Introduzione alla bioetica . : pagina iniziale . : antologia . : riflessioni

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Introduzione alla bioetica
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Infinita è la turba degli sciocchi, cioè di quelli che non sanno nulla; assai son quelli che sanno
pochissimo di filosofia; pochi son quelli che ne sanno qualche piccola cosetta; pochissimi quelli
che ne sanno qualche particella; un solo Dio è quello che la sa tutta. (Galileo, Il Saggiatore)
A cura di Pasquale Antonio Riccio
Nel 1971 venne coniato dal cancerologo americano Van R.Potter il termine “Bioetica” (
Bioethics: Bridge to the future )[1]. Con questo termine, che rimanda alla duplice componente
della vita (bìos) e dell’etica (étos), egli voleva indicare un nuovo ambito intellettuale per
l’approccio alle questioni sollevate dal progresso scientifico e tecnologico, una sorta di “ponte”
per
la
cultura
scientifica
e
quella
umanistica.
Tale nuova e vasta area di riflessione interdisciplinare nasceva, infatti, dagli straordinari
progressi delle tecnologie che hanno consentito all’uomo la possibilità di avere il controllo dei
processi biologici e ha visto e vede esercitarsi in essa biologia, medicina, filosofia, diritto,
teologia,
economia,
psicologia,
ecologia
ecc..
Essa è stata definita in vari modi, ma può essere colto il suo carattere pluralistico e
profondamente etico nella definizione che di essa ci fornisce Uberto Scarpelli, il quale vede la
bioetica come “l'etica in quanto particolarmente relativa ai fenomeni della vita organica, del
corpo, della generazione, dello sviluppo, maturità e vecchiaia, della salute, della malattia e della
morte. Non è una disciplina autonoma e indipendente: ricomprende problematiche legate al
progresso della conoscenza e delle tecniche biologiche, ma un adeguato approfondimento riporta
alle questioni e agli atteggiamenti etici fondamentali concernenti l'uomo in quanto anima e corpo,
spirito e materia, organismo capace di azioni e interazioni significanti e simboliche eccedenti il
campo d'indagine della biologia”[2]. La Bioetica, infatti, cerca di dare una risposta ai nuovi
interrogativi morali sorti dall’ampliamento delle conoscenze e dei poteri in ambito scientifico e
tecnologico.
Tali domande possono riassumersi in un’unica formulazione: quanto è tecnicamente possibile, è
eticamente
lecito?
La caratteristica del tutto nuova delle moderne possibilità applicative della scienza, infatti, sta
nella possibile irreversibilità delle conseguenze, per l'impatto che esse potrebbero avere sul
futuro dell’uomo. In questo senso la bioetica è, come la definì Potter, un “ponte per il futuro”
poiché in rapporto alle possibilità del presente considera anche le loro conseguenze nella
dimensione
futura.
Le problematiche sulle quali il dibattito bioetico è oggi particolarmente vivo sono quelle
riguardanti la fecondazione artificiale, la donazione ed il trapianto di organi, l’eutanasia, il
rapporto medico-paziente, la situazione dei tossicodipendenti nonché gli sviluppi, già menzionati,
nel campo dell’ingegneria genetica.
[1] V. R. POTTER, Bioetica. Ponte verso il futuro ( 1971 ), Messina, 2000.
[2] U. SCARPELLI, La bioetica. Alla ricerca dei principi, in Bioetica laica, Milano, 1998, p.
217.
La filosofia e i suoi eroi
Il dolore
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Ogni dolore è facile a disprezzare; quello che comporta sofferenza intensa dura poco tempo, e
quello che perdura molto tempo nella carne comporta sofferenza temperata. (Epicuro)
A cura di Cristiano Turbil
Il termine dolore (Pain), assume diversi significati, rispetto al sistema etico e al contesto storicoculturale in cui è inserito. In questo saggio breve, si ha l’intenzione di definire il dolore,
all’interno di due sistemi etici che ne hanno una considerazione opposta.
Il primo, quello cristiano cattolico, all’interno del quale il dolore viene considerato nella sua
veste forse più positiva, assume non più il ruolo di ente negativo che affligge l’uomo ma diventa
il mezzo usato dall’umanità per raggiungere e completare, all’interno del viaggio che è la vita, le
sofferenze del Cristo, per riscattarsi dal mondo del peccato e raggiungere a pieno titolo la
salvezza eterna .
Nella seconda parte, invece, il dolore non viene più analizzato rispetto alla sua valenza negativa o
positiva sull’uomo, ma viene studiato all’interno di un contesto logico atto a determinare la sua
reale posizione in rapporto con il suo diretto corrispettivo opposto “ Piacere” (Pleasure),
muovendo una critica logico-psicologica al valore e al ruolo che hanno questi due termini
all’interno delle dottrine etiche di carattere Edonistico quantitativo (ovvero i sistemi etici in cui si
agisce con il fine di massimizzare la quantità di piacere senza preoccuparsi della sua qualità) e
utilitaristico.
Il dolore nelle etica cristiana:
§1
La tematica del dolore all’interno dell’uomo, nell’orizzonte etico cristiano, viene espresso
esaurientemente all’interno della lettera enciclica Salvifici Doloris, qui il Pontefice cerca di
spiegare come il dolore e la sofferenza siano inseriti necessariamente all’interno della vita
dell’uomo.
La lettera si apre con una frase di Paolo tratta dalla prima lettera ai Colossesi “Completo nella
mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la chiesa”[1],
questo piccolo estratto che sarà poi il filo conduttore di tutta la discussione, mette subito in
rilievo come la sofferenza nell’uomo e per l’uomo, sia mezzo per raggiungere la salvezza divina.
Va inoltre precisato che il tema della sofferenza, è profondamente inserito nell’anno liturgico
della redenzione come giubileo straordinario (Anno 1984). Qui la sofferenza viene considerata
come caratteristica propriamente umana, in quanto oltre a rappresentare il dolore fisico che
l’uomo condivide con gli animali, assume un senso più alto, sembra infatti appartenere alla
trascendenza dell’uomo e addirittura ad uno di quei punti a cui l’uomo è destinato.
§2
La prima grande questione affrontata è la definizione dell’idea del dolore, e tutti i temi ad essa
correlati, soprattutto il rapporto tra dolore Fisico e Morale.
Il settore più conosciuto della sofferenza nella società moderna è quello medico che alla luce
della scienza dà una più precisa ed esauriente descrizione del dolore e ne determina i diversi
metodi del reagire (cioè della terapia). Tuttavia questo è solo un settore, il campo della sofferenza
umana è molto più ampio.
Infatti l’uomo soffre in diversi modi, non sempre contemplati dalla medicina, neanche nelle più
avanzate specializzazioni. Tutto ciò si può capire nella differenza che intercorre tra dolore fisico
e morale:
 La sofferenza fisica si manifesta quando duole in qualsiasi modo il corpo.
 La sofferenza morale si ha quando duole l’anima.
La vastità della sofferenza è quella che fornisce il superamento della medicina come conoscenza
della terapia del dolore fisico. Il dolore fisico è solo la parte inferiore del concetto di sofferenza,
la vera sofferenza è quella dell’anima.
