Essere prima di poter essere. Spunti ontologici nell’ultimo Schelling 1. Sarò chi voglio. Richiesto da Mosè di qualificarsi, il Dio biblico si battezza ontologicamente con quell’«io sono colui che sono» (Es 3, 14) in cui il secondo Schelling vede non una risposta ironicamente ed evasivamente tautologica, ma la futurizione e la libertà metaontologica proprie dell’assoluto inteso non come sostanza ma come «pura relazione» (SW X: 260) o newtonianamente come dominatio, come ciò la cui indipendenza dall’essere non andrebbe mai confusa con una provvisoria incompletezza. Per Dio essere è dunque poca cosa, e infatti, se già il merito dell’uomo non sta mai nell’essere semplicemente, nel perseverare in ciò che già è, bensì nel separarsi dal proprio essere, innalzandosi a qualcosa di intellettualmente e moralmente superiore, a maggior ragione ciò dovrà valere per Dio come causa libera e intelligente, dalla cui definizione di “Signore dell’essere” si ricava anzi che limita l’essere, assoggetta il reale all’ideale e, comunque, è sempre in grado di sciogliersi dall’«incantesimo dell’essere» (SW X: 266). Di più: prima di trovare il proprio fine e riposo nell’uomo (originario), Dio abbandonerebbe l’essere al suo divenire naturale dall’inconscio al conscio, condannandolo, a causa dell’oscillazione tra essere e non-essere, a un vero e proprio Schmerzensweg, in cui infatti la creatura trova «doloroso tanto essere quanto non-essere, tanto portare le catene dell’essere quanto non portarle» (SW X: 267). Se «la vera realtà suprema consiste in ciò, nell’essere essente e restare potenza dell’essere», e se «chi corre il pericolo di perdersi nell’essere non è libero» (SdW: 132), se libero significa dunque poter-essere altro, oggettivarsi in forme diverse restando tuttavia soggetto, e cioè non identificandosi in nessuna di esse, libero in senso proprio sarà allora solo Dio appunto in quanto sopraessente e sopraesistente. Del resto, dicendo “sono colui che sono”, o meglio «sarò colui che sarò», il “Signore dell’essere” non intende affermare né che diverrà ciò che in qualche modo già è (non dice, infatti, “io sarò colui che sono”), né che resterà quel che già è (non dice, infatti, “io sono colui che sarò”), bensì che sarà tutto ciò che vorrà essere1, ossia quella volontà priva d’oggetto e quindi assolutamente trascendente oltre che assolutamente libera in cui consiste infatti il nome JHWH, formato non per caso da «puri soffi» impronunciabili (SW VIII: 272-3). Questa futurizione ontologica è ovviamente correlata alla convinzione secondo cui ciò che si rivela è sempre un prodotto e non qualcosa d’immediato, implica cioè un fondo su cui e in cui manifestarsi. Ne conseguirà che il vero Dio non è il primo Dio, quello originario e solo relativamente unico che precedette la differenziazione mitologica, ma solo il secondo, assolutamente unico perché divenuto, innalzatosi sul “fondo” di quello arcaico, naturale e immemoriale (el olam, Elohim) grazie alla separazione dal contenuto immediato della coscienza, la quale infatti solo ora, emancipatasi dall’iniziale stordimento religioso, può chiamare Dio per nome (JHWH appunto). Ora, se però l’ontoteologia schellinghiana fosse tutta qui, oppure se la valorizzassimo solo perché, in apparente antitesi alla millenaria tendenza giudaico-cristiana (Heidegger compreso) a identificare Dio con l’essere, sembra talvolta incline a pensare Dio come l’essente (das Seyende) piuttosto che come l’essere (das Seyn) – visto che con “essere” s’indicherebbe solo l’astrazione di un’astrazione, qualcosa di tanto inconcepibile di per sé quanto «il bianco senza qualcosa di bianco» (SW X: 215, n.)2 –, faremmo comunque ben poca strada. Lasciamo quindi, provvisoriamente, questa 1 Cfr. J.-F. Courtine, Estasi della ragione. Saggi su Schelling, trad. it. a cura di G. Strummiello, Milano 1998, pp. 258-9. 2 Ibid., pp. 253 sgg. rapida anticipazione di alcuni dei temi ontoteologici di Schelling, che possiamo fin da ora reputare fondati su tacite ipostatizzazioni e spregiudicati usi linguistici, ambiguità semantiche e interferenze assiologiche eticamente e antropologicamente connotate, per partire da capo, vale a dire da una più complessiva discussione del suo ruolo nella storia dell’ontologia. 2. La verità: non dentro ma fuori. Per mitigare la legittima sorpresa suscitata dall’inserimento di Schelling tra gli ontologi di rango non basterà certo rammentare la sua costante critica intuizionistica al logicismo, converrà sottolineare piuttosto quella drammatica apertura del vecchio filosofo alla realtà che, com’è noto, generò fin troppe aspettative tra gli antihegeliani e gli hegeliani di sinistra (Kierkegaard, Bakunin ed Engels su tutti), i quali si attendevano da colui che si auspicava una filosofia efficace in quanto aderente alla realtà un’analisi critica dello Stato e della Chiesa e non certo una filosofia del mito e della rivelazione, i quali inoltre, come Kierkegaard ammette, gioivano al solo sentir nominata la parola “realtà” e ben presto si scoprirono delusi se non ideologicamente truffati. Si tratta del passaggio dalla dottrina della scienza alla scienza vera e propria, ossia dal mero movimento del concetto, caratteristico di quella filosofia che ora definisce “negativa” (filosofia, in certo qual modo ancora trascendentale, del “che cosa”) e in cui arruola ogni altra filosofia (compresa la propria), alla filosofia “positiva” intesa come filosofia del “che”, come quell’esperienza “superiore” della realtà – un aggettivo da cui dipende ovviamente ogni eventuale applicabilità di tale dottrina in un ambito fenomenologico extrateologico – che fu solo incoativamente presente nella giovanile filosofia della natura3, e secondo la quale «ogni oggetto [dovrebbe] venir spiegato a partire da se stesso», in modo «che possano essere trovate e scoperte con e in esso tutte le ragioni genetiche del suo divenire e nascere» (SW XII: 671), in modo, detto altrimenti, che ogni svolgimento (che sia delle figure naturali o di quelle mitologiche) si mostri indipendente dal volere e dal pensare dell’umanità. Che si voglia definire “storica” o “positiva” o magari “empiristica” la sua ultima filosofia, quel che è chiaro è che essa tematizza una forza attiva responsabile dell’intero movimento ontologico, ancorché irrimediabilmente anteriore, se non del tutto opposta, alla ragione, promuovendo un “empirismo filosofico” secondo cui il filosofo, lungi dall’avere benefici dalla ritrazione interioristica e/o trascendentale, pensa solo in seguito alla diretta intuizione di ciò che veramente esiste, anzi solo se abbandona il proprio luogo e si pone fuori di sé, se si desoggettivizza in una condizione di non-sapere in cui convergono istanze non meno realistiche che mistiche. Nulla di strano, allora, nel fatto che Schelling dia il benservito all’ontologia e alla metafisica scolastica (quella di Wolff, per capirci), declassata a disordinata e incompleta «raccolta di definizioni» che, scimmiottando il «metodo geometrico», crede di «possedere quei concetti di per sé e indipendentemente dagli oggetti», inconsapevole del fatto che «per la vera scienza, per la scienza che incomincia dal principio, gli oggetti [devono] essere tanto a priori quanto i loro concetti» (SW X: 63). Le spetterebbe tutt’al più un’utilità meramente propedeutica, per il fatto che, come «filosofia meramente ragionante, razional-soggettiva», essa «concede nello stesso tempo una certa libertà di pensiero e di uso dell’intelletto, la quale potrebbe avere un effetto tanto più benefico, in quanto questa maniera di filosofare è la sola conforme e adatta alla grande maggioranza delle persone» (SW X: 71), meritandosi peraltro giustamente, come anodina filosofia di senso comune, il severo disprezzo delle filosofie successive, più personali e scientificamente avvertite. Un’occasione in più per Schelling per denunciare l’insufficienza di ogni sistema che riduca «tutto a meri rapporti razionali ed esclude libertà e personalità», che ci ammannisca «un sapere in cui il pensiero non si eleva mai al di sopra di sé e progredisce unicamente all’interno di se stesso, laddove 3 Che sarebbe allora una parte della filosofia positiva, poi integrata dal passaggio alla processualità «anche nel mondo spirituale o storico» (GpP 1832/3: 467). noi esigiamo di elevarci al di sopra del pensiero, per essere liberati dal tormento del pensiero da ciò che è superiore al pensiero» (SW X; 168-9). Il che significa che, non diversamente dall’uomo comune, anche il professionista del pensiero ravvisa nel pensiero (astratto) un autentico tormento, «uno stato rarissimo, passeggero, anzi uno stato innaturale» (SW X: 10), da cui converrebbe allontanarsi quanto prima, tanto più che «ciò di cui l’uomo ha bisogno non è di porsi dentro se stesso, ma di porsi fuori di sé» (SW IX: 229-30). 