifiutavano di lavorare, vivendo di espedienti, bravate
e crimini. Marley, ancora adolescente, lasciò la scuola e iniziò a lavorare come elettricista e saldatore, stringendo una grande amicizia con il suo vicino di casa Neville O’Riley Livingston, detto Bunny,
il quale gli fece conoscere la musica, facendogli ascoltare le canzoni in voga all’epoca attraverso un vecchio apparecchio radiofonico che riceveva un’emittente americana che trasmetteva musica rhythm’n’blues e rock’n’roll da New Orleans. Bob si appassionò
così al canto, partecipando a canti religiosi, e Bunny gli insegnò i
rudimenti della chitarra, ricavando la cassa di risonanza da una
scatola di sardine vuota, la tastiera da un manico di bambù e utilizzando come corde dei fili elettrici. Quando potevano, Marley e
Bunny suonavano con Joe Higgs, un cantante locale rasta, e durante una jam session Marley incontrò Peter McIntosh, ossia Peter Tosh, con il quale nel 1964, insieme a Bunny Livingstone, Junior Braithwaite, Beverley Kelso e Cherry Smith, fondò un gruppo ska e rocksteady chiamato inizialmente The Teenagers, in seguito The Wailing Rudeboys, quindi The Wailing Wailers, ed infine, dopo che nel 1966 Braithwaite, Kelso e Smith lasciarono la
band, The Wailers, diventando il miglior gruppo musicale giamaicano. Nel 1966 Marley sposò Alpharita Costancia Anderson, che
diventò Rita Marley, e con lei raggiunse la madre a Wilmington,
in Delaware, dove lavorò come operaio presso la fabbrica Chrysler. Nel 1967 Marley rientrò in Giamaica e si convertì dal cristianesimo al rastafarianesimo, religione che sebbene si ponesse in
antitesi con il sistema prestabilito non aveva connotazioni violente, come celebrato da Marley nei testi di alcune sue canzoni. Dopo aver firmato per la Island Records del produttore Chris
Blackwell, nel 1973, con la pubblicazione di Catch a Fire e di Burnin’, Marley raggiunse l’immediato successo con The Wailers. La
sua popolarità iniziò ad espandersi in tutto il mondo, aiutata anche da musicisti del calibro di Eric Clapton, che registrò una cover
di I Shot the Sheriff, contribuendo ad elevarne il profilo internazionale. Nel 1974 anche Peter Tosh e Bunny “Wailer” Livingston
lasciarono la band, per motivi ancora ignoti, presumibilmente dovuti ad un dissenso con Marley, ma più probabilmente solo per intraprendere carriere da solisti. Causa dello scioglimento del nucleo primigenio degli Wailers fu anche il fatto che sia Peter che
Bunny non sopportavano i tours interminabili, faticosi e mal pagati, viaggiando su furgoni freddi e dormendo in alberghi scalcinati,
che il presidente della Island riteneva indispensabili per far acquisire alla band il più ampio consenso di pubblico. Al contrario, Marley, seguendo l’esempio di uno dei suoi idoli giovanili, James
Brown, divenne il più grande lavoratore del reggae, pretendendo,
al contempo, dai suoi musicisti la massima dedizione ed altrettanto duro lavoro. Marley, quindi, non era solo un gran consumatore
di marijuana ed un donnaiolo, come lo dipinse parte dei media,
ma anche un infaticabile e metodico musicista, e fu proprio la sua
disciplina professionale a consentirgli di diventare la prima rockstar proveniente da un ghetto del terzo mondo, ed un vero e proprio sciamano per il popolo degli spiriti liberi, formatosi sulla scia
del movimento hippy. E fu così che Marley, reclutati Carlton “Carly” Barrett alla batteria, Aston “Family Man” Barrett al basso, Al
Anderson e Junior Marvin alle chitarre, Tyrone Downie e Earl
“Wya” Lindo alle tastiere, Alvin “Seeco” Patterson alle percussioni
e le coriste I Threes, ossia Judy Mowatt, Marcia Griffiths e la moglie Rita, continuò il suo percorso artistico sotto il nome di Bob
Marley and The Wailers, di cui divenne leader, cantante, chitarrista ed autore della maggior parte dei testi. I successivi lavori discografici, Natty Dread (1974), che conteneva il monito profetico
Them Belly Full e la hit No Woman No Cry, e Rastaman Vibration
(1976), confermarono il meritato successo di Marley. Nel dicembre 1976, tre giorni prima di Smile Jamaica, concerto organizzato
dal Primo Ministro giamaicano Micheal Manley, per alleggerire le
tensioni tra i due gruppi politici in lite, Marley, sua moglie Rita e il
suo manager Don Taylor furono aggrediti da un gruppo armato a
casa di Marley. Furono tutti feriti, e Marley fu colpito al petto e al
braccio. Si ritenne che l’attacco avvenne per motivi politici, avendo considerato l’adesione di Marley al concerto un modo di supportare il Primo Ministro, ma ciò nonostante il concerto si tenne
ugualmente, e Marley tenne a precisare “le persone che cercano
di far diventare peggiore questo mondo non si concedono un giorno libero, perché dovrei farlo io?”. Dopo quell’episodio, però,
Marley si trasferì a Londra, dove fu arrestato per possesso di cannabis, e nel 1976 registrò gli album Exodus e Kaya. Nel 1977 notò
una ferita nell’alluce destro che peggiorò progressivamente fino a
quando gli fu diagnosticato un melanoma maligno. Marley si rifiutò di amputarsi l’alluce, anche perché amava giocare a calcio.
Nel 1978 Marley organizzò un nuovo concerto in Giamaica, One
Love Peace Concert, con la finalità di placare le ostilità tra i due
partiti politici, e su espressa richiesta di Marley i due leaders riva-
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li, Michael Manley ed Edward Seaga, si strinsero la mano sul palco. Nel 1979 uscì Survival, album ricco di significati politici che rivelavano l’attenzione di Marley per le sofferenze dei popoli africani, e nel 1980 uscì Uprising, disco pregno di significato religioso.
La sua musica e i suoi messaggi di lotta contro l’oppressione politica e razziale, di unificazione dei popoli di colore, quale unico modo per raggiungere libertà ed uguaglianza, e di attenzione verso la
sofferenza dei popoli africani si diffusero in tutto il mondo, facendo di Marley un leader politico, spirituale e religioso, tanto che
nel 1978 gli fu conferita la Medaglia della Pace dalle Nazioni Unite e nel 1980 fu invitato alla celebrazione per l’indipendenza dello Zimbabwe. In quel periodo Marley si convertì al cristianesimo
ortodosso. Nel frattempo, però, il tumore progrediva, diffondendosi in tutto il corpo, e dopo una trionfale tournée in Europa,
mentre si trovava a New York, durante il tour negli U.S.A., Marley
ebbe un collasso mentre faceva jogging al Central Park. Il 23 settembre 1980 tenne il suo ultimo concerto a Pittsburgh, dopodiché
si recò a Monaco di Baviera per un consulto presso il dottor Josef
Issels, specializzato nel trattamento di malattie in fase terminale,
ma il tumore ormai era in stadio avanzato e non si poteva più curare. Anche i suoi mitici dreadlocks, segno della sua appartenenza
alla religione rasta, divennero sempre più deboli ed ormai troppo
pesanti, tanto che decise di tagliarseli mentre leggeva alcuni passi della Bibbia. La situazione peggiorò durante il volo di ritorno verso la Giamaica, tanto che fu dirottato a Miami, in Florida,
dove Marley venne ricoverato e morì la mattina del giorno 11
maggio 1981. Prima di morire decise di parlare con tutti i suoi figli
e le sue ultime parole, rivolte al figlio Ziggy, furono “money can’t
buy life” (“i soldi non possono comprare la vita”). Nel 1983 venne
pubblicato l’album postumo Confrontation. Marley fu onorato in
Giamaica con i funerali di stato e fu sepolto in una cappella eretta
accanto alla sua casa natale a Nine Mile, insieme alla sua Gibson
Les Paul, al suo pallone da calcio, ad una pianta di marijuana con i
suoi semi, ad un anello che indossava ogni giorno, donatogli dal
Principe etiope, e da una Bibbia. A Marley furono conferite innumerevoli onorificenze e nel 2006 la città di New York nominò una
parte di Church Avenue, a Brooklyn, Bob Marley Boulevard. Marley è ancora oggi considerato dal suo Popolo una guida spirituale
ed ogni anno, il 6 febbraio, in Giamaica si celebra una festa nazionale in suo onore.
“Il denaro non è la mia ricchezza. La mia ricchezza è camminare a
piedi nudi sulla terra” (Bob Marley).
I shot the Sheriff
Sheriff John Brown always hated me
for what, I don’t know.
Every time I plant a seed,
he said kill it before it grow.
He said kill them before they grow.
I shot the sheriff, Oh, Lord!
But I swear it was in self-defence.
I say: I shot the sheriff
and they say it is a capital offence.
Freedom came my way one day
and I started out of town, yeah!
All of a sudden I saw sheriff John Brown
aiming to shoot me down,
so I shot – I shot him down and I say:
If I am guilty I will pay.
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I shot the sheriff,
but I didn’t shoot no deputy, oh no!
I shot the sheriff
Lord, I didn’t shot the deputy.
(Bob Marley)
Ho sparato allo Sceriffo
Lo sceriffo John Brown mi ha sempre odiato
il motivo non lo conosco.
Ogni volta che piantavo un seme,
lui diceva distruggilo prima che cresca.
Lui diceva distruggili prima che crescano.
Ho sparato allo sceriffo, Oh, Signore!
Ma giuro che era per legittima difesa.
Io dico: ho sparato allo sceriffo
e loro dicono che è un reato capitale.
La libertà un giorno mi è venuta incontro
e così sono uscito dalla città, ebbene si!
All’improvviso ho visto lo sceriffo John Brown
che prendeva la mira per spararmi,
così ho sparato – gli ho sparato e dico:
Se sono colpevole pagherò.
Ho sparato allo sceriffo,
ma non ho sparato al vice-sceriffo, oh no!
Ho sparato allo sceriffo
Signore, non ho sparato al vice-sceriffo.
Them Belly Full
Them belly full but we hungry
A hungry mob is a angry mob
A rain a fall but the dirt it tough
A pot a cook but the food no ‘nough
You’re gonna dance to Jah music, dance
We’re gonna dance to Jah music, dance
Forget your troubles and dance
Forget your sorrows and dance
Forget your sickness and dance
Forget your weakness and dance
Cost of livin’ gets so high
Rich and poor they start to cry
Now the weak must get strong
They say oh, what a tribulation
(Bob Marley)
Loro con la Pancia Piena
Loro sono sazi, ma noi affamati
Una massa affamata è una massa arrabbiata
Scende la pioggia, ma non cancella lo sporco
La pentola sul fuoco, ma il cibo è scarso
Danzerete alla musica di Jah, danzerete
Danzeremo alla musica di Jah, danzeremo
Dimenticate i vostri problemi e danzate
Dimenticate i vostri dolori e danzate
Dimenticate i vostri malanni e danzate
Dimenticate le vostre miserie e danzate
Il costo della vita diventa sempre più alto
Ricchi e poveri cominciano a piangere
Ora il debole deve essere forte
Dicono oh, quanta tribolazione
In più, Marley era NERO … come Kunta.
Primo indizio.
Parlava di schiavitù e di emarginazione, di protesta e di fede, di armonia e di pace, enunciati che trovavano nei suoi
testi una collocazione sistematica, logica e chiara.
Il Gandhi del reggae si era manifestato per diffondere in
tutto il mondo un messaggio cristallino: il Popolo nero aveva sopportato troppo dolore e per troppo tempo, era arrivato il momento di unirsi, consapevoli delle proprie RADICI, per pretendere il giusto sollievo ed il meritato conforto.
GANDHI
Mohandas Karamchand Gandhi
(Porbandar, India 2 ottobre 1869
– Nuova Delhi, India 30 gennaio
1948). Politico e filosofo, guida spirituale non solo per il suo Paese,
ma anche per il mondo intero. Conosciuto anche come il Mahatma
“Grande Anima” e come Bapu “Padre”, professò la resistenza all’oppressione tramite la disobbedienza
civile e la non violenza, principi che
portarono l’India all’indipendenza
ed ispirarono i movimenti di difesa
dei diritti civili promossi da Martin
Luther King e da Nelson Mandela.
Finalmente avevo trovato qualcuno che riprendeva il discorso lasciato aperto da Alex Haley, che nel frattempo
avevo scoperto essere l’autore dell’omonimo libro dal quale aveva preso spunto la sceneggiatura del teleromanzo RADICI, e grazie a Marley ho potuto conoscere ed apprezzare,
oltre al reggae, anche la sua religione, il Rastafarianesimo.
ALEX HALEY
Alex Haley (Ithaca, New York 11 agosto 1921
– Seattle, Washington 10 febbraio 1992).
Giornalista e scrittore. Fu così impressionato
dalla storia della sua famiglia, narratagli dalla nonna, Cynthia Murray, che pubblicò il suo
romanzo più famoso, Roots “Radici” (1977),
dopo aver realizzato l’autobiografia di Malcolm X (1965).
RASTAFARIANESIMO – DREADLOCKS
Il rastafarianesimo è una fede
religiosa, nata agli inizi degli anni 30, il cui nome deriva da Ras
Tafari, espressione etiopica che
descrive Tafari Makonnen, l’Imperatore che salì al trono d’Etiopia nel 1930 con il nome di Hailé
Selassié I (1892 – 1975) e con i titoli di negus neghesti, Re dei Re,
Eletto di Dio, Luce del mondo, Leone conquistatore della tribù di
Giuda. Dopo la sua incoronazione, milioni di persone riconobbe-
ro in lui, quale diretto discendente della tribù di Giuda, Gesù Cristo
nella sua “seconda venuta in maestà, gloria e potenza”, come profetizzato dalle Sacre Scritture. Il rastafarianesimo si è ispirato alla
predicazione del leader del movimento politico nazionalista Marcus Mosiah Garvey. A partire dagli anni 80, grazie a Bob Marley ed
alla musica reggae, la cultura rasta ha esponenzialmente aumentato la propria diffusione nel mondo.
I dreadlocks o dreads sono i capelli intrecciati tra loro e si possono ottenere in diversi modi, per esempio non pettinandosi i capelli per lungo tempo, tanto da consentire la formazione di nodi
(locks) che, giorno dopo giorno, sarà sempre più difficile sciogliere.
Nel rastafarianesimo, che grazie al reggae ha portato a conoscenza di tutto il mondo questo tipo di capigliatura, i dreadlocks ricordano la criniera del leone, simbolo della tribù di Giuda da cui discende Ras Tafari. La parola inglese dread significa “paura” e “timore”, mentre lock significa “bloccare” e “intrecciare”, poiché i
dredlocks sono delle vere e proprie trecce di capelli, il termine potrebbe essere tradotto come “intrecciare con timore” (sottinteso
“di Dio”, in quanto pratica religiosa). Oltre che nel rastafarianesimo, dove rappresentano un’adesione alla naturalità dell’uomo donata da Dio, un mantenimento della forza divina che si esprime attraverso la lunghezza dei capelli (si pensi al Sansone biblico), uno
degli elementi che costituiscono il voto di nazireato, nonché un rifiuto dell’ordine mondano e delle convenzioni appartenenti alla
società corrotta (Babilonia), i dreadlocks sono presenti anche in
altre religioni, quali l’induismo, i cui asceti erranti, definiti sadhu,
portano dreadlocks estremamente lunghi come segno della rinuncia al mondo e alla mondanità, in quanto la loro esistenza è rivolta esclusivamente a moksha, la fine del ciclo di nascite-morti-rinascite (samsara).
MARCUS GARVEY
Marcus Mosiah Garvey (Saint
Ann’s Bay, Giamaica 17 agosto 1887 – Londra, Inghilterra 10 giugno 1940). Sindacalista, attivista e scrittore. Si impegnò duramente negli U.S.A.
per migliorare le condizioni
inumane in cui venivano fatti lavorare gli afroamericani. Garvey fu il leader del rastafarianesimo, che predicava il ritorno in Africa da parte di tutti i neri del mondo,
che non dovevano né sentirsi, né ritenersi cittadini dei Paesi stranieri in cui risiedevano, ma sempre e soltanto africani, e celebrava una profezia contenuta nella Bibbia aramaica (ossia la traduzione aramaica dei testi ebraici della Bibbia) che narrava che in
Africa sarebbe stato incoronato un Re nero che avrebbe cacciato
il colonialismo, estirpato il male e preparato il continente africano
al ritorno della sua gente. Istituì ad Harlem una sorta di governo
in esilio della grande nazione africana e creò una compagnia di navigazione, la Black Star Steamship, col compito di trasportare passeggeri di colore all’interno dell’arcipelago delle Antille, in aperta
opposizione con le altre compagnie segregazioniste. Fu il fondatore dell’associazione Universal Negro Improvement Association and
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African Communities League e della rivista Negro World. La sua
ideologia costituì il fondamento della dottrina nazionalista africana che culminò negli anni 70 con la fondazione del Black Power di
Stokely Carmichael.
Marley era un uomo pacifico che non si limitò a celebrare la fratellanza universale con le sue canzoni, ma si adoperò anche concretamente, facendo tutto quello che era in
suo potere per conciliare le due fazioni politiche che allora
si fronteggiavano in Giamaica, rappresentate dal Primo Ministro Michael Manley (Peoples National Party) e dal leader
dell’opposizione Edward Seaga (Labour Party).
Ma non tutti la pensavano esattamente come Marley, certamente non il suo amico Peter Tosh.
PETER TOSH
Winston Hubert McIntosh, in arte Peter Tosh (Grange Hill, Giamaica 19 ottobre 1944 – Kingston, Giamaica 11 settembre 1987). Cantante, autore e chitarrista. A 15 anni si trasferì
a Trenchtown, il ghetto
di Kingston, dove incontrò il produttore Joe Higgs, che gli impartì lezioni
di canto. Dopo aver conosciuto Robert Nesta
Marley, noto Bob Marley, e Neville O’Riley Livingston, noto Bunny
Wailer, decisero di fondare il gruppo che prenderà il nome di The
Wailers. Nel 1966 lui e Bob Marley divennero rasta. Dopo le prime incisioni, le frizioni all’interno della band divennero insanabili, tanto che sia Bunny Livingston che Peter Tosh lasciarono il gruppo, che da quel momento si chiamò Bob Marley and the Wailers,
per dedicarsi alla carriera solista. Peter Tosh si presentò immediatamente per quello che era, un uomo tosto che non conosceva le mezze misure, scrivendo canzoni i cui temi erano decisamente scomodi, dalla legalizzazione della marijuana, Legalize It (1976),
alla critica serrata contro il Governo giamaicano e contro la diseguaglianza sociale, Equal Rights (1977). Nel 1978, in occasione del
One Love Peace Concert, inveì duramente contro la classe politica
dell’isola, causa di tutti i mali che affliggevano la popolazione nera, ma invece di trovare il consenso della sua gente, sotto il palco
trovò ad attenderlo la polizia locale, che con la scusa di arrestarlo per possesso di marijuana lo trascinò in caserma dove, per quasi due ore, fu picchiato selvaggiamente, come in seguito testimoniarono le sue cicatrici. L’esibizione, però, fu vista anche da Mick
Jagger che entusiasmato dal carisma e dalla potenza espressiva di
Peter Tosh gli offrì un contratto con l’etichetta Rolling Stones Records, con cui pubblicò Bush Doctor (1978), e collaborò con lui, favorendo la crescita della sua popolarità. Anche nei successivi lavori, Mystic Man (1979) e Wanted Dread and Alive (1981), Peter Tosh presentò testi duri e ribelli, pieni di rabbia contro il sistema politico instaurato in Giamaica dai bianchi, che continuavano ad opprimere la sua gente, specie le classi più disagiate, e contro la segregazione razziale. Dopo l’uscita di Mama Africa (1983) e del relativo tour, immortalato nell’album Captured Live, Tosh sparì dalle
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scene, secondo alcune voci per recarsi presso stregoni africani, per
ricomparire nel 1987, anno di pubblicazione di No Nuclear War, un
album di protesta contro la violenza, contro l’apartheid e contro la
società moderna. Il suo reggae era potente ed aggressivo come la
sua vita e come, purtroppo, la sua morte, che lo sorprese nella sua
casa di Kingston, dove alcuni rapinatori locali lo uccisero a colpi di
arma da fuoco perché, come prevedibile per un uomo di tal fatta,
si rifiutò di consegnare loro il denaro richiesto.
Get Up, Stand Up
Preacherman, don’t tell me
Heaven is under the earth,
I know you don’t know
what life is really worth,
it’s not all that glitters is gold
‘alf the story has never been told,
so now you see the light
stand up for your rights. Come on!
Get up, stand up: stand up for your rights!
Get up, stand up: don’t give up the fight!
Get up, stand up: stand up for your rights!
Get up, stand up: don’t give up the fight!