Infatti della sofferenza morale si trovano moltissimi esempi nelle scritture e in particolare
all’interno dell’Antico Testamento, in cui troviamo molti esempi di situazioni che recano i segni
della sofferenza:
 Il pericolo di morte
 La morte del figlio primogenito
 La mancanza di prole
 La nostalgia della patria
Tutti questi esempi e molti altri portano a considerare l’uomo come un insieme psicofisico che fa
un tutt’uno con la sofferenza, dove la sofferenza viene intesa nel significato più ampio di
“esperienza del male”.
Nell’ etica cristiana la nozione del male non esiste propriamente, in quanto tutto ciò che esiste è
bene, perché proclama la somma e assoluta bontà del Creatore per le sue creature. L’uomo quindi
soffre a causa del male, che è una mancanza, una distorsione del Sommo Bene.
La sofferenza umana costituisce quindi un mondo che esiste insieme all’uomo e possiede una
valenza sia soggettiva che collettiva ed ha in sè una propria precisa compattezza.
§3
Il dolore fisico è ampiamente diffuso nel mondo degli animali, però solamente l’uomo soffrendo
sa di soffrire e se ne chiede il perché. Questa domanda l’uomo non la pone al mondo che sembra
essere causa delle sue sofferenza, ma la pone invece a Dio.
La risposta a questo interrogativo la si trova all’interno del libro di Giobbe, uno dei grandi libri
dell’Antico Testamento, dove si narra la storia di Giobbe un uomo giusto che non conosce il
peccato che viene colpito da innumerevoli disgrazie. Qui viene mostrato come il male non sia
soltanto inteso come pena (espiazione di una colpa), ovvero data da Dio all’uomo nel momento
del peccato e dell’errore, quindi intesa come mezzo redentivo per ristabilire la giustizia. Ma si
evince anche, e soprattutto nel caso specifico di Giobbe, ovvero di un uomo senza alcun peccato
e che quindi non merita alcun dolore, che la sofferenza data da Dio deve essere intesa come un
mistero che l’uomo non è in grado di penetrare fino in fondo con la sua intelligenza.
E’ vero quindi che la sofferenza sia legata alla colpa, ma non è altresì vero che essa sia legata
unicamente alla colpa. E un importante prova di questo la troviamo appunto nel caso di Giobbe.
Il libro di Giobbe, pone il perché della sofferenza ma non ne dà la risposta; fa solo capire che la
sofferenza è l’utile per l’uomo, in quanto serve alla conversione, cioè alla ricostruzione del bene
del soggetto che riconosce la misericordia divina nella penitenza.
§4
La soluzione della sofferenza, la troviamo però nella figura di Cristo:
“Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo figlio unigenito perché chiunque crede in
lui non muoia, ma abbia la vita eterna”[2]
Questa frase che può essere considerata uno dei pilastri portanti del nuovo testamento mira ad
esprimere la vittoria dell’amore sulla sofferenza; infatti Dio dà il suo unico figlio al mondo, per
liberare l’uomo dal male, che porta in sè la definitiva e assoluta prospettiva della sofferenza.
Qui si può facilmente notare come ci si è spostati dalla dimensione della sofferenza come
giustizia o mistero (Libro di Giobbe), alla nuova dimensione della redenzione, in cui la
sofferenza assume il suo ruolo definitivo, ovvero il mezzo per raggiungere la vita eterna.
Il peccato diventa quindi il contrario della salvezza, la perdita della vita eterna; la vera missione
del figlio di Dio assume il ruolo di vincere il peccato e la morte e con la resurrezione ottenere il
perdono e la vita eterna. Grazie a questo, anche se la vittoria di Cristo non abolisce le sofferenze
temporali della vita umana, né libera la totale dimensione dell’esistenza, tuttavia getta su ogni
sofferenza una luce nuova, che è la luce della salvezza.
Questa nuova verità, cambia l’intero quadro delle sofferenze umane nelle sue fondamenta,
nonostante il fatto che il peccato originale si sia radicato come “Peccato del mondo” e come
somma dei peccati personali.
Dio ha mandato il Cristo, affinché tocchi le radici più profonde del male con la sua innocente
sofferenza e salvi l’uomo con la sua morte e resurrezione.
§5
Nel simbolo della croce di Cristo, non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza,
ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta. Cristo si è addossato il male totale del
peccato. L’esperienza di questo male su Cristo, diventa il prezzo della redenzione e cosi il mondo
della sofferenza viene aperto agli uomini in un modo del tutto nuovo, che permette di considerare
il dolore in una nuova prospettiva finalizzata alla salvezza
La croce di Cristo diventa qui il simbolo di tutto ciò: essa getta in modo tanto penetrante la luce
salvifica sulla vita dell’uomo perché mediante la fede lo raggiunga con la risurrezione.
La sofferenza diventa quindi una prova per l’uomo, una prova dove tramite la sua debolezza
manifesta la sua potenza, la sua grandezza morale la sua maturità spirituale.
E in conclusione tutti coloro che partecipano della sofferenza di Cristo, comprendono il mistero
della croce e della resurrezione, nel quale Cristo scende nella debolezza e muore ma allo stesso
tempo compie la sua elevazione.
§6
Alla luce di tutto questo, il vangelo assume quindi il ruolo di vangelo della sofferenza, in cui
Cristo è la chiave di volta di tutto il sistema, che vince la morte con la sofferenza e ottiene la
salvezza con la resurrezione.
La stessa cosa dovranno fare tutti gli uomini, come dice Paolo “Tutti quelli che vogliono vivere
pienamente in cristo Gesù saranno perseguitati[3]”.
Questo è in conclusione il vero messaggio della sofferenza, che perde nell’etica cristiana quasi
tutta la sua valenza negativa e assume un significato oltremodo positivo, diventando il mezzo
anzi sarebbe meglio dire il percorso che permette all’uomo di raggiungere la promessa di vita
eterna, completando nel suo corpo. tramite il dolore. i patimenti del Cristo che grazie alla sua
morte ci ha salvati dal mondo del peccato.
Il Dolore e il Piacere nell’analisi di Gilbert Ryle
La tematica del Piacere e del Dolore viene analizzata all’ interno del saggio Dilemmas[4].
Nel capitolo quarto di questa piccola raccolta di dilemmi, Ryle analizza le nozioni di Dolore e
Piacere rispetto ad una critica motivata del ruolo che assumono all’interno delle classiche dottrine
etiche edonistico-psicologiche.
§1
Nella prima parte della breve dissertazione, l’autore fornisce una veloce ma precisa analisi del
ruolo del piacere e del suo corrispettivo all’interno dell’edonismo, descrivendo i vari assiomi che
solitamente venivano attribuiti ai comportamenti umani, i quali assumevano proposizioni
abbastanza plausibili ma talvolta e nella fattispecie non plausibili.
Si considerava infatti l’uomo come mosso e determinato nei suoi comportamenti rispetto ad
alcuni desideri, che venivano considerati tutti come desideri del piacere: di conseguenza ogni
azione intenzionale compiuta dall’uomo era motivata solo ed esclusivamente da un incremento
quantitativo del piacere provato dall’individuo agente e da una netta diminuzione del dolore dello
stesso.
In un sistema cosi strutturato, i piaceri differivano tra di loro, solo ed esclusivamente, non su un
rapporto di qualità ma semplicemente su un rapporto di quantità, ovvero un piacere ά era
migliore di un altro piacere β solo se esso era rispettivamente più intenso o prolungato o tutte due
le cose insieme rispetto all’altro.