3. Può un idealista avere un’ontologia? Che la verità sia all’esterno e non all’interno del soggetto è considerazione che non può però valere per il primo Schelling, il cui rifiuto trascendentalista del dogmatismo che fa dell’essere qualcosa di originario e il conseguente movimento dal sapere (massimamente dall’autocoscienza) come condizione di possibilità all’essere lo inducono, da un lato, a respingere ogni presunta oggettualità dell’io assoluto, cioè dell’incondizionato principio della materia e del pensiero, e dall’altro a identificarlo però con l’essere, perché, se «tutto ciò che è (nel senso proprio della parola è), è solo in virtù della direzione a se stesso» (SW I: 369), ossia identità autoriferita, sarà “essere” (Sein) solo l’io inobbiettivabile, in quanto è l’assoluto esser-posto datosi a se stesso nell’intuizione intellettuale, e non certo il mondo fenomenico, condizionato e non diretto a se stesso, dotato soltanto di “esistenza” (Dasein) e quindi poco al di sopra del singolo fenomeno, che non ha se non “realtà effettiva” (Wirklichkeit). Questa prima differenziazione ontologica va però incontro a una prima revisione nel momento in cui al principio dell’io subentra quello di uno spirito (Geist) che diviene incessantemente. L’ “azione” si rivela qui ontologicamente superiore alla “cosa”, nel senso che, poiché «qualsiasi riempimento dello spazio è solo un grado dell’attività, e ogni cosa soltanto un grado determinato di attività con il quale lo spazio viene riempito» (SW III: 375), una modificazione di un’attività variamente limitata, al mondo oggettuale non spetterà che una realtà derivata e meramente conferita4. Se c’è un essere in senso proprio, questo non sarà allora «nient’altro che una continua-efficace attività della natura, che è estinta nei suoi prodotti» (SW III: 13), un «essere eternamente in lotta e mai essente» (SW IX: 27), rispetto al quale l’essere come permanenza non è se non illusione (il che spiega anche il perché del miracolo dell’arte come unica sensibilizzazione possibile dell’essere come assoluto inoggettivabile). Ma nel volgere di pochi anni, nella cosiddetta filosofia dell’identità, l’essere assoluto, inteso come“identità assoluta”, ridiventa un immutabile estraneo a qualsiasi divenire, in perfetta corrispondenza con una ragione desoggettivizzata e assurta a modalità con cui l’identità assoluta conosce se stessa. Ne consegue che ogni ente sarà identità assoluta se assolutamente considerato (nella sua essenza), ma unicamente un conoscere dell’identità assoluta se relativamente considerato (nella sua forma). Di più: non essendo altro che una mera differenza quantitava di soggettivo e oggettivo all’interno di un Indifferenzpunkt, un elemento di una serie causal-temporale condannata alla cattiva infinità perché costituita da elementi “finiti all’infinito”, svincolati dall’assoluto e che solo per un’illusione prospettica risultano ontologicamente causa ed effetto di altro da sé, il singolo ente non avrebbe a rigore neppure un vero essere. Ne risulta che, mentre sul piano dell’archetipo si ha un autentico collasso delle categorie ontologiche (le idee valgono infatti qui come universa e come dèi mitologici, caratterizzate dalla coincidenza di particolare e universale, essere e significato, possibile e reale), su quello ectipo le cose finite sono bensì ma, siccome il fondamento del loro essere va visto in una “caduta” dall’infinito, più propriamente non-sono se paragonate al vero essere dell’idea: un po’ come le macchie solari – l’esempio è di Schelling –, che sono il nonvisto, un non-reale (un po’ come i fatti negativi dell’odierna ontologia) percettivamente positivizzato solo in rapporto alla visione della luce solare. Se questa è un’ontologia, è 4 Cfr. H. Zeltner, Schelling, Stuttgart 1954, p. 284. allora un’ontologia in cui il mondo della finitezza e la temporalità in certo qual modo svaniscono, non essendo se non l’esito della difettività dello sguardo umano. Ben diversamente significativa è l’ontologia presupposta da quell’orientamento che, a partire dallo scritto sulla libertà del 1809, desemplifica l’essere per personificarlo, ravvisandovi l’unità dell’essere come esistenza o realtà e dell’essere che, come Grund del primo, è relativamente non-esistente nel suo carattere di mera potenzialità – un non esistente o fondamento che, mentre Dio possiede perfettamente, resta in certo qual modo esterno agli esseri finiti e può pervertirsi in forza autonoma5. In questa prima articolazione della dottrina delle (tre) potenze misuriamo il transito dalla filosofia della natura, ove le potenze sono solo i diversi gradi di esplicitazione fenomenica di un’unica forza, alla cosiddetta “filosofia delle età del mondo”’, in cui si spiega come, nello svilupparsi del “passato” della personalità divina, i princìpi siano alternativamente non-essenti (in potenza) e essenti (in atto) fino a generare né «un vero sopra né un vero sotto […] bensì soltanto una ruota incessante, un moto rotatorio che non si estingue mai» (SW VIII: 264), ossia quel particolare essere che, in analogia con la (böhmiana) Rad der Geburt, per la sua perenne instabilità non è davvero mai se non quando l’intervento non necessitato della quarta potenza (dell’apotenziale sovraessente, che “decide” di automanifestarsi) sostituisce al vuoto moto rotatorio un accadere dotato di un vero principio e di una vera fine veri. Pur senza indulgere nel birignao tipico dei commenti che intendono emulare l’“abissalità” del filosofo di Leonberg, è indiscutibile che già questa sommaria incursione nei temi della cosiddetta “filosofia della libertà” suscita un problema ineludibile. Quale spazio ontologico resta a una filosofia che strappa al reale ogni sostanzialità e permanenza, che, quasi fosse la “biografia” a posteriori della causa suprema, riduce ogni cosa a un divenire teogonico tanto libero da essere infondato? Intendiamoci: se l’ontoteologia schellinghiana è inutilizzabile, lo è a causa non dei contenuti specifici della filosofia positiva (mtologia, rivelazione), i quali non di rado appaiono anzi semplicemente due ambiti di prova, ancorché euristicamente rilevanti nella loro relativa estraneità alla filosofia razionale, del nuovo metodo scientifico, bensì del suo più complessivo impegno teologico ad assorbire l’intera realtà nella sua causa assoluta. Il che non toglie che sia pur sempre possibile valorizzare in modo relativamente autonomo da questo vincolo l’impegno antisolipsistico e antilogicistico con cui Schelling cerca, per dirla con le sue parole, una filosofia che non «sostituisce [più] alla connessione reale la mera filigrana del concetto» (SW XII: 672), che segue l’oggetto nel suo autosviluppo e muove dall’esperienza, o addirittura entra «nell’esperienza stessa e diventa, per così dire, tutt’uno con essa» (SW XIII: 128), in modo che sia l’oggetto stesso a spiegare se stesso. 4. Verso un’ontologia deflazionistica. Come si è detto e come ancor meglio si vedrà, per Schelling non c’è tutto, ovviamente solo nel senso eminente di “essere” e secondo una differenziazione assiologica tanto fondamentale quanto problematica. È dunque un’ontologia deflazionistica a guidarlo, pur se con motivazioni diverse, sia nella fase trascendental-idealistica e dell’identità sia in quella dell’empirismo filosofico. Eppure non sarebbe difficile ricavare dalla già menzionata distinzione tra una filosofia che dimentica l’esistente concreto per ciò che può essere, e una filosofia che invece si rivolge all’essere quale liberamente e fattualmente si è dato e si dà, la prova dell’esemplare conversione all’empirismo di un idealista già da molto tempo insoddisfatto dell’amputazione fichtiana della realtà, e infatti voltosi, a differenza del suo primo “maestro”, a due concreti come la natura e l’arte, intesi come 5 Cfr. M. Vetö, Le fondement selon Schelling, Paris 1977 e T. Griffero, Grund ed Existenz. Classicità e melanconia alla luce della «teoria dei princìpi» di Schelling, in C. Tatasciore (a cura di), Dalla materia alla coscienza. Studi su Schelling in ricordo di G. Semerari, Milano 2000, in particolare pp. 253-259. concretizzazione “positiva”, rispettivamente, dello spirito universale e del genio6. Non si può tuttavia passare sotto silenzio che dietro ai rimproveri mossi nel 1806 alla visione fichtiana della natura, che puntando tutto sulla sua moralizzazione sarebbe unilateralmente