(Bob Marley, Peter Tosh)
Alzatevi in piedi, ribellatevi
Predicatore, non dirmi
che il Paradiso è sottoterra,
io so che tu non sai
quanto veramente vale la vita,
non è tutto oro quello che luccica
l’altra metà della storia non è mai stata raccontata,
quindi, quando adesso vedete la luce
alzatevi in piedi e combattete per i vostri diritti. Forza!
Alzatevi in piedi, ribellatevi: combattete per i vostri diritti!
Alzatevi in piedi, ribellatevi: non arrendetevi mai!
Alzatevi in piedi, ribellatevi: combattete per i vostri diritti!
Alzatevi in piedi, ribellatevi: non arrendetevi mai!
Insomma, Bob Marley stava a Martin Luther King come Peter Tosh stava a Malcolm X.
MARTIN LUTHER KING
Michael King, noto Martin Luther King (Atlanta,
Georgia 15 gennaio 1929 –
Memphis, Tennesse 4 aprile
1968). Pastore protestante,
politico e attivista. Leader
del movimento pacifista, ripropose lo spirito della resistenza non violenta professata da Gandhi, battendosi
per il riconoscimento dei diritti civili in favore degli afroamericani e delle classi più
disagiate, contro ogni pregiudizio e discriminazione
razziale e sociale. Morì assassinato.
MALCOLM X
Malcolm Little, noto Malcolm
X (North Omaha, Nebraska 19
maggio 1925 – New York, New
York 21 febbraio 1965). Pastore, politico e attivista a favore
dei diritti umani, e in particolare dei diritti degli afroamericani. Considerato uno dei più
influenti e controversi leader
afroamericani del XX secolo,
era convinto che soltanto la religione islamica, accompagnata da una forte e decisa reazione, poteva abbattere la discriminazione, specie quella razziale. Morì assassinato per mano di membri della Nation of Islam,
l’organizzazione di cui per lungo tempo era stato portavoce e sostenitore.
I nomi di Martin Luther King e di Malcolm X erano ricorrenti in tutti i testi, nei quali mi capitava di imbattermi, che trattavano della riduzione in schiavitù degli africani in territorio
americano e della lotta intrapresa dagli afroamericani o neri americani per i propri diritti civili.
Più avanti negli anni ho, pertanto, ritenuto opportuno conoscere la storia di questi due Signori e ricordo ancora la viva emozione che provai quando lessi che il coautore dell’autobiografia di Malcom X era stato proprio l’autore di Radici, ossia Alex Haley.
C’era un evidente legame, o meglio una vera e propria tela
dentro la quale si muovevano tutti quei personaggi … avvertivo chiaramente che stavo risalendo il filo di Arianna.
Oggi, a posteriori, posso assicurare che pure tutti loro, sebbene non fossero musicisti, mi hanno insegnato tanto a proposito del Blues e del suo significato più intrinseco, che va
ben al di là dell’aspetto prettamente musicale.
La loro vita ed il loro impegno in favore degli afroamericani e dei diritti fondamentali di ogni essere umano mi hanno
fatto comprendere quali fossero le problematiche esistenziali di un intero Popolo, e che la musica blues non era altro
se non uno dei tanti veicoli attraverso i quali i discendenti di
intere generazioni di schiavi cercarono di diffondere il proprio pensiero e la propria cultura.
È così che ricordo i primi anni 80, ricchi di emozioni e di continue scoperte, non solo in campo musicale.
Nel contempo la mia passione per la chitarra cresceva in
maniera esponenziale, tanto che decisi di mettermi a caccia di tutti i chitarristi di cui sentivo parlare, e fu proprio così
che feci la conoscenza di Carlos Santana.
CARLOS SANTANA
Carlos Augusto Alves Santana (Autlán de Navarro, Jalisco, Messico 20 luglio 1947). Chitarrista e compositore. Carlos Santana nacque da una famiglia di musicisti, il padre era un violinista mariachi e il nonno suonava il corno francese, e si appassionò presto alla musica, iniziando a suonare il violino a 5 anni. A 11 anni si trasferì con la famiglia a Tijuana, dove iniziò a suonare la chitarra da
autodidatta, ispirandosi a famosi chitarristi come John Lee Hooker,
T-Bone Walker e B.B. King, che ascoltava dalle stazioni radio statunitensi, e a guadagnarsi da vivere intrattenendo per strada e nei
bars i turisti americani. Nel 1961 emigrò, sempre con la famiglia, a
San Francisco, in California, dove acquisì la cittadinanza americana. Mentre aiutava la famiglia lavorando come lavapiatti, appena
possibile si recava di nascosto al Fillmore Auditorium del promoter
Bill Graham per ascoltare i suoi musicisti preferiti, come Muddy
Waters, The Paul Butterfield Blues Band, The Grateful Dead e molti
artisti rock, blues e jazz che lì si esibivano. Alla fine del 1966 entrò
a far parte di una rock band, fondata dal chitarrista Tom Frazier,
chiamata Santana, ma sebbene la band portasse il suo cognome,
Carlos non era il leader del gruppo. Proprio Bill Graham gli permise di esibirsi al Fillmore, mentre in sala di registrazione Carlos Santana esordì nell’album The Live Adventures di Mike Bloomfield e Al
Kooper. La band presentò subito una strana miscellanea di suoni
rock e jazz, con all’interno sprazzi di musica latina e un sound reso
ancora più intenso dall’uso delle percussioni. L’esibizione trionfale al festival di Woodstock, fortemente voluta da Bill Graham, aumentò di colpo la popolarità del gruppo ed il primo album omonimo della band fu un successo. Negli anni 70 la band era ormai all’apice della popolarità, ma ciò comportò anche i primi contrasti tra
i musicisti, dovuti ad insanabili divergenze artistiche. In particolare, Carlos voleva abbandonare il suono hard rock degli esordi ed
avventurarsi verso sonorità blues e jazz, dando corpo ad una musica più intima e meditativa. In quel clima di tensione artistica non
giovò di certo l’abuso di stupefacenti da parte degli stessi musicisti. Ad ogni modo, i Santana continuarono ad incidere albums, come Abraxas (1970), Santana 3 (1971) e Caravanserai (1972), e ad
esibirsi dal vivo, incrementando la loro fama internazionale, specie tra gli amanti del jazz e la neonata musica fusion. Carlos Santana, nel frattempo, continuò anche il suo percorso introspettivo e
nel 1973 il chitarrista John McLaughlin, del cui gruppo, The Mahavishnu Orchestra, Carlos era un grande ammiratore, messo al corrente dell’interesse di Carlos Santana per la meditazione, lo presentò al guru Sri Chinmoy, che accettò Carlos come suo discepolo e lo chiamò Devadip (“Lanterna e Occhio di Dio”). La passione di
Carlos Santana per il jazz e per la musica indiana venne consacrata
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zio – e che ancora oggi custodisco gelosamente sotto teca
– fosse graffiato.
La realtà era un’altra ed aveva pure un nome: Jimi Hendrix.
sia dalla collaborazione con McLaughlin, nell’album Love Devotion
Surrender (1973), sia da quella con Alice Coltrane, vedova di John
Coltrane, nell’album Illuminations (1974), ma il pubblicò non gradì
tali scelte artistiche, come del resto denunciò il forte calo di vendite dei nuovi dischi, Welcome (1973) e Borboletta (1974). Carlos
Santana decise quindi di cambiare stile e da metà annni 70 ritornarono le sonorità funk, rock, salsa e latin, e con loro i primi posti in
classifica degli albums Amigos (1976) e Moonflower (1977), fantastico doppio album contrassegnato dalla nutrita presenza di tracce
incise dal vivo. Gli impegni dal vivo, le rinnovate pressioni dei media e lo stile di vita frenetico si scontravano però con le regole di vita spirituale imposte da Sri Chinmoy, e nel 1982 il rapporto tra Carlos e il guru venne meno. Dopo gli anni 80 e 90, contrassegnati dal
successo altalenante di Marathon (1979), Zebop! (1981), Shangó
(1982), Beyond Appearances (1985), Freedom (1987), Blues for Salvador (1987) e Milagro (1992), la carriera di Carlos Santana ha vissuto una nuova giovinezza agli inizi del 2000, culminata con la pubblicazione di Supernatural (1999) e Shaman (2002), nei quali Carlos collaborò anche con le nuove generazioni di musicisti internazionali di rock, funk, jazz, fusion e blues. Il ritrovato successo discografico, oltre a portargli numerosi altri premi, ne ha rilanciato anche l’attività live in tutto il mondo.
Ero affascinato, ed ancora lo sono, da quel suono tanto lungo e melodioso che quel riccioluto messicano riusciva a far
uscire dalla sua chitarra, dalla morbidezza del suo tocco e
dalle atmosfere paesaggistiche e poetiche che richiamava
alla mia mente.
Ma ancora non avevo sentito nulla!
Quel suono arrivò alle mie orecchie come una bomba atomica.
Un meteorite che si schianta sulla terra avrebbe prodotto
meno conseguenze di quanto accadde all’interno della mia
testa e del mio animo quando sentii per la prima volta Foxy
Lady.
Inizialmente pensavo si fosse rovinata la puntina del mio
giradischi o semplicemente che il disco regalatomi da mio
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JIMI HENDRIX
Johnny Allen Hendrix, noto Jimi (Seattle, Washington 27 novembre 1942
– Londra, Inghilterra 18 settembre
1970). Chitarrista, cantante, autore e
compositore. Nacque da genitori afroamericani, entrambi ballerini, con la
nonna paterna di origini cherokee, la
quale da giovane era pure stata ballerina in una compagnia itinerante
di vaudeville. Durante i suoi primi 3 anni di vita si trasferì continuamente, andando a vivere con diversi parenti e conoscenti, poiché
la giovane madre, peraltro forte bevitrice di alcolici, lo abbandonava a casa per uscire a divertirsi, finché la nonna materna lo affidò
ad una famiglia borghese afroamericana californiana, i Champ, intenzionata ad adottarlo. Alla fine del 1945 però il padre fu congedato, riprese con sé il figlio e il giorno 11 settembre 1946 gli cambiò il nome in James Marshall Hendrix. La famiglia si trasferì in un
povero quartiere periferico di Seattle e nel 1951 i genitori di Hendrix divorziarono. Mentre Hendrix fu affidato con il fratello Leon
alla custodia del padre, l’altro fratello Joseph fu dato in adozione.
Hendrix negli anni successivi continuò a vedere la madre, seppure
in maniera discontinua, a causa della vita di lei, sempre più sregolata, mentre la musica divenne una presenza costante nella sua vita. La sua formazione artistica, musicale e culturale si basò sia
sull’ascolto dei dischi del padre, sia sugli inni sacri imparati nella
chiesa pentecostale cui apparteneva la sua famiglia. Date le difficoltà economiche familiari, non potendo comprarsi una vera chitarra, si dovette arrangiare in vari modi, inizialmente suonando
una scopa a mò di chitarra, poi, secondo la migliore tradizione dei
primi musicisti blues, sfilò il filo di metallo che teneva insieme i
pezzi di paglia della scopa e lo fissò ben disteso sul muro, tenendolo sollevato alle due estremità con un oggetto rigido che ne aiutasse la tensione, ottenendo così una rudimentale steel guitar, dopodiché, mentre con una mano faceva scorrere sul filo teso un pezzo
di metallo o una bottiglia, con l’altra mano pizzicava la corda producendo, finalmente, un suono. In seguito, sempre riprendendo
l’esempio dei primi poveri chitarristi blues, si costruì una specie di
chitarra usando come cassa acustica una scatola di sigari e come
corde alcuni elastici tesi su di essa. Agli inizi del 1958, poco dopo la
morte della madre, il padre gli regalò un vecchio ukulele con una
sola corda superstite, trovato in un garage che aveva sgomberato,
e con quello strumento Hendrix iniziò ad imparare i suoi primi brani, tra quelli in voga all’epoca, fino a quando un amico del padre gli
vendette la sua chitarra acustica per 5 dollari, somma che il padre
gli prestò. Poiché la chitarra era per destrorsi, mentre lui era mancino, Hendrix imparò a suonarla rovesciandola, e così fece anche
in altre occasioni durante la sua carriera. I suoi progressi furono
decisamente prodigiosi, anche grazie al fatto che, appena poteva,
osservava attentamente suonare sia un vecchio bluesman vicino di
casa, il chitarrista locale Guitar Shorty, sia le numerose esibizioni
dei vari chitarristi che animavano l’iperattiva scena musicale di Seattle, ricca di locali e clubs, almeno per la black music. Hendrix era
completamente coinvolto dalla musica e dalla sua chitarra. Ad ispirarlo furono i chitarristi della scena blues di Chicago, da Elmore Ja-
mes a Muddy Waters, da Buddy Guy ad Albert King, le leggende
del Delta blues, come Robert Johnson e Lead Belly, e del rock’n’roll,
come Chuck Berry e Bo Diddley, ed altri musicisti allora in voga, come B.B. King e John Lee Hooker, Bobby “Blue” Bland ed il pianista
boogie Roscoe Gordon, i sassofonisti rhythm’n’blues, come Big Jay
McNeely, ed ancora Jimmy Reed ed Elvis Presley, che nel 1957 vide
esibirsi a Seattle. In particolare, Hendrix era molto intimorito da
Muddy Waters, il primo chitarrista che aveva ascoltato quando era
ragazzino, e che – come ricordava lo stesso Hendrix – lo “spaventava a morte”. Hendrix era estremamente cordiale e disponibile,
sempre pronto a suonare con chiunque, ad insegnare agli altri
quello che aveva appreso e ad imparare da tutti, anche da quelli
meno abili di lui. Nel 1959 il padre gli regalò la prima chitarra elettrica e non appena riuscì a procurarsi un amplificatore iniziò immediatamente a far parte di varie bands con le quali finalmente poté
esibirsi dal vivo, anche suonando le parti di basso con la sua chitarra. Suonò tutto ciò che gli veniva data occasione di suonare, in particolare rhythm’n’blues e rock’n’roll, e si appropriò progressivamente di tutta una serie di tecniche e di trucchi utili per tenere
sempre viva l’attenzione del pubblico. Nel 1960 perse la sua prima
chitarra elettrica, dimenticata sul palco alla fine di un concerto e
mai più ritrovata, ma il padre gliene regalò subito un’altra. Lasciata anzitempo la scuola, Hendrix decise di lavorare con il padre come giardiniere, ma non durò a lungo. Dopo un arresto avvenuto
nel 1961, perché trovato dalla polizia di Seattle alla guida di un’auto rubata, ed alcuni giorni di detenzione, finì in tribunale e dovette
scegliere tra un periodo di reclusione e l’arruolamento. La scelta fu
semplice, Hendrix si arruolò e venne destinato alla 101° Divisione
Aviotrasportata del corpo dei paracadutisti di stanza a Fort Campbell, nel Kentucky, fregiandosi della Screaming Eagle (“Aquila Urlante”), simbolo della divisione. Lì conobbe il bassista Billy Cox, col
quale agli inizi del 1962 formò una band e si esibì in varie basi militari della Carolina. Ma anche la sua avventura militare durò poco e
frustrato dalla rigidità dell’ambiente e intenzionato a dedicarsi solo alla musica, Hendrix decise di abbandonare la divisa, facendosi
visitare svariate volte dallo psicologo dell’esercito e dichiarando di
essere omosessuale pur di andarsene. Nel 1962 ottenne il desiderato congedo, che Hendrix dichiarò essere stato conseguente ai
problemi alla schiena accusati in seguito ad un lancio col paracadute in cui aveva riportato anche la frattura di una caviglia, ed essendo rimasto senza un soldo si trasferì a Clarksville, in Tennessee, in
attesa che Cox lo raggiungesse al termine della sua ferma. Una volta riunitisi, i due amici si spostarono a Nashville, dove suonarono
rhythm’n’blues nei locali della zona. Durante un concerto conobbero il chitarrista Larry Lee col quale collaborarono accompagnando svariati musicisti, tra i quali Curtis Mayfield. Durante quel periodo Hendrix entrò per la prima volta in uno studio di registrazione,
come turnista. Nel 1963 partì in tour attraverso gli U.S.A., nel giro
del c.d. chitlin’ circuit, con diverse bands di soul e rhythm’n’blues,
accompagnando, tra gli altri, Sam Cooke, Little Richard, Slim Harpo, Solomon Burke, le Supremes e Jackie Wilson. In tal modo arricchì notevolmente non solo la sua esperienza di performer, ma soprattutto il suo spessore tecnico e stilistico, consolidando, in particolare, la sua conoscenza della musica delle radici, il blues. Ritenendosi pronto, alla fine di quell’estenuante apprendistato, ed anche per allontanarsi definitivamente dal razzismo e dal degrado
che aveva trovato nel sud degli U.S.A., Hendrix decise di trasferirsi
a New York e agli inizi del 1964 si trasferì ad Harlem, dove fece
amicizia con i gemelli Arthur ed Albert Allen e con la sua futura ra-
gazza, Lithofayne “Fayne” Pridgeon, che gli fu di grande aiuto per
inserirsi nella scena locale, grazie alle sue conoscenze all’interno
dell’ambiente musicale. Dopo aver vinto un concorso per artisti
emergenti, tenutosi presso l’Apollo Theater, Hendrix attraversò un
periodo di estrema precarietà professionale ed economica, tanto
che per sopravvivere fu costretto a portare più volte la chitarra al
banco dei pegni, fino a quando venne ingaggiato come chitarrista
della Isley Brothers Band, con cui entrò in sala d’incisione tra il
1964 e il 1965, per poi ripartire in tour attraverso tutti gli Stati Uniti con svariate bands, fino anche in Canada, dove conobbe il batterista Buddy Miles. Al suo rientro a Memphis, in Tennessee, incontrò Steve Cropper, celebre chitarrista, compositore e arrangiatore
per la Stax, ed anche Albert King e B.B. King, prima di essere ingaggiato da Little Richard, il quale, però, non tollerava la teatralità scenica di Hendrix, che rischiava di oscurare la sua leadership. Dopo
una breve sosta a Los Angeles, Hendrix seguì in tour Ike & Tina Turner, ma dopo poche serate l’incontenibile virtuosismo chitarristico
di Hendrix convinse Ike ad allontanarlo. Rientrato a New York, sulla scorta delle recenti esperienze, Hendrix decise di puntare su
una carriera da solista e stanco di Harlem, ambiente troppo chiuso
ed ostile per una persona così anticonformista come lui, dopo essersi separato da Fayne, si trasferì al Village, seguendo le orme di
uno dei suoi punti di riferimento, Bob Dylan. Si unì, così, alla band
di Curtis Knight and the Squires, fino agli inizi del 1966, periodo in
cui suonò anche con altri gruppi, come i Kingpins, gruppo d’accompagnamento del sassofonista R’n’B King Curtis. Con queste bands
partecipò anche ad alcune sedute di incisione. In quel periodo conobbe pure Frank Zappa, che, secondo la leggenda, gli fece conoscere un innovativo effetto per chitarra, il wah wah. Sempre nel
1966, grazie ad un regalo in danaro ricevuto dalla fidanzata dell’e-
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poca, una ragazza bianca di nome Carol “Kim” Shiroki, Hendrix acquistò la sua prima Fender Stratocaster e finalmente formò il suo
primo gruppo come leader, Jimmy James and The Blue Flames, tra
i quali militava Randy Wolfe, un ragazzo californiano andato via di
casa e ribattezzato da Hendrix con il nome di Randy California, per
distinguerlo da un altro Randy presente nel gruppo, che chiamò
Randy Texas. In breve tempo Hendrix attirò l’attenzione del pubblico di New York e durante una serata al Cheetah Club fece amicizia con Linda Keith, all’epoca fidanzata di Keith Richards. Linda gli
presentò il manager ed il produttore dei Rolling Stones, ma nessuno dei due fu interessato a Hendrix, a dispetto di Chas Chandler,
ancora bassista degli Animals. Il 5 luglio 1966 Chas assistette ad un
concerto di Hendrix al Cafe Wha?, in MacDougal Street nel Greenwich Village, e capì immediatamente di aver trovato un’assoluta rarità. Chas in quel periodo stava per terminare il suo sodalizio
con gli Animals ed era intenzionato a ripartire come produttore e
manager, e Hendrix era perfetto allo scopo. E così Chas presentò
Hendrix al supporto del manager uscente degli Animals, Michael
Jeffery, il quale lo mise sotto contratto. Subito dopo partirono tutti alla volta di Londra, dove Hendrix atterrò con un bagaglio decisamente limitato: una Stratocaster, un abito di ricambio e un va-
setto di crema. Superato il primo problema alla dogana, dove a
Hendrix fu rilasciato un permesso di soggiorno valido una settimana perché fu presentato come un famoso compositore americano
venuto in Inghilterra per incassare i suoi diritti d’autore, Chandler
si attivò subito per trovare i musicisti adatti per accompagnare
Hendrix nella sua avventura, sullo schema del power trio che aveva già riscosso successo con i Cream di Eric Clapton. Furono scelti
due inglesi, il chitarrista Noel Redding, al basso, e il batterista Mitch Mitchell. Nel 1967 il sound innovativo e devastante della Jimi
Hendrix Experience, inciso negli albums Are You Experienced e