Perciò in base a questi assiomi sembrò logico considerare l’altruista come colui che incrementa il
piacere altrui e l’egoista come colui che incrementa il proprio piacere.
I termini piacere e dolore venivano quindi ad assumere il ruolo di effetti di atti, il cui movente
degli atti stessi veniva ad essere il desiderio di quei piaceri.
I piaceri venivano quindi ad essere considerati come delle sensazioni, prodotte da azioni o altri
eventi, come ci dice Ryle “ il desiderio di provare queste sensazioni era interpretato come quel
che ci spinge a compiere o a garantirci quelle cose che le producono”[5], di conseguenza si
assumeva che il dolore stesse al piacere, come il dolce all’amaro, il buio alla luce, cioè essi
venivano considerati come l’uno l’antitesi dell’altro o più facilmente come i due poli opposti di
una stessa scala graduata, dove il calcolo e la misurazione del piacere doveva essere l’esatto
opposto del calcolo della quantità di dolore, quindi dove aumentava uno, diminuiva l’altro.
§2
Anche se queste teorie ci dicono che il concetto piacere è l’esatto opposto del concetto di dolore,
in quanto ambedue sono sensazioni, tuttavia ci sono obiezioni invalicabili che non permettono di
considerarli come opposti diretti.
Noi uomini siamo abituati a dire che alcune cose ci provocano piacere mentre altre dolore, però
non abbiamo la capacità e la possibilità di determinare, ad esempio, il momento in cui abbiamo
provato piacere e la sua durata precisa nel tempo. Noi, infatti, possiamo dire al medico dove e
quando proviamo dolore ma non possiamo descrivere perché non ne saremmo mai capaci, dove e
in che modo proviamo un piacere e come dice lo stesso Ryle “In una parola, il piacere non è
affatto una sensazione, e tanto meno una sensazione sulla stessa scala con malesseri e dolori
fisici”[6].
Infatti, come ci spiega poi in seguito l’autore, alcune sensazioni sono piacevoli, mentre altre sono
spiacevoli, però le une possono cambiare e produrre risultati opposti se cambia il contesto in cui
sono inserite, come ad esempio un calore può essere spiacevole, mentre se lo stesso calore
prodotto da un the caldo può risultare piacevole.
“Se fosse giusto classificare come sensazione il piacere, dovremmo aspettarci che fosse anche
possibile descrivere quindi alcune di queste sensazioni come piacevoli, altre come neutre, ed altre
come sgradevoli ma questo è impossibili”[7], ma tutto ciò come spiega Ryle è impossibile,
perché se le sensazioni fossero neutre e spiacevoli ci troveremmo di fronte ad una contraddizione,
mentre se esse fossero piacevoli risulterebbe una ridondanza.
Anzi, noi abbiamo addirittura la possibilità di ignorare una sensazione, se siamo impegnati a fare
altro, per esempio se proviamo male ad un dito ma siamo impegnati in un gioco che occupa tutta
nostra attenzione, la sensazione di dolore non viene considerata.
§3
Mentre, scrive Ryle, per quel che compete alle nozioni di Piacere e Disgusto, esse sono connesse
alla consapevolezza in un modo del tutto differente dalle sensazioni. Infatti non è possibile né
logicamente, né psicologicamente che una persona goda di una musica senza prestarne
attenzione, vi è quindi una contraddizione di fondo nel descrivere qualcuno come mentalmente
assente da qualcosa che sta gustando o detestando.
Infatti “il piacere e il disgusto non richiedono diagnosi, mentre possono benissimo richiederne le
sensazioni”[8].
Le sensazioni e i sentimenti hanno una precisa collocazione nel tempo, esse possono essere un
antecedente, un concomitante oppure un susseguente di altri avvenimenti, mentre per il piacere
questo non é possibile.
Noi possiamo benissimo determinare il momento esatto in cui proviamo un dolore ma non
possiamo altresì cosi facilmente determinare l’esatto istante in cui proviamo piacere per aver
visto un bel film, o per aver mangiato qualche cosa di gustoso, in quanto il piacere non essendo
una sensazione, non ha una collocazione precisa nel tempo.
§4
Per tornare al discorso iniziale, l’assimilazione del godimento e del disgusto all’ interno delle
sensazioni, era solo una piccola parte del programma etico teso alla realizzazione della condotta
umana.
In questa teoria i desideri e i piaceri, dovevano essere i corrispettivi mentali della pressione,
dell’urto e di tutte le cose proprie della teoria meccanica. Mentre i moti psichici sarebbero
diventati calcolabili e misurabili quanto l’intensità dei piaceri e dei desideri. Un piacere sarebbe
stato quindi determinato di una precisa grandezza, almeno per ciò che compete alla sua durata e
intensità.
Mentre, seguendo le obiezioni di Ryle sopra riportate, si nota precisamente che il piacere non
essendo una sensazione, non può essere un processo. I processi, infatti, sono caratterizzati da una
precisa durata, mentre l’uomo non può provare un piacere in modo veloce o lento.
Quindi, il ruolo che le nozioni di piacere e disgusto assumono nella teoria etica dinamica non
possono di certo avere la valenza di processo.
I dolori, alla luce di quanto detto, vengono ad essere considerarti come “l’effetto di cose come la
pressione di una scarpa su un dito del piede, e la causa di cose come gesti agitati di
insofferenza”[9].
Dopo aver espresso tutto questo, l’autore muove un ultima critica alle teorie etiche edonistiche ed
utilitaristiche; avendo dimostrato l’inefficacia di tutti i sistemi che considerano il piacere come un
processo, fa notare come tutti noi abbiamo avuto nella nostra vita i nostri momenti edonistici e
utilitaristici e ne siamo rimasti insoddisfatti. In essi non abbiamo trovato, soprattutto nell’analisi
profonda delle nozioni di disgusto e godimento,delle certezze le quali hanno subito delle sottili e
sospette trasformazioni, allorché sono state presentate come le forze di base che determinano le
nostre scelte ed intenzioni.
§5
Nell’ultima parte della dissertazione, Ryle si impegna a definire il concetto di piacere nella
descrizione della vita e della condotta umana, scusandosi però di trattarlo da un punto di vista che
può ,per il lettore, suonare come arcano o prescientifico.
L’autore definisce infatti come passioni tutti gli stati d’animo agenti sull’uomo potenzialmente
sovversivi, come il terrore, la collera, l’allegria, l’odio ecc, e determina che godere o detestare un
qualche cosa non vuol dire essere vittime di una passione.
Infatti , se una persona è perfettamente padrona di sé nelle sue azioni, non può essere descritta
come agitata, in collera o in preda al panico, nozioni tutte appartenenti in modo intrinseco alle
passioni.
Ma nessuna di queste connotazioni si addice al piacere, infatti come ci dice l’autore “se godere di
qualcosa con una certa intensità equivalesse ad essere fuori di sé in pari misura, si dovrebbe
essere dissennati per tutto il tempo dedicato alle proprie occupazioni preferite”[10].
Una persona in uno stato di perfetta calma può quindi provare anche un grande piacere, la
nozione di godimento rifiuta perciò di passare attraverso lo stesso cerchio logico in cui passano le
passioni. Il godimento non è qualcosa che noi proviamo a reprimere, che soffochiamo o non
riusciamo a soffocare, è una nozione totalmente scollegata al dominio delle passioni.