economico-teleologica7 e quindi incapace di vedervi quella “ragione diffusa” che, estranea alla conoscenza discorsivo-sintetica, è garante viceversa dell’identificazione del conoscere con il vivere8, vi è un realismo del tutto particolare. Infatti, se è vero che, giusta la ripresa della plotiniana prosopopea della natura, l’«ammutolire del discorso davanti alla vita è l’operazione suprema che la filosofia deve compiere», dato che «l’evidenza è riconducibile a una sorta di apparire interno della natura a se stessa, dell’essere all’essere e ogni parola aggiunta la distrugge»9, è pur vero che dietro all’esordio del duraturo ideale dell’automanifestarsi del positivo in un corrispondente «”occhio interno” che coincide con la vita e la genesi»10 e che è il sapere assoluto (filosofico), troviamo non solo la sfiducia naturalistica di Hume11 e poi anche di Jacobi verso la ragione argomentante, ma anche una sorta di empirismo dell’assoluto sfociante nella teodicea ovviamente del tutto estraneo all’empirismo. Quando leggiamo affermazioni indubbiamente realistiche come le seguenti – «la vera filosofia deve parlare di ciò che esiste, ossia della natura reale, della natura che è» (SW VII: 30); «essere è verità e verità è essere. Ciò che il filosofo pensa e di cui parla deve essere, perché dev’essere vero. Ciò che non è, non è vero» (ibid.) –, non dobbiamo mai dimenticare che l’oggetto della filosofia reale non è qui solo la realtà sensibile, ma anche e a maggior ragione Dio stesso come garante dell’esistenza del mondo e della ragione che vi è “diffusa”. Visti questi precedenti, se ne conclude che anche il tardo realismo schellinghiano trova nell’empiria il suo punto d’avvio e l’explicandum ma, diversamente dal positivismo, non certo la sua fonte; che perviene induttivamente all’essere muovendo dall’ente reale-finito, ma assumendo quest’ultimo solo come il prius logico in vista dell’acquisizione del prius reale. Ma se la svolta empiristica è quanto meno controversa, indubbia è invece quella ontologica, dato che qui è la filosofia stessa come scienza dei princìpi a essere definita la «scienza dell’ente» e a essere considerata la sola risposta possibile alla domanda antropologica sul “perché esista qualcosa anziché il nulla”. Durante tutto il quarantennio di pressoché totale silenzio editoriale Schelling nutre appunto l’ambizione di costruire una scienza i cui princìpi siano quelli non del pensiero ma dell’essere12, senza che ciò implichi una regressione alla metafisica prekantiana, ma anzi capitalizzi proprio la contraddittoria concezione che induce Kant a pensare alla cosa in sé ora come a una x indipendente dalla conoscenza, ora come a un qualcosa che non può non esistere visto che causa l’impressione sensibile. Incapace di aprirsi all’esperienza di un “che” irriducibile alla ragione e condizionata dall’errore (estremizzato dall’ex-amico Hegel) di confondere negativo e positivo, tutta la filosofia precedente sarebbe stata 6 Solo la mancata comprensione di questo costante e pressoché esclusivo interesse per la positività – che si tratti di arte, di natura o di rivelazione religiosa – spiega l’interpretazione di J. Schmidt, Die Geschichte des Genie-Gedankens in der deutschen Literatur, Philosophie und Politik, 1750-1945, I, Darmstadt 1988, p. 396, in termini di “feticizzazione” dell’interesse schellinghiano per l’opera anziché per la produttività artistica. «Il fondamento di qualsiasi mediocrità spirituale è appunto l’assenza di quell’intuizione grazie a cui la natura ci appare vivente per se stessa […] poiché ogni potere risanante risiede solo nella natura. Solo questa è il vero antidoto all’astrazione» (SW VII: 19). 7 8 Cfr. F. Moiso, Unità e identità nel tardo Fichte, in V. Melchiorre (a cura di), L’uno e i molti, Milano 1990, pp. 371404. 9 Ibid., pp. 378-379. 10 Ibid., p. 382. 11 Cfr. F. Moiso, Vita natura libertà. Schelling (1795-1809), Milano 1990, p. 16: «è all’ineludibilità dell’alternativa humiana [tra scetticismo e realismo; NdA] in un discorso filosofico identificante verità e connessione vivente che probabilmente occorre far risalire tratti cospicui dell’ “empirismo” e della “positività” presenti in tutta la filosofia di Schelling». 12 Così A. Franz, Philosophische Religion. Eine Auseinandersetzung mit den Grundlegungsproblemen der Spätphilosophie F. W. J. Schellings, Amsterdam-Atlanta 1992, p. 87. solo “negativa”, mentre la sfida sarebbe quella di conquistare «non […] il mero essere [ma] l’essere che è o esiste» (SW X: 215), di aggirare trascendentalismo e naturalizzazione empirica13 individuando proprio in Dio il ricercato principio dell’essere, in assenza del quale nulla sarebbe quel che è (né il pensiero né l’essere) e nella coscienza del quale, che lo voglia o no, l’uomo è sempre immerso, essendo per natura l’essere-che-pone-Dio, colui che non tanto ha quanto è coscienza del divino. La “nuova religione” auspicata da Schelling e dalla sua cerchia fin dall’epoca del Systemprogramm si declina ora nella forma di una “religione filosofica” che – detto in estrema sintesi – da un lato indaghi il modo in cui il pensiero giunge al principio (divino), dall’altro muovendo proprio da questo principio mostri in che senso la religione mitologica e quella rivelata non siano se non una progressiva manifestazione del divino. 5. Il fallimento (annunciato) della filosofia “negativa”. «Il migliore svolgimento di una vita consacrata alla filosofia potrebbe consistere nel partire con Platone e finire con Aristotele» (SW XI: 380). Così, citando nell’incompiuta Darlegung der reinrationalen Philosophie le proprie «stelle polari» (SW XI: 391), Schelling universalizza il proprio percorso dalla poesia filosofica alla scienza, reinterpretata extrafilologicamente in una prospettiva platonizzante (perché «non si comprende Aristotele se ci si ferma a lui»; SW XI: 382) e comunque ontologicamente valorizzata in antitesi al soggettivismo raziocinante post-cartesiano e alla kantiana “regolatività” anti-metafisica. Sintetizzando in certo qual modo il metodo dialettico di ascesa all’assoluto (Platone) e la portata ontologica del principio assoluto (Aristotele), egli vede legittimato il metodo induttivo con cui la filosofia puramente razionale – tra l’altro paradossalmente costretta, a differenza di ogni altra scienza (dotata di un proprio oggetto specifico), a indagare un oggetto impossibile, vale a dire quell’ente in generale che (nominalisticamente) non esiste né è esprimibile, presentandosi piuttosto sempre solo come l’attributo di qualcosa d’altro –, escludendo sperimentalmente varie ipotesi, giunge a mettere in luce il processo che pone capo all’ente, e cioè i princìpi o potenze che costituiscono l’entità dell’ente e che non a torto sono stati paragonati per struttura e funzione alle espressioni sortali14. La filosofia negativa è quindi certamente un’ontologia, ma un’ontologia ancora totalmente condizionata dal pensiero. Seppur fondamentale, l’esperienza testimonia qui infatti non che cosa sia reale e che cosa non lo sia, ma soltanto che cosa sia possibile o meno nel pensiero, non tanto quindi l’essere reale quanto «le possibilità che bisogna necessariamente pensare» (SW XI: 304) rispetto all’ente, compresa quella «sensazione (Gefühl) che non ci permette di attribuire a queste possibilità una collocazione diversa da quella dichiarata» (SW XI: 304) e che, come principio di non-contraddizione, costituisce la «legge di tutto l’ente» (SW XI: 305), intelligibile non meno che sensibile. Non diversamente, l’ente universale nella cui acquisizione si concludono le trecento pagine schellinghiane di questo “torso” non è che «il tutto, che si produce con necessità nel pensiero» e perciò «solo nell’idea, non realmente» (SW XI: 313), qualcosa di ben diverso dall’assoluto come puro atto impensabile spettante alla filosofia positiva. L’esito della filosofia puramente razionale non sarebbe dunque altro che l’idea della realtà, la possibilità di Dio e del mondo quale la si deve pensare quando si astrae dal “che” e ci si rivolge unicamente al “che cosa”. Pur non limitata all’ente quanto la matematica e libera di indagare «la sostanza nel senso più alto della parola» (SW XI: 377), proprio come la matematica la filosofia negativa non andrebbe oltre il possibile essere-così di una cosa, che è del tutto indipendente dall’esistenza della cosa, e si dimostrerebbe altresì estranea, in quanto scienza (aristotelicamente) solo 13 Cfr. H. J. Sandkühler in F. W. J. Schelling, Das Tagebuch 1848, hg. von H. J. Sandkühler, Hamburg 1990, pp. LV sg. 14 Cfr. T. Buchheim, Eins von Allem. Die