Axis: Bold as Love, non era più un segreto per nessuno, scatenando un passa parola senza precedenti tra gli artisti londinesi che accorsero in massa per vedere con i loro occhi quel chitarrista geniale e selvaggio. I già affermati chitarristi Eric Clapton, Pete Townshend e Jeff Beck rimasero letteralmente sgomenti. Sin dalle prime
incisioni quell’originale miscela di blues, funk, R’n’B e rock psichedelico folgorò pubblico e critica. Sbancata l’Europa, nel giugno
1967 la band arrivò in U.S.A., partecipando, grazie a Paul McCartney, al Monterey International Pop Festival, il primo evento di
quella “lunga estate dell’amore”. Fu un trionfo, come immortalato
nell’album Jimi Plays Monterey. Hendrix esibì tutto il suo reperto-
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rio, tecnico e pirotecnico, mimando rapporti sessuali con la sua
chitarra, suonandola con i denti, dietro la schiena, strofinandola
sull’asta del microfono e sbattendola contro l’amplificazione, fino
all’estremo sacrificio, quando al termine del set la incendiò, dopo
averla cosparsa di gas liquido per accendini, ed in fiamme la scagliò
sul palco e contro gli amplificatori fino a distruggerla, in un folle
quanto lancinante rumore di feedbacks . Hendrix da quel momento divenne leggenda, come testimoniato dalle vendite record del
successivo album e dalle richieste di esibizioni dal vivo. La folle corsa di Hendrix però portò con sé i suoi primi effetti collaterali, e la
notte del 4 gennaio 1968 fu arrestato a Stoccolma per aver devastato, completamente ubriaco, una stanza d’albergo. Successivamente Chandler abbandonò Hendrix, sempre meno gestibile artisticamente. Jimi, infatti, non riusciva a concepire una durata
pre-programmata dei brani, ritenendo insensato limitare la sua vena creativa entro uno spazio predefinito, dettato dalla finalità di
poterli pubblicare su disco, che, al contrario, per Chandler era l’obiettivo primario. Lo stesso valeva per le sedute di registrazione,
che mentre per Chandler dovevano essere già preordinate, in modo da durare il meno possibile, sia per limitarne i costi sia per i successivi passaggi in radio, per Hendrix non erano altro che vere e
proprie jam sessions creative, con lunghi momenti strumentali, in
cui elaborare e modificare le sue idee di base, anche seguendo le
suggestioni del momento, che scaturivano anche dagli altri musicisti presenti, tra i quali, oltre a Redding e Mitchell, il tastierista Al
Kooper, il batterista Buddy Miles, il bassista dei Jefferson Airplane,
Jack Casady, e Steve Winwood dei Traffic, all’interno delle quali individuare successivamente il materiale da pubblicare nell’album
doppio Electric Ladyland (1968). Il tutto reso ancor più esasperante dalla mania di perfezionismo di Hendrix, capace di operare innumerevoli sovraincisioni in ogni brano, oltre a pretendere da musicisti e tecnici la registrazione di altrettanti takes di ogni pezzo, fino a raggiungere la perfezione. Tale atteggiamento esasperò Redding, che spesso lasciava lo studio di registrazione per trovare, al
suo ritorno, la linea di basso incisa durante la sua assenza dallo
stesso Hendrix. Nel 1969, dopo l’ennesima esibizione caratterizzata da scontri e violenze tra il pubblico e le forze dell’ordine, che dovettero addirittura ricorrere ai gas lacrimogeni per calmare l’isteria
dei fans, e dall’allontanamento della band dentro un camion
del service, Redding, chitarrista mai comunque appagato dal ruolo
di bassista, lasciò la band. Quello stesso anno Hendrix dovette affrontare un processo penale in seguito al suo arresto presso l’aeroporto di Toronto per possesso di hashish ed eroina, dal quale uscì
assolto dopo aver convinto i giudici di non essere a conoscenza del
modo in cui gli stupefacenti fossero finiti nel suo bagaglio. La sua
esibizione in chiusura dei tre giorni di pace, amore e musica del festival di Woodstock, la sera del 18 agosto 1969, consacrò definitivamente Hendrix quale icona simbolo sia della musica dell’epoca,
sia del movimento flower power e del pensiero pacifista, nonostante alcuni problemi tecnici e logistici, tra cui la pioggia violenta
che cadde a metà del secondo giorno, salì sul palco solo all’alba del
giorno successivo, davanti ad una folla ridotta a meno della metà
rispetto a quella dei giorni precedenti, pari ad oltre 500.000 spettatori. Jimi si presentò con una nuova formazione, introdotta come Jimi Hendrix Experience, ma ripresentata dallo stesso Hendrix
come Gipsy Sun and Rainbows e suonò per circa due ore, e in
quell’occasione rielaborò l’inno nazionale degli U.S.A., riproducendo con la sua Stratocaster bianca i bombardamenti ed i mitragliamenti sui villaggi del Vietnam, le sirene della contraerea e gli altri
rumori sinistri della guerra. Da lì a breve Hendrix ricostituì lo schema del power trio, ossia la Band of Gypsys, con Billy Cox al basso e
Buddy Miles alla batteria. Con questa formazione la musica di Hendrix divenne ancora più black, accattivandosi le simpatie della popolazione afroamericana, come testimoniato dalle registrazioni
dal vivo durante le esibizioni della band presso il Fillmore
East di New York di Bill Graham, pubblicate nell’album omonimo
Band of Gypsys (1970). Ma anche le sorti di questa nuova formazione erano segnate ed il 28 gennaio 1970, a causa di una serie di
inconvenienti, alla band venne consentito di salire sul palco del
Winter Festival of Peace, tenutosi al Madison Square Garden di
New York, solo alle tre di notte circa, quando Hendrix era ormai in
preda agli stupefacenti. Dopo aver litigato con alcuni fans, che gli
chiedevano di suonare alcuni dei suoi pezzi più celebri, si rifiutò di
proseguire l’esibizione e dopo il primo brano proseguì con gli insulti finché gli stessi roadies non lo portarono giù dal palco. Miles accusò il manager, Michael Jeffery, di aver somministrato LSD ad
Hendrix per provocare tali effetti e mandare così in fumo il nuovo
progetto e poter ricomporre la Experience, e Jeffery in tutta risposta sciolse la nuova band e convinse Noel Redding e Mitch Mitchell a ricostituire la prima formazione. Le tensioni tra Hendrix e
Redding erano però insanabili e solo dopo alcuni concerti Hendrix
lo sostituì con Billy Cox. Il 1970 trascorse tra concerti a ritmo serrato, anche per pagare l’alto costo di realizzazione del nuovo studio
di registrazione voluto da Hendrix, l’Electric Lady Studios. Dopo la
partecipazione al festival dell’Isola di Wight, Jimi partì in tour in
Europa, ma le sue condizioni fisiche e psicologiche peggioravano
progressivamente, tanto che il più delle volte si presentava sul palco notevolmente alterato e pure ostile nei confronti del pubblico,
rifiutandosi di fare il juke-box delle sue hits o il funambolo con la
chitarra. Il culmine fu raggiunto il 6 settembre 1970 al festival di
Fehmarn, in Germania, quando fu accolto da fischi e contestazioni
del pubblico. Hendrix, profondamente deluso e confuso, fece ritorno a Londra, dove i suoi amici, tra cui Chandler ed Eric Burdon,
gli suggerirono di abbandonare il manager Michael Jeffery. Ma la
mattina del 18 settembre 1970, Jimi venne trovato morto nel suo
appartamento al Samarkand Hotel. Ancora oggi non sono state del
tutto chiarite le modalità della sua morte. La sua ragazza dell’epoca, la tedesca Monika Dannemann, presente quella notte nella
stanza, raccontò che Hendrix soffocò a causa di un improvviso conato di vomito causato da un mix di vino e tranquillanti, ma la sua
versione cambiò in occasione delle numerose interviste da lei rese.
Non è stato mai chiarito se Hendrix morì durante la notte, come
asserito dalla polizia, o se fosse ancora vivo all’arrivo dell’ambulanza e sia morto durante il trasporto in ospedale a causa del sopraggiungere del vomito, in assenza di un supporto sotto la sua testa. Nel 1993 un’amica di Hendrix, Kathy Etckingham, mai rassegnatasi al referto del coroner (pubblico ufficiale incaricato di indagare nei casi di morti avvenute in circostanze poco chiare), che
sebbene l’autopsia attribuisse la causa del decesso ad un’overdose di sonniferi ed alcool si pronunciò per un “verdetto aperto”,
commissionò ad un’agenzia investigativa privata un’inchiesta che
accertò, tra l’altro, che l’ambulanza venne chiamata con molto ritardo, e sulla scorta del dossier fornitole, che annoverava anche la
dichiarazione di un nuovo testimone oculare ignoto, esercitò pressioni sul Ministero dell’Interno e sulla magistratura inglese, tanto
che il caso Hendrix fu riaperto da Scotland Yard. Del resto lo stile
di vita di Hendrix non era così sfrenato e ricco di eccessi come era
stato dipinto, ad uso e consumo dei suo fans, ed infatti, come tutti
i suoi più cari amici dichiararono, non era un consumatore abituale di droghe pesanti (eroina), né aveva mai dato alcun segno di ansie suicide. Appena fu data la notizia della sua morte, l’appartamento di Hendrix fu saccheggiato da sciacalli a caccia di cimeli ed
oggetti vari. Le spoglie di Jimi vennero riportate negli U.S.A. e sepolte a Seattle, nel Greenwood Memorial Park di Renton, Washington. Sulla lapide vennero incisi il suo nome e la sagoma della sua
Fender Stratocaster. I continui atti di sciacallaggio da parte di ammiratori e curiosi indussero il padre di Hendrix a collocare il feretro in un contesto separato. Un’altra statua di Hendrix è stata collocata a Seattle e la sua città natale ha voluto rendergli omaggio
anche intitolandogli un parco. Autore visionario, rappresenta ancora oggi la figura del chitarrista per antonomasia. Rielaborò, innovò e stravolse completamente lo strumento ed il concetto stesso
della chitarra elettrica, creando una musica originale, una miscela
esplosiva di rock, blues, rhythm’n’blues, soul, funk, psichedelia e
hard rock, frutto di una continua sperimentazione anche sonora,
impreziosita dall’utilizzo dei primi pedali di distorsione, come il
fuzz, e del wah wah, e dall’uso quasi melodico del feedback, fino a
quel momento ritenuto soltanto un fastidioso rumore dovuto
all’innesco dei pickups della chitarra, sempre alla ricerca di un
sound più caldo, ricco ed intenso, seppure sempre fortemente ancorato alle sue fortissime radici blues. Nonostante il tentativo, non
è possibile concentrare in poche righe il suo lascito che è andato
ben oltre l’aspetto musicale. Anche lo stile e l’aspetto di Hendrix
hanno fatto scalpore e tendenza sin dalle sue prime apparizioni
sulle scene, rendendolo un’icona immortale. Il suo aspetto selvaggio ed il suo rapporto furioso e carnale con la sua amata chitarra
sono ancora oggi proverbiali, tanto che la sua influenza è presente
in tutti i chitarristi elettrici moderni. Il suo power trio, insieme a
gruppi come Who e Cream, inaugurò il genere hard rock degli anni
60 e fu proprio Jimi a partorire dalle corde della sua chitarra l’heavy metal, che si svilupperà dopo la sua morte. Il Re è morto, lunga
vita al Re!
Hear My Train A Commin’
I Hear My Train A Commin’
I Hear My Train A Commin’
I Wait Around Train Station
Waitin’ For That Train
To Take Me Away
Take Me The Hell Out A Here
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Take Me From This Lonesome Town
Too Bad You Don’t Love Me No More Baby
Too Bad Your People Put Me Down
(Jimi Hendrix)
Sento che il mio treno sta arrivando
Sento che il mio treno sta arrivando
Sento che il mio treno sta arrivando
Aspetto qui vicino alla stazione
Sto aspettando quel treno
Che mi porterà via
Per l’inferno, mi porterà via da qui
Mi porterà via da questa città desolata
È troppo doloroso il fatto che tu non mi ami più bambina
È troppo doloroso che la tua gente mi tratti così male
Credo siano molteplici gli effetti che provoca l’ascolto di
Hendrix e sicuramente a tutti i chitarristi che l’hanno ascoltato è balenata in mente almeno una volta l’idea di cambiare strumento.
Ho letto di tutto e di più a proposito di quel genio, ma la cosa che più mi colpii fu quando un critico disse che, seppure a modo suo, Jimi Hendrix avesse suonato, rielaborandolo, il blues.
Prima di ascoltare Hendrix avevo già sentito parlare della
musica blues, ma mai prima di allora mi aveva così incuriosi-
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to, dato che proprio dal blues, artisticamente parlando, pare che Hendrix avesse mosso i suoi primi passi.
Tuttavia, non mi interessai più di tanto al Blues, dato che
ero troppo indaffarato ad ascoltare ripetutamente i dischi e
le musicassette che trovavo di Jimi Hendrix ed a cercare di
capire cosa facesse a quella chitarra per far uscire un suono così inspiegabile ed assurdo, ancora oggi difficile da etichettare.
Il tempo passava e sebbene da una prima analisi tutti i musicisti che ascoltavo avessero ben poco in comune, sentivo
che c’era qualcosa che li univa, una sonorità di fondo, serpeggiante e ben celata alle mie orecchie profane, ma ignoravo cosa fosse.
Insomma, erano già passati diversi anni dalla visione di Radici ed avevo ancora tre enigmi da risolvere:
1) Perché avessi provato una sensazione così forte e dolorosa nel seguire le vicissitudini di Kunta e perché la storia di
questo africano sconosciuto mi avesse turbato così violentemente.
2) Perché il Signore avesse tollerato una simile tragedia
umana.
3) Quale fosse l’elemento musicale che univa Edoardo Bennato, Pino Daniele, Bob Dylan, gli Eagles, Cat Stevens, Little Richard, Mark Knopfler e i Dire Straits, Bob Marley, Peter
Tosh, Carlos Santana e, infine, Jimi Hendrix.
3.
Ho visto la luce!
MAXWELL STREET
Maxwell Street è la strada di Chicago, in Illinois, del celebre Maxwell Street Market, dove si dice esser nato il Chicago blues.
A
THE BLUES BROTHERS
The Blues Brothers è una
commedia musicale del
1980 diretta da John Landis e interpretata da John
Belushi e Dan Aykroyd,
che nel film interpretano rispettivamente i fratelli Jake “Joliet” Blues ed
Elwood Blues. La storia si
svolge a Chicago, in Illinois, e racconta della redenzione dei due fratelli Blues che nella loro inconfondibile tenuta, in abito nero ed occhiali da sole neri, partono “in missione per conto di Dio” per riunire la loro blues band e raccogliere i soldi necessari per evitare la
chiusura dell’orfanotrofio cattolico dove entrambi erano cresciuti. Anche grazie all’incredibile ed insuperabile cast di musicisti presenti, il film ottenne un grande successo diventando un vero e proprio cult movie.
Era seduto in mezzo a Maxwell Street, indossava un cappello e calzava dei mocassini disonesti che batteva a terra tenendo il tempo, era nero ed aveva uno sguardo deciso, sicuro e fiero, il suo nome … una Leggenda: John Lee Hooker.
JOHN LEE HOOKER
John Lee Hooker (Clarksdale, Coahoma County, Mississippi 22
agosto 1917 – Los Altos, California 21 giugno 2001). Cantante, autore e chitarrista blues. Nacque in una famiglia di musicisti del Mississippi, tra i quali suo cugino Earl Hooker. Il padre era un mezzadro e un predicatore battista e gli permetteva di ascoltare solo i
canti religiosi (spirituals) in chiesa. Nel 1922, un anno dopo il divorzio dei genitori, la madre si risposò con William Moore, cantante
blues cresciuto in Louisiana, che suonava con Charley Patton, Blind
Lemon Jefferson e Blind Blake quando capitavano nei dintorni di
Clarksdale, il quale gli insegnò i rudimenti della chitarra blues. Proprio dal patrigno Hooker apprese e perfezionò il suo stile unico ed inimitabile, caratterizzato dall’uso
di un solo accordo, ripetuto ipnoticamente, e seguendone le
orme iniziò a suonare
in occasione delle feste di paese. Intorno
al 1923, dopo la morte del suo padre naturale, a 14 anni Hooker andò via di casa
e non rivide mai più né
la madre, né il suo patrigno. Dopo aver canby M. LOTTA
metà degli anni 80 sentii per la prima volta parlare di
un film che aveva la parola blues proprio nel titolo.
Ecco che di nuovo mi si parava davanti il Blues.
Era da un po’ di tempo che non ne sentivo parlare e quella
era un’ottima occasione per capirne qualcosa di più.
Non avrei mai pensato che da lì a poco tutto sarebbe cambiato.
Fu proprio nel cuore del quartiere soul, il quartiere nero di
Chicago rappresentato nel film The Blues Brothers, che trovai improvvisamente la risposta alle mie domande.
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tato in vari cori gospel a Cincinnati, negli anni 30 si trasferì a Memphis, in Tennessee, dove lavorò al New Daisy Theatre, a Beale Street, e saltuariamente si esibì in house parties. Durante la seconda
guerra mondiale lavorò in diverse fabbriche e nel 1943 si trasferì
a Detroit, in Michigan, dove trovò lavoro in una fabbrica di automobili, la Ford Motor Company, mentre la sera si esibiva nei locali
e nei raduni di Hastings Street, epicentro della musica blues di Detroit. La sua popolarità crebbe immediatamente, anche perché, alla ricerca di uno strumento che gli consentisse di suonare ad un volume più alto, abbandonò la chitarra acustica e comprò la sua prima chitarra elettrica, con relativo amplificatore, rivoluzionando il
tipico sound country-blues. Nel 1948 incise il suo primo brano Boogie Chillen, caratterizzato dal suo canto rurale e grezzo, nello stile Delta blues che Hooker adattò e rielaborò alla chitarra elettrica,
e dal suo originale ed inconfondibile modo di cantare, quasi parlando, cadenzato dal suo tipico ritmo boogie, martellante ed incalzante, che aveva sviluppato prendendo spunto dallo stile dei pianisti boogie-woogie, reso ancora più suggestivo dal battere ostinato della mano sulla cassa della chitarra e del piede su un’asse
di legno. Il suo repertorio includeva sia brani tipici del down-home blues che spirituals. I dischi registrati in seguito furono ugualmente dei successi race record, e così Crawling King Snake (1949),
Dimples (1956), Boom Boom (1962) e One Bourbon, One Scotch,
One Beer (1966). Nonostante fosse analfabeta, Hooker componeva da sé i suoi brani e poiché negli anni 50 gli studi di registrazione pagavano i musicisti afroamericani una miseria, lui girava di studio in studio proponendo sempre le stesse canzoni, che modificava leggermente ogni volta che si recava presso una nuova casa discografica, usando anche diversi pseudonimi, come John Lee Booker alla Chess Records e alla Chance Records (1951-1952), Johnny Lee alla De Luxe Records (1953-1954), ed ancora John Lee, John
Lee Cooker, Texas Slim, Delta John, Birmingham Sam and his Magic Guitar, Johnny Williams o The Boogie Man. Il suo stile musicale, nel rispetto della tradizione dei primi blues acustici dei musicisti del Delta del Mississippi, era strutturalmente e ritmicamente libero ed improvvisato, dove i cambi di tempo erano la norma e dipendevano sia dai suoi cambiamenti di umore, sia dalla narrazione
dei testi, rendendo molto difficile il lavoro dei musicisti d’accompagnamento. Divenuto un’icona del movimento folk blues, dopo
il suo trionfale tour inglese del 1963, la sua fama esplose presso il
pubblico di tutto il mondo, anche grazie alle numerose covers dei
suoi brani registrate dai principali musicisti rock e blues inglesi, fino alla consacrazione definitiva avvenuta con la sua partecipazione al film The Blues Brothers (1980), nel quale registrò dal vivo e in
presa diretta, improvvisando, secondo il suo stile, con la sua band
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nel Chicago’s Maxwell Street Market, a dispetto dell’usuale tecnica del playback. Alla fine degli anni 80 Hooker fece il suo grande
rientro nella scena discografica mondiale con l’album The Healer
(1989), cui collaborarono tanti grandi musicisti, come Carlos Santana e Bonnie Raitt. Dopo un’importante collaborazione con Van
Morrison e Pete Townshend, nel dicembre dello stesso anno Hooker suonò anche con i Rolling Stones ed Eric Clapton ad Atlantic City, in occasione del tour Steel Wheels dei Rolling Stones. Dopo aver registrato oltre 100 dischi, Hooker si stabilì a Long Beach,
in California, e nel 1997 aprì un night club a San Francisco, chiamato John Lee Hooker’s Boom Boom Room. Nel 2001 durante un
tour in Europa si ammalò e poco dopo, durante il sonno, non si risvegliò più, lasciando su questa terra 8 figli, numerosissimi premi
e tanti musicisti cresciuti grazie alla sua musica, come Buddy Guy,
Bob Dylan, Cream, AC/DC, ZZ Top, Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Eric
Clapton, The Yardbirds, The Animals, The Doors, George Thorogood, R. L. Burnside.
Il brano che suonava col suo tipico incedere boogie, Boom
Boom, fece esplodere definitivamente la mia passione.