§6
In conclusione e per riprendere il filo del discorso precedente,Ryle fa notare che i concetti di
godimento e disgusto sono stati erroneamente collocati come appartenenti alla categoria delle
sensazioni e dolori fisici, alla categoria di accadimenti come causa di altri accadimenti e al
dominio più generale delle passioni.
Ma queste nozioni, come fa ben notare l’autore, opporranno sempre resistenza a ogni tentativo di
avvicinarle ai concetti di queste altre famiglie.
Per concludere come sostiene Ryle nelle ultime frasi di questo capitolo “I dilemmi derivano
dall’attribuzione erronea di analogie di ragionamento”[11], ovvero come detto appena sopra ad
ogni uso non proprio dei concetti di Piacere e Disgusto.
[1] Lettere ai Colossesi 1,24
[2] Vangelo di Giovanni 3,16
[3] Seconda lettera a Timoteo 3,12
[4] Gilbert Ryle, Dilemmas 1966 Cambidge University Press, London
Utilizzata nella traduzione italiana a cura Enrico Mistretta 1968 Ubaldini Editore, s.r.l. Roma.
[5] Dilemmas, p. 61
[6] Idem p. 62
[7] Idem p. 62
[8] Idem p. 63
[9] Idem p. 64
[10] Idem p. 69
[11] Idem p. 70
La filosofia e i suoi eroi
La fecondazione assistita
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Il cosmo è un palcoscenico e la vita è un passaggio sulla scena di questo palco: entri, guardi ed
esci. Il cosmo è mutamento, la vita è opinione che si adegua. (Democrito)
A cura di Pasquale Antonio Riccio
L’espressione “Fecondazione assistita” indica le procedure capaci di permettere e favorire la
fecondazione di una cellula uovo di una donna da parte di spermatozoi maschili nel caso in cui
essa non avvenga in modo naturale.
Una data da ricordare è sicuramente il 25/7/1978: nasce Louise Brown la prima bambina
concepita in provetta con la tecnica denominata “fecondazione artificiale”.
Le tecniche di fecondazione assistita possono dividersi in due tipi principali:
1) Fecondazione assistita in vivo: le modalità utilizzate per questo tipo di fecondazione sono
l’inseminazione artificiale e la cosiddetta GIFT.
L’inseminazione artificiale prevede, al di là delle differenze metodologiche, l’iniezione
degli spermatozoi ( del partner se è omologa, di un donatore se è eterologa ), nelle vie
genitali della donna.
La GIFT, invece, avviene attraverso il trasferimento intratubarico dei gameti: si iniettano
cioè, all’interno delle tube femminili sia gli spermatozoi ( del marito o di un donatore )
che le cellule uovo ( della donna stessa o di una donatrice ).
2) Fecondazione assistita in vitro: con questo tipo di fecondazione si cambia il luogo
dell’inizio della formazione delle prime cellule embrionali che non avviene più
all’interno della donna, ma in provetta. La principale tecnica utilizzata la cosiddetta
F.I.V.E.T. ( fecondazione in vitro ed embrio-transfer ). È un procedimento complesso ed
invasivo ( soprattutto per il corpo femminile ) che si svolge in due fasi: l’incontro dei
gameti (le cellule riproduttive maschili e femminili) in provetta ( F.I.V. ) ed il successivo
trasferimento degli embrioni che si sono formati nell’utero ( E.T. ).
Le ovaie della donna sono sottoposte al trattamento di agenti farmacologici ed a vari cicli
di controlli e terapie generalmente quotidiane. Dopo 34-36 ore, in anestesia generale,
viene effettuata l’aspirazione degli oociti (i gameti femminili o cellule uovo). Entro 18
ore può avvenire il processo di fecondazione che si compie all’interno di provette. Gli
embrioni selezionati ( di solito due o tre ) sono quindi trasferiti nell’utero femminile ( o
nelle tube di Falloppio ).
“Le questioni aperte”
La “fecondazione in vivo” omologa (i gameti appartengono ad entrambi i partner), sembra
comportare esclusivamente problemi legati all’intrusione medica nell’intimità del rapporto di
coppia, ed alla manipolazione del corpo ( soprattutto femminile ).
Quella eterologa (i gameti appartengono a dei donatori), invece, solleva questioni molto più
complesse, soprattutto di natura giuridica.
Alcuni degli interrogativi che si potrebbero porre riguardano la paternità (nel caso il donatore sia
un uomo) o la maternità (nel caso il donatore sia una donna) di un bambino: che diritti ha il
donatore nei confronti del bambino? Ha diritto il bambino a conoscere il padre biologico? Sono
tenuti il padre, la madre ed il bambino a conoscere l’identità dei donatori, in virtù anche del fatto
che il nascituro avrà il corredo genetico del genitore biologico?
Riguardo questa domanda è opportuno ricordare che la scienza medica non è ancora in grado di
escludere con certezza se un gamete maschile o femminile possa essere portatore di una qualche
forma di patologia: le tecniche di oggi potrebbero essere capaci di individuare o escludere solo
alcuni tipi di malattia.
Tuttavia, il fatto che la fecondazione in vivo lasci l’atto del concepimento della vita umana
all’interno del grembo materno, evita un complesso numero di problematiche proprie della
fecondazione in vitro.
La fecondazione in vitro richiama alla mente motivi faustiani: questa tecnica, come i versi del
poeta tedesco Goethe, sembra rispondere alla volontà di appropriazione dell’origine, spostando i
luoghi del concepimento tra laboratori e provette, aprendo le possibilità di intervento e
manipolazione sull’origine stessa della vita.
Inoltre, da non trascurare è il problema di quella che è stata definita la “medicalizzazione della
vita”: l’autonomia del singolo, la sua stessa possibilità di agire, sembrano cedere il posto alle
scelte del “tecnico della vita”, un uomo anch’egli, ma investito di una sacra autorità che gli
permette di gestire e controllare opportunità e modalità esistenziali di altri esseri umani.
Ciò comporta l’entrata in gioco del fattore medico all’interno del rapporto di coppia, la scelta,
delegata a canoni presupposti scientifici, tra la vita, la morte e la crioconservazione
(congelamento) degli embrioni.
“Il problema degli embrioni”
Particolare attenzione merita la questione relativa agli embrioni prodotti dalla tecnica di
fecondazione artificiale in vitro.
La domanda fondamentale è: è possibile attribuire all’embrione umano lo status di “persona” ( e
quindi preservarlo da qualsiasi manipolazione)?
Ci si chiede se sia giusto riconoscere all’embrione umano i diritti propri degli individui
sviluppati, primo fra tutti il diritto inequivocabile alla vita.
Il concetto di “persona” presenta esso stesso delle difficoltà inerenti alla sua stessa definizione,
difficoltà non da poco. Sono, infatti, diversi gli intendimenti di tale concetto e per molti versi gli
uni opposti radicalmente agli altri.
Nel dibattito odierno sullo status da attribuire all’embrione si affermano due ipotesi contrapposte:
- La posizione, sostenuta principalmente dal Cattolicesimo, che attribuisce all’embrione lo
stato giuridico di persona sin dalla formazione delle sue prime cellule basandosi sulla
sacralità della vita.