Selbstbescheidung des Idealismus in Schellings Spätphilosophie, Hamburg 1992, p. 36, n. 24. dell’universale, all’individualità e quindi anche al principio assoluto, più disponibile al sentimento, infatti, che al concetto. Nonostante questo fallimento programmatico rispetto alla realtà della scienza puramente razionale, varrà la pena cercare di capire che cosa non possiamo non pensare quando pensiamo l’esistente. Quali siano cioè – in estrema sintesi ed evitando tutte le prevedibili complicazioni enfatizzate dalla ricerca – le potenze, ossia i principi costitutivi (scoperti dal pensiero) dell’ente in generale e quindi anche di Dio, nella misura in cui anch’egli «compie in sé il movimento del venire alla presenza che è proprio di ogni ente intramondano»15. Posto che l’esistente sia A, la prima potenza 1) non sarà che puro poter-essere (-A), il primum cogitabile16 e il puro soggetto dell’essere (ma nel senso di mera sup-positio, di Grund o base di una potenza superiore), che Schelling interpreta come un volere originario ancora inattivo, come un sostrato infondato-indeterminato quanto lo era l’apeiron pitagorico-platonico e quindi come causa solo quantitativo-materiale che di per sé è come nulla17. Ma perché l’ente si delinei occorre che si aggiungano 2) una seconda potenza [+A nel senso di -(-A) ovviamente], che agisca come causa qualitativo-formale su quel sostrato delimitandone l’informità e quindi oltrepassandolo (e per Schelling l’essenza stessa dell’ente è di oltrepassarsi), nonché la terza 3), ossia il soggetto-oggetto (±A), che non è affatto la loro somma, ma ciò che, essendo uno e medesimo in entrambe e portando così alla costituzione dell’«inesauribile molteplicità di forme del puro ente» (SW XI: 391), vale come causa finale, come quell’ente in virtù di se stesso («il poter-essere essente come tale»; SW XIII: 235) che “deve” essere. Rappresentando la «materia dell’ente, cioè dell’universale» (SW XI: 291), queste tre potenze (-A, +A, ±A, ma anche poter-essere, necessità-di-essere, dover-essere) – in cui Hartmann vedrà riassunte le articolazioni rispettivamente platonica (indeterminato, determinato, autodeterminantesi), aristotelica (causa materiale, formale, finale)18 e hegeliana (esser-in-sé, esser-fuori-disé, esser-presso-di-sé) – cooperano come quegli dèi etruschi che nascono e decadono solo insieme, sono ciò attraverso cui il pensiero fa sorgere processualmente l’ente (ma, ricordiamolo ancora, non nella realtà), però solo se postula anche una quarta causa (efficiente), che nel garantire la cooperazione delle precedenti non va intesa come un quarto elemento, bensì come qualcosa (A°) che eccede tale processo e rientra in un ordine totalmente diverso, non afferendo semplicemente all’ente, né identificandosi con Dio (pena la sua retrocessione a causa immanente tra le altre). Schelling vi vedrà piuttosto l’anima, ossia quell’elemento divino-immateriale che, come anima prima del mondo e poi dei singoli enti, conferisce l’essere a tutti i concreta, cioè alle idee quali produzioni del «pensiero necessario» (SW XI: 411). 6. Scienza dell’esperienza: dal quid al quod. Schelling è senz’altro convinto di poter rivoluzionare col proprio appello all’esperienza la storia della filosofia, superando anche l’idealismo, il cui indubbio merito sarebbe stato quello di indagare il fondamento dell’esistenza degli oggetti e non solo di cercarne i predicati appropriati alla maniera della metafisica prekantiana, ma il cui limite fu quello di non poter andare oltre la conoscenza razionale a priori di che cosa è o può essere, ossia di quell’essenza delle 15 J.-F. Courtine, Estasi della ragione, cit., p. 191. «La prima cosa che devo pensare è senza alcun dubbio il soggetto dell’esistenza, il quale non è ancora l’ente, bensì solo il principio dell’essere, il suo primo punto d’attrazione» (SW X: 303). Questo primum cogitabile non è tanto il primo oggetto del pensiero quanto il suo primo ingrediente, un indeterminato a cui il pensiero si rifiuta però di anteporre qualcosa (SW XI: 302), perché se il pensiero non cominciasse appunto con una sottrazione (steresis), con un’assenza di determinazioni (che non equivale a un nulla bensì a un puro poter-essere), ma con una determinazione, non sarebbe neppure pensiero. Cfr. T. Buchheim, Eins von Allem, cit., pp. 118 sgg. 17 Cfr. J.-F. Courtine, Estasi della ragione, cit., p. 184. 18 Cfr. N. Hartmann, La filosofia dell’idealismo tedesco, trad. it. di B. Bianco, a cura di V. Verra, Milano 1972, p. 160, che però identifica erroneamente +A con la causa efficiente. 16 cose (quid) che rimarrebbe immutata anche se quella cosa non esistesse affatto nel mondo. Sottolineando con forza da un lato il fatto che si ottengono così solo enti apparenti, la cui esistenza si esaurisce nell’essenza (nel concetto), si perviene cioè a una scienza della ragione che equivale a un «completo deserto di ogni essere» (SW XIII: 76) e che appare pertanto legittima, rivelandosi un’indispensabile via d’accesso alla filosofia positiva19, solo quando non finge (come in Hegel) di essere altro da ciò che è, spacciando un movimento solo logico per un movimento oggettivo, e dall’altro che è solo l’esperienza a insegnarci che qualcosa esiste davvero (il quod), che un’ontologia positiva concerne unicamente fatti che nella loro accidentalità spaziotemporale sono concettualmente inanticipabili, egli vuole in conclusione dimostrare proprio su di sé la tesi secondo cui la filosofia tedesca avrebbe introiettato l’istanza empiristica, senza mai diventare però empirismo. Paradossalmente, la filosofia negativa è allora una scienza riuscita solo quando fallisce, quando, sfociando nel «costante rovesciamento della ragione» (SW XIII: 152), si dichiara incapace di qualsiasi conoscenza reale e si esaurisce nel rinviare alla filosofia positiva, un po’ come accadeva nel culti eleusini ai “piccoli Misteri”, il cui senso ultimo era di rinviare ai “grandi Misteri” successivi. Giunta a un uno che, pur essente, non cessa di essere fonte dell’essere, che è insieme semplice e molteplice nella sua qualità di perfetta spiritualità, la filosofia razionale può ben arrestarsi, perché ora si rovescia e perde l’ipoteticità che necessariamente le veniva dal supporre che si dia (sorga) un essere o un ente. In altri termini: quanto fin qui era il prius, e cioè la dialettica delle potenze che ci ha condotti allo spirito, appare ora come il posterius, da cui si può prescindere avendo avuto un valore solo strumentale, laddove lo spirito è ora il prius rispetto alle potenze. Ma è il momento di vagliare con maggiore attenzione l’impegno ontologico della “filosofia positiva”, intesa come quella Denkform che, parzialmente anticipata nella speculazione giovanile dalla tesi dell’irriducibilità dell’organismo alle categorie meccanicistiche e più generalmente dal primato assegnato all’intuizione (intellettuale o della ragione), antepone il reale esperito alla mera ipoteticità del pensiero, il positivo al negativo, pur ammettendo di dovervi passare, così come Dante sale al cielo solo attraverso l’inferno. Siccome il fatto reale che esperiamo prima di poterci chiederci che cosa essa sia, la cui esistenza ci precede per quanto presto vi arriviamo (si pensi a quando sentiamo chiaramente che qualcosa in noi non va, pur senza minimamente conoscere la patologia responsabile e addirittura se si tratti di una patologia)20, non potrà essere, in quanto azione, che un rivelarsi, dato che «rivelarsi è agire, così come ogni agire è un rivelarsi» (SW VIII: 306), allora la positività della filosofia consisterà proprio nella capacità di vedere nella realtà il frutto di una libera azione irriducibile alla ragione e alla necessità. A Schelling interessa sapere – e non solo pensare – niente di meno che l’origine di tutte le cose. Solo un sapere più che pensante, sintetico e non tautologico (com’è invece nella filosofia negativa, condannata in certo qual senso a trattare oggetti virtuali)21, può dunque placare la domanda ontologica, riconducendo l’ente non tanto a un’ubiqua razionalità conoscibile a priori, quanto a una decisione libera dell’assoluto, il cui opposto è quindi sempre possibile, un po’ come apprendiamo la volontà di un uomo esclusivamente da ciò che effettivamente fa. Volta alla dimostrazione a posteriori del fondamento volontaristico dell’essere attuale, dell’«assoluta, trascendente ed esuberante libertà» (SW XIII: 256) con cui lo spirito si manifesta integralmente (secondo l’organicistica identità di parte e tutto) in ciascuna forma ontologica, senza peraltro mai arrestarvisi, la filosofia positiva deve tutto al fallimento di quella solo razionale e alla silenziosa ignoranza, alla quasi braminica «assoluta inspirazione del 19 «Quanto più il negativo veniva formulato in maniera pura, tanto più fortemente doveva elevarsi dinanzi a esso il positivo» (SW XIII: 86). 