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Eutanasia: il problema della definizione terminologica
Per eutanasia s’intende l’azione od omissione, compiuta da un terzo e deliberatamente intesa alla
soppressione di una vita umana allo scopo di porre fine alle sofferenze.
Questa definizione sgombera il campo da una serie di equivoci che nel dibattito si situano al livello del
significato stesso del termine: ambiguità talvolta dettate da intenti ideologici, come ad esempio dal bisogno
di giustificare gli atti “omissivi” , sostenendo la tesi che essi sarebbero comportamenti in sè stessi privi di
significato sul piano etico e giuridico. Altre volte, la difficoltà è insita nella natura stessa della condotta
eutanasica la quale - a differenza di altri problemi tipici della bioetica, come ad esempio l’aborto o la
fecondazione artificiale - richiede una riflessione approfondita già nella fase introduttiva della discussione,
cioè in quella della definizione.
Dunque, per potersi configurare un’ipotesi di eutanasia, è necessario analizzare non soltanto gli elementi
oggettivi della condotta, ma ricercare gli scopi dell’atto: soltanto dall’analisi contestuale di questi due
momenti dell’azione umana, può scaturire la definizione di un fatto come eutanasico. Tutto questo può
essere altrimenti espresso ricordando che l’eutanasia è una condotta che si situa innanzitutto sul piano delle
intenzioni.
Nell’ambito delle classiche catalogazioni delle condotte riconducibili nella categoria “eutanasia”, una prima
distinzione è quella che viene riassunta nella triade:
- Volontaria: Quando la richiesta di morte viene chiaramente espressa dal paziente, contestualmente o
precedentemente all’insorgere della sofferenza
- Non volontaria: Quando la richiesta di morte non sussiste, e le persone che hanno in cura il paziente
presumono che, ove egli potesse esprimersi, la richiederebbe
- Involontaria: Quando la richiesta non sussiste, e la decisione è assunta a prescindere dagli orientamenti
anche presunti del paziente, ma in considerazione di un bene superiore di carattere utilitario e collettivo
Più in dettaglio, possono essere elencate le seguenti ipotesi di eutanasia:
a. su richiesta attuale
b. su richiesta differita
c. per motivi pietosi in assenza di richiesta
d. per motivi eugenetici su neonati
e. per motivi “di principio”: (come ad esempio la distinzione tra vita biologica e vita anagrafica; il rispetto della
libertà di scegliere anche il momento e le modalità della propria morte; la necessità di preservare la propria
dignità; l’assoluta insignificanza del dolore)
f. per motivi economico-sociali
Tra le definizioni, la più controversa e contestabile è quella che contrappone eutanasia attiva ad eutanasia
passiva: soltanto la prima ipotesi sarebbe una vera forma di uccisione, mentre nel caso in cui la morte
derivasse da atti omissivi (astensione da determinate cure) essa dovrebbe essere tout court paragonata ad
un decesso per cause naturali. Questa distinzione è frutto di un vero e proprio sofisma, che sembra ignorare
come l’uomo possa compiere il male anche semplicemente astenendosi dal compiere un proprio dovere: un
medico che si astenesse dal fornire la necessaria nutrizione ad un paziente ricoverato per un intervento
routinario sarebbe perseguito penalmente per omicidio volontario; ne deriva che può configurare un atto
eutanasico di pari rilevanza tanto un comportamento attivo, quanto una condotta passiva. La discussione,
semmai, deve vertere intorno alla sostenibilità giuridica e morale della scelta eutanasica nel suo complesso,
senza comode scorciatoie che facciano leva sulla distinzione tra attivo e passivo.
E’ inutile nascondere che, in tutto questo dibattito, il dolore e la sofferenza avranno un ruolo determinante. In
assenza di sofferenza, perfino i più accaniti fautori dell’eutanasia riconoscono il venir meno del presupposto
fondamentale per rendere legittima la richiesta di “buona morte”. Qui basterà anticipare alcuni problemi che,
pur apparendo di respiro meramente filosofico, hanno in realtà una rilevanza giuridica fondamentale:
a) la sofferenza è impossibile da circoscrivere in maniera dettagliata (che cosa è sofferenza? solo il dolore
fisico? oppure anche il dolore psichico? )
b) la sofferenza è impossibile da misurare in termini quantitativi universalmente validi (chi può misurare i
dolori? quando un dolore è insopportabile? chi “soffre di più”?)
c) la sofferenza di cui si parla in questa materia è spesso non percepita dal soggetto ammalato, che può
trovarsi in stadi della malattia o in fasi cronicizzate in cui la sua capacità d’intendere e di volere è - o almeno
appare stanti le attuali conoscenze - irrimediabilmente smarrita. In questi casi, la sofferenza è semmai
vividamente patita da coloro che assistono il paziente. Dunque, quali soggetti dovranno essere rilevanti ai
fini del dolore non più sopportabile patito da parenti, amici, personale medico? In altre parole: se la
sofferenza di terzi soggetti è una delle molle più rilevanti per innescare la richiesta di eutanasia, chi dovrà
dire con pieno titolo giuridico: “a questo punto è meglio staccare la spina?”
Questi problemi rappresentano soltanto una parte dei molti ostacoli “tecnici” che sifrappongono tra le istanze
di legalizzazione e la stesura di un testo normativo coerente e completo che renda di fatto lecito l’omicidio
per motivi pietosi.
[Prof. Mario Palmaro
Istituto di filosofia del diritto Università degli Studi di Milano]
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