Boom Boom
Boom boom, Boom boom
I’m gonna shoot you right down
Right offa your feet
Take you home with me
Put you in my house
Boom boom boom boom
A-haw haw haw haw
(John Lee Hooker)
Boom Boom
Boom boom, Boom boom
Sto proprio per spararti addosso e buttarti giù
Sto proprio per farti saltare in aria
Ti porto a casa con me
Ti sistemo a casa mia
Boom boom boom boom
A-haw haw haw haw
Fu una folgorazione!!! Anche io finalmente avevo visto la
LUCE!!!
Da quel momento in poi nel mio cuore di musicista non ci
sarebbe più stato posto per niente, tranne che per il Blues
… ain’t nothing but the Blues!
La musica di John Lee Hooker racchiudeva in sé tutti gli elementi che avevano catalizzato la mia attenzione fino a quel
momento: il ritmo contagioso delle canzoni di Edoardo Bennato e di Little Richard, il climax e la profondità umana delle
ballate di Pino Daniele e di Bob Dylan, le sonorità tranquille e consolanti di Cat Stevens e degli Eagles, l’atmosfera elegante del sound di Mark Knopfler e dei Dire Straits, la capacità di cullarti in un viaggio senza tempo di Carlos Santana, il
potere ipnotico del reggae di Bob Marley e di Peter Tosh, la
potenza sonora ed emozionale di Jimi Hendrix, tutto in una
sola parola: BLUES!!!
Alleluia!! La ricetta magica mi era stata servita su un vassoio d’oro.
MUDDY WATERS
McKinley Morganfield (Rolling Fork, contea di Issaquena, Mississippi 4 aprile 1913 o 1915 – Westmont, Illinois 30 aprile 1983), in
arte Muddy Waters (“Acque Fangose”), come l’aveva soprannominato la nonna, perché da bambino gli piaceva giocare nelle rive
fangose del Mississippi, e precisamente del vicino Deer Creek. Cantante, autore e chitarrista blues. Nato esattamente a Jug’s Corner,
nelle vicinanze della contea di Issaquena, anche se ancora si discute se nel 1913 o nel 1915, il cui padre, Ollie Morganfield, era un
contadino e un musicista. Dopo la morte della madre, avvenuta
quando Muddy Waters aveva 3 anni, andò a vivere con la nonna a
Clarksdale, dove a 9 anni iniziò a suonare l’armonica e a 16 anni la
chitarra. Lavorava come raccoglitore nei campi di cotone della Stovall Plantation e arrotondava suonando in occasione delle feste
paesane nei dintorni di Clarksdale, seguendo l’esempio di Son
House e Robert Johnson. Nel 1932, a 17 anni (il che depone per il
1915 quale anno di nascita), Muddy Waters sposò Mabel Berry ed
il chitarrista Robert Nighthawk suonò al loro matrimonio. Mabel lo
lasciò dopo 3 anni, quando Muddy Waters ebbe il suo primo figlio
da un’altra donna, Leola Spain. Nell’agosto del 1941 lo studioso di
folklore afroamericano, Alan Lomax, si recò nella piantagione di
Stovall, in Mississippi, su incarico della Library of Congress per registrare vari musicisti di country blues, e registrò Muddy Waters
proprio nella sua baracca, che ora si trova nel museo del blues di
Clarksdale, in Mississippi. Nel luglio 1942 Lomax ritornò per registrare nuovamente Muddy Waters e le sessioni furono pubblicate
la prima volta nell’album Down On Stovall’s Plantation dall’etichetta Testament. A quelle incisioni partecipò anche il violinista e
chitarrista Son Slims,
uno dei primi maestri
di Muddy Waters. Risentire la propria voce
e la propria chitarra fu
per Muddy Waters
un’illuminazione e dopo aver gestito un juke
joint, dove si giocava
d’azzardo e si poteva
ascoltare sia la musica
di un juke-box che la
sua, quando suonava
dal vivo, Muddy Waters nel 1943 emigrò a Chicago per diventare un musicista professionista. Trovò lavoro di giorno come autista e come operaio in
una fabbrica e di sera si esibiva nei bars e nei piccoli clubs di blues,
dove incontrò Sonny Boy Williamson e Tampa Red, finché Big Bill
Broonzy, uno dei principali artisti blues della scena di Chicago, lo
aiutò ad entrare nel mondo della musica che contava, permettendogli di aprire i suoi concerti nei principali clubs. Nel 1945 lo zio Joe
Grant comprò a Muddy Waters la sua prima chitarra elettrica per
permettergli di far sentire la sua musica anche nei locali più rumorosi. Nel 1946 Muddy registrò alcuni brani per la Columbia, ma
non furono pubblicati, e alla fine dello stesso anno fu contattato
dai fratelli Leonard e Phil Chess che lo misero sotto contratto con la
loro etichetta Aristocrat Records. Nel 1947 registrò alcuni brani alla chitarra, con Sunnyland Slim al piano, e nel 1948 incise I Can’t Be
by M. AMARA
Era quello l’ingrediente che univa tutti gli artisti che riuscivano a far vibrare le corde della mia Anima.
L’ultimo dei miei tre quesiti aveva ora una risposta.
Da quel momento in poi è stata una ricerca spasmodica e
senza tregua di ogni disco, musicassetta e videocassetta di
musica BLUES, un viaggio contrassegnato da continue scoperte e da gioie immense.
Ma l’emozione più grande che io ricordi la provai quando feci girare sul piatto un LP che avevo acquistato per due motivi: innanzitutto perché quel nome l’avevo già sentito nominare più volte e mi aveva incuriosito soprattutto l’aver saputo che a Chicago gli avessero dedicato addirittura una strada, quindi era una garanzia assoluta che stavo spendendo
bene i miei pochi soldi, ma soprattutto perché la mia attenzione fu catturata dal suo viso di uomo nero di mezza età, e
forse pure qualcosina in più, ritratto con due suggestive foto
in bianco e nero, in particolare sulla copertina appariva solo
la sua testa a grandezza naturale, mentre cantava in piena
estasi con gli occhi chiusi, e sul retro la sua immagine a mezza figura, mentre suonava la chitarra con il volto sorridente
e giocoso, era assolutamente coinvolgente.
Il nome dell’album Muddy “Mississippi” Waters live.
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Satisfied e I Feel Like Going Home
che divennero delle hits, favorendo la crescita della sua popolarità.
Subito dopo la Aristocrat cambiò
nome in Chess Records e nel 1950
Muddy Waters incise il suo grande successo Rollin’ Stone, che
darà il nome sia all’omonimo
gruppo inglese che alla celebre rivista musicale. Dopo aver vinto le
resistenze della Chess, che non intendeva fargli utilizzare nelle sessioni di registrazione la band con cui si esibiva solitamente, nel settembre del 1953 Muddy Waters registrò per la prima volta con
l’accompagnamento di quella che sarà ricordata come la sua prima
band, ossia Little Walter Jacobs (armonica), Jimmy Rogers (chitarra), Elga Edmonds in arte Elgin Evans (batteria) e Otis Spann (piano). Negli anni 50 la band più celebrata della storia del blues registrò quasi la totalità dei classici del genere poi passati alla storia,
composti prevalentemente dal cantautore e contrabbassista Willie
Dixon, anch’egli come Chuck Berry sotto contratto con la Chess, tra
cui Hoochie Coochie Man, I Just Want to Make Love to You, I’m Ready, Mannish Boy, Sugar Sweet, Trouble No More, Forty Days &
Forty Nights. Muddy Waters, Little Walter Jacobs e Howlin’ Wolf
dominarono la scena del Chicago blues degli anni 50 e suonare nella band di Muddy Waters divenne un punto d’arrivo per tutti i migliori musicisti blues, tanto da favorirne anche le successive carriere come solisti, così valse per Little Walter, il cui singolo Juke divenne un successo, e per Rogers che dal 1955 si dedicò alla sua carriera solista con una sua band. Nel 1958 Muddy Waters sbarcò in Inghilterra ed il suo blues elettrico, potente e trascinante, conquistò
maree di ragazzi bianchi che avendo fino ad allora ascoltato il Delta blues di Robert Johnson e di Big Bill Broonzy ed il country-blues
di Sonny Terry & Brownie McGhee restarono letteralmente folgorati dal blues “urbano” amplificato della band di Muddy Waters,
che sancì ufficialmente il passaggio dal blues acustico al rock’n’roll.
Muddy Waters ottenne la sua definitiva consacrazione in occasione del Jazz Festival di Newport del 1960, anche se proprio in
quell’occasione constatò con disappunto che mentre la sua gente,
gli afroamericani, giravano le spalle disinteressati al blues, il pubblico di pelle bianca mostrava interesse e rispetto verso quel genere di musica. Nel 1967, con Bo Diddley, Little Walter e Howlin’
Wolf, incise The Super Blues e The Super Super Blues Band per la
Chess. Nel 1972 ritornò in Inghilterra per registrare The London
Muddy Waters Sessions con Rory Gallagher, Steve Winwood, Rick
Grech e Mitch Mitchell, anche se in un’intervista rilasciata a Guralnick, pur riconoscendo la professionalità di quei musicisti, si lamentò del fatto che non erano in grado di suonare la sua musica,
evidenziando che loro “si mettevano davanti il libro (lo spartito) e
suonavano”, ma ciò non era quello che lui avrebbe voluto per ricreare il suo sound, e concluse dicendo che “se cambi il mio sound
stai cambiando la mia stessa persona”. Nel 1973 morì di cancro
sua moglie Geneva e lui smise di fumare e si trasferì a Westmont,
in Illinois, con i suoi numerosi figli. Da lì a breve andò a suonare in
Florida e dopo un concerto conobbe la diciannovenne Marva Jean
Brooks, che dopo qualche mese dello stesso anno sposò, con Clapton che gli fece da testimone. Il 25 novembre 1976 prese parte,
con Paul Butterfield all’armonica, al concerto di commiato di The
Band, al Winterland di San Francisco, pubblicato nel film The Last
Waltz. Nel 1977 Johnny Winter convinse la sua etichetta Blue Sky a
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mettere sotto contratto Muddy Waters e fu l’inizio di una fruttuosa collaborazione. Muddy Waters ci regalò, infatti, le sue ultime
perle, riproponendo il suo tipico Chicago sound delle origini pubblicando albums come Hard Again (1977), I’m Ready (1978), Muddy “Mississippi” Waters – Live (1979) e King Bee (1981), grazie alla
sapiente produzione di Johnny Winter, che vi partecipò anche come chitarrista, ed alla presenza di artisti del calibro di James Cotton, Big Walter Horton e Jerry Portnoy all’armonica, “Pine Top”
Perkins al piano, Sammy Lawhorn, Luther “Snake Boy” Johnson,
Bob Margolin e Jimmy Rogers alla chitarra, Calvin “Fuzz” Jones e Charles
Calmese al basso, Willie “Big
Eyes” Smith alla batteria, tutti musicisti formatisi alla
corte dell’Imperatore del
blues. Nel 1981 Muddy
Waters fu invitato ad esibirsi al Chicago Festival e
sul palco salì anche l’amico
Johnny Winter, e proprio la
città di Chicago, due anni dopo
la sua morte, ne onorò il ricordo
chiamando Honorary Muddy Waters
Drive una parte della 43rd Street, dove aveva abitato, e ribattezzando la parte di Cass Avenue di Westmont, sobborgo di Chicago,
vicino alla sua ultima abitazione, Honorary Muddy Waters Way.
Nel 1983 Muddy Waters si addormentò senza più svegliarsi, a causa di un problema cardiaco, nella sua casa a Westmont. Al suo funerale partecipò una moltitudine di bluesmen e di appassionati,
che resero il meritato tributo al Maestro che influenzò profondamente diversi generi musicali, dal blues al rhythm’n’blues, dal folk
al rock’n’roll, dal country al jazz, fino all’hard rock. Jimi Hendrix disse che Muddy Waters fu il primo chitarrista di cui venne a conoscenza, e schiere di musicisti, dai Cream agli Yardbirds, da Eric
Clapton a Jimmy Page, dai Canned Heat a Bob Dylan, dagli Allman
Brothers a Jeff Beck, dai Rolling Stones agli Steppenwolf, da Paul
Rodgers a Gary Moore, dai Led Zeppelin ad Angus Young furono
ispirati da colui che viene considerato, a ragion veduta, il “Padre
del Chicago blues”, uno dei più grandi bluesmen di tutti i tempi ed
uno degli artisti più influenti del secolo scorso, punto di partenza
del rock’n’roll e punto di riferimento per la rivoluzione musicale
beat e per la british explosion degli anni 70.
Rollin’ Stone
Well, I wish I was a catfish
Swimmin in a oh, deep, blue sea
I would have all you good lookin women
Fishin, fishin after me
Sure ‘nough, a-after me
Sure ‘nough, a-after me
Oh ‘nough, oh ‘nough, sure ‘nough
Well, my mother told my father
Just before hmmm, I was born
“I got a boy child’s comin”
“He’s gonna be, he’s gonna be a rollin stone”
“Sure ‘nough, he’s a rollin stone,”
“Sure ‘nough, he’s a rollin stone”
Oh well he’s a, oh well he’s a, oh well he’s a
(Muddy Waters)
Fu così che feci la conoscenza del “Padre del Chicago blues”
e della sua tagliente chitarra slide, scoprendo l’ennesima
Terra Promessa su cui adagiare le mie orecchie e far incetta di sonorità ed atmosfere uniche che mi riportavano indietro nel tempo, verso un futuro di continue quanto sconfinate emozioni.
È sempre molto difficile riuscire a rendere in parole sensazioni così forti ed altrettanto difficile per me era starne lontano.
Avevo ormai compreso che ad ogni nuovo album di blues
corrispondeva una felicità incomparabile, analoga a quella
che la vigilia di Natale fa saltare e gridare di gioia ogni bambino, pertanto ogniqualvolta riuscivo a trovare un nuovo LP
di blues mi esaltavo e non vedevo l’ora di ritornare a casa
per piazzarlo sul giradischi con il volume a palla per poi riprodurne il suono con la mia chitarra, che nel frattempo da
acustica era diventata elettrica.
Più ascoltavo quella musica e più mi sembrava familiare, era
quasi come se avessi perso la memoria ed improvvisamente l’avessi ritrovata.
Era come se alla fine di un lungo viaggio fossi riuscito a ritrovare la strada di casa, ora, finalmente, ero ritornato al punto
d’inizio, mi sentivo a casa, avvertivo l’aria di casa.
Pensate, quindi, al felice stupore che avvertii quando venni
a sapere che il Blues altro non era se non che lo sviluppo della musica africana in terra nordamericana, ad opera proprio
degli schiavi neri deportati e delle generazioni successive.
In poche parole, era proprio la musica di Kunta Kinte, che
scoprii essere legato a doppio filo con John Lee Hooker e
Muddy Waters, che altri non erano se non che discendenti
di Kunta o di un altro africano che si era trovato a vivere la
sua stessa identica disperata esperienza di vita.
Ma il Blues aveva in serbo per me un’altra sorpresa ed un’altra rivelazione, che coincise con l’avvento nella mia vita di
un’altra figura eccezionale, che contribuì in maniera decisiva a farmi capire, una volta per tutte, ciò che sarei voluto diventare da grande: un chitarrista di blues.
Questo è l’effetto che B.B. King ebbe su di me.
B.B. KING
Riley B. King, in arte B.B. King (Berclair, Leflore County, Mississippi 16 settembre 1925 – Las Vegas, Nevada 14 maggio 2015). Cantante, autore e chitarrista blues. Nacque a circa 5 km ad ovest di It-
ta Bena. Nel 1930 suo padre lasciò la famiglia, sua madre sposò un
altro uomo e lui fu allevato dalla nonna materna a Kilmichael, in
Mississippi. Da giovane lavorò come bracciante in una piantagione di cotone e la sua paga era di 35 centesimi per ogni 50 kg di cotone che raccoglieva. Ascoltava il blues di T-Bone Walker e Lonnie
Johnson e il jazz di Charlie Christian e Django Reinhardt, e cantava musica gospel nella chiesa Elkhorn Baptist Church a Kilmichael,
finché nel 1943 si trasferì a Indianola, in Mississippi, dove lavorò
come trattorista ed iniziò a suonare nella vicina zona di Greenwood. Nel 1946 si trasferì a Memphis, in Tennessee, dove perfezionò
la sua tecnica chitarristica, grazie all’aiuto del cugino di sua madre,
il chitarrista country-blues Bukka White, ed allo studio di chitarristi come Blind Lemon Jefferson e T-Bone Walker. Dopo un po’ fece
rientro in Mississippi, per poi dirigersi nel 1948 a West Memphis,
in Arkansas, dove partecipò al programma radio di Sonny Boy Williamson, sulla KWEM. Da lì a poco lavorò come disc jokey in una
delle prime stazioni radio dell’epoca, che programmava esclusivamente musica nera, la radio di Memphis WDIA, dove suonò anche
dal vivo. Suonava, inoltre, negli angoli di Beale Street, procurandosi il soprannome di The Blues Boy from Beale Street o The Beale Street Blues Boy (“Il Ragazzo del Blues di Beale Street”), più semplicemente Blues Boy, ed infine B.B. Nel 1949 cominciò a registrare per la RPM Records di Los Angeles, prodotto da quel Sam Phillips che in seguito fondò la Sun Records. Dopo aver formato la sua
prima band, iniziò a girare per tutti gli Stati Uniti suonando nelle
principali città, come Washington, D.C., Chicago, Los Angeles, Detroit e St. Louis, e nei numerosi piccoli locali e juke joints del sud,
che costituivano il chitlin’ circuit. Durante una serata a Twist, in Arkansas, nell’inverno del 1949, il locale prese fuoco a causa di un
bidone di kerosene, all’epoca utilizzato per riscaldare l’ambiente,
by M. LOTTA
Spirito Libero e Ribelle
Ebbene, vorrei essere un pesce-gatto
Che nuota nel profondo mare blu
Vorrei che tutte voi belle donne
Vi diate da fare per pescarmi
Ovviamente, per pescarmi
Ovviamente, per pescarmi
Certamente, certamente
Ebbene, mia madre disse a mio padre
Poco prima che nascessi
“Sto per dare alla luce un bambino”
“Sarà, sarà uno spirito libero e ribelle”
“Sicuramente, è uno spirito libero e ribelle”
“Sicuramente, è uno spirito libero e ribelle”
Oh si lo è, oh si lo è, oh si lui lo è
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by M. AMARA
don (1971). Nel 2012 B.B. King si è esibito alla Casa Bianca, ospite
del Presidente Barack Obama, e nello stesso anno è stato pubblicato un documentario sulla sua vita artistica diretto da Jon Brewer,
con la narrazione di Morgan Freeman. Nel 2013 è apparso al New
Orleans Jazz Festival. Nel 2014, dopo che gli venne diagnosticato
un esaurimento, date le sue precarie condizioni di salute, dovette
interrompere le esibizioni dal vivo già programmate. Dopo due ricoveri ospedalieri, a causa di complicazioni dovute alla pressione
alta e al diabete, B.B. King si è spento all’età di 89 anni, nel sonno,
nella sua casa di Las Vegas, dopo alcuni infarti causati dal diabete,
di cui soffriva da anni, ed anche a causa di complicazioni del morbo di Alzheimer. La salma è stata trasportata a Memphis e condotta in processione da Beale Street, guidata da una brass band marciante che suonava When the Saints Go Marching In, per essere
poi condotta, seguita da migliaia di persone accorse per onorare il
“Re del blues”, lungo la Route 61 fino alla sua città natale, Indianola, in Mississippi, dove si sono svolti i funerali, presso la Bell Grove
Missionary Baptist Church. In quasi 70 anni di attività concertistica si stima che B.B. King abbia tenuto una media di circa 250/300
concerti l’anno, totalizzato quasi 20.000 esibizioni.
by M. AMARA
buttato giù durante una lite tra due persone. Durante l’evacuazione B.B. King si dimenticò di prendere la sua chitarra e quando se
ne accorse rientrò nell’edificio in fiamme per recuperarla. Quando
venne a sapere che la ragione della lite era stata una donna chiamata Lucille, chiamò così la sua chitarra, per ricordare a sé stesso quanto era stato avventato il suo gesto. I brani di seguito incisi
negli anni 50 furono tutti grandi successi, così 3 O’Clock Blues, You
Know I Love You, Woke Up This Morning, Please Love Me, You Upset Me Baby, Every Day I Have the Blues, Ten Long Years, Bad Luck,
Sweet Little Angel e Please Accept My Love. La sua attività live aumentò vertiginosamente, fino a totalizzare il numero impressionante di 342 concerti e tre sessioni di registrazione nel 1956, anno in cui fondò la sua etichetta, Blues Boys Kingdom, con quartiere
generale a Beale Street, a Memphis. Nel novembre del 1964 registrò al Regal Theater di Chicago un album pietra miliare del blues,
Live at the Regal. Nella sua lunghissima e benedetta carriera si può
dire che abbia suonato con tutti i più rinomati musicisti del pianeta, partecipato a numerosi films, tra cui The Blues Brothers 2000, e
programmi televisivi, ispirato un numero infinito di musicisti e ricevuto numerosi premi ed onorificenze, tra cui la Medaglia Presidenziale delle Arti, conferitagli da George H.W. Bush nel 1990, e la
Medaglia della Libertà, conferitagli da George W. Bush nel 2008.