20 Cfr. T. Buchheim, Eins von Allem, cit., pp. 17-18. 21 Ibid., p. 68. pensiero» (SW XIII: 252) che secondo Schelling ne sarebbe la logica conclusione. Ma l’afasia estatica non è qui l’unico rischio, giacché questa ontoteologia, radicata nella libertà sovraempirica e nella volontà automotivante secondo la tesi che «l’essere originario è il volere e non c’è altro essere che il volere» (SdW: 169, ma cfr. anche SW VII: 350), finisce per legittimare anche delle quanto meno discutibili (volontaristiche) scorciatoie metodiche, su tutte l’illusione che sia possibile aggirare i limiti del cosiddetto “empirismo regressivo” assegnando a una non meglio precisata “volontà filosofica”22, affine per extraconcettualità all’altrettanto necessario “sentimento artistico” e “scientifico” per la totalità, la capacità di risalire dalla realtà esperibile non solo al Dio che si relaziona creazionisticamente-logicamente al mondo ma al Dio assolutamente libero. Un punto di partenza volontaristico che, tra l’altro, non è che un’ipotesi euristica in attesa di una dimostrazione progressiva, e quindi a rigore infinita, da parte della filosofia positiva non tanto di un principio ontologico astratto – l’astrazione nel vivo dell’esperienza equivalendo per Schelling a una svalutazione23 ––, bensì di una “persona” (divina) di cui esperiamo l’estrinsecazione solo a cose fatte. Le difficoltà non riguardano allora solo la filosofia negativa, al cui approccio a priori della realtà sensibile sfugge necessariamente una realtà pura irriducibilmente anteriore, ma anche quella positiva, che, se deduce a priori il mondo dal principio, è però condannata nella sua non dogmaticità a rincorrere asintoticamente la dimostrazione a posteriori di tale principio, visto che «il regno della realtà non è compiuto, ma è qualcosa che va continuamente incontro al proprio compimento» (SW XIII: 131). 7. Quale esperienza? A prescindere ora dalla controversa questione circa l’eventuale autonomo movimento della filosofia positiva (scienza suprema, descendens), che se per un verso sembra infatti necessariamente introdotta dalla (dallo scacco della) negativa (scienza prima, ascendens), per l’altro, muovendo dal volere, pare poter «incominciare puramente di per sé, anche solo con la semplice affermazione: io voglio ciò che è sopra l’essere, che non è il semplice ente, ma qualcosa di più che questo, è il signore dell’essere», in altri termini avere «un inizio assoluto e certo di se stesso» (SW XIII: 93) dal momento che «non esige alcuna fondazione, la cui natura esclude anzi ogni fondazione» (SW XIII: 161) –, una cosa è certa, ed è che questa “positività” necessita di un’indagine ulteriore. Schelling parla talvolta anche di “filosofia storica”, intendendo con ciò di certo non a) una filosofia che tragga il proprio sapere dalla materia storica nel senso generico della parola, ma neppure b) una filosofia della storia nel senso tradizionale o, peggio ancora, c) una filosofia che si risolva in storia della filosofia. Pensa piuttosto a una filosofia tanto concreta quanto la storia, non per caso reputata superiore alla politica, perché «mentre in questa si tratta in gran parte dell’impotente “che cosa”, la storia si occupa del reale compimento, dell’onnidisponente “che”» (Plitt III: 223), a una filosofia, nella fattispecie, che valorizzi il cristianesimo anzitutto come religione orientata a ciò che Cristo ha “fatto” più che detto, per poi tematizzare quella storia superiore-divina (ierostoria) che ha ben poco a che vedere con la storiografia e in cui a contare è l’evento tanto inanticipabile da suscitare meraviglia (e proprio nell’inanticipabilità teorica fin da giovane Schelling aveva individuato la specificità della storia) e incomprensione razionale24. Una precisazione s’impone: “filosofia cristiana” non equivale qui, come molti critici credono, a “filosofia religiosa” o, peggio ancora, a 22 24 «Il primo concetto in filosofia può essere solo oggetto di un volere. Solo in questo modo essa può essere “una scienza che inizia assolutamente dal principio”» (GpP: 396). 23 «Persino il termine “uomo”, se lo adoperiamo per ciò che per noi è la cosa suprema e più cara, può risultare offensivo. Nessuno di noi vuole essere definito mediante una categoria puramente generale, e ha ben diritto che ciò non accada» (GpP:465). Cfr. F. Moiso, Temporalità e filosofia positiva in Schelling, «Annuario filosofico», 6 (1990), p. 323: «Il Cristianesimo appare infatti oggetto e autorità perché esso è per la filosofia anzitutto storia, tempo, successione, che la ragione non può darsi da sé». “filosofia rivelata”, giacché essa, quanto meno nelle intenzioni, non fa della rivelazione, che pure molto avrebbe insegnato alla filosofia, un presupposto storico esterno e tanto meno una verità inconcussa – pena la fine della filosofia come «scienza prodotta in modo totalmente libero» (SW XIII: 139), la cui stessa esistenza, d’altronde, dimostra con chiarezza l’insufficienza della fede –––, ma un oggetto da comprendere in maniera autonoma e indipendente, anche se, non diversamente dalla natura e dalla storia, al di fuori della logica. Per lo più Schelling parla però di “scienza dell’esperienza”, solo che con esperienza non intende affatto a) la certezza del mondo sensibile, ossia né l’esperimento, che da sempre ritiene governato e reso possibile solo dalla teoria (cfr. ad es. SW V: 341), né quella «autorità dell’esperienza comune, che ci assicura dell’esistenza e della natura delle cose sensibili, così come della nostra propria esistenza esteriore e interiore, e delle sue determinazioni sia costanti sia mutevoli» (SW XI: 261) – autorità, quest’ultima, che insieme a quella dei princìpi universali e della ragione costituisce la fonte della metafisica scolastica, e ciò perché l’esperienza del reale attuale, ad esempio del corporeo, va preliminarmente distinta, per quanto apparentemente ognuno vi si sottometta ciecamente, da ciò che, per sua natura e in modo eminente, è esperienza reale solo nella misura in cui implica anche il sovrasensibile. Né intende b) il grado immediatamente superiore al sensismo rappresentato dall’empirismo mistico (teosofismo), il quale, enfatizzando il bisogno di un’esperienza diretta del sovrasensibile, porrebbe in effetti la medesima esigenza sentita dalla filosofia positiva (e si sa quanto Schelling abbia mutuato da Böhme e da Oetinger), ma in un modo immediato-intuitivo che non ha nulla di metodico e quindi di scientifico, che, pretendendo di saltare il “negativo”, «muore infine di una inevitabile consunzione spirituale» (SW X: 176). E ovviamente non ha in mente neppure c) l’esperienza che si consuma nel pensiero, e che tutt’al più impronta l’ambito logico-negativo della scienza, ancorché talvolta sia costretto a riconoscere che, citando l’esempio del principio di non contraddizione, «occorre pensare realmente per fare esperienza del fatto che non si può pensare il contraddittorio» (SW XI: 326). Talvolta con “empirismo” Schelling sembra pensare perfino a una scienza del significato interiore delle cose. Se “fatti” possono dirsi in senso generale anche gli oggetti specifici delle varie scienze, il fatto “vero” sarà però «sempre qualcosa di interiore» (SW X: 227), ad esempio in una battaglia lo «spirito del generale» e in un libro ciò che il lettore vi comprende; qualcosa che si acquista grazie all’esperienza, non esclusa quella che si ottiene ripercorrendo “sperimentalmente” la successione tutt’altro che casuale dei sistemi filosofici. Ma non è proprio tale successione, paradossalmente, a sancire la vittoria del soggettivo sull’oggettivo, e quindi dell’epistemologia sull’ontologia, dato che il viceversa renderebbe impossibile la scienza stessa? Non del tutto, perché anche la graduale soggettivazione dell’oggettivo, il “fatto” cioè che B diventi A, senza cessare del tutto di essere B, in virtù dell’azione limitante di un principio superiore (ideale, maschile) su un altro principio illimitato (reale, femminile), presuppone a giudizio di Schelling pur sempre l’oggetto e quindi non invalida i diritti dell’ontologia. Non li invalida il trascendentalismo, giacché «il soggetto conoscente ha necessariamente come suo presupposto l’oggetto conoscibile» (SW X: 229), e in fondo il conoscente non è meno un “ente” di quanto lo sia il conosciuto, e neppure il dualismo