- La posizione convenzionalmente definita laica (ma non mancano tra i suoi sostenitori
diversi religiosi ), che ritiene l’embrione al suo stato iniziale come un agglomerato di
cellule privo di caratteristiche tali (ad esempio l’autocoscienza) da poterlo riconoscere
come persona. Tuttavia i sostenitori di questa ipotesi hanno stabilito convenzionalmente
un limite massimo di 14 giorni per poter intervenire sull’embrione. Intorno al 13-14
giorno compare la cosiddetta “stria primitiva”, segno di una primitiva diversificazione
specialistica delle cellule che compongono l’embrione. Prima di tale periodo le cellule
staminali embrionali sono definite “totipotenti” cioè capaci di potersi sviluppare in
qualsiasi tipo di tessuto.
Questi due atteggiamenti si confrontano, spesso anche con toni aspri, in virtù del fatto che i
sostenitori della seconda posizione ritengono la prima una sorta di freno allo sviluppo scientifico:
una volta non riconosciuto l’embrione come persona sarebbe possibile, sulla base di alcuni studi
scientifici, attraverso lo studio delle cellule staminali totipotenti trovare una cura per le malattie
oggi incurabili. Alcuni scienziati ipotizzano, infatti, di poter controllare lo sviluppo di queste
cellule verso una determinata e voluta specializzazione.
I propugnatori della personalità dell’embrione ribattono che gli studi in questo versante sono del
tutto incerti facendo anche notare l’altissima propensione a mutarsi in cellule cancerogene delle
cellule staminali totipotenti. Principalmente, inoltre, la loro avversione è dovuta anche al fatto
che lo studio di queste cellule comporta la soppressione dell’embrione stesso al momento del loro
prelievo.
Risulta chiara la totale incompatibilità con una visione personalistica dell’embrione.
È opportuno ricordare che, oltre alle cellule staminali embrionali, esistono altri due tipi di
staminali sui quali è comunque rivolta la ricerca scientifica:
- le cellule staminali presenti nel sangue del cordone ombelicale;
- le cellule staminali fetali che sono ricavate da aborti.
Lo studio di queste cellule potrebbe, comunque, per ammissione dell’intera comunità
scientifica, risolvere i medesimi problemi che la ricerca sulle cellule staminali embrionali si
propone di superare.
La sperimentazione su quest’ultime non esaurisce il campo di ricerca avente come oggetto gli
embrioni.
Le moderne tecnologie, accompagnate dalle conoscenze in materia di corredo genetico che
esse stesse hanno consentito, rendono possibile prevedere in anticipo alcune eventuali
malattie che, l’embrione una volta divenuto adulto, potrà sviluppare.
Ciò introduce l’interrogativo se sia giusto o meno intervenire sul suo patrimonio genetico in
modo da modificarlo ed eliminare il rischio di tali possibili patologie.
Inoltre seri problemi sorgerebbero quando, con la conoscenza del patrimonio genetico di un
individuo, inizierebbero a farsi strada strane tentazioni, come quella di scegliere le
caratteristiche fisiche del nascituro, o magari creare ad hoc un individuo con i desiderati tratti
somatici.
Questa prospettiva inficerebbe non poco il rispetto della libertà dell’individuo e della sua
libera autodeterminazione: partendo, ad esempio, dall’eliminare progressivamente patologie
come la sindrome di Down, poiché l’individuo che ne è affetto non potrebbe condurre una
vita consona alla categoria sociale di appartenenza, si potrebbe arrivare al programmare gli
“esseri perfetti” per la società.
Gli uomini diverrebbero le creazioni di altri uomini e verrebbero così privati della loro libertà
di esseri nati da coincidenze naturali e non precostituite e conseguentemente anche della loro
libertà sociale, essendo, in ogni caso, il frutto di scelte dettate dalle preferenze sociali
dominanti ossi di criteri eugenetici.
La filosofia e i suoi eroi
La clonazione
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In silenzio, è venuta crescendo un'umanità che aspira solo alla costrizione e alla limitazione che
le vengono imposte dall'assurda continuazione del dominio. (T.W. Adorno, Minima moralia, 80)
A cura di Pasquale Antonio Riccio
Il termine “clonazione” indica nel lessico scientifico contemporaneo il processo che consente la
duplicazione del patrimonio genetico di una singola cellula o di un intero organismo.
Il “clone” è perciò un insieme di molecole di DNA, cellule o interi organismi, derivanti per copie
successive da un unico progenitore rispetto al quale risultano identiche.
Le principali tecniche utilizzate per conseguire la clonazione del corredo biologico sono due:
a) “fissione gemellare” (embryo splitting): consiste nella separazione di singole cellule o di
gruppi di cellule nelle prime fasi dello sviluppo embrionale, quando le cellule sono dette
“totipotenti”, cioè non ancora specializzate e quindi in grado di potersi evolvere verso qualsiasi
direzione compreso un intero organismo;
b) “trapianto nucleare”: trapianto del nucleo di cellule specializzate di qualsiasi tipo in una
cellula uovo fecondata o non fecondata, dopo aver provveduto all’eliminazione del nucleo della
cellula uovo.
Oggi si parla anche di “clonazione terapeutica” la quale consiste nella produzione di embrioni
umani in laboratorio col corredo genetico del paziente, finalizzata ad ottenere una cultura di
cellule staminali cosiddette “autologhe” cioè compatibili con il corpo del paziente. L’embrione
così generato verrebbe distrutto al 5° giorno del suo sviluppo e le cellule staminali “autologhe”
sarebbero utilizzate per consentire la riparazione degli organi danneggiati del paziente.
“Brevi cenni storici: dai tentativi di clonazione alla clonazione vera e propria”
I primi esperimenti di clonazione di organismi pluricellulari furono compiuti negli anni
Cinquanta, sulle rane. Due ricercatori inglesi, Robert Briggs e Thomas King riuscirono a
trapiantare il nucleo di una cellula di embrione di rana in un ovulo, gli embrioni che si ottennero
vennero quindi cresciuti in vitro. Nel 1979 fu la volta di esperimenti sulla divisione di embrioni,
allo stadio di otto-sedici cellule al fine di ottenere embrioni identici. Nel 1993 la tecnica appena
descritta fu applicata all’uomo: due ricercatori statunitensi, Jerry Hall e Robert Stillman, dopo
avere ottenuto embrioni umani mediante fecondazione in vitro, ottennero 48 cloni di tali
embrioni, che successivamente congelarono.
Nel 1996 il dibattito sulla clonazione si impenna in modo vertiginoso con la nascita della pecora
Dolly, il primo mammifero della storia clonato a partire da un individuo adulto. La clonazione fu
realizzata dai ricercatori del Roslin Institute di Edimburgo che prelevarono il nucleo di una
cellula mammaria di una pecora adulta e successivamente la trasferirono in un ovulo privato del
suo nucleo. Quest’ultimo fu in seguito trapiantato nell’utero di una terza pecora che ha dato alla
luce la famosissima Dolly.
Le tecniche utilizzate per la nascita di Dolly evidenziarono alcune novità nel campo degli studi
fino ad allora condotti in materia di clonazione. Anzitutto si trattò non di una scissione gemellare
ma di un’innovazione radicale che consentiva per la prima volta di parlare a tutti gli effetti di
clonazione, si era realizzata, infatti, una riproduzione asessuale e agamica (priva dell’utilizzo
delle cellule sessuali degli organismi animali) volta a produrre individui biologicamente uguali
all'individuo adulto, fornitore del patrimonio genetico nucleare.