Riconosciuto come il “Re del blues” è stato uno dei più importanti esponenti del blues, e la sua musica, una perfetta ed unica miscela di blues, jazz, swing e boogie, era caratterizzata dai suoni caldi, rotondi e suadenti di Lucille, la sua chitarra nera semi acustica
Gibson Custom Shop ES-335, sempre accompagnati da un’impeccabile orchestra, come testimoniato dai dischi registrati alla fine
degli anni 60, come Lucille (1968), Live & Well (1969) Completely
Well (1969), Indianola Mississippi Seeds (1970) e B.B. King in Lon-
Sweet Little Angel
I’ve got a sweet little angel
I love the way she spread her wings.
Yes, I got a sweet little angel
I love the way she spread her wings.
Yes, when she spread her wings around me
I get joy in everything.
You know I asked my baby for a nickel
and she gave me a twenty dollar bill.
Oh, yes, I asked my baby for a nickel
and she gave me a twenty dollar bill.
You know I asked her for a little drink of liquor
and she gave me a whiskey still’.
Lord, if my baby should quit me
I do believe I would die.
Yeah, if my baby should quit me
I do believe I would die.
Yes, if you don’t love me little angel
please, tell me the reason why.
(B.B. King)
Dolce Piccolo Angelo
Ho un dolce piccolo angelo
amo il modo in cui lei spiega le sue ali.
Ebbene si, ho un dolce piccolo angelo
amo il modo in cui lei spiega le sue ali.
Si, quando mi avvolge con le sue ali
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La sua voce potente, ma sempre pulita e melodiosa, il ritmo sincopato dei suoi blues, inframezzato dall’utilizzo della
sezione fiati stile R’n’B, e l’incontenibile gioia che scaturiva
dalla sua musica mi fecero letteralmente saltare dalla sedia.
Grazie a quel gigante nero avevo appena fatto la conoscenza del boogie, il volto frizzante del blues, ed era una sensazione fantastica dalla quale non mi volevo più staccare.
Per la prima volta ascoltare blues mi faceva sentire non solo
felice, ma anche incredibilmente allegro e ottimista.
La mia vita grazie al Blues era sempre più bella!
Per la prima volta, in fondo al mio cuore, non provavo quello strano senso di colpa che di tanto in tanto mi affliggeva
al solo pensiero che stavo provando gioia nell’ascoltare una
musica che, almeno agli inizi della sua esistenza, era stata il
frutto di tanto dolore.
Fu proprio la buon’anima di B.B. King a liberarmi da questo peso e non gli sarò mai grato abbastanza per avermi fatto comprendere, grazie alla sua musica, che non solo si poteva sorridere e ballare ascoltando il Blues, ma che era proprio la cosa giusta da fare, rappresentava il vero senso di
quella musica, ossia creare un’oasi di pura gioia in un deserto di dolore, dove gli afflitti potessero trovare un rifugio sicuro per poter quietamente riparare i danni che la durezza
della vita infliggeva alle loro anime ed ai loro corpi stanchi.
E pensare che qualcuno ha avuto anche il coraggio di criticare questo immenso artista, lamentando che la sua musica
si presentava sempre allo stesso modo, alternando un brano lento ad uno allegro, e cercando di fondere vari stili musicali, come il jazz ed il country, al solo fine di conquistarsi i
favori del grande pubblico.
Ma questo qualcuno non ha tenuto conto che questi brani
il buon B.B. King li suonava sin da quando si guadagnava la
pagnotta agli angoli di Beale Street e che per oltre 70 anni,
fino alla sua morte, non ha fatto altro che suonarli sui palchi di tutto il mondo, diventando il più grande Ambasciatore della musica blues della storia.
mane tragedia umana: gettare le fondamenta affinché potesse prendere corpo una musica che racchiudesse in sé il
significato più profondo dell’essere umano, la sua tragedia
e la sua rinascita.
Capii che il Blues era un dono del Signore, per elargire il quale aveva tollerato che il genere umano cui lo donava pagasse il dovuto pegno di dolore e sofferenza.
Un genere musicale rivoluzionario, intimo, sincero ed eterno, che ci avrebbe sostenuto nei momenti più tragici, cavalcando il nostro dolore ed aiutandoci a tirare avanti con gioia, ridipingendo il sorriso sul nostro volto.
Era la preghiera in musica, e grazie al Blues ebbi la sensazione di comprendere appieno il messaggio di S. Agostino,
ossia che “chi canta prega due volte”, cercando addirittura
di calcolare quante volte pregasse colui che oltre a cantare
suonasse pure … magari un Blues!
Avevo finalmente trovato la risposta alla seconda domanda.
Ancora oggi mi chiedo quale sia la linea di congiunzione tra
me e Kunta, tra la sua storia e la mia vita, tra il suo dolore e
la mia pancia, tra la sua musica e la mia anima, insomma …
tra me e il Blues.
Secondo alcuni l’energia vitale infusa dentro di noi non
muore mai e quindi alla nostra anima è concesso vivere non
una sola vita, ma diverse esistenze.
Ebbene, quando ascolto Blues e guardo le mie braccia con la
pelle d’oca mi convinco che è proprio così.
Del resto, se così non fosse, non mi sarei sentito così male nel vedere soffrire Kunta, soffrendo con lui, non mi sarei
sentito così soddisfatto ascoltando la prima volta Jonh Lee
Hooker e non continuerei a sentirmi tanto bene ogni volta
che sento suonare blues.
by M. AMARA
Sprizzo gioia da tutti i pori.
Devi sapere che ho chiesto alla mia bambina un nichelino
e lei mi ha dato una banconota da 20 dollari.
Ebbene si, ho chiesto alla mia bambina un nichelino
e lei mi ha dato una banconota da 20 dollari.
Devi sapere che le ho chiesto giusto un sorso di liquore
e lei mi ha dato una bottiglia di whiskey.
Signore, se la mia bambina mi dovesse lasciare
credo che morirei.
Ebbene si, se la mia piccolina mi dovesse lasciare
credo che morirei.
Si, se tu non mi ami piccolo angelo
per favore, dimmi per quale motivo.
Proprio mentre pensavo che non vi è limite al malanimo
e alla stupidità dell’essere umano, ad un tratto mi fu tutto finalmente chiaro, ecco quale era stato il piano che aveva da sempre avuto il Signore, ecco il perché di quella im-
by M. AMARA
BEALE STREET
Beale Street è la strada di Memphis, in Tennessee, dove fiorì e si
sviluppò il Memphis blues.
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Evidentemente prima di rinascere come Salvatore Amara
ho vissuto la vita di Kunta Kinte o di qualche altro africano
strappato alle sue radici, oppure la vita di John Lee Hooker o
di qualche altro afroamericano trapiantato come lui.
Il Blues è ed è sempre stato parte di me e continuerà ad esserlo, per sempre.
Da quando l’ho incontrato in questa vita la mia esistenza e
la mia musica non sono più state le stesse di prima, ed è per
questo motivo che mi sono deciso a scrivere questo libro,
proprio per rendere omaggio a questa musica, unica e incantata, ed al Popolo del blues, che vi ha dato origine.
Non ho alcuna intenzione di redigere un saggio di carattere
storico-sociale sul blues, anche perché non ho alcuna competenza in merito, non essendo né uno storiografo né un
musicologo, quindi mi limiterò a ripercorrere i passaggi che
sono stati fondamentali nella mia esperienza e per la mia
formazione di musicista e di uomo.
Questo libro, pertanto, vuole essere un racconto semplice, che possa prendere per mano ciascun lettore e portarlo all’interno del mio microcosmo blues, alla scoperta, per
alcuni, ed alla conferma, per altri, di quelle che sono le caratteristiche fondamentali di questo fenomeno, il cui aspetto musicale – continuo a ripetere – è solo secondario rispetto al sentimento su cui poggia, la cui comprensione è indispensabile e propedeutica per potersi poi approcciare musicalmente al blues.
Il Blues rappresenta un passaggio inevitabile, consapevole
o inconsapevole, nella vita di ogni essere umano, l’accettazione dei nostri vizi e delle nostre virtù, la consapevolezza di
appartenere ad una comunione di anime e la certezza di dover sempre fare i conti con noi stessi, non solo con ciò che
36
di noi facciamo vedere, ma soprattutto con la nostra parte
più intima e segreta.
Quando ascolti blues senti di far parte di un grande comunità, senti che sei in compagnia di tanti altri che prima di te
hanno provato quel sentimento, di tanti altri che prima di
te l’hanno cantato e di tanti altri ancora che certamente lo
proveranno e lo canteranno.
Il cerchio emozionale e musicale che aveva caratterizzato la
mia adolescenza e tracciato la mia vita fino a quel momento si era definitivamente chiuso.
Finalmente conoscevo il nome che era stato dato per identificare sia quel poderoso sentimento, sia la musica che l’aveva celebrato, tutto era ormai chiaro ed aveva un solo nome: BLUES.
Iniziai sin da subito a realizzare un’altra verità, ossia che non
ero stato io a scegliere il BLUES, ma era il BLUES ad aver
scelto me.
La deduzione era molto semplice, un piccolo essere umano
non poteva avvertire una sensazione così potente e gradevole senza l’intervento autorevole di un Potere Superiore.
Come detto, in qualità di credente, sono convinto che il
Blues sia un dono del Signore, e, come tale, soltanto Lui può
decidere a chi riservarlo … semplice, no?!
Mi sento un eletto, facente parte di una grande famiglia di
anime, tutti coloro ai quali il Signore ha elargito questo prezioso dono: la possibilità di godere e trarre beneficio dalla
musica blues.
In quanto tale, sono debitore nei confronti del Blues e per
pagare il mio tributo ho deciso di ripercorrere il mio intenso
viaggio alla scoperta del Blues, testimoniando la mia esperienza.
4.
Schiavitù,
segregazione
ed emarginazione
O
rmai il Blues era penetrato nel mio spirito e nelle mie
ossa, ed il mio interesse non si limitava al solo aspetto musicale.
Iniziai così a cercare e ad acquistare non solo tutti i dischi e
le musicassette di blues che trovavo, ma anche tutte le riviste ed i libri sui quali ci fosse scritta la parola magica: BLUES.
Il Blues era una calamita che mi attraeva in maniera irresistibile, coinvolgendomi anima e corpo, come un’amante focosa quanto esigente, e la cosa più incredibile è che ancora oggi, a distanza di quasi quarant’anni, riesce ad esercitare su di me lo stesso fascino.
Ero consumato dall’ansia di conoscere le vicissitudini dei
neri afroamericani e, di conseguenza, il fenomeno musicale
al quale avevano dato origine, anche perché ero sempre più
convinto che senza capire la loro storia non avrei mai compreso appieno la loro musica.
E così, leggendo leggendo, venni a sapere che l’inizio ufficiale della deportazione dei neri africani nel continente nordamericano risaliva al mese di agosto del 1619, quando l’America del Nord era un territorio coloniale soggetto al dominio
della corona inglese.
Era stato un mercante d’armi, un certo capitano John Smith, ormai quasi 400 anni fa, a trasportare sulla propria nave
battente bandiera olandese i primi 20 negri, che costituivano parte del bottino conquistato in seguito alla cattura di un
cargo spagnolo carico di schiavi e diretto verso le isole dei
Caraibi, in quanto le colonie spagnole in America del Sud
utilizzavano già quella “pratica”.
DEPORTAZIONE DEGLI SCHIAVI
Nel XVI secolo le grandi potenze europee, come Spagna, Portogallo, Inghilterra e Olanda, iniziarono a creare insediamenti in territorio americano, i cui vantaggi economici erano rappresentati soprattutto dalle piantagioni, specie di cotone e di canna da zucchero, la cui gestione richiedeva l’uso di enormi quantità di manodopera per il lavoro pesante. Inizialmente gli europei tentarono di far
lavorare come schiavi i nativi americani, ma a causa dell’alta mor-
talità, dovuta a malattie importate dai conquistatori europei, tra
tutte il vaiolo, si rese indispensabile reperire altre fonti di approvvigionamento di risorse umane. Fu così che gli europei assimilarono la pratica africana, ma già ben nota anche alla cultura europea,
di rendere schiavi i prigionieri di guerra, ed iniziarono a commerciare con i Re delle regioni dell’attuale Senegal e Benin, i quali barattavano i loro schiavi con gli europei in cambio di stoffe, liquori, tabacco, perline, manufatti di metallo ed armi da fuoco. Considerato che gli schiavi africani erano decisamente più adatti fisicamente a sopportare il duro lavoro forzato, portoghesi e spagnoli pensarono bene di catturarli da sé per mandarli a lavorare nelle loro colonie americane, dando inizio al più grande commercio di
schiavi della storia. La tratta degli schiavi attraverso l’oceano Atlantico assunse rapidamente proporzioni senza precedenti e in tutte le Americhe, Caraibi compresi, si svilupparono veri e propri sistemi economici basati sullo schiavismo. Anche altri Paesi europei,
come Francia, Danimarca e Svezia, presero parte a questo commercio e pure il Papa Niccolò, nel 1452, nel riconoscere al Re del
Portogallo le nuove conquiste territoriali, lo autorizzò espressamente ad attaccare e conquistare i saraceni, i pagani e gli altri nemici della fede, a depredare i loro beni e le loro terre ed a ridurne
in schiavitù le popolazioni. Solo nel 1537, Papa Paolo III condannò
apertamente la riduzione in schiavitù degli indios e la spoliazione
dei loro beni, scomunicando i trasgressori e riconoscendo ai nativi, cristiani o no, la dignità di esseri umani. La schiavitù in territorio americano fu prevista e disciplinata da leggi introdotte più di
un secolo prima della nascita degli Stati Uniti, risalente al 1776, e
consisteva nel costringere altri esseri umani al lavoro forzato come servitori e raccoglitori nelle piantagioni delle colonie inglesi. La
pratica di deportare schiavi africani verso le Americhe fu un elemento fondamentale per la nascita e lo sviluppo delle colonie europee, prima del Sud e del Centro America e poi del Nord America.
La stragrande maggioranza degli schiavi erano africani di proprietà
dei bianchi, ma anche alcuni privilegiati nativi americani e neri liberi possedevano schiavi, ed alcuni di questi lavoratori forzati erano, udite udite, bianchi!
E così i primi 20 schiavi africani misero piede in America del
Nord, precisamente a Jamestown, capitale della prima colonia inglese dell’America del Nord, la Virginia, fondata nel
1607 e chiamata così da Sir William Raleigh in onore della Regina d’Inghilterra Elisabetta I, anche nota come la “Regina vergine”, e lì il capitano Smith scambiò il suo bottino
umano per generi alimentari e vettovaglie.
Da quel momento in poi la tratta degli schiavi africani avrebbe assunto le caratteristiche tipiche di una vera e propria at37
tività commerciale, estremamente produttiva, regolamentata come tale e realizzata in maniera sistematica e spregiudicata, e le rotte di mare che collegavano il continente nero
al Nuovo Mondo sarebbero state teatro di un costante, incessante e terrificante traffico di esseri umani.
Le stime più attendibili circa la tragica dimensione del fenomeno dicono che tra il XV ed il XIX secolo furono circa 50
milioni gli africani, uomini e donne, ad essere stati catturati, imprigionati e deportati come schiavi dalla propria terra
d’origine, e di questi circa 20 milioni furono trasportati nelle due Americhe.
I numeri sono decisamente impressionanti e considerati i
5 milioni circa di ebrei vittime dell’olocausto ed i 100 milioni circa di nativi americani sterminati dai bianchi [quest’ultima stima operata da D. Stannard in American Holocaust
(Oxford press 1992)], giusto per citare solo alcuni casi infami, è evidente che ci troviamo dinanzi non solo alla più
grande deportazione della storia, ma ad uno dei crimini più
efferati commessi dall’essere umano nei confronti di suoi
simili.
Il viaggio degli schiavi iniziava dall’interno del continente
africano, dove i mercanti di schiavi catturavano o acquistavano gli indigeni da semplici rapitori o da alcuni Re africani,
che li avevano ridotti in schiavitù come punizione per reati
commessi o in seguito a guerre di conquista locali.
Il loro trasferimento verso la costa, che poteva durare parecchi giorni o settimane, iniziava, quindi, a piedi oppure in
canoa.
Durante la marcia forzata venivano legati tra di loro ed utilizzati come bestie da soma, costretti a trasportare sacchi
contenenti prodotti di vario genere, pelli, fasci di zanne di
elefante e contenitori d’acqua.
Una volta raggiunta la costa occidentale, venivano imprigionati per giorni o settimane in fortini o in capanne, in attesa delle navi per la traversata dell’oceano Atlantico fino al
Nuovo Mondo.
Le navi negriere trasportavano diverse centinaia di schiavi
con un equipaggio di circa trenta persone, ossia il doppio rispetto alle normali navi, ciò al fine di poter sedare eventuali ribellioni.
Durante la traversata i prigionieri restavano in catene durante quasi tutto il tempo, i maschi venivano addirittura incatenati per coppia per risparmiare spazio, ossia la gamba
destra di un uomo legata alla gamba sinistra del successivo.
I prigionieri si trovavano così a bordo senza vestiti, treman-
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ti ed esausti per il freddo, la fatica e la fame, e terrorizzati in
balia delle violenze dei negrieri.
Ricevevano, una o due volte al giorno, una scarsa razione
quotidiana di alimenti, come fagioli, mais, patate, riso e olio
di palma, e mezzo litro d’acqua, e ciò portava facilmente alla disidratazione, dato che alla mancanza d’aria si sommavano frequenti mal di mare, vomiti e dissenteria.
Il numero dei decessi aumentava proporzionalmente alla
durata della navigazione, che poteva prolungarsi anche per
alcuni mesi, a seconda delle condizioni atmosferiche, comportando sia la diminuzione di cibo ed acqua, che l’aumento
delle infezioni e delle malattie, fisiche e mentali.
La depressione, conseguente alla perdita della libertà, della famiglia e della loro dignità di esseri umani, colpiva gli
schiavi tanto da impedire loro pure di nutrirsi, nonostante i
metodi brutali che gli schiavisti usassero per costringergli a
mangiare, ed il suicidio era molto frequente, attuato sia rifiutando il cibo o le medicine, sia gettandosi in mare, o in altri modi.
“Gambo era stato l’unico della sua famiglia a essere catturato vivo, per fortuna mia e per disgrazia sua. Resistè per la
prima parte del viaggio a piedi, che durò due cicli completi
della luna, legato agli altri con funi e con un giogo di legno
al collo, incitato a bastonate, praticamente senza cibo né
acqua. Quando ormai non poteva più fare un passo, apparve davanti ai suoi occhi il mare, che nessuno nella lunga fila
di prigionieri aveva mai visto, e un imponente castello sulla
sabbia. Non fecero in tempo a meravigliarsi di fronte all’estensione e al colore dell’acqua, che si confondeva con il cielo dell’orizzonte, perché vennero rinchiusi. Allora Gambo vide per la prima volta i bianchi e pensò che fossero demoni;
in seguito capì che erano persone, ma non si convinse mai
che fossero umani come noi. Erano vestiti con stracci sudati, pettorine di metallo e stivali di pelle, gridavano e colpivano senza motivo. Niente canini né artigli, ma peli sul volto,
armi e fruste, e il loro odore era così ripugnante da nauseare gli uccelli in cielo. Così mi raccontò. Lo separarono dalle
donne e dai bambini, lo misero in un recinto, caldo di giorno
e freddo di notte, con centinaia di uomini che non parlavano la sua lingua. Non seppe quanto tempo rimase lì, perché
si dimenticò di seguire le fasi della luna, né quanti morirono,
perché nessuno aveva nome e nessuno teneva il conto. All’inizio stavano così stretti che non potevano sdraiarsi a terra, ma a mano a mano che vennero tolti i cadaveri ci fu più
spazio. Poi venne il peggio, ciò che lui non voleva ricorda-
re, ma riviveva nei
sogni: la nave. Stavano stesi uno accanto all’altro, come tronchi, su diversi piani di assi,
con ferri al collo e
catene, senza sapere dove li stessero
portando, né perché quell’enorme
zucca si dondolava,
mentre tutti gemevano, vomitavano,
cagavano, morivano. Il fetore era tale che arrivava fino
al mondo dei morti e suo padre lo sentiva. Neanche lì Gambo poté calcolare il tempo, anche se rimase sotto il sole e
le stelle varie volte, quando li portavano a gruppi in coperta per lavarli con secchi di acqua di mare e li obbligavano a
ballare perché non dimenticassero l’uso delle gambe e delle
braccia. I marinai lanciavano fuori bordo i morti e gli ammalati, poi sceglievano qualche prigioniero e lo frustavano per
divertimento. I più audaci li legavano per i polsi e li calavano
lentamente in acqua, che ribolliva di squali, e quando li tiravano su rimanevano solo le braccia. Gambo vide anche quello che facevano con le donne. Cercò l’occasione per lanciarsi fuori bordo, pensando che, dopo il banchetto degli squali che seguivano la nave dall’Africa alle Antille, la sua anima
sarebbe andata a nuoto all’isola sotto il mare a riunirsi con
suo padre e il resto della sua famiglia. “Se mio padre sapesse che volevo morire senza lottare, mi sputerebbe di nuovo
sui piedi”. Così mi raccontò” (Isabella Allende, La isla bajo el
mar, 2009, ediz. italiana L’isola sotto il mare, Feltrinelli editore, Milano 2009).