cartesiano, che infatti, mentre infrange con la de-ontologizzazione della corporeità il tacito accordo di senso comune che secondo Schelling lega il filosofo al suo pubblico e gli prescrive di spiegare il mondo senza amputazioni idealisticamente condizionate, non fa altro che trasferire l’intero peso ontologico sul soggetto, dovendo in ultima analisi confessare di non poter «sfuggire all’essere, che intendev[a] evitare e per così dire aggirare (come un nemico)» (SW X: 233). Ma l’ammissione di un mondo ontologicamente autonomo non va oltre. Benché il soggetto e l’oggetto “siano”, ossia vedano limitata la loro originaria illimitatezza da «un principio opposto all’essere e che, proprio per questo, lo limita» (SW X: 236), benché proprio per questo l’intelligenza del soggetto abbia una corrispondenza nell’intelletto oggettivo deposto nelle cose, il conoscibile non può certo per Schelling dirsi esistente nel senso alto ed eminente con cui lo si dice del conoscente, al quale infatti si rapporta anzi come un relativo nonessere. Significativo è comunque che l’idealismo appaia qui redento dal suo tradizionale nichilismo ontologico, il condizionamento soggettivo dell’oggetto non inficiando affatto la realtà ontologica dell’oggetto, perché anzi «la cosa con queste determinazioni soggettive è appunto la vera cosa, giacché se le sottraggono tali determinazioni, essa non è più in generale una cosa» (SW X: 240). Facendo dell’esperienza della realtà in senso proprio qualcosa che è altro sia dalla banale empiria sia dal pensiero – ma come convive quest’esigenza con ricorrente ammissione che «ogni essere presente nell’esperienza ha in sé delle determinazioni logiche dell’intelletto, senza le quali esso non sarebbe rappresentabile» (SW XIII: 127)? –, Schelling pensa a un prius assoluto e non solo relativo (quale sarebbe la potenza, destinata a trapassare nell’essere), oltre che assolutamente trascendente in quanto da nulla costretto a produrre l’essere reale; un prius che non nel suo cominciamento assoluto (assolutamente al di là dell’esperienza), ma certamente nella successione condizionata unicamente dal suo volere potrebbe essere dimostrato empiricamente (a posteriori), dal momento che, a differenza della verità logica, a comprovare questa volontà sarebbero unicamente le sue conseguenze “fattuali”. Pensa cioè a un’esperienza che provi la «divinità di quel prius – che esso è Dio e, dunque, che Dio esiste» (SW XIII: 129), e che, dimostrando che «anche il prius stesso esiste proprio nel modo in cui l’abbiamo compreso, cioè che Dio esiste» (ibid.), lasci essere il prius come prius, conoscendolo «a partire da ciò che a esso segue, ma non in modo tale che questo seguente preceda» (ibid.), dove evidentemente “a posteriori” significa soltanto per posterius. Non possiamo però nasconderci la problematicità dell’inferenza schellinghiana, secondo cui «se il necessariamente esistente è Dio, allora abbiamo questa e quest’altra conseguenza – quel che vogliamo dire è che a, b, c, ecc. diventano allora possibili; ora, secondo la nostra esperienza a, b, c, ecc. esistono però realmente e quindi – conclusione necessaria – il necessariamente esistente è realmente Dio» (SW XIII: 169; corsivo nostro). È sempre antipatico infierire sulle sviste logiche del passato, ma sia chiaro, per limitare i danni di questa evidente fallacia25 dell’affermazione della conseguente (se p allora q, ma q quindi p), non basta certo enfatizzare il fatto che Schelling parli solo di “possibilità” delle conseguenze o pensi a dei fatti biblici che dimostrerebbero l’agire divino perché, come la divinità presupposta, eccedenti la sfera concettuale26. Comunque sia, solo a questo punto è chiara l’intenzione teoretica schellinghiana. In sintesi: se la filosofia negativa è empirismo a priori e quindi non vero empirismo, quella positiva è, in quanto apriorismo empirico, il vero e proprio empirismo, vale a dire a) scienza a priori rispetto al mondo e b) scienza a posteriori rispetto a Dio, perché, attraverso un argomento ontologico invertito, essa procede non dall’essenza all’esistenza ma dall’esistenza (infondata e infondabile) di Dio alla sua essenza o idea, trasformando così l’assolutamente trascendente, paradossalmente scoperto nell’estasi della ragione, nell’assolutamente «immanente (ossia, fatto contenuto della ragione)» (SW XIII: 170), portandolo al pensiero e, solo così, rendendolo veramente Dio. 8. L’essere prima del poter-essere. Così suonano le formule messe in circolazione da Schelling. Sarà meglio lasciarle perdere, per precisare piuttosto come la filosofia non sia solo, genericamente, ontologia, come il suo oggetto, che è l’unica tra le scienze a non trarre dall’esperienza, da altre scienze superiori o magari dal caso, non sia tanto 25 P. C. Hayner, Reason and existence. Schelling’s philosophy of history, Leiden 1967, pp. 105, 171. Cfr. T. Buchheim, Eins von Allem, cit., pp. 22-23; A. White, Schelling. An introduction to the system of freedom, New Haven/London 1983, p. 166. 26 l’ente stesso, quanto «l’ente in modo totale […], non potenza, bensì tutto atto, pura realtà effettiva» (SW XIII: 149); in altri termini ciò che, diversamente da quanto a causa della composizione di potenza e atto è solo parzialmente conoscibile, è totalmente conoscibile, oltre che totalmente degno di conoscibilità, in quanto totalmente ente, ossia atto puro, privo di non-essere. Il supremo, a cui anche se solo nel concetto perviene la filosofia negativa, è dunque l’atto puro o «potenza-di-essere rovesciata» (SW XIII: 156), in cui, lungi dall’esserci un passaggio dalla potenza all’atto, la potenza è il posterius e l’atto il prius. Per dirla con Schelling: «se dunque egli esiste, può essere l’esistente solo in, e per così dire, prima di se stesso, cioè prima della sua divinità» (SW XIII: 158), prima del suo e a maggior ragione di ogni altro concetto. Di questo actus purissimus o realtà tanto originaria da essere priva di potenzialità precedenti, di questo essere incondizionatamente necessario, tanto anteriore a ogni essere e pensiero da echeggiare il kantiano «abisso della ragione umana» (KrV, B 641) – ma non identificabile con l’oggetto specifico del mistico, che non s’accontenta affatto del “che”, ma «vuole conoscere estaticamente anche il che-cosa» (SW XIII: 163; nota) –, non è possibile predicare l’essere in senso attributivo, perché «l’esistenza, che in ogni altra cosa appare come l’accidentale, è qui l’essenza. Il quod si trova qui al posto del quid» (SW XIII: 162). E neppure è possibile averne un’“idea”, ovviamente se pensiamo all’idea nel senso della potenzialità (filosofia negativa) e non all’«idea rovesciata, l’idea in cui la ragione è posta fuori di sé» (SW XIII: 162-3) che caratterizza la filosofia positiva. Si tratta di partire non dal concetto, ma «dal meramente esistente in cui null’altro sia pensato che appunto il meramente esistente […] per vedere se da esso si può giungere alla divinità» (SW XIII: 158), provare cioè la divinità di ciò che, essendo il puramente e necessariamente esistente, è anche l’indubitabile, dal momento che dubbio è solo ciò che è potenza o è scaturito dalla potenza d’essere e quindi costantemente in pericolo di non essere, in breve risalire dall’atto (essere) a priori alla sua potenza (essenza) come divinità. Non stupisce allora che il pensiero e la ragione, per natura circoscritti al possibile, ammutoliscano al cospetto del puramente esistente e si scoprano del tutto secondari rispetto all’essere: perché nel suo sviluppo privo di libertà, il pensiero «non sa nulla di una decisione, di un’azione o perfino di un atto» (SW XIII: 173), perché «non per il fatto che si dà un pensare, infatti, si dà un essere, ma perché c’è un essere, si dà un pensare» (SW XIII: 162), il quale altrimenti rischierebbe la stasi, dato che «ciò che una volta ha avuto inizio nel semplice pensiero può anche solo procedere nel semplice pensiero e non arrivare mai più in là dell’idea» (SW XIII: 162). Si arriverebbe dunque alla realtà effettiva solo muovendo dalla realtà effettiva anteriore a ogni possibilità. Ma una realtà anteriore a ogni possibilità non è qualcosa di incomprensibile? Certamente è incomprensibile se la si vuole afferrare col concetto (pena il ridurlo da necessario a possibile) e domandandosi se possa esistere e quale sia la sua essenza (visto che qui il “che-cosa” segue il “che”), ossia con un pensiero che si pretende anteriore all’essere – ma per Schelling l’inizio del pensiero non è mai a sua volta un pensiero bensì una realtà in atto –, mentre è perfettamente immaginabile (e d’altronde attestata nella