Inoltre, fino a qual momento si era ritenuto che questo tipo di clonazione vera e propria fosse
impossibile: si credeva che il DNA delle cellule somatiche (n.b. :del corpo) degli animali
superiori, essendo ormai differenziate, non potesse più recuperare la totipotenzialità originale e,
conseguentemente, la capacità di guidare lo sviluppo di un nuovo individuo.
“Le questioni etiche”
A differenza di altri temi suscitati dallo sviluppo scientifico, le opinioni riguardo le
problematiche etiche della clonazione non presentano sostanziali divergenze.
Fa eccezione la posizione della Chiesa cattolica che direttamente con la voce di Papa Giovanni
Paolo II fece sapere la propria avversità a qualsiasi forma o tipo di clonazione anche nel caso di
un buono scopo.
Per tale motivo e possibile riassumere le varie argomentazioni dividendole, per una maggiore
chiarezza, solamente tra quelle riguardanti la clonazione animale e vegetale e quelle inerenti
l’uso di essa per l’uomo.
Si ritiene comunemente che le pratiche di clonazione animale e vegetale possono essere
accettate, a condizione che:
1. siano chiarissimi gli intenti volti a realizzare un adeguato bene umano e ambientale, in
particolare terapeutico e comunque non riducibile esclusivamente in termini di lucro
commerciale;
2. gli animali sui quali si esperimenti non siano sottoposti a sofferenze non giustificate e non
proporzionate al bene da realizzare;
3. non implichino attentati o rischi per la biodiversità.
Per quanto riguarda i problemi della pratiche di clonazione per individui umani si ritiene che
possono essere considerati leciti gli interventi a carico del genoma umano (l'intero patrimonio
genetico di un organismo vivente; si può paragonare ad un'enorme enciclopedia in cui sono
contenute le istruzioni che regolano lo sviluppo e il funzionamento dell'organismo.), che abbiano
finalità terapeutica e le tecniche biologiche che abbiano per obiettivo non la clonazione di un
essere umano, ma quella di tessuti o di singoli organi e che abbiano una chiara finalità
terapeutica.
Sorgono difficoltà di una rilevanza maggiore nel momento in cui si considera la clonazione
riproduttiva di un intero individuo o di clonazione terapeutica.
Nel caso della clonazione di un intero individuo la pratica potrebbe rientrare nel progetto
dell'eugenismo e quindi essere esposta a tutte le osservazioni etiche e giuridiche del caso.
La clonazione, secondo la maggioranza delle opinioni, costituisce una radicale manipolazione
della costitutiva relazionalità e complementarietà di uomo e donna che è all'origine della
procreazione umana, sia nel suo aspetto biologico sia in quello propriamente personalistico.
Proseguendo sulle ipotesi aperte da questa osservazione ci si imbatte nel fatto non trascurabile
che le moderne tecnologie dischiudono la prospettiva di ricerca verso la possibilità di costituire
uteri artificiali, ultimo e decisivo passo per la costruzione « in laboratorio » dell'essere umano.
Inoltre, dal punto di vista etico, la clonazione, sia terapeutica che non, potrebbe far si che il corpo
umano cominci ad essere visto come una macchina composta da pezzi adibiti alla ricerca
scientifica contribuendo in tal modo a quella che è stata chiamata “medicalizzazione della vita”.
Sicuramente la clonazione umana potrebbe avere forti risvolti anche in relazione alla dignità della
persona clonata, venuta al mondo in virtù del suo essere « copia » (anche se solo copia biologica)
di un altro essere.
“La legislazione”
Nel tentativo di mettere ordine ai problemi suscitati dal continuo sviluppo scientifico nel campo
della clonazione diversi sono stati i provvedimenti legislativi adottati nello scenario della politica
mondiale:
- Luglio 1997: il G7 ha vietato qualsiasi esperimento di clonazione umana.
- Dicembre 1998: il governo inglese rende nota l’intenzione di autorizzare l’uso di embrioni
umani a scopo terapeutico; secondo alcuni esponenti della comunità scientifica, le cellule
embrionali potrebbero sostituire cellule danneggiate o essere stimolate a produrre tessuti
con cui sostituire quelli lesionati in caso di patologie come l’artrite reumatoide, il morbo
di Parkinson o il morbo di Alzheimer
- Dicembre 1998: in Italia con un’ordinanza del Ministero della Sanità si vieta la produzione
di embrioni umani finalizzati a sperimentazione; il divieto non è valido per la clonazione
di organismi transgenici, utilizzati per la produzione di farmaci salvavita.
- Agosto 2000: la commissione scientifica, nominata dal governo inglese ha dato parere
favorevole alla clonazione di embrioni umani per creare organi di ricambio. Qualche
settimana più tardi anche gli Stati Uniti hanno permesso la ricerca su embrioni umani per
la cura di malattie gravi.
- Febbraio 2002: il Parlamento britannico ha concesso l'autorizzazione definitiva alla ricerca
scientifica sulla clonazione di embrioni umani a scopo terapeutico e alla costituzione
della prima banca mondiale di cellule embrionali.
- Febbraio 2004: con la legge 40/2004 in Italia si vietano “interventi di clonazione mediante
trasferimento di nucleo o di scissione precoce dell'embrione o di ectogenesi sia a fini
procreativi sia di ricerca”.
Allo stato attuale la clonazione umana con finalità riproduttiva è vietata per legge negli Stati
Uniti e nell’Unione Europea ed è stata respinta da tutti gli organismi internazionali (Consiglio
d’Europa, Parlamento Europeo, OMS, UNESCO)
All'interno dei singoli Paesi, tuttavia, tranne pochi casi, non esistono, allo stato attuale, normative
che sanciscano precise sanzioni al divieto di clonazione.
La filosofia e i suoi eroi
L'eutanasia
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Ben lungi dall'esser l'uomo a rendere comprensibile il mondo, è proprio l'uomo l'essere più
incomprensibile. (Schelling)
A cura di Pasquale Antonio Riccio
La parola “eutanasia” deriva dal greco antico e significa "buona morte", “dolce morte” (eu =
“buona” e thanatos = “morte”).
L’eutanasia è comunemente intesa come l’azione volta a liberare da dolori intollerabili il morente
provocandone la morte.
Se la morte è provocata su più individui l’eutanasia è detta “collettivistica”, se si tratta di un
singolo individuo è chiamata “individualistica”.
L’eutanasia “individualistica” è quella più conosciuta dal senso comune in quanto è proprio la
conoscenza di casi di tale natura che ha contribuito a sviluppare il moderno dibattito intorno al
problema della buona morte.
Questa forma di eutanasia si distingue in:
- eutanasia attiva: la morte di una persona è causata da un comportamento attivo;
- eutanasia passiva: la morte di un individuo è provocata da un comportamento passivo o
omissivo, il quale può essere consentito dal paziente oppure essergli sconosciuto e deciso
dai medici o dai parenti dello stesso. Per questa ragione si parla di eutanasia passiva
consensuale ed eutanasia passiva non consensuale.
Attualmente i criteri per definire un’azione come eutanasia possono riassumersi secondo il
seguente schema:
- Si tiene conto dell’obiettivo primario da parte di chi la pratica di estirpare la sofferenza
procurando la morte al malato. A questo proposito, si precisa che non deve essere considerata
eutanasia una cura palliativa, anche se dovesse come effetto secondario e non voluto avvicinar
ela morte del paziente (in casi del genere si parla di eutanasia indiretta).