Solo la metà di quei disgraziati riusciva a sopravvivere alle durezze inenarrabili ed alla crudeltà di un viaggio in mare aperto, ammassati come sacchi, l’uno sull’altro, all’interno delle navi negriere, nelle quali le condizioni di sovraffollamento e di sporcizia erano inimmaginabili.
Il destino di quei poveri africani era già scritto: trattati alla stregua di bestiame, dovevano resistere a quelle atrocità con tutte le forze di cui disponevano e cercare di arrivare
vivi sulla terraferma, dove sarebbero stati venduti presso i
mercati per essere impiegati nelle piantagioni o in altri campi di lavoro, dove la loro esistenza si sarebbe svolta in condizioni altrettanto disumane.
L’altra metà, come detto, ci lasciò le penne, sia durante le
fasi di cattura e trasporto fino alle navi, sia durante la traversata in mare, dove i più deboli morivano di fame o di sete, oppure a causa di infezioni e malattie di vario tipo.
I cadaveri venivano scaraventati dalle navi in acqua, senza
tante cerimonie, e tale pratica era così diffusa e frequente
che, dopo qualche tempo, le rotte oceaniche tracciate dalle
navi negriere corrispondevano a quelle seguite dagli squali … aggiungo altro?
La maggior parte dei 10 milioni di africani che misero piede
sulla terraferma fu destinata ad essere ridotta in schiavitù
nei territori che si trovavano nella parte meridionale dell’America del Nord.
Il fatto che l’importazione fu più numerosa nei territori del
sud rispetto a quelli del nord non dipese certo da ragioni umanitarie, ma dal semplice fatto che il clima rigido del
nord non era adatto agli africani, che mal lo sopportavano,
come testimoniato dai numerosi quanto repentini decessi,
e soprattutto dal fatto che le colonie del nord si occupavano prevalentemente di commercio e di traffici, per cui avevano minore necessità di schiavi rispetto a quelle del sud,
dove si trovavano i terreni più fertili, e che dovevano, invece, gestire, arando, coltivando e raccogliendo manualmente, immense piantagioni di tabacco, di cotone, di zucchero
e di caffè.
Pertanto, la richiesta di manodopera in quei territori era
sempre più crescente e la tratta degli schiavi era la risposta più rapida, semplice e certamente meno costosa a tale esigenza.
Prima della larga diffusione dello schiavismo, la maggior
parte del lavoro nelle colonie veniva svolto da gruppi di lavoratori reclutati con il meccanismo della c.d. “servitù debitoria”, istituto previsto dalla legislazione dell’epoca e disciplinato da un apposito contratto di lavoro sia per i bianchi
che per i neri, in quanto coloro che decidevano di raggiungere le colonie del Nord America, per scappare da una condizione di miseria e di povertà nel loro Paese di origine, pagavano il viaggio con il loro lavoro fino ad estinguere il debito contratto.
Ciò fino alla fine del XVII secolo, quando gli schiavi iniziarono a sostituire tali lavoratori nelle colonie americane.
La Stato sovrano inglese affrontò immediatamente la questione e nel 1689 introdusse il principio del libero commercio degli schiavi per tutti i suoi cittadini, compresi quelli delle colonie dei territori americani.
Vista l’importanza assunta dalla schiavitù, al fine di controllare con maggiore facilità il sempre maggior numero di africani deportati, le
assemblee coloniali approvarono
in breve tempo i
c.d. “codici schiavisti”, che riunivano le leggi preesistenti ai nuovi
principi, secondo
cui la razza bianca
era dominante e
superiore nei confronti della razza
nera, e caratterizzati da una normativa rigidissima, che riduceva
al minimo la libertà di movimento degli schiavi ed
annullava del tutto la loro capacità
decisionale, tanto
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da negare loro anche il più elementare diritto civile, compresi quelli connaturati ed essenziali alla vita stessa dell’essere umano.
Basti pensare che chi acquisiva il “bene-schiavo” possedeva non solo lui, ma anche la sua discendenza, e al contempo non veniva giuridicamente riconosciuto neppure il matrimonio tra schiavi e, di conseguenza, nessun valore giuridico rivestivano i rapporti ed i vincoli parentali e di famiglia.
In ottemperanza ai codici schiavisti era, inoltre, vietato insegnare agli schiavi a leggere ed a scrivere, con l’intento evidente di tenerli nell’ignoranza più assoluta, impedendo loro
di appropriarsi anche degli strumenti di comunicazione basilare, così agevolando la loro assoluta sottomissione al padrone bianco.
Ma la carta più abbietta doveva ancora essere giocata.
Difatti, per evitare ogni contraddizione con i principi costituzionali presenti nelle Carte Fondamentali di ogni Paese civile, o presunto tale, i neri africani furono spogliati persino della loro appartenenza al genere umano, dato che non
erano affatto considerati esseri umani, ma soltanto bestie, e
come tali potevano e dovevano essere trattati.
Del resto, gli schiavi venivano considerati alla stregua di animali anche in occasione della loro vendita, come Isabella Allende è riuscita a rendere con poche crude parole “Su un tavolato erano esposti in vendita quattro schiavi adulti e un
bambino nudo, di circa due o tre anni. Gli interessati esaminavano loro i denti per calcolare l’età, il bianco degli occhi per verificare la loro salute, e l’ano per assicurarsi che
non fosse tappato con stoppa, il trucco più frequente per nascondere la diarrea. Una signora anziana, con un ombrello
di pizzo, stava soppesando con la mano guantata i genitali di uno degli uomini” (Isabella Allende, La isla bajo el mar,
2009, ediz. italiana L’isola sotto il mare, Feltrinelli editore,
Milano 2009).
Venivano separate famiglie intere, vendendo i membri a diversi padroni.
Le schiave, anche minorenni, venivano prese come concubine o sottoposte ad ogni tipo di violenza, fisica e morale, senza che nessuno potesse impedirlo, dato che sotto il profilo
giuridico non vi era alcun riconoscimento o tutela a favore degli schiavi, che restavano abbandonati al loro infernale
destino, privi di qualunque protezione legale.
Le condizioni in cui gli schiavi vivevano quotidianamente
erano differenti, a seconda della destinazione finale che la
sorte aveva loro assegnato.
Soltanto in rari casi gli schiavi venivano nutriti a sufficienza,
non percossi e addirittura vestiti, mentre nella maggior parte dei casi vivevano drammaticamente la propria esistenza, ridotti in catene, brutalizzati ed oppressi, mal nutriti e
non curati, alloggiati come bestie, specie nelle grandi piantagioni, sotto il controllo, che il più delle volte si tramutava in potere assoluto, dei sorveglianti, che spesso approfittavano della lontananza del padrone per perpetrare ogni tipo di nefandezza.
Uno dei divertimenti preferiti dai bianchi consisteva nell’organizzare combattimenti corpo a corpo all’ultimo sangue
tra gli schiavi più robusti.
Al fine di esercitare un maggiore controllo, furono previste
ed inflitte pene severissime anche per lievi mancanze, che,
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se commesse dagli schiavi, venivano considerate alla stregua di veri e propri reati.
L’efficienza del lavoro era supervisionata da sorveglianti che
si assicuravano, anche con mezzi violenti, che gli schiavi rendessero il massimo.
Lo strumento preferito dai sorveglianti e dai loro padroni
era la frusta, che veniva usata regolarmente e senza alcun
limite, talvolta fino alla morte; neppure le donne in stato interessante potevano scampare la pena, dato che venivano
frustate dopo averle fatte distendere per terra sopra una
buca appositamente scavata per alloggiare la pancia.
“La schiava era incinta e, come si faceva in quei casi, l’avevano stesa per terra con la pancia in un buco” (Isabella Allende, La isla bajo el mar, 2009, ediz. italiana L’isola sotto il
mare, Feltrinelli editore, Milano 2009).
Più la mancanza era ritenuta grave, più la punizione diveniva severa, tanto che il reo poteva essere frustato a sangue,
scorticato, coperto di sale ed infine strofinato con la paglia.
Nei casi di ribellione non era insolito ricorrere addirittura
all’amputazione di piedi, mani e, in alcuni casi, anche degli
organi genitali.
Anche ai bambini figli di schiavi non veniva riservato un trattamento migliore, basti pensare che non ancora nati potevano essere regalati o puntati come posta ai tavoli da gioco
o nei combattimenti dei galli.
Mi rendo conto che le immagini richiamate non siano certo gradevoli, ma era necessario per far comprendere che i
proprietari bianchi governavano le loro piantagioni proprio
come sovrani scellerati di piccoli regni, dei quali erano dittatori assoluti e dove potevano fare tutto quello che volevano, persino esercitarvi il diritto di vita e di morte, dato
che potevano benissimo ammazzare un loro schiavo e farla
franca con la legge, dato che ciò non costituiva alcun reato,
in considerazione del fatto che, trattandosi di “merce” propria, potevano esercitare su di essa il dominio più assoluto.
“Per la legge, chi prende un negro scappato e lo ammazza la
passa liscia. La legge dei bianchi stabilisce anche che i negri
non possono portare armi. La legge dice che ti becchi venti
frustate se ti trovano senza lasciapassare, dieci se guardi un
bianco negli occhi, trenta se alzi una mano su un bianco. La
legge dice che nessun negro può predicare se non c’è almeno un bianco che lo ascolta; la legge dice niente funerale per
un negro se qualcuno non vuole assembramenti. La legge dice che ti tagliano un orecchio se un qualche bianco giura che
hai mentito, due orecchie se dice che hai mentito due volte.
Se ammazzi un bianco finisci impiccato, se ammazzi un altro
negro, solo frustato. È proibito insegnare a leggere e scrivere a un negro o dargli un libro. È contro la legge anche suonare il tamburo o alti strumenti africani” (William Styron,
The confessions of Nat Turner, 1967, traduz. italiana Le confessioni di Nat Turner, Mondadori 1996).
Lo schiavismo fu oggetto di continui dibattiti e controversie
politiche e morali sin dal 1770, e l’aspetto più paradossale è
costituito dal fatto che dal 1775 al 1783, mentre le colonie
americane combattevano la loro lotta per affrancarsi e rendersi indipendenti dal dominio inglese, sostenendo principi
quali autonomia, potestà, uguaglianza e diritti costituzionali, le leggi nei confronti degli schiavi divenivano sempre più
severe ed aberranti e le loro condizioni di vita ancora più insopportabili.
Quanto può essere ipocrita l’essere umano!
I primi, e gli unici, ad occuparsi della terribile situazione in
cui versavano gli schiavi furono i membri delle comunità religiose americane, che dopo un primo momento di stasi, in
cui assistettero inermi allo spietato sfruttamento ed avvilimento di quei poveri esseri umani, decisero di agire, inizialmente attivandosi con opere di conversione e di educazione
degli schiavi, e successivamente ponendosi in aperto contrasto nei confronti del sistema schiavista, coltivando così i
primi semi di speranza di libertà per il popolo nero.
“Gli abolizionisti venivano arrestati e impiccati, come meritavano. Erano pazzi fanatici che che osavano sfidare la società, la storia, persino la parola divina, perché di schiavitù
si parlava nella Bibbia” (Isabella Allende, La isla bajo el mar,
2009, ediz. italiana L’isola sotto il mare, Feltrinelli editore,
Milano 2009).
Già dalla fine del 1600, nei territori del nord, specialmente i quaccheri della Pennsylvania e di seguito le congregazioni di battisti e di metodisti, iniziarono a condannare pubblicamente la schiavitù, giudicata moralmente ingiusta e riprovevole, dando luogo, contemporaneamente, ad una vasta opera di educazione degli schiavi alla dottrina religiosa,
in contrasto con le resistenze dei proprietari terrieri, i quali ritenevano che la schiavitù non potesse essere giustificata se le sue vittime non fossero tenute allo stato selvaggio.
QUACCHERI, BATTISTI e METODISTI
I quaccheri (i Figli
della Luna o la Società degli Amici)
sono i fedeli di un
movimento cristiano, nato in Inghilterra a metà del
XVII secolo dal calvinismo puritano,
che intendeva ripristinare le pratiche
della chiesa primitiva, tramite il sacerdozio dei credenti,
rifiutando le gerarchie ecclesiastiche
e i sacramenti, rifiutando di partecipare a guerre e di formulare
giuramenti, imponendo di vestire abiti identici, di abolire la schiavitù e di proibire il consumo di alcolici. Fondarono banche e istituzioni finanziarie (come Barclays e Lloyds), compagnie manifatturiere (come Clarks) e realizzarono opere filantropiche (tra cui le riforme del sistema penitenziario) e progetti d’uguaglianza sociale.
Il battismo è una delle principali comunioni di chiese protestanti del mondo, le cui radici storiche partono dal puritanesimo inglese del XVII secolo. Prende il nome dalla pratica del battesimo
dei credenti.
La chiesa evangelica metodista, ormai diffusa in tutto il mondo e
caratterizzata da una profonda spiritualità, dal dinamismo evan-
gelico e dalla marcata sensibilità verso le questioni politiche e morali, è nata in Inghilterra nel XVIII secolo dal protestantesimo con
l’intento di organizzare “metodicamente” la giornata, da cui il nome di metodisti, fra lo studio della Bibbia, la preghiera ed il servizio ai carcerati e alle persone povere e abbandonate. L’intento era
quello di fare in modo che la chiesa anglicana si preoccupasse delle problematiche etiche e sociali, e tra i frutti di tale iniziativa venne creato l’Esercito della Salvezza, che ancora oggi si dedica principalmente all’aiuto agli emarginati e ai senza tetto, ai tossicodipendenti ed agli alcolizzati, ai reietti e alle prostitute.
In particolare, i cristiani contrastavano quella convinzione
in base alla quale si riteneva che la prima condizione del benessere e della rispettabilità sociale fosse costituita dal possedere “merce umana”.
Dinanzi a quella decisa presa di posizione, i proprietari terrieri e di schiavi fecero un passo indietro, tollerando l’ingerenza delle congregazioni religiose, anche perché riuscirono a fare di necessità virtù, in quanto si resero conto del fatto che effettivamente la prospettiva della salvezza eterna
in un’altra vita, dopo quella terrena, avrebbe potuto tenere tranquilli gli schiavi in questa, e che la religione avrebbe
potuto essere un efficace strumento di controllo sociale, dato che i predicatori avrebbero potuto fornire agli schiavi degli eccellenti motivi perché obbedissero ai loro padroni, così
comportandosi nel modo che a questi faceva più comodo.
“I frati itineranti e Owen Murphy inculcavano la virtù della
rassegnazione, la cui ricompensa stava in cielo, dove tutte le
anime godevano di uguale felicità. A Tetè ciò sembrava più
conveniente per i bianchi che per i neri; sarebbe stato meglio
che la felicità fosse equamente distribuita in questo mondo,
ma non osò dirlo a Leanne per la stessa ragione per cui andava a messa di buon grado, per non offenderla. Non si fidava della religione dei padroni. Anche il vudù che praticava lei
era a suo modo fatalista, ma almeno poteva sperimentare il
potere divino venendo posseduta dai loa” (Isabella Allende,
La isla bajo el mar, 2009, ediz. italiana L’isola sotto il mare,
Feltrinelli editore, Milano 2009).
Tuttavia i quaccheri portarono avanti la loro lotta contro
la schiavitù per tutto il XVIII secolo, guadagnando sempre
maggiori consensi, e dopo che le colonie spagnole aboliro41
no la schiavitù dei nativi nel 1769, nel 1775 si formò la prima associazione antischiavista in territorio americano, fino
ad ottenere nel 1780 l’abolizione della schiavitù in Pennsylvania.
Nel medesimo periodo molti altri stati dell’America del
Nord, che nel frattempo aveva raggiunto l’indipendenza dalla corona inglese, e in particolare Connecticut, Massachusetts, New Hampshire, New Jersey, New York, Rhode
Island e Vermont, dichiararono l’abolizione della schiavitù
all’interno dei loro confini.
DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA AMERICANA
La dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America fu sottoscritta al Congresso di Philadelphia il 4 luglio 1776, giornata di
festività nazionale celebrata negli U.S.A. come giorno dell’Indipendenza. Nel relativo documento, tredici colonie britanniche della
costa atlantica del Nord America dichiararono, in virtù di precise
motivazioni, la propria indipendenza dalla madrepatria Inghilterra.
Nel 1783 la Corte Suprema del Massachusetts condannò la
detenzione di schiavi come reato, in violazione alla costituzione che sanciva l’uguaglianza degli uomini, e nel 1787
venne stabilito dalla Northwest Ordinance che sui territori
dell’Illinois, dell’Indiana, del Michigan e del Wisconsin non
era ammessa la schiavitù e nemmeno la servitù forzata.
Anche in altri Stati, nei quali la schiavitù non era ancora stata abolita, iniziarono a registrarsi sempre più numerose le
ribellioni di schiavi, gli omicidi di sorveglianti, gli incendi
delle case dei padroni e le fughe dei neri verso il raggiungimento della “terra promessa”, rappresentata da quegli Stati in cui la schiavitù era già stata abolita e dal Canada, dove
avrebbero finalmente trovato la libertà.
Nat Turner non fu il solo a ribellarsi!
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NAT TURNER
Nathan Turner, noto Nat, nacque nella contea di Southampton,
in Virginia, il 2 ottobre 1800, dove trascorse la sua intera esistenza. Sin da subito apparve diverso dagli altri schiavi afroamericani,
più vivace ed intelligente, tanto che il suo padrone decise di insegnargli a leggere e a scrivere, destinandolo ad una vita ben diversa rispetto a quella tipica dello schiavo. Per Turner non erano previsti lavori pesanti, ma veniva occupato come un operaio o un artigiano, lavorando il legno e costruendo macchinari. Ricevette una
forte educazione religiosa basata sulla lettura e lo studio della Bibbia e sulle preghiere. A furia di essere trattati dai bianchi come esseri inferiori, a metà strada fra gli animali e gli uomini, stupidi, incapaci e vigliacchi, gli stessi neri, alla fine, si convinsero della loro inferiorità, e solo la religione diede loro uno stimolo a ribellarsi. Nat abbracciò totalmente la fede, sottoponendosi anche a penitenze e digiuni, fino a quando, in tali occasioni, iniziò a sentire la
voce di Dio e ad avere visioni mistiche, secondo le quali la volontà
divina l’aveva destinato a compiere una grande impresa. Iniziò così
a predicare i Testi Sacri agli altri schiavi, per i quali divenne un vero e proprio profeta, parlando continuamente di libertà, finché si
persuase che il Signore l’aveva destinato a divenire uno strumento divino per liberare tutti gli schiavi e punire i malvagi bianchi.
Nell’agosto del 1831 decise di dare impulso alla rivolta, con l’idea
di marciare con un gruppo di accoliti fino a Jerusalem, capitale della contea, ed appropriarsi delle armi presenti nell’armeria, quindi
rifugiarsi nelle Paludi della Morte, che si trovavano a circa 50 chilometri dalla cittadina, dove grazie alle armi, al terreno insidioso e
all’abbondanza di selvaggina e di pesce, avrebbero resistito agli attacchi dei bianchi. Durante l’azione avrebbero dovuto massacrare tutti i bianchi che incontravano, per impedire che l’insurrezione
venisse segnalata, rifornirsi di armi e di cavalli e indurre le migliaia di schiavi della contea ad unirsi alla rivolta. Ma l’allarme fu dato ed i ribelli furono fermati prima di giungere a Jerusalem. Gli insorti, molti dei quali si erano ubriacati, nonostante il divieto imposto da Turner, si diedero alla fuga e Turner e gli altri furono catturati. Durante il processo Turner si dichiarò non colpevole e confessò di non aver alcun rimorso, perché massacrare i bianchi per liberare i neri era per lui una missione santa. Fu impiccato il giorno 11
novembre 1831 a Courtland, in Virginia, e il suo cadavere venne
scuoiato: con la sua carne fecero grasso e con la sua pelle un portamonete. Dopo il processo vennero emanate delle leggi che vietarono ai padroni bianchi di liberare i propri schiavi e di insegnare
loro a leggere e a scrivere.
Ogni singola piantagione partecipava al cambiamento in atto, sotto la guida del suo evocatore di spiriti tribali e il suo
stregone voodoo, che i bianchi confusero con un mero residuo di superstizioni africane e non vi riconobbero l’elaborazione di complesse religioni dell’Africa.
“Honorè mi parlava sempre della Guinea, dei loa, del vudù, e
mi avvertì di non ricorrere mai alle divinità dei bianchi, perché sono nostri nemici. Mi spiegò che nella lingua dei suoi
genitori vudù vuol dire spirito divino” (Isabella Allende, La
isla bajo el mar, 2009, ediz. italiana L’isola sotto il mare, Feltrinelli editore, Milano 2009).