tradizione aristotelico-tomista) se se ne vede l’analogia con quegli atti quotidiani che, secondo Schelling, diciamo originali in quanto non derivano da un concetto precedente e ne inferiamo la possibilità solo a partire dalla loro realtà attuale. Suggestivo, ma assai discutibile sia per la sua verosimile dipendenza dalla logomachia estetica della genialità, sia perché l’individuazione del potenziale pare qui successiva solo per difetto epistemico e non per una sua qualche intrinseca posteriorità, l’esempio non doveva bastare nemmeno a Schelling se, per ovviare al legittimo sospetto che il principio come puro atto, non scaturendo dal superamento della potenza, ne conservi tutta l’accidentalità, sente il bisogno di reintrodurre nell’immemoriale (e immobile) atto puro un contrasto capace di sottrarlo «alla sua cieca eternità, all’eternità del semplice esistere, per giungere all’eternità dell’essere essenziale (Wesen), all’eternità dell’idea» (SW XIV: 342). Provocandolo e offrendogli qualcosa da volere, questo contrasto lo avvia alla condizione di “Signore” tanto di ciò che ancora non esiste, quanto dell’essere originario che evidentemente non padroneggiava, lo trasforma da essere necessario solo in atto – e pertanto sempre passibile di tornare a essere mera possibilità sotto l’azione del sopravveniente – in «essere necessariamente necessario, […] natura necessaria» (SW XIV: 348). Che vi si veda il condizionamento razionalistico a ricondurre l’assolutamente accidentale al necessario o una necessità non rafforzata «ma indebolita, cioè […] una necessità doppiamente accidentale»27, questo cavilloso raddoppiamento della necessità non esprime se non il fatto che Dio è la libertà di oltrepassare il proprio essere cieco e immemoriale, rendendolo liberamente voluto. Peccato che alla legittima domanda circa il motivo per cui egli vorrebbe superare e poi ricostituire il proprio essere necessario attraverso il mondo (già, perché «tra quel superamento e questa ricostituzione sta il mondo nella sua interezza») (SW XIV: 352-3), non si trova di meglio che rispondere chiamando in causa la felicità con cui egli crea, e non per se stesso, con cui non ha propriamente niente a che fare essendo a priori certo di sé, ma per qualcosa d’altro: un’idea che, se segnala vistosamente come l’attivismo moderno viva della stigmatizzazione dell’improduttivo motore immobile aristotelico («di certo non può esserci nulla di più penoso che pensare incessantemente solo se stesso e quindi a se stesso») (SW XIV: 352), nondimeno suona evasiva se non fideisticamente condizionata. 9. L’esistenza ineludibile. È ovvio che si tratta di una condanna senz’appello della tradizionale prova ontologica. In verità, oscillando nella sua analisi tra il rifiuto di ciò che in essa degrada Dio a oggetto, unificando semplicemente l’ideale e il reale precedentemente disgiunti dalla riflessione, e il desiderio di darne una reinterpretazione nel senso dell’identità intuita di essenza ed esistenza, Schelling giunge revocare la necessità del passaggio dal pensiero all’esistenza, fondandovi la distinzione stessa tra negativo e positivo28, solo nel momento in cui si vede spinto al “positivo” dalla crescente insoddisfazione per un Dio concepito come aseitas razionalmente risolvibile e accoglie senza riserve l’avvertenza kantiana a non vedere necessariamente implicata l’esistenza nell’ideale trascendentale (cui non può non giungere la ragione spinta dal contingente al necessario), a considerare l’esistenza non come mero predicato (logico) bensì come posizione, acquisizione sintetica (KrV: B 620 sgg., ma anche KdU §76, nota). Solo a questo punto gli appare chiaro che la prova cartesiana dimostra non che Dio esiste, ma solo che, se esiste, allora esiste necessariamente. Ciò che invece si tratta di dimostrare è non che Dio esiste, ma che l’esistente è Dio, il che induce Schelling in un certo senso a partire sia dai fenomeni29 sia da un quod che, per la sua esenzione dal quid, medusizza la ragione, esigendo, quale conseguenza della meraviglia che si prova «dinanzi all’essere che tutto domina» (SW XIII: 165), l’idea «fuori della ragione» o «idea rovesciata» (SW XIII: 171, 162) del puramente esistente, detto altrimenti un autentico “salto”, che, come non ha nulla di mistico implicando pur sempre un’estasi della ragione, sancisce la bancarotta non di qualsiasi ontologia, ma solo di quella formale. Al centro dell’ontologia dell’ultimo Schelling, pur tra mille sfumature e revisioni, troviamo in ultima analisi l’idea che a meravigliare, anzi a medusizzare, sia non la ragione ma il puramente esistente, aconcettuale e quindi irriconducibile al possibile e con ciò alla razionalizzazione logica, ciò che, in altri termini, «è subito reale, comincia con l’essere» (SW XIV: 338) e si impone alla ragione giunta necessariamente in ritardo. 27 C. Ciancio, La libertà di Dio nell’ultimo Schelling, in C. Tatasciore (a cura di), Dalla materia alla coscienza. Studi su Schelling in ricordo di Giuseppe Semerari, Milano 2000, p. 383. 28 Cfr. X. Tilliette, Attualità di Schelling, a cura di N. De Sanctis, Milano 1972, p. 107. 29 Ibid., p. 111. Un’idea, quella della trascendenza dell’essere sul pensiero, che può ben essere indipendente da precisi presupposti teologici, visto che ad attestarla basta in fondo l’esperienza quotidiana dell’irriducibilità della sfera reale a quella logica. Ora, se nello spiegarla un filosofo cristiano come Schelling non può ovviamente prescindere dall’ipotesi creazionista e dalla tentazione di ricondurre il regno del possibile alla ragione divina, ciò non significa affatto che un’“ontologia della libertà” debba necessariamente sfociare in quella retorica abissale e tragicista che nell’estatica “possessione” ontologica della coscienza ravvisa «un volto sfingeo e misterioso, che folgora e soggioga il pensiero con lo scorcio di segrete e insondabili profondità»30. A patto naturalmente che con la «convertibilità di essere e libertà»31 non si pensi necessariamente Dio bensì il mondo reale, e che la non-necessità di tale mondo non sia necessariamente spiegata come l’esito di un’azione personale, a patto, per dirla in breve, che la meontologia, che sempre accompagna l’ontologia, non si traduca automaticamente in un discorso fideistico ed extrascientifico. Ma, per restare a Schelling, la cosa più intrigante è forse il fatto che proprio il suo quasi ossessivo tentativo di rimuovere il possibile e lo status inevitabilmente contingente sia dell’esistente sia della razionalità (se il mondo è logico, lo è per Schelling infatti solo perché fu gettato nel logico), riveli ex contrario il ruolo assolutamente centrale svolto nella sua filosofia complessiva dalla nozione di possibilità, non da ultimo nel suo legame intrinseco con quella di materia. Si vedano le acute riflessioni – che non è qui ovviamente possibile esaminare in dettaglio – sull’ambiguità immanente al poter-essere, che esiste solo quando ignora se stessa, proprio «come certe qualità umane, che sussistono a loro volta solo nel non sapere di se stesse» (SW XIII: 225), e diventa fatalmente l’opposto in seguito all’autoconsapevolezza, sulla sua estraneità alla scienza nonché sul suo essere, rappresentando il nulla indispensabile all’attrazione dell’ente, la fonte di ogni insoddisfazione e perciò sempre qualcosa di “sinistro”. Ma si pensi, soprattutto, all’insufficiente distinzione tra le varie accezioni di possibilità (logica, materiale, reale) e tematizzazione del carattere squisitamente mentale del possibile. Nell’osservare che la realtà, essendo l’esito di una decisione, avrebbe pur sempre potuto essere altra da ciò che è, se non addirittura del tutto diversa, Schelling non sembra avvertire come problematico il fatto – peraltro correttamente segnalato laddove, escludendo che la materia sia tale originariamente, vi vede unicamente la retroproiezione della realtà effettiva – che l’individuazione di possibilità non esistenti, non attualizzate, dipende solo dal pensiero, più precisamente dalla possibilità di immaginarle e darne una descrizione linguisticamente consistente, che non è, detto altrimenti, se non una variabile dipendente e parassitaria dalla realtà, l’esito di una valutazione differenziale del reale, introdotta ex post nel reale per dotarlo di una provenienza e quindi anche di un passato. Posto, allora, che lo stato ontologico del possibile sia fondamentalmente mind-dependent32, non tanto uno stato del mondo quanto un carattere della realtà stessa (a essa successivo), non ricadrà l’intera filosofia positiva, nella sua struttura ontoteologica, nella sfera di quella negativa perché solo raziocinante? Rischia così Schelling di confermare, suo malgrado, l’ipotesi secondo cui la sola ontologia possibile è quella negativa, oppure pone le basi per una metafisica o ontologia riunificata nel segno di una riedizione della teoria delle potenze? Una domanda che intenzionalmente lasciamo aperta e la cui risposta necessita di un ulteriore, ma qui impossibile, approfondimento dell’ontologia modale dell’ultimo Schelling. 