- È accertata la somministrazione di sostanze tossiche mortali o la non dovuta assistenza medica.
- Il suicidio non è considerato una forma di eutanasia.
- In presenza della richiesta fatta da chi intende morire, gli aiuti o la cooperazione al suicidio
sono considerati forme di eutanasia.
L’eutanasia collettivistica, invece, si può riferire all’azione con cui vengono eliminate persone
portatrici di handicap per migliorare la qualità della razza (si parla di eutanasia eugenia), oppure
agli atti con cui sono soppresse persone anziane o comunque inutili nel processo economico per
favorirne altre socialmente più utili (si parla di eutanasia economica).
Nel lessico riguardante l’eutanasia si è da qualche anno fatto strada il termine “living-will” o
“testamento biologico”: esso indica il documento che consente ad ogni individuo di scegliere per
iscritto come e se vorrà essere trattato quando non potrà essere lui stesso a dare il consenso, nel
caso le sue condizioni fossero irreversibili. I “living-will”, infatti, hanno valore giuridico.
“Un po’ di storia”
Si hanno notizie di pratiche simili all’eutanasia sin dall'antica Grecia. Qui, così come a Roma, in
determinate situazioni era possibile praticarla. Successivamente, il prosperare delle grandi
religioni monoteistiche, le quali tra i cardini delle loro morali avevano e hanno la sacralità della
vita umana, fece si che l'eutanasia fosse ritenuta un’azione moralmente inaccettabile. Questa
condanna divenne in seguito legale, trovando prima un'enunciazione nelle norme morali e quindi
negli ordinamenti giuridici della quasi totalità degli stati.
Il termine “eutanasia” venne introdotto nel linguaggio medico dal filosofo inglese Francesco
Bacone, agli inizi del secolo XVII, ma la situazione cominciò a mutare nella prima metà del XX
secolo culminando nella fondazione di alcune associazioni che promuovevano la
“liberalizzazione” dell’eutanasia individualistica.
Ciò avvenne nel 1935 in Gran Bretagna e nel 1938 negli Stati Uniti d'America.
Gli anni citati sono da tenere a mente poiché rappresentano l’avvio di un consenso cresciuto
esponenzialmente e che ha portato in alcuni paesi occidentali ad un clima tale da consentire delle
aperture legislative nei confronti dell'eutanasia passiva consensuale e non consensuale.
In Italia i principi religiosi del cristianesimo e i valori morali dominanti, tradizionalmente vicini
al credo cattolico, hanno favorito lo sviluppo di una legislazione che ha di fatto equiparato
l'eutanasia all'omicidio, tuttavia è opportuno precisare che Papa Pio XII si espresse a favore di
quella che oggi è definita “terapia del dolore”, ossia un trattamento volto al controllo dei
sintomi e non alla cura della patologia di base che, evidentemente, non è più guaribile. La terapia
del dolore si effettua tramite somministrazione di analgesici di natura oppiacea, in pazienti non
più guaribili in cui i sintomi della malattia comportino sofferenze-fisiche e psicologiche –
insopportabili.
In Olanda, invece, da tempo è possibile optare per l'eutanasia passiva o suicidio assistito ed il
dibattito sulla liceità dell’eutanasia attiva si arricchisce giorno dopo giorno di nuovi interventi.
Un caso simile questo è quello dell’Australia.
“Le questioni cruciali”
Gli interrogativi riguardanti questa delicatissima pratica sono aumentati di pari passo con
l’aumento delle capacità della tecnica, la quale ha consentito la realizzazione di strumenti in
grado di sostituire le funzioni vitali di un individuo.
È evidente che nel momento in cui a funzionare sia solo l’apparato organico dell’individuo e non
quello cosciente sorge il problema se abbia maggiore importanza la vita biologica ( vita
dell’organismo ) o la vita biografica.
A tale proposito, come comportarsi nel caso dei bimbi anencefalici? Cosa dire di coloro che sono
affetti da malattie a carattere degenerativo? Ad esempio: il malato di Alzheimer, il quale si
allontana pian piano dal una propria autocoscienza può essere forse considerato meno in vita di
un individuo sano?
Questi interrogativi mostrano pienamente l’intrigo della questione riguardante l’eutanasia.
Tuttavia, rispetto alle ovvie risposte che fornisce un pensiero collegato alla sacralità della vita
propria della religione cattolica ( l’eutanasia non va applicata in nessun caso ), ad essi ha cercato
di dare nuove risposte la corrente utilitarista.
Essa promuove una teoria improntata sul concetto di qualità della vita, rispetto al quale si
stabilisce il valore di un’esistenza. Per cui non solo le vite degli individui in stato di coma
irreversibile, ma anche di quelli in stato vegetativo persistente o dei neonati con gravi
malformazioni non hanno alcun valore in sé.
Le definizioni di vita e di morte si intrecciano con gli importanti i problemi sollevati
dall’esigenza di trovare un comportamento condiviso per i medici che entrano a contatto con
individui che non presenta alcuno stato di coscienza e quindi non possono esprimere alcun
consenso in merito alle terapie da seguire o alla soluzione drastica di interruzione delle cure.
Ancora una volta entra in gioco la tecnica con i suoi strumenti: la constatazione, attraverso
l’elettroencefalogramma ( EEG ), della assenza di attività cerebrale, sembra mettere tutti
d’accordo sul fatto che ci si trova di fronte a qualcosa di molto distante da un individuo vivo.
Non costituisce dunque reato per i medici dare luogo alla sospensione dell’alimentazione e
dell’idratazione artificiale, avendo constatato regolarmente la morte cerebrale.
A questa argomentazione gli avversari dell’eutanasia introducono l’argomento del “pendio
scivoloso”: consentire l’eutanasia vuol dire imboccare una strada dalla quale sarebbe poi molto
difficile deviare.
Affermano che dall’eutanasia di individui incoscienti si potrebbe giungere in seguito
all’eutanasia di portatori di malattia neurologiche a carattere degenerativo e alla soppressione di
embrioni portatori, ad esempio, del morbo di Huntngton ( che non si manifesta prima dei 40 anni
). Si riconsegnerebbe ai medici uno strapotere assai pericoloso, rispetto a cui solo loro e i loro
mezzi tecnici sarebbero in grado di dire la verità sulla vita morente e nascente.
I sostenitori dell’eutanasia obiettano a queste considerazioni con l’idea e la convinzione che un
buon apparato giuridico consentirebbe di evitare l’imbocco di strade scivolose.
La filosofia e i suoi eroi
Il Valore dell’assistenza tecnica nella Fivet
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Il cammino della storia non è quello di una palla da biliardo, che segue un’inflessibile legge
causale; somiglia piuttosto a quello di una nuvola, a quello di chi va bighellonando per le strade,
e qui è sviato da un’ombra, là da un gruppo di persone o dallo spetta colo di una piazza barocca,
e infine giunge in un luogo che non conosceva e dove non desiderava andare (R. Musil).
A cura di Cristiano Turbil
In questo piccolo lavoro, si ha intenzione di analizzare la posizione che ha la tecnica in un
determinato campo dell’agire umano.
Partendo dalle riflessioni sul referendum del giugno dell’anno passato, sulla procreazione
assistita (omologa ed eterologa), in cui la tecnica ha un ruolo chiave nel processo di
inseminazione e nella fecondazione dell’ovulo (omologa ed eterologa in vitro), si ha intenzione
di indagare se l’intervento tecnico, nello specifico della questione, sia un entità negativa o
positiva.