Per arginare tali insurrezioni, il Congresso Federale nel 1793
e nel 1850 emanò le c.d. Fugitive Slave Laws (o Act) (“Leggi sullo Schiavo Fuggitivo”), che formalmente regolavano la
restituzione degli schiavi fuggitivi ai loro rispettivi proprietari, ma in realtà legalizzarono una vera e propria caccia
all’uomo, consentendo il proliferare di delinquenti e cacciatori di taglie senza scrupoli, che non si limitarono a catturare
gli schiavi fuggitivi, ma anche a catturare illegalmente anche
afroamericani liberi per venderli come schiavi.
Tali norme invitavano tutti i cittadini a vigilare e a collaborare, e furono previste sanzioni anche per coloro che agevolavano le fughe degli schiavi.
FUGITIVE SLAVE LAWS
Il Fugitive Slave Act fu approvato nel 1793 dal Congresso degli Stati Uniti e firmato dal Presidente George Washington il 12 febbraio. Tale legge federale negò agli schiavi, anche se fuggiti e liberati, il diritto di difendere i propri diritti costituzionali e di dimostrare
il proprio status di uomini liberi. Inoltre, chiunque avesse aiutato
uno schiavo a fuggire sarebbe stato colpevole di un reato federale
e punito con una multa in danaro. Gli schiavi fuggiti potevano essere catturati, anche
negli Stati abolizionisti, processati e riconsegnati ai padroni. In base a tale legge ogni schiavo fuggito sarebbe, quindi, rimasto a vita un
fuggitivo, potendo
essere catturato in
qualsiasi momento e
in qualunque Stato,
insieme agli eventuali figli generati da donne schiave.
Contro tale normativa insorsero gli Stati del nord, che approvarono le Personal Libery Laws, accordando ai fuggitivi
la possibilità di appellare le sentenze loro sfavorevoli, ed anche la
Corte Suprema, nel 1842, si pronunciò sancendo che gli Stati non
avrebbero potuto collaborare alla caccia o alla cattura degli schiavi fuggitivi.
La Fugitive Slave Law (o Fugitive Slave Act) fu approvata dal Congresso degli Stati Uniti il 18 settembre 1850. Tale legge prevedeva
una gratifica per gli ufficiali federali che procedevano alla cattura
di un presunto schiavo fuggitivo ed una multa in danaro per coloro
che non procedevano all’arresto. Affinché un nero potesse essere sospettato come fuggitivo era sufficiente la sola denuncia e dichiarazione giurata da parte del proprietario, il che permise la cattura e la riduzione in schiavitù anche di afroamericani liberi e non
fuggitivi. Il sospetto schiavo fuggito non aveva il diritto ad un processo con giuria, né a dimostrare la propria libertà, e chiunque lo
avesse aiutato, anche solo fornendogli cibo e alloggio, sarebbe stato punito con una multa in danaro e con la prigione fino a sei mesi.
Nel frattempo, nel continente europeo, sia in Francia nel
1789, a seguito della Rivoluzione di fine secolo, sia in Inghilterra nel 1807 veniva abolita la schiavitù.
RIVOLUZIONE FRANCESE
La Rivoluzione francese esplose nel 1789 e determinò un radicale e violento cambiamento politico, sociale e culturale che investì
l’Europa e il mondo intero. In Francia determinò l’abolizione della monarchia assoluta, la proclamazione della repubblica, la cancellazione dei privilegi socio-economici del c.d. ancien regime e la
promulgazione della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, che sarà fonte di ispirazione per tutte le carte costituzionali
moderne, segnando il declino dei regimi assoluti e alimentando le
rivoluzioni liberali che porteranno ai nuovi sistemi politici dei moderni Stati democratici.
Nonostante gli accenni libertari, il nero che si trovava nell’America del Nord continuava a non avere alcun diritto, doveva solo lavorare e produrre per il suo padrone, il quale rispettava le sue tradizioni solo se poteva sfruttarle, limitandosi a dare una parvenza di bontà e di democrazia al trattamento disumano cui sottoponeva il proprio schiavo.
Testimonianza di tali ipocrite concessioni era Congo Square, nome con cui gli abitanti di New Orleans chiamarono la
grande piazza di fronte a Rampant Street, dove oggi si trova
il Louis Armstrong Memorial Park.
43
by M. AMARA
In questa piazza, nel 1817, il Governo americano consentì
a tutti i neri di potersi riunire ogni sabato pomeriggio e domenica, e così gli schiavi africani, col permesso delle autorità, poterono finalmente incontrarsi pubblicamente ed all’aperto per socializzare, organizzare un mercato e, soprattutto, cantare e suonare insieme, rispolverando i canti, le musiche e le danze tribali delle proprie tradizioni, ciò fino al
1840, quando tale fenomeno iniziò a scemare per terminare del tutto con l’inizio della guerra civile.
“Il mio primo ricordo della felicità, quando ero una mocciosa tutta ossa e dai capelli arruffati, è muovermi al ritmo dei
tamburi, e questa è anche la mia più recente felicità, perché
ieri sera sono stata a Congo square a ballare e ballare, senza pensieri nella testa, e oggi il mio corpo è caldo e stanco.
La musica è un vento che si trascina via gli anni, i ricordi e la
paura, quell’animale acquattato che mi porto dentro. Con i
tamburi scompare la Zaritè di tutti i giorni e torno a essere
la bambina che danzava quando a malapena sapeva camminare. Pesto per terra la pianta dei piedi e la vita mi sale
lungo le gambe, percorre lo scheletro, si impossessa di me,
mi libera dall’inquietudine e mi addolcisce la memoria ” (Isabella Allende, La isla bajo el mar, 2009, ediz. italiana L’isola
sotto il mare, Feltrinelli editore, Milano 2009).
Nel corso del XIX secolo anche alcuni romanzieri americani
iniziarono a preoccuparsi di tale fenomeno, narrando la terribile epopea schiavile.
Il più famoso testo letterario dell’epoca fu sicuramente La
Capanna dello Zio Tom, pubblicato a Boston nel 1852 da
Harriet Beecher Stowe, che ebbe un effetto deflagrante
sull’opinione pubblica ed un ruolo determinante nel cambiamento, seppur lento, degli stati d’animo e delle prospettive socio-politiche rispetto al fenomeno schiavista, fino a
portare alla sua definitiva condanna, culminata con la guerra civile.
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UNCLE TOM’S CABIN
Uncle Tom’s Cabin or Life
Among the Lowly (“La capanna dello zio Tom”) è un
romanzo antischiavista scritto dalla statunitense Harriet
Beecher Stowe e pubblicato nel 1852, proprio a pochi
anni dall’emanazione della
Fugitive Slave Law del 1850,
che prescriveva il dovere di
ogni cittadino di denunciare
gli schiavi fuggiti e la loro restituzione ai proprietari. Il romanzo fu un best-seller e, secondo numerosi critici, non
solo influenzò profondamente il pensiero e l’atteggiamento dei bianchi americani
nei confronti degli afroamericani e del fenomeno schiavile negli U.S.A., ma alimentò la causa abolizionista ed il conflitto tra Stati del nord e del sud, che di
seguito condurrà alla guerra civile. L’autrice era un’attiva abolizionista ed intorno
alla figura del protagonista del suo romanzo, zio Tom, raccontò a proposito della sofferenza degli schiavi neri, rappresentando la crudele realtà
della schiavitù e affermando che solo l’amore cristiano poteva superare
la riduzione in schiavitù di altri esseri umani.
Sebbene la disputa morale sullo schiavismo rappresentò
uno dei principali motivi di scontro tra Stati del nord e Stati del sud, è ormai chiaro a tutti che la guerra secessionista
e fratricida che si scatenò nell’America del Nord non ebbe
certamente luogo solo e soltanto per motivi umanitari, ed
è altrettanto evidente che non è possibile, specie a posteriori, distinguere i buoni (i nordisti abolizionisti) dai cattivi (i
sudisti schiavisti).
GUERRA CIVILE
La guerra civile di secessione americana
fu combattuta fra gli Stati Uniti d’America e gli Stati Confederati d’America. Nel
1860, infatti, 11 Stati del sud si opposero all’elezione di Abraham Lincoln come
Presidente degli Stati Uniti d’America e
dichiararono la propria secessione dall’Unione, formando la Confederazione degli Stati d’America. La guerra ebbe inizio
nel 1861 e terminò dopo quattro anni, nel
1865, con la resa degli Stati Confederati.
Immediata conseguenza fu l’abolizione
dello schiavismo in tutta la nazione.
Le ragioni della guerra, come al solito, vanno ricercate in
ben altre sfere, che riguardano il potere economico ed il
controllo politico dei territori, ma è pur vero che nel 1858
l’importazione di schiavi dall’Africa divenne definitivamente illegale – anche se tale aberrante pratica commerciale
proseguì anche dopo la guerra civile – e che il primo gennaio del 1863 Abramo Lincoln proclamò l’Emancipazione di
tutti gli schiavi, istituzionalizzandola con il 13° emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.
ABRAMO LINCOLN – LEGGE EMANCIPAZIONE (XIII EMENDAMENTO)
Abraham Lincoln (Hodgenville,
Kentucky 12 febbraio 1809 –
Washington, D.C. 15 aprile
1865). Politico e avvocato.
Nel 1860 fu eletto 16° Presidente degli Stati Uniti d’America. Nel 1863,
con la proclamazione
dell’Emancipazione, liberò gli schiavi negli
Stati dell’Unione e nel
1865, con la ratifica del
XIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, abolì ufficialmente e definitivamente la schiavitù in tutti gli U.S.A.,
dopo aver sconfitto gli Stati Confederati d’America, favorevoli al mantenimento della schiavitù, nella guerra di secessione, preservando così l’unità federale della nazione. Morì assassinato a Washington, D.C. il 15 aprile 1865,
proprio poco dopo la vittoria nella guerra civile. Prima della ratifica del XIII
emendamento della Costituzione degli Stati Uniti
d’America, la schiavitù era
rimasta legale solo in alcuni Stati, ossia Delaware,
Kentucky, Maryland, Missouri e New Jersey, mentre nei restanti Stati Uniti
d’America gli schiavi erano già stati liberati in virtù delle norme emanate
dai governi dei singoli Stati. Di seguito vennero approvati altri due emendamenti, il XIV per proteggere i diritti civili degli ex schiavi ed il XV per garantire il diritto di voto anche ai
nuovi cittadini.
Nel 1865, con la dichiarazione della fine della guerra civile,
ebbe inizio un periodo di ricostruzione, ma di fatto per i neri afroamericani era cambiato ben poco.
Agli inizi del XX secolo le condizioni di vita degli afroamericani addirittura peggiorarono sensibilmente, dato che vennero continuamente fatti oggetto di aggressioni, peraltro
impunite, in quanto ancora privi di alcuna tutela legale.
Questi ex schiavi, nonostante le differenze di ceto sociale
ed economico, la mancanza di qualsiasi forma di scolarizzazione e le forme spesso aberranti di razzismo e di discriminazione che li colpirono dopo la guerra civile, si trovarono
a possedere più di 15 milioni di acri di terra, divisi in piccoli
appezzamenti grandi in media tra i 10 e i 20 acri.
Ma in realtà era un possesso solo apparente, dato che nella stragrande maggioranza dei casi i neri erano semplici fittavoli ed il sistema della mezzadria poggiava esclusivamente sull’idea di sfruttamento del loro lavoro, il che li dissuase
dallo sviluppare tecniche di coltivazione e di raccolta più sistematiche e produttive.
Sebbene la schiavitù fosse ormai stata abolita, molti afroamericani appena liberati non si allontanarono dalle fattorie
e dai campi di lavoro dove, fino ad allora, si era svolta, nel
bene e soprattutto nel male, la loro vita, e decisero di continuare a lavorare per il loro vecchio padrone in cambio di
una parte del raccolto, piuttosto che in cambio di una normale paga per il lavoro svolto.
A primo impatto tutto ciò è incredibile, ma in realtà è meno
assurdo di quanto possa sembrare.
Basti pensare che stiamo parlando di persone che fino a
quel momento, nella stragrande maggioranza dei casi, avevano vissuto succubi di un padrone che si era atteggiato a
monarca assoluto, con diritto di vita e di morte su di loro.
I neri, nonostante fossero divenuti formalmente persone libere, erano, in verità, ancora prigionieri dell’ignoranza più
assoluta, nella quale erano stati ad arte costretti, e non possedevano alcuna cognizione scolastica di base.
Pertanto, i nuovi liberi erano comprensibilmente incapaci
di programmare un futuro altrove e non avevano la minima idea di come poter organizzare la propria vita al di fuori
dei confini della piantagione, che fino a quel momento aveva rappresentato per la maggior parte di essi, che vi era nata e cresciuta, il mondo intero.
La loro visione in prospettiva futura poteva tutt’al più arrivare fino al giorno dopo, dato che l’attenzione era concentrata per lo più sulla quotidianità, così difettando la concreta aspettativa di un domani migliore cui far riferimento ed in
base al quale strutturare le proprie scelte di vita.
Gli ex schiavi erano ora delle persone libere, ma non sapevano che farsene di quella libertà, dato che si ritrovarono
improvvisamente senza lavoro e senza un posto dove andare.
L’unica soluzione era quella di provare a sopravvivere coltivando minuscoli pezzi di terreno in cambio di una parte del
raccolto, oppure di una parte del ricavato ottenuto dal proprietario terriero una volta venduti i prodotti raccolti.
Infatti, posto che erano gli stessi proprietari delle piantagioni a vendere a credito semi fertilizzanti, cibo ed attrezzi ai
loro sottoposti (mezzadri o fittavoli), potevano imporre ricarichi o sovrapprezzi ingiustificati ad interessi astronomici
sui pagamenti rateali.
Inoltre, le piantagioni più estese stampavano addirittura
una propria valuta e coniavano monete che i mezzadri potevano spendere solo nel negozio della piantagione, che ovviamente apparteneva al proprietario terriero, o tutt’al più
nella città più vicina, dove il medesimo proprietario aveva
aperto altri punti vendita, nei quali si trovavano beni di pri45
ma necessità a prezzi ingiustificatamente alti, in quanto tale valuta non aveva alcuna validità da nessun’altra parte.
Di conseguenza molti neri si ritrovarono intrappolati nelle
medesime piantagioni di sempre.
La maggior parte dei proprietari terrieri sfruttò in questo
modo il vento del cambiamento, posto che, dopo la vendita dei raccolti, al mezzadro non solo non rimaneva nulla, ma
si trovava addirittura in debito col suo datore di lavoro, così
instaurandosi un vero e proprio moderno sistema feudale.
Insomma la situazione sostanzialmente non aveva subito
grandi cambiamenti, solo i nomi erano stati modificati: da
padrone a datore di lavoro, da schiavo a mezzadro o fittavolo, ma l’articolato sistema di sfruttamento non era affatto mutato.
Infatti, nonostante l’abolizione della schiavitù avesse reso
formalmente liberi gli afroamericani, questi, in realtà, continuarono a restare sottoposti alle rigidissime regole della
piantagione in cui continuarono a vivere, per rispettare le
quali i proprietari terrieri assumevano delle personcine a
modo dalla pelle bianca con la mansione di sorveglianti, i
quali, per mezzo di minacce e punizioni corporali, persuadevano i mezzadri a lavorare più duramente possibile.
Inoltre, il malcontento suscitato nella maggior parte dei
bianchi dei territori del sud dalla sconfitta nella guerra civile e dall’abolizione della schiavitù si riversò, come sempre
accade storicamente, sul più debole, in questo caso sui neri appena resi liberi.
“E il colore? Da nessuna parte vi accetteranno. Dicono che
negli stati liberi l’odio sia più acuto, perché bianchi e neri
non convivono né si mescolano” (Isabella Allende, La isla
bajo el mar, 2009, ediz. italiana L’isola sotto il mare, Feltrinelli editore, Milano 2009).
Il rinnovato sentimento di odio scatenò un aumento dei linciaggi e delle violenze nei confronti dei neri, anche perché
alla proclamata emancipazione non fece mai seguito alcuna normativa in grado di tutelare giuridicamente gli afroamericani.
Questi ultimi, infatti, non solo non erano titolari dei medesimi diritti dei bianchi, ma erano sottoposti alle famigerate
leggi Jim Crow, che oltre a privare i maschi di colore del diritto di voto, restaurarono, o meglio consentirono la permanenza di un vero e proprio regime di segregazione assoluta,
continuando a relegare gli afroamericani del sud in uno stato di inferiorità politica e legale.
Alcuni esempi di leggi Jim Crow furono la separazione nelle
scuole pubbliche, nei luoghi pubblici e sui mezzi di trasporto
e la differenziazione dei bagni e dei ristoranti tra quelli per
bianchi e quelli per neri, tanto che pure all’interno dell’esercito venne applicata la segregazione razziale.
Le leggi Jim Crow, seppur distinte dai c.d. “codici neri” del
periodo 1800 – 1866, che avevano ridotto i diritti e le libertà
civili degli afroamericani, seguivano lo stesso disegno razzista e segregazionista.
La schiavitù lasciò così il posto alla segregazione, all’emarginazione ed al disadattamento sociale, specie a seguito dei
flussi migratori che dalle campagne riversarono moltitudini di neri nelle metropoli industriali emergenti di Chicago e
Detroit, portandosi dietro esplosioni di violenze, linciaggi ed
odi razziali resi tristemente celebri da organizzazioni come
quella più famosa del Ku Klux Klan.
KU KLUX KLAN
Ku Klux Klan, originariamente fondato il 24 dicembre 1865 in Tennessee, dopo la guerra di secessione, da alcuni reduci dell’esercito della Confederazione, è il nome che ancora oggi identifica numerose organizzazioni statunitensi che propugnano la superiorità
e la supremazia della razza bianca, animate da ideali discriminatori, spesso di estrema destra, quali il razzismo, il nazismo, l’antisemitismo, l’anticattolicesimo e l’anticomunismo. Dopo l’emancipazione, i membri di questa simpatica organizzazione, nascondendo
il proprio volto dietro le famigerate tuniche bianche, si preoccuparono di preservare la struttura segregazionista della società bianca
americana, contrastando in tutti i modi l’accesso degli afroameri-
LEGGI JIM CROW
Le leggi Jim Crow furono emanate tra il 1876
e il 1965 dai singoli Stati dell’Unione e consentirono la permanenza di
fatto della segregazione razziale in tutti i servizi pubblici, fino alla loro definitiva abrogazione, in virtù del Civil Rights Act del 1964 e del
Voting Rights Act del
1965.
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cani ai diritti costituzionali, con particolare avversione nei confronti del riconoscimento del diritto di voto, ed attuando nei loro confronti una forma violenta di segregazione razziale, che spesso sfociò in danneggiamenti ed incendi, specie ai danni delle chiese (per
impedire le riunioni delle comunità locali) e delle scuole (per impedire che agli afroamericani fosse insegnato a leggere e a scrivere),
in sparatorie e ferimenti, in stupri, linciaggi, impiccagioni ed uccisioni ai danni degli afroamericani ed anche di coloro che prestavano loro aiuto o che si ergevano a loro difesa. Chissà come hanno
reagito alla nomina a Presidente degli U.S.A. di Barack Obama!?
Anche nei centri urbani, infatti, i neri conobbero una feroce
segregazione, le cui tracce sono ben visibili anche oggi, a distanza di oltre un secolo.
Ai figli degli schiavi spettavano i lavori più umili e faticosi,
senza che si prospettasse loro alcuna apparente possibilità
di crescita sociale.
I neri non avevano alcun credito presso autorità locali e forze dell’ordine, ed ogni questione che li riguardasse si risolveva spesso con la loro condanna ai vari penitenziari delle contee.
Anche per i musicisti di colore che negli anni 30 e 40 viaggiavano in tournée attraverso gli Stati del sud la vita non era
semplice, considerato l’atteggiamento a dir poco ostile posto in essere nei loro confronti dai bianchi, che non tolleravano affatto che dei neri potessero attraversare impuniti la
zona dei linciaggi, addirittura ben vestiti e magari viaggiando su bei torpedoni.
B.B. King ricordava bene come la situazione dei neri non fosse cambiata di molto “assieme a noi (ossia ai neri che presero parte alla seconda guerra mondiale in forza all’esercito
statunitense) c’erano diversi prigionieri di guerra tedeschi,
i quali però, diversamente da noi neri, non erano costretti
a stare in uno scompartimento separato, ma sedevano assieme agli altri bianchi americani, anche se erano nostri nemici giurati – gente che, solo poche settimane prima, aveva come obiettivo principale piantarci una pallottola in fronte. Un’altra cosa che mi fece infuriare fu vedere come i prigionieri tedeschi venivano fatti lavorare nei campi di cotone
del Delta. Noi neri lavoravamo fino al tramonto, il che significava fino alle sette o le otto di sera, mentre a loro era concesso di smettere alle tre del pomeriggio, perché i proprietari delle piantagioni avevano paura che si affaticassero troppo. Era una cosa che ci faceva sentire come se fossimo qualcosa di meno che esseri umani, delle bestie da soma, ottusi
animali che nella scala dell’evoluzione occupavano un gradino più in basso di quello occupato dai Tedeschi; insomma,
veder i nemici della tua nazione ricevere un trattamento migliore del tuo è una cosa ben dura da sopportare, no?” (B.B.