30 L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino 1995, p. 406. Ibid. p. 21. 32 Cfr. N. Rescher, The ontology of the possibile, in M. J. Loux (ed.), The possible and the actual. Readings in the metaphysics of modality, Ithaca-London 1979, pp. 166-181, e più ampiamente Id., A theory of possibility, Oxford 1975. 31 2) Il vincolo tradizionale che sembra legare il possibile al pensabile non sembra creare problemi a Schelling Ma: possibile nel senso logico a) che la sua affermazione non implica contraddizioni, che nulla esclude e quindi è uguale in linea di principio a ogni cosa, comportando però la diversità da sé e quindi rendendo obliquo il riferimento. Fin qui abbiamo la possibilità unicamente come funzione finzionale di un mondo. Ma la possibilità, non più solo logica ma materiale bA ciò s’aggiunga la possibilità c) reale, nella sua duplice caratteristica di possibilità che un certo reale sia o agisca in un certo modo e di possibilità (controfattuale) che il reale sia altro da quello che è. 3) Ma il possibile non costituisce affatto un regno ontologico accanto a quello della realtà, trovandosi a rigore solo nel pensiero. Sigle GgP = Grundlegung der positiven Philosophie. Münchner Vorlesung (1832-33), Hg. von H. Fuhrmans, Torino 1972. SdW = System der Weltalter. Münchener Vorlesung 1827/28 in einer Nachschrift von Ernst von Lasaulx, hg. und eing. Von S. Peetz, Frankfurt a. M. 1990. SW = Sämmtliche Werke, hg. von K. F. A. Schelling, Stuttgart 1856-61. La prima potenza in cui al pensiero si presenta l’essente privo di fondamento è la potentia existendi, il cui passaggio all’essere non è affatto necessario nel senso costrittivo del termine ma dipendente dalla sua naturale volontà di compierlo; la seconda potenza dell’essente è il dover-essere, che fa sì che non si tratti di un cieco essere ma di un essente nella sua compiutezza Il che però significa che l’Uno, duplice nella sua unità, padroneggia se stesso in quanto il se stesso che è potenza d’essere viene limitato dal se stesso che è il puramente esistente. SW II 44-45: un Dio in cui l’idea preceda l’atto è un Dio che non può creare; vale semmai che da Dio scaturiscono contemporaneamente gli oggetti reali e le loro idee (reale contemporaneamente alla conformità allo scopo): idee contemporanee al reale. Nel delineare come l’aspirazione a una vita saggia implichi la credenza nella presenza della saggezza anche nella vita, Schelling sottolinea esplicitamente che il soggetto conoscente deve presupporre anche nell’oggetto della sua conoscenza una certa conoscenza, che dunque il reale possiede una sua razionalità immanente, ma subito dopo declina questa corrispondenza tra conosciuto e conoscente nei termini trascendentalistici secondo cui l’oggetto porterebbe in sé «la forma e l’impronta del conoscente»il presupposto di una realtà e di un divenire dotati di saggezza è indispensabile a chi voglia ordinare la propria vita saggiamente (XIII: 203). detto altrimenti una «scienza del pensiero necessario, che inizia da se stesso e in sé progredisce, ma nel contempo si realizza immediatamente nell’esperienza» che si può considerare l’«unica vera ontologia» (SW XIII: 111). Ma una rettifica positiva della filosofia negativa non potrebbe limitarsi semplicemente ad esigere che quanto la ragione concepisce come meramente possibile, senza peraltro poterne provare da sé l’esistenza presente (l’esistenza di questa o quella cosa), venga poi legittimato nella sua realtà attuale dal mondo sensibile, dalla «fede» nella sua autorità? Vediamo. Ricevendo una impressione, noi ci rappresentiamo anzitutto l’esistenza di qualcosa in generale, il quod, e solo in un secondo tempo pensiamo il suo quid, ossia che cosa sia l’oggetto della nostra rappresentazione Del resto, a rigore l’empirismo non esclude affatto il sovrasensibile, giacché è evidente che, ad esempio, l’intelligenza agente, pur essendo conoscibile solo a posteriori e quindi empiricamente, non è come tale propriamente accessibile al senso, è cioè un sovrasensibile conoscibile sensibilmente (attraverso i suoi atti), qualcosa di propriamente inaccessibile al senso, ma non certo come ciò che lo è attualmente e che però non eccede il circolo dell’esperienza possibile. Tutto sta a capire come senso ed esperienza non coincidano e come la causa dell’esperibile non sia necessariamente l’astratto inesperibile. Se si dà esperienza solo dove vi siano deliberazione e azione (laddove ciò che pone il puro pensare è privo di vera libertà), si tratta di valutare se possa darsi un empirismo metafisico. Riflettiamo: anche se gli si può attribuire una sorta di eternità secondaria rispetto a Dio quale Herr des Seins, a cui è coeterno essendo necessario porlo insieme a Dio (appunto di per sé impensabile senza rapporto con l’essere), l’essere è però tanto assiologicamente quanto (paradossalmente) ontologicamente dotato di un essere proprio, distinto e ovviamente inferiore a quello di Dio. È vero che è solo se Dio è, e tuttavia prima di ogni determinazione, che necessariamente viene da Dio, è pur sempre qualcosa, quanto meno «un vero nulla», materia capace delle tre determinazioni suddette ma di per se stessa priva di esse e perciò «puro gioco della libertà divina» (SW X: 275). Ma questa tesi è solo un passaggio, bisognoso di rettifica in quanto ancora ammette qualcosa che (concettualmente?, tradizionalmente?) è a rigore inammissibile, e cioè che la causa suprema abbia ancora qualcosa fuori di sé (anche se non extra bensì praeter), abbia cioè un presupposto, il quale viceversa sparisce se si ammette che abbiamo Dio soltanto e che è Dio stesso, mediante il solo suo volere, a manifestarsi ora come 1) illimitato (essere cieco), ora come 2) limitato (ciò che nega quell’essere cieco), infine come 3) ciò che è posto come spirito. Dio è l’atto, l’unità che passa nell’intero processo. Ma anche quello di «causa assoluta», pur essendo per noi il solo concetto possibile di Dio (come creatore e signore delle cose), non è affatto il suo concetto supremo, implicando una relazione verso qualcosa che è almeno possibile; la sua assoluta indipendenza è meglio espressa dal concetto di «sostanza» che ha in sé, volendolo, la potenza di essere l’illimitato (B), di essere ciò che nega B, ecc. I princìpi prima «scoperti mediante un’analisi empirica» (SW X: 280) si tramutano ora in potenze immanenti a Dio, dalle quali peraltro dobbiamo a rigore prescindere se vogliamo pensare Dio non in relazione ma nella sua solo volontà, o meglio dobbiamo concepirle come potenze non sostanziali (ne verrebbe per lui una necessità di agire) bensì in tutto e per tutto dipendenti solo dalla sua volontà, come potenze che non esistono in lui già come potenze ma che vengono poste in essere, anche solo come potenze, solo dalla sua volontà («egli soltanto le rende potenze, esse non lo sono») (SW X: 286), e perciò sono sue determinazioni immanenti. Né l’essere come eterno correlato né le potenze come possibilità che si offrono a Dio resistono all’analisi schellinghiana e al suo voler restar (filosoficamente) fedele all’idea di una creazione assolutamente libera e senza presupposti, di una creazione (ex nihilo) non preceduta neppure da un non-esistente inteso come me on, da una semplice potenza (interna o esterna a Dio che sia), che a sua volta deriva dal vero nulla (ouk on). Ma qui, dovendo spiegare come Dio sia il prius delle potenze stesse e quindi il prius assoluto, l’empirismo lascia già il posto al sovraempirico. Se ne ricava che empirismo equivale a indagine regressiva sino a Dio?? “speculare” significa per Schelling cercare una possibilità grazie a cui la scienza raggiunge uno scopo mediante ipotesi in attesa di conferma, il che non rende affatto ipotetica l’intera filosofia positiva, che dimostrando la realtà di tutto ciò che consegue a quella ipotesi, toglie appunto a questa ipotesi stessa ogni ipoteticità (SW XIV: 346) Se potenza d’essere e essere attuale sono accomunate dal possibile (il secondo infatti presuppone in permanenza quella potenza d’essere che dell’essere che ora ha è la negazione), differenziandosi così decisamente dal puramente esistente,