Si ha intenzione di condurre questa analisi partendo dal presupposto, che l’inseminazione
artificiale sia un mezzo utile e positivo per l’uomo, in quanto permette la nascita di un figlio, che
solitamente è sempre una gioia per i genitori, essendo loro stessi a volerlo, a maggior ragione
cercandolo con l’ausilio della medicina.
La questione specifica è se la tecnica in questa determinata situazione sia un mezzo positivo o
negativo, nel caso specifico della procreazione assistita in vitro, in cui tutto il processo di
fecondazione e inseminazione è realizzato in modo “non naturale”[1]. Dove per naturale si
intende tramite un rapporto sessuale tra i due “genitori”[2].
Ora si tratterà in breve cosa si intende per fecondazione assistita in vitro. Va premesso che la
fecondazione in vitro (o Fivet) oltre alla sostituzione del rapporto sessuale avviene totalmente in
provetta, ovvero viene realizzata unicamente tramite il mezzo tecnico. Essa può essere omologa
oppure eterologa, per omologa si intende che il corredo genetico proviene interamente dai
genitori naturali e legali del bambino, mentre nel caso dell’ eterologa proviene solo da uno dei
due genitori legali del bambino e da una terza persona.
La fecondazione è un processo che interviene a sostituire alcune parti del processo procreativo,
nei casi in cui la procreazione naturale è manchevole per taluni aspetti.
Originariamente la fecondazione assistita era definita fecondazione artificiale in quanto si
credeva che il mezzo artificiale sostituisse completamente alcune parti della procreazione, oggi
essa ha assunto il nome di assistita , in quanto si è arrivati alla conclusione che gli elementi del
processo di procreazione restano naturali e il mezzo tecnico fornisce solo una semplice assistenza
al intero processo.
La tecnica come abbiamo visto poco fa, nella procreazione assistita assolve al ruolo di mezzo che
assiste il processo naturale, la questione che mi ero posto all’inizio era se la tecnica fosse , in
questo specifico caso, un entità positiva o negativa.
La prima risposta che posso dare alla domanda è certamente positiva, partendo infatti dalla
considerazione che la gioia di avere un figlio anche per coppie sterili è certamente un
avvenimento oltremodo felice. La tecnica che permette questo avvenimento non può che essere
anch’essa una cosa positiva, in quanto produce felicità.
La questione però non è cosi semplice, si potrebbe infatti obbiettare che la tecnica snaturalizza un
processo sacro e inviolabile come la procreazione (posizione cristiano cattolica) , oppure che la
tecnica è la scienza senza controllo possano riportare in vita partendo dal loro DNA personaggi
negativi del passato come ad esempio Hitler (eugenetica).
La prima obiezione, può essere articolate in questo modo, si ritiene infatti che l’attività
procreativa non sia uno strumento unicamente umano, ma altresì sia un dono divino, che viene
fatto all’uomo e di cui l’uomo non può avere il libero uso; da qui la posizione cattolica dell’
”inscindibilità” che ha come imperativo categorico la sacralità della vita umana.
Questa posizione obbiettivamente va ha posizionare la tecnica nel suo significato più negativo,
senza considerare quali potrebbero essere i risvolti positivi che producano felicità nel suo
utilizzo. Infatti partendo dal pregiudizio che ogni procreazione diversa da quella naturale sia
negativa non si considera minimamente quale sia il risvolto pratico ed empirico e la felicita che
potrebbe produrre l’assistenza tecnica.
A questa concezione della sacralità della vita, vorrei contrapporre l’utilitarismo.
L’utilitarismo, é un etica sviluppatasi nell’ottocento da Jeremy Bentham in un opera intitolata
Introduzione hai principi della morale e della legislazione del 1789, poi sviluppata da John
Stuard Mill in un opera del 1863 intitolata con l’omonimo titolo Utilitarismo. L’utilitarismo è un
etica conseguenzialista che prescrive di agire (ovvero compiere una determinata AZIONE) in
modo da massimizzare il bene risultante dalla suddetta azione. Quest’etica tende ad operare su un
piano distaccato da quello fede, perché si occupa principalmente solo dei risvolti pratici delle
azioni umane. Quindi rispetto alla dottrina cattolica non è legata a nessun “pregiudizio culturale”.
Come mostra la definizione, per un utitalitarista la nascita prodotta da Fivet non può che essere
una cosa moralmente corretta in quanto anche se non è un procedimento completamente naturale
si compie un AZIONE(assistenza tecnica) che porta come fine un incremento della felicità,
almeno nel caso della famiglia del bambino.
Per quanto invece riguarda la seconda obbiezione, ovvero la possibilità di una perdita di controllo
sul mezzo tecnico, essa non ha ragione di essere considerata nella misura della mai presente
analisi , ovvero va ad entrare in una serie di problemi relativi al controllo della ricerca. L’unica
osservazione possibile che si potrebbe fare è relativa al fatto che finché la tecnica assolve
unicamente al ruolo di “assistente” al processo naturale essa non può che avere un risvolto
positivo, mentre in tutti i casi in cui questa assistenza si modifica in qualcosa di artificiale o
artificioso ritengo che la validità e positività dovrebbe essere controllata empiricamente caso per
caso da apposite commissioni.
In conclusione, non si può che osservare che il mezzo tecnico, almeno rispetto all’elementare
analisi che ho compiuto in questo lavoro, assolve ha un ruolo positivo , anche perché resta
rilegato alla natura di semplice mezzo, ovvero semplice assistente al processo naturale. Le
riflessione lascia alcuni punti aperti ovvero la tecnica e positiva anche quando essa diventa il fine
e non solo più il mezzo, o altresì è lecito porre come fine la tecnica? Tutti questi interrogativi non
possono avere una semplice risposta, in quanto le variabili in gioco non riguardano solo più la
semplice felicita di una famiglia, ma si spostano su un piano molto ampio, in cui scienza,
sociologia ,religione, cultura e filosofia dibattono ancora tutt’oggi. La tecnica non ha una valenza
ne positiva ne negativa, il suo valore credo, sia subordinato hai microscopici casi in cui è
considerata, come appunto può avere un valore positivo nella procreazione assistita[3].
[1] Verrà poi spiegato in seguito che il processo è naturale ma assistito dalla tecnica.
[2] Il termine genitori è stato inserito virgolettato, perché nel senso comune solitamente si intende
genitori come la coppia che oltre a generare il bambino si occuperà anche del suo mantenimento
e della sua educazione, ovvero oltre ad essere i genitori naturali assolvono anche al ruolo di
genitori legali. Questo però non è sempre vero, ad esempio nella fecondazione eterologa uno dei
due genitori legali non possiede la capacita di procreate, quindi viene chiesto l’intervento di una
terza persona, che assolverà solo al ruolo di genitore naturale, e non anche a quello di genitore
legale.
[3] Per la realizzazione di questo lavoro sono stati utilizzati come fonti i seguenti testi:
 M. Mori ,Bioetica , 10 temi per capire e discutere , Bruno mondatori editore 2002
 C. Flamini M. Mori , Le ragioni dei quattro si, “i libri di diario” maggio 2005
 Mary Warnock, Fare bamini , Einaudi 2004
 P. Singer, Ripensare la vita , Il saggiatore
La filosofia e i suoi eroi
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