King e David Ritz, Blues all around Me, The autobiography of
B.B. King, Avon Books 1996, traduz. italiana Il Blues intorno
a me, Tarab Edizioni 1997).
47
5.
Il Blues:
dolore e lamento,
lacrime
ed emblema
di un popolo
H
o ritenuto necessario ripercorrere, seppur brevemente, i passaggi storici fondamentali del fenomeno
schiavile per ricordare che la storia del nostro Kunta
Kinte non era frutto di fantasia e quanto visto in televisione era realmente accaduto, anzi la realtà – come purtroppo
spesso accade – aveva un volto addirittura peggiore di quello rappresentato dalla pellicola.
Il fenomeno della deportazione forzata di africani nei territori delle due Americhe e la loro conseguente riduzione
in schiavitù ha rappresentato uno dei momenti più tragici
e sconvolgenti della nostra storia, e le conseguenze di tali crimini e del dolore provocato sono ancora oggi presenti e ben visibili.
La storia contemporanea degli afroamericani è, infatti, una
diretta ed inevitabile conseguenza della condizione di schiavitù in cui versarono i loro progenitori, la cui vita orribile ed
i tormenti sopportati dai loro corpi e dalle loro anime hanno
segnato profondamente e per sempre le coscienze e le vite
dei loro discendenti.
Un numero inimmaginabile di africani, quasi pari a quello
che attualmente vive sull’intero territorio nazionale italiano, venne catturato come selvaggina.
Mi sono, quindi, immaginato l’intera nazione italiana depredata e violata da un crudele invasore e tutti i suoi abitanti
deportati come schiavi, destinati ad una vita di atroci sofferenze e privazioni, lontani dalla propria terra, dalle proprie
radici e dagli affetti più cari.
Riuscite ad immaginare tanta sofferenza?
Toglie il fiato, vero?
Una sensazione opprimente ed insopportabile, non solo per
chi ne era coinvolto in prima persona, ma anche per coloro che ne hanno sopportato il peso generazionale, che non
potevano certo sfuggire ad una perenne ed insopprimibile
malinconia.
Tutto questo si è potuto tradurre con una sola parola:
BLUES!
Il blues ha, quindi, rappresentato qualcosa di più che non
48
mera musica popolare, è stato bensì il frutto dello spirito
creativo spontaneo di un intero Popolo, la narrazione di una
storia drammatica scritta col sangue e col sudore, una storia di oppressione e di spietato sfruttamento, nata nel cuore dell’Africa nera fino al Nuovo Mondo, passata attraverso la schiavitù e la persecuzione, il lavoro faticoso e la povertà, il tradimento e la disperazione, il peccato e la santità, il tormento dell’amore e la tristezza infinita, la tragedia
e la morte.
William E.B. Du Bois descrisse il blues come “la musica di
un popolo infelice, dei figli del disinganno. Ci parla di morte e di sofferenza, e il desiderio inespresso di un mondo migliore vi traspare qua e là durante incerti vagabondaggi per
sentieri misteriosi”.
WILLIAM E.B. DU BOIS
William Edward Burghardt Du Bois (Great Barrington, Massachusetts il 23 febbraio 1868 – Accra, Ghana 27 agosto 1963). Intellettuale, attivista, storico, filosofo, insegnante universitario, criminologo, saggista, editore e poeta. Molti dei suoi antenati, da parte
materna, ebbero un ruolo storicamente rilevante, e sempre la famiglia da parte della madre era proprietaria di un appezzamento di terreno ed apparteneva alla piccola comunità di neri liberi
del luogo. Riconoscendo la sua intelligenza, gli insegnanti lo spinsero a continuare gli studi e lui si convinse che le sue conoscenze
sarebbero state d’aiuto alla causa della sua gente. Nel 1895 diventò il primo afroamericano a conseguire la laurea in filosofia presso l’Università di Harvard e nel 1897 iniziò a scrivere trattati di sociologia criminale, pubblicando A Program of Social Reform (1897),
The Study of the Negro Problems (1898) e The Philadelphia Negro
(1899). In quest’ultimo elaborò le sue teorie criminologiche, che si
ricollegavano a fenomeni storici e a cambiamenti sociali, analizzando il comportamento criminogeno della popolazione nera della città di Philadelphia ed individuando, tra i fattori scatenanti tale criminalità, sia il loro adattamento sociale in seguito all’emancipazione e alla ritrovata libertà, che determinò l’esodo di massa dei neri dalle fattorie e dalle piantagioni verso le grandi città e la conseguente competizione per trovare un posto di lavoro nelle industrie,
sia al basso livello di occupazione e di istruzione, sia alla necessità
di esempi positivi che solo i più talentuosi afroamericani avrebbero potuto offrire. Fu docente universitario e scrisse numerosi libri,
tra cui The Souls of Black Folk (1903). Nel 1905 contribuì a fondare
il movimento Niagara che si batteva per la libertà di parola e di critica, per la parità tra caste o razze, per il diritto di voto universale
e per la dignità del lavoro. Nel 1909 contribuì a fondare la National
Association for the Advancement of Colored People (NAACP), pubblicò John Brown e fu il primo afroamericano a tenere un discorso
presso l’American Historical Association in occasione del convegno
annuale. Nel 1910 fondò il giornale The Crisis, si batté apertamente contro i linciaggi e l’oppressione e si oppose con decisione alla
teoria, allora tanto decantata, del razzismo scientifico, che professava la superiorità e la supremazia bianca sostenendo che gli afroamericani fossero biologicamente inferiori ai bianchi. Nel 1915 pubblicò The Negro e in quegli anni si scontrò duramente con Marcus
Garvey, poiché Du Bois, a dispetto dell’altro, riteneva che gli afroamericani potessero essere assimilati nella società americana come
uguali ai bianchi. Nel 1935 scrisse Black Reconstruction nel quale
dimostrò che gli afroamericani avevano avuto un ruolo fondamentale durante la guerra civile di secessione e che l’emancipazione
dei neri aveva rappresentato una forte spinta per avviare la ricostruzione della società americana, così contraddicendo gli studiosi bianchi che negavano la rilevanza politica e sociale della cultura
afroamericana nella storia degli Stati Uniti. Nel 1936 visitò la Germania nazista riportando opinioni contrastanti, mentre da un lato
osservò che gli accademici tedeschi lo avevano trattato con maggior rispetto di quanto non facessero i suoi colleghi americani bianchi e constatò il progresso economico operato dai nazisti, dall’altro
lato fu disgustato dal trattamento riservato agli ebrei, definendolo “un attacco alla civiltà, paragonabile solo ad orrori come l’Inquisizione spagnola o il commercio di schiavi africani.” Nel 1939 pubblicò Black Folk, Then and Now, nel 1940 fondò la rivista Phylon e
nel 1946 scrisse The World and Africa: An Inquiry Into the Part that
Africa has Played in World History, oltre a scrivere migliaia di articoli pubblicati su riviste e quotidiani. Du Bois era convinto che gli
afroamericani dovessero pretendere ed aspirare al più alto livello di istruzione e che dovessero competere ad armi pari e in tutti i
campi con i bianchi. Du Bois fu uno dei leader afroamericani indagati dal FBI, anche come presunto socialista e comunista. Fu Presidente del Centro di Informazione sulla Pace e strenuo oppositore
all’uso di armi nucleari. Nel 1950 fu candidato al Senato nello Stato di New York e nel 1959 ricevette il Premio Lenin per la Pace. Nel
1963, dopo che gli U.S.A. rifiutarono di rinnovargli il passaporto,
lui e la moglie, Shirley Graham Du Bois, furono naturalizzati cittadini ghanesi e proprio il 27 agosto dello stesso anno, il giorno prima
che Martin Luther King pronunciasse il suo discorso I have a dream,
morì ad Accra, capitale del Ghana, a 95 anni.
Con il Blues il Popolo afroamericano ha affermato la propria
unità e ha dimostrato l’esistenza di una nascente cultura nazionale, e per dirlo con le parole di Gildo De Stefano (giornalista, sociologo, scrittore, critico musicale ed esperto di
jazz napoletano) “poteva difendere e sostenere il suo diritto ad amare, ridere e crescere, affermare la propria umanità
in tutti i suoi aspetti di fronte ad una classe che lo opprimeva e tentava di farne una bestia da soma negandogli i diritti
comuni a tutti gli esseri umani” (Gildo De Stefano, Trecento
anni di JAZZ, 1619-1919, SugarCo Edizioni 1986).
Il Blues ha reso in musica l’urlo dell’anima afroamericana,
con precisi riferimenti ritmici e strutturali, e ne ha rappresentato l’immanente esperienza ed il testamento, la sua
eredità tangibile che ha trasceso la coscienza individuale fino ad abbracciare speranze, preghiere ed aspirazioni universali.
“Blues come voce, manifesto e testamento di un intero popolo. Blues come status, come modo di essere e di vivere,
di esprimere la pena e la speranza, di gridare e lenire il dolore. Blues come compagno di strada. Blues come musica
del Diavolo” (Antonio Lodetti, Guida alla musica del diavolo. Il Blues: storia e protagonisti, Gammalibri, Kaos Edizioni 1988).
La musica blues è stata la colonna sonora che ha sempre
seguito l’evolversi della comunità afroamericana, accompagnandone le vicissitudini storico-sociali, la drammatica epopea segnata dalla schiavitù … prima, dalla segregazione e
dall’emarginazione … poi, dal dolore e dalla sofferenza …
sempre.
Il Blues è la storia stessa del popolo afroamericano, il suo
modo d’essere, la sua principale forma di espressione artistico-musicale, che rappresenta il processo di evoluzione del Popolo nero dalle sue originarie radici africane, sopravvissute allo sradicamento territoriale e culturale, fino
alla formazione di una nuova identità storica, sociale e culturale, quella dell’afroamericano, che ha segnato il passaggio dalla schiavitù alla lenta ed ancora in corso integrazione
nella società bianca americana.
Il Blues è l’espressione e l’emblema del Popolo nero, rappresenta la sua unità e la sua lunga lotta, che ha dato luogo
alla nascita ed alla crescita nel territorio del Nuovo Mondo
di una cultura nuova, autonoma, quella afroamericana, consapevole del proprio spazio e del proprio tempo, nella quale
si è riconosciuta un intero Popolo, che dopo il periodo schiavile si è ritrovato ad essere ospite indesiderato di una terra ostile, che dopo averlo sfruttato indiscriminatamente ha
ben pensato di emarginarlo e segregarlo.
In epoca contemporanea, il Popolo nero ha rappresentato
una vera e propria nazione dentro i confini di un’altra nazione, quella degli Stati Uniti d’America, contro la quale ha dovuto e deve continuamente lottare per il riconoscimento e
la difesa dei propri diritti fondamentali.
Il Popolo afroamericano ha dovuto presto imparare a riedificarsi e ad adattarsi, fronteggiando sempre più apertamente l’oppressore bianco che per decenni gli aveva negato i
basilari diritti di ogni essere umano.
In questo processo evolutivo la musica blues ha rappresentato il filo conduttore, costituito dalla tradizione orale, che
ha permesso di tessere la trama del Popolo afroamericano,
tramandando di generazione in generazione la vita e le opere di persone che, altrimenti, sarebbero state perdute per
sempre e dimenticate non solo dalla storia, ma anche dalla
memoria dei loro familiari.
Grazie a questa nuova consapevolezza ascoltavo il blues e
riuscivo a “sentirlo” meglio, specie quello più datato, la lettura dei testi mi trasportava in una realtà che mi era sempre
più familiare e contemporaneamente ne apprezzavo maggiormente la musicalità, cogliendone nuove sfumature.
49
6.
Recupero
e rielaborazione
delle tradizioni:
le radici africane
P
iù di una volta ho provato a misurare la profondità del
dolore che doveva aver provocato quel distacco forzato, quello sradicamento culturale e spirituale che si abbatté sugli africani deportati in territorio americano, e nel
contempo immaginavo lo scenario storico e culturale che
aveva dato origine al blues, ripensando alle prime generazioni di schiavi che ebbero la capacità sia di rielaborare le
forme espressive ed artistiche della loro terra d’origine, che
di tramandarle oralmente ai loro posteri.
Infatti, nonostante le terribili condizioni di vita che la schiavitù comportava, i neri ebbero la forza d’animo di prendere
coscienza della propria individualità, del proprio senso artistico ed estetico, della propria identità come Popolo.
Ciò fu reso ancor più arduo dal fatto che non ci si trovava dinanzi ad un’unica antica cultura africana, bensì alla presenza di numerosissimi gruppi etnici, con altrettanti idiomi dialettali ed altrettante tradizioni culturali tribali.
Uomini che inizialmente erano incapaci persino di dialogare tra loro, riuscirono ad adattarsi alla loro nuova terra ed a
fondersi in un unico grande Popolo, quello afroamericano,
ed a forgiare un’unica cultura popolare, di cui il Blues costituì la spina dorsale.
Oltre ai dialetti, ai valori tradizionali, ai riti ed alle pratiche
sociali e religiose, gli africani portarono con sé la loro musica ed i loro canti, che costituivano un patrimonio indelebile ed inestimabile che non poteva e non doveva assolutamente essere perduto o dimenticato, in quanto rappresentava la loro intera cultura e testimoniava l’appartenenza alle loro radici.
Gli schiavi esportarono nel Nuovo Mondo questo loro patrimonio culturale e lì diedero vita a nuove forme di espressione artistica, ibride, che richiamavano le danze ed i ritmi tribali trasmessi per tradizione orale, di generazione in generazione, ed ancora vivi e presenti negli africani deportati nel
Nuovo Continente.
Quindi, sebbene il Blues abbia indiscutibili e profonde radici africane, di fatto è una musica interamente afroamerica-
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na, nata sul suolo statunitense e prodotta da uomini ormai
americani, seppure di discendenza africana, capaci di articolare pensieri e riflessioni in una nuova lingua, che confluirono poi in canzoni.
Il Blues è l’incrocio tra il patrimonio che l’afroamericano
aveva ereditato dai suoi padri con quanto trovato nel Nuovo Mondo, e sebbene sia permeato dal sistema simbolico
africano, che rappresenta un ingrediente decisivo, palesa
elementi di recente acquisizione, con i quali è stata elaborata una nuova identità, sia storico-sociale che artistica.
Si può definire il Blues come l’espressione musicale nata sul
suolo americano per effetto del contatto, dell’interazione e
dell’integrazione degli africani deportati come schiavi con
altri uomini, altre culture, altre forme espressive e artistiche
trovate sui territori del Nuovo Mondo.
Il processo che ha portato alla nascita del Blues è stato un
lungo susseguirsi di pratiche ed espressioni musicali che gli
schiavi africani hanno da subito iniziato a sperimentare nella loro nuova terra, mescolando musiche profane e religiose, che costituirono l’humus sul quale il Blues prese lentamente corpo, animato da una visione del mondo decisamente unica: tragica, tenuto conto del presente, ma, per reazione, estremamente ricca di speranza, guardando al futuro, tracciando così un solco tanto profondo da essere giunto fino a noi, destinato all’eternità.
Il Blues appartiene all’afroamericano come l’afroamericano
appartiene al Blues: sono nati contemporaneamente e rappresentano le due facce di una stessa medaglia, ed è proprio grazie al Blues che l’afroamericano riuscì, seppur lentamente, ad affermarsi come essere umano.
Del resto nella vita sociale africana la musica ricopriva un
ruolo fondamentale ed i neri possedevano un senso della
musica altamente sviluppato e sofisticato, tanto che i canti tribali africani avevano una funzione precisa nelle attività
quotidiane nell’ambito di ciascun gruppo etnico.
Infatti, per un africano la privazione della propria musica significava la perdita di ogni identità umana.
La musica, il canto ed il ballo rappresentavano per il nero l’unico legame ancora visibile e palpabile tra sé e la sua
umanità, ed ecco perché per gli schiavi deportati ogni occasione era buona per suonare e danzare, inebriandosi di tali
manifestazioni artistiche che accomunavano tutti loro, indipendentemente dal gruppo etnico di appartenenza.
Sulle isole caraibiche e nelle enormi e popolatissime piantagioni brasiliane, dove gli schiavisti permettevano ai prigionieri di cantare e suonare come antidoto alla depressione, musiche e balli raramente furono vietati, tanto che sono
giunte fino a noi numerose testimonianze, ed è facile immaginare come pure in qualunque piantagione o campo di lavoro in territorio americano tra gli schiavi, lasciati per qualche istante liberi dagli occhi attenti e severi dei sorveglianti, bastasse che qualcuno iniziasse a cantare ed a ballare per
far sì che immediatamente qualche altro si unisse a lui, finché tutti i presenti lasciavano perdere quel che stavano facendo per celebrare insieme quei rari momenti di gioia e dignità umana.
“Kunta aveva l’impressione che il ritmo del tamburo gli vibrasse non solo nelle orecchie ma in tutto sé stesso. Quasi senza accorgersene, come in sogno, sentì che il corpo co-
minciava ad agitarsi e le braccia prendevano a muoversi a
ritmo; ben presto si trovò a saltare e a urlare insieme agli altri che era come se avessero cessato di esistere. Infine barcollò e cadde a terra esausto” (Alex Haley, Roots, Reader’s
Digest Association 1976, traduz. italiana Radici, Rizzoli Editore 1980).
“Il ritmo le salì dalle nude piante dei piedi fino al nodo del
tignon, il corpo intero posseduto dai tamburi con la stessa
esultanza che provava quando faceva l’amore con Gambo.
Mollò i bambini e si unì alla baldoria: schiavo che balla è li-
bero finché balla, come le aveva insegnato Honorè” (Isabella Allende, La isla bajo el mar, 2009, ediz. italiana L’isola sotto il mare, Feltrinelli editore, Milano 2009).
Sulla scia di tali riflessioni, la mia attenzione venne nuovamente catalizzata dal continente africano, che mi aveva già
affascinato in quanto la religione di Marley, il rastafarianesimo, predicava il ritorno di tutti i neri nella Madre Patria,
l’Africa.
Mi premurai, quindi, di verificare quali fossero state le zone
dell’Africa maggiormente aggredite dai trafficanti di schiavi e, di conseguenza, quali fossero state le culture originarie che contribuirono principalmente a dare i natali al Blues.
In base alle cronache storiche, pare che la zona geografica
africana che pagò il maggiore tributo di
vite umane all’inesauribile sete di potere dell’uomo sull’uomo sia stata la fascia sudanica centro occidentale, un’area che si estende dal Mali attraverso
il nord del Ghana e della Nigeria fino al
Camerun centrale e settentrionale.
Le altre zone interessate sono state la
Guinea, la zona del Sahel, che va dal
Mali alla Mauritania, Senegal e Gambia, da dove provengono le etnie africane che popolarono, loro malgrado, il
Nuovo Mondo, ossia Wolof, Mandinka
e Fulbe.
Da questi territori l’afflusso di neri sul
suolo statunitense fu costante e numeroso, contribuendo in maniera numericamente rilevante alla tratta degli
schiavi, specie durante il XVIII secolo.
Le destinazioni più frequenti di questi
contingenti umani furono la Louisiana
ed il Mississippi, e fu proprio nel profondo sud che sopravvissero i tratti musicali africani tipici dell’area di provenienza originaria degli
schiavi, che inevitabilmente caratterizzarono il blues rurale primigenio.
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Indice generale
1. Piacere, sono il Blues! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 9
2. La mia amica chitarra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11
3. Ho visto la luce! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29
4. Schiavitù, segregazione ed emarginazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37
5. Il Blues: dolore e lamento, lacrime ed emblema di un popolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48
6. Recupero e rielaborazione delle tradizioni: le radici africane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50
7. La nascita del Blues: sacro e profano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52
8. Il linguaggio nascosto del Blues . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87
9. Griot, songster e bluesman . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89
10. Poetica, struttura e strumenti musicali del Blues . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96
11. Il Blues canta l’esperienza quotidiana: la sofferenza del presente e la speranza nel futuro . . 105
12. L’autenticità del bluesman . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107
13. Le Donne e il Blues . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 118
14. Il treno: catarsi e desiderio di fuga . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 133
15. The Blue Devils: Blues e magia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 140
16. La scoperta del Blues. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 176
17. Il delta del Mississippi: la culla del Blues . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 184
18. Poker d’Assi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 191
19. I Re dei Re . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 214
20. Dalla campagna alla città: il Blues urbano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 232
21. Il Blues texano: sferzante come il vento e tagliente come un rasoio . . . . . . . . . . . . . . 248
22. Il Jazz, il Blues e il Funk: il buono, il brutto e il cattivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259
23. Il Blues e i suoi fratelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 344
24. Il colore del Blues. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 355
25. La rivincita dell’Africa: il Blues matrice assoluta e patrimonio universale . . . . . . . . . . . . 434
26. Noi, i neri e il Blues: gioie e dolori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 502
27. Il mio Blues . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 505
Epilogo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 509
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 510
L’Autore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 